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Tablet e infanzia: il rapporto va favorito per non creare dei disadattati digitali

Il riferimento è alla recente ricerca irlandese pubblicata su Archives of Disease in Childhood e condotta dall’Università di Cork, che ha attestato come l’87% dei genitori di bambini con età inferiore ai due anni presti il proprio apparecchio touchscreen ai figli, e che questi siano capaci di usarli tanto per cercare video, quanto per giocare.

Questo natale molti bambini, anche piccolissimi, hanno ricevuto in regalato tablet e supporti elettronici. Ormai, l’età media cui i bambini si avvicinano ai dispositivi elettronici è sempre più bassa, e spesso i genitori non sanno come comportarsi.
[blockquote style=”1″]L’approccio dei bambini al digitale è ormai precocissimo. Il dibattito che si è venuto a creare se sia o meno positivo per i più piccoli utilizzare i dispositivi elettronici è del tutto superato. I dati ci raccontano che nove bambini su dieci sono già in grado di usare i tablet e gli smartphone dei propri genitori a due anni[/blockquote] commenta il Prof. Armando Piccinni, Presidente della Fondazione BRF ONLUS – Istituto per la Ricerca Scientifica in Psichiatria e Neuroscienze.

Il riferimento è alla recente ricerca irlandese pubblicata su Archives of Disease in Childhood e condotta dall’Università di Cork, che ha attestato come l’87% dei genitori di bambini con età inferiore ai due anni presti il proprio apparecchio touchscreen ai figli, e che questi siano capaci di usarli tanto per cercare video, quanto per giocare. [blockquote style=”1″]Questa ricerca ha fatto il giro del mondo, ma non dobbiamo stupirci. L’approccio dei bambini ai tablet non solo non deve essere ostacolato, ma favorito. Bloccare questo processo di alfabetizzazione precoce non solo sarebbe inutile, ma dannoso. Rischieremmo di creare dei disadattati digitali. Naturalmente tocca al genitore delimitare il tempo di utilizzo, evitando gli eccessi[/blockquote] continua il prof. Armando Piccinni.

L’azione pedagogica dei genitori e degli educatori non deve essere semplicisticamente e sbrigativamente racchiusa in un si/no. Diventa dunque necessario operare selettivamente, valutando anche i rischi alla vista e i rischi di insonnia, non sottovalutando le moderne patologie, prime fra tutte la internet/electronic device addiction, che riguarda spesso i bambini e gli adolescenti che non hanno ricevuto un tipo di educazione digitale opportuna.

[blockquote style=”1″]Mentre fino a una o due generazioni fa era possibile pensare di limitare o almeno regolamentare l’accesso agli strumenti digitali dei bambini e dei ragazzi, oggi appare praticamente impossibile qualsiasi tipo di divieto. Attualmente viviamo immersi in un ambiente digitale e i bambini, che hanno un cervello fortemente dedicato all’apprendimento, nel momento in cui incontrano gli apparecchi digitali li approcciano con la massima naturalezza[/blockquote] – aggiunge il Prof. Armando Piccinni .

[blockquote style=”1″]Dare il tablet al proprio bimbo con delle app a lui dedicate, selezionarle e sperimentarle insieme favorirà la formazione di un linguaggio mentale abituato al digitale. Un tipo di linguaggio che é ormai divenuto indispensabile, e va incoraggiato e guidato. Usare questo mezzo per tenere i propri figli buoni per ore, esattamente come spesso accade con la televisione, sarà invece l’anticamera di un utilizzo incongruo ed eccessivo. Non vanno sottovalutati i rischi, cominciando da quelli che potrebbero alimentare un disturbo capace di allontanare il bimbo dal mondo reale a favore di un universo digitale e fantastico, ma inesistente[/blockquote] – conclude il Prof. Piccinni.

I giochi elettronici riducono la quantità e la qualità delle interazioni tra genitori e figli

I giochi elettronici con lucine, filastrocche e suoni per bambini nell’arco del primo – secondo anno di vita presentano una controindicazione, almeno secondo la rivista JAMA Pediatrics. In un recente studio è stato dimostrato un decremento della quantità e della qualità del linguaggio nelle interazioni genitore-figlio durante l’utilizzo di giocattoli elettronici rispetto ai momenti di gioco con libri, puzzle, cubi e altri giocattoli più tradizionali.

Questi dati sono stati raccolti all’interno di un esperimento controllato che ha coinvolto ventisei coppie di genitori-bambini dell’età di 10-16 mesi. Ai partecipanti sono stati forniti tre set di giochi: giocattoli elettronici (un cellulare giocattolo, un pc giocattolo e una fattoria parlante); giochi tradizionali (puzzle di legno, classificatore di forme e cubi di gomma); e infine cinque libri adatti all’età dei bambini. Inoltre è stata predisposta l’audioregistrazione delle verbalizzazioni da parte dei genitori e dei bambini nel corso della loro quotidianità.

I risultati hanno evidenziato che durante l’utilizzo dei giochi elettronici vi era una minore quantità di parole espresse dall’adulto, un minor numero di scambi conversazionali e una minore produzione linguistica da parte del bambino rispetto ai momenti di gioco con giocattoli tradizionali e con libri.

Lo studio presenta diversi limiti tra cui la limitata numerosità del campione e il fatto che non siano stati considerati gli aspetti non verbali nelle interazioni adulto-bambino. Esplicitamente nelle conclusioni dello studio, viene scoraggiato l’utilizzo di questi giochi, poichè non faciliterebbero le interazioni verbali tra genitore-bambino. Eppure, la funzionalità di questa tipologia di giocattoli è anche quella di contribuire alla direzionalità e orientamento dell’attenzione verso nuovi stimoli uditivi e visivi; e inoltre sono in grado di coinvolgere facilmente il bambino nelle attività di gioco, radice delle potenziali esperienze di apprendimento. E’ sensato dunque approcciarsi ai giochi elettronici senza demonizzarli, ma con un coinvolgimento più attivo dell’adulto e integrandoli ad altre tipologie di attività ludiche.

Malattia di Alzheimer: il ruolo del corpo calloso nell’evoluzione dei sintomi cognitivi e neuropsichiatrici

Nella malattia di Alzheimer, molte aree cerebrali vanno incontro a deterioramento. Gli studi sul corpo calloso, in particolare, risultano fondamentali. La correlazione tra il deterioramento di tale struttura cerebrale e le manifestazioni psichiatriche e cognitive potrebbe rivelarsi importante per determinare l’inizio della fase prodromica della demenza di Alzheimer.

Luz Dary Grossi

Introduzione: la malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è il tipo di demenza più diffuso. Tale disturbo neurodegenerativo è caratterizzato da progressivo deterioramento cognitivo spesso associato a severe manifestazioni psichiatriche.

Gli esami clinici giocano un ruolo fondamentale nella valutazione e nella diagnosi del paziente affetto dalla patologia in questione. Le tecniche di neuroimmagine funzionali e strutturali sono, invece, importanti per lo studio dei cambiamenti cerebrali successive all’insorgere della demenza. La combinazione delle valutazioni neuropsicologiche e neuropsichiatriche con le tecniche di neuroimmagine potrebbe portare, in futuro, a risultati interessanti nella ricerca sulla malattia di Alzheimer.

Nel suddetto disturbo, molte aree cerebrali vanno incontro a deterioramento, coinvolgendo sia la sostanza grigia sia la sostanza bianca all’interno del cervello. In quest’ultimo caso, gli studi sul corpo calloso risultano fondamentali. La correlazione tra il deterioramento di tale struttura cerebrale e le manifestazioni psichiatriche e cognitive potrebbe rivelarsi importante per determinare l’inizio della fase prodromica della malattia di Alzheimer.

Caratteristiche generali della malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è una demenza. La demenza o deterioramento cognitivo cronico-progressivo è una conseguenza comportamentale di una patologia acquisita con andamento ingravescente, in cui il declino delle funzioni cognitive interferisce con le attività della vita di tutti i giorni (Vallar e Papagno, 2011).

La demenza di tipo Alzheimer è caratterizzata da una modalità di esordio subdolo e insidioso. Il decorso della malattia di Alzheimer è graduale e progressivo con declino delle facoltà cognitive, le quali si ripercuotono pesantemente sullo stile di vita, sull’autonomia e sulla sfera sociale della persona affetta.

La diagnosi di questo tipo di demenza è effettuata per esclusione, ossia quando i deficit cognitivi non caratterizzano altre condizioni patologiche del sistema nervoso centrale o non sono attribuibili agli effetti di una o più sostanze. La diagnosi è probabilistica e la sua certezza è raggiungibile soltanto attraverso l’esame post- mortem del cervello, evidenziando la presenza di placche senili e degenerazione neurofibrillare. L’accuratezza della diagnosi, tuttavia, risulta essere piuttosto soddisfacente grazie alla combinazione degli esami clinici, di neuroimmagine e soprattutto neuropsicologici.

La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906. Lo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer descrive il caso di una sua paziente, Auguste Deter, la quale presentava segni di decadimento cognitivo, allucinazioni e perdita delle competenze sociali. L’esame autoptico post-mortem della paziente, rivelò il quadro istopatologico caratteristico di questa malattia, ossia la presenza di grovigli neurofibrillari e placche amiloidi.

Epidemiologia

La malattia di Alzheimer è il tipo di demenza più diffuso, rappresentando il 50-70% dei casi. La prevalenza interessa la popolazione al di sopra dei 65 anni di età con maggior incidenza nelle donne; l’età di esordio può raggiungere i 45 anni.

Eziopatogenesi

L’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer, ancora oggi, non è del tutto chiara e definitiva. Le diverse ipotesi formulate mettono in evidenza diversi fattori che possono interagire tra loro. Tra questi, ad esempio, i fattori genetici, l’invecchiamento, agenti tossici e fattori vascolari.

Fattori di rischio

I fattori di rischio della malattia di Alzheimer sono:

  • l’avanzamento dell’età;
  • il genotipo della Apoliproteina E (ApoE);
  • sesso femminile;
  • bassa scolarità.

I fattori di protezione malattia di Alzheimer sono:

  • alto livello d’istruzione;
  • svolgimento della regolare attività fisica;
  • limitato consumo di alcolici;
  • dieta mediterranea.

I fattori prognostici della malattia di Alzheimer sono:

  • età di esordio (un esordio precoce è correlato a un’evoluzione più rapida);
  • precoce comparsa di segni extrapiramidali;
  • manifestazioni psicotiche;
  • disturbi del linguaggio (confermato fattore predittivo dell’evoluzione).

 

Cambiamenti cerebrali nella malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è caratterizzata da alterazioni strutturali che colpiscono il cervello. Queste conseguenze cerebrali possono essere considerate microstrutturali e macrostrutturali.

Aspetti microstrutturali

L’esame istopatologico rivela la fondamentale presenza delle placche amiloidi e dei grovigli neurofibrillari (Fig. 1). Nel cervello affetto da Alzheimer queste due lesioni si presentano in misura maggiore e in aree cerebrali diverse rispetto al cervello di soggetti con invecchiamento sano.

Malattia di Alzheimer il ruolo del corpo calloso nell evoluzione dei sintomi cognitivi e neuropsichiatrici _ FIG 1

 

Le placche amiloidi sono depositi anomali di un peptide detto β-amiloide. Queste placche si sviluppano nello spazio extracellulare e i neuroni adiacenti ad essi si presentano rigonfi e sformati. La presenza delle cellule della microglia evidenza un tentativo di rimozione delle cellule danneggiate e delle placche amiloidi. Gli studi a livello genetico sono fondamentali poiché il peptide β-amiloide deriva dal taglio di una proteina precursore detta β-APP, la quale viene codificata da un gene localizzato sul cromosoma 21.

I grovigli neurofibrillari sono lesioni che si sviluppano nel citoplasma del neurone. Mutazioni nel gene tau possono modificare il modo in cui la proteina tau si lega ai microtubuli, i quali permettono ai neuroni di trasportare sostanze. Gli intrecci neurofibrilllari sono, dunque, costituiti da depositi fibrosi dovuti ad accumuli intracellulari delle proteine tau anormali.

Aspetti Macrostrutturali

Nel corso degli anni, l’intero corpo umano va incontro a progressivi cambiamenti dovuti all’invecchiamento. Queste alterazioni coinvolgono anche il cervello.

Il normale invecchiamento assume un aspetto fortemente patologico nella malattia di Alzheimer (Fig. 2). La caratteristica cerebrale più importante è l’atrofia dovuta alla perdita progressiva dei neuroni.

Malattia di Alzheimer il ruolo del corpo calloso nell evoluzione dei sintomi cognitivi e neuropsichiatrici _ FIG 2

Le tecniche di neuroimmagine funzionali e strutturali sono estremamente fondamentali per lo studio della struttura e/o funzionalità del cervello. La tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica per immagini (RMI) evidenziano una riduzione del volume e del peso della sostanza cerebrale nei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer rispetto ai soggetti sani.

L’atrofia, oltre che a condurre ad un allargamento dei solchi cerebrali e ad una dilatazione ventricolare, colpisce soprattutto il lobo temporale mediale. In quest’area l’ippocampo risulta maggiormente danneggiato. L’atrofia ippocampale riflette i deficit mnestici e di disorientamento, caratteristici della demenza di Alzheimer.

La perdita neuronale si verifica anche nella neocorteccia. L’ulteriore atrofia corticale può essere legata a meccanismi di non uso. Infatti, accanto a fenomeni di morte cellulare che interessano in realtà solo un numero limitato di aree cerebrali, il problema forse più serio, per le conseguenze che provoca, è l’atrofia cellulare e la riduzione di attività di cellule nervose ancora vive (Moro e Filippi, 2010).

Cambiamenti cognitivi nella malattia di Alzheimer

Il quadro cognitivo della malattia di Alzheimer presenta un progressivo deterioramento delle funzioni cognitive. Il disturbo cognitivo che caratterizza maggiormente questo tipo di demenza è il deficit di memoria. Il disturbo è essenzialmente episodico e anterogrado nel senso che il paziente è incapace di apprendere nuove informazioni (Vallar e Papagno, 2011). La memoria prospettica che permette il ricordo di eventi ed azioni da compiere nel futuro è anch’essa notevolmente deficitaria. Uno dei più importanti obiettivi della ricerca sulla malattia di Alzheimer è individuare e definire lo stadio preclinico. I risultati di questi studi potrebbero rivelarsi fondamentali per la diagnosi precoce e per la prevenzione. L’ipotesi attualmente formulata è quella del continuum della compromissione cognitiva (Fig. 3).

Malattia di Alzheimer il ruolo del corpo calloso nell evoluzione dei sintomi cognitivi e neuropsichiatrici _ FIG 3

La condizione di lieve compromissione cognitiva, nota come Mild Cognitive Impairment (MCI), viene considerata come fase prodromica della malattia di Alzheimer. In questa fase i sintomi cognitivi rilevati non sono né sufficientemente gravi per formulare una diagnosi né dovranno essere sottovalutati. I pazienti con diagnosi di MCI, anche se hanno un maggiore rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, non sempre sfociano in questo quadro patologico. In questo caso, il ruolo della riserva cognitiva risulta fondamentale.

La demenza di Alzheimer può essere divisa in tre fasi evolutive: di esordio, avanzata e tardiva. Nella fase di esordio la sintomatologia non è del tutto chiara. Ad ogni modo, si evidenziano i seguenti deficit:

  • disturbi di memoria episodica e anterograda;
  • disorientamento temporale e topografico;
  • afasia anomica caratterizzata da circonlocuzioni e da parole passepartout;
  • difficoltà nel calcolo;
  • aprassia costruttiva.

Nella fase avanzata i sintomi sono più definiti. Questo stadio ha un tempo variabile da tre a otto anni circa. I deficit riscontrati sono:

  • disturbi di memoria ingravescenti;
  • afasia caratterizzata da parafasia, da circonlocuzioni e da difficoltà di comprensione;
  • aprassia costruttiva e ideomotoria;
  • agnosia;
  • alterazioni comportamentali (deliri, allucinazioni e wandering behaviour).

Nella fase tardiva il quadro cognitivo si presenta completamente deteriorato. Si riscontrano:

  • perdita completa delle capacità cognitive;
  • bradicinesia, rigidità, apatia e aggressività;
  • perdita completa dell’autosufficienza e incontinenza sfinterica.

La malattia di Alzheimer non conduce alla morte del paziente. Il decesso avviene per altre cause legate, ad esempio, a problemi respiratori.
 

Il corpo calloso

Anatomia del corpo calloso

Il corpo calloso appartiene al complesso delle formazioni commissurali interemisferiche costituite da fibre nervose, le quali connettono i due emisferi cerebrali. Il corpo calloso, situato nella scissura interemisferica, si presenta come una lamina di sostanza bianca ad estensione sagittale con curvature in corrispondenza delle sue estremità anteriori e posteriori. Questa struttura presenta le seguenti regioni (Fig. 4):

  • il tronco, che costituisce la porzione principale;
  • il genu o ginocchio, che costituisce la porzione anteriore ripiegata;
  • il rostro, che si trova anteriormente al ginocchio e lo splenio;
  • lo splenio, che si trova posteriormente al corpo calloso.

 

Malattia di Alzheimer il ruolo del corpo calloso nell evoluzione dei sintomi cognitivi e neuropsichiatrici _ FIG 4

 

Connessioni callosali

Il corpo calloso connette le aree della neocorteccia di ciascun lato del cervello. Questa unificazione è resa possibile da un grande fascio di assoni che connette le parti corrispondenti dei due emisferi: il lobo temporale sinistro è connesso con il lobo temporale destro; allo stesso modo, il lobo parietale sinistro è connesso con il lobo parietale destro, e così via (Carlson, 2008). Le connessioni callosali, costituite da fasce di fibre mieliniche, sono sia omotopiche che topografiche. Nel primo caso vengono connesse le regioni corticali equivalenti dei due emisferi; nel secondo caso, l’organizzazione topografica delle fibre è tale che la regione anteriore del corpo calloso (rostro e genu) viene attraversata da fibre provenienti dal lobo frontale, mentre la regione posteriore (splenio) è raggiunta da fibre provenienti dalle regioni caudali della corteccia cerebrale (Elahi et al., 2015). Le connessioni del corpo calloso con la corteccia cerebrale sono (Fig. 5):

  • rostro e genu (porzione anteriore del corpo calloso) con la corteccia frontale e prefrontale;
  • splenio (porzione posteriore del corpo calloso) con la corteccia occipitale, parietale e temporale mediale.

Malattia di Alzheimer il ruolo del corpo calloso nell evoluzione dei sintomi cognitivi e neuropsichiatrici _ FIG 5

 

Il corpo calloso e la malattia di Alzheimer

Atrofia del corpo calloso nella malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è caratterizzata da molteplici alterazioni che coinvolgono diverse aree del cervello. Molti studi hanno evidenziato deterioramenti cerebrali presenti sia a carico della sostanza grigia, sia a carico della sostanza bianca. In quest’ultimo caso vengono collocate le ricerche effettuate su cambiamenti del corpo calloso nella malattia di Alzheimer. Il corpo calloso è, infatti, il più grosso fascio di fibre di sostanza bianca, le quali sono ricoperte da guaina mielinica. I rivestimenti mielinici assicurano una rapida conduzione del segnale elettrico nel cervello. Questo aspetto è fondamentale nelle fibre callosali, dato il loro coinvolgimento nella trasmissione e integrazione delle informazioni tra i due emisferi cerebrali.

Il deterioramento del corpo calloso associato alla malattia di Alzheimer è stato riportato in studi prevalentemente trasversali. Questo tipo di studi presentano alcune limitazioni; ad esempio, le differenti dimensioni del corpo calloso tra soggetti possono influenzare fortemente la validità dei risultati ottenuti. A tal proposito, gli studi longitudinali presentano più vantaggi rispetto a quelli trasversali. Le tecniche usate per lo studio del corpo calloso sono la Voxel-Based Morphometry (VBM) e la Diffusion Tensor Imaging (DTI). La VBM è particolarmente importante per lo studio dell’intera struttura cerebrale, mentre la DTI è fondamentale per rilevare cambiamenti nelle regioni callosali e nelle guaine mieliniche.

L’atrofia del corpo calloso viene osservata, con maggiore attenzione, nella fase prodromica della malattia di Alzheimer. Molti studi hanno riportato differenze graduali e sostanziali nella struttura callosale tra pazienti con MCI stabile e pazienti con MCI evoluta in demenza. Uno studio longitudinale, ad esempio, ha rivelato simili cambiamenti morfologici e temporali del corpo calloso confrontando soggetti con MCI stabile rispetto al gruppo di controllo. Il dato sorprendente è che questi cambiamenti risultano più veloci e più marcati tra soggetti con MCI evoluta in demenza rispetto a soggetti con MCI stabile (Elahi et al., 2015).

Uno studio di meta- analisi di immagini strutturali ha evidenziato moderate riduzioni del corpo calloso in pazienti con MCI rispetto a pazienti con malattia di Alzheimer. In particolare, i soggetti con MCI presentano atrofia in zone più ristrette del corpo calloso, soprattutto nelle regioni anteriori. Al contrario, soggetti con demenza di Alzheimer hanno un atrofia che coinvolge le regioni anteriori e posteriori del corpo calloso (Xu- Dong Wang et al., 2015). Questi studi citati evidenziano il grado di cambiamento del corpo calloso nella malattia di Alzheimer rispetto a pazienti con MCI. Questo confronto è estremamente fondamentale poiché tale cambiamento callosale potrebbe essere considerato come futuro biomarker, ossia un indicatore che permette di diagnosticare la malattia di Alzheimer.

Meccanismi sottostanti l’atrofia del corpo calloso nella malattia di Alzheimer

L’atrofia del corpo calloso è stata osservata in diverse gravi patologie come la malattia di Alzheimer, schizofrenia, sclerosi multipla e alcolismo. Due possibili meccanismi sono alla base di questa atrofia callosale: la breakdown mielinica e la degenerazione Walleriana (Elahi et al., 2015).

Nel primo caso i differenti tempi di mielinizzazione delle fibre callosali rivestono un ruolo importante. La tarda mielinizzazione viene riscontrata nella regione del rostro, dando luogo a fibre contenenti assoni ridotti. La precoce mielinizzazione, invece, interessa la parte posteriore del corpo calloso, in particolar modo lo splenium. Le fibre con tarda mielinizzazione, essendo più vulnerabili, tendono ad essere le prime a risentire degli effetti dei processi degenerativi. La regione anteriore del corpo calloso, secondo questo meccanismo di mielinizzazione, risulta essere più sensibile a deterioramenti cerebrali dovuti alla malattia di Alzheimer.

Nel secondo caso, l’ipotesi della degenerazione Walleriana suggerisce che la perdita delle fibre callosali è la conseguenza della progressiva perdita di neuroni corticali, i quali inviano proiezioni al corpo calloso.

Atrofia del corpo calloso correlata ad aspetti cognitivi e neuropsichiatrici nella malattia di Alzheimer

Molti studi trasversali e longitudinali hanno confermato la presenza di atrofia del corpo calloso nella fase prodromica della malattia di Alzheimer. Un ulteriore passo avanti della ricerca, è lo studio di una forte correlazione tra il declino del quadro cognitivo e neuropsichiatrico del paziente affetto da demenza di Alzheimer e la degenerazione callosale. In questo caso, la combinazione dell’utilizzo di tecniche di neuroimmagine e di test neuropsicologici e neuropsichiatrici è indispensabile. In questo tipo di ricerca è importante volgere l’attenzione sia ai cambiamenti del corpo calloso sia alle molteplici connessioni che questa struttura instaura con le altre strutture cerebrali.

Uno studio longitudinale condotto per un periodo di un anno ha riportato risultati interessanti (Di Paola et al., 2015). Gli aspetti cognitivi sono maggiormente correlati a un danneggiamento della porzione posteriore del corpo calloso, in particolare l’istmo e lo splenio. Tali regioni sono connesse topograficamente con il lobo temporale e parietale.

Gli aspetti neuropsichiatrici, in particolare la depressione, vengono correlati con un danneggiamento del rostro, la regione posteriore del corpo calloso. Quest’area riceve fibre che originano dalla corteccia orbito frontale, la quale si presenta danneggiata anche in pazienti parkinsoniani che manifestano sintomi depressivi.

Conclusioni

Il corpo calloso è un grosso fascio di fibre che mette in comunicazione gli emisferi cerebrali. Nel corso dell’invecchiamento, questa struttura cerebrale va incontro a graduale deterioramento. Nella malattia di Alzheimer, questo cambiamento callosale risulta essere sia più marcato sia più veloce rispetto a pazienti con MCI.

In soggetti con demenza di Alzheimer, il deterioramento del corpo calloso è piuttosto diffuso, coinvolgendo sia le regioni anteriori (rostro e genu) sia le regioni posteriori (istmo e splenio). La degenerazione Walleriana e la breakdown mielinica potrebbero essere alla base della di questa degenerazione. Le connessioni topografiche del corpo calloso con le diverse regioni cerebrali potrebbero spiegare un collegamento tra questa struttura e le manifestazioni cognitive e psichiatriche del paziente con malattia di Alzheimer. L’atrofia del corpo calloso, studiata in quest’ottica, potrebbe rivelarsi un importante biomarker, il quale consentirebbe di formulare una diagnosi certa di questo tipo di demenza.

Psicosi ed esordio psicotico: importanza di una diagnosi tempestiva

Mediante l’intervento precoce si può sostenere il paziente con psicosi nel preservare un senso di sé e delle proprie capacità, aiutarlo a venire a patti con la malattia, prevenendo la demoralizzazione e la perdita di autostima.

 Anna Coen e Elisabetta Strina – Open School Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

Psicosi e importanza dell’intervento precoce

La psicosi può essere intesa come un cambiamento radicale che ha effetti sconvolgenti sul sé causando il deragliamento, l’interruzione o la paralisi della traiettoria di sviluppo della persona. L’esordio psicotico, che spesso avviene in età adolescenziale, può comportare la riduzione dei movimenti verso l’autonomia dalla famiglia e inibire la formazione dell’identità e la padronanza di sé.

Se questa instabilità e questo ridotto funzionamento sociale vengono prolungati per lungo tempo, la psicosi e le sue conseguenze possono essere ancora più traumatiche. L’esperienza clinica ha ampiamente dimostrato che parte dei ragazzi che giunge allo scompenso acuto presentava già sintomi e segni che sono stati sottovalutati dal contesto di vita e dagli operatori sanitari con cui sono venuti a contatto; se fossero stati intercettati per tempo avrebbero potuto evitare di arrivare alla situazione esplosiva.

Dagli anni ’90 si è assistito a un maggiore ottimismo riguardo a migliori esiti nel trattamento della schizofrenia e delle psicosi ad essa correlate. Le ragioni si possono riconoscere in due fattori: nello sviluppo di farmaci antipsicotici di nuova generazione che hanno dimostrato una maggiore efficacia e minori effetti collaterali; nella consapevolezza che un intervento nelle fasi precoci della malattia potesse garantire una migliore qualità di vita al paziente ed ai suoi familiari e una prognosi maggiormente favorevole.

Infatti, mediante l’intervento precoce si può sostenere il paziente nel preservare un senso di sé e delle proprie capacità, aiutarlo a venire a patti con la malattia, prevenendo la demoralizzazione e la perdita di autostima, sostenerlo in modo che eserciti una forma di controllo sul proprio ambiente e sul proprio futuro, in vista di una possibile guarigione.

Per realizzare questo approccio preventivo è importante identificare gli aspetti che caratterizzano l’esordio dei disturbi prima che si stabilizzino. Raramente i sintomi psicotici compaiono dal nulla senza precedenti cambiamenti nello stato mentale.

 

Psicosi: prodromo ed esordio

Considerando gli stadi che conducono all’esordio della psicosi conclamata il prodromo si riferisce al periodo di tempo caratterizzato da aspetti dello stato mentale (segnali di disagio) che rappresentano un cambiamento da un funzionamento premorboso fino all’esordio del quadro psicotico completo. E’ un concetto retrospettivo, diagnosticabile solo dopo il riconoscimento del primo episodio psicotico, che comporta una serie di difficoltà con conseguenze sull’esattezza delle descrizioni. Lo sforzo di trovare un senso ad avvenimenti precedenti può dar vita a correlazioni illusorie, pregiudizi a posteriori che si autoconfermano, influenze sullo stato mentale del momento, fenomeni di chiusura ermetica per il desiderio di non ricordare quel periodo della propria vita.

Per applicare più proficuamente il concetto di prodromo in visione prospettica è corretto parlare di “stati mentali a rischio” (McGorry, Singh 1995), per cui la sindrome prodromica conferisce un rischio di psicosi, ma la malattia non è inevitabile.

 

Sintomi e prodromi dell’esordio psicotico

Circa i due terzi dei soggetti che sviluppano una patologia psichiatrica presentano il prodromo nei due/tre anni prima dell’esordio. I primi ad evidenziarsi sono i sintomi affettivi come umore depresso, insicurezza ed ansia, cambiamenti nel tono dell’umore, sensazioni di tensione, sospettosità, rabbia, irritabilità; successivamente, i sintomi negativi quali la perdita di energia e motivazione, rallentamento motorio, difficoltà a pensare e concentrarsi, idee bizzarre, vaghezza, modificazioni nella percezione di sé e degli altri, ritiro sociale. Seguono poi le alterazioni del comportamento, disturbi fisiologici (disturbi del sonno, cambiamenti dell’appetito, disturbi somatici) ed infine, dapprima in forma più attenuata poi più consistente, i sintomi positivi quali deliri ed allucinazioni.

E’ stata riscontrata una frequente comorbidità dell’abuso di sostanze nei giovani, in particolare di sesso maschile, con recente esordio schizofrenico; si è ipotizzato che la tendenza ad usare droghe sia un tentativo di mitigare i sintomi psicotici negativi, la depressione o il disagio derivante dalle conseguenze del disturbo. Nonostante il sollievo soggettivo che può portare, l’abuso di sostanze ha spesso effetti deleteri sulla psicosi: peggiora la sintomatologia, aumenta le ricadute ed i conseguenti ricoveri ripetuti e incrementa la violenza e i suicidi (Smith e Hucker,1994).

 

Indicatori prodromici della psicosi

In letteratura troviamo ricerche che segnalano l’esistenza di indicatori prodromici dell’esordio psicotico:

  • Disturbi del pensiero, stress, blocchi, disturbi nella comprensione del linguaggio, instabili idee di riferimento, derealizzazioni, disturbi della percezione uditiva/visiva, incapacità di discriminare tra i pensieri, percezione, fantasia e ricordi (Klosterköttereta et al., 2001);
  • Attenuati sintomi di psicosi connessi a rischio genetico, lunga durata di sintomi prodromici, scarso funzionamento sociale, difficoltà attentive (Yung et al., 2004);
  • Pensiero insolito, basso funzionamento, rischio genetico associato a declino funzionale (Thompson et al., 2011);
  • Rischio genetico per la schizofrenia con recente deterioramento del funzionamento, pensiero insolito, livelli elevati di sospettosità e paranoia, compromissione sociale e una storia di abuso di sostanze (Cannon et al.,2008)
  • Sintomi psicotici attenuati (sospettosità), sintomi negativi (anedonia / asocialità), deficit cognitivo (Riecher-Rössler et al, 2009)
  • Sintomi positivi, pensiero bizzarro, disturbi del sonno, disturbo schizotipico, livello di funzionamento nel corso dell’ultimo anno, anni di scolarizzazione (Ruhrmann et al. 2010).

Le tecniche di neuroimaging possono avere valore predittivo aggiuntivo per rilevare gli individui a rischio psicosi, in quanto individuano aree cerebrali e disfunzioni nei sistemi neurotrasmittoriali che appaiono coinvolti nella patogenesi della psicosi.

Ci rendiamo, però, conto della difficoltà a effettuare questo tipo di indagini nei soggetti potenzialmente a rischio. Appare auspicabile effettuare una corretta raccolta anamnestica volta a individuare i fattori di rischio che possono avere un ruolo nello sviluppo della psicosi.

La psicosi tra genetica e fattori ambientali

Bisogna ragionare secondo un modello bio-psico-sociale che necessariamente deve includere le interazioni tra genetica e fattori ambientali.

Si presume che la componente genetica agisca sui tratti psicologici (neuro-cognitivi e di personalità) associati alla psicosi condizionandone andamenti e risultati (Olgiati et al., 2008).

La grande maggioranza delle ricerche concorda nell’indicare un’elevata familiarità della malattia. Il rischio medio della popolazione è dell’1%, ma per i consanguinei aumenta in modo proporzionale al grado di parentela. Si riscontra l’esistenza di alcuni cromosomi probabilmente coinvolti nell’insorgenza della schizofrenia: 1, 2, 3, 5, 6, 8, 10, 11, 13, 14, 20, 22 (Botstein et al. (2003), Levison et al. (2003), Lewis et al. (2003), Segurado et al. (2003), Wong et al.(2003)).

L’importanza delle interazioni genotipo/ambiente è stata evidenziata, ad esempio, da ricerche che dimostrano come i figli adottivi i cui genitori biologici erano schizofrenici avevano un rischio di ammalarsi maggiore se le famiglie adottive erano disturbate.

Le caratteristiche ambientali determinano poi la probabilità che essa si manifesti: lo stress ambientale indurrebbe la comparsa della sintomatologia solo negli individui predisposti. L’attività dei singoli geni viene modulata sia dall’ambiente esterno sia dallo sfondo genico, in cui confluiscono anche svariati deficit enzimatici primari. E’ possibile che i casi più lievi abbiano un numero minore di geni nel sistema poligenico, per cui è meno probabile che incontrino stress ambientali sufficienti a causare la malattia rispetto a coloro che sono colpiti da una forma grave.

Altri fattori di rischio frequentemente associati alla psicosi sono risultati: l’età, il genere, la sofferenza prenatale e perinatale, le influenze ambientali stagionali, le anomalie e i ritardi nello sviluppo motorio e neurologico, le alterazioni del pensiero formale, l’instabilità dell’ambiente affettivo dell’infanzia, trauma cranici, l’abuso di sostanze, stressor ambientali. Caratteristiche comuni di una personalità preschizofrenica sono risultate i deficit nella memoria a breve termine, i deficit nell’attenzione, le difficoltà di concentrazione la scarsa competenza sociale e l’ipersensibilità agli stimoli.

Tra i fattori psicosociali a cui è stato attribuito maggiore rilievo sono riportate alcune modalità di interazione familiare che avrebbero un ruolo significativo nella slatentizzazione della malattia, quali una comunicazione distorta, uno stile di rapporti affettivi improntato alla negatività, al criticismo e all’intrusività.

Un dato interessante è l’aumento dell’incidenza dei disturbi psicotici fra le popolazioni migranti (Harrison et al., 1997; Cantor-Graae and Selten 2005; Morgan et al., 2010; Tarricone et al.2012). La spiegazione che probabilmente sottende questo fenomeno è dovuta all’esperienza traumatica, che potrebbe essere connessa alla migrazione, in individui con un’elevata sensibilità personale allo stress e una vulnerabilità biologica alla psicosi.

 

Psicosi ed esordio psicotico: l’importanza di un’anamnesi completa

Alla luce di questi dati risulta fondamentale una corretta e completa raccolta dell’anamnesi e, oltre al colloquio clinico, l’assessment potrebbe anche includere la somministrazione di alcuni test psicopatologici (es. CAARMS-Comprehensive Assessmentof of At Risk Mental States, per l’identificazione dello stato di rischio- e la SOFAS-Social and Occupational Functioning Assessment Scale,per valutare un eventuale decremento del funzionamento globale).

Oltre all’individuazione dei fattori potenzialmente predittivi o, comunque, allarmanti della possibilità di un esordio psicotico, un intervento tempestivo potrebbe essere ostacolato dalla difficoltà nell’incontrare la domanda di aiuto psicologico da parte dell’adolescente. I ragazzi, infatti, avvertono frequentemente un vissuto di invulnerabilità ed onnipotenza che li rendono poco motivati ad accettare l’aiuto offerto dagli adulti. L’orientamento ad evitare relazioni di dipendenza, il desiderio di autonomia, l’apertura a nuovi oggetti di interesse e passione, li portano spesso a diffidare da relazioni troppo chiuse e caratterizzate da una dipendenza che può apparire regressiva. A ciò si somma la difficoltà ad elaborare simbolicamente queste esperienze, anche a seguito dei cambiamenti neurologici in corso, che li portano più ad agire i conflitti che a pensarli.

Il comportamento deviante degli adolescenti è generalmente tollerato dal contesto sociale e i giovani maschi, in particolare, corrono facilmente il rischio che non venga riconosciuta la loro malattia.

I fattori che possono ritardare il ricorso ai servizi psichiatrici sono anche imputabili alle reazioni della famiglia ai cambiamenti, al tentativo di negazione e al vissuto stigmatizzante che il riconoscimento della patologia esercita. Vi sono poi resistenze specifiche della famiglia del paziente con psicosi dovute sia alle caratteristiche dei sintomi progressivi a cui l’ambiente si adatta gradualmente, sia soprattutto al fatto che la famiglia è parte in causa della genesi del disturbo.

Intervengono inoltre gli elementi clinici propri della psicosi che spesso ostacolano la richiesta di aiuto in quanto la sintomatologia psicotica inibisce la capacità di insight ed aumenta la sospettosità, le idee persecutorie ed il ritiro sociale.

 

Psicosi: sensibilizzare per favorire interventi tempestivi

La premessa per facilitare l’accesso ai servizi è una campagna di informazione e sensibilizzazione per accrescere le conoscenze sulla malattia ed evitare che ignoranza e paura impediscano una presa in carico tempestiva e corretta. Tale opera informativo-educativa va rivolta agli operatori sanitari dell’assistenza di base ed alle figure professionali che possono avere contatto con i giovani sul territorio come educatori o psicologi presso le scuole.

La scuola è uno dei fondamentali ambienti della vita giovanile, dove i ragazzi passano gran parte del loro tempo e quindi gli insegnanti e gli altri operatori scolastici sono osservatori privilegiati dei cambiamenti comportamentali che possono evolvere in esordio di psicosi, come difficoltà di apprendimento o disturbi nella socializzazione.

Un ruolo importante può essere ricoperto dai medici di famiglia che sono spesso i primi ad essere consultati e che devono essere in grado di incrementare le proprie abilità di screening per riconoscere i sintomi psichiatrici nascosti dalle lamentele relative a disturbi organici, superare la riluttanza a fare diagnosi di disturbo mentale spesso dovuta a pregiudizi pessimistici, e di decodificare la domanda di intervento per attivare un invio ai servizi specialistici competenti. Un invio ritardato o del tutto delegante e confusivo innesca un meccanismo di difficile presa in carico con il rischio di un fallimento nella costruzione di una significativa alleanza terapeutica fra curanti, famiglia e paziente.

La prima motivazione per sostenere la necessità di una individuazione precoce nella psicosi dell’adolescente è la possibilità di migliorare la qualità di vita di persone che sono destinate allo sviluppo di disturbi potenzialmente invalidanti.

La maggior parte dei danni più difficili da riparare a seguito dei ritardi nella presa in carico riguardano lo sviluppo personale del paziente con psicosi, il suo stile di vita ed i rapporti con l’ambiente sociale.

Se le persone vengono prese in carico quando la malattia è già manifesta e consolidata, i suoi effetti sulla struttura di personalità hanno già intaccato lo sviluppo, la rete sociale ed affettiva. Un atteggiamento più attivo ed un’offerta tempestiva e mirata di trattamenti consentono di ritardare o moderare le conseguenze della malattia con un miglioramento della qualità di vita, con benefici a livello di una riduzione della morbilità, mantenimento di abilità psicosociali, della conservazione dei supporti familiari e sociali, una minore necessità di ospedalizzazione ed un processo di guarigione più rapido ed una migliore prognosi.

Un’altra motivazione prende in considerazione i costi sociali. Le spese aggiuntive per il trattamento pre-esordio psicotico vengono compensate dai successivi risparmi associati alla prevenzione della malattia. Questi vantaggi sono dovuti, ad esempio, a una minore necessità di ricovero e una riduzione dei costi di trattamento.

Psicosi e Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Si è riscontrato che pazienti ad alto rischio di sviluppare psicosi trattati con CBT acquisiscono strategie di coping volte a ridurre il loro disagio diminuendo la probabilità di sviluppare psicosi. (P. Hutton e P. J. Taylor, 2013).

Infatti, la CBT lavora sulla normalizzazione del sintomo, la riduzione dell’angoscia ad esso associate e il miglioramento dell’insight. Attraverso la terapia cognitivo comportamentale si conduce il paziente verso l’analisi cognitiva dei sintomi, la loro sdrammatizzazione e decatastrofizzazione. La psicoeducazione aiuta i pazienti a comprendere la reale natura dei sintomi positivi (deliri e allucinazioni).

Inoltre l’isolamento sociale comune in questi pazienti viene contrastato attraverso il reinserimento del soggetto nel mondo esterno e indicazioni fornite ai familiari per la gestione quotidiana e la riduzione dello stigma (Hagen et al., 2012).

Purtroppo, nonostante il largo consenso di clinici e ricercatori circa il vantaggio di un intervento precoce nei casi di psicosi, la società nel senso più ampio deve ancora comprenderne il valore.

Le situazioni di pericolo e i diversi modi del cervello per analizzare le informazioni

Il cervello umano impiegherebbe maggiori risorse per il processamento di indizi di pericolo rispetto a situazioni neutre, ma soprattutto sembra che le persone ansiose utilizzino aree cerebrali differenti – quelle motorie – alle prese con stimoli sociali minacciosi.

Un gruppo di ricercatori francesi ha identificato una specifica modalità di risposta cerebrale coinvolta in questo fenomeno secondo cui il cervello sarebbe in grado di rilevare minacce sociali in maniera automatica entro i 200 millisecondi. Nello studio sono stati misurati i segnali elettrici a livello cerebrale in relazione ad espressioni facciali che generalmente vengono interpretate come minacciose (ad esempio, espressione facciale della rabbia unita a una particolare direzionalità dello sguardo). In tutti i soggetti tali stimoli suscitano a livello cerebrale risposte più immediate rispetto a stimoli emotigeni con minori indizi di pericolosità.

Il dato viene letto alla luce di una funzionalità evolutiva poichè consente risposte adattive più veloci ed efficaci per fronteggiare i pericoli. Simili risposte molto rapide si riscontrano nel caso dell’espressione facciale della paura. Pur non essendo uno stimolo di per sè minaccioso, vi è comunque un razionale evolutivo al momento in cui rilevando velocemente la paura di un nostro consimile possiamo avere a nostra volta indizi riguardo la presenza di una possibile minaccia.

Il risultato più interessante però è che è proprio l’ansia di tratto a fare la differenza: gli individui più ansiosi utilizzerebbero aree cerebrali diverse in risposta agli stimoli sociali minacciosi, e in particolare impiegano le regioni motorie deputate alla regolazione delle azioni per processare gli stimoli sociali. D’altro canto i soggetti con un basso livello di ansia, per elaborare espressioni facciali minacciose attivano maggiormente le aree sensoriali tipicamente coinvolte nel processamento delle espressioni del volto. Dunque i soggetti ansiosi (comunque non appartenenti a un campione clinico) presentano una modalità tipica di elaborare il pericolo in ambito relazionale-sociale che impiega in misura più estesa i circuiti motori rispetto a quelli sensoriali. Lo step successivo sarà comprendere che cosa accade nel caso in cui vi siano condizioni di ansia clinicamente significative.

Disturbo bipolare e disturbo borderline: separati alla nascita?

Disturbo borderline e disturbo bipolare (bipolarismo): entrambi evidenziano caratteristiche comuni quali l’impulsività, l’umore instabile, la rabbia inadeguata, un elevato rischio suicidario e relazioni affettive instabili, tuttavia i pazienti con disturbo borderline di personalità tendono a mostrare una maggiore instabilità e impulsività e ostilità rispetto ai pazienti con bipolarismo. In secondo luogo, il disturbo borderline di personalità è più fortemente associato ad una storia di infanzia di abusi, anche rispetto ai gruppi di controllo che sembrano avere altri disturbi di personalità o depressione maggiore.

Fulvio Bedani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

[blockquote style=”1″]Dal cervello, e dal cervello solo, sorgono i piaceri, le gioie, le risate e le facezie così come il dolore, il dispiacere, la sofferenza e le lacrime. Il cervello è anche la dimora della follia e del delirio, delle paure e dei terrori che ci assalgono di notte o di giorno.[/blockquote]– Ippocrate

Tra il V e il IV secolo a.C., con questa frase, Ippocrate forniva i presupposti della sua successiva trattazione riguardante i disturbi mentali, trattazione destinata a costituire nel corso dei secoli una solida base per la creazione delle attuali teorie cliniche. In tale ottica, molte delle descrizioni fenomenologiche e sintomatologiche redatte da Ippocrate trovano ancora una certa validità e conferma nei più aggiornati e riveduti criteri diagnostici moderni.
Tuttavia, nella realtà mutevole e dinamica delle “scienze della mente”, uno spazio importante e quanto mai discusso è rappresentato dalla necessità di una corretta definizione di disturbi che mostrano una sottile e non sempre netta linea di demarcazione; a tal proposito, tra le diatribe attualmente più in “auge”, spicca il confronto fra disturbo bipolare e disturbo di personalità borderline. Tale confronto viene continuamente dibattuto tra varie correnti di specialisti, come dimostra la sempre più estesa produzione scientifica.

Il problema della diagnosi

Sin dai tempi antichi, l’individuazione di una corretta diagnosi ha costituto il passo essenziale col quale iniziare il percorso terapeutico. Una diagnosi mancata, invertita, o genericamente errata, pone problematiche di non poca rilevanza, se si considerano le possibili conseguenze di un processo terapeutico inadeguato.
Nel caso specifico, una diagnosi errata tra disturbo bipolare e disturbo borderline può determinare una sequela di conseguenze di difficile gestione.
Ad esempio, quando un paziente bipolare viene diagnosticato come borderline (disturbo borderline di personalità), viene potenzialmente escluso dall’utilizzo di terapie farmacologiche efficaci. Dall’altro lato, attribuire una diagnosi di bipolarismo a un paziente con disturbo di personalità espone lo stesso al rischio di trattamenti che hanno una bassa valenza o possono essere fallimentari, piuttosto di un più adeguato trattamento psicologico. A queste problematiche vanno aggiunti anche il notevole impatto sociale e l’elevato rischio di stigmatizzazione della malattia.
Quali sono le basi su cui si crea questa difficoltà di riconoscimento diagnostico?

L’origine di tale frequente errore diagnostico risiede primariamente nel fatto che il disturbo di personalità borderline e il disturbo bipolare presentano una considerevole sovrapposizione sintomatologica.
Da un lato, il disturbo bipolare è considerato come una malattia del cervello, caratterizzata dalla fluttuazione del tono dell’umore, tra fasi “calde” e fasi “fredde”, ovvero mania/ipomania e depressione.
La prevalenza di tale disturbo si colloca all’incirca al 2% nella popolazione generale, con un’elevata percentuale di casi nei quali è possibile evidenziare una storia famigliare positiva per malattia, con trasmissione su base ereditaria.

Sintomo cardine del disturbo bipolare è la presenza di fasi di mania/ipomania, seguita da un successivo episodio depressivo. Sebbene i pochi studi clinici attuali non evidenzino una correlazione fra dimensioni della personalità e disturbo bipolare, è possibile evidenziare la presenza di disturbi di personalità concorrenti (soprattutto del cluster B) che possono influire negativamente sulla risposta al trattamento.
Sul lato opposto, il disturbo di personalità borderline è caratterizzato da un quadro duraturo e inflessibile di pensieri, sentimenti e comportamenti che ostacola la funzione psico-sociale o professionale di un individuo. La sua prevalenza stimata è di circa l’1%, anche se recenti stime ipotizzano il 6%. Nel caso del disturbo borderline di personalità, le influenze genetiche svolgono un ruolo eziologico minore rispetto al disturbo bipolare.

Entrambi i disturbi evidenziano caratteristiche comuni quali l’impulsività, l’umore instabile, la rabbia inadeguata, un elevato rischio suicidario e relazioni affettive instabili, tuttavia i pazienti con disturbo borderline di personalità tendono a mostrare una maggiore instabilità e impulsività e ostilità rispetto ai pazienti con disturbo bipolare.
In secondo luogo, il disturbo borderline di personalità è più fortemente associato ad una storia di infanzia di abusi, anche rispetto ai gruppi di controllo che sembrano avere altri disturbi di personalità o depressione maggiore.
Il rapporto maschio-femmina per il disturbo bipolare e il disturbo borderline di personalità è discretamente sovrapponibile, situandosi approssimativamente a 1:3 nel DB e a 1:4 nel disturbo borderline di personalità.
Sia disturbo bipolare che il disturbo borderline di personalità sono associati infatti ad un notevole rischio di suicidio o di tentativo suicidario nonché comportamenti autolesionistici.

Disturbo borderline di personalità e disturbo bipolare spesso coesistono

A contribuire al problema della diagnosi, concorre anche il fatto che DB e disturbo borderline di personalità possono coesistere nello stesso paziente: si stima, infatti, che circa il 20% dei pazienti con disturbo borderline abbia comorbidità per un disturbo bipolare e che nel 15% dei pazienti con disturbo bipolare sia coesistente un disturbo di personalità borderline. Tale concorrenza si verifica molto più spesso di quanto ci si aspetterebbe (15-20% dei casi), suggerendo alcune ipotesi. In primo luogo è possibile che la prevalenza stimata del bipolarismo nei soggetti con disturbo borderline di personalità sia troppo bassa o, viceversa, la prevalenza di disturbi borderline in pazienti con disturbo bipolare sia troppo alta. Secondariamente, è possibile che il disturbo bipolare sia meno comune di quanto realmente stimato nella popolazione.

Il bias diagnostico per bipolarismo e disturbo borderline

Trovandosi di fronte al paziente, lo specialista, sia esso un medico o uno psicologo, ricerca i sintomi della malattia. Nel caso dei disturbi in esame, la presenza di un disturbo bipolare o disturbo borderline di personalità può aumentare il rischio che una delle due malattie venga mal diagnosticata; questa condizione può verificarsi qualora nel paziente si manifestino sintomi comuni ad entrambi i disturbi. Il riconoscimento di tali sintomi come elementi “diagnostici” specifici di una precisa malattia inficia il percorso diagnostico. Ad esempio, una diagnosi di disturbo borderline potrebbe rappresentare un disturbo bipolare parzialmente trattato o resistente al trattamento.
Si assiste, inoltre, a un frequente “bias orientativo”.

Joel Paris, nel suo “Lo spettro bipolare – Diagnosi o moda?”, pone in esame come i clinici tendano a diagnosticare con maggiore probabilità il disturbo di cui sono maggiormente esperti. Lo stesso Paris evidenzia come, negli ultimi anni, vi sia stato un incremento del numero di diagnosi di bipolarità, correlando tale incremento ad un fattore “moda” dettato più dal momento storico e ideologico “bipolarista” che dalla realtà clinica effettiva. Senza entrare nel merito della correttezza o meno di tale affermazione, si evidenzia tuttavia una maggiore predisposizione dei clinici a porre più frequentemente diagnosi di disturbo bipolare rispetto a disturbo borderline di personalità. Le basi di tale “bias” potrebbero risiedere in numerosi fattori, verosimilmente da iscriversi al fatto che la ricerca scientifica degli ultimi decenni si è maggiormente concentrata sul disturbo bipolare rispetto al disturbo borderline di personalità e che, spesso, i pazienti bipolari mostrano un maggior “appeal” clinico rispetto ai pazienti borderline, storicamente e frequentemente descritti come “manipolativi, eccentrici, drammatici, sprezzanti, oppositivi”.

Sul piano clinico, a far pendere l’ago della bilancia verso la diagnosi di bipolarismo si situa un miglior outcome sul lungo periodo nel bipolarismo rispetto al disturbo borderline di personalità; in aggiunta, la riconosciuta predisposizione ereditaria del disturbo bipolare costituirebbe una verosimile più solida base diagnostica che, oltre a rassicurare il clinico, lo aiuterebbe anche nel descrivere al paziente la diagnosi; diagnosi che, nel caso del disturbo borderline di personalità, spesso viene difficilmente accettata e maggiormente stigmatizzata.

Un bias di natura pratica risiede invece nella tendenza degli specialisti nel raccogliere la storia del paziente, concentrandosi soltanto sui sintomi trasversali; ad esempio quando un paziente con disturbo bipolare mostra una prominente labilità dell’umore o la sensibilità interpersonale durante un episodio di alterazione dell’umore, ma non quando si trovi in eutimia.

Il problema del disturbo bipolare II

Come è noto, il disturbo bipolare viene suddiviso in due forme principali: disturbo bipolare di tipo I e bipolare di tipo II; a questi si aggiungono anche ciclotimia e disturbi bipolari sotto soglia. Dal punto di vista diagnostico, si incontrano minori difficoltà nel distinguere un paziente bipolare di tipo I da uno affetto da disturbo borderline, dal momento che il sintomo cardine del bipolarismo di tipo I è la mania, ovvero uno stato di elevata eccitabilità e iperattività e/o aggressività generalmente di agevole riconoscimento e che, a volte, porta a manifestazioni assai marcate come la psicosi.
Le problematiche diagnostiche maggiori, invece, si verificano quando il paziente presenta criteri diagnostici sfumati e non chiaramente identificabili. Gli stati di elevazione dell’umore o ipomaniacali possono mimare le fluttuazioni di umore tipiche dei disturbo borderline di personalità. Inoltre, il paziente bipolare II può presentare alcuni tratti tipici degli stati maniacali ma in forma più attenuata. Mentre impulsività o aggressività sono più caratteristici del disturbo borderline di personalità, il bipolare II è simile al disturbo borderline di personalità sulle dimensioni dell’instabilità affettiva, sebbene quest’ultimo tendi ad evidenziare fluttuazioni molto più rapide rispetto al bipolarismo.
Su tale componente affettiva, comune ad entrambi i disturbi, si sono dibattuti numerosi studiosi del nostro secolo.

Disturbo bipolare e disturbo borderline come fratelli separati alla nascita

A partire dagli anni ’80 e ’90 del novecento, numerosi studiosi hanno avanzato teorie e ipotesi sulla relazione fra disturbo bipolare e disturbo borderline; il fondamento teorico alla base di tali teorie riguarda gli aspetti affettivi nei due disturbi.
Akiskal nel suo “Borderline: an Adjective in Search for a Noun”, rileva come i famigliari di pazienti con disturbo borderline abbiano una predisposizione genetica per disturbi affettivi più alta dei pazienti bipolari stessi e ipotizza che il disturbo borderline di personalità possa configurarsi come precursore del disturbo bipolare.
Sulla base di tale teoria, sono emerse quindi diverse ipotesi classificatorie:
1. disturbo PTSD complicato;
2. disturbo bipolare di spettro;
3. disturbo di asse I a sé stante.

Nel 2008, New et al., sul Biological Psychiatry , hanno evidenziato le differenze tra gli studi a favore o contro l’eziologia traumatica nel disturbo borderline di personalità.
A favore di tale ipotesi si evidenziava come abitualmente gli adulti con diagnosi di disturbo borderline di personalità riportassero più spesso (rispetto ai non borderline) abusi psichici e sessuali precoci e di come fossero stati testimoni di violenze domestiche. Inoltre, il disturbo borderline di personalità viene predetto nell’adulto qualora si sia verificato un abuso sessuale, una negazione emozionale da parte di figure parentali maschili e il trattamento inconsistente nelle figure parentali femminili.
Sul fronte opposto veniva evidenziato come tra il 20-45% dei pazienti borderline non ci fossero in anamnesi episodi di abusi sessuali e, contemporaneamente, soggetti con pregressi abusi sessuali nell’80% dei casi non sviluppino un disturbo di personalità. Infine, la familiarità per i disturbi dello spettro nevrotico, l’abuso sessuale nell’infanzia, la separazione o lo stile genitoriale sfavorevole predicono indipendentemente il disturbo borderline di personalità nell’adulto.

Numerosi studiosi propongono di considerare il disturbo borderline di personalità come un disturbo bipolare di spettro, basandosi sull’elevato tasso di comorbidità e sulla sovrapposizione sintomatologica precedentemente evidenziata. Tuttavia, lo stesso Akiskal nel 1985 e Gunderson nel 2006 hanno evidenziato come la relazione fra disturbo borderline di personalità e bipolarismo sia modesta e la possibilità di una relazione forte di spettro sia inverosimile.

 

Risolvere il problema della diagnosi dei disturbi borderline e bipolare

Nonostante le teorie e le ipotesi dei diversi studiosi, il problema del clinico rimane il medesimo: come distinguere nella quotidianità i due disturbi e porre una diagnosi di certezza?
Allo stato attuale, per condurre una diagnosi corretta è necessario conoscere adeguatamente i criteri diagnostici più recenti (DSM-5), nonché affidarsi allo strumento di più grande rilievo nel campo psicologico/psichiatrico: l’anamnesi.

La raccolta della storia di vita e della malattia del paziente rappresenta la base essenziale per ogni ulteriore provvedimento. La stesura di una storia psichiatrica, in modo completo e rigoroso, consente al clinico di discernere fra un disturbo bipolare e un disturbo di personalità borderline.
Essenziale è il decorso: poiché i disturbi di personalità sono da considerarsi come un pattern di comportamento cronico, costante durante la vita, sarà utile lo studio del decorso longitudinale e non solo dei sintomi trasversali. In altre parole, la presenza di una modalità di comportamento e di “espressione umorale e funzionale” sostanzialmente costante nel tempo, depone maggiormente per un disturbo borderline di personalità, rispetto ad un decorso caratterizzato da ciclicità, nel quale a fasi di disturbi dell’umore e di perdita di capacità funzionali, si alternano periodi di benessere e eutimia. I pazienti con disturbo borderline spesso evidenziano fasi di fluttuazioni umorali che mutano velocemente nell’arco di minuti e/o ore, molto difficilmente di durata superiore.
Inoltre, nell’iter diagnostico-terapeutico occorre tener presente le caratteristiche psicologiche del disturbo. I pazienti con disturbo borderline di personalità evidenziano, infatti, un tipico pattern di attaccamento insicuro, differentemente dai pazienti bipolari. I pazienti con disturbo borderline tendono a gestire in modo incostante e tumultuoso le relazioni, differentemente dai pazienti con bipolarismo che mostrano una maggiore costanza.

Trattamento per i disturbi bipolare e borderline

L’approccio terapeutico al disturbo bipolare e al disturbo di personalità borderline consta di numerose opportunità, alcune delle quali anche condivise.
L’iter del trattamento prevede sia un intervento di natura farmacologica che di natura psicoterapica.
Sul piano farmacologico, la scelta verte sostanzialmente sull’utilizzo di antidepressivi, stabilizzanti dell’umore e antipsicotici. In linea generale, e assolutamente semplicistica, gli stabilizzanti dell’umore (litio, acido valproico, carbamazepina, lamotrigina) trovano impiego sia nel disturbo bipolare che nel disturbo borderline di personalità, con lo scopo di ridurre le fluttuazioni dello stato umorale e garantire al paziente una maggiore stabilità del tono affettivo. Gli antidepressivi trovano maggior utilizzo nelle fasi “down” del disturbo borderline di personalità; appare invece controverso e molto discusso il loro utilizzo nei casi di disturbo bipolare, nei quali l’uso di tale classe farmacologica incrementerebbe il rischio di “switch” dalla depressione alla mania. Gli antipsicotici sono sfruttati per la loro efficacia durante le fasi maniacali dei pazienti bipolari, con lo scopo di “raffreddare” l’iperattività e l’eccessivo incremento della produzione ideica del soggetto.

 

Psicoterapia per il disturbo borderline e il disturbo bipolare

Sul piano psicoterapico la gamma dei possibili approcci è piuttosto ampia e, salvo alcuni interventi specifici per un determinato disturbo, gli stessi sono in gran parte condivisi tra bipolarismo e disturbo borderline di personalità.
Lo scopo della psicoterapia deve focalizzarsi in particolare sugli aspetti che maggiormente inficiano sulla qualità di vita del paziente, ovvero impulsività (suicidalità), ostilità, irritabilità, comportamenti “risk-taking” e di abuso, sensitività interpersonale.

Stilare una lista completa delle possibili tecniche psicoterapiche comporterebbe un lungo elenco di scarsa utilità. Si ritiene, invece, più rilevante citare e descrivere brevemente alcuni approcci di nota efficacia clinica.

Psicoterapia cognitivo-comportamentale:

I terapisti cognitivo-comportamentali si pongono come obiettivo lo sviluppo della capacità di riconoscimento e coping dei sintomi prodromici e la capacità di problem solving rispetto a diversi aspetti della malattia. Questo approccio psicoterapico risulta essere, allo stato attuale, la terapia di maggiore efficacia per il trattamento dei disturbi bipolari e disturbo borderline di personalità. Nel caso specifico per il disturbo borderline, è possibile avvalersi della terapia dialettico-comportamentale. Di derivazione cognitivo-comportamentale, è stata introdotta negli anni ’90 dalla psicologa Marsha Linehan e pone come obiettivo l’educare il paziente alla gestione delle emozioni disforiche e la ricerca di possibili comportamenti alternativi, soprattutto nei confronti delle espressioni più autolesive tipiche del disturbo borderline.

Family focus treatment:
sviluppato da Miklowitz, prevede un intervento suddiviso in moduli volto inizialmente alla psicoeducazione del paziente e del gruppo famigliare e successivamente alla valutazione delle relazioni disfunzionali interne al gruppo della famiglia, offrendo possibili soluzioni ai principali problemi interpersonali.

Psicoterapia interpersonale e dei ritmi sociali:
Utilizzata principalmente con i pazienti con diagnosi di bipolarismo, si concentra sulla gestione dei ritmi circadiani del paziente, importanti per il ripristino di una adeguata routine quotidiana. La base teorica su cui si fonda tale approccio prevede che il paziente con bipolarismo abbia una particolare “vulnerabilità circadiana” e che gli eventi traumatici possano determinare alterazioni dei principiali ritmi biologici (sonno-veglia) e sociali.

Trattamento basato sulla mentalizzazione:
la MBT è stata introdotta da Bateman e Fonagy all’inizio degli anni Duemila. Si basa sul concetto secondo il quale i pazienti borderline non sono in grado di mentalizzare, ovvero porsi “al di fuori” delle proprie emozioni come osservatori esterni col fine di analizzare le stesse e le relative conseguenze emotive e relazionali. Acquisendo tale capacità, il paziente disturbo borderline di personalità riesce maggiormente a comprendere le dinamiche relazionali personali e altrui, migliorando la propria qualità di vita.

Schema focused therapy:
si tratta di una terapia “mista”, costituitasi dalla combinazione fra CBT e terapia analitica. Introdotta da Young alla fine degli anni ’90, ha come scopo il modificare gli schemi maladattivi che derivano da esperienze negative nell’infanzia.

In conclusione:

Appare evidente come disturbo bipolare e disturbo di personalità borderline configurino due entità nosologiche differenti, sebbene presentino aspetti sintomatologici e fenomenologici comuni e possano presentarsi come disturbi coesistenti nello stesso soggetto. L’errore nel riconoscimento diagnostico fonda le sue radici su molteplici aspetti. Un’approfondita conoscenza dei criteri diagnostici nonché una maggiore attenzione alla cronologia e agli eventi della storia di vita e del disturbo del paziente possono contribuire a superare questo bias interpretativo, fornendo così al paziente la possibilità di fruire di un adeguato trattamento, evitando, al contempo, una sequela di conseguenze di difficile gestione sia sul piano terapeutico, sia sul piano psico-sociale, riducendo il rischio di stigmatizzazione e emarginazione del paziente.

Le Emozioni Incarnate – Report dal Workshop di Milano, 16-17 Gennaio 2016

Si è appena concluso il Workshop ‘Il ruolo del corpo nell’elaborazione delle emozioni profonde‘: due giorni di aspetti teorici ed esperienziali sulle emozioni esperite nel corpo, con particolare attenzione ai pazienti con componenti traumatiche.

Si è appena concluso uno stimolante Workshop dal titolo: ‘Il ruolo del corpo nell’elaborazione delle emozioni profonde’. Il risultato è stato una maratona di due giorni di aspetti teorici ed esperienziali sulle “emozioni esperite nel corpo”, con particolare attenzione alle ricadute sul lavoro clinico e psicoterapico con pazienti con componenti traumatiche.

In un clima di operativa pragmaticità americana l’evento ha permesso ai partecipanti di consolidare le conoscenze circa la neurobiologia delle emozioni, l’attaccamento e la relazione terapeutica nella forma del clinico come ‘Regolatore Psicobiologico Interattivo’ (Schore, 1994, 2009) e agli approcci in psicotraumatologia ormai ampiamente consolidati in letteratura, come l’EMDR e la Terapia sulla Dissociazione Strutturale di Van der Hart (2006), con innovativi stimoli e tecniche di terapia Sensomotoria (Ogden, 2000, 2009) quale ad esempio l’esercizio sulle cinque fondamentali componenti motorie; quali l’abbandonarsi, lo spingere, il pretendersi, l’afferrare e il tirare (Brainbridge-Cohen, 1993).

L’autore Kukuni Minton, un Trainer fondatore dell’Istituto di Psicoterapia Sensomotoria (SPI) a Boulder, Colorado, (Centro clinico diretto da Pat Ogden e Janina Fischer) e primo formatore in Italia in terapia Senso motoria, ha guidati i presenti in un percorso di approfondimento di ipotesi specifiche sulla corporeità, come la Teoria Polivagale e la Sensopercezione (Porges, 2004) per un intervento che tenga maggiormente presenti le componenti somatiche nella valutazione e nell’intervento terapeutico di regolazione delle emozioni (Ogden, 2009).

E’ fondamentale infatti per una corretta procedura, afferma Minton, che i livelli di elaborazione e regolazione neurobiologica rimangano all’interno della così definita Finestra di Tolleranza (Sigel, 1999), intervenendo secondo modalità sia Top Down che Botton Up (Ogden e Minton, 2000).

Sono instate inoltre particolarmente approfondite le motivazioni che spingono il terapeuta a tenere uno sguardo sempre agganciato al corpo nel lavoro sulle emozioni e i ricordi dolorosi del paziente e l’utilizzo di una esplorazione e di un  intervento che preveda esercizi immaginativi a più livelli (emotivo, sensoriale, percettivo, cognitivo e motorio) con una osservazione Mindfulness, finalizzata a mutare la prospettiva del paziente su parti del proprio e Non Me, così da aiutarlo ad elaborare le emozioni bloccate.

Si auspicano maggiori studi di efficacia che supportino e permettano di valutare con dati empirici di outcome i numerosi e consolidati contributi teorici che supportano questa promettente forma di psicoterapia.

Doveroso ringraziare Psicosoma  per aver reso possibile una iniziativa che sono sicuro abbia lasciato, come in chi scrive, un rinnovato stimolo e curiosità a conoscere e ad esplorare nuovi paradigmi teorici per fornire nuove chiavi di accesso al Sè dei nostri pazienti complessi, resistenti al trattamento e provenienti spesso da storie traumatiche.

La sudditanza psicologica nelle organizzazioni & l’approccio transazionale di Berne

Per comprendere come si instaurano le relazioni e come si verifica il fenomeno della sudditanza psicologica all’interno di un’organizzazione mi pare quanto mai adeguato fare riferimento all’approccio dell’Analisi Transazionale.

Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’….anche il rag. Ugo Fantozzi!
“Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’ “ è una celebre frase di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (Mosca, 1821- San Pietroburgo 1881) con la quale lo scrittore russo voleva sottolineare la profonda influenza che Gogol’ aveva esercitato sulla letteratura a lui successiva, quella del cosiddetto “realismo socialista”.

Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (Bol’šie Soročincy, 1809 – Mosca, 1852), geniale maestro del realismo russo, si distinse per la grande capacità di descrivere situazioni comico-mostruose sullo sfondo di una desolante mediocrità umana. Nel suo racconto “Il Cappotto”, Gogol’ ci propone una trasfigurazione fantastica del reale nella tragica e grottesca storia di un impiegato umile e sottomesso, Akakij Akakievič, morto di crepacuore per essere stato derubato del cappotto, sognato e accarezzato come aspirazione unica di vita, dopo sacrifici inauditi, come l’abolizione della candela la sera o la rinuncia al pasto quotidiano.

Akakij Akakievič può essere considerato un antesignano del rag. Ugo Fantozzi, l’impiegato servile umiliato dal capo e deriso dai colleghi.
La figura del rag. Fantozzi fu concepita da Paolo Villaggio mentre lavorava come impiegato all’Italsider di Genova, dove fu testimone di parecchi episodi di servilismo ed arrivismo, che poi furono ingigantiti con vena ironica nei film. Le vicende di Fantozzi ci inducono a riflettere sul tema delle relazioni all’interno di un’azienda e su quello della sudditanza psicologica verso il potere costituito.
La sudditanza psicologica è un fenomeno in base al quale una persona si sente inferiore ad un’altra, prova timore e vi si sottomette.

Un tempo tra le persone che lavoravano nelle aziende venivano posti dei paletti organizzativi fatti di ruoli ben definiti e di regole procedurali; oggi, con la destrutturazione dell’organizzazione, è la relazione con gli altri ad essere al centro della scena aziendale.
Per comprendere come si instaurano le relazioni e come si verifica il fenomeno della sudditanza psicologica all’interno di un’organizzazione mi pare quanto mai adeguato fare riferimento all’approccio dell’Analisi Transazionale.

Il padre dell’Analisi Transazionale era uno psichiatra, Eric Berne (Montréal 1910 – 1970) secondo il quale la personalità si può suddividere in tre parti, denominate “stati dell’Io” (E. Berne, 1961). Il modello degli stati dell’Io ci aiutano a comprendere come funzioniamo e come esprimiamo la nostra personalità in termini di comportamento, ci permette di leggere le relazioni con l’Altro e di attuare un miglioramento o un cambiamento nelle diverse situazioni, anche in azienda, dove gli stati dell’Io si esprimono ed entrano continuamente in relazione con gli altri. Ogni nostra azione ed ogni nostro comportamento provengono, secondo Eric Berne, da uno dei seguenti stati dell’Io: stato dell’Io Genitore, stato dell’Io Bambino, stato dell’Io Adulto.

Lo stato dell’Io Genitore è il campo dell’appreso, è la parte di noi che comprende i valori, il senso del dovere, i giudizi, le ideologie. In questo stato ci comportiamo in un modo che ci è stato proposto da altri: i genitori, una guida spirituale, un insegnante….
Lo stato dell’Io Bambino è il campo dell’emotività, è la parte di noi che comprende i nostri sentimenti, le nostre emozioni, i nostri stati d’animo.
Lo stato dell’Io Adulto è il campo del razionale, è la parte di noi che raccoglie le informazioni, analizza i dati, li sintetizza, è la nostra parte capace di pensiero logico.

Per costruire relazioni sane anche sul posto di lavoro, noi tutti abbiamo bisogno di tutti e tre gli stati dell’Io: abbiamo bisogno di norme, di regole e di valori che, una volta fatti nostri, diventano il Genitore; abbiamo bisogno dell’Adulto per risolvere problemi ed affrontare il lavoro in modo competente ed efficace; abbiamo infine bisogno del Bambino per poterci esprimere spontaneamente, per sollecitare la nostra creatività e sfruttare l’intuizione.
Quando interagiamo con gli altri assumiamo diversi atteggiamenti, ovvero assumiamo quella che in Analisi Transazionale viene definita “posizione relazionale”, cioé il valore che ogni persona attribuisce a se stessa, agli altri ed alla propria relazione con loro.
Si tratta in pratica dell’apprezzamento che diamo a noi stessi e agli altri coi quali interagiamo.

Riassunte, le quattro posizioni sono le seguenti:
IO SONO OK, GLI ALTRI NO: è un atteggiamento caratterizzato da una sovrastima di se stessi associata ad una sfiducia generalizzata nelle capacità degli altri. Egocentrismo, sospettosità, timore, conflitto, svalutazione sono le caratteristiche abituali nell’interazione con gli altri.
IO NON SONO OK, GLI ALTRI SI: timidezza, insicurezza, auto-svalutazione, forme di ansia, ricerca di approvazione, conferma di stima, difese psicologiche, rigidità nelle transazioni sono la caratteristiche di questo atteggiamento.
IO NON SONO OK, GLI ALTRI NEPPURE: questo atteggiamento è caratterizzato da una sostanziale sfiducia e diffidenza verso le altre persone e verso il sistema (azienda, società, stato…), unitamente ad una fondamentale insicurezza nelle proprie possibilità. E’ l’atteggiamento meno proficuo nell’interscambio aziendale-sociale.
IO SONO OK, GLI ALTRI PURE: è un atteggiamento contraddistinto da una sana fiducia nelle proprie potenzialità e capacità, unitamente ad un’apertura verso l’Altro ed al piacere di lavorare in sinergia con gli altri, ai quali si riconosce volentieri la possibilità di essere altrettanto bravi. E’ senza dubbio l’atteggiamento più maturo, che presuppone un armonico funzionamento delle tre componenti della personalità ed una orchestrazione da parte dello stato dell’Io Adulto ben sviluppata.

L’unico atteggiamento veramente sano, che porta a costruire, anche all’interno di un’organizzazione, relazioni sane, è il quarto citato (IO SONO OK, GLI ALTRI PURE); è l’unico atteggiamento che permette di costruire relazioni basate sulla stima e sul rispetto reciproco. Tutte le altre tre posizioni (IO SONO OK, GLI ALTRI NO; IO NON SONO OK, GLI ALTRI SI; IO NON SONO OK, GLI ALTRI NEPPURE) portano a situazioni altamente improduttive, che vanno dai conflitti interpersonali alla sudditanza psicologica, dalla sfiducia all’insicurezza, dalla rabbia alla frustrazione.

Per uscire dunque sani “dal Cappotto di Gogol’” ciascuno in azienda dovrebbe imparare a riconoscere ed approfondire eventuali situazioni critiche, aumentare la conoscenza di sé, potenziare le proprie capacità relazionali, superando vecchi schemi limitanti costruiti nel corso della propria vita; insomma, per dirla con le parole dell’Analisi Transazionale, “rivedere il proprio Copione”.

Il bullismo infantile: gli effetti negativi a lungo termine in età adulta

Con il termine bullismo s’intende definire un comportamento aggressivo ripetitivo nei confronti di chi non è in grado di difendersi. Solitamente, i ruoli del bullismo sono ben definiti: da una parte c’è il bullo, colui che attua dei comportamenti violenti fisicamente e/o psicologicamente e dall’altra parte la vittima, colui che invece subisce tali atteggiamenti. La sofferenza psicologica e l’esclusione sociale sono sperimentate di sovente da bambini che, senza sceglierlo, si ritrovano a vestire il ruolo della vittima subendo ripetute umiliazioni da coloro che invece ricoprono il ruolo di bullo.

Un numero crescente di studi ha cercato, nel tempo, di comprendere le dinamiche che s’innescano e si mantengono negli atti di bullismo. Precedenti ricerche hanno trovato un legame tra l’aggressività fisica e psicologica e un maggiore rischio di problemi di salute mentale durante l’infanzia, come bassa autostima, scarso rendimento scolastico, depressione e un aumento del rischio di suicidio (Kaltiala-Heino et al., 1999; Seals & Young, 2003; Glew et al., 2005; Klomek et al., 2007; Espelage & Holt, 2013). Meno, invece, si conosce riguardo alla salute psicologica a lungo termine di adulti che, da bambini, erano bulli o vittime di bullismo.

Uno studio recentissimo effettuato da un gruppo finlandese (Sourander et al., 2015) e pubblicato sulla celebre rivista internazionale JAMA Psychiatry, ha preso in esame le diverse sfaccettature del bullismo. La ricerca, iniziata nel 1989, può essere considerata a tutti gli effetti il più grande studio longitudinale che prende in esame il bullismo e i suoi effetti negativi a lungo termine. Nello studio, i ricercatori hanno analizzato i dati raccolti su circa 5.000 bambini di otto anni di età.

 

Gli effetti a lungo termine del bullismo infantile

Le informazioni erano raccolte attraverso degli specifici questionari somministrati ai bambini, ai genitori e agli insegnanti. Successivamente, i bambini erano sottoposti a follow-up tra i sedici e i ventinove anni di età, periodo in cui venivano esaminati eventuali sviluppi di disturbi psichiatrici. Il dato interessante è che lo studio, prendeva in esame, non solo i bambini vittime di bullismo ma anche gli stessi bambini bulli. Infatti, la somministrazione dei questionari nell’infanzia, aveva determinato la divisione in quattro gruppi, che successivamente in età adulta sarebbero stati sottoposti a ulteriori indagini per verificare la presenza o meno di disturbi psichiatrici. I quattro gruppi erano così suddivisi: 1) bambini che non erano coinvolti in atti di bullismo (non erano né vittime né carnefici) 2) le vittime, esposte di frequente ad atti di bullismo 3) i bulli 4) bambini che di frequente erano bulli ma che altrettanto frequentemente erano vittime di bullismo.

I risultati della ricerca mostrano con chiarezza che i bambini di otto anni esposti di frequente al bullismo possono sviluppare diverse psicopatologie da adulti, anche in assenza di sintomi psichiatrici infantili. In particolare, secondo il gruppo di Sourander e colleghi, l’esposizione a comportamenti aggressivi nell’infanzia è associata in età adulta a dipendenze da sostanze, psicosi e soprattutto depressione.
Parlando di cifre, sembra che il 20% di bambini esposti a prevaricazioni da parte dei bulli, hanno sviluppato poi in età adulta un problema di salute mentale. Inoltre, tra i quattro esaminati, il gruppo che aveva una percentuale più alta (circa il 31%) di psicopatologie in età adulta era quello composto da soggetti che in infanzia erano stati sia bulli sia vittime, con un’alta associazione con depressione, disturbi d’ansia, schizofrenia e abuso di sostanze.

La speranza è che studi come questo, aumentino la sensibilizzazione sociale attorno ad un tema così delicato come quello del bullismo. L’obiettivo nel futuro sarà di fornire maggiori strumenti agli insegnanti e ai genitori per valutare, prevenire e, lì dove necessario, intervenire su comportamenti aggressivi sempre più frequenti tra bambini.

Gli emoticons imbarazzati e la vergogna nella cultura cinese

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

In diversi studi appare evidente come la vergogna sia un’emozione ipercognitivizzata in Cina, cioè un’emozione con molteplici complessità e granularità concettuali che si riflettono anche nel linguaggio: secondo Li, Wang e Fischer (2004) nella lingua cinese vi sarebbero ben 113 termini prototipici per riferirsi alla vergogna.

Appena sbarchi in Cina, nel caso in cui la permanenza sia a medio-lungo termine, è essenziale per facilitarsi la vita scaricare Wechat: è una sorta di mix tra facebook e whatsapp, da alcuni anche conosciuto in Italia, estremamente popolare tra i cinesi. Come ogni chat che si rispetti, Wechat anche qui ha degli emoticons, ma …che diavolo di emoticons sono??

Tre file di facce che arrossiscono, e mentre arrossiscono deviano lo sguardo, alzano impaurite gli occhi al cielo, hanno gli occhi a girandola, mettono le mani giunte in segno di scuse…il rossore sotto gli occhi, sulle gote, arrossiscono mentre sorridono, arrossiscono mentre la bocca è ricurva verso il basso, arrossiscono mentre chiudono gli occhi, ridono con gli occhi chiusi e una mano davanti alla bocca; vi sono persino tre faccine completamente rosse, una con una goccia di sudore che cola dalla fronte, l’altra con il musino accigliato, e la terza addirittura con le lacrime.

Oh mio dio dove sono finita? E’una tempesta di vergogna e imbarazzo, peccato io, italiana, abbia solo due categorie, solo pochissimi termini in mente per orientarmi in questa complessità. E infatti mi perdo.
La vergogna è una emozione focale o ipercognitivizzata nella cultura cinese. Cosa significa ? Nei suoi studi sui concetti emotivi, Levy (1973) asserisce che una specifica lingua fornisce un ampio repertorio di concetti per certe emozioni (emozioni ipercognitivizzate) e un repertorio concettuale più ristretto per altre (emozioni ipocognitivizzate).

In diversi studi appare evidente come la vergogna sia un’emozione ipercognitivizzata in Cina, cioè un’emozione con molteplici complessità e granularità concettuali che si riflettono anche nel linguaggio: secondo Li, Wang e Fisher (2004) nella lingua cinese vi sarebbero ben 113 termini prototipici per riferirsi alla vergogna. Quanti ne possiamo contare in italiano? Forse ad andar bene sei o sette, probabilmente meno.

Ma come è organizzato il concetto di vergogna nella mente cinese?
Il confucianesimo concettualizza la vergogna non solo come un’emozione ma addirittura come una qualità umana che consente alla persona di autoanalizzarsi e di automotivarsi verso cambiamenti della propria condotta moralmente e socialmente desiderabili. Se qualcuno fa qualcosa di socialmente inappropriato, ammettere i propri errori e avere il desiderio di cambiare sè stessi è ritenuto un importante atto di espiazione e il mostrare vergogna risulta essere un elemento parimenti rilevante.

Guardando l’altro lato della medaglia, se una persona dimostra di non avere un senso di vergogna (sense of shame) è percepita come al di fuori dei limiti della moralità: quasi più grave della condotta errata è la mancanza di vergogna e del timore di perdere la faccia (Zhai, 1995).
In uno studio di Li e colleghi (2004) e’ stata effettuata un’estesa analisi lessicale dell’insieme di termini che in mandarino si riferiscono all’esperienza emotiva della vergogna.

Dall’analisi è emerso come vi siano due categorie sovraordinate: la categoria “stati di vergogna” (shame state) e la categoria “reazioni alla vergogna” (“reaction to shame”). La prima macrocategoria si riferisce alle diversificate tipologie di vergogna direttamente esperite dal soggetto in specifici episodi. In tale categoria rientrano anche 13 termini che si avvicinano piu al concetto occidentale di colpa.
Invece, la seconda macrocategoria “reazioni alla vergogna” riguarda le reazioni del soggetto a fronte di atti vergognosi compiuti da altri, di fronte a episodi inducenti imbarazzo e vergogna in cui non si è protagonisti ma solo osservatori.

Ben il 43% dei termini lessicali analizzati ricade in questa categoria, indicando quanto sia importante nella mente dell’individuo cinese la reazione emotiva correlata all’osservazione dei comportamenti degli altri, cui si sente interconnesso per definizione.
Inutile dire che nelle mie comunicazioni wechat mi sento una primitiva della comunicazione virtuale non verbale utilizzando solo faccina che ride e faccina imbronciata, onde evitare inutili fraintendimenti emotivi!

Come vivere le emozioni negative: il ruolo delle credenze e dei significati

Essere cronicamente di cattivo umore e provare in continuazione emozioni negative come rabbia, ansia e tristezza è generalmente correlato nel lungo termine a una vita sociale più povera e a peggiori condizioni di salute fisica. Ad ogni modo gli effetti delle emozioni a valenza negativa non sarebbero uniformi.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Emotion vi sarebbe una differenza cruciale in quanto le persone attribuiscono valore, significato e persino una quota di soddisfazione agli stati emotivi negativi: coloro che in qualche modo vedono un significato – e dunque in qualche misura apprezzano – le emozioni negative subiscono in misura minore gli impatti negativi a lungo temine di queste stesse emozioni.

 

Atteggiamenti e credenze sulle emozioni negative

I ricercatori hanno intervistato circa 300 soggetti tedeschi riguardo i loro atteggiamenti e credenze sulle emozioni negative e positive, misurando attraverso self-report anche il benessere fisico e mentale. Inoltre è stato monitorato per tre settimane (per tre volte al giorno) il livello dell’umore e la presenza di emozioni dei soggetti attraverso l’uso di smartphone.

Analizzando i dati è risultato che la relazione tra la frequenza di umore / stati emotivi negativi ed esiti peggiori in termini di salute fisica e mentale varia in funzione degli atteggiamenti che le persone hanno nei confronti delle emozioni negative. I soggetti che hanno credenze e atteggiamenti di non accettazione e rifiuto delle emozioni negative ne pagano un prezzo più alto; viceversa coloro che hanno atteggiamenti più positivi verso le emozioni negative mitigano gli effetti di tali emozioni sulla salute e sul benessere.

Leggendo i risultati, possiamo avventurarci in diverse ipotesi esplicative: primo, è possibile che alle emozioni negative e a un livello dell’umore deflesso non si aggiungano, in certe persone, emozioni secondarie altrettanto negative riguardo l’essere arrabbiati, tristi o in ansia. Quindi, riconoscere il valore, il significato e la funzione degli stati negativi potrebbe aiutare a moderare il distress e l’attivazione fisiologica prolungata associata a tali stati.

In tal senso anche la psicologa americana Kelly McGonigal in un simpatico talk su Ted Talk ha rimesso in discussione anni di carriera clinica, esplicitando che solo ora dopo anni, la ricerca empirica ha evidenziato come non sia lo stress dannoso di per sè bensì sono le credenze negative sullo stress ad aumentarne gli effetti nocivi.

Un caveat dello studio risiede nel fatto che i soggetti coinvolti nello studio sono esclusivamente tedeschi: è plausibile ipotizzare dunque anche che vi sia una specificità culturale, tale per cui ad esempio le persone di cultura tedesca sarebbero meno motivate e meno inclini degli americani ad evitare le emozioni negative.

Pur necessitando di altri studi per replicare i risultati possiamo affermare con convinzione l’importanza di lavorare sugli atteggiamenti, sulle credenze e sulle emozioni secondarie che spesso accompagnano i nostri stati emotivi, riflettendo e riconoscendo significati e funzioni di ciò che spesso ci appare soltanto nocivo e inutile.

Emozioni negative: Kelly McGonigal: How to make stress your friend

Fonte: Kelly McGonigal: How to make stress your friend (TED TALK VIDEO) riprodotto su licenza Creative Commons

Il piccolo Albert – I grandi esperimenti di psicologia nr. 1

#1: Il piccolo Albert (John B. Watson & Rosalie Rayner, 1920)

Con l’esperimento del piccolo Albert introduciamo una rubrica in cui vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

#1: Il piccolo Albert (John B. Watson & Rosalie Rayner, 1920)

Jhon Broadus Watson, nato nel 1878, è conosciuto come il padre del comportamentismo. Siamo nel periodo in cui la psicologia adotta sempre di più una metodologia sperimentale che la avvicina alle altre scienze e l’importante diventa cogliere le relazioni tra ambiente e comportamento. Per questo motivo appena ottiene una cattedra alla John Hopkins University si fa allestire un laboratorio per lo studio del comportamento umano e animale. Negli anni del primo dopoguerra, la scienza psicologica fa i bagagli dal Vecchio Mondo e si trasferisce in America, dove troverà fertile terreno di studiosi pronti ad accoglierla.

Rosalie Rayner, classe 1898, è stata studentessa, collaboratrice e in seguito moglie di Watson. Non ancora sposati, hanno condotto l’esperimento noto come “Piccolo Albert”, dal nome del bambino partecipante allo studio, chiamato Albert B (da qui il nome dell’esperimento del piccolo Albert).

Torniamo quindi negli anni 20, cercando di capire quali erano i presupposti alla base dello studio. In letteratura il dibattito è relativo alla possibilità o meno di originare diversi tipi di risposte emotive nei soggetti, ma mancano ancora evidenze scientifiche a supporto di una posizione. Watson e Morgan hanno appena elaborato una teoria, che afferma che nell’infanzia vi è un limitato numero di pattern di risposta emotiva osservabili, riconducibili a paura, rabbia e amore. S’immaginano anche che sia possibile elicitare questi pattern con stimoli piuttosto semplici, mentre nell’adulto la situazione sembra essere molto più complessa e quindi più difficile da studiare.

L’ipotesi di partenza afferma che nel bambino si possono introdurre, attraverso il condizionamento ambientale, nuovi stimoli in grado di suscitare una delle tre emozioni identificate. Casualità, l’emozione scelta per l’esperimento è la paura.

L’esperimento viene proposto a una balia dell’Harriet Lane Home for Invalid Children, da poco diventata madre di un bel bimbo sano e forte, su cui, affermano gli autori “ci sembrava che l’esperimento qui illustrato potesse arrecare un danno relativamente lieve”. Il piccolo Albert cresce all’interno dell’ospedale con la madre, quindi può essere facilmente a disposizione dei ricercatori.
A 8 mesi e 26 giorni Albert affronta il suo primo test, per verificare se un suono potesse elicitare paura. Uno sperimentatore distrae il bambino, mentre un altro colpisce una sbarra di ferro con un martello. All’inizio Albert sembra solo spaventato, ma alla terza volta che sente il rumore scoppia a piangere.

Dopo pochi giorni al bambino vengono proposti una serie di stimoli per scegliere quali utilizzare come target per suscitare reazioni di paura: un topo bianco, un coniglio, un cane, una scimmia, maschere con o senza i capelli, della bambagia, un giornale infuocato e molto altro. Albert passa a pieni voti questo test, non mostrando paura in nessuna delle situazioni presentate.
Questi dati preliminari fanno sorgere alcune domande nei ricercatori: possiamo suscitare paura di uno stimolo riscontrato come neutro (ad esempio il topo bianco) associandoci il rumore del martello sulla barra? Può questo condizionamento essere trasferito ad altri stimoli? Se si stabilisce in maniera stabile, come possiamo rendere quest’associazione reversibile? Da queste domande inizia la parte più interessante della procedura sperimentale. Gli autori hanno pubblicato i loro appunti presi in laboratorio:

11 mesi e 3 giorni
1. Il topo bianco viene mostrato a Albert. Lui cerca di raggiungerlo con la mano sinistra. Non appena lo tocca la barra viene colpita proprio dietro la sua testa. Il bambino ha sussultato ed è caduto in avanti con la faccia nel materasso. Non ha pianto, comunque.
2. Non appena la mano destra tocca il topo la barra viene nuovamente colpita. Il bambino sussulta di nuovo, cade in avanti e comincia a piagnucolare.

Per non traumatizzare eccessivamente il piccolo Albert, gli studiosi decidono di concedergli una settimana di pausa.

11 mesi e 10 giorni
1. Subito viene presentato il topo senza suono. C’era [da parte di Albert] una costante fissazione, ma non da subito la tendenza ad avvicinarlo. Il topo è vicino, iniziano tentativi di raggiungerlo con la mano destra. Quando il topo si avvicina alla mano sinistra, viene ritratta prima del contatto. Si è così visto che le stimolazioni della settimana precedente hanno avuto un effetto.

La presentazione dei due stimoli associati (topo + rumore) viene proposta 4 volte e seguita dalla presentazione del solo topo. Tutto questo viene ripetuto per due volte. Alla decima prova:

[blockquote style=”1″]non appena viene mostrato il topo il bambino comincia a piangere. Quasi immediatamente si gira verso sinistra, cade sul lato, si mette a gattoni e comincia a allontanarsi così rapidamente che viene fermato a fatica prima di raggiungere il bordo del tavolo.[/blockquote]

LEGGI ANCHE: Little Albert Experiment, un fumetto di Matteo Farinella

Little Albert Experiment, by Matteo Farinella 2012

Successivamente, gli autori scoprono che la risposta condizionata di paura è stata generalizzata agli altri animali, ma non solo: anche alla pelliccia e alla bambagia. Il condizionamento si è allargato includendo altri stimoli apparentemente simili al tatto, fino a comprendere i capelli di Watson e la maschera di Babbo Natale. Dopo circa tre mesi, all’età di 1 anno e 21 giorni, il piccolo Albert mostra ancora un’attivazione negativa, sebbene in misura ridotta, rispetto agli stimoli presentati. Gli autori concludono che queste esperienze potrebbero rivelarsi quindi stabili e modificare la personalità di Albert nel corso della sua vita.

Giunti a questo punto, Watson e Rayner vogliono verificare se sia possibile attuare il processo inverso, desensibilizzando il piccolo Albert nei confronti degli stimoli utilizzati. Tuttavia il bambino si allontana dell’Harriet Lane Home for Invalid Children, rendendo impossibile continuare la sperimentazione. Gli autori quindi espongono quali sarebbero stati gli step successivi, se ne avessero avuto la possibilità.

  • Esporre continuamente il bambino agli stimoli, con lo scopo di abituarlo alla loro presenza, fino a estinguere l’attivazione emotiva negativa ad essi connessa.
  • Tentare un “ricondizionamento” in cui venivano presentati gli stimoli utilizzati associandoli a una sensazione fisica piacevole, attraverso il contatto con zone erogene.
  • Associare agli stimoli non il rumore negativo, ma delle caramelle.
  • Utilizzare gli stimoli in maniera differente, svolgendo attività costruttive che prevedano un approccio diverso.

Il piccolo Albert per fortuna se n’è andato. Questo studio da pelle d’oca è condotto nel 1920 e sicuramente l’etica non è la prima preoccupazione nei laboratori delle università. In ambito psicologico l’esperimento del piccolo Albert è ampiamente citato e ovviamente criticato. Tanto che nel 1979 Harris pubblica un articolo dal titolo “Cosa è successo al piccolo Albert?”, denunciando il fatto che in diversi testi universitari non venivano esposti correttamente i dati dell’esperimento, tralasciando ad esempio i dettagli che potevano rendere lo studio eticamente inaccettabile o aggiungendo un lieto fine in cui Watson riesce a liberare Albert dalle paure apprese attraverso il condizionamento (Engle & Snellgrove, 1969; Gardiner, 1970; Whittaker, 1965).

Lo stesso Watson, in alcuni lavori (ad esempio: Watson & Watson, 1921) tralascia alcuni dettagli della sperimentazione condotta. Ad oggi questo studio mantiene il suo ruolo di punto di partenza per la corrente comportamentista che da lì si è sviluppata. Lungi dal voler difendere tale metodologia, occultare il passato o addolcire una sperimentazione non sono strade percorribili all’interno della comunità scientifica, tantomeno in professionisti in formazione, come è accaduto negli anni ’60 e ’70. Per questo il lavoro di Watson e Rayner è stato presentato così come loro l’hanno esposto nel 1920. Il piccolo Albert probabilmente non l’hanno più rivisto.

Guarda il video dell’esperimento:

Smartphone che passione…..o che malattia?! La nomofobia

Senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”: per descrivere questo fenomeno è stato coniato un nome, Nomofobia, ovvero la Sindrome da Disconnessione. 

 Sara Costi e Irene Desimoni – Open School Modena

Prima della nomofobia: quando la tecnologia iniziava a cambiare in meglio le nostre vite

Era il 1925 quando l’ingegnere scozzese John Logie Baird fece partire la storia della televisione, solo qualche anno dopo esattamente nel 1928, in America l’inventore e imprenditore Martin Cooper creò il primo telefono mobile, ancora nel 1941 in piena Seconda Guerra Mondiale, nasceva il primo computer della storia, questo grazie a un’ingegnere tedesco con l’hobby della pittura. Da quegli anni il progresso in campo telematico ed informatico ha fatto passi da gigante.

Con l’espressione ‘terza rivoluzione industriale‘ non si indica solamente un processo di trasformazione socio-economico, ma anche una rivoluzione nel campo della tecnologia, nella comunicazione di massa e nell’informatica. In particolare, non possiamo di certo negare i benefici dell’invenzione del telefonino mobile: per chi era abituato alle classiche cabine telefoniche prima a gettoni e poi a tessera, o dei primi cordless, il cellulare è stata una vera rivoluzione, al pari della prima lampadina o della prima ruota.

Le persone finalmente hanno smesso di andare alla ricerca di una cabina telefonica per chiamare i propri amici, familiari o per fare i ben conosciuti scherzi telefonici. La comodità del cellulare è proprio la reperibilità della persona, possiamo essere contattati ovunque noi siamo sia tramite una chiamata che tramite un messaggino e questo ha reso molto più semplice la comunicazione.

Inoltre, la tecnologia ci spinge a cambiare, ad essere sempre aggiornati e in continua connessione l’uno con l’altro. Ma quando questo diventa troppo e la connessione diventa lontananza invece che vicinanza? Quando non si parla più di semplice utilizzo, ma di una vera e propria dipendenza e, appunto, di nomofobia?

Negli ultimi anni studiosi appartenenti a differenti gruppi di ricerca, in varie parti del mondo, si sono sempre più interessati alla relazione tra le persone e i telefoni cellulari e ad altri strumenti di connessione come Tablet e Pc. Anche se la tecnologia ci consente di sbrigare il nostro lavoro più velocemente e con efficienza, di tenerci informati in tempo reale su quello che accade nel mondo e di poter contattare qualunque persona in qualunque momento, non bisogna dimenticare che i dispositivi mobili possono avere un effetto pericoloso sulla salute, specialmente se utilizzati in modo inappropriato.

Nomofobia: descrizione del fenomeno

In un intervista condotta ad aprile 2015 da ‘Il Fatto Quotidiano’ è stato chiesto ad un gruppo di persone, di diverse età, se riuscirebbero a stare senza il loro smartphone: la risposta è stata quasi del tutto unanime: “senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”. Per descrivere questo fenomeno è stato coniato un nome, Nomofobia (Sindrome da Disconnessione), ed è composto dal prefisso anglosassone abbreviato no-mobile e dal suffisso fobia e si riferisce alla paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile.

Una sensazione di panico vi assale non appena vi accorgete di aver dimenticato lo smartphone a casa? Non riuscite a resistere più di dieci minuti senza controllare le notifiche e pensate che stia squillando anche quando non è così? Se avete risposto si ad almeno due domande su tre, allora potreste aver sviluppato una vera dipendenza dal vostro smartphone.

Nella persona con nomofobia s’instaura la sensazione di perdersi qualche cosa se non si controlla costantemente il cellulare e il rischio è che si inneschi un meccanismo di dipendenza, del tutto analogo a una tossicodipendenza.

Quando si entra nel circolo vizioso della nomofobia, si ha sempre bisogno di aumentare il dosaggio quindi si mettono in atto una vasta gamma di comportamenti disfunzionali come stare più tempo al telefono, aspettare la risposta dell’altro (magari sollecitandolo), vedere che cosa accade agli amici nei diversi social network, commentare e condividere, non spegnere mai il dispositivo neanche nelle ore notturne, svegliarsi di notte e controllare che non sia cambiato niente, portarsi lo smartphone in luoghi non appropriati (es. bagno, chiesa ecc), esattamente come accade con droghe e alcol.

La nomofobia: uno sguardo alle ricerche

Secondo David Greenfield professore di psichiatria all’Università del Connecticut, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze in quanto causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa: in altre parole, incoraggia le persone a svolgere attività che credono gli daranno piacere. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).

Secondo un sondaggio condotto nel 2008 dall’ente di ricerca britannico YouGov per conto di Post Office Telecom su un campione di 2.163 persone, dal quale successivamente è stato coniato il nome della sindrome, più di sei ragazzi su dieci tra i 18 e i 29 anni vanno a letto in compagnia del telefono e oltre la metà degli utenti di telefonia mobile (quasi il 53%) tende a manifestare stati d’ansia quando rimane a corto di batteria o di credito, o senza copertura di rete oppure senza il cellulare. La ricerca evidenzia inoltre che gli uomini tendano ad essere più ansiosi delle donne e che circa il 58% degli uomini e il 48% delle donne della popolazione soffrono di questa nuova fobia.

Nel 2009 anche in India è stata condotta una ricerca dal Dipartimento di Medicina di Comunità ed è stata riscontrata questa nuova forma di sindrome, ma con incidenza minore, circa nel 18% dei soggetti e non vi sono presentate differenze rispetto al genere (Dixit S. at all, 2010).

Secondo un altro studio americano effettuato da Morningside Recovery, un centro di riabilitazione mentale di Newport Beach, ha dimostrato che milioni di Americani, circa i 2/3 della popolazione, sono affetti da nomofobia e che molti di loro raggiungono stati elevati di agitazione incontrollata se vengono a conoscenza di non possedere il proprio cellulare.

Nonostante ci siano all’attivo ancora un numero ridotto di ricerche sul tema, nel 2014, in Italia, Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente, studiosi dell’Università di Genova, avevano proposto di inserire la nomofobia nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V), recentemente revisionato. La nomofobia sarebbe caratterizzata da “ansia, disagio, nervosismo e angoscia causati da essere fuori dal contatto con un telefono cellulare o un computer” e verrebbe utilizzata come un guscio protettivo o uno scudo e come mezzo per evitare la comunicazione sociale.

Nomofobia: come riconoscersi nella sindrome

I ricercatori italiani descrivono alcuni campanelli d’allarme per poter riconoscere se si sta ricadendo in questa sindrome:

  • Usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo su di esso;
  • Avere uno o più dispositivi;
  • Portare sempre un caricabatterie con sé per evitare che il cellulare si scarichi;
  • Sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile nelle vicinanze o non viene trovato o non può essere utilizzato a causa della mancanza di campo, perché la batteria è esaurita e/o c’è mancanza di credito, o quando si cerca di evitare per quanto possibile, i luoghi e le situazioni in cui è vietato l’uso del dispositivo (come il trasporto pubblico, ristoranti, teatri e aeroporti);
  • Mantenere sempre il credito;
  • Dare a familiari e amici un numero alternativo di contatto e portando sempre con sé una carta telefonica prepagata per effettuare chiamate di emergenza se il cellulare dovesse rompersi o perdersi o, ancora, se venisse rubato;
  • Guardare lo schermo del telefono per vedere se sono stati ricevuti messaggi o chiamate. In questo caso si parla di un particolare disturbo che definito ringxiety, mettendo insieme la parola “squillo” in inglese e la parola ansia.
  • Controllo costante del livello di batteria del dispositivo per assicurarsi che non si possa scaricare per eventuali operazioni importanti;
  • Mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno);
  • Dormire con cellulare o tablet a letto;
  • Utilizzare lo smartphone in posti poco pertinenti.

I ricercatori raccomandano di evitare di considerare tutti i comportamenti sopracitati come patologici.

Dunque si può parlare di nomofobia quando una persona prova una paura sproporzionata di rimanere fuori dal contatto di rete mobile, al punto da sperimentare effetti fisici collaterali simili all’attacco di panico come mancanza di respiro, vertigini, tremori, sudorazione, battito cardiaco accelerato, dolore toracico, nausea.

 

La nomofobia come dipendenza patologica?

Nonostante nel nome compaia la sigla “fobia” e che i sintomi siano molto similari a quelli dell’ansia, uno studio condotto da ricercatori del Panic and Respiration Laboratory, dell’Università Federale di Rio de Janeiro (2010) sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.

I ricercatori avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento della nomofobia, ma che i soggetti affetti da questo tipo d psicopatologia rispondano meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche (King A.L. at all., 2010).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la dipendenza patologica come:

Quella condizione psichica e talvolta anche fisica, causata dall’interazione tra una persona e una sostanza tossica, che comporta risposte comportamentali e da altre reazioni, e che determina un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione.

Le nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti disfunzionali e anomali quali il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da TV, da internet, lo shopping compulsivo, le dipendenze dal sesso e dalle relazioni affettive, le dipendenze dal lavoro e alcune devianze del comportamento.

Lo studioso Davis R.A. (1999) ha utilizzato un modello cognitivo-comportamentale per spiegare lo sviluppo e il mantenimento di un disturbo connesso alla nomofobia, il Disturbo da abuso della rete telematica o l’Internet Addiction Disorder (IAD). Secondo questo approccio, l’IAD deriva da cognizioni disadattive unite a dei comportamenti che intensificano o mantengono la risposta disadattiva. Fattore chiave è il rinforzo che l’individuo riceve dall’evento. Se il rinforzo è positivo, la persona sarà condizionata a compiere più frequentemente la medesima attività al fine di raggiungere una reazione fisiologica simile.

Come in ogni processo di condizionamento, gli stimoli associati con lo stimolo primario diventano rinforzi secondari e agiscono rinforzando la patologia (Şenormancı at all., 2012). Se si fa ricadere la Nomofobia all’interno delle dipendenze, alla stregua dell’IAD, allora il trattamento dovrebbe essere quello attualmente utilizzato per essa.

Il trattamento delle nuove dipendenze viene attualmente realizzato sulla base di caratteristiche clinico-psicopatologiche simili ai disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo e del controllo degli impulsi, ai disturbi da uso di sostanze e ai disturbi dell’umore, soprattutto quelli appartenenti allo spettro bipolare (Casha at all., 2012). La dipendenza dalle nuove tecnologie è sicuramente in fase di crescita, ma purtroppo viene spesso confusa con situazioni psicopatologiche diverse.

Pericolo nomofobia: chi sono i soggetti a rischio?

Ulteriori importanti studi che indagano la nomofobia sono stati portati avanti da Francisca Lopez Torrecillas, docente presso il dipartimento di personalità e di valutazione psicologica e trattamento delle dipendenze dell’Università di Granada, la quale ha svolto una ricerca su campo con giovani adulti tra i 18 ei 25 anni, scoprendo che la maggior parte delle persone colpite da questa condizione sarebbero giovani adulti con bassa autostima e problemi nelle relazioni sociali, i quali sentono il bisogno di essere costantemente connessi e in contatto con gli altri attraverso il telefono cellulare e che di solito mostrano noia quando si effettuano altre attività ricreative derivati da un uso patologico di telefoni cellulari (Lopez Torrecillas F., 2007).

Gli adolescenti appaiono i soggetti prevalentemente a rischio di sviluppare questa nuova forma di dipendenza patologica, ma non bisogna sottovalutare l’impatto che la tecnologia può avere sulle nuove generazioni. Sono sempre più i genitori preoccupati perché i propri figli, anche in età infantile, passano sempre più tempo con computer, smartphone, tablet e giochi elettronici.

Sono i bambini cosiddetti digitali, termine coniato per indicare la generazione di bambini cresciuta nell’era del computer, tra smartphone, tablet, ADSL e Internet mobile, touchscreen e app .

Una piccola, ma significativa ricerca del 2012, commissionata da AVG, celebre casa di software che realizza antivirus e altri programmi per la sicurezza del computer, ha portato alla luce che oltre il 50% dei bambini tra i 2 e i 5 anni di età, sa già come giocare con un gioco per tablet di livello base, mentre appena l’11% di loro sa come allacciarsi le scarpe.

Il pericolo non è tanto per l’utilizzo precoce di questi dispositivi, i quali possono essere anche utilizzati come un’ arma per sviluppare le capacità cognitive del bambino, quanto piuttosto il prolungato utilizzo di smartphone e tablet che potrebbe portare ad un affaticamento eccessivo della vista e al rischio che il piccolo si isoli psicologicamente creandosi un mondo parallelo popolato solo da personaggi non reali, perdendo così il contatto e l’interesse verso le cose che lo circondano.

I pediatri della SIPPS (Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale), riuniti in convegno a Caserta, hanno parlato chiaro sottolineando il bisogno di creare linee guida per limitare il più possibile l’uso dei telefonini ai bambini, evitandone totalmente l’uso prima dei 10 anni e limitandone l’uso dopo tale età, un po’ come i nostri genitori facevano con la vecchia e cara televisione.

Non vi sono attualmente ricerche che possano considerare questa precocità di utilizzo un fattore predittivo di una futura nomofobia in quanto la Sindrome è nuova e ancora poco studiata, ciò però non toglie che un collegamento possa essere possibile o creare un fattore di fragilità.

Il rischio legato all’utilizzo degli smartphone in età precoce non è soltanto quello di poterne abusare e quindi essere soggetti ad una possibile dipendenza da smartphone o a nomofobia, ma anche quello di utilizzare il cellulare in modo inadeguato e incoerente con l’età del bambino/adolescente; è questo il caso del sexting, termine che deriva dall’unione delle parole inglesi sex (sesso) e texting (pubblicare testo).

Si può definire sexting l’invio e/o la ricezione e/o la condivisione di testi, video o immagini sessualmente esplicite/inerenti la sessualità. Spesso sono realizzate con il telefonino, attraverso il quale vengono diffuse con messaggi o e-mail in siti e chat. A volte lo scambio di queste immagini ritenute pornografiche sono inviate da minori, a volte a persone conosciuta, ma a volte anche a sconosciuti in cambio di denaro o ricariche. Spesso tali immagini o video, anche se inviate ad una stretta cerchia di persone, si diffondono in modo incontrollabile e possono creare seri problemi, sia personali che legali, alla persona ritratta.

Non sono rari casi di cronaca che vedono coinvolti minori i quali hanno subito bullismo o altre forme di discriminazione a causa di questo tipo di conversazioni. L’invio di foto che ritraggono minorenni al di sotto dei 18 anni in pose sessualmente esplicite configura infatti, il reato di distribuzione di materiale pedopornografico.

Un utilizzo intelligente degli smartphone per contrastare il rischio nomofobia

Il telefono cellulare se usato in modo appropriato e intelligente può assolvere a tre importanti funzioni psicologiche: regola la distanza nella comunicazione e nelle relazioni, gestisce la solitudine e l’isolamento assumendo quasi il ruolo di antidepressivo multimediale e permette di vivere e dominare la realtà regalando l’idea di poter essere presenti e capaci di fermare lo scorrere del tempo con uno o più scatti (Di Gregorio, 2003).

Ma dobbiamo tenere bene a mente che il rapporto con il cellulare è potenzialmente pericoloso per qualunque persona. E’ per questo che la prevenzione di questa forma di dipendenza è fondamentale quanto l’intervento su di essa nella sua forma più acuta.

Esiste infatti l’eventualità che, in un periodo della nostra vita o in un lasso di tempo particolarmente difficile della nostra esistenza, lo smartphone diventi un oggetto su cui canalizzare uno stato di disagio (affettivo, relazionale, lavorativo…) e acquisti più importanza della vita reale.

L’utilizzo sbagliato ed improprio del telefonino mobile potrebbe provocare non solo enormi divari fra le persone, ma anche portarle alla nomofobia: a chiudersi in se stesse, sviluppare insicurezze relazionali o alimentare paura del rifiuto, a sentirsi inadeguate e bisognose di un supporto anche se esterno e fine a se stesso (Lacohèe H. at all., 2003).

Pertanto, è importante auto istruirsi ad un rapporto equilibrato con il telefonino, concedendosi ogni tanto una qualche pausa dalla sua presenza confortante e rassicurante, ricordandosi che forse una vita realmente vissuta è più gratificante di una vita solo immaginata.

Il Mostro razionale: Insensibilità, Psicopatia e Antisocialità

Psicopatia: individuare detenuti con personalità psicopatica potrebbe consentire di intraprendere la costruzione di nuovi specifici sistemi trattamentali e detentivi all’interno degli istituti di pena (Wong & Olver, 2015).

Psicopatia & disturbo antisociale di personalità: i problemi legati alla diagnosi

La psicopatia, rimasta per anni una categoria nebulosa, avvolta da un fascino quasi misterioso, appare ora al centro di studi e lavori internazionali transculturali finalizzati alla messa a punto di nuovi strumenti di valutazione, così da permetterne l’utilizzo sia in clinica che nell’ambito della ricerca (Wilson et al., 2014).
In particolare, individuare detenuti con personalità psicopatica potrebbe consentire di intraprendere la costruzione di nuovi specifici sistemi trattamentali e detentivi all’interno degli istituti di pena (Wong & Olver, 2015).

Il presente lavoro si colloca nella prospettiva di indagare questa categoria diagnostica e le caratteristiche ad essa connesse all’interno di uno spaccato del sistema penitenziario italiano.
I termini “disturbo antisociale” e “psicopatia” (talvolta detta anche “sociopatia”) sono spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in realtà molti autori in letteratura sostengono esservi differenze importanti. Mentre molti importanti autori tendevano ad estendere il concetto di psicopatia ad un’ampia categoria, Hervey Cleckley, con la pubblicazione del suo libro The mask of sanity nel lontano 1941 (1976), produsse la descrizione più completa del decennio, ritenuta una pietra miliare per gli studi successivi. L’Autore dette rilievo ai tratti di personalità, come l’assenza del senso di colpa, l’incapacità di amare, il vuoto emozionale, la mancanza di scopi e l’impulsività, introducendo nuove osservazioni sulle caratteristiche psicopatiche. Egli asserì che questi soggetti si potevano trovare, oltre che nelle prigioni, nelle posizioni sociali più rispettabili: dottori, avvocati, politici e perfino psichiatri.

All’interno di alcune sue pubblicazioni Hare più tardi (1996), riprendendo i lavori di Cleckley, fa notare che questa lista include criteri che possono essere considerati sintomatici del disturbo di personalità antisociale, narcisistico, istrionico e borderline, descritti nel DSM. L’individuo psicopatico, infatti, si caratterizzerebbe per l’associazione di condotte antisociali e di alcuni specifici tratti di personalità, come il disprezzo senza pietà e rimorso per i diritti e i sentimenti degli altri e forme di “narcisismo aggressivo”.

Nella maggior parte della letteratura contemporanea del Nord America la psicopatia è divenuta sinonimo di Psychopathy Checklist (Skeem, Mulvey, & Grisso, 2003). Si tratta di uno strumento costituito da un insieme di dimensioni, che permettono al clinico di rilevare i vari tratti di personalità del soggetto. Oltre ad essere uno strumento diagnostico, la PCL si è rivelata un modo di concettualizzare la personalità psicopatica, attraverso un modello multidimensionale costituito da due fattori (Hart, et al., 1995).
Il fattore I, chiamato anche narcisismo aggressivo o distacco emotivo, si riferisce agli aspetti interpersonali/affettivi, specie quelli che coinvolgono i tratti narcisistici, come l’egocentrismo, la manipolazione, l’insensibilità e la mancanza di rimorso, che costituirebbero il “nucleo psicopatico” e sarebbero maggiormente in grado di predire il “recidivismo generale” dei soggetti.
Il fattore II, invece, definito devianza sociale o anche stile di vita cronicamente instabile ed antisociale, comprenderebbe l’impulsività, l’instabilità, l’irresponsabilità e i comportamenti antisociali, e sarebbe maggiormente capace di predire il “recidivismo violento”.

Secondo Hare (1996), comunque, il rapporto tra psicopatia e disturbo antisociale sarebbe asimmetrico nella popolazione forense; infatti, complessivamente, circa il 90% dei criminali diagnosticati come psicopatici secondo il suo specifico costrutto corrisponderebbero ai criteri del ASPD secondo il DSM, mentre soltanto dal 20 al 30% dei criminali con ASPD risulterebbero affetti da psicopatia.

Gli obiettivi dello studio

Nello specifico il lavoro si propone di indagare all’interno di un campione di detenuti di due Carceri Italiane:
1. I livelli di psicopatia (Hare, 1996)
2. misurare eventuali livelli di correlazione tra i due fattori della PCL-SV (Hart, et al., 1995) e alcune Scale Cliniche nell’MMPI-2

Sono stati inclusi 50 detenuti di sesso maschile, bianchi, provenienti da due Istituti di pena (età media= 37.96, DS = ±9.74), per la maggioranza processati per reati contro la persona, di cui 56% dipendenti da stupefacenti ed in carico al Servizio Penitenziario per le Dipendenze.
I due strumenti utilizzati per la rilevazione dei dati sono la Psychopathy Checklist Screening Version (PCL-SV) pubblicato da Hart, Cox, & Hare nel 1995, procedura di tipo clinico-comportamentale per la diagnosi della psicopatia che comprende due fattori.
Il Fattore 1 si riferisce agli aspetti interpersonali/affettivi e comprende 6 dimensioni: Superficiale, Grandioso, Manipolativo/Strumentale, Mancante di rimorso e di colpa, Mancante di empatia/ Insensibile, Rifiuta le responsabilità.
Il Fattore 2 si riferisce alla devianza sociale e comprende le rimanenti 6 dimensioni: Impulsivo, Scarso controllo comportamentale, Mancanza di obiettivi realistici, Irresponsabile, Comportamento antisociale nell’adolescenza, Comportamento antisociale in età adulta.

Alla PCL-SV è stato affiancato l’MMPI-2 nella versione adattata per la lingua e la cultura italiana (Pancheri & Sirigatti, 1995).
Le categorie dei soggetti sono le seguenti: 1) Psicopatici, 13 partecipanti (pari al 26%), 2) fascia intermedia: Forse psicopatici, 9 partecipanti (18%), ma da sottoporre ad indagini più approfondite, 3) Non psicopatici, 28 partecipanti (56%).
Possiamo affermare che la percentuale di detenuti che presentano tale caratteristica (pari al 26%) appare in linea con i dati riferiti dalla letteratura (Wong & Olver, 2015).

I risultati

Dai risultati qui esposti emerge che i due strumenti correlano, relativamente agli indici presi in esame, per il fattore legato alla devianza sociale (F2), mentre la non correlazione per F1 potrebbe essere dovuta alla maggiore centratura della PCL-SV sugli aspetti emotivi e relazionali.
Appare, quindi, una certa concordanza tra i due strumenti relativamente agli aspetti della devianza sociale, mentre si avrebbe una divergenza per aspetti connessi più tipicamente all’insensibilità emotiva, considerata da Cleckley (1976) il cuore centrale della psicopatia. Si è ipotizzato, come sostenuto da Hart et al. (1995), che i due strumenti utilizzino costrutti di psicopatia in parte diversi, soprattutto per le componenti emotive e relazionali.

Come già riportato nella prima parte di questo lavoro, il concetto di psicopatia è largamente dibattuto e sembra difficile da definire in maniera completa ed esauriente. Tutto ciò, comunque, non può esimere clinici e ricercatori dall’intraprendere progetti di studio finalizzati ad un’approfondita e dettagliata conoscenza di questa categoria nei suoi aspetti complessivi, con l’obiettivo di pervenire ad un inquadramento preciso e puntuale, comprensivo di diagnosi differenziale, che permetta specifici percorsi trattamentali, sia di tipo terapeutico che detentivo (Wong & Olver, 2015).

Non si dovrebbe dimenticare che tratti di tipo psicopatico non sono esclusivi degli ambiti legati alla criminalità e alla devianza, e che caratteristiche come l’irresponsabilità, la mancanza di empatia, l’egocentrismo e il fascino superficiale sono ben accolti e radicati in ruoli di potere e di prestigio, ai vertici di una società come la nostra, già definita “mascherata” da Cleckley nel 1941.

I farmaci ‘metallici’ contro il cancro: un lavoro teorico/sperimentale migliora la conoscenza sui chemioterapici

Come funzionano i farmaci chemioterapici a base di metalli (fra i più diffusi nella cura di tumori molto comuni, come quelli ai testicoli e alle ovaie)? Come migliorarne l’azione e renderli meno tossici?

Un nuovo studio che ha unito sperimentazione e teoria ha ampliato la conoscenza dei meccanismi molecolari di questi principi attivi, per aiutare gli sperimentali a progettare farmaci sempre più efficaci e con meno effetti collaterali. Allo studio pubblicato sulla rivista ChemMedChem ha partecipato anche la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste.

La ricerca sui farmaci può essere faticosa e frustrante. Spesso succede di sintetizzare una molecola senza sapere precisamente che tipo di effetto terapeutico avrà (se mai ne avrà uno).

Difficilmente si progetta un nuovo principio attivo sapendo già quale meccanismo metterà in atto nell’organismo – spiega Alessandra Magistrato, ricercatrice CNR-IOM/SISSA – Questo è vero anche per i più comuni farmaci chemioterapici, come il cisplatino, o quelli di nuova generazione basati sul rutenio. Gli studi basati sulla modellistica e le simulazioni, come quelli che conduciamo qui possono però dare un grande aiuto in questo senso, aumentando la comprensione dei meccanismi molecolari messi in atto dal farmaco nelle cellule dell’organismo – spiega ancora la scienziata.

Magistrato è fra gli autori di una nuova ricerca che ha messo in rassegna alcuni lavori sperimentali e computazionali realizzati attraverso la lente del microscopio computazionale.

Abbiamo prodotto dei modelli che permettono di razionalizzare l’azione dei farmaci chemioterapici sulle cellule dell’organismo – spiega Magistrato – Per alcuni tipi di farmaci abbiamo cercato di comprendere quale sia la forma del farmaco più abbondante quando entra in circolazione nel sangue, e che poi raggiunge il bersaglio cellulare.

Si parla infatti di pro-farmaco, quando ci si riferisce al chemioterapico che viene iniettato, poiché appena entra nell’organismo, per via delle interazioni con ambiente biologico questo muta rapidamente.

Per questo motivo è difficile sapere esattamente quale (e quanta) sia la molecola che esplica l’azione terapeutica, cioè il farmaco vero e proprio.

Per altri farmaci di cui è già nota la forma attiva invece Giulia Palermo, prima autrice dello studio e ricercatrice presso la Scuola Politecnica Federale di Losanna (EPFL), ha descritto con quali target si lega preferenzialmente il farmaco all’interno della cellula.

La molecola può agire su tre fronti: sul DNA libero, sulla cromatina (Il DNA impacchettato nella forma più comune nel nucleo) e con le altre proteine disperse nella cellula – spiega Palermo.

A seconda di quale target viene colpito infatti l’azione del farmaco può variare molto, e anche i suoi effetti collaterali.

Si pensa infatti che quando il farmaco mostra effetti cito-tossici, vuol dire che si è legato preferenzialmente al DNA, mentre quando mostra effetti anti-metastatici, vuol dire che agisce in modo preferenziale sulle proteine che contribuiscono alla motilità delle cellule o proteine che interagendo con il DNA regolano l’espressione dei geni, per esempio.

Anche in base a studi come questo gli sperimentali possono migliorare il design razionale delle nuove molecole terapeutiche, per ottenere così farmaci più efficaci e con meno effetti collaterali, anche questo molto importante visto che sappiamo bene quanto gravoso dal punto di vista fisico sia un trattamento chemioterapico per i pazienti – conclude Magistrato.

Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale tra CNR-IOM/SISSA e i gruppi di ricerca di Ursula Roethlisberger (professoressa di chimica e biochimica computazionale dell’EPFL) e Paul Dyson, esperto in chimica farmaceutica e bio-organometallica dell’EPFL, nonché di Curt Davey, leader in cristallografia di complessi proteina/DNA presso l’Università della Tecnologia di Nanyang (NTU), a Singapore.

 

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‘Metal’ drugs to fight cancer: a new study improves our understanding of chemotherapy agents

What is the mechanism of action of metal-based chemotherapy drugs (the most widely used for treating common cancers like testicular or ovarian cancer)? How can we improve their effect and reduce their toxicity?

A new study combining experiments and theory has broadened our knowledge of the molecular mechanisms of these active drugs to help experimentalists devising increasingly effective drugs with fewer side effects. The study, just published in the journal ChemMedChem, was conducted with the participation of International School for Advanced Studies (SISSA) of Trieste.

Pharmaceutical research can be difficult and frustrating. Often, one happens to synthesize a molecule without knowing exactly what kind of therapeutic effect it will have (if it ever will have any).

It is rare for someone to develop a new active drug already knowing what mechanism it will trigger in the body–  explains Alessandra Magistrato, CNR-IOM/SISSA research scientist – This also applies to the most widespread chemotherapeutic drugs, like cisplatin, or novel ones based on ruthenium. Studies relying on modelling and simulations, like the ones we do here, may be very helpful in this sense, in that they increase our insights into the molecular mechanisms of action exerted by the drugs inside the body’s cells – the scientist explains.

Magistrato is among the authors of a new study that reviews previously published experimental and computational reports visualized through the lens of computational microscope.

We produced models that enable us to rationalize the action of chemotherapeutic molecules on the body’s cells, – Magistrato explains – For some types of drugs, we tried to understand which chemical form of the drug is most abundant when it enters the blood circulation and it reaches the cell.

Scientists in fact use the term prodrug when referring to an injected chemotherapy agent; this, because as soon as the agent enters the body, it quickly changes before the interactions with it biological target.

That’s why it is difficult to know precisely which molecule (and how much of it) is responsible for the therapeutic action, in other words the actual medication.

On the other hand for other drugs with a known active form, Giulia Palermo, first author and researcher at the Swiss Federal Institute of Technology in Lausanne (EPFL), described how the the drug binds to different targets inside the cell.

A molecule can act on three fronts: on free DNA, on chromatin (the most common form of packed DNA in the nucleus) and on other proteins found in the cell – explains Palermo.

Depending on which target is involved, the action of the drug can vary widely, as well as its side effects.

In fact, it is believed that when the drug exhibits cytotoxic effects, it may bound preferentially to the DNA, whereas when it has anti-metastatic effects, it may act on the proteins involved in motility or on protein/DNA complexes affecting gene regulation, for example.

With the help of studies like this, experimentalists can improve the rational design of the new therapeutic molecules so as to obtain drugs that are more effective and with fewer side effects, a very important aspect as we know very well how physically demanding chemotherapy is for patients – concludes Magistrato.

The study is the result of an international collaboration between CNR-IOM/SISSA and the research groups led by Ursula Roethlisberger (professor of computational chemistry and biochemistry at EPFL), Paul Dyson, expert in organometallic and medicinal chemistry at EPFL, and Curt Davey, leader in crystallography of protein/DNA complexes at Nanyang Technological University (NTU) in Singapore.

DCA: quanto i giudizi delle madri sul peso corporeo incidono sullo sviluppo di disturbi alimentari

Parlare di peso corporeo e diete tra madre e figlia è una questione delicata riguardo cui vi è ancora troppa poca consapevolezza e sensibilizzazione nei genitori. Alcuni studi hanno già dimostrato che vi è una correlazione positiva tra incoraggiamenti espliciti delle madri nei confronti delle figlie a perdere peso e lo sviluppo di sintomi bulimici nelle figlie.

Altre ricerche hanno indicato che ragazze le cui madri parlano principalmente di diete hanno maggiore probabilità di sviluppare un disturbo alimentare.

Un articolo recentemente pubblicato su Body Image ha esaminato le interazioni madri-figlie relative a forma fisica, diete e peso corporeo di circa ottanta ragazze con le rispettive madri. In particolare, lo studio ha voluto analizzare in maniera più specifica in che modo le affermazioni delle madri riguardo le diete e la tendenza a perdere peso potessero impattare su alcune variabili critiche nel dominio dei disturbi alimentari.

I risultati dello studio evidenziano che tra le ragazze che venivano incoraggiate dalle loro madri a perdere peso, si rilevano esiti negativi in termini di insoddisfazione corporea, impulso alla magrezza e tendenza a mettersi a dieta e anche in misura maggiore se le madri non condividono con le figlie anche le preoccupazioni riguardo il proprio peso. Secondo lo studio i migliori outcome, in termini di minori punteggi nelle variabili sopra citate, si sono riscontrati in quelle interazioni madre-figlia in cui non si parlava di peso e forma fisica. Indubbiamente, il tema è estremamente complesso, e non dobbiamo dedurre conclusioni applicative semplicistiche.

Parlare di peso con le proprie figlie chiama in causa molteplici e finissime variabili psicologiche dei genitori, dal perfezionismo al criticismo fino alle credenze relative al valore personale, obiettivamente difficili da arginare con semplici strategie comunicative. Ad ogni modo, è bene iniziare a rifletterci sopra e a conoscere i possibili fattori di rischio nelle adolescenti alle prese con la forma fisica.

Prioni Made in SISSA: creati per la prima volta dei prioni sintetici in serie

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

A volte per comprendere davvero qualcosa è utile saperlo ricostruire da zero. Succede anche per i prioni: il Laboratorio di Biologia dei Prioni della SISSA di Trieste, in collaborazione con l’istituto BESTA di Milano, ha assemblato in laboratorio dei prioni artificiali, mettendo a punto un metodo per sintetizzarli in serie. Le prove di laboratorio hanno mostrato che i prioni sintetici si comportano come quelli biologici e i risultati saranno pubblicati il 31 dicembre sulla rivista Plos Pathogens, una delle più autorevoli del settore.

[blockquote style=”1″]Ci aiuteranno a comprendere con precisione i meccanismi con cui i prioni provocano malattie come la mucca pazza, o la malattia di Creutzfeldt-Jakobdz.[/blockquote] La SISSA, in collaborazione con l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, ha stabilito le condizioni ideali in laboratorio per produrre prioni sintetici – funzionanti come quelli biologici – in maniera ripetitiva. [blockquote style=”1″]È la prima volta che si riesce a fare una cosa del genere, e le conseguenze a livello della ricerca sono importanti.[/blockquote]

I prioni sintetici prodotti in serie permettono di controllare con maggiore precisione la loro azione patogena negli esperimenti spiega ancora Giuseppe Legname, il coordinatore dello studio dove si spiegano la tecnica e i risultati di laboratorio. Lavorare con i prioni naturali infatti non è così semplice: sono complessi e molto eterogenei spiega Legname, e sono spesso un po’ complicati da usare. [blockquote style=”1″]Avendoli costruiti noi, invece, quelli sintetici sono molto più controllabili, omogenei e strutturalmente definiti, e ciononostante hanno le stesse conseguenze di quelli biologici. Il nostro fine ultimo, naturalmente è quello di individuare quali meccanismi possono bloccare l’effetto patogeno, per sviluppare terapie contro queste malattie.[/blockquote]

Nel lavoro Legname e colleghi hanno sintetizzato prioni di topo, e hanno verificato il loro effetto nel provocare la malattia, che è risultato comparabile a quello dei prioni naturali. [blockquote style=”1″]Quando li abbiamo caratterizzati, abbiamo inoltre osservato che sono molto simili a quelli della mucca pazza e della variante di Creutzfeldt-Jakob, la forma umana della malattia.[/blockquote]

Non solo mucca pazza

[blockquote style=”1″]Questa nostra linea di ricerca naturalmente è già in evoluzione. Lavoreremo infatti anche sui prioni umani, e abbiamo anche altri progetti[/blockquote] spiega lo scienziato. Legname si riferisce alle ipotesi, sempre più solide scientificamente, che alla base della maggior parte delle malattie neurodegenerative vi siano molecole con meccanismi simili a quelli dei prioni. [blockquote style=”1″]Stiamo pensando alle molecole che provocano l’Alzheimer, come la beta-amiloide, o il Parkinson, o anche la sclerosi amiotrofica laterale. Anche in questi casi avere a disposizione molecole sintetiche potrebbe essere un passo avanti importante.[/blockquote]

LINK UTILI:•Articolo originale su Plos Pathogens: http://dx.plos.org/10.1371/journal.ppat.1005354 (attivo dalla pubblicazione)

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