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Il cercatore pauroso: temo che tu non mi ami perché io non posso stare da solo – Tracce del tradimento Nr. 36

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVI. Il cercatore pauroso: Temo che tu non mi ami perché io non posso stare da solo.

 

La donna impaurita, l’uomo impaurito vivono per l’altro e la percezione della propria inferiorità è costante, l’altro è perfuso di bellezza e forza ed essi vivono nel terrore che egli si stanchi e le lasci sole.

Cercano sperando di non trovare, spesso non trovano, e se trovano, soffrono in silenzio aumentando il desiderio di stare con il compagno e rimandando i conflitti. Così diventano ancora più dipendenti, melanconici.

Serafina, 46 anni, viene in seduta disperata, parla a spizzichi e a bocconi e fa fatica a concentrarsi su ciò che dice. È evidentemente depressa e racconta una storia difficile. Dalla sua prima giovinezza si è fidanzata e poi sposata con un ragazzo che è stato accolto dalla sua famiglia come un figlio. Al punto che i genitori preferivano lui ai numerosi figli che avevano. Il ragazzo è sempre stato irreprensibile e protettivo con lei, non permettendole di lavorare e accondiscendendo a tutte le paure di lei: di viaggiare, di vedere amici, di avere un figlio, di fare qualsiasi cosa nuova e diversa dallo stare in casa a chiacchierare davanti alla televisione. Alcune volte l’uomo aveva cercato di esprimere il desiderio di avere un figlio, ma lei aveva sempre rifiutato sostenendo che stare con lui le bastava e che non avevano bisogno di nient’altro che della loro coppia.

Un giorno aveva trovato un biglietto di amore inequivocabile ed esplicito, di una donna a suo marito e terrorizzata aveva chiesto spiegazioni, aspettandosi le consuete rassicurazioni e la ripresa della consueta routine. L’uomo le aveva comunicato invece che si era stufato, che non la amava più e aveva intenzione di andare a vivere con la sua nuova donna dal giorno dopo. Si possono immaginare le reazioni di lei e della sua famiglia. Ma lui aveva difeso il suo progetto con forza e grande determinazione arrivando a essere anche estremamente ostile con lei quando lei lo seguiva o cercava spiegazioni.

Si era messo a convivere nella nuova famiglia e aveva avuto in pochi anni due figli. La donna era rimasta in casa sola, depressa e molto isolata e, ormai da molti anni prendeva antidepressivi e rimuginava sulla situazione ingiusta da lei subita e sulla propria incapacità a capire le esigenze di lui, incolpando però lui di scarsa chiarezza. Non era più uscita di casa e si era chiusa nella sua famiglia di origine che aveva alimentato il rimuginio sul passato e il senso di un dolore fatale e impossibile da superare.

Questo caso è significativo della situazione in cui si vengono a trovare le persone impaurite della solitudine quando si rifiutano di affrontare le implicazioni delle scelte affettive rassicuranti ma spesso limitate che impongono ai propri partner. È un punto di riflessione il fatto che nelle condizioni di dipendenza e paura in cui ci si muove si vadano a cercare tracce di tradimento. Si potrebbe pensare che un comportamento più coerente sarebbe rappresentato da una rinuncia a qualsiasi tentativo di incrementare informazioni potenzialmente minacciose, ma non è così e per svariati motivi che ora cercheremo di analizzare. Innanzitutto la ricerca delle tracce nell’ansioso ha spesso il movente di cercare rassicurazione e certezza assoluta che le tracce e il tradimento siano assolutamente da escludere. È quindi una procedura di ricerca di certezza assoluta. Infatti, come nel caso sopradescritto la ricerca delle tracce ha in alcuni casi una illusoria funzione di incrementare la sicurezza e la tranquillità.

In altre circostanze lo scopo della ricerca di tracce è invece tutta interna a una riduzione di visioni catastrofiche intollerabili o molto dolorose. Ed è vissuta come un impulso non rimandabile. Una sorta di tranquillante che a volte purtroppo si trasforma in un danno imprevisto. In altri casi la ricerca delle tracce è in situazioni di certezza relazionale e affettiva come una illusione di averne ancora di più sempre di più. Come se ci fosse una sfiducia di fondo in una relazione che procede in binari tranquilli e si volesse che diventino assolutamente del tutto e per sempre tranquilli. Un ‘di più’ che a volte diventa invece un drammatico ‘di meno’. In altri casi si controllano tutti gli aspetti del compagno, le cose che dice, le cose che pensa, le telefonate che fa, e si crede che questo controllo, molto mentale, ferreo e rigidissimo, sia una modalità di rapporto che possa garantire una maggiore tranquillità.

La ricerca delle tracce in queste persone è solo una delle tante procedure di controllo che mettono in atto e che lentamente stringe intorno al collo del compagno o della compagna un cappio potente e strettissimo. Spesso quando poi si trovano le tracce del tradimento il dolore e lo stupore sono altissimi, perché la conoscenza che si possiede di come si conducono i rapporti di amore è del tutto collegata con il controllo e non ci si rende affatto conto di come possa a lungo andare risultare intollerabile a chi lo subisce.

Questo genere di controllo è spesso sostitutivo dell’affetto e degli scambi emotivi e sessuali, e il compagno fugge alla ricerca di una persona meno controllante e più vicina. Perché questo lavoro di controllo non è necessariamente simile a un impegno emotivo comune e attento alla reciprocità. E’ un sintomo di una sofferenza e di una grande paura di stare soli e spesso di una scarsa conoscenza delle relazioni di intimità e di reale scambio.

Sandra era una signora romana, un bella donna alta ed elegante, avvocato in uno studio modesto ma serio e di lunga storia. Aveva sposato un musicista di buon talento che riempiva le sue giornate di buona musica e le sue serate di compagnia solidale. La signora era figlia di una madre tirannica, gravemente ansiosa e controllante che ancora telefonava ai figli ormai di mezza età per chiedere il resoconto delle loro giornate e fornire consigli, controlli e compagnia. La signora aveva dedicato a questa madre molte ore della sua vita togliendole anche al marito, quando si recava dalla madre dava ordini e indicazioni al marito su come passare il tempo. Il marito veniva da una famiglia spezzata, da un padre fuggito via e orfano di madre, aveva sperato di avere compagnia dalla moglie.

Negli anni non avevano avuto figli e la moglie rattristata da questo si era stretta sempre più al marito chiedendo compagnia e legandolo a un ininterrotto filo di discorsi, progetti, opinioni su tutto e decidendo anche che tipo di cravatta o che pantaloni dovesse mettersi al mattino. Prima di uscire preparava a lui i vestiti da mettersi, la colazione e il pranzo e si aspettava di sentirlo al telefono molte volte al giorno per avere notizie del suo lavoro. La casa era pulita come uno specchio e ogni cosa aveva un certo ordine che lei decideva e che non doveva essere interrotto da nessuno.

Il marito per molti anni aveva accettato una situazione che gli stava un poco stretta anche perché questa ininterrotta vicinanza mentale non era accompagnata da una intimità sessuale da lui ritenuta insoddisfacente. La moglie durante i rari rapporti sessuali si dimostrava del tutto disinteressata e passiva e a volte nel bel mezzo di un rapporto cominciava a parlare di lavare le tende o dell’ultimo libro interessante che aveva letto.

La situazione si sarebbe potuta forse sviluppare in modo sereno e non interrompersi se il marito non fosse stato spedito all’estero a fare un periodo di lavoro. L’uscita da casa aveva reso la moglie molto depressa e passiva, mentre lui si sentiva molto galvanizzato da un nuovo ambiente sentendosi per la prima volta più libero. La moglie non si era resa conto di nulla, anche se i ritorni a casa si facevano più radi e la comunicazione telefonica, per questioni di linea, maggiormente difficoltosa e rara. Un giorno, durante un ritorno in cui il marito si faceva scontroso e stanco e poco vicino a lei, aveva cercato nel portafoglio con lo scopo di vedere se trovava lo stesso ordine e gli stessi oggetti così come lei li metteva. Era rimasta senza fiato vedendo una foto del marito abbracciato a una signora alta ed elegante che lo baciava con passione. Alla richiesta di un chiarimento il marito aveva confessato il tradimento ma lo aveva giustificato come una dolorosa necessità dovuta al suo esagerato controllo e alle sue esigenze di vicinanza esagerate. “Non ti amo da almeno 10 anni” così era stata la sua risposta e “non voglio in nessun modo rimanere con te neanche un minuto di più”.

Non esistono strategie che possano con assoluta certezza difendere chiunque dall’arrivo imprevisto e catastrofico di eventi affettivi nuovi, scandalosi e imprevedibili. Il modo sensato di vivere è godersi il buon periodo sapendo che non è detto che sia definitivo ma che saremo in grado di sopravvivere a qualsiasi evento ci troviamo davanti. Questo modo è realistico e legato fortemente ad un idea di sé come persone affettivamente competenti.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Come le tasse sulle sigarette riducono la mortalità infantile

L’aumento delle tasse sul prezzo di un pacchetto di sigarette negli USA è fortemente associato con una minore mortalità infantile.

Questo è ciò che emerge da un recente studio condotto da Stephen Patrick, presso la Vanderbilt University, e appena pubblicato sulla rivista Pediatrics. Tale analisi è stata condotta utilizzando i dati dal 1999 al 2010 del Center for Disease Control americano circa la mortalità infantile (morte nel primo anno di vita), le sue cause e i dati sulla fluttuazione di prezzi e tassazione del tabacco. Effettivamente, il fumo negli Stati Uniti è un problema a priorità assoluta, poiché lo stesso CDC lo ha recentemente identificato come la maggiore causa di morte e disabilità negli USA, calcolando tutti i casi di patologie di natura cardiovascolare causate sia direttamente che indirettamente dal fumo.

Già altre ricerche in passato hanno mostrato come le donne fumatrici durante la gravidanza abbiano molte più probabilità di mettere al mondo neonati sottopeso, nati prematuramente o vittime della Sudden Death Infant Syndrome (SIDS), patologia di origine ancora completamente sconosciuta, che porta nel primo anno di vita alla morte di bambini apparentemente perfettamente sani. Un aumento della tassa sul tabacco si era già rivelato fortemente correlato con una diminuzione del suo consumo durante la gravidanza e con un conseguente decremento di nascite premature e sottopeso, ma fino ad oggi nessuno studio aveva direttamente confrontato la tassazione del tabacco con la frequenza di morti infantili.

Ben oltre ogni aspettativa, la presente ricerca mostra come per ogni singolo dollaro di incremento del prezzo delle sigarette si verifichino due morti infantili in meno al giorno, ovvero 750 morti in meno nell’intero anno (3,2%)! In particolare, tale correlazione si dimostra essere particolarmente forte nel caso dei neonati afroamericani, che normalmente hanno il doppio delle possibilità di morire prima del loro primo compleanno rispetto a tutti gli altri neonati: prevedibilmente, poiché la popolazione afroamericana è distribuita per la maggior parte nei ceti economicamente più bassi, è anche quella che risente di più di un aumento economico di un prodotto di largo consumo come la sigaretta.

In conclusione, questo studio rivela come la tassazione del tabacco sia uno strumento efficace e credibile di decremento del numero di fumatori e conseguente prevenzione di malattie e mortalità del fumatore stesso e del neonato che questi porta in grembo. Nonostante i dati riportati si riferiscano esclusivamente agli Stati Uniti, non sono certo da sottovalutare e ignorare qui in Italia, visto e considerato che il bel paese ha il più alto tasso di mortalità infantile rispetto ai maggiori paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia e Spagna; dati ONU 2012).

Bias ed Euristiche – Introduzione alla Psicologia Nr. 38

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 38)

 

I bias sono particolari euristiche usate per esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentale e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria. 

 

Bias è un termine inglese, che trae origine dal francese provenzale biais, e significa obliquo, inclinato. Questo termine, a sua volta trae origine dal latino e, prima ancora, dal greco epikársios, obliquo. Inizialmente, tale termine era usato nel gioco delle bocce, soprattutto per indicare i tiri storti che portavano a conseguenze negative. Nella seconda metà del 1500, il termine bias, assume un significato più vasto, infatti sarà tradotto come inclinazione, predisposizione, pregiudizio.

Insomma, i bias cognitivi sono automatismi mentali sui quali si generano schemi cognitivi maladattivi utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica. Si tratta, il più delle volte di errori cognitivi (es. ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, Minimizzazione o Massimizzazione, Personalizzazione, etc.) che impattano nella vita di tutti i giorni non solo su decisioni e comportamenti ma anche sui processi di pensiero.

Quindi, i bias non sono altro che costrutti non del tutto corretti perché fondati su percezioni errate o deformate, su pregiudizi, su ideologie, quindi niente da sottoporre al giudizio critico. Questi pregiudizi creano schemi mentali che inducono a valutare situazioni o comportamenti senza giudicarli. In molte situazioni si utilizzano per spiegare comportamenti messi in atto, tipo gesti di razzismo o omofobici.

Succede, spesse volte, senza analizzare, pesare e valutare ogni dettaglio, che utilizziamo strategie note col termine di euristiche. Anche questo nome deriva dal greco: heurískein vuol dire trovare, scoprire.

Le euristiche sono, al contrario dei bias, procedimenti mentali intuitivi, e sbrigativi, scorciatoie mentali, che permettono di avere un’idea generica su un argomento senza effettuare troppo sforzi cognitivi. Sono strategie veloci utilizzate di frequente per giungere presto a delle conclusioni.

Nel 2002 Kahneman e Frederick proposero (o teorizzarono) che l’euristica cognitiva funzionasse per mezzo di un sistema chiamato sostituzione dell’attributo, che avviene senza essere consapevoli. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso da un punto di vista inferenziale, risulta essere sostituito da un euristica che è un concetto affine a quello precedente ma formulato più semplicemente. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo.

Per concludere, i bias sono particolari euristiche usate per creare delle opinioni o esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentali e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria.

Supponiamo che una pianta piccola con uno stelo e dei petali sia un fiore, anche se non abbiamo mai visto prima quello specifica tipologia sappiamo in ogni caso che si tratta di un fiore. Tutti abbiamo in mente cos’è un fiore, ne abbiamo visto molti e di molti tipi per questo nella nostra testa abbiamo delle immagini relative alle varie caratteristiche presentate da un fiore. Per questo, quando vediamo qualcosa che ha caratteristiche simili, anche se non sappiamo esattamente di che fiore si tratta, possiamo comunque dire con molta probabilità che è un fiore.

Per esprimere questo giudizio abbiamo usato una euristica, caratteristiche del fiore, che ci ha portati in breve tempo a una risposta repentina. Se procedessimo utilizzando un bias, invece, utilizziamo un pregiudizio non criticabile, ad esempio: ‘i fiori sono brutti’, e, dunque, a quel punto non mi fermo neanche a osservarli, giudizio non criticabile.

In sintesi, se le euristiche sono scorciatoie comode e rapide estrapolate dalla realtà che portano a veloci conclusioni, i bias cognitivi sono euristiche inefficaci, pregiudizi astratti che non si generano su dati di realtà, ma si acquisiscono a priori senza critica o giudizio.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Plasticità neuronale e cognitiva nella memoria prospettica di anziani dopo un training con la virtual week

 

Plasticità neuronale e cognitiva nella memoria prospettica di anziani dopo un training con la Virtual Week

Nathan S. Rose, Peter G. Rendell, Alexandra Hering, Matthias Kliegel, Gavin M. Bidelman and Ferguson I. M. Craik

Recentemente è stata descritta la Virtual Week come uno strumento utilizzato per la valutazione della memoria prospettica, gli autori ci illustrano come invece può essere utilizzata anche per stimolare la memoria prospettica.

Introduzione: Memoria Prospettica e terza età

La Memoria Prospettica (MP), abilità di ricordare ed eseguire con successo le proprie intenzioni e le attività pianificate, è importante per condurre una vita indipendente (Einstein and McDaniel, 1990). Il normale processo di invecchiamento ha un effetto negativo sulle abilità di Memoria Prospettica (Henry et al., 2004).

Tenendo in considerazione l’invecchiamento generale nel mondo, è estremamente importante sviluppare modalità per supportare un buon funzionamento di Memoria Prospettica così che gli anziani continuino a vivere indipendentemente, a casa, e senza il bisogno di essere assistiti.

Gli autori del presente studio hanno utilizzato un gioco computerizzato chiamato Virtual Week (Rendell & Craik, 2000) con lo scopo di allenare la Memoria Prospettica di un gruppo di anziani. L’obiettivo è stato quello di indagare se tale stimolazione potesse produrre neuro-plasticità nella Memoria Prospettica e trasferire tale miglioramento nella vita reale e nel funzionamento di vita quotidiano.

Generalmente i programmi di stimolazione cognitiva vengono classificati come ‘Compensatory Approach‘ e ‘Ristorative Approach‘. Il primo ha l’obiettivo di insegnare strategie e tecniche per compensare uno specifico deficit cognitivo; il secondo ha l’obiettivo di riabilitare e rendere migliore il funzionamento dei processi neurocognitivi che sono coinvolti più genericamente in molti domini della cognizione.

Sono scarse però le evidenze che dimostrano cambiamenti o miglioramenti importanti nel funzionamento quotidiano attraverso l’uso di training specifici (McDaniel and Bugg, 2012); ciò porta a pensare che programmi di allenamento cognitivo dovrebbero essere elaborati con lo scopo ultimo di allenare e condurre quindi al cambiamento (Craik and Rose, 2012).

Gli autori di questo studio hanno cercato di rispondere a tre domande: 1) Può un programma di stimolazione migliorare la Memoria Prospettica di un gruppo di anziani? 2) Può un programma di stimolazione indurre plasticità cerebrale in meccanismi sottostanti la Memoria Prospettica? 3) Può un programma di stimolazione portare miglioramenti nell’eseguire altri compiti di Memoria Prospettica?

Materiali e Metodi

Sono stati selezionati 59 anziani, di cui 23 facenti parte del gruppo sperimentale che ha ricevuto un mese di training sulla Memoria Prospettica con la Virtual Week, 14 facenti parte del gruppo di controllo attivo, e 18 facenti parte del gruppo di controllo passivo. L’età media era compresa tra 60 e 79 anni.

Training di Memoria Prospettica con la Virtual Week

Il programma di allenamento Virtual Week (il training) è simile all’originale versione computerizzata (Rendell et al., 2007) ma il contenuto dei compiti varia lungo il corso di 24 giorni virtuali. Inoltre la difficoltà del compito aumenta nel corso dei 24 giorni virtuali e i partecipanti procedono al livello successivo solo dopo aver completato il 70% dei compiti correttamente. Il livello di difficoltà si fa maggiore durante il corso del programma di allenamento, ed aumentano il numero di compiti da eseguire, la complessità dei compiti e la quantità di interferenza.

I partecipanti del gruppo sperimentale che ha eseguito il training di Memoria Prospettica  con la Virtual Week, ha svolto 24 livelli del gioco per circa un mese (tre sessioni alla settimana e due livelli per ogni sessione). Inoltre, al termine di ogni settimana di training ai partecipanti veniva chiesto quali strategie utilizzassero per ricordare di eseguire i compiti di Memoria Prospettica .

Gruppo di controllo attivo

Il gruppo di controllo attivo ha ricevuto un training musicale (Moreno et al., 2011) dove la sessione di allenamento era di 40-60 minuti, e i partecipanti completavano un totale di 20 sessioni durante un periodo di 4 settimane. Il programma includeva una combinazione di compiti cognitivi, percettivi e motori e consisteva nell’insegnare ai partecipanti concetti musicali di base come ritmo, tono, melodia e voce.

Gruppo di controllo passivo

Il gruppo di controllo passivo partecipa solo alle sessioni di pre-test e post test.

Misure

Misure per la Memoria Prospettica

  • Virtual Week computerizzata (Rendell et al., 2007): La Memoria Prospettica veniva valutata attraverso la Virtual Week. La Virtual Week è un gioco computerizzato che rappresenta una settimana virtuale dove ai partecipanti viene chiesto di lanciare un dado e di eseguire specifiche attività di vita quotidiana, in un preciso momento della giornata. Ogni giorno virtuale inizia alle 7.00 a.m. e termina alle 10.15 p.m. Durante ogni giorno virtuale ai partecipanti viene chiesto di eseguire diversi compiti di Memoria Prospettica. Alcuni di questi vengono illustrati all’inizio di ogni giorno virtuale e sono gli stessi per ogni giorno (compiti regolari). Altri sono illustrati durante la giornata e sono diversi per ogni giorno (compiti irregolari). Inoltre, alcuni compiti sono da svolgere durante uno specifico evento, indicato da una carta evento (compiti event-based), altri sono da eseguire in specifici momenti della giornata virtuale e quindi necessitano un controllo costante dell’orologio localizzato al centro del tabellone (compiti time-based). Vi è inoltre un terzo tipo di compito da eseguire (compiti time-check) che richiede al partecipante di monitorare un cronometro al centro dello schermo, che mostra la quantità di tempo reale trascorsa dall’inizio del giorno virtuale. Quando il cronometro segna uno specifico passaggio di tempo (esempio 2 minuti o 4 minuti), il partecipante deve interrompere ed eseguire il compito time-check selezionando l’appropriato compito dalla lista. Tutti i partecipanti eseguivano prima un giorno virtuale di prova, per la sessione pre-test, per imparare ad utilizzare il gioco e ad eseguire i diversi tipi di compiti di Memoria Prospettica, e successivamente completavano tre giorni virtuali della Virtual Week. Tutti i partecipanti eseguivano tre giorni virtuali anche al post-test, per valutare i cambiamenti nella performance prima e dopo l’intervento del training con la Virtual Week.
  • Call back task: Per valutare la naturale performance di Memoria Prospettica nella vita quotidiana, viene utilizzato un nuovo compito di Memoria Prospettica. I partecipanti sceglievano una fascia oraria di 2 ore, durante il quale dovevano essere a casa, chiamare l’istituto di ricerca, e lasciare un messaggio. Durante questa fascia temporale uno sperimentatore chiamava, e dava loro le istruzioni del compito. I partecipanti dovevano richiamare lo sperimentatore in un momento preciso (esempio: 15 e 40 minuti dopo aver ricevuto il messaggio) e lasciare un messaggio. La stessa procedura veniva ripetuta un’ora dopo con nuove istruzioni. Ai partecipanti veniva chiesto di non usare promemoria o timer.
  • N-back + PM cues (West and Bowry, 2005): Per valutare la Memoria Prospettica in un setting di laboratorio standardizzato è stato somministrato un compito 2-back computerizzato (lettere per il compito continuo e colori specifici come cues di MP). I partecipanti vedevano una serie di lettere colorate in maiuscolo, una lettera al secondo. Il compito era di premere un tasto marchiato “yes” quando la lettera sullo schermo coincideva con quella presentata 2 lettere prima, e un tasto “no” quando non era uguale a quella presentata 2 lettere prima. Successivamente i partecipanti venivano informati che vi era un altro compito di Memoria Prospettica da eseguire, dovevano premere la barra spaziatrice quando vedevano una lettera presentata in un determinato colore. Successivamente eseguivano le due procedure insieme.
  • Breakfast task (Craik and Bialystok, 2006): Il compito consiste di una simulazione computerizzata degli elementi coinvolti nella preparazione e nel servire la colazione. Le componenti del compito misurano due funzioni neuropsicologiche: pianificazione e gestione di più compiti. Ai partecipanti veniva chiesto di preparare 5 diversi cibi con differenti tempi di cottura (salsicce = 4,5 minuti; uova = 2 minuti). L’obiettivo era di avere tutte le pietanze pronte allo stesso momento, senza sovra cuocerle o sotto cuocerle..
  • The Prospective-Retrospective Memory Questionnaire (PRMQ; Crawford et al., 2003): Il questionario self-report ha l’obiettivo di valutare la Memoria Prospettica durante la vita quotidiana, e consiste di 16 domande sugli insuccessi di Memoria Prospettica e retrospettiva in situazioni di vita quotidiana.

Competenze di tutti i giorni

Timed instrumental activities of daily living (TIADL; Owsley et al. 2002): Per valutare le abilità di vita quotidiana ai partecipanti veniva chiesto di completare 5 compiti: cercare un numero di telefono su una rubrica; contare una certa quantità di denaro in monetine; leggere gli ingredienti su tre barattoli di cibo; mettere un oggetto su uno scaffale; leggere le indicazioni di due medicinali. Uno sperimentatore leggeva al partecipante le istruzioni per tutti i 5 compiti prima del test.

Misure neuropsicologiche

E’ stata somministrata una batteria di test volta a valutare le funzioni neuropsicologiche: Digit-Symbol (sub test della WAIS III; Wechsler, 1997) con lo scopo di valutare la velocità di elaborazione; Stoop Test (Stroop, 1935) con l’obiettivo di valutare le capacità di inibizione e controllo volontario; Versione computerizzata del paradigma dei cubi di Corsi (Milner, 1971) con l’obiettivo di valutare la memoria di lavoro; Matrici Progressive di Raven (Raven et al., 1996) per valutare l’intelligenza fluida.

Metodi ERP

Un sottogruppo dei partecipanti eseguirono il compito N-back + pm cues mentre veniva registrato il loro elettroencefalogramma (EEG), così da ottenere i markers neuropsicologici della localizzazione dei cue di MP. Gli autori analizzarono i potenziali evento-relati (ERPs) associati alla presentazione dei cue di Memoria Prospettica durante la performance del compito. 13 partecipanti nel gruppo sperimentale e 23 nei gruppi di controllo completarono entrambe le sessioni EEG pre e post – test.

 

Procedura

Dopo aver condotto un’intervista telefonica per valutare lo stato cognitivo generale dei partecipanti, quelli idonei erano invitati alla sessione pre-test della durata di 2-3 ore. Dopo aver firmato il consenso informato, i test venivano somministrati nel seguente ordine: Virtual Week, Breakfast Task, Stroop Test, 2-back task + mp, Corsi, Matrici Progressive di Raven, TIADL. La sessione finiva con il PRMQ e le istruzioni generali per il Call-back task. Iniziava poi il programma di training di Memoria Prospettica con la Virtual Week per il gruppo sperimentale e il training musicale per il gruppo di controllo attivo. Circa 1 mese dopo i partecipanti venivano rivalutati per la sessione post-test.

Risultati

  • Utilità del training: Il numero medio dei compiti di Memoria Prospettica eseguiti correttamente ogni giorno virtuale, durante il programma di training, aumentava regolarmente e le strategie utilizzate dai partecipanti cambiavano: la maggior parte delle strategie utilizzate alla fine della prima settimana del training rappresentavano strategie inefficaci mentre alla fine della quarta settimana rappresentavano strategie buone.
  • Il training induce plasticità?: I risultati mostrano ampi miglioramenti, associati al programma di training, nell’eseguire tutti i tipi di compiti di Memoria Prospettica della Virtual Week nel gruppo sperimentale rispetto ai gruppi di controllo. Inoltre la performance nei compiti Call-back e TIADL risultava migliore dopo il programma di training con la Virtual Week rispetto ai gruppi di controllo: emergeva una riduzione significativa del tempo impiegato per svolgere il compito Call-back e per completare le attività strumentali di vita quotidiana. Ciò è coerente con l’idea di un’importante cambiamento.
  • Plasticità neuronale: Per valutare la possibilità che il programma di training con la Virtual Week potesse produrre plasticità cerebrale, sono stati confrontati i potenziali evento-relati (ERPs), associati con la localizzazione dei cue di Memoria Prospettica, nelle sessioni pre e post-test per il gruppo sperimentale e i gruppi di controllo. I risultati preliminari ERPs mostrano qualche suggerimento circa la neuro-plasticità grazie al training: si osserva una riduzione sulla corteccia occipito-parietale destra associata ad una corretta performance di Memoria Prospettica, in particolare negli stadi successivi durante la selezione della risposta e la messa in atto dei compiti.

 

Discussione e conclusione

I partecipanti del gruppo sperimentale che hanno condotto un mese di training con la Virtual Week ottengono sostanziali miglioramenti nella performance di Memoria Prospettica per i compiti della Virtual Week. Tale plasticità viene trasferita anche ai compiti di Memoria Prospettica (Call-back task) che rappresentano compiti di vita reali e a misure neuropsicologiche legate alla capacità di vita quotidiana (TIADL).

Concludendo quindi, un breve programma di training della Memoria Prospettica con la Virtual Week ha portato ampi miglioramenti della Memoria Prospettica e qualche piccolo cambiamento nei correlati neuronali responsabili dell’elaborazione della Memoria Prospettica. I miglioramenti emergono rispetto all’aumento dell’accuratezza e dell’efficienza nell’esecuzione dei compiti di Memoria Prospettica di vita reale e di attività strumentali di vita quotidiana.

Il programma di training Virtual Week, che incorpora il principio di allenare per il cambiamento, rappresenta quindi una procedura innovativa per training cognitivi e una possibilità per aumentare le abilità funzionali.

La percezione del tempo nel deterioramento cognitivo

Barbara Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Ogni volta che abbiamo a che fare con una lesione o disfunzione cerebrale, ovunque essa sia, abbiamo a che fare con un problema nella percezione del tempo. Questo fenomeno si riscontra in modo evidente nel deterioramento cognitivo.

La complessita’ della percezione del tempo e il suo coinvolgimento nel deterioramento cognitivo

La percezione del tempo è uno degli argomenti più controversi della neuropsicologia. Nonostante decenni di studi non abbiamo ancora un modello che descrive il funzionamento neurocognitivo della percezione temporale con il quale siamo tutti d’accordo. Probabilmente questo accade perché non sappiamo bene come definire il tempo, esattamente come diceva Agostino nelle sue ‘Confessioni’: Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so….

Quando parliamo di percezione del tempo in termini cognitivi cosa intendiamo? Come fa il cervello a codificare o decodificare un intervallo di tempo trascorso? Oppure come fa il cervello a rappresentarsi il tempo di vita trascorso nel passato, formulare un’idea del tempo futuro o, ancora più difficile, orientarsi nel tempo quotidianamente per sapere sempre che giorno, mese e anno è per 365 giorni all’anno per tutta la vita?

La dimensione del tempo e’ troppo poco definibile e troppo complessa per poter essere operazionalizzata e studiata e infatti la letteratura sul tempo è molto dibattuta. Esistono diversi modelli che si contendono il primato (Gibbon et al., 1984; Killeen e Fetterman, 1988). Tuttavia tutti quanti cercano di spiegare unicamente come riusciamo a stimare una durata temporale (quanto tempo è passato tra due stimoli o quanto tempo è durato uno stimolo), funzione che, tra l’altro, nella quotidianità non usiamo mai perché abbiamo sempre un orologio a portata di mano.

Tutti i modelli sono complessissimi e prevedono diversi moduli cognitivi in cui l’informazione temporale viene elaborata. Tali moduli prevedono sempre il coinvolgimento di una componente sensoriale che elabora la modalità con cui viene presentato lo stimolo che deve essere decodificato (ad esempio modalità uditiva), per la quale si attivano le cortecce sensoriali primarie. Inoltre sono previsti moduli attentivi (devo prestare attenzione allo stimolo temporale per decodificarlo), moduli mnesici (devo rievocare durate simili per capire più o meno in che ordine temporale siamo) e moduli esecutivi (devo confrontare la durata corrente con quelle esperite in passato e rievocate dalle componenti mnesiche per decidere quanto è durato quello stimolo), per le quali si attivano le aree parieto-frontali e temporali.

Insomma, indipendentemente dal modello che consideriamo, che dia più peso alle componenti mnesiche o attentive, pare che per decodificare una durata temporale siano indispensabili molteplici aree cerebrali. Se poi consideriamo gli altri aspetti della percezione temporale di cui sopra ci domandavamo, (ordine temporale e rappresentazione dell’arco di vita) per cui occorrono ulteriori funzioni mnesiche ed esecutive, possiamo dire che tutto il cervello interviene nella percezione temporale (Grondin, 2010). Come non esiste concretamente il tempo, non esiste l’area cerebrale del tempo, come esiste invece l’area dello spazio solidamente localizzato nel lobo parietale destro. Pertanto, ogni volta che abbiamo a che fare con una lesione o disfunzione cerebrale, ovunque essa sia, abbiamo a che fare con un problema nella percezione del tempo. Questo fenomeno si riscontra in modo evidente nel deterioramento cognitivo.

Il deterioramento cognitivo: come si manifesta

Per deterioramento cognitivo si intende una patologia in cui le cellule cerebrali vanno incontro a progressiva necrosi. Una volta iniziato il processo di deterioramento cognitivo non lo si può fermare e l’esito finale è sempre lo stesso. I diversi quadri di deterioramento cognitivo, o demenze per meglio intenderci, si distinguono a seconda delle aree inizialmente coinvolte dal processo di degenerazione cellulare. Nella demenza di Alzheimer le prime aree coinvolte sono l’ippocampo e i lobi temporali mesiali. Il risultato e’ una iniziale perdita di memoria. Nella demenza di Parkinson le prime aree coinvolte sono i gangli della base che proiettano ai lobi frontali e parietali. Il risultato e’ una iniziale perdita delle funzioni di controllo dei movimenti e delle funzioni attentive. Nelle demenze vascolari, le quali si sviluppano a causa di encefalopatia multilacunare diffusa, si riscontra una iniziale perdita delle funzioni attentive, esecutive e visuo-spaziali. In ogni caso, indipendentemente dal quadro dementigeno in atto e dall’area inizialmente coinvolta, avremo un deficit nella percezione temporale che è destinato a peggiorare. Questo non è un problema da poco. E’ vero che perdere la memoria impedisce di apprendere nuove informazioni e rievocarne di vecchie, ma perdere la percezione del tempo disconnette dalla realtà con grosse ripercussioni sull’adattamento all’ambiente.

Il decorso del deficit di percezione temporale nel deterioramento cognitivo

Il primo aspetto della percezione temporale che perde di funzionalità quando è in atto un deterioramento cognitivo è l’orientamento temporale ovvero la capacità di individuare il corretto momento della giornata, della settimana, del mese e dell’anno in cui ci troviamo, senza l’ausilio di indizi come la lettura del calendario. Per orientarsi nel tempo occorre avere appreso la ricorsività di giorni, mesi e stagioni, aspetto non banale per chi ha difficoltà di apprendimento e/o memoria. Occorre focalizzare l’attenzione ed elaborare correttamente gli indizi a disposizione come la luce del sole o la temperatura esterna. Occorre inoltre rievocare altri indizi come ad esempio se si tratta di un giorno lavorativo o feriale e infine tradurre tutte queste informazioni in numeri e nomi astratti e convenzionali. A noi tutti potrebbe sembrare facile poiché abbiamo a che fare quotidianamente con agende, telefoni e impegni lavorativi. Ma basta andare in vacanza e dimenticare il telefono a casa per accorgesi quanto sia immediato perdere qualche giorno e confondere la domenica con il martedì.

In altre parole l’orientamento temporale è una funzione che per operare perfettamente necessita di un cervello perfettamente funzionante. Non e’ un caso che l’orientamento temporale sia compromesso in tutti i quadri dementigeni anche in fase iniziale. Anzi, è il primo campanello d’allarme che ci indica che c’è un’alta probabilità che ci sia un deterioramento cognitivo in atto o che si svilupperà, anche nel caso in cui tutte le altre funzioni operano ancora nella norma (Guerrero-Berroa et al., 2009). Tutti i clinici che si occupano di demenze sanno che le prime 4 domande del Mini-Mental State Examination (MMSE – test breve per la valutazione del deterioramento cognitivo) che indagano l’orientamento temporale, sono estremamente significative per formulare la diagnosi. Anche quando l’errore è soltanto uno e le restanti 29 domande del test sono corrette, comunque ci si insospettisce.

Tractenberg e colleghi (2007), nell’intento di inserire 4 items brevi negli studi epidemiologici per poter indagare il funzionamento cognitivo oltre a quello prettamente medico, hanno individuato i 4 items dell’orientamento temporale del MMSE. In altre parole anche una piccola esitazione nell’orientamento nel tempo è un indice di disfunzione cognitiva, anche se lieve, e un forte predittore di futuro deterioramento cognitivo.

Deterioramento cognitivo: cosa provoca il deficit nella stima temporale?

E’ difficile stabilire quale aspetto della percezione temporale sara’ interessato dal deterioramento cognitivo successivamente all’orientamento temporale. Come dicevamo, ciò dipenderà dalle aree interessate dalla degenerazione cellulare. Certamente, la capacità di stimare la durata di un intervallo o di uno stimolo temporale, per la quale occorre una buona funzionalità di attenzione, memoria e funzioni esecutive, viene ben presto interessata dalla demenza.

Il modello che pare meglio spiegare questa funzione è la SET theory di Gibbon e colleghi (1984). Tale modello postula l’esistenza di un orologio interno che si attiva quando un individuo presta attenzione ad una durata temporale. L’orologio invierebbe pulsazioni costanti per tutta la durata dell’intervallo da stimare. Le pulsazioni sarebbero inviate ad un accumulatore, dopodiché contate. Il conteggio del numero delle pulsazioni rappresenterebbe una prima traccia grezza dell’intervallo temporale, la quale viene confrontata con rappresentazioni di intervalli temporali in memoria. Una volta eseguito il confronto l’individuo sarà in grado di fornire una risposta sulla durata dell’intervallo.

Il processo di produzione e invio di pulsazioni sarebbe localizzato nei gangli della base e sotteso dal sistema dopaminergico (Allison et al., 2011). Le funzioni attentive di focus sull’intervallo e le funzioni esecutive di confronto sarebbero sottese dai lobi frontali e parietali mentre le funzioni mnesiche di recupero di tracce temporali immagazzinate sarebbero sottese dai lobi temporali.

La letteratura su quale sia il processo funzionale del modello che determina un deficit nella stima temporale è scarsa e non del tutto chiara. Verrebbe spontaneo pensare che i pazienti con Parkinson potrebbero avere un deficit a livello della produzione e accumulazione di pulsazioni. Infatti un decremento di dopamina sembra produrre una decelerazione dell’orologio interno mentre un aumento di dopamina sembra produrre un’accelerazione (Perbal et al., 2005). Tuttavia pare che i pazienti con Parkinson mostrino deficit di stima temporale che sono attribuibili a difficoltà di memoria più che a variazioni di velocità dell’orologio interno. Infatti tali pazienti tendono a sottostimare gli intervalli più lunghi e sovrastimare intervalli più corti (Mioni et al., 2015) e commettono maggiormente errori quando gli intervalli da stimare vengono presentati nella stessa sessione, indice che la capacità di mantenere in memoria le tracce temporali gioca un ruolo importante nell’indurre i pazienti con deterioramento cognitivo a sbagliare (Koch et al., 2008).

Un altro studio sulla stima temporale nei pazienti con demenza dimostra che i pazienti con deterioramento cognitivo hanno performances simili in questo tipo di prestazione indipendentemente dalla diagnosi specifica (Heinik, 2012). Questi studi considerati globalmente ci dicono che la stima temporale è una funzione che tende ad essere deficitaria quando le funzioni mnesiche si riducono, ma può essere sufficiente una lieve riduzione della funzionalità della memoria affinché la stima temporale ne risenta. Diversamente i pazienti con Alzheimer ne sarebbero maggiormente colpiti rispetto agli altri quadri.

La Mental Time Travel in pazienti con deterioramento cognitivo

Un altro aspetto controverso della percezione del tempo è la capacità di rappresentarsi il proprio arco di vita sia in modo retrospettivo che prospettivo e spostarsi mentalmente su di esso. Tale capacità viene chiamata Mental Time Travel. I pazienti con Alzheimer, anche nelle fasi precoci del disturbo, sono particolarmente in difficoltà nel rievocare in corretto ordine temporale gli eventi passati. Non solo i pazienti con Alzheimer hanno difficoltà nell’ordinare gli eventi secondo una linea temporale, ma mostrano particolari difficoltà a generare immagini ego-centrate e forniscono racconti frammentati e depersonalizzati (Irish et al., 2011). Per contro, i pazienti con demenza frontotemporale sono maggiormente in difficoltà nel rappresentarsi il tempo in modo prospettico (Irish et al., 2013).

In altre parole, per essere in grado di viaggiare sulla propria linea di vita, è necessario compiere numerose operazioni mentali che coinvolgono memoria autobiografica, capacità visuo-immaginative, capacità esecutive e metacognitive per formulare idee future probabili sulla base di idee passate, ma soprattutto è necessario avere la capacità di rappresentarsi il tempo come dimensione unitaria e continua che ha luogo nei ricordi e termina in immagini formulabili ma non ancora avvenute. E’ una funzione eccessivamente complessa che nel deterioramento cognitivo si riduce presto e che ha un drammatico impatto sulla propria consapevolezza e senso di identità.

Conclusioni: l’importanza della ricerca in tema di deterioramento cognitivo e percezione temporale

Per riassumere abbiamo descritto la percezione temporale come funzione estremamente complessa, la quale si struttura di molteplici componenti. Per avere un corretto orientamento temporale, formulare una corretta stima di una durata di tempo o per essere in grado di rappresentarsi il proprio arco di vita e viaggiare su di esso nel passato e nel futuro, occorre un intatto funzionamento di tutte le funzioni cognitive e quindi un intatto funzionamento di tutte le aree cerebrali. Per questo motivo, quando è presente una disfunzione neurologica come un deterioramento cognitivo, indipendentemente dall’area cerebrale coinvolta e dallo stadio del disturbo, la percezione del tempo viene interessata in almeno una delle sue componenti.

Tutti i pazienti con demenza hanno difficoltà col tempo e tale deficit compromette significativamente l’adattamento all’ambiente. Questi presupposti sono di grande importanza sia scientifica che clinica. Da una parte abbiamo bisogno di modelli maggiormente definiti che descrivono la percezione del tempo in ogni suo aspetto e che non si limitino alla descrizione di tale funzione intesa come capacità di stimare una durata temporale. Dall’altra abbiamo bisogno di maggiori studi che descrivano i deficit temporali nei pazienti con deterioramento cognitivo e come essi interferiscano con il decremento della funzionalità delle altre funzioni cognitive.

In questo modo potremmo pensare alla formulazione di interventi specifici per preservare o rallentare la riduzione di questa funzione, così fondamentale in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Quando si parla di demenza e di interventi di stimolazione cognitiva per questi pazienti si pensa sempre all’attenzione e alla memoria. Ma se il tempo è una dimensione che integra tutte le funzioni ed è così determinante per l’adattamento, l’autonomia e il mantenimento di un senso di consapevolezza di Sé, potrebbe essere utile pensare ad interventi focalizzati primariamente a questa funzione.

ADHD, Deficit di Attenzione e Iperattività: un gioco da ragazze?

ADHD, il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) viene definito come un disturbo dello sviluppo caratterizzato da incapacità a mantenere l’attenzione per un periodo di tempo prolungato, impulsività e iperattività; per soddisfare la diagnosi secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013) i sintomi devono essere presenti in diversi contesti e devono avere esordio durante l’infanzia.

ADHD nel DSM 5

Con l’arrivo della quinta edizione del DSM (DSM-5; APA, 2013) la classificazione dell’ADHD è stata aggiornata per meglio comprendere il disturbo anche all’interno della popolazione adulta. Nello specifico, mentre per ottenere una diagnosi i bambini devono presentare almeno 6 sintomi tra quelli elencati nelle categorie di iperattività o deficit di attenzione, oltre i 17 anni a scopo diagnostico sono sufficienti 5 criteri.

 

ADHD nell’età dello sviluppo: differenze di genere

Per quanto riguarda il genere, l’ADHD è un disturbo tipicamente diagnosticato tra i bambini di sesso maschile, nonostante si stimi che la metà delle ragazzine con ADHD non riceva una diagnosi adeguata (Nadeau et al., 2015). Le cause di questa particolare differenziazione tra i generi possono essere svariate.

Secondo Ellen Littman, la sintomatologia dell’ADHD si differenzia tra i due generi, ma purtroppo quella “ufficiale” richiesta per ottenere una diagnosi di ADHD si basa sulla descrizione di bambini bianchi di sesso maschile, mentre sembra che ci sia una diversa manifestazione sintomatologica nelle femmine sia per differenze di genere nello sviluppo neurologico (come una maturazione più veloce del cervello femminile), che per differenze nelle caratteristiche neuroanatomiche (come differenze di dimensioni delle strutture cerebrali). Inoltre, anche differenze a livello ormonale e nelle aspettative sociali riferite al ruolo possono avere un impatto nella manifestazione sintomatologica del disturbo nella popolazione femminile.

In uno studio longitudinale che ha seguito per 10 anni 140 ragazze con un’età compresa tra 17 e 24 anni che avevano ricevuto una diagnosi di ADHD in età infantile (93 sia con deficit di attenzione che iperattività e 47 solamente con deficit di attenzione), Hinshaw (2002) ha rilevato come nella ri-valutazione a 10 anni dal momento della diagnosi, oltre il 40% delle ragazze non soddisfaceva più i criteri necessari. Tuttavia, queste ragazze presentavano sintomi psichiatrici più gravi e maggiori difficoltà nel funzionamento quotidiano, rispetto a soggetti non clinici con la stessa età ma senza diagnosi di ADHD nell’infanzia.

Nello specifico, le ragazze con ADHD combinato (cioè con la presenza di entrambi i sintomi, deficit attentivo e iperattività) avevano maggiori probabilità di presentare sintomi auto-lesivi e tentativi di suicidio, rispetto alle ragazze senza diagnosi: la metà di queste ragazze aveva messo in atto comportamenti autolesivi e quasi un quinto aveva tentato il suicidio, suggerendo un ruolo importante in questo senso dell’impulsività, tratto non contemplato nel sottotipo diagnosticato come ADHD con deficit di attenzione.

 

Donne con ADHD, diagnosi in età adulta

Secondo Nadeau (2002), molte donne con ADHD ricevono una diagnosi una volta diventate madri, quando i figli stessi hanno la medesima diagnosi e permettono a queste donne di riconoscersi nelle caratteristiche del disturbo. Le pazienti adulte con ADHD tipicamente presentano importanti difficoltà con la gestione del tempo e del denaro, una disorganizzazione cronica che riguarda tutti gli ambiti di vita, vissuti di stress e ansia, la sensazione di essere sopraffatte dalle richieste dell’ambiente, una storia di ansia o depressione e annoverano figli o fratelli con ADHD.

Rucklidge e Kaplan (1997) hanno raccolto dati su 102 donne con un’età compresa tra 29 e 59 anni (con un’età media di 41 anni), tutte madri di un figlio o una figlia con diagnosi di ADHD: la metà di queste donne ha ricevuto a sua volta una diagnosi di ADHD. In particolare, le donne diagnosticate avevano maggiori probabilità di presentare uno stile di risposta di impotenza appresa davanti alle situazioni negative e tendevano a incolparsi di più per le situazioni infauste; erano inoltre più propense a credere di non poter controllare gli eventi della loro vita. Sicuramente è importante approfondire meglio la sintomatologia ADHD anche all’interno della popolazione femminile, dove sembra manifestarsi con caratteristiche talmente differenti dalla versione “ufficiale” richiesta per fare diagnosi, che rischia di non consentire un corretto inquadramento nelle bambine con ADHD; questo potrebbe portare a importanti difficoltà ad accedere ai servizi e ai percorsi in tempi brevi, aumentando la probabilità di sofferenza e di insorgenza di sintomi psichiatrici di elevata gravità.

Quando l’affitto lo pagano mamma e papà: dipendenza finanziaria nelle nuove generazioni

Che sia la crisi economica, la scarsa iniziativa delle nuove generazioni o una caratteristica della società contemporanea, è sotto gli occhi di tutti come, oggi, i giovani tendano a rendersi indipendenti in età più avanzata rispetto a quanto avvenisse in passato.

Un recente studio dell’Università del Nord Carolina ha esaminato un campione di oltre sei mila soggetti indagandone la situazione economica, formativa e lavorativa. Otto anni dopo la prima raccolta di dati, i ricercatori hanno ricontattato i partecipanti per una seconda valutazione, con l’obiettivo di comprendere come la situazione di ciascuno si fosse evoluta.

Che si tratti del pagamento delle tasse universitarie, di un aiuto per l’affitto o di un contributo mensile generico, i genitori continuano a farsi carico economicamente dei figli anche quando questi abbandonano il nido.

Lo studio ha rivelato che il 40% dei ragazzi di età compresa tra i 25 e i 32 anni fa affidamento sull’aiuto finanziario dei genitori pur abitando fuori casa. Il dato si riferisce alla popolazione nordamericana, ma descrive qualcosa di molto vicino alla realtà che osserviamo quotidianamente: i giovani cercano di crearsi una vita autonoma, di andare ad abitare soli, con il partner, con amici o coetanei, ma raramente è possibile fare tutto senza aiuti. Che si tratti del pagamento delle tasse universitarie, di un aiuto per l’affitto o di un contributo mensile generico, i genitori continuano a farsi carico economicamente dei figli anche quando questi abbandonano il nido.

Un ulteriore elemento risulta significativo: i ragazzi provenienti da famiglie di status socio economico più elevato in genere sono parzialmente indipendenti tra i 20 e i 25 anni ma con il passare degli anni continuano a non provvedere del tutto autonomamente alle proprie esigenze, restando incastrati in tale situazione per lungo tempo e, in alcuni casi, scegliendo di tornare in casa dei genitori per un certo periodo. Per chi frequenta il college, invece, l’indipendenza parziale degli anni della formazione è il primo passo di un percorso di crescita e di ingresso nell’età adulta ed è seguita da una rinuncia totale agli aiuti economici da parte di mamma e papà; questo è vero soprattutto per chi inizia a pagare da sé le tasse universitarie.

Uno scenario che ci invita ad una seria riflessione. Innanzitutto, emerge un nuovo profilo della famiglia e dei legami intergenerazionali: la genitorialità si connota nei termini di un impegno economico prolungato nel tempo e questo avviene soprattutto nei nuclei familiari di status socioeconomico elevato. Ma è importante trarre da quanto emerso anche una seconda considerazione: se l’università permette di rendersi economicamente indipendenti ma impone un periodo di parziale dipendenza, è importante intervenire per evitare il perpetuarsi di circoli viziosi che impediscano a chi proviene da un contesto meno agiato di scegliere di investire sulla propria formazione. Il passo più importante potrebbe essere proprio una riduzione delle tasse universitarie, specie in un paese, come l’America, in cui il costo dei college è davvero proibitivo. Lo scorso gennaio Obama ha proposto di lavorare nella direzione della gratuità della formazione accademica; non resta che aspettare e vedere quali risposte si sapranno trovare per sciogliere questa complessa questione sociale.

La CBT-E per la cura dei disturbi dell’alimentazione nel sistema sanitario inglese

Il Chief Medical Officer del National Health Service Inglese raccomanda la CBT-E per la cura dei disturbi dell’alimentazione

I pazienti che soffrono di disturbi dell’alimentazione – ovunque essi vivano e indipendentemente dalla loro età o diagnosi specifica – dovrebbero avere rapido accesso a un trattamento presso il National Health Service (NHS) inglese, secondo il resoconto annuale “Health of the 51%: Women” del Chief Medical Officer Dame Sally Davies, che si propone di affrontare il crescente problema dei disturbi dell’alimentazione, come l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa.

Il trattamento, chiamato terapia cognitivo-comportamentale migliorata o ‘CBT-E‘, è stato sviluppato con un finanziamento a lungo termine del Wellcome Trust presso il Centre for Research on Eating Disorders del’Università di Oxford Centre. La CBT-E è il primo trattamento per i disturbi dell’alimentazione a mostrare risultati positivi per i pazienti di tutte le età e diagnosi.

Oggi, nelle sue raccomandazioni chiave per il NHS, che accompagnano la relazione annuale del 2015 dal titolo “Health of the 51%: Women” il Chief Medical Officer ha detto che l’NHS inglese dovrebbe commissionare servizi per fornire la CBT-E ai pazienti.

Nel Regno Unito si stima che almeno 725.000 persone soffrano di disturbi dell’alimentazione, di cui circa il 10% sono maschi e il 90% sono di sesso femminile. Le cifre pubblicate nel 2014 dall’Health and Care Information Centre hanno mostrato che c’è stato un costante aumento dei ricoveri ospedalieri a causa dei disturbi dell’alimentazione dal 2005-6, con un incremento di circa il 7% ogni anno.

La CBT-E è il prodotto di un programma esteso di ricerca clinica finanziata dal Wellcome Trust. Negli ultimi 15 anni, una serie di studi randomizzati controllati per valutare il suo potenziale uso come trattamento sono stati effettuati nel Regno Unito, Australia, Danimarca, Germania, Italia e Stati Uniti.

La Wellcome Trust ha anche supportato una nuova forma di formazione on-line sulla CBT-E per i terapeuti in modo che il trattamento possa essere implementato rapidamente. In passato la lenta formazione dei terapeuti è stata uno dei principali ostacoli all’implementazione di nuovi trattamenti psicologici. Usando questo nuovo metodo, più di 700 terapeuti in tutto il mondo hanno ricevuto una formazione centrata sul web nella CBT-E negli ultimi 18 mesi.

Il professor Christopher Fairburn, che ha sviluppato il trattamento presso il Centre for Research on Eating Disorders delll’Università di Oxford, e che ha lavorato in questo campo da oltre 30 anni, ha dichiarato:

“Per la prima volta c’è un unico trattamento efficace che funziona in tutti i disturbi del’lalimentazione – tra cui l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating – e in tutti i gruppi di età. Il trattamento semplificherà il lavoro dei medici e porterà al miglioramento della salute dei pazienti”.

Il Dr John Isaac, capo del Neuroscience and Mental Health al Wellcome Trust, ha dichiarato:

“I disturbi dell’alimentazione possono essere devastanti e preoccupanti, stiamo assistendo a un costante aumento del numero di pazienti che ne sono affetti. La CBT-E è una potente dimostrazione di come un attento sviluppo di nuove terapie psicologiche, supportate da studi clinici su larga scala, sia in grado di portare il trattamento a un  ampio numero di pazienti. Mi auguro che l’introduzione di questo nuovo servizio potrà fare la differenza per la vita dei pazienti”.

Lorna Garner, Chief Operating Officer di Beat, un gruppo caritatevole che sostiene le persone affette da disturbi dell’alimentazione, ha detto:

“Beat da tempo sta facendo una campagna per i pazienti con disturbi alimentari affinché abbiano accesso tempestivo alle terapie che hanno evidenza di efficacia. Siamo molto incoraggiati da questa raccomandazione del Chief Medical Officer che, se attuata avrà un impatto drammatico e positivo su una percentuale molto elevata di persone affette da disturbi dell’alimentazione. I dati a disposizione dimostrano che l’intervento precoce ha non solo il miglior risultato per i pazienti, ma ha anche un impatto molto positivo sull’economia e sulla società nel suo complesso”.

Opinioni che ognuno potrebbe avere, di Michele Serra (2015) – Recensione

Gli episodi che si susseguono sembrano rappresentare i tasselli di una società in crisi in cui il lontano, l’evanescente, l’astratto stanno rubando il posto al vicino, al tangibile, alla realtà materiale; in cui le nostre autocelebrazioni venate di narcisismo ingombrano paradossalmente una realtà sempre più inconsistente e virtuale; in cui tutto è in corso, ma non qui e quindi finisce per attraversarci senza riguardarci davvero.

Il protagonista del romanzo è Giulio, 35 anni, sociologo ricercatore non meglio definito che studia e categorizza – insieme al suo amico antagonista, nonché inguaribile ottimista Ricky – l’esultanza dei calciatori dopo il gol; ha una compagna, Agnese, egofono-dipendente e sta cercando di vendere il capannone del padre ebanista ancora pieno di legni pregiati, ma ormai fermo da tempo. Giulio vive in una pianura indefinita, chiamata Capannonia, dove il nostro eroe sconsolato si sente fuori posto e in cui perdersi[blockquote style=”1″] sarebbe al tempo una vertiginosa certezza e un’entusiasmante liberazione[/blockquote], ma invece sono le strade che percorre da una vita, ma che non riconosce più.

Gli episodi che si susseguono sembrano rappresentare i tasselli di una società in crisi in cui il lontano, l’evanescente, l’astratto stanno rubando il posto al vicino, al tangibile, alla realtà materiale; in cui le nostre autocelebrazioni venate di narcisismo ingombrano paradossalmente una realtà sempre più inconsistente e virtuale; in cui tutto è in corso, ma non qui e quindi finisce per attraversarci senza riguardarci davvero.

Ognuno è un pronome indefinito che sembra voler sgonfiare l’enorme bolla narcisistica che ingombra il nostro tempo e che sembra spogliare ciascuno del proprio ‘Io’ rendendolo anonimo e silenzioso.

E così vediamo il nostro eroe assistere ad un immobile avanzare di opinioni foriere di sterili polemiche riguardo la morte di un cinghiale; recuperare Agnese al pronto soccorso perché investita da un ciclista che non ha visto, perché anche lei affetta dalla sindrome dello sguardo basso; fare un lavoro tanto precario quanto inutile, emblema di quanto il narcisismo possa essere ospite indiscusso del nostro presente; soffrire allo stesso tempo la distanza degli altri esseri umani oscurati dalla tecnologia e la costante presenza dei loro ‘Io’ decantati senza misura attraverso parole e immagini.

Fortunatamente, vediamo Giulio anche disgustarsi dell’autismo digitale che pervade il nostro oggi, perdersi e interrogarsi; e alla fine non accontentarsi di una realtà piena di continue interferenze, con cui non si è più davvero in contatto. Sembra necessario, tanto al protagonista quanto al lettore, spegnere le luci, abbassare i volumi e ingannare il tempo per recuperare un ritmo interiore che ci permetta di disegnare la strada da percorrere, quella più autentica.

Giunto alla fine saprà rispondere al suo interrogativo sul perché continuano a costruire le rotonde:

perché il nostro destino è sbagliare strada[/blockquote], il nostro destino è perdersi e ri-orientarsi, ma senza l’aiuto di una voce artificiale, che renderebbe la strada intrapresa un illusorio autoinganno.

Ognuno potrebbe: ‘ognuno’ è un pronome indefinito che sembra voler sgonfiare l’enorme bolla narcisistica che ingombra il nostro tempo e che sembra spogliare ciascuno del proprio ‘Io’ rendendolo anonimo e silenzioso. ‘Potrebbe’ è una forma verbale che entra in punta di piedi, che lascia sospesa un’occasione, quella di poter fare qualcosa per migliorare, qualsiasi cosa. Certo, anche questa rimane un’opinione.

D’altronde oggi chi non ne ha una?!

Della separazione e della riconnessione. Elementi di psicopatologia e di psicoterapia sistemico-relazionale in chiave di Ecologia della Mente – Intervista agli autori

Il nuovo libro di Giovanni Madonna e Francesca Nasti sul processo dell’ammalarsi e del guarire/curare: intervista doppia agli autori.

Intervista doppia a Giovanni Madonna e Francesca Nasti, autori per FrancoAngeli, di un nuovo testo, di chiara matrice epistemologica batesoniana, che invita a un’esplorazione del territorio clinico presentando stralci di conversazione estratti da alcune psicoterapie per offrire una descrizione ostensiva della pratica clinica che non perde mai di vista la connessione con il territorio teorico/epistemologico sistemico-relazionale da cui ha avuto inizio l’esplorazione.

Intervistatore (I): Dottor Madonna da dove nasce l’idea di questo nuovo libro?

Dottor G. Madonna (GM): Dalla voglia di sottolineare che una buona teoria non è un arzigogolo mentale separato dalla pratica; e dalla voglia di proporre una descrizione ostensiva delle implicazioni cliniche derivanti dall’adozione dell’Ecologia della Mente come matrice epistemologica di riferimento. Considero significativo, a questo proposito, che alcuni fra gli interventi clinici presentati possano essere considerati anche come enunciazioni teoriche: l’epistemologia è intimamente connessa con la clinica, non è altro rispetto alla clinica; e la clinica non è altro rispetto all’epistemologia.

I: L’allenamento alla riconnessione, che richiede costantemente allo psicoterapeuta di mettere insieme parti differenti, una accanto all’altra, non crede che rischi di destabilizzare? In tutta questa complessità non c’è il rischio di perdersi?

GM: Allenare il proprio paziente alla riconnessione – non è altro, in fondo, che dare diritto di cittadinanza alla complessità che noi siamo, noi pazienti e noi psicoterapeuti. Proporre connessioni, inoltre, non è intervento unilaterale, non è interpretare o ridefinire; è proporre nuove possibilità di senso che, affidate al processo stocastico potranno o no, per vie imprevedibili, generare salute e benessere. Le proposte di senso non armoniche rispetto all’ecologia delle idee dello psicoterapeuta semplicemente non saranno proposte; e le proposte di senso non armoniche rispetto all’ecologia delle idee del paziente semplicemente non vi attecchiranno. E questo sarà rispettato dallo psicoterapeuta, che non considererà quel non attecchimento come una resistenza, ma come un aiuto a correggere il suo modo di aiutare il paziente. E da questa dinamica tutti e due – paziente e psicoterapeuta – non risulteranno destabilizzati: potranno invece conservarsi – come tutto ciò che vive finché vive – dinamicamente stabili, e godere di una stabilità aperta al cambiamento.

I: A leggere il testo sembra che lei non consideri separate patologia e normalità…

GM: Certo, è così, non sono separate. Sia un sano che un malato possono preoccuparsi, essere tristi, esaltarsi… possono abbuffarsi o saltare il pasto… la differenza consiste nel fatto che i malati si specializzano rigidamente… se non si specializzassero non sarebbero malati… tutte le malattie insieme si contempererebbero fra loro generando salute… Dobbiamo allenarci a non pensare in termini dicotomici… a considerare le tradizionali dicotomie – compresa quella salute/malattia in termini di processi distinti, ma non separati.

I: A un certo punto del testo, in un breve frammento di un caso clinico, lei, rivolgendosi a un paziente, afferma “questa è una battaglia che può vincere solo se accetta di perderla”; crede che lo stesso si possa dire anche a uno psicoterapeuta in riferimento agli obiettivi che si pone nello svolgere la professione?

GM: Sì, credo di sì; e mi piace questo isomorfismo che proponi. Lo psicoterapeuta non dovrebbe accanirsi – sia pure a fin di bene – nel perseguire obiettivi volti al cambiamento dell’altra parte della più ampia ecologia che lo comprende, ovvero dell’altra parte del cosiddetto sistema terapeutico: il paziente. Proprio come una parte del paziente non dovrebbe accanirsi nel tentativo di cambiare un’altra parte della più ampia ecologia che il paziente tutto intero è.

I: Dottoressa Nasti cosa ha significato per una giovane professionista avere la possibilità di essere coautrice di un libro con Giovanni Madonna?

Dottoressa F. Nasti (FN): Ha significato avere coraggio e allo stesso tempo lasciarsi infondere dalla fiducia di essere all’altezza del compito. Fiducia che ho potuto coltivare a partire da quella stessa dimostratami da Giovanni Madonna, mio formatore all’IIPR di Napoli (dove sono attualmente allieva didatta), nell’affidarmi i commenti ai suoi stralci di psicoterapia. Ha significato avere cura di studiare il processo dell’ammalarsi, del curare e del guarire come se fossi dietro lo specchio di un laboratorio epistemologico. Ha significato sperimentare ancora una volta l’importanza assieme alla bellezza del pensiero sulla metodologia, a sostegno della convinzione consolidata che le teorie hanno bisogno di essere abitate nell’esercizio della pratica clinica, così da porre in essere un modus operandi nel quale i concetti e le premesse dei modelli teorici orientano l’azione psicoterapeutica. Ha significato quindi pensare alla teoria attraverso la pratica e la pratica attraverso la teoria col paradigma della complessità scevra tuttavia da complicatezze e col modello psicoterapeutico batesoniano sviluppato appunto da Giovanni Madonna.

I: Dottoressa a fine testo, commenta quanto teorizzato da Madonna con altre sue riflessioni e lo fa avvalendosi di alcuni casi clinici. C’è qualcuno dei casi presentati che l’ha maggiormente colpita e perché?

FN: Credo che la psicoterapia abbia tra i massimi obiettivi la possibilità di creare chance. Per questo cito il caso di Petra. Ci auguriamo che i pazienti facciano un viaggio, esperienza di bellezza del lavoro epistemologico e siano capaci di valutare la riuscita della psicoterapia apprezzando l’insorgenza e/o il recupero della capacità di concepire la propria vita, sé e gli altri anche diversamente da quel modo che aveva generato sofferenza, dolore o malattia. Cito Petra per l’esemplificazione del processo di re-integrazione che secondo me si rende visibile negli stralci che la riguardano e non ultimo per la sintonia tra psicoterapeuta e paziente da cui nascono passaggi dialettici delicati, sensibili e poetici.

Occuparsi di chi soffre di demenza: il carico soggettivo del caregiver

Giulia Montanari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive, la sfera comportamentale ed emotiva e comporta una perdita progressiva di autonomia. Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene anche definita una malattia familiare.

 

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive (memoria, capacità di ragionamento, di pianificazione, di giudizio…), la sfera del comportamento e delle emozioni e comporta una perdita progressiva di autonomia (van der Lee, 2014). Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene anche definita una malattia familiare.

Il ruolo di cura del familiare (carer), che si assume più o meno consapevolmente il compito dell’assistenza al paziente demente, è importante e muta nel corso dell’intero periodo di assistenza, dall’esordio delle responsabilità fino all’istituzionalizzazione e al decesso del paziente.

La percezione di un carico di cura eccessivo rivolto al malato viene definito ‘burden‘ ed è costituito dall’insieme dei problemi fisici, psicologici o emozionali, sociali e finanziari che devono affrontare i familiari di anziani con deficit fisici o cognitivi. Pertanto Il burden provoca un forte stress e la sensazione di non riuscire a far fronte alle richieste di cura. (Zarit, 1986).

E’ possibile distinguere tra aspetti oggettivi del carico che sono legati all’impegno fisico, assistenziale e alla gestione dei disturbi comportamentali del malato, e aspetti soggettivi riguardanti tematiche di perdita di identità del malato, di intimità e reciprocità nella relazione, isolamento e ritiro sociale del caregiver. La letteratura ha evidenziato come questi ultimi aspetti siano strettamente correlati con il benessere fisico e psicologico del caregiver (Zarit et al, 1986).

In questo articolo si andranno ad individuare quali siano le caratteristiche del paziente con demenza e del caregiver che sono significativamente determinanti del carico soggettivo del familiare, inteso appunto come salute mentale. Gli studi presi in esame hanno utilizzato diversi modelli di riferimento relativi allo stress per indagare i diversi fattori (Lazarus e Folkman, 1984; Poulshock e Deimling, 1984; Haley, 1987; Pearlin et al., 1990).

Caratteristiche del paziente affetto da demenza

Tutti questi modelli individuano come fattori determinanti nel paziente demente la presenza di problemi comportamentali o sintomi psichiatrici della demenza e la mancanza di cura di sé e bisogno di supporto. I problemi comportamentali, i disturbi dell’umore o i sintomi psichiatrici risultano essere molto frequenti nei pazienti con demenza e sono considerati fattori determinanti di burden del caregiver (van de Wijingaart et al., 2007). In particolare, essi sono correlati positivamente con il disagio psicologico o emotivo del caregiver (Pot et al, 1998; Meiland et al, 2005; Lee et al , 2006).

Inoltre, la presenza di sintomi depressivi (Goode et al , 1998; Alspaugh et al, 1999; Rabinowitz et al, 2009) e di sintomi ansiosi nel paziente (Mahoney et al , 2005 . Pioli , 2010) hanno un impatto negativo sulla salute mentale del caregiver ( Hooker e Bowman, 2002) o sono associati ad un effetto negativo sul carico assistenziale (Rapp e Chao, 2000).

Diversi studi (Meiland et al., 2005; Pot et al., 1998) hanno evidenziato come un elevato grado di assistenza o di supporto richiesto nelle attività della vita quotidiana (ADL) dai pazienti con demenza sia un fattore determinante del distress del caregiver. In particolare, la disabilità nelle attività della vita quotidiana e la mancanza di cura di sé del malato, rappresentano un fattore determinante la salute mentale (Braithwaite, 1996), il benessere del caregiver (Lawton et al., 1991) e più nello specifico nell’insorgenza di sintomi depressivi nello stesso.

Un dato interessante emerso in questi studi, è che la presenza di disturbi delle funzioni cognitive nei pazienti, non rappresenti un fattore determinante il burden del caregiver e non abbia un impatto sulla salute mentale dello stesso. Ciò non toglie che essi non possano essere rilevanti con il progredire della malattia e quando il paziente sarà totalmente a carico della famiglia e non in regime ambulatoriale.

Caratteristiche del caregiver di pazienti con demenza

Per quanto riguarda i fattori determinanti nel caregiver, essi possono essere suddivisi in: fattori sociali legati al caregiving (funzionamento sociale, rete e supporto sociale) (Pearlin et al, 1990.); salute fisica e mentale del caregiver; senso di competenza, autoefficacia e adeguatezza del caregiver (Pearlin et al, 1990.); tratti di personalità e strategie di coping del caregiver.

Diversi studi hanno mostrato come interazioni sociali negative e una rete sociale limitata siano fattori determinanti di depressione nel caregiver (Haley et al. , 2003), mentre la disponibilità di sostegno sociale e la valutazione personale di supporto siano associate sia ad una diminuzione del burden (Gold et al., 1995; Coen et al. , 1997) che ad una diminuzione dei sintomi depressivi (Au et al., 2009).

Per quanto riguarda il funzionamento sociale, maggiore è l’insoddisfazione da parte del caregiver rispetto al supporto dato e maggiore sarà il suo burden (Reis et al., 1994), mentre la percezione di un sostegno positivo lo diminuisce (Shurgot e Knight, 2005). Allo stesso modo, un buon rapporto con il paziente diminuisce il burden, mentre la tensione legata al ruolo di caregiver predice un burden maggiore (Campbell et al., 2008; Braithwaite, 2000). Inoltre, la preoccupazione e le difficoltà legate all’accudimento del paziente sono predittori della sintomatologia psicologica (Crispi et al., 1997).

Cattive condizioni di salute fisica del caregiver, rappresentano un fattore determinante nella comparsa di problemi di salute mentale nello stesso (Wu et al., 2009), e in particolare di depressione (Lawton et al, 1991; Haley et al, 2003; O’Rourke e Tuokko, 2004; Mahoney et al, 2005). Inoltre anche la preoccupazione e la tensione nel caregiver sono positivamente correlate alla depressione (Edwards et al., 2002).

Una cattiva salute fisica associata ad una prospettiva negativa sulla vita (Vitaliano et al., 1991), una bassa salute autoriferita e meno gioia (Reis et al. 1994), una bassa valutazione della salute collegata alla qualità di vita (Andrén e Elmstahl, 2007), una bassa auto-valutazione della salute (Baker et al., 2010) e una scarsa salute fisica e mentale (Conde-Sala et al., 2010) rappresentano tutti fattori determinanti il burden del caregiver. Tuttavia, il benessere soggettivo risulta essere significativamente determinante nella diminuzione del burden (Aminzadeh et al., 2006).

Il senso di competenza è risultato essere uno dei più importanti fattori determinanti i sintomi psicologici e psicosomatici nei caregivers (Droes et al., 1996). In particolare, per i caregivers con un basso senso di competenza, i sintomi psichiatrici del paziente rappresentano un importante fattore predittivo di stress emotivo (Meiland et al., 2005). Un aumento di competenza e una diminuzione del sovraccarico del caregiver determinano una riduzione della depressione (Mausbach et al., 2007) e al tempo stesso un elevato senso di autoefficacia e di autostima diminuiscono sensibilmente il burden (Chou et al., 1999; Chappell e Reid, 2002; Gonyea et al., 2005).

In uno studio, Cooper et al., hanno individuato come l’utilizzo, da parte dei caregivers, di strategie focalizzate sulle emozioni produrrebbero meno ansia rispetto all’utilizzo di strategie focalizzate sul problema, che invece tenderebbero ad aumentarla (Cooper et al. , 2008).

Tuttavia, non emergono le stesse conclusioni anche per il burden. Infatti, diversi studi hanno mostrato come l’utilizzo di strategie focalizzate sul problema siano associate a più bassi livelli di burden, mentre strategie focalizzate sulle emozioni a livelli più elevati (Chou et al, 1999; Riedijk et al, 2009). In ulteriori studi, si è osservato come la maggior parte dei caregivers tendesse ad utilizzare strategie focalizzate sulle emozioni, strategie che pertanto aumenterebbero maggiormente il burden (Vitaliano et al., 1991; Kim et al., 2012).

Per quanto riguarda i tratti di personalità, in particolare è emerso come il nevroticismo sia collegato ad una salute mentale peggiore (Hooker et al., 1998) e a un maggior burden (Reis et al, 1994;. Shurgot e Cavaliere, 2005; Choi e Kim, 2008) del caregiver.

Si può concludere da questa review che i problemi comportamentali del paziente o i disturbi dell’umore sono costantemente riportati come importanti fattori determinanti il carico del caregiver, la depressione e la salute mentale. Soprattutto per il burden, la maggior parte degli studi mostrano come i problemi comportamentali siano più significativamente determinanti rispetto ai disturbi cognitivi o della mancanza di cura di sè.

Le risorse del caregiver, per esempio i tratti di personalità, gli stili di coping, le competenze, sono fattori determinanti forti e possono essere considerati mediatori tra l’impatto dei problemi comportamentali del paziente e il carico del caregiver, la depressione e la salute mentale.

Di tutti i tratti di personalità misurati nel caregiver, il nevroticismo ha il maggiore impatto sul caregiver. Per quanto riguarda le competenze del caregiver, sentirsi competente o un maggior senso di autoefficacia generale diminuiscono il carico del caregiver e promuovono la salute mentale del caregiver.

Questi studi forniscono interessanti spunti per la pratica clinica con lo scopo di abbassare il burden del caregiver. In particolare, è possibile lavorare sia sulla gestione dei disturbi comportamentali del malato, fornendo al familiare strategie pratiche applicabili nella vita quotidiana, che sulle strategie utilizzate dai familiari stessi nella gestione del malato.

In generale, il carico del caregiver e i suoi fattori determinanti restano un tema importante e risultano sicuramente necessarie ulteriori ricerche, anche per quanto riguarda le variabili del caregiver, quali il genere e le strategie di coping.

Alaska, di Claudio Cupellini: l’insostenibile fragilità del legame – Cinema & Psicologia

In Alaska di Claudio Cupellini, la relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.

Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo

Fausto è un giovane italiano emigrato a Parigi, lavora come cameriere e sogna di diventare maître per non dover più stare sotto padrone. Nadine è parigina, si trova lì per un provino come indossatrice, ma fugge non riuscendo a tollerare il rischio di un giudizio negativo sul suo corpo e su se stessa. Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo. Su quel tetto i loro sguardi si incontrano e in un attimo si accende la speranza. Questa l’apertura dell’ultimo lavoro di Claudio Cupellini, Alaska (2015), in cui tragicità e grottesco muovono i primi e veloci passi, gettando subito il pubblico nel vivo della storia, anzi di una storia d’amore.

Il film si snoda seguendo il legame di Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Berges-Frisbey) tra situazioni estreme e vita quotidiana, in un ritmo vorticoso e caotico che tiene incollati allo schermo fino all’ultimo respiro. Nei due protagonisti vive un desiderio pulsante di emergere nel mondo, di provare emozioni forti e di lasciare spazio all’ingenuità che ancora li accende nel gioco e nella leggerezza della loro età. Ma nei loro sguardi incerti traspare una grande paura del futuro, del fallimento e del deserto che porta con sé la solitudine. Reagiscono insieme, aggredendo la vita, ma l’alternanza di queste emozioni vive nel loro legame e ne determina in ogni attimo l’andamento: ognuno cerca nell’altro complicità, identificazione e sicurezza per allontanare, finché possibile, i rischi di un temutissimo confronto con la realtà.

 

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Nei caratteri di Fausto e Nadine emergono alcuni dei nuclei più dolorosi del Disturbo Borderline di Personalità, espressi quasi unicamente – e forse non a caso – nelle loro azioni, veloci imprevedibili e violente, e nei fatti che li vedono protagonisti. Corrono insieme sul filo della vita e della morte cercando un equilibrio, mai davvero possibile. La protezione che riescono a offrire l’un l’altro alimenterà la paura dell’abbandono, lasciandoli sospesi in un paradosso che li farà oscillare tra amore e paura, tra dipendenza e bisogno di fuga.
Uno dei nuclei centrali del DBP è proprio questa percezione fragile del legame, tra iper-idealizzazione e svalutazione, nell’impossibilità di trovare una giusta distanza e un confine stabili.

La relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura: se l’altro non è più disponibile in ogni momento, se la soddisfazione personale distrae dalla relazione, se non c’è tempo per giocare, allora quella routine calda e stabile diventa improvvisamente fonte di insoddisfazione e minaccia, un segnale di imminente abbandono.

Se la costanza e l’intensità del contatto fisico riescono a mantenere vivo il legame, nella distanza tutto diventa rarefatto, incerto, pauroso. L’impossibilità di fidarsi dell’altro in assenza delle sue attenzioni e del suo sguardo desiderante, rende necessaria un’azione forte che tolga ogni dubbio: un tradimento che giustifichi l’abbandono, un pericolo che gli faccia temere il vuoto della perdita, una richiesta disperata e rabbiosa di aiuto che generi sentimenti di colpa e garantisca di nuovo l’accudimento sperato. La dipendenza vive di idealizzazione, la paura di cieca svalutazione.

Ma come costruire se stessi nell’impossibilità di esplorare il mondo? Questo paradosso ben descrive il secondo nucleo di sofferenza nel DBP: il vuoto identitario. L’immagine di sé diventa positiva nella relazione e lì trova la forza per emergere e la sicurezza necessaria per cercare un’identità propria, una realizzazione personale. Fuori dalla simbiosi idealizzata però, torna il pericolo del vuoto e della non-protezione. L’immagine positiva di sé si perde e si trasforma in un bluff. Se Nadine ha successo, è Fausto a sentire la sua vita insufficiente, ad aver bisogno di riscatto e di conferme personali fuori dalla relazione. Se Fausto vive il suo successo, è Nadine a crollare nel vuoto, a sentire l’inferiorità, a temere la solitudine, il degrado. Nella continua alternanza di successi dell’uno e fallimenti dell’altro, la rottura sembra essere l’unico modo per spezzare il circolo vizioso e ripartire da soli.

Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia.

Liberarsi del legame che li unisce, li aiuta a trovare risorse nuove e inaspettate, un’inossidabile capacità di sopravvivere e restare resilienti di fronte ad esperienze negative senza lasciarsi sopraffare. E le conferme arrivano: ce la fanno anche da soli, come sempre. Tuttavia le identità costruite nelle brevi esplorazioni solitarie non riescono a sopravvivere alla colpa generata dalla rottura della relazione, mai completamente superata. Le loro nuove identità risultano presto posticce e fragili, non reggono il confronto con la realtà e il senso di sé perde lentamente coerenza. L’instabilità emotiva che emerge, riaccende il conflitto doloroso tra desiderio di dipendenza e spinta all’autonomia, tra rinuncia all’altro e riscatto personale.
Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia. Ritrovarsi nello sguardo dell’altro è l’unico modo per approdare in un porto sicuro, per cedere di nuovo al calore della dipendenza e riprendere finalmente fiato. Il dolore è spento, per ora.
C’est fini.

Vuoi fare qualcosa di buono per la tua salute? Prova ad essere generoso!

Ricerche scientifiche suggeriscono che spendere soldi per gli altri può incrementare il livello di felicità, ma può anche avere benefici sulla salute fisica.

Ogni giorno ci troviamo di fronte a scelte che riguardano il modo in cui spendere i nostri soldi, se comportarci o meno in modo generoso, che si tratti di pensare a come dividere il conto di un pranzo in compagnia o di fare o meno una donazione all’ente di beneficenza che ci ha appena chiamato telefonicamente o alla persona che ci ha fermato per strada.

Ricerche scientifiche suggeriscono che spendere soldi per gli altri può incrementare il livello di felicità, ma può anche avere benefici sulla salute fisica.
Esiste qualche evidenza in merito a una relazione diretta tra “donare il proprio tempo” e “salute fisica”, ma nessuno ha mai esaminato se ci sia lo stesso effetto se ad essere donati siano i soldi.

Così Ashley Whillans, PhD student in Psicologia Sociale e della Salute presso la University of British Columbia, e i suoi colleghi hanno deciso di condurre un esperimento per scoprire se spendere soldi per gli altri potrebbe abbassare la pressione sanguigna (prossimamente pubblicato su Journal of Health Psychology). Questo lavoro fornisce la prima evidenza empirica che tale decisione potrebbe anche avere implicazioni clinicamente rilevanti per la salute fisica.

L’esperimento consisteva nel dare 40 dollari a settimana, per tre settimane, a 128 adulti (età 65-85). Alla metà dei partecipanti, selezionati in modo casuale, veniva detto di spendere i soldi per se stessi, all’altra metà di spenderli per gli altri. Inoltre venivano invitati a consumare i loro 40 dollari tutti in un giorno e tenere le ricevute dei loro acquisti.

La misurazione della pressione sanguigna dei partecipanti avveniva prima, durante e dopo l’effettuazione dei loro pagamenti. Si è scelto di esaminare questo valore in questo studio perché si può misurare in modo affidabile in laboratorio e perché un’alta pressione sanguigna è un indice significativo per la salute – avere cronicamente un’elevata pressione arteriosa (ipertensione) è responsabile di 7,5 milioni di morti premature ogni anno.
Ecco cosa è stato trovato: nei partecipanti precedentemente diagnosticati con alta pressione sanguigna, spendere soldi per gli altri ha ridotto significativamente il loro livello di ipertensione nel corso dello studio. L’entità di questi effetti si può ritenere paragonabile ai benefici di interventi farmacologici (farmaci anti-ipertensivi) e dell’esercizio fisico. I partecipanti a cui era stata diagnosticata un’elevata pressione arteriosa e che erano stati invitati a spendere i soldi per se stessi, invece, non mostrarono cambiamenti a livello di pressione sanguigna durante lo studio.
Inoltre, come previsto, per le persone senza ipertensione, non si sono riscontrati benefici dallo spendere soldi per gli altri.

 

Nei partecipanti precedentemente diagnosticati con alta pressione sanguigna, spendere soldi per gli altri ha ridotto significativamente il loro livello di ipertensione nel corso dello studio

 

L’importanza della ricerca di Whillans e colleghi sta nell’aver trovato la prova sperimentale del fatto che il modo in cui la gente spende i propri soldi ha un significato, andando ad avvalorare la tesi di una promozione dei benefici della generosità finanziaria.
Si è constatato, poi, che le persone sembrano avere maggiore giovamento dallo spendere soldi per coloro a cui si sentono più vicini, come amici intimi e familiari. Per esempio, un partecipante allo studio era un veterano di guerra: egli donò la sua somma di denaro ad una scuola, costruita in onore di un amico che aveva servito con lui nella guerra del Vietnam. Un altro partecipante, invece, donò i suoi soldi ad un ente di beneficenza, che aveva aiutato sua nipote a sopravvivere all’anoressia.

Sicuramente c’è ancora molto da scoprire su quando e per chi si rivelano i benefici, in termini di salute, della generosità finanziaria. Per esempio noi non sappiamo molto su come o quanto la gente dovrebbe spendere per gli altri per godere di benefici di lunga durata per la salute. Di certo, la ricerca suggerisce che gli effetti positivi delle nuove circostanze possono scomparire velocemente. Così, per mantenere più a lungo termine i benefici per la salute della generosità finanziaria, potrebbe essere necessario impegnarsi in nuovi atti generosi, prioritariamente verso persone a cui ci si sente vicini.

Eppure la generosità finanziaria non porterebbe sempre vantaggi alla salute.
Attingendo a ricerche sul caregiving, la generosità finanziaria potrebbe fornire benefici solo quando non comporta costi personali schiaccianti.
La lettura di questo articolo ci invita quindi a pensarci due volte prima di donare i risparmi di un’intera vita in beneficenza: lo stress correlato a un aiuto così esteso potrebbe minare i benefici potenziali.

Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per replicare questi risultati, le scoperte di Whillans e collaboratori forniscono alcune delle prove più forti, fino ad oggi, sul fatto che le decisioni quotidiane, relative all’impegnarsi in atti finanziariamente generosi, possano portare, causalmente, a benefici per la salute fisica.
Fare un passo verso una salute migliore (e verso la felicità) potrebbe essere semplice come spendere i vostri prossimi 20 euro con generosità!

Mobbing al Lavoro: l’impatto sul benessere psico-sociale

Elena Fiabane, Martina Pigionatti, Gloria Tosi, Elisa Zugno – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca

 

Negli ultimi decenni si è osservata una crescente attenzione verso il ruolo che gli eventi stressanti possono acquisire nella patogenesi dei disturbi psichiatrici. Le condizioni lavorative stressanti, tra cui il Mobbing, possono essere considerate tra le principali variabili connesse alla salute mentale.

LEGGI ANCHE: Mobbing al Lavoro: inquadramento psicologico del fenomeno

L’esistenza di ogni individuo è in continua evoluzione e richiede la capacità di rispondere ai cambiamenti al fine di ristabilire un equilibrio quando qualcosa non è più come prima; non tutti gli individui però reagiscono allo stesso modo e, soprattutto, non tutti reagiscono positivamente a tali cambiamenti.

Qualunque cambiamento infatti porta con sé la capacità dirompente di turbare profondamente l’equilibrio di chi lo vive o subisce, anche al di là di quelle che possono essere le legittime e razionali attese e aspettative. Ne consegue che anche di fronte ad un evento gioioso come il matrimonio, la nascita di un figlio, la promozione ad una migliore posizione lavorativa in alcune persone prevalga il disagio per il cambiamento rispetto alle emozioni positive che questo evento potrebbe portare con sé e porta effettivamente con sé quando avviene nella vita di altre persone.

In generale si può affermare che nessun cambiamento è totalmente privo di aspetti negativi (o positivi), ma a volte la reazione difensiva del precedente status quo non nasce da una valutazione razionale della nuova condizione, ma rappresenta una risposta percepita come inevitabile, automatica e inspiegabile da chi la sperimenta in prima persona. Per questo motivo la Psicologia Sociale considera qualsiasi life event una potenziale fonte di stress, perché ognuno di essi richiede il riadattamento del soggetto a nuove condizioni emotive e materiali che, a loro volta, gli richiedono risposte differenti da quelle che emetteva in partenza, comportando un costo cognitivo ed emotivo non indifferente.

Mobbing e disturbi mentali

Negli ultimi decenni si è osservata una crescente attenzione verso il ruolo che gli eventi stressanti possono acquisire nella patogenesi dei disturbi psichiatrici. Numerosi studi hanno più recentemente evidenziato come le condizioni lavorative possano essere considerate tra le principali variabili connesse alla salute mentale (Wall T.D. et al. 1997; Stansfeld et al. 1999; Paternitti et al., 2002; Stansfeld e Candy, 2006; Sanderson e Andrews, 2006; Sun et al., 2011 ), confermando l’importanza del rapporto tra lavoro e disagio psichico.

In un recente studio longitudinale condotto da Nielsen et al. (2012) per valutare le correlazioni fra mobbing e alterazioni psicologiche delle vittime, è emerso che vi è una mutua relazione tra mobbing e disturbi mentali, un circolo vizioso in cui ciascuno rinforza gli effetti negativi dell’altro. Le condizioni di stress lavorativo, il demansionamento, gli squilibri e l’ingiustizia organizzativa sono state descritte da diversi autori come rilevanti fattori di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche, sia di tipo depressivo che di tipo ansioso (Sanderson K. et al. 2006, Virtanen M. et al. 2007). In assenza di categorie diagnostiche specifiche mobbing-correlate nelle classificazioni ufficiali internazionali e sulla base di una vasta analisi dei sintomi riportati dai soggetti osservati, si è arrivati a stabilire che i disturbi di cui generalmente soffrono i lavoratori-vittime possono rientrare nella categoria dei disturbi post-traumatici da stress (PTSD). Non mancano, però, pareri discordanti: alcuni inquadrano il mobbing come disturbo dell’adattamento, e altri ancora ritengono che una delle sindromi che più colpisce i lavoratori a seguito di mobbing sia il disturbo di attacchi di panico (Timpa et al., 2005).

Le prime ricadute delle situazioni di mobbing interessano la sfera neuropsichica i cui segnali precoci sono di natura psicosomatica (cefalea, disturbi gastrointestinali, dolori osteoarticolari, mialgie), del sottosoglia ansioso-depressivo (ansia, tensione, disturbi del sonno), comportamentale (ipofagia, iperfagia, potus, abuso di farmaci). Tuttavia se lo stimolo avverso è duraturo si possono configurare i due quadri psichiatrici sopra menzionati ad espressività piena, correlati a situazioni esogene: il Disturbo dell’Adattamento (DA) e il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS).

Tra le sindromi che colpisce la vittima di mobbing vi è anche la sindrome di ‘attacco di panico’: essa determina improvvise paure immotivate, con attacchi di panico violentissimi, con sensazione di morte imminente e contemporanea perdita del controllo di se stessi. La conseguenza disastrosa di tale sindrome è che il lavoratore perde totalmente la sua autonomia cosicché la sindrome risulta fortemente invalidante. Il motivo per cui il soggetto mobbizzato viene colpito dalle crisi di panico si spiega con il fatto che, per effetto delle iniziative persecutorie ed emarginanti poste in atto nella sede di lavoro, il mobbizzato inizia a macerarsi, pensa a cosa può aver fatto di male per meritarsi l’emarginazione e pertanto perde il senso dell’autostima e diventa vulnerabile, incapace di sostenere il confronto o addirittura il colloquio con un proprio simile.

Dagli studi presenti in Letteratura, emerge che i disturbi maggiormente diagnosticati nei casi di mobbing sono il DA che è diagnosticato con percentuali che oscillano dal 51,5% all’88,1% dei casi, e i Disturbi dell’Umore variano dal 5,3% al 25,7% mentre il DPTS è un evento meno frequente (Tonini et al., 2011; Balducci et al., 2009; Nolfe et al., 2007; Punzi et al., 2007; Girardi et al., 2007; Buselli et al., 2006; Hansen AM. et al., 2006; Monaco et al., 2004; Mausner-Dorsch H. et al, 2000).

 

L’impatto individuale, sociale ed organizzativo del Mobbing

La reiterazione ed il protrarsi nel tempo della molestia morale e psicologica comportano, nella maggioranza dei casi, la riduzione dello stato di salute e del benessere complessivo della persona vessata.

Concentrandosi sulle conseguenze del mobbing a livello individuale, emerge che fattori come la sicurezza dei lavoratori, la soddisfazione sul lavoro, sentimenti di umiliazione e paura contribuiscono a diminuire la coesione di gruppo e ad aumentare la perdita di posti di lavoro e una riduzione della produttività e delle prestazioni (Ayoko et al, 2003; Craig e Chong 2004; Parkins, Fishbein e Ritchey, 2006; Thompson, 2003). Precedenti studi hanno inoltre suggerito che il mobbing rappresenta una grave fonte di stress psicosociale in ambito lavorativo (Einarsen, 1996; Hoel et al., 1999) e proprio come fattore di stress psicosociale può essere potenzialmente dannoso per la salute e il benessere del singolo.

Gli impatti del mobbing sui risultati lavorativi del singolo sono ampiamente descritti in letteratura e includono: un aumento dell’assenteismo, il burnout e il licenziamento (Gardner e Johnson, 2001; Kivimaki et al, 2000; Maclntosh, 2005; Namie, 2003,2007; Yildiz, 2007). Esempi di prestazioni peggiori includono un aumento degli errori di lavoro, una diminuzione della concentrazione e una perdita eccessiva di tempo a causa di preoccupazioni legate alla situazione di Mobbing (Gardner e Johnson, 2001; Paice e Smith, 2009; Namie, 2003; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007). Da un punto di vista gestionale, la gestione e la valutazione di un dipendente che è stato vittima di mobbing può risultare difficile a causa della sua diminuita soddisfazione sul lavoro e della sua sviluppata intolleranza alle critiche (Quine, 1999, 2001; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007) portando cosi a valutazioni scorrette che potrebbero avere poi ripercussioni anche a livello legale. Impatti individuali all’interno del dominio affettivo includono sentimenti, atteggiamenti ed emozioni.

Esperienze di mobbing portano generalmente ad ansia, paura, tristezza e rabbia (Ayoko et al., 2003; Namie, 2003; Quine, 1999, 2001; Simpson e Cohen, 2004; Yildiz, 2007), perdita di concentrazione, diminuzione della motivazione, abbassamento dell’autostima e senso di impotenza (Baillien et al., 2009; Gardner & Johnson, 2001; MacIntosh, 2005; Moayed et al., 2006; Simpson e Cohen, 2004; Vartia, 2001; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007). Yildirim (2009) inoltre sostiene che gli individui vittime di Mobbing riportano un impatto negativo anche sulle interazioni sociali al di fuori del contesto lavorativo. Altra grave conseguenza del mobbing è l’aggravarsi della situazione familiare e delle relazioni personali con amici e parenti (separazioni, divorzi, allontanamento degli amici). Alcune ricerche hanno ipotizzato che i figli dei mobbizzati possano avere dei comportamenti di imitazione del genitore e di conseguenza accusare problemi di somatizzazione (neurodermiti, ecc.). Nei casi più gravi la vittima, non trovando altra via d’uscita ai suoi problemi, medita il suicidio o, all’opposto, l’omicidio. La sovraesposizione di una persona al mobbing può portare la vittima a commettere reati per collera, per infrazioni, per reazioni violente o per aggressività o eccessi di difesa. Negli Stati Uniti circa 1.000 omicidi ogni anno avvengono nel posto di lavoro (Ascenzi e Bergagio, 2000).

In riferimento alla sfera organizzativa, invece, il mobbing può comportare il peggioramento del clima organizzativo, l’aumento degli errori e degli incidenti sul lavoro, la diminuzione degli standard di efficacia-efficienza, e un consistente calo della produttività dovuto all’aumentare dell’assenteismo e del turnover. Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori che le subiscono, ma hanno ricadute in termini di costi anche per le aziende. Il mobbing provoca una inutile dispersione di risorse (tempo, intelligenza, informazione). I danni del mobbing sono concreti e oggettivi, e più i metodi utilizzati sono subdoli, più aumentano i danni, poiché richiedono dispendio di tempo e risorse (Monateri et al., 2000).

In una situazione di mobbing, il gruppo di lavoro accusa una riduzione della capacità produttiva e dell’efficienza, le critiche verso il datore di lavoro si fanno più marcate, e il tasso di assenteismo per malattia cresce. Il gruppo va alla continua ricerca di capri espiatori e aumenta la tendenza ad ingigantire i piccoli problemi. Le spese per l’azienda aumentano a causa dei sabotaggi messi in atto dal/dalla mobber, i quali provocano la perdita di grandi investimenti e di anni di ricerca. Un ulteriore aumento dei costi deriva dalla necessità di sostituire il lavoratore mobbizzato durante la sua assenza per malattia o incaricare qualcuno di portare a termine il lavoro incompiuto o errato della vittima. Se il mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre nuova formazione. Quindi la sostituzione del lavoratore licenziato ha un costo per l’azienda in termini di know-how, per non parlare del prepensionamento forzoso e dei risarcimenti per cause civili dovuti ai lavoratori mobbizzati.

Per quanto riguarda i costi umani si verifica un netto calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che del/della mobber, una perdita di personale specialistico, il crollo del clima sociale dell’organizzazione e una limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti. Dovrebbero essere considerati anche quei costi non quantificabili, come la delusione dei clienti e l’influenza che essi possono avere su molte altre persone in riferimento ad un calo dell’immagine aziendale. Un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche sul posto di lavoro ha un tasso di produttività ed efficienza inferiore del 60%. Egli, in oltre, graverà sul datore di lavoro del 180% in più (Ascenzi e Bergagio, 2000). È evidente che le aziende dovrebbero prestare più attenzione alla gestione delle risorse umane e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro.

Mobbing in Italia

L’Italia, secondo le statistiche europee si trova all’ultimo posto nella classifica dei casi di mobbing, con il 4,2%. Se si leggessero superficialmente questi dati, si potrebbe dedurre che il terrorismo psicologico nei posti di lavoro è praticamente assente dagli scenari italiani. Purtroppo la realtà è ben diversa e il risultato appare buono solo perchè nel nostro Paese non si riesce ancora a stimare il fenomeno in termini quantitativi. Il mobbing in Italia è un fenomeno che assume connotazioni e caratteristiche molto profonde e talvolta mai riscontrate negli altri Paesi. Per questo Ege (1997) parlava di ‘mobbing culturale’, sostenendo che stereotipi, aspettative e valori propri di una società condizionano fortemente questo fenomeno.

Quindi il mobbing risulta strettamente legato all’ambiente culturale in cui ha luogo. Questa peculiarità tutta italiana in tema di mobbing può derivare dal fatto che lo studio della violenza psicologica sul posto di lavoro è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare diffusamente di mobbing solo dal 1999, anno dei due primi convegni nazionali sul tema (uno a Milano organizzato dalla Clinica del Lavoro e uno a Roma a cura dell’ISPEL, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro). Non meraviglia che da noi la ricerca sul mobbing sia ancora ben lontana dagli sviluppi raggiunti da altri paesi, e i lavoratori spesso non abbiano né la conoscenza né sensibilità per capire questa forma di disagio psicologico. Inoltre, le vittime italiane difficilmente accettano di essere oggetto di mobbing, e tendono ad addossare la colpa della situazione interamente su se stesse, interrogandosi in modo quasi morboso e doloroso, con un attento esame di coscienza.

Ege sostiene che una possibile spiegazione sta nel fatto che l’italiano è per natura individualista e non è portato per la cultura di gruppo. A differenza dei paesi nordici, in Italia non c’è ancora una cultura in grado di identificare in maniera chiara questo fenomeno. Cattiverie, pettegolezzi, vere e proprie malvagità di capi e colleghi sono ritenute molte volte regole del gioco e sdrammatizzati da parenti e amici a cui vengono raccontati. L’individuo, in questo modo, si ribella quando ormai è troppo tardi e il danno è fatto. In Italia il mobbing spesso non è conosciuto come problema a se stante e in genere viene vissuto come routine. Il lavoratore è convinto che le persecuzioni sul posto di lavoro siano la norma e così il problema non viene neanche percepito, trascinando la situazione per anni, fino a diventare pericolosa e spesso irreparabile.

Infatti il lavoratore italiano si accorge dell’esistenza del problema solo dopo la fase del conflitto, nel momento in cui avverte i primi sintomi psicosomatici e comincia la lunga trafila delle assenze per malattia e delle visite mediche. In pratica, nel mobbizzato italiano l’allarme, che dovrebbe scattare al semplice conflitto, risulta tarato ad una soglia più alta, quella della malattia e quindi si trova a combattere un processo già iniziato e che ha già prodotto serie conseguenze. Per quanto riguarda le azioni messe in atto dal/dalla mobber italiano, esse si concentrano principalmente sull’isolamento, il pettegolezzo e il sabotaggio. Quest’ultimo è favorito dal fatto che in Italia il/la mobber è principalmente un superiore della vittima (solo raramente un sottoposto).

Un dato interessante emerso dalle ricerche di Ege in Italia e non riscontrato in altre culture è il ricorso da parte del/della mobber a strumenti esterni attraverso cui creare fastidio e problemi alla vittima. Il/la mobber italiano/a cerca di evitare i rischi insiti nell’attacco diretto attraverso una strategia più articolata e complessa, utilizzando mezzi esterni in modo da non scoprirsi del tutto e risultare estraneo alla vicenda.

La vittima spesso crede che il problema non esista poiché potrebbe essere un evento casuale. La vittima scarica la sua rabbia inizialmente su tale mezzo esterno e il/la mobber riesce a guadagnare tempo, tanto che nel momento in cui la vittima si rende conto di chi sia il vero colpevole è troppo tardi per cercare alleati e per difendersi. Gli strumenti esterni che vengono maggiormente utilizzati dal/dalla mobber come ‘arma’ sono il fumo (fumare in presenza di non fumatori), l’impianto stereo (alzare il volume con lo scopo di isolare la vittima e deconcentrarla) e l’aria condizionata (rendere il clima dell’ufficio insostenibile). In tutti questi casi la strategia mobbizzante è altamente subdola e praticamente infallibile e mira a rendere le condizioni di lavoro fastidiose o insopportabili per la vittima designata.

In Italia pochi dirigenti considerano il pericolo mobbing: esso viene vissuto come un fastidio o un problema scomodo che riguarda il personale e non l’azienda. Ancora la realtà italiana sembra ben lontana dal capire che i problemi del lavoratore sono anche problemi dell’azienda.

Il tempo ha un ruolo fondamentale all’interno del fenomeno mobbing. Si è visto come le prime definizioni utilizzavano tale variabile per decretare se un conflitto fosse quotidiano oppure degenerasse in mobbing (durata di almeno sei mesi con frequenza settimanale). Oggi si ritiene che non si possa accettare un limite minimo di durata del mobbing, così si cercano criteri temporali più flessibili che tengano conto di altre variabili come l’intensità degli attacchi, il numero e la posizione del mobber, ecc.. Ege sostiene che ogni conflitto quotidiano abbia una durata standard dipendente dal carattere delle persone che vi prendono parte, dal tipo di ambiente di lavoro in cui conoscere, comprendere e reagire al fenomeno del mobbing si verifica e dall’azione combinata di questi due fattori.

Partendo da questa considerazione, quindi, si può parlare di mobbing se il conflitto sul lavoro supera il limite di durata di un conflitto tipico e abituale di quello specifico ambiente di lavoro. Pertanto risulta fondamentale acquisire il maggior numero di informazioni sull’ambiente di lavoro e sui colleghi della vittima per stabilire con precisione la durata del conflitto medio in quel determinato ambiente.

Ege, in una ricerca effettuata tra il 1999 e il 2000, si propose di verificare se esistesse o meno un gruppo maggiormente a rischio di mobbing in base a fattori temporali, così studiò un campione di lavoratori provenienti da tutta Italia utilizzando cinque parametri temporali mai utilizzati in precedenza (Ege, 2001): l’età delle vittime, cercando di capire se esisteva una fascia di età più a rischio delle altre; la durata del mobbing, utile per la determinazione del danno da mobbing; la data di assunzione della vittima, per capire se il mobbing ha più a che fare con i neoassunti o con gli impiegati anziani; il periodo di tempo intercorrente tra l’assunzione della vittima in quel posto di lavoro e l’inizio del mobbing; il sesso della vittima, unico parametro non temporale.

I risultati a cui l’autore pervenne sono molto interessanti. Innanzi tutto trovò che, sebbene non esistesse una età immune dal mobbing, gli uomini compresi tra i 30 e i 40 anni e le donne comprese tra i 40 e i 50 anni risultavano maggiormente esposti e su di essi necessitava iniziare un’opera di prevenzione e formazione. Trovò che gli uomini soffrivano per più tempo il mobbing delle donne, probabilmente per paura di perdere il posto di lavoro e per una minore propensione a riconoscere sintomi e segnali di malessere. Anche se le donne sembravano più esposte al mobbing (57%) bisogna considerare che i dati si riferiscono alle vittime che cercano aiuto per il loro disagio, e non alla percentuale effettiva dei mobbizzati. Pertanto è errato supporre che gli uomini siano meno a rischio. Risultano più esposti a vessazioni lavorative i lavoratori più anziani perché meno propensi al cambiamento, mentre i neoassunti sono più disposti a lasciare un posto di lavoro altamente conflittuale. Inoltre i giovani, non avendo ancora grandi responsabilità familiari, sono più flessibili e disposti a trasferimenti o comunque sanno di poter trovare con più facilità un impiego alternativo. Un altro risultato interessante è che se il mobbing non emerge immediatamente dopo l’assunzione, non si verificherà per almeno due anni, in quanto in questo lasso di tempo i colleghi metteranno alla prova il nuovo arrivato per saggiarne le capacità.

In funzione di quanto detto, il fenomeno mobbing deve essere affrontato con la massima attenzione da parte del management, che dovrà cercare anzitutto di conoscere il clima interno all’organizzazione, in modo da poter mettere in atto specifiche azioni di prevenzione e di intervento, ricorrendo, ad esempio, a strategie di ricomposizione delle mansioni (job redesign, job rotation, job enlargement), a stili di leadership partecipativi e a pratiche di social empowerment nei confronti del lavoratore. Altrettanto importante sarà fornire il supporto necessario alle vittime di mobbing, in modo da non farle sentire isolate e impotenti dinanzi a un conflitto che, è bene ricordare, nasce sempre da uno squilibrio di potere tra le parti.

Il ritorno al lavoro

Assenze prolungate per malattia costituiscono un notevole problema che ha ripercussioni sia a livello individuale che aziendale, coprendo più di un terzo del totale dei giorni persi e fino al 75% dei costi aziendali. Da un punto di vista individuale i problemi più evidenti riguardano aspetti sociali e psicologici quali l’insorgenza di disturbi mentali come la depressione, disturbi somatoformi, disturbi d’ansia e crisi di panico, con un incremento del contributo dei disturbi psichiatrici sulle assenze per malattia soprattutto negli ultimi anni (FeltzCornelis et al, 2010).

E’emerso inoltre che, se da una parte le assenze per malattia possono costituire un’opportunità per il lavoratore di impegnarsi in attività che potrebbero contribuire al recupero (es. psicoterapia), dall’altra assenze prolungate possono aumentare il rischio di isolamento, di sviluppare sintomi ansiosi correlati al ritorno al lavoro legati a preoccupazioni eccessive riguardanti le proprie competenze e le potenziali reazioni dei colleghi, aumentando di conseguenza anche il rischio di prolungare il periodo di assenza dal posto di lavoro. Valutando invece le conseguenze legate all’azienda i problemi principali sono relativi ai risarcimenti destinati ai lavoratori, alle spese mediche e alla perdita di produttività.

Gli studiosi concordano sul fatto che l’assenza prolungata dal posto di lavoro per malattia deve essere interpretata come un fenomeno multifattoriale, influenzato da fattori personali, psicosociali, economici e medici. È fondamentale quindi, al fine di evitare che il congedo prolungato dal lavoro per malattia arrivi a delinearsi come una condizione di disabilità permanente, che gli operatori sanitari riescano a riconoscere i fattori che possono favorire o sostenere questo processo. L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) descrive domini correlati alla salute che possono essere influenzati da fattori legati al lavoro e da fattori personali quali atteggiamenti, credenze, stile di vita e comportamento, che possono svolgere un ruolo importante nel mantenimento della disabilità lavorativa.

Emerge quindi che variabili personali e variabili ambientali sono fattori fondamentali altamente correlati al prolungamento delle assenze lavorative per malattia.

Dekkers-Sanchez et al. (2007) hanno individuato 16 fattori significativi legati al prolungamento delle assenze per malattia che possono essere divisi in due grandi gruppi:

  • Fattori individuali. I più significativi risultano essere: il sesso (correlazione positiva per il sesso femminile), l’ età avanzata, un reddito basso, la presenza di disturbi mentali;
  • Fattori lavoro-correlati. I più significativi risultano essere: la presenza di uno stato di disoccupazione nell’anno precedente (maggiore per le donne rispetto agli uomini), l’ impiego in società no-profit, un basso livello di soddisfazione lavorativa.

Pertanto, partendo dall’idea che lunghe assenze dal posto di lavoro non sono determinate unicamente da uno stato di cattiva salute ma dipendono, come detto, anche da fattori individuali e lavoro-correlati, un miglioramento dei sintomi e dello stato generale di salute non è necessariamente correlato con il ritorno al lavoro. Tuttavia poco si sa del ruolo di determinanti non medici come fattori d’influenza del ritorno al lavoro. Certo è che le assenze dal lavoro dovute a disturbi mentali, in media, hanno una durata più lunga delle assenze causate da malattia fisica (FeltzCornelis et al, 2010)

Uno studio condotto da Verbeek et al (2004) ha cercato di valutare l’importanza e l’influenza del supporto sociale da parte del Medico del Lavoro nel determinare un precoce ritorno al lavoro. In particolare gli autori hanno evidenziato, per quanto riguarda il ruolo del Medico del Lavoro nel ridurre le assenze per malattia, che l’intervento può dimostrarsi più efficace se somministrato da una figura vicina al posto di lavoro; tuttavia, spesso i Medici del Lavoro non hanno una conoscenza approfondita delle diagnosi e dei trattamenti dei disturbi mentali, mentre i professionisti della salute mentale non sono istruiti per accogliere i lavoratori che hanno bisogno di un intervento finalizzato ad un ottimale ritorno al lavoro. Pertanto per il miglioramento della riabilitazione professionale dei dipendenti in congedo per malattia mentale può rivelarsi necessario un approccio multidisciplinare, in cui i domini e le competenze del Medico del Lavoro e degli esperti della salute mentale sono combinati (FeltzCornelis et al, 2010).

Studi precedenti avevano dimostrato che un supporto sociale positivo era associato con un minor numero di giorni lavorativi persi e un positivo rientro al lavoro, soprattutto nel caso di assenteismo legato a malattia fisica. Tuttavia, l’effetto di tale supporto sociale e delle sue componenti sul ritorno al lavoro di dipendenti con problemi di salute mentale non è ancora stata approfondito ma è stato indicato come potenziale fattore predittivo. Verbeek et al (2004) hanno osservato che tale supporto sociale può essere fortemente influenzato da aspetti quali la politica e l’organizzazione aziendale, la qualità del lavoro e dei rapporti sociali all’interno dell’azienda.

In particolare gli autori dello studio hanno osservato che un migliore supporto sociale è favorevole per un completo ritorno al lavoro in dipendenti non depressi, con disturbi dell’adattamento o sopravvissuti al cancro, mentre per dipendenti con un alto livello di sintomi depressivi questa associazione non poteva essere stabilita.

 

Valutazione del Mobbing e possibili interventi

L’esigenza di valutare il fenomeno mobbing è presente sia in contesti clinici che organizzativi. Innanzitutto, si segnala che non esiste un’unica modalità valida per ogni contesto. In ambito clinico la valutazione viene fatta, di norma, attraverso colloqui, somministrazione di strumenti psicodiagnostici, accertamenti di carattere psichiatrico e una particolareggiata indagine anamnestica occupazionale al fine di valutare il quadro psicofisico della vittima e di ricostruire il legame causale tra molestie subite e danni riportati (Gilioli, et al., 2001).

Dal punto di vista diagnostico la “sindrome da mobbing” non è chiaramente identificata, sebbene per quanto riguarda l’inquadramento diagnostico, sia l’International Classification of Diseases (ICD-10) che il Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV) individuano solo il Disturbo dell’Adattamento (DA) e il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) quali condizioni psichiatriche che si possono verificare come risposta ad un evento stressante. Le “malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni nell’organizzazione del lavoro” sono incluse nell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia (Decreto 10 giugno 2014 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: lista II, gruppo 7); in tale elenco sono compresi il “disturbo dell’adattamento cronico” e il “disturbo post-traumatico da stress”, a cui occorre fare esclusivo riferimento per la diagnosi medico-legale di disturbo psichico da costrittività organizzativa sul lavoro. Ne deriva l’importanza di un accurato inquadramento diagnostico, non solo ai fini clinici ma anche per l’eventuale dimostrazione del nesso di causa tra le vessazioni subite in ambito lavorativo e il danno patito (Candura et al., 2014).

L’indagine anamnestica occupazionale, nel caso del mobbing, riveste un’importanza del fondamentale e richiede l’intervento e la collaborazione interdisciplinare del medico del lavoro, dello psichiatra e dello psicologo. L’anamnesi occupazionale comprende una raccolta di dati tramite colloquio diretto con il paziente e prende in considerazione una serie di importanti elementi che riguardano:

  • Curriculum lavorativo pregresso, con particolare riferimento ai cambiamenti del posto di lavoro, loro frequenza e motivazione, nonché al grado di soddisfazione lavorativa;
  • Raccolta di informazioni riguardanti il livello di integrazione nell’ambiente di lavoro e puntualizzazione del momento in cui si sono sviluppate situazioni lavorative meno favorevoli o negative;
  • Valutazione delle modalità con cui le azioni negative sono esercitate e da chi provengono;
  • Reazioni e/o tentativi di risposta del soggetto.

Oltre all’anamnesi occupazionale, vengono effettuati colloqui con lo psichiatra e con lo psicologo ed è prevista la somministrazione di una batteria di test psicodiagnostica (che di solito include il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2) al fine di verificare l’attendibilità della persona e ottenere un quadro complessivo del funzionamento del paziente; la complessità della valutazione è infatti essenzialmente legata alla difficoltà di verifica dei dati anamnestici riportati dal soggetto.

In ambito organizzativo la valutazione viene fatta attraverso questionari self-report che indagano la percezione del soggetto relativamente all’esposizione a specifici atti ostili che qualificano il fenomeno. L’obiettivo, in questo caso, e quello di ottenere una stima dell’estensione del rischio mobbing e di individuare i possibili antecedenti organizzativi al fine di impostare, cosi come richiesto dal su menzionato Testo Unico, interventi preventivi mirati che vadano a contrastare il rischio alla fonte.

La maggior parte della ricerche presenti in letteratura sul tema del mobbing hanno usato questionari self-report. Tra questi, i più diffusi sono: il Leymann Inventory of Psychological Terror (LIPT; Leymann, 1990; adattamento italiano di Ege, 1998), costituito nella versione originale da 45 item, il primo strumento nel quale e stata proposta una definizione psicometrica del costrutto mobbing; il Questionario Clinica del Lavoro 2.0 (CDL 2.0; Gilioli, Cassitto, Campanini, Punzi, Consonni et al., 2005), costituito da 39 item che indagano altrettanti comportamenti di mobbing; il Questionario di Autopercezione di Mobbing (QAM 1.6; Argentero e Bonfiglio, 2008), il quale invece e composto da 54 item dei quali 24 indagano in modo specifico l’esposizione a comportamenti di mobbing mentre i restanti valutano la presenza e la consistenza delle associate reazioni da stress. Il questionario self-report cha ha trovato la piu ampia applicazione a livello internazionale è il Negative Acts Questionnaire (NAQ; Einarsen e Raknes, 1997) che attualmente esiste anche nella versione ridotta (NAQ-R; Einarsen e Hoel, 2006; adattamento italiano di Balducci, 2010) composta da 22 item che indagano gli atti ostili orientati sulla persona, gli atti ostili orientati sul lavoro svolto e l’isolamento sociale.

La misurazione della percezione di mobbing risulta tuttavia non del tutto affidabile in quanto, la rilevazione di un’esperienza soggettiva cui potrebbe non corrispondere ad un’effettiva presenza, nel contesto di lavoro, del mobbing stesso; le risposte potrebbero infatti anche essere intenzionalmente distorte o influenzate da tratti personologici dell’individuo.

Formazione a tutti i livelli è la parola chiave per risolvere o limitare il problema Mobbing: essa vuol dire innanzitutto corretta informazione, quindi prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari livelli: a livello aziendale, con specifiche modalità di gestione del conflitto e del Mobbing e con la diffusione di un codice etico aziendale che condanna e punisce qualsiasi tipo di comportamento ostile e prevaricatore nel luogo di lavoro; a livello individuale è possibile creare uno sportello di ascolto gestito da professionisti (medici, psicologi, avvocati, etc) a cui si può rivolge una persona con problemi sul lavoro per essere ascoltata e orientata.

 

La terapia cognitivo comportamentale multistep per i disturbi dell’alimentazione: teoria, trattamenti e casi clinici (2015) – Recensione

Il libro si propone di descrivere l’applicazione della “CBT-E multistep” a tre livelli di cura: ambulatoriale, ambulatoriale intensivo e ricovero, attraverso una descrizione della terapia e di tre casi clinici trattati.

L’evoluzione più recente della CBT-E di Fairburn è nata in Italia dal lavoro di Dalle Grave e dei suoi colleghi, e riguarda l’adattamento della teoria e della terapia a diverse categorie diagnostiche e a diversi livelli di cura, come il trattamento ambulatoriale intensivo e il trattamento ospedaliero per i disturbi dell’alimentazione, mantenendo integra la teoria e la procedura che la caratterizzano e sviluppando quella che è stata denominata la “CBT-E multistep”.

I curatori del volume sottolinenano come l’idea sia nata dalla necessità clinica di offrire un’alternativa a quei pazienti che non rispondono al trattamento ambulatoriale o le cui condizioni fisiche non ne permettono la gestione in setting ambulatoriali.

Studi clinici su pazienti adulti e adolescenti affetti da anoressia nervosa, sia in setting ambulatoriali che ospedalieri hanno permesso di studiare l’efficacia della “CBT-E multistep”. Il libro si propone di descrivere l’applicazione della “CBT-E multistep” a tre livelli di cura: ambulatoriale, ambulatoriale intensivo e ricovero, attraverso una descrizione della terapia e di tre casi clinici trattati.

La “CBT-E multistep” offre quindi un unico trattamento in grado di curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione in setting di cura multipli, l’unica differenza tra i vari passi è l’intensità del trattamento, minore nei pazienti trattati con la CBT-E ambulatoriale, maggiore in quelli gestiti con la CBT-E ospedaliera.

Dalle Grave ha suddiviso il libro in due parti per descrivere l’applicazione pratica della terapia a tre diversi livelli di cura.
La prima parte del libro offre una panoramica dei principali disturbi dell’alimentazione sottolineandone l’unità transdiagnostica. Propone la teoria e la CBT-E transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione e le peculiarità che distinguono la CBT-E dalla CBT-e multistep. Seguono poi i passi che servono per preparare i pazienti per la CBT-E multistep e l’organizzazione, le strategie e le procedure dei tre passi: ambulatoriale, ambulatoriale intensiva e ricovero. La prima parte termina poi con un capitolo che illustra come adattare agli adolescenti la CBT-E ambulatoriale, la CBT-E ambulatoriale intensiva e la CBT-E ospedaliera.

La seconda parte del libro riporta tre casi clinici trattati con la CBT-E multistep. Nell’appendice A è possibile trovare la versione 2.1 dell’Eating Problem Checklist, un questionario autosomministrato per aiutare i pazienti a monitorare nel corso del trattamento lo stato del proprio disturbo dell’alimentazione.
Il volume è un valido strumento per tutti i professionisti che lavorano con pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione in particolare per tutti coloro che lavorano in una équipe multidisciplinare.

Interpretazione catastrofica dei sintomi astinenziali nei fumatori

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Interpretazione catastrofica dei sintomi astinenziali nei fumatori

Autrice: Serena Giacomelli

Introduzione

Numerose evidenze empiriche suggeriscono che fumatori con alta sensibilità all’ansia hanno la tendenza ad interpretare in maniera catastrofica le sensazioni fisiche esperite durante l’astinenza da nicotina, andando incontro ad un’aumentata vulnerabilità al panico. Tuttavia, in letteratura il ruolo dell’interpretazione catastrofica in questo ambito non è stato ancora valutato. Pertanto, l’obiettivo di questo lavoro è stato studiare gli effetti della sensibilità all’ansia e dell’amplificazione somatosensoriale, utilizzata come proxy dell’interpretazione catastrofica, sulla risposta ad un test di induzione del panico (challenge) in fumatori astinenti e sottoposti ad un trattamento sostitutivo alla nicotina.

Materiali e metodi

Sono stati arruolati 60 fumatori di età compresa tra i 18 ed i 65 anni che consumavano almeno 10 sigarette al giorno da almeno 1 anno. È stato utilizzato un disegno placebo-controllo in doppio cieco. Ai fumatori è stato chiesto di astenersi dal fumo di sigaretta per 12 ore prima del challenge e sottoporsi ad un placebo oppure ad un trattamento sostitutivo con nicotina. Successivamente, è stato chiesto ai soggetti di completare un test biologico per indurre una risposta panico simile in condizione di laboratorio, con l’anidride carbonica (CO2) al 35%. Sono state valutate l’astinenza da nicotina, la sensibilità all’ansia, l’amplificazione somatosensoriale, alcune variabili fisiologiche ( i.e., frequenza cardiaca, pressione arteriosa) e psicologiche (i.e., ansia soggettiva e oggettiva, paura, disagio) immediatamente prima e dopo il challenge.

Risultati

La sinergia tra alti livelli di sintomi astinenziali (NWS) ed elevata sensibilità all’ansia (AS), sembra moderare la risposta di paura al challenge (Alta NWS e alta AS> basso NWS e basso AS, p = 0,02; alta NWS e alta AS> basso NWS e alta AS, p = 0,020; alta NRW e alto AS> alta NWS e bassa AS, p = 0,014). Al contrario non è stato verificato un effetto moderatore dei sintomi astinenziali e dell’amplificazione somatosensoriale sulla risposta al test.

Conclusioni

Alti livelli di sensibilità all’ansia, accompagnati da intensi sintomi astinenziali, possono aumentare il rischio di panico nei fumatori.

Parole chiave: fumo di sigaretta, panico, astinenza da nicotina, sensibilità all’ansia, amplificazione somatosensoriale.

Objectives

We evaluated the effects of anxiety sensitivity and somatosensory amplification on a panic-like response to a biological challenge in smokers under nicotine abstinence and in smokers under nicotine replacement treatment conditions.

Methods

Sixty smokers consuming at least 10 cigarettes per day in the previous year and having 18-65 years of age were enrolled. A placebo-controlled, double-blind design was used. Smokers were asked to refrain from smoking for 12 hours before the challenge and wear a placebo or a nicotine patch. Thereafter, they underwent the 35% carbon dioxide (CO2) challenge, that is a biological test inducing a panic-like response under controlled laboratory conditions. Nicotine withdrawal symptoms, anxiety sensitivity, and somatosensory amplification, as well as physiological (i.e., heart rate, blood pressure) and psychological (i.e., subjective and objective anxiety, fear, discomfort) variables were measured at baseline, immediately before and after the challenge.

Results

Nicotine withdrawal symptoms (NWS) and anxiety sensitivity (AS) seems to moderate the fear response to the challenge (High NRW and High AS > low NWS and low AS, p= 0.02; High NRW and High AS > low NWS and high AS, p= 0.020; High NRW and High AS > high NWS e low AS, p= 0.014) while a moderation between nicotine withdrawal and somatosensory amplification was not verified.

Conclusions

High levels of anxiety sensitivity, together with intense withdrawal symptoms, can increase the risk of panic in abstinent smokers.

Keywords: cigarette smoking, panic, nicotine withdrawal, anxiety sensitivity, somatosensory amplification

Medico e Paziente: ecco perché non essere amici sui Social!

Anche se i social media sono ormai radicati in quasi ogni ambito della nostra vita, diventare amici su Facebook con il proprio dottore può alterare la tradizionale relazione medico-paziente, sia in positivo sia in negativo.

In un recente articolo pubblicato su AMA Journal of Ethics, due professori della Scuola di Medicina della Loyola University Chicago hanno esaminato la questione e le considerazioni etiche relative che dovrebbero essere prese in considerazione da pazienti e professionisti.

Nell’articolo, Kayhan Parsi, J.D., Ph.D., e Nanette Elster, J.D., M.P.H., membri dell’Istituto Neiswanger per la Bioetica della Loyola University, analizzano tutto ciò che c’è di buono, brutto e cattivo sulla relazione tra social e assistenza sanitaria.
Parsi e Elster affermano che “il mantenimento della privacy e della riservatezza sono parte integrante del rapporto professionale tra medico e paziente”, in quanto, è fondamentale, per un trattamento clinico competente, preservare la fiducia del paziente.
I due ricercatori proseguono sottolineando che [blockquote style=”1″]l’uso dei social media nel settore sanitario solleva una serie di questioni circa i confini professionali e personali, e l’integrità, la responsabilità e l’affidabilità degli operatori sanitari.[/blockquote]

L’articolo descrive poi cinque casi-studio per sottolineare quali questioni etiche e legali possono sollevarsi con l’uso dei social nella sanità.
I casi riguardano tematiche come per esempio il postare su Facebook foto correlate al lavoro, il twittare opinioni personali o politiche e il googlare pazienti e possibili candidati per una posizione lavorativa. L’articolo, inoltre, analizza questioni come l’appropriatezza, per un professionista della salute, di essere amico con un paziente su Facebook, o anche di connettersi con lui attraverso LinkedIn.

[blockquote style=”1″]Quando si parla di social media è importante per gli operatori sanitari essere a conoscenza dei confini personali e professionali. Quando qualcuno legge un post, questo viene visto come la dichiarazione di un professionista, o di un individuo qualsiasi? Queste linee di confine si offuscano facilmente sui social [/blockquote]dichiara Parsi.

Nonostante le potenziali insidie dei social media, i due autori hanno anche evidenziato quali benefici essi possono apportare all’assistenza sanitaria. Per esempio una risposta più rapida alle emergenze di salute pubblica e una migliore comunicazione su farmaci e simili.
Elster afferma di vedere come i social media rendano le istituzioni sanitarie più personali e umane.[blockquote style=”1″] I pazienti sentono di poter entrare in contatto con l’ospedale o l’ufficio del loro medico e vogliono raccontare le loro storie.[/blockquote]

In conclusione, i ricercatori ritengono che la revisione fatta sarà utile per la creazione di linee guida per le organizzazioni sanitarie e per trovare alcune modalità di utilizzo di questi social al fine di promuovere buoni risultati.

Il controllo come scopo ultimo? Ossessività e anima moderna

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 21/11/2015

Le ossessioni del mondo moderno. Cosa sono? Ossessione è soprattutto il modo moderno di controllare il tempo.  Il controllo particellato del tempo, la suddivisione della giornata non in labili ore ma in precisi minuti e secondi introduce all’ossessività, al controllo.

Le ossessioni del mondo moderno. Cosa sono? Ossessione è soprattutto il modo moderno di controllare il tempo. Gli antichi non avevano il nostro controllo minuzioso del tempo. Ci vediamo domani mattina! E ci si vedeva il mattino dopo, da qualche parte dopo l’alba, in un tempo mal definito. Il controllo particellato del tempo, la suddivisione della giornata non in labili ore ma in precisi minuti e secondi introduce all’ossessività, al controllo. Il contenuto viene dopo, che sia ossessività per la forma fisica o per lo sport, per la tecnologia o per il lavoro o perfino per i piaceri, come il cibo o il sesso. Quel che conta è il controllo di noi stessi e del mondo, della nostra mente e dello spazio esterno. E soprattutto del tempo.

È il controllo del tempo che ci introduce nell’età moderna, che consente l’organizzazione della giornata in segmenti dedicati a scopi, a progetti, a obiettivi. E perfino al tempo libero, che non è più l’otium degli antichi, ma una pausa programmata e quindi anch’essa controllata.

Tutto è controllato perché tutto ha uno scopo, un utile. Questo è vero per la psicologia moderna, ma è vero anche per l’economia. Sfogliamo i primi capitoli di ‘L’azione umana’ del grande economista Ludwig von Mises (1966). von Mises sostiene che gli individui scelgono sempre consapevolmente le azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi voluti. L’azione è sempre quindi razionale, o meglio umanamente razionale (e non assolutamente razionale). Razionale nel senso che l’individuo sceglie sempre i mezzi da lui ritenuti più idonei in base a quel che sa nel momento della scelta.

In questa definizione di razionalità troviamo alcuni principi dello spirito moderno: la negazione di ogni razionalità assoluta e la valorizzazione di una razionalità individuale e strumentale. Non esiste un sommo bene, ma solo scopi individuali. E non esistono mezzi da considerarsi assolutamente razionali, ma solo ipotesi plausibili su quali mezzi siano più idonei per ottenere quanto desiderato, ipotesi costruite in base a quel che si sa e a quanto si è appreso nel proprio ambiente.

In tale modo, l’agire umano è concepito come inevitabilmente utilitaristico. Von Mises propone che le singole azioni umane siano spiegabili in termini di scopi e mezzi individuali. Attraverso la lente scientifica della metodologia utilitaristica ogni comportamento umano finisce con l’essere bollato con l’etichetta di comportamento acquisitivo. Ogni altra motivazione è rigettata come favola per educande. Per von Mises, anche il nobile distacco o la rinuncia ascetica si possono e si devono spiegare in termini di scopi e di mezzi. Scopi non grettamente materialistici, è vero, ma comunque scopi: desiderio di gloria, soccorso dei deboli, distacco dal mondo. Tutti questi scopi sono in realtà beni da acquisire, e non vi è gerarchia morale tra loro.

Scopi da perseguire ossessivamente, in una girandola acquisitiva e controllante in cui tutto è sottoposto al regno della quantità. Ogni cosa è misurabile, quantificabile, traducibile in una barra che rappresenta il livello di controllo che abbiamo raggiunto. Se non ci fosse questa quantificabilità, non potremmo avere un ossessivo che controlla tutto quantitativamente.

Perché noi moderni vogliamo controllare tutto? Forse perché ci consideriamo responsabili di tutto. Qui ci aiuta la psicologia clinica. La forma patologica dell’ossessività è il disturbo ossessivo-compulsivo. E qual è l’idea che muove gli individui ossessivo-compulsivi patologici? Essi si considerano responsabili di qualsiasi evento negativo sul quale abbiano anche un remotissimo potere d’influenza, non solo nel determinarlo ma anche –anzi, soprattutto- nel prevenirlo (Salkovskis, 1985). Per gli ossessivi è sempre possibile incolparsi di una qualche responsabilità, scoprire una spiegazione anche remotissima, a volte anche bizzarra, tra la propria responsabilità e ogni possibile disgrazia.

Nell’ossessività così l’utilitarismo moderno diventa responsabilità e perfino colpa. Gli scopi non sono più obiettivi da raggiungere ma prescrizioni a cui obbedire compulsivamente, pena un singolare nuovo senso del peccato.

Si dirà: ma in fondo gli uomini sono sempre stati utilitaristi. Sempre hanno perseguito scopi. Vero, ma non nel modo ossessivo e controllante moderno. Nella modernità si è scivolati nell’utilitarismo ideologico, l’utilitarismo che non si limita a essere un lato dell’azione umana ma che diventa l’aspetto dominante e l’unico veramente significativo: una disincantata e ruvida ammissione che non vi è altro che l’utile a questo mondo, e tutto ciò che si fregia di un’etichetta più elevata è inganno, velo.

Quando nei valori culturali condivisi si passa dalla serena consapevolezza che in ogni nostra azione vi sia una soddisfazione allo scopo esplicito di massimizzarla, avviene anche che il contenuto di questa utilità diventi sempre meno spirituale e più immediatamente materiale. E quindi quantificabile e misurabile. E ossessivo.

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