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Psicoterapia: lavorare con i rifugiati siriani in Giordania

Cristina Angelini, Edoardo Pera

Una donna racconta che ha un figlio che ha perso entrambe le gambe e in più suo marito la picchia. Un’altra ha un cancro al seno: chiede ad Allah che la aiuti. Un’altra ha lasciato la figlia di 16 anni, appena sposata, in Siria. Piange per lei tutti i giorni. La mamma di Siam non dice nulla, ha solo l’angoscia scolpita nel bel volto. La psicologa inizia il protocollo EMDR ma è in grande difficoltà: il protocollo standard qui non risulta molto utile, il livello di traumatizzazione è troppo alto. 

Siam ha gli occhi grandi e 3 anni. Viene con la mamma, molto giovane e molto bella, in un gruppo di donne rifugiate siriane in Giordania. Siam è nata a Damasco, Sham in arabo, ma è scappata con la famiglia. Ora vive a Salt, ai genitori non è permesso lavorare, come a tutti i circa 2 milioni di siriani che vivono in Giordania: più della metà dentro campi di accoglienza, spesso enormi e sovraffollati, gli altri sparsi nel paese. Quelli che sono nei campi con un pasto e una tenda garantiti, quelli fuori senza niente di certo, ma liberi di muoversi.

L’UNHCR dovrebbe prendersi cura di loro ma è al collasso, senza più i grossi finanziamenti dei singoli paesi, e così molti dei rifugiati che stazionano in Giordania sperando di rientrare presto in Siria alla fine se ne vanno. Tentano di entrare illegalmente in Europa, la terra promessa.

Siam ha gli occhi sbarrati. La giovane mamma viene a un incontro organizzato dalla clinica di Salt, una delle tre aperte da un progetto di AIDOS-Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo- sul modello dei nostri consultori, finanziato dall’Unione Europea. Oggi sarà una di noi (C. A.), insieme a una collega psicoterapeuta italiana, Paola Castelli Gattinara supervisore EMDR, a condurre il gruppo con la collega giordana che ci traduce. La mamma di Siam viene con le due cognate. Sono tristi gli occhi della mamma di Siam, e anche quelli delle altre donne.

Quando ci presentiamo dico che ho lavorato a Damasco (ma la chiamo Sham come la chiamano loro) per 5 anni, in un altro consultorio di AIDOS, subito fuori del suq Al-Hamidie. Gli occhi della mamma di Siam s’illuminano a sentirlo nominare. E Siam si gira a guardarla. Alcune donne vengono da Damasco, molte da Homs e Hama. Faremo degli esercizi che hanno lo scopo di aiutarle a trovare un loro luogo interno sicuro, di pace, un luogo cui riconnettersi in questa difficile fase della loro vita.

Siam è immobile, le porgo un dolcetto, lei lo guarda e poi getta uno sguardo alla mamma, come in cerca di un cenno di assenso, ma la mamma sembra così lontana e Siam si gira rassegnata, e rimane immobile e seria col dolcetto in mano.

Una donna racconta che ha un figlio che ha perso entrambe le gambe, preferirebbe fosse morto, e in più suo marito la picchia. Un’altra ha un cancro al seno: chiede ad Allah che la aiuti. Un’altra ha lasciato la figlia di 16 anni, appena sposata, in Siria, non è riuscita ad entrare in Giordania. Piange per lei tutti i giorni e prega perché sopravviva. La mamma di Siam non dice nulla, ha solo l’angoscia scolpita nel bel volto.

La psicologa giordana aveva iniziato già il protocollo EMDR di gruppo con loro ma è in grande difficoltà. Gli operatori hanno fatto il primo livello EMDR ma il protocollo standard qui non è risultato molto utile, il livello di traumatizzazione è troppo alto e durante il protocollo le persone spesso dissociavano o non riuscivano ad accedere alle memorie traumatiche. Inoltre non è possibile lavorare sulle esperienze traumatiche con persone che si trovano tuttora in una condizione di forte insicurezza. Il rischio è quello di ritraumatizzarle. Bisogna aiutarle a mantenere i loro stati d’animo entro la cosiddetta finestra di tolleranza attraverso strumenti cognitivi, immaginativi e corporei che permettano loro di regolare ciò che provano.

Per questo in precedenti missioni un altro di noi (E.P.), psicoterapeuta corporeo didatta della SIAR- Società Italiana di Analisi Reichiana, e istruttore di Mindfulness, ha fatto dei training su alcune tecniche di regolazione: il grounding, per radicarsi e sentire le proprie radici e il proprio corpo, alcune tecniche di Mindfulness per essere connessi al presente e sviluppare la capacità di ritornare al qui ed ora. L’elaborazione dei traumi con l’EMDR è l’ultima cosa e verrà valutata caso per caso, eventualmente utilizzando il protocollo sugli eventi recenti e intercettando frammenti dell’esperienza da rielaborare.

Intanto ci occupiamo del posto sicuro, che molte, quasi tutte le donne, vorrebbero fosse in Siria, a casa loro. Ma la Siria non è più un posto sicuro, facciamo notare. Troppi dolori e brutte esperienze sono avvenute lì. Chiediamo loro di pensare a un’esperienza buona. Una donna dice che questo gruppo per lei è un luogo sicuro. Qui può parlare, essere ascoltata, anche piangere, e sente il calore delle altre donne, disperate come lei ma vicine. Anche le altre annuiscono.

La donna che ha il figlio senza gambe dice che lei aspetta solo di morire. Il suo posto sicuro è in paradiso. Noi rispondiamo che questo accadrà di sicuro, è solo un fatto di tempo per noi tutte (e indichiamo l’orologio), vediamo come possiamo impiegare bene il tempo che abbiamo nel frattempo. A questo punto ridono tutte e la tensione si spezza.

Dopo l’esercizio dei quattro elementi (esercizio di stabilizzazione emozionale) e quello del posto sicuro chiediamo loro di intercettare un pezzetto buono di esperienza, una loro risorsa a cui riconnettersi: una situazione vissuta di efficacia personale (risorsa di mastery) oppure una persona che conoscono che ha la capacità di fronteggiare bene la loro difficoltà (risorsa relazionale) da immaginare accanto a loro, oppure un simbolo, religioso o altro, che dia energia e a cui accedere (risorsa simbolica). Alla fine condividiamo: il grounding è andato bene per tutte, sentirsi connesse alla terra aiuta sempre.

La respirazione è sempre un po’ più complicata: aiuta alcune persone, ma ad altre muove emozioni potenti. Il blocco del diaframma è una delle prime reazioni difensive e la respirazione profonda, che può sbloccarlo, porta anche l’emersione delle emozioni connesse. Nel programma corporeo che abbiamo elaborato negli ultimi anni di lavoro in situazioni di emergenza (Gaza, Siria, Kurdistan Iracheno, Giordania e Nepal) la proponiamo più tardi e con cautela rispetto ad altre tecniche corporee: prima introduciamo un lavoro sulla presenza oculare, per ridare alla persona il controllo sulla sua realtà, poi esercizi di presenza corporea, di consapevolezza dei propri confini, sulla giusta distanza sé-altro etc. Abbiamo imparato che per chi è stato soggetto a violenze e ha sperimentato la perdita di controllo, come molte donne che sono state violentate durante il conflitto in Siria (e si vergognano tantissimo a parlarne) rilassarsi e respirare è la cosa che funziona meno e che fa più paura.

Siam alla fine del gruppo ha iniziato finalmente a sbocconcellare il dolcetto. Ha intercettato il momento in cui la madre ha sorriso. Non a lei ma era pur sempre un sorriso. E poi la mamma sembrava più rilassata, più presente, ascoltava e annuiva, anche se non ha mai parlato.

Con le altre donne la salutiamo, e diciamo che forse ci rincontreremo un’altra volta tra qualche mese, intanto loro andranno avanti con la collega giordana e decidiamo che il gruppo andrà oltre gli otto incontri decisi all’inizio. Poi la mamma di Siam dice: “E magari prima o poi ci potremo rincontrare nel suq Al-Hamidie, alla gelateria che faceva il gelato coi pistacchi”. La speranza si è riattivata.

Mobbing al Lavoro: inquadramento psicologico del fenomeno

Elena Fiabane, Martina Pigionatti, Gloria Tosi, Elisa Zugno – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca

 

Le mutate condizioni lavorative hanno determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie ad eziologia psicologica, tra cui il mobbing. Questi nuovi rischi emergenti sono quindi legati al modo in cui il lavoro è organizzato e gestito e al contesto economico e sociale odierno.

I profondi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, tra cui in particolare, l’avanzare delle moderne tecnologie, nuove forme di contratto e job insecurity, l’innalzamento dell’età pensionabile e il progressivo invecchiamento della forza lavoro, l’intensificazione del lavoro, lo squilibrio tra lavoro e vita privata, hanno determinato l’emergere di nuovi rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, tra cui in particolare i rischi psicosociali (Tabella 1). Le mutate condizioni lavorative hanno infatti determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie ad eziologia psicologica. Questi nuovi rischi emergenti sono quindi legati al modo in cui il lavoro è organizzato e gestito e al contesto economico e sociale odierno.

Trasversalmente ai settori lavorativi si è verificata una crescente consapevolezza che l’esperienza dello stress sul lavoro può comportare delle conseguenze negative per la salute degli individui, nonché per la salute delle organizzazioni (ISPESL, 2002). A questo proposito, anche il Testo Unico sulla salute e sulla sicurezza lavorativa (D.Lgs. 81 del 9 aprile 2008) ha reso obbligatoria anche la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Tra i rischi psicosociali, quelli maggiormente studiati e conosciuti nella letteratura scientifica sono lo stress, il burnout e il mobbing, che verrà preso in esame nel presente articolo.

La violenza psicologica sul lavoro è un fenomeno presente in molti ambienti di lavoro, che ha ricevuto un interesse crescente negli ultimi anni soprattutto nell’ambito della medicina occupazionale e della psicologia del lavoro. La crescente insicurezza che caratterizza l’attuale mondo del lavoro determina in alcuni un atteggiamento di maggiore aggressività a difesa di posizioni consolidate, mentre in altri una maggiore vulnerabilità nei confronti di veri o presunti attacchi a situazioni socioeconomiche costruite nel tempo.

Secondo i dati riportati dalla recente indagine dell’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2013), il 6% dei lavoratori europei riferisce di aver subito un’esperienza di violenza, di tipo fisico o psicologico, sul posto di lavoro negli ultimi 12 mesi. In particolare, il 12% dei lavoratori intervistati riferisce di aver subito forme di violenza di tipo non fisico (ad esempio, attacchi verbali, minacce di violenza fisica o attenzioni di tipo sessuale) nel corso degli ultimi mesi. Questa ricerca ha evidenziato anche che la violenza psicologica è più frequente di quella fisica, e che i settori più colpiti sono quello sanitario, sociale e dell’amministrazione pubblica. Per quanto riguarda le differenze tra Paesi europei, sembra che il fenomeno sia maggiormente diffuso in Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, mentre bassi livelli si riscontrano nei Paesi del sud e dell’est Europa; queste differenze a livello europeo potrebbero riflettere maggiormente la consapevolezza del fenomeno piuttosto che la sua reale incidenza. Inoltre, un recente studio ha mostrato che la violenza sul lavoro in Europa è notevolmente aumentata nel corso degli ultimi anni (Van den Bossche et al., 2013).

Il mobbing: cenni storici e definizione

Il termine Mobbing (dall’inglese to mob: assalire in massa, aggredire, malmenare) viene utilizzato per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz (1963) per indicare il comportamento di animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo e lo attaccano per escluderlo dal branco. Tale termine fu poi ripreso negli anni Ottanta dallo psicologo svedese Heinz Leymann, il quale lo applicò al mondo del lavoro per designare l’insieme di quei comportamenti assimilabili per violenza e squilibrio di forza a quanto studiato precedentemente dagli etologi (Leymann 1990, 1993, 1996).

Leymann (1996) definisce il Mobbing come:

una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone, nei confronti di un solo individuo, il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa ed è fatto oggetto di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una determinata frequenza (almeno una volta a settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (almeno sei mesi di durata).

A partire dagli anni Novanta, molti autori si sono interessati al fenomeno e hanno cercato di definirne le fasi di insorgenza, di sviluppo e i suoi elementi distintivi; sembrerebbe comunque che il Mobbing presenti peculiarità diverse a seconda delle diverse culture e realtà lavorative (Zapf et al., 2001; Keashly, 200; Richman et al., 2001; Rospenda, 2004), ma allo stesso tempo mantenga delle caratteristiche comuni.

Secondo l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (2002) “il mobbing sul posto di lavoro consiste in un comportamento ripetuto, irragionevole, rivolto contro un dipendente o un gruppo di dipendenti, tale da creare un rischio per la salute e la sicurezza”. La definizione che invece rispecchia maggiormente la realtà italiana proviene dall’Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro (ISPESL, 2001): il mobbing è “una forma di violenza psicologica intenzionale, sistematica e duratura, perpetrata in ambiente di lavoro, volta all’estromissione fisica e/o morale del soggetto (o dei soggetti) dal processo lavorativo o dall’impresa”.

 

Classificazione del Mobbing

Diversi autori hanno cercato di dare una classificazione del Mobbing; Giglioli et al. (2001) ne propongono una che si adatta maggiormente alla realtà italiana e che utilizza come criteri di distinzione i meccanismi patogenetici:

  • Mobbing strategico (o Bossing o Mobbing Verticale/Gerarchico/Trasversale), il quale corrisponde ad un preciso disegno di esclusione di un lavoratore da parte della stessa azienda e/o del management aziendale, che, con tale azione premeditata e programmata, intende realizzare un ridimensionamento delle attività di un determinato lavoratore o il suo allontanamento dal lavoro. Di questa categoria fa parte anche il Mobbing Ambientale o Orizzontale, proveniente dai colleghi di lavoro o da soggetti subordinati alla vittima.
  • Mobbing emozionale o relazionale, il quale deriva da un’alterazione delle relazioni interpersonali, sia di tipo gerarchico che tra colleghi: esaltazione o esasperazione dei comuni sentimenti di gelosia, rivalità, antipatia ecc.
  • Mobbing senza intenzionalità dichiarata, il quale non è dovuto ad una precisa volontà di eliminare o condizionare negativamente un lavoratore; in questi casi un collega di pari grado o un superiore, sentendo minacciata la propria posizione lavorativa, attua molestie morali per tutelarsi. In questo caso l’azienda è responsabile in quanto non in grado sia di individuare tempestivamente tale condizione, che di arginarla e sanarla efficacemente.

 

Fasi del Mobbing

Il Mobbing è un processo complesso, caratterizzato da dinamismo, e in continua evoluzione; secondo Leymann tale fenomeno si snoda attraverso quattro fasi:

  • Segnali premonitori;
  • Mobbing e stigmatizzazione;
  • Ufficializzazione del caso;
  • Allontanamento.

Questo modello è il più conosciuto, tuttavia riflette una realtà diversa da quella italiana, in quanto proveniente dagli studi svolti da Leymann in Svezia. L’adattamento alla situazione italiana proviene da Harald Ege, il quale ha proposto un modello a sei fasi più una pre-fase denominata ‘condizione zero’:

  • Condizione zero. Non è ancora possibile parlare di Mobbing, ma questa situazione, caratterizzata da conflittualità generalizzata, ne rappresenta il presupposto. Non è ancora evidente la volontà di distruggere un particolare lavoratore, quanto piuttosto quella di emergere sopra gli altri.
  • Fase 1: Conflitto mirato. La conflittualità generalizzata viene incanalata verso un obiettivo specifico, emerge dunque la volontà di distruggere qualcuno. Il conflitto non riguarda più solamente il lavoro, ma si dirige anche verso il privato.
  • Fase 2: Inizio del Mobbing. Il conflitto matura e diventa duraturo: le relazioni con i colleghi si inaspriscono e gli attacchi del mobber, che ancora non causano sintomi o malattie psicosomatiche sulla vittima, generano fastidio e disagio.
  • Fase 3: Primi sintomi psico-somatici. La vittima inizia a manifestare un senso di insicurezza e problemi di salute; questa situazione può protrarsi per lungo tempo.
  • Fase 4: Errori e abusi dell’amministrazione del personale. Il Mobbing diventa i dominio pubblico e il caso diviene oggetto di valutazione da parte dell’ufficio del personale .
  • Fase 5: Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. La salute psico-fisica della vittima subisce un notevole peggioramento. Possono manifestarsi forme depressive più o meno gravi che vengono curate con psicofarmaci o terapie dall’effetto palliativo, in quanto il problema persiste e viene ulteriormente aggravato dalle azioni disciplinari attuate dall’azienda.
  • Fase 6: Esclusione dal mondo del lavoro. La vittima esce dal mondo del lavoro tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al prepensionamento o, nei casi più gravi, suicidio, omicidio o azioni vendicative nei confronti del mobber.

I protagonisti del Mobbing

I protagonisti del Mobbing sono essenzialmente due: il mobber e la vittima. In alcuni casi, poi, gli spettatori ricoprono un ruolo cruciale per lo sviluppo e il mantenimento del fenomeno.

Il Mobber è colui che inizia e continua le azioni vessatorie, esercitando violenza morale sulla vittima designata. Egli ha diverse motivazioni per attivare il Mobbing: paura di perdere il lavoro o la posizione guadagnata, paura di essere surclassato ingiustamente da qualcuno più giovane o più qualificato, antipatia o intolleranza nei confronti di qualcuno in particolare. Secondo Cassitto (2001) il mobber è totalmente privo di capacità empatiche e stabilisce rapporti del tutto utilitaristici; qualsiasi cosa accada sul lavoro non è mai colpa sua ma dell’altro e crede di trarre vantaggio dalla distruzione della vittima. Secondo Monaco et al. (2004) esistono diverse tipologie di mobber: il collerico, il frustrato, l’invidioso, il criticone, il sadico, l’istigatore, il tiranno.

Walter (1993) ha compilato una lista di caratteristiche che appartengono al mobber; secondo l’autore sono persone che:

  • Tra due alternative di comportamento scelgono la più aggressiva.
  • Si impegnano attivamente affinchè il conflitto continui e si intensifichi.
  • Accettano, attivamente o passivamente, le conseguenze negative che il Mobbing ha per la vittima.
  • Possono non essere consapevoli delle negative conseguenze del Mobbing per la vittima.
  • Non mostrano sensi di colpa, ma tendono a darla all’esterno.
  • Credono di essere nel giusto.

La vittima è la persona in difficoltà che necessita di aiuto immediato e concreto. Sono persone solitamente sensibili a riconoscimenti e critiche, che investono molto nel loro lavoro, desiderano essere impeccabili, manifestano un presenzialismo patologico sul lavoro, sono molto responsabili e motivate (Hirigoyen, 1998). Quando il Mobbing è in atto, la caratteristica tipica del mobbizzato è l’isolamento: la vittima si sente incompresa e sola di fronte agli attacchi del nemico; spesso mette in dubbio per prima cosa la bontà del suo operato e si sforza maggiormente per soddisfare il suo persecutore (Cassitto, 2001), sforzi che generalmente danno nuovi pretesti ai mobber per continuare il loro operato. Walter (1993) definisce la vittima come una persona che:

  • Mostra sintomi di malattia, si assenta dal lavoro, si licenzia.
  • È colpita da stress psichico o fenomeni psicosomatici; attraversa fasi di depressione o manie suicide.
  • Definisce il suo ruolo in termini di passività.
  • Da un lato crede di non avere colpa, ma dall’altro crede di sbagliare sempre tutto.
  • Mostra mancanza di fiducia in sé, indecisione e senso di disorientamento generale.
  • Rifiuta ogni responsabilità per la situazione o accusa distruttivamente se stessa.

Gli spettatori sono tutte quelle persone (colleghi, superiori, addetti alla gestione del personale…) che non prendono esplicitamente parte al Mobbing, ma che vi partecipano indirettamente, lo percepiscono o lo vivono di riflesso. Gli spettatori possono essere divisi in due categorie: spettatori attivi, che aiutano il mobber compiendo a loro volta piccole azioni mobbizzanti, e spettatori passivi, che non compiono vessazioni ma non intervengono neanche in difesa della vittima.  Secondo Walter (1993) i tratti caratteristici degli spettatori sono i seguenti:

  • Sembrano non avere un ruolo nel Mobbing ma sono in contatto con il/i mobber.
  • Rifiutano ogni responsabilità per la situazione che si è creata, però si vedono come mediatori tra i protagonisti del conflitto.
  • Dimostrano grande fiducia in loro stessi; esprimono le loro simpatie per una parte o per l’altra oppure non vogliono assolutamente avere a che fare con nessuna delle due.
  • Ricoprono spesso un ruolo chiave nel conflitto.

 

Le azioni del Mobbing

Vi sono pareri discordanti per quanto riguarda le caratteristiche che definiscono un’azione mobbizzante. Prima di tutto non esiste un parametro universalmente accettato sull’intervallo di tempo in cui debbano ripetersi le ostilità: secondo Leymann (1996) e Monaco et al. (2004) tali azioni devono ripetersi per un periodo non inferiore ai sei mesi; Hegeney (2003) abbassa tale durata a tre mesi; Agervold (2004) considera sufficiente un lasso di tempo nettamente inferiore, un mese. Questa variabilità dipende, secondo gli autori, dalla tipologia di azione mobbizzante, dalla loro modalità di attuazione e, infine, dalle caratteristiche personologiche dei soggetti coinvolti.

Altre divergenze riguardano la tipologia delle azioni del Mobbing. In Italia si è giunti però a un parere unificato che suddivide tali azioni in quattro categorie (Gilioli et al. 2001; Cassitto, 2001; Bernabei et al., 2005):

  • Attacchi contro la persona (umiliazioni, offese, ridicolizzazioni inerenti la vita privata).
  • Attacchi contro il lavoro svolto (critiche e sabotaggi con i quali il soggetto viene privato o, viceversa, sovraccaricato di lavoro).
  • Attacchi contro la funzione lavorativa ricoperta (declassamento, non attribuzione di incarichi…).
  • Attacchi contro lo status del lavoratore (sanzioni fiscali, controlli di idoneità, trasferimenti improbabili, rifiuto di permessi/ferie…).

Secondo l’ISPESL (2003) le azioni mobbizzanti si possono raggruppare in due categorie: attacchi alla persona e minacce alla carriera professionale (Tabella 2 e Tabella 3).

Infine, ulteriore oggetto di discussione è il carattere di intenzionalità che sta alla base di tali azioni. Sebbene sia difficoltoso stabilire se le condotte mobbizzanti siano programmate, per Monaco et al. (2004) questo aspetto costituisce un elemento chiave per determinare un episodio di Mobbing, insieme anche alla presenza di una relazione asimmetrica fra aggressore e vittima.

Secondo Harald Ege (2002), le peculiarità necessarie a definire un’azione mobbizzante sono le seguenti:

  • Il conflitto deve avvenire in ambiente lavorativo.
  • La frequenza delle ostilità deve essere di ‘alcune volte al mese’ con diverse eccezioni (vd. Ege, 2002).
  • La durata delle vessazioni deve essere di almeno sei mesi, tre se gli attacchi hanno cadenza quotidiana o se le azioni appartengono a tre categorie differenti.
  • Devono essere presenti azioni tipiche del processo di Mobbing.
  • Deve esistere un dislivello di potere fra mobber e mobbizzato e quest’ultimo è sempre in una posizione di svantaggio.
  • Il Mobbing deve evolvere nel tempo passando attraverso tappe determinate.
  • Deve esserci da parte dell’aggressore un intento negativo specifico (politico, conflittuale o emotivo).

Antecedenti del Mobbing

 

Antecedenti personologici del Mobbing

In letteratura sono ancora pochi e controversi gli studi che hanno esaminato l’impatto delle caratteristiche personologiche della vittima di mobbing su questo fenomeno. Risulta molto complesso, infatti, stabilire un rapporto di causalità lineare tra personalità, vulnerabilità verso le situazioni conflittuali e sviluppo di sintomi come conseguenza delle vessazioni subite nell’ambiente lavorativo. Secondo Leymann (1996) i fattori di personalità non sono determinanti nel favorire la vittimizzazione, hanno un peso maggiore invece i fattori sociali e organizzativi. Altri autori, al contrario, sostengono che il profilo di personalità abbia un ruolo decisivo nella genesi del mobbing (Coyne et al., 2000).

Brodsky (1976) afferma che le vittime di mobbing spesso presentano una tendenza a voler raggiungere obiettivi lavorativi poco realistici, determinata anche da una valutazione irrealistica delle proprie capacità personali. Inoltre, spesso sono persone coscienziose, paranoiche, rigide e compulsive. Il più delle volte hanno una percezione negativa di Sé, si auto-svalutano e mostrano ansia nelle relazioni sociali, con capacità di gestione dei conflitti più basse rispetto alle altre persone e livelli di timidezza più alti nelle relazioni sociali (Einarsen et al., 1994). Infatti, è stato riscontrato che gli stili di coping prevalenti in situazioni di conflittualità sono l’evitamento (Coyne et al., 2000) o le reazioni aggressive.

Nello specifico, alcuni autori hanno provato a individuare il profilo di personalità tipico delle vittime di mobbing. Varita (1996) ha utilizzato il 16PF di Cattell e ha riscontrato che questi soggetti avevano ottenuto punteggi più bassi nei fattori stabilità emotiva e dominanza, mentre punteggi più alti nell’ansia, apprensione e sensibilità rispetto alle persone non vittimizzate. Gandolfo (1995) ha riscontrato un’equivalenza di profilo nei soggetti che avevano subito vessazioni e in quelli che non le avevano subite ma che avevano comunque problemi nell’ambiente lavorativo, con una presenza significativa di componenti depressive, forte sospettosità e vulnerabilità.

Altri autori hanno confermato questo risultato (Matthiesen et al., 2001), rilevando gravi disturbi psicologici ed emotivi; in aggiunta, questi autori sostengono che ci sia una relazione tra profilo di personalità e tipologia di vessazione subita e che alcune vittime siano più vulnerabili o reagiscano con modalità volte alla drammatizzazione rispetto ad altri soggetti. Utilizzando l’MMPI-2, Girardi e coll. (2007) hanno osservato, senza differenza tra i sessi, elevazione significative nelle seguenti scale: Ipocondria (Hs), Depressione (D), Isteria (Hy) e Paranoia (Pa). I soggetti vittime di mobbing, quindi, si caratterizzano per la presenza di due cluster principali di sintomi: depressivi (difficoltà nel prendere decisioni, ansia per i cambiamenti, atteggiamenti passivo-aggressivi) e psicosomatici, associati a un forte bisogno di attenzione e considerazione da parte delle altre persone. Anche Fenga e coll. (2012) hanno riscontrato punteggi superiori al cut-off nelle stesse scale dell’MMPI-2; inoltre, hanno analizzato anche le scale di contenuto rilevando punteggi alti in quelle relative all’Ansia (ANX) e alle Preoccupazioni per la salute (HEA), sia nel gruppo degli uomini che in quello delle donne. A differenza degli uomini, però, le donne ottengono punteggi significativamente più alti nella scala di validità Menzogna (L).

In sintesi, il profilo medio di personalità delle vittime di mobbing, a prescindere dal sesso, è caratterizzato da deflessione del tono dell’umore, ansia, somatizzazioni e ideazione persecutoria (la cosiddetta ‘triade nevrotica’ dell’MMPI-2, costituita dall’elevazione delle scale Hs, D, Hy). Queste persone, quindi, tendono a manifestare forme sintomatiche di depressione e a reagire alle situazioni stressanti convertendo i sintomi psicologici in sintomi fisici; a questo si associa una tendenza a reprimere e negare i propri bisogni ed emozioni che determina una riduzione della capacità di introspezione. Per quanto riguarda l’ideazione persecutoria, essa si esprime con atteggiamenti rigidi e ostili nei confronti degli altri, alta sensitività interpersonale e tendenza a fraintendere le intenzioni degli altri che elicitano nell’altro risposte di disconferma o aggressive (Raho et al., 2008; Fenga et al., 2012). Inoltre, queste caratteristiche non sono modulate dal genere e sono simili in entrambi i sessi.

Le vittime e i loro portavoce di solito affermano che il mobbing sia causato principalmente dalla personalità psicopatica del mobber. D’altra parte, sia i mobber che gli altri colleghi spesso riferiscono che la personalità della vittima e il suo comportamento giochino un ruolo importante nel determinare la vittimizzazione (Einarsen et al., 1994). La maggior parte degli studi concorda sul fatto che persone diverse reagiscono e risentono in modo diverso a condotte di mobbing simili (Davenport et al., 2000). Le vittime possono essere selezionate dal mobber proprio per la loro personalità, in quanto vengono osservate la mancanza di abilità sociali, la tendenza a evitare il conflitto o l’incapacità di farvi fronte. Oltre a questo, la vittima può provocare il mobber con comportamenti aggressivi (Coyne et al., 2000).

Anche se la personalità del soggetto mobbizzato non può spiegare in toto la vittimizzazione, è certo che essa determina il modo in cui la persona sperimenta e interpreta gli episodi di mobbing e le sue capacità di padroneggiare i problemi che si presentano nell’ambiente lavorativo.

 

Antecedenti organizzativi del Mobbing

Il mobbing è un fenomeno con un’eziologia multifattoriale; tra le diverse cause, in tutti i casi studiati sono stati riscontrati problemi relativi all’organizzazione del lavoro, alla qualità del management e allo stile di gestione dei conflitti. Le persone coinvolte in questo fenomeno sperimentano carenze nel posto di lavoro e nel clima organizzativo: nei luoghi di lavoro in cui si l’atmosfera generale viene descritta dalle vittime come opprimente, competitiva, dove ognuno persegue i propri scopi. Le vittime denunciano la mancanza di possibilità di influenzare questioni che le riguardano e la scarsità di informazioni e di scambi verbali attinenti a compiti e scopi.

Risulta difficile capire dove finisce una gestione manageriale rigida e dove inizia il mobbing. Infatti in alcune aziende con elevata competizione interna e forte pressione per raggiungere i risultati, in cui predominano modalità relazionali basate sull’aggressività, alcuni tipi di comportamento assimilabili al mobbing vengono accettati dai membri del gruppo lavorativo. Inoltre, in altre aziende vengono tollerati comportamenti normalmente inaccettabili se questi vengono messi in atto da persone che occupano una certa posizione gerarchica al suo interno. Infine, il mobbing può essere intenzionalmente perseguito dall’azienda come strategia specifica di gestione del personale (in questo caso si parla di ‘bossing’). Tuttavia, nella maggior parte dei casi, viene agito da colleghi, capi o sottoposti per svariate ragioni (dall’ambizione, alla gelosia, alla semplice antipatia personale); in questi casi, il fenomeno si sviluppa completamente all’insaputa della direzione aziendale.

Secondo Walter, all’interno di un ambiente lavorativo si riscontrano una serie di stressors che possono costituire dei fattori di rischio per l’instaurarsi di fenomeni di mobbing:

  • Carico psichico del lavoratore: paura di fallire, di essere criticato o di subire delle conseguenze negative per i propri comportamenti o errori; insicurezza dovuta alla precarietà del posto di lavoro; problemi relativi alla vita privata; assenza di riconoscimento; mancanza di autonomia; clima aziendale ostile; conflitti con il superiore e/o con i colleghi; affaticamento cognitivo; pressione alla competizione; pressione dei limiti di tempo; pressione della responsabilità; ordini non chiari e carenza di informazioni; sotto-impiego;
  • Carico sociale: lavoro individuale o di gruppo; densità sociale/sovra-occupazione; isolamento sociale/sotto-occupazione;
  • Carico oggettivo: luce; temperatura; ergonomia; rumore; inquinamento; equipaggiamento tecnico;
  • Carico fisico: relativo allo sforzo e affaticamento fisico;
  • Carico organizzativo: difficoltà del lavoro; velocità del lavoro; spazio a disposizione sul posto di lavoro; norme di prestazione; distribuzione del lavoro quotidiano e settimanale.

È possibile effettuare un’ulteriore classificazione degli stressors organizzativi e psicosociali (Tabella 4).

Un intervento web-based CBT per la prevenzione del suicidio tra i giovani medici

Prevenzione del suicidio: nel tentativo di prevenire i suicidi e fornire un sostegno alla sintomatologia depressiva, il team guidato dagli psichiatri dell’Università del Michigan e della Medical University of South Carolina ha sviluppato un interessante strumento web-based per il supporto psicologico dei medici basato sui principi della psicoterapia cognitivo-comportamentale (wCBT).

Ogni giorno negli Stati Uniti d’America un medico si toglie la vita. I giovani medici, durante il primo anno in ospedale successivo alla laurea, riferiscono un aumento della prevalenza dei sintomi depressivi dal 4% al 26% e sono esposti ad un rischio quadruplo di ideazione suicidaria rispetto alla popolazione generale. Ciò sembra dovuto ai lunghi turni in ospedale, alla costante paura di commettere errori ed ai periodi di riposo sempre più brevi.

Nel tentativo di prevenire il suicidio e fornire un sostegno alla sintomatologia depressiva, il team guidato dagli psichiatri dell’Università del Michigan e della Medical University of South Carolina ha sviluppato un interessante strumento web-based per il supporto psicologico dei medici basato sui principi della psicoterapia cognitivo-comportamentale (wCBT). Lo strumento si chiama MoodGYM e propone una forma di talk therapy a cui i medici possono rivolgersi comodamente dal loro ufficio.

Secondo gli autori, uno dei pregi di questa modalità di erogazione della terapia cognitivo-comportamentale è che perfettamente si adatta alla popolazione dei giovani medici. Essi, infatti, evidenziano sin dall’inizio del tirocinio in ospedale un significativo aumento dei livelli di stress e di pressione, pattern che emerge in maniera così definita in poche altre popolazioni. Inoltre, i giovani medici sembrano restii ad approcciarsi ai trattamenti psicoterapici tradizionali, sia per mancanza di tempo e denaro, ma anche a causa di preoccupazioni connesse alla confidenzialità di ciò che viene detto al terapeuta durante la seduta.

MoodyGYM, tuttavia, permette di riconoscere i primi sintomi della depressione, di trattarli e si configura come un ottimo strumento per ridurre l’ideazione suicidaria nei giovani dottori. Il programma è costituito da quattro moduli: il primo viene completato una settimana prima l’inizio del tirocinio, mentre i restanti tre sono svolti rispettivamente 3, 6 e 12 mesi dopo. I singoli moduli sono concepiti per informare i soggetti riguardo gli assunti fondamentali della terapia cognitiva comportamentale e i suoi strumenti di intervento per la prevenzione della depressione.
I ricercatori, quindi, hanno indagato l’efficacia dello strumento su 199 medici tirocinanti provenienti da due diversi ospedali universitari americani, destinando la metà di questi al trattamento tramite MoodGYM e l’altra metà ad un gruppo di controllo dove venivano solo fornite informazioni riguardo la depressione, il suicidio e le strutture locali di salute mentale.

I risultati hanno mostrato che i tirocinanti assegnati al gruppo di controllo pensavano in percentuale maggiore al suicidio (21,2%) rispetto al gruppo di MoodGYM (12%). Al termine del primo anno di tirocinio, infatti, coloro che avevano usufruito del programma web-based di CBT erano meno propensi all’ideazione suicidaria. Sembra quindi necessario inserire programmi di prevenzione al suicidio all’interno del percorso formativo dei medici, in modo tale da fornire agli studenti le migliori strategie cognitivo-comportamentali per ridurre lo stress al quale saranno esposti durante il tirocinio.

We-self e autostima collettiva – The Chinese Mind, cronache psicologiche dalla Cina

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

Dai libri universitari ricordo chiaramente che la Cina è tra le culture collettiviste, in cui il sè è quello che viene definito sè interdipendente o we-self poichè il soggetto non si sente distinto dagli altri e dall’ambiente circostante, ma si sente parte di esso.

In tal senso il sè è concepito come legato agli altri, interconnesso alle relazioni sociali di riferimento. Basti pensare che la parola cinese rén vuol dire sia “uomo, individuo” che “insieme di persone”. I confini tra sè e altro divengono estremamente labili e mutevoli.

Sarà dunque per questo motivo che a molti Cinesi piace ammassarsi, ritrovarsi nella folla, organizzarsi in chiassosissimi bus turistici, non mostrando il minimo segno di cedimento in coda ad attendere ascensori che impiegano come minimo dieci minuti ad arrivare?

Qualcuno, cinese, mi dice che no, c’è un’altro motivo: per i cinesi è buona sorte ritrovarsi insieme in moltissimi nello stesso posto. Porta fortuna, e quindi è vissuto positivamente.

Silenziosamente basita, ritorno a pensare alla questione dell’autostima.

 

Autostima e identità sociale

Secondo la Teoria dell’Identità Sociale (Tajfel & Turner, 1979) le persone derivano la loro autostima dal proprio successo personale, dalle relazioni interpersonali e dall’appartenenza a un gruppo o a una collettività.

Secondo la teoria dell’identità sociale la motivazione degli individui a derivare un’autostima positiva dalle appartenenze di gruppo sarebbe una delle forze che inducono ai bias in favore del proprio ingroup.

Dunque è plausibile pensare che due dei fattori enucleati da Tajfel e Turner siano particolarmente rilevanti quando si considera il concetto di autostima in Cina: le relazioni interpersonali e l’appartenenza al gruppo o collettività (Lu & Gilmour, 2007). Sostanzialmente l’autostima collettiva descrive quell’aspetto di valutazione di sè stessi che origina da come l’individuo si percepisce interagire con gli altri e con i gruppi di cui fa parte.

Questi due fattori peserebbero in misura maggiore rispetto al fattore del successo personale, valore tipicamente individualista e che crea non pochi problemi a livello interpersonale nelle culture collettivistiche.

Forse si puo’ parlare di autostima collettiva anche considerando il nazionalismo di molti cinesi: Xiaomin va fiero del proprio popolo, va fiero della piu grande parata militare svoltasi a Pechino lo scorso ottobre, va fiero del fatto che i Zhōng-guó rén (la gente cinese) sono la popolazione piu estesa del pianeta .

Alcuni studi supportano l’ipotesi che l’autostima collettiva abbia un ruolo più influente nel predire il benessere degli individui di cultura cinese, mentre l’autostima individuale sarebbe meno predittiva di benessere in Cina rispetto agli USA (Kang et at., 2003; L. Zhang, 2005). E’ probabile che su questa scia, si muoveranno le future ricerche sull’autostima nell’ambito cross-culturale.

Sembra quasi che il semplice fatto di essere Zhōng-guó rén sia rassicurante di per sè, parte del tutto, della grande Cina.

Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani (2015) – Recensione

Guido Veronese

‘Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani’ è un libro attento alle differenze e alle esigenze pratiche, grounded, che un operatore arabo immerso in un contesto occidentale si trova quotidianamente ad affrontare nel trattamento di individui, gruppi e famiglie di etnia arabo-palestinese in Israele.

Israele è crocevia di culture, di lingue, di etnie che non si fondono, enclave altamente segregate ove le minoranze, spesso discriminate, faticano ad armonizzare con il contesto maggioritario di matrice europea, moderno ed efficiente, certamente eurocentrico. In questo sfondo si delinea il lavoro terapeutico di Marwan Dairy, terapista operante sulla popolazione di lingua araba residente in Galilea, Nazareth e di origine palestinese.

‘Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani’, la cui traduzione italiana è curata da Alfredo Ancora, tradotta da Ala Yassin, psicologo e mediatore interculturale di origine israelo-palestinese, laureato e residente a Padova ed edito da Franco Angeli, è un libro attento alle differenze e alle esigenze pratiche, grounded , che un operatore arabo immerso in un contesto occidentale si trova quotidianamente ad affrontare nel trattamento di individui, gruppi e famiglie di etnia arabo-palestinese in Israele. Il risultato è un libro piacevole, di facile lettura anche ai non addetti ai lavori e di utilità pratica per chi si spende nella relazione di aiuto in ambito interculturale.

Diversità e barriere culturali, differenze religiose costituiscono vincolo, ma possono diventare risorsa. L’autore racconta la propria esperienza multiculturale alle prese con pazienti ebrei, musulmani, cristiani e appartenenti alla minoranza etnico-religiosa drusa. Il concetto di positioning, di posizionamento e di ri-posizionamento del terapeuta in continua interazione con la diversità, costituisce una chiave di lettura efficace per entrare nel mondo di significati peculiare di clienti appartenenti a diverse culture.

Collettivismo versus individualismo, religione versus laicità, sistemi di cura tradizionali e modernità sono poli semantici entro cui chiunque si trovi a lavorare in ambito interculturale deve continuamente e interattivamente comporsi per garantire efficacia al proprio intervento, tanto in chiave psicoterapeutica quanto formativa. Vengono dettagliatamente analizzati stereotipi e pregiudizi con i quali i terapeuti occidentali debbono inevitabilmente confrontarsi nell’incontro con il paziente musulmano e strumenti idonei alla diagnosi e cura di un tale paziente. Il libro potrebbe essere erroneamente tacciato di ecclettismo, se nonché a modellizzare la serie di tecniche mostrate viene in aiuto un approccio di matrice narrativa capace di attribuire coerenza e originalità all’intervento proposto. Anche derive di tipo orientalista sono controllate da un’attenzione evidence based che conferisce rigore e serietà agli interventi.

Si tratta della sintesi di 25 anni di lavoro dell’autore in ambito clinico e in psicologia dell’educazione e medica. Termini come Sè, attualizzazione, ego appaiono del tutto estranei al senso comune arabo, e incomprensibili nel lavoro terapeutico dove trovano maggiore spazio le aspettative e l’approvazione altrui, desiderabilità sociale e approvazione familiare. Nella conversazione con il cliente arabo, il compito di distinguere tra esigenze personali del cliente, le sue opinioni, i suoi atteggiamenti e quelli della famiglia è compito arduo se non impossibile. La rideclinazione collettivista di pratiche occidentali orientate all’individuo costituisce lo sforzo più genuino ed interessante dell’autore, a volte un po’ forzata nel nobile sforzo di adattamento dei modelli psicologici dominanti. Il lettore più esperto potrebbe, infatti, chiedersi se proprio sia sempre necessario e dovuto questo sforzo di integrazione. Probabilmente, in un contesto occidentalizzato come quello israeliano questo sforzo è dovuto, ma sorgono dubbi che sempre sia possibile. L’autore volutamente, e onestamente, dichiara di non voler entrare nei sistemi di cura tradizionale e dichiara tutto il suo credo verso l’efficacia dei modelli psicologici dominanti in Occidente.

Nella prima parte del testo l’autore incornicia alcuni aspetti storico-culturali e demografici della presenza musulmana in Occidente, aiutando a contestualizzare. La seconda parte si occupa di una revisione culturalmente sensibile delle teorie dello sviluppo e della personalità, dei processi di valutazione psicologica e della psicopatologia, nonché del counseling e della psicoterapia nel mondo arabo musulmano. Khawla Abu Baker, terapeuta familiare e coniuge dell’autore ha contribuito alla stesura di questi capitoli, portando la sua esperienza in Israele e Palestina. Il libro descrive alcune caratteristiche psico-culturali di base di Arabi e Musulmani mettendo in guardia da possibili errori e banalizzazioni generalizzanti.

Nello specifico due errori che Hare-Mustin e Marecek (1988) delineano nel dibattito sulle differenze di genere vengono discussi: i cosidetti errori alfa beta. L’errore alfa, trasferito alle discussioni sull’interculturalità, descrive un’ipervalutazione delle differenze esistenti fra le culture. Differenze psico-culturali rilevabili in alcune caratteristiche emotivo, cognitivo e comportamentali di gruppi diversi non escludono, d’altro canto, la presenza di queste stesse caratteristiche in altre culture, né l’esistenza di alcune caratteristiche umane condivisibili universalmente. Le caratteristiche culturali sono sempre relative, mai assolute, se aspetti di autoritarismo-collettivismo sono rintracciabili in culture di matrice arabo-musulmana, ciò non toglie che questi stessi aspetti possano essere presenti in altre culture.

L’errore di tipo beta è di tipo implogenetico, annulla e elimina le differenze, negandole. Una sorta di color blindness fra culture, in nome di un’universale e poco realistica eguaglianza. Un terzo errore, più facilmente percorribile, è quello che vede prevalere il pregiudizio e le generalizzazioni, per evitare tale bias è bene che peculiarità e ridondanze tra culture vengano pensate come caratteristiche ineludibili embricate le une nelle altre. A partire dal 2001 fino ai più recenti fatti di Parigi, la strage a Charlie Hebdo e Bataclan, l’immagine di Islam e arabi è stata profondamente distorta, un libro come quello di Marwan Dairy, ci aiuta a rileggere pregiudizi e stereotipi, a promuovere la salute mentale globale al di là delle differenze, affinando le sensibilità di quegli operatori che si trovino a lavorare con la popolazione araba nello specifico, con le diversità più in generale.

Il libro si compone di tre scorrevoli sezioni, scritte con un linguaggio semplice e fruibile anche ai lettori non esperti. La prima parte ci parla di eredità Psico-culturale, con un’introduzione storico culturale del mondo musulmano per i nostri operatori, l’autore pone l’accento sulle caratteristiche collettiviste e autoritarie delle norme comportamentali e sociali delle società arabo/musulmane. La lettura della sezione può aiutare il professionista ad aumentare la propria consapevolezza del mondo musulmano per una migliore comprensione del cliente, nelle sue forme comportamentali ed emotive.

Nel capitolo tre si entra nel dettaglio della descrizione del migrante musulmano in costante confronto tra tradizionalismo arabo e individualismo delle società moderne occidentali, orientato verso l’uno o l’altro polo a seconda del livello di acculturazione e assimilazione del cliente al mondo occidentale. L’azione terapeutica richiede un attento assessment del grado di occidentalizzazione del cliente arabo musulmano.

Nella seconda parte si tratta di sviluppo psico-sociale e personalità nelle società collettiviste, e di come essi siano influenzati ancora una volta da processi globali occidentalizzanti. Il lettore è accompagnato nella rilettura di alcuni pregiudizi teoretici di matrice occidentale che rischierebbero di patologizzare erroneamente alcune delle reazioni emozionali, attitudinali e comportamentali del cliente musulmano. Spinte all’autonomia, distinzione mente corpo e tra individuo e famiglia sono costrutti che devono essere decostruiti e ricostruiti in un contesto arabo-musulmano. L’autore si sofferma sulla necessità di costruire nuovi strumenti, non solo adattando quelli a noi noti, per isolare dimensioni culturalmente sensibili, come potrebbe essere il livello di individuazione, capaci di orientare il benessere della persona sia essa patologica o non patologica.

La terza parte descrive il lavoro terapeutico con musulmani in US e in Occidente. Interessante come l’autore, muovendo dalle considerazioni emerse nei capitoli precedenti, delinei un paradigma costruttivista e strutturale di terapia familiare, in cui rieccheggiano, purtroppo senza citarle, le voci dei pionieri delle TF e sistemiche in contrapposizione allo strapotere dell’inconscio, che l’autore definisce pericoloso nel gestire la sofferenza di un paziente arabo a rischio di giudizio sociale qualora i desideri inconsci emergano alla coscienza.

La parte conclusiva ribadisce i rischi dell’indossare lenti occidentali nel lavoro terapeutico con il paziente arabo, rischi di incomprensione da parte del terapeuta e di disinvestimento nel paziente arabo. Il paziente musulmano è diviso tra tradizione e modernità, l’intervento, dunque, vieppiù si delinea case sensitive. Il lavoro sui tratti individuali deve essere ricondotto a un controllo esterno sociale e familiare. In un’epoca globalizzante, l’attenzione alla cultura in campo terapeutico ci aiuta a ripensare al locale e alla violenta spinta colonizzante di molti dei nostri modelli di cura. Approcciare con mente aperta la salute mentale del cliente musulmano, aiuta l’operatore a promuovere culture della reciproca conoscenza, dell’empatia, dei diritti umani e dell’universalizzazione del genere umano, in un epoca di contrapposizioni, di scontro e guerra tra religioni e civiltà. Da leggere.

Infedeltà coniugale: traditori si nasce o si diventa?

Maria Pia Totaro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi 

Ragionare sul fenomeno dell’infedeltà è qualcosa di particolarmente delicato. Certamente sono svariati gli ambiti in cui essa si manifesta, ma la presente rassegna si focalizzerà prettamente sull’infedeltà coniugale e al ruolo del patrimonio genetico nel determinarla.

Essa rappresenta uno dei maggiori motivi di sofferenza della coppia, a cui frequentemente segue la separazione o il divorzio. L’infedeltà è riconducibile ad un rapporto sessuale o emotivo con una persona che non è il proprio partner abituale, in quelle coppie in cui la relazione è caratterizzata dalla prospettiva dell’esclusività (Glass et al, 1992).

Infedeltà nelle specie animali

Uno degli interrogativi che più assiduamente si pone chi è vittima di un tradimento è ‘Perché?‘. Si è tentato di rispondere a tale domanda attraverso un’indagine rivolta al ruolo del patrimonio genetico nell’eziologia del comportamento abnorme in oggetto. A tale riguardo uno studio svolto da Forstmeier et al (2011) su esemplari di diamante mandarino, un piccolo uccello australiano monogamo, si è proposto di esaminare l’evoluzione dell’accoppiamento extra coppia e l’eventuale contributo della componente genetica ereditaria nell’attuazione di tale comportamento.

I risultati hanno dimostrato che, le differenze individuali nell’accoppiamento extra coppia relativamente alla specie in esame hanno una componente genetica ereditaria. In particolare è emerso che, nonostante entrambi i partner della coppia tendono a tradire, mentre per i maschi la promiscuità è legata al proprio successo riproduttivo, per le femmine la questione è riconducibile a dei geni trasmessi da un progenitore maschio. Il tradimento femminile quindi sembra determinato da alcuni alleli, selezionati positivamente nei maschi e trasmessi alla prole, la quale, a sua volta, sarà indotta ad assumere un pattern di comportamento analogo.

Questa scoperta è in linea con la teoria del conflitto parentale secondo la quale nel bambino, i geni ereditati per via paterna tendono ad estrarre dalla madre quante più risorse possibili, mentre i geni ereditati per via materna tendono a conservare le risorse in modo che siano disponibili per una eventuale prole futura. Tutto ciò, alla luce dello studio di Forstmeier, tende a evidenziare la tendenza della femmina all’acquisizione di un atteggiamento più mascolinizzato, nonostante si tratti di un comportamento per lei disadattivo.

 

Infedeltà negli esseri umani

Tale coinvolgimento del corredo genetico nell’evoluzione dell’infedeltà sembra essere stato riscontrato anche negli esseri umani. Lo studio di Cherkas et al (2004) effettuato sui gemelli di sesso femminile ha riscontrato come, il tasso di concordanza casewise per l’infedeltà sia significativamente maggiore per i gemelli monozigoti, rispetto a quelli dizigoti. Tale prevalenza sta ad indicare un effetto genetico. I risultati dimostrano che l’infedeltà e il numero di partner sessuali sono entrambi sotto moderata influenza genetica, più precisamente con una ereditabilità rispettivamente del 41% e del 38%. Per l’infedeltà, l’influenza dell’ambiente condiviso ha mostrato di non avere effetti significativi, per il numero di partner sessuali ha spiegato solo il 13% di variazione. Contrariamente, i geni non sembrano influenzare significativamente l’atteggiamento nei confronti dell’infedeltà. Tali risultati sull’ereditabilità femminile dell’infedeltà e del numero di partner sessuali forniscono un supporto per alcune teorie evolutive sul comportamento sessuale umano secondo le quali se tali comportamenti persistono è perché sono stati evolutivamente vantaggiosi per le donne (Bailey et al, 2000). Quindi, i risultati ottenuti supportano l’ipotesi che la varianza genetica di base può servire a mantenere una vantaggiosa varianza fenotipica (Cherkas et al, 2004).

Infedeltà e geni

Relativamente agli studi che si sono occupati dell’implicazione di specifici loci genetici nello sviluppo dell’infedeltà, lo studio di Cherkas et al (2004) ha fallito nell’avvalorare l’ipotesi che il gene della vasopressina (AVPR1A), implicato nel comportamento sessuale dei roditori, potrebbe spiegare la variazione osservata nel comportamento sessuale umano.

In seguito H.Walum et al (2008) hanno ripreso lo studio riscontrando un’associazione tra un polimorfismo AVPR1A e il comportamento nel legame di coppia umano, forse analogo a quello riportato per le arvicole (Hammock et al, 2002). In particolare, l’allele 334 del polimorfismo RS3 spiega il modo in cui gli uomini si legano alle loro partner. I dati emersi hanno dimostrato come la presenza di più copie dell’allele 334 negli uomini, sia correlato a una più scarsa qualità nel legame di coppia. Inoltre, essere omozigoti per l’allele 334 raddoppia il rischio di crisi coniugale rispetto al non avere l’allele 334. Relativamente allo stato civile è emerso che la frequenza di uomini non sposati è stata più alta tra gli omozigoti con allele 334 rispetto agli uomini senza tale allele. Oltre all’associazione di questo allele con il legame di coppia, questo studio fa notare come esso possa essere implicato anche nello sviluppo dell’autismo e di altri deficit sociali.

Kristina M. Durante e Norman P. Li (2009) nel tentativo di indagare l’associazione tra estradiolo e accoppiamento opportunistico nelle donne hanno riscontrato che, donne con una elevata concentrazione dell’ormone, e quindi altamente fertili, tendono ad essere meno soddisfatte dei loro partner a lungo termine e sono particolarmente motivate a conoscere altri uomini, presumibilmente più desiderabili. I risultati suggeriscono che, sebbene le donne con alti livelli di estradiolo non sembrano avere preferenze verso relazioni di lunga o di breve durata, adottano la strategia di una monogamia seriale. Senza essere necessariamente coscienti, donne molto attraenti sono probabilmente in grado di orientare la loro desiderabilità verso la ricerca di un compagno di elevato status sociale con il quale instaurare una relazione duratura, e che andrà a sostituire quello precedente.

Tornando al coinvolgimento di specifici geni nell’evoluzione del fenomeno, Justin Garcia et al (2010) hanno evidenziato come candidato il genotipo VNTR del recettore per la dopamina DRD4, e in particolare la variante 7R+. Questo sottolinea come la variazione genetica nel percorso delle ricompense dopaminergiche del cervello appare essere un fattore influente nella differente motivazione individuale ad impegnarsi in un comportamento sessuale rischioso e libero. Questo risultato spiegherebbe come mai il fenomeno dell’infedeltà può verificarsi anche in presenza di sentimenti di affetto verso il partner. Inoltre è stato notato come il genotipo VNTR del recettore per la dopamina DRD4 può essere associato a diversi comportamenti compulsivi come l’associazione della variante 7R+ con il fumo, l’alcolismo e la correlazione di questa con tendenze patologiche come l’ADHD.

Lo studio di Jonathan Graff-Radford et al (2010) ha fornito un supporto all’ipotesi dell’implicazione della dopamina nell’infedeltà. Nel dettaglio esso ha rilevato come soggetti affetti dal morbo di Parkinson, non dementi, sviluppino una sorta di delirio di infedeltà definita Sindrome di Otello, in conseguenza al trattamento con agonisti della dopamina in una patologia caratterizzata appunto da una perdita progressiva del numero e dell’attività dei neuroni dopaminergici della via nigrostriatale.

Queste ricerche tengono a precisare come non tutti coloro che hanno un certo tipo di genotipo si concedono ad un’attività sessuale promiscua, come è possibile anche che questo comportamento sia adottato ugualmente da coloro che non presentano determinate caratteristiche genotipiche. Allo stesso modo tali ricerche puntualizzano come il patrimonio genetico sia in grado di influenzare un certo comportamento genetico, ma senza mai escludere il ruolo dei fattori esogeni.

Il cercatore perfezionista – Tracce del tradimento Nr. 35

TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXV. Il cercatore perfezionista

 

Esistono cercatori la cui spinta verso tracce di tradimento costituisce soltanto una faccia di un desiderio di controllo sulla vita del partner. Le tracce rappresentano un’imperfezione del controllo ferreo e totale che si vorrebbe avere sull’esistenza in generale, sul proprio mondo e su chi si ha vicino per sentirsi tranquilli.

Questi cercatori sostengono con forza il diritto a un controllo soffocante della vita del partner. Esiste in queste persone un’ideologia fusionale del vivere in coppia. È evidente che alla base ci sia ansia, queste persone sostengono e appoggiano questa spinta ansiosa ad un dogma etico o lo presentano come una sana abitudine nelle coppie. Non permettono che sfugga un pensiero, una telefonata, un gesto, perché potrebbe rappresentare una piccola breccia che indica una voragine disastrosa nella quale, una volta perso il controllo si può cadere.

Il prototipo è l’atteggiamento ossessivo e perfezionista di una nostra paziente, la quale ha avuto una relazione piena, soddisfacente con un uomo generoso, presente disponibile, ma che è divenuto negli anni sessualmente più pigro, più assente. Anche lei vede calare il suo desiderio, ma questo è l’unico neo di una relazione altrimenti felice. Sono felici di trovarsi a chiacchierare la sera, vanno al cinema e amano stare con un piccolo gruppo di amici che vivono vicino a loro. Insieme hanno comprato una casa, hanno molto amato e molto solidalmente accudito i genitori malati di lei prima e poi di lui. Ma improvvisamente dopo un periodo difficile passato insieme e in completa solidarietà, arriva nella testa di lei il pensiero in forma di ossessione della perfezione mancante del quadro e essa comincia a cercare tracce che giustifichino lo scarso interesse sessuale di lui, comincia ad addolorarlo, a perseguitarlo, a piangere. Lui nega tutto, non ha amanti, a volte è stanco ma le vuole bene, vuole stare con lei, del sesso poco gli importa.

Conosce il valore del rapporto, sta vicino e rassicura ma la bestia ormai è scattata e alla fine si trova una labile traccia di nessun conto, un paio di orecchini sconosciuti nella macchina di lui, di cui lui non sa nulla, ma la donna non si rassegna perché questa piccola ombra basta a intaccare il mito della perfezione, della perfetta condivisione. E da lì arriva in consultazione chiedendo se sia il caso di rompere la relazione perché forse non vale la pena di continuare convivendo con sospetti e con un uomo che non ha adeguato rispetto per l’armonia perfetta che si desiderava e che si sperava di avere impostato. È solo grazie alla infinita pazienza, affetto disponibilità del marito che il matrimonio si è salvato. Egli si è preso per mesi l’incarico di rincuorare, consolare, scusarsi e difendere la storia senza mai stancarsi e convincendo alla fine la moglie del fatto che non avrebbe accettato tanto di buon cuore che lei se ne andasse.

Mariti così sono rari, è facile che le coppie di fronte ad attacchi così determinati si rompano.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

La relazione fra frequenza dei rapporti sessuali e benessere psicologico

Chi fa più sesso è più felice? L’opinione comune e i media affermano che sia così e non mancano in letteratura i dati a sostegno di questa tesi. Un recentissimo studio dell’Università di Toronto, tuttavia, sembra delineare una realtà almeno in parte diversa.

Analizzando un campione di oltre trenta mila soggetti, i ricercatori hanno esaminato la correlazione tra frequenza dei rapporti sessuali e benessere psicologico. I risultati smentiscono il luogo comune che vede i rapporti sessuali come inesauribile fonte di benessere: così come accade per la maggior parte delle attività piacevoli, oltre una certa soglia all’incremento dell’attività non corrisponde un incremento del benessere. Un po’ come avviene, per esempio, con le attività di socializzazione: uscire qualche sera alla settimana è considerata un’attività piacevole dalla maggior parte delle persone, ma molti concorderebbero nell’affermare che vedere gli amici tutte le sere rischia di stressare più che divertire.

In particolare, lo studio rileva un’associazione curvilinea tra le due variabili, affermando che a rapporti più frequenti corrisponde maggiore benessere, ma la correlazione scompare quando si supera la frequenza di una volta a settimana. Con una precisazione: il quadro delineato riguarda gli individui coinvolti in relazioni affettive stabili e i rapporti sessuali che hanno luogo all’interno di queste relazioni, mentre per i single non è stata registrata alcuna correlazione significativa. A fare la differenza tra le due categorie, forse, ci sarebbe il legame tra frequenza sessuale e soddisfazione per la relazione, a sua volta significativamente correlata al benessere psicologico degli individui coinvolti in legami affettivi.

Ma come spiegare l’assenza di benefici ulteriori quando la frequenza è superiore ad una volta a settimana?
Nel cercare una risposta al quesito, si tenga a mente che la maggior parte delle coppie ha rapporti proprio con cadenza settimanale. È possibile che le persone coinvolte in relazioni affettive stabili abbiano rapporti una volta a settimana perché hanno riscontrato, sulla base della propria esperienza, che in questo modo traggono il massimo beneficio dall’intimità di coppia. È tuttavia possibile anche l’opposto: il benessere psicologico potrebbe essere associato alla frequenza settimanale dei rapporti con il partner perché è ciò che fa la maggior parte delle coppie e, dunque, si esce indenni dal confronto sociale. Ulteriori studi permetteranno un approfondimento della questione, ma resta un dato interessante: al contrario di quanto si tenda a pensare, nella gestione quotidiana di un lavoro, di una famiglia e di una casa, preservare uno spazio per l’intimità di coppia è fondamentale, ma l’equilibrio e il rispetto delle proprie esigenze è parimenti indispensabile. Perché, come dicono gli autori, more is not always better.

Applicazioni cliniche della Teoria polivagale di Porges – Report dal convegno

Lo scorso 28 novembre l’istituto Feel Safe ha organizzato una giornata di approfondimento in cui la dott.ssa Gabriella Giovannozzi ha esaminato le ricadute, nella pratica clinica, della Teoria polivagale elaborata da Stephen Porges.

Tale teoria offre una chiave di lettura per comprendere il malessere dei pazienti in un’ottica relazionale, mettendo l’accento sui meccanismi fisiologici implicati nel processi di adattamento all’ambiente. In questo quadro, un intervento clinico efficace deve essere in grado di favorire, nel paziente, la percezione dell’ambiente come sicuro, in modo da determinare una condizione di benessere fisico e mentale che si traduce nella capacità di saper regolare il proprio stato psicofisiologico.

La sicurezza rappresenta, infatti, una condizione essenziale affinché una persona possa stare bene e guarire: senza sicurezza non ci può essere né relazione, né regolazione, perché senza sicurezza la nostra energia, il nostro metabolismo e il nostro battito cardiaco sono impegnati nella difesa. Come ci possono essere, quindi, benessere, crescita e guarigione se non c’è sicurezza? Tradotto in termini clinici ciò significa che quando lavoriamo con un paziente la nostra prima preoccupazione, il primo requisito di ogni operazione terapeutica, dovrebbe essere quella di creare una condizione di sicurezza, non solo rispetto a passato, ma anche e soprattutto nel presente del contesto terapeutico (setting e relazione).

La Teoria polivagale ripensa il funzionamento del Sistema Nervoso Autonomo non in termini di antagonismo tra il sistema simpatico e parasimpatico, bensì in termini di gerarchie di risposta; un aspetto molto importante è l’esistenza di un ramo mielinizzato del parasimpatico (detto nervo vago mielinizzato o ventrovagale) che funge da sistema di regolazione e origina in un’area del tronco encefalico denominata nucleo motorio del vago.

Il nervo vago è costituito da una famiglia di nervi (da qui il nome di teoria polivagale): il ramo dorsovagale e il ramo ventrovagale, a sua volta suddiviso in due componenti, una componente viscero motoria, che regola le viscere al di sopra del diaframma (cuore e respiro), e una componente somatomotoria, che regola i muscoli del collo, della faccia e della testa (il sorriso, il contatto oculare, la vocalizzazione, l’ascolto), in altre parole tutto ciò che è implicato nell’interazione sociale verso cui noi mammiferi siamo orientati in condizioni di sicurezza.

Il primo circuito che compare (il più arcaico filogeneticamente) è quello denominato dorsovagale, osservabile nei rettili e nei mammiferi superiori; è collegato con la regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto del diaframma. Si attiva in condizioni di pericolo estremo, creando uno stato di rallentamento che arriva fino all’immobilizzazione (la difesa dei rettili), e determina, quindi, uno stato di immobilità che non nasce da una condizione di sicurezza, bensì da estrema paura. Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione con paura è collegata all’ottundimento mentale e alla perdita del senso di controllo e le emozioni sottostanti sono tristezza, disgusto, imbarazzo e, ovviamente, paura.

Quando il circuito dorsovagale è attivo riscontriamo, nella persona, uno stato di prostrazione: muscoli flaccidi, sguardo perso nel vuoto, cuore bradicardico e movimento del collo all’indietro (il movimento della tartaruga, come a volersi nascondere). Il corpo è stanco e pesante e tende al movimento verso il basso; si verifica un rallentamento delle risposte muscolari e scheletriche con riduzione dell’apporto di ossigeno. Lo stato dorsovagale si associa frequentemente a condizioni depressive.

Uno stadio filogenetico successivo ha portato allo sviluppo del sistema simpatico, che regola la capacità metabolica e il battito cardiaco, ossia tutte quelle reazioni che, a livello fisiologico, sono collegate al meccanismo di attacco-fuga, la reazione di difesa elettiva del mammifero di fronte al pericolo; il sistema simpatico, quando si attiva, inibisce il tratto gastrointestinale, che è molto dispendioso in termini energetici (se devo difendermi da un pericolo la digestione passa in secondo piano…). L’attivazione del sistema simpatico è osservabile attraverso uno stato di mobilizzazione: aumentano le tensione muscolare, l’ossigenazione , la vasocostrizione e la frequenza del battito cardiaco; l’energia fluisce verso l’avanti e verso l’alto, la mandibola si serra. In questo caso, le emozioni sottostanti sono la paura e la rabbia.

Lo stadio filogenetico ancora successivo ha portato allo sviluppo del circuito ventrovagale, che è specifico dei mammiferi superiori e dell’uomo; si tratta di un circuito che ha un effetto calmante e frenante, perché frena l’attività del simpatico; il battito cardiaco decelera, ma, in questo caso, si tratta di un’immobilizzazione senza paura, in assenza di pericolo. Quando la persona è in uno stato ventrovagale il battico cardiaco rallenta (ma non è la bradicardia dovuta alla paura, come avviene nello stato dorsovagale), il respiro diventa più lento e profondo, avviene la modulazione dei muscoli dell’orecchio medio (che migliora la capacità di prestare ascolto e comprendere) e possiamo osservare movimenti armonici del collo e della testa.

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Applicazioni cliniche della Teoria polivagale di Porges – Report dal convegno_testo

Il sistema di autoregolazione parte, quindi, da un sistema primitivo di inibizione (il sistema rettiliano), si affina, nel corso dell’evoluzione, con il sistema di attacco-fuga, e culmina in un sistema sofisticato di ingaggio sociale mediato dalle espressioni facciali e dalla vocalizzazione.

Come conseguenza, un individuo in interazione sociale può stabilizzare la sua condizione neurofisiologica: se l’ambiente viene percepito come sicuro le risposte di difesa vengono inibite e la condizione di sicurezza che deriva dalla relazione si riflette nelle sensazioni viscerali.

Quando un paziente viene da noi terapeuti, che lavoriamo con la relazione, dovremmo sempre domandarci come possiamo strutturare questa relazione terapeutica in modo da offrire un contesto sicuro; in linea di massima, noi facciamo questo dando la nostra disponibilità, con la coerenza del setting che offre contenimento, mettendo a disposizione la nostra conoscenza e le nostre tecniche. Questo discorso diventa ancora più importante quando si lavora con i bambini, intervenendo sulle relazioni d’attaccamento, che rappresentano il luogo in cui si costruisce la sicurezza e quando ci si confronta con le tematiche dell’adozione e dell’affido, che non sono altro che una nuova opportunità, che viene data all’essere umano, di costruirsi sicurezza.

A livello diagnostico è importante fare una mappatura delle reazioni del sistema nervoso autonomo del paziente, ponendole su un continuum, mettendo sulla sinistra la condizione di ipoarousal estremo dovuto all’attivazione del circuito dorsovagale, passando poi per l’iperarousal dovuto all’attivazione del sistema simpatico, per arrivare ad uno stato ventrovagale che riflette sicurezza; torna utile individuare quale sia lo stile abituale di attivazione del paziente.

Di fatto, sia con i bambini che con gli adulti è importante lavorare su quello che accade dopo che la persona ha subito un trauma o una serie di traumi minori che hanno cumulato i loro effetti: la neurocezione, ossia capacità di valutare l’ambiente come sicuro o pericoloso, è compromessa, nel senso che si continua ad avere, a livello corporeo, la percezione di minaccia, di essere in pericolo. In questo quadro, è essenziale restituire al paziente un senso di sicurezza che passi anche attraverso le sensazioni corporee: se è attivo il circuito dorsovagale si cerca di stimolare l’energia riportandola verso l’alto e l’esterno (far alzare in piedi la persona, farla spingere o afferrare qualcosa, stimolare braccia e gambe, assecondare i movimenti, anche molto piccoli, di reazione attiva); se, invece, c’è un’attivazione eccessiva del sistema simpatico si cerca di riportare l’energia verso il basso (ad esempio attraverso il sentire il contatto con il terreno, ossia il grounding) valorizzando le sensazioni di autoregolazione.

Lo stato dorsovagale e lo stato di attivazione del sistema simpatico, nella loro apparente antiteticità, sono accomunati dal fatto che la persona si sente in pericolo e questo non le consente di coinvolgersi in una serena interazione sociale, dato che l’organismo sta fronteggiando una minaccia. Il nostro sistema nervoso autonomo è evoluto per passare rapidamente dalla condizione di coinvolgimento sociale (sicurezza -circuito ventrovagale attivo) ad una di reazione per affrontare un pericolo (minaccia – sistema simpatico attivo); se il pericolo viene meno la persona ritorna ad uno stato di regolazione, se persiste si attiva uno stato dorsovagale, associato a pericoli estremi, in un continuum che va dalla sicurezza all’immobilizzazione.

Possiamo individuare un altro stato ibrido denominato stato di freezing, che si colloca su una linea di confine quando, in presenza di una minaccia costante, la reazione simpatica sta lasciando il posto ad una reazione dorsovagale; è un blocco vigile, caratterizzato da completa cessazione del movimento ad eccezione della respirazione e dei movimenti oculari, frequenza cardiaca sostenuta, muscoli rigidi e tesi, acutezza sensoriale. Si tratta di uno stato di congelamento vigile, in cui si prova forte paura e si comincia a dissociarsi dalle sensazioni corporee, per ridurre la sofferenza emotiva.

Il passaggio opposto, quello da uno stato dorsovagale ad una attivazione del sistema simpatico (dall’immobilizzazione alla mobilizzazione), o da uno stato dorsovagale ad uno ventrovagale presuppongono una risalita più difficile da attuarsi: il sistema nervoso autonomo è configurato per scendere facilmente, non altrettanto facilmente per risalire verso una condizione di autoregolazione correlata ad uno stato di sicurezza. Di conseguenza, accade che il sistema nervoso di una persona che ha subito un trauma sia intrappolato nello stato di allerta dorsovagale o simpatico, come se il pericolo fosse sempre in atto, perdendo la propria flessibilità.

Possiamo aiutare il paziente a riagganciare le sensazioni corporee, conducendo un processo esplorativo volto ad aumentare la consapevolezza delle proprie sensazioni corporee e delle emozioni connesse, per ricreare uno stato di regolazione e permettergli di uscire dallo stato dorsovagale facendo, ad esempio, il confronto tra la situazione traumatica e il presente della situazione terapeutica, procedendo con molta gradualità.

Per, invece, far uscire il paziente dal freezing (in cui il sistema simpatico è attivo, ma in termini di paura) l’attenzione va spostata al dopo (cosa è successo dopo l’evento traumatico?) e dobbiamo fare attenzione, perché se ci limitiamo ad attivare il sistema simpatico rafforziamo lo stato di freezing; vi sono, inoltre, persone che sono in una costante agitazione dovuta ad attivazione del sistema simpatico, perché continuano a percepire un pericolo che non c’è oppure perché si aggrappano a questo stato come estrema difesa per non cadere in una reazione dorsovagale (un’agitazione apparente, in parole povere si difendono dall’abbattimento e dalla tristezza con l’eccitazione eccessiva).

In tutti i casi sopradescritti noi, in qualità di terapeuti, cerchiamo il più possibile di lasciare fuori il contenuto, il racconto dell’esperienza traumatica, concentrandoci sul presente, sul qui e ora, e sulle sensazioni corporee; l’obiettivo finale da porsi è arrivare a riattivare il sistema ventrovagale.

Il circuito ventrovagale ci permette, quando siamo in condizione di sicurezza, di promuovere altra sicurezza; noi intercettiamo questi segnali attraverso l’interazione sociale, decodificando in modo istintivo messaggi che derivano dal contatto oculare e dalla voce, inviando segnali di risposta, entrando in relazione e promuovendo l’autoregolazione delle sensazioni fisiologiche.

Per attivare il circuito ventrovagale abbiamo a disposizione anche alcuni espedienti, che agiscono a livello corporeo e hanno un effetto regolante:

  • Lavorare sul respiro (inspirazione corta, espirazione lunga, senza forzare per non andare in iperventilazione), incluso il canto (perché è un’attività che induce il respiro lungo) e il canto corale, che presuppone anche la necessità di sintonizzarsi con gli altri;
  • Esercizi di coerenza cardiaca (respiri lunghi, immaginando il cuore al centro, respiro che “culla il cuore”)
  • Musica ad alta frequenza (che ha un’influenza regolante sul circuito ventrovagale).

Possiamo utilizzare L’EMDR non solo per andare ad intervenire sulle esperienze traumatiche in senso stretto, ma anche su tutto ciò che è portatore di difficoltà, incluse le persone con cui il paziente ha relazioni problematiche.

L’obiettivo è, in generale, condurre il paziente a sperimentare sensazioni corporee e vissuti positivi, in modo che acquisti confidenza e familiarità con uno stato di regolazione. Si cerca di traghettare il paziente da sensazioni ed emozioni negative e sensazioni corporee ed emozioni positive, insegnandogli a riconoscere le sensazioni piacevoli; si tratta di un lavoro che richiede tempo e gradualità.

Molto importante è anche il contatto oculare, che rappresenta anche la via maestra attraverso cui il bambino apprende dal caregiver i comportamenti di regolazione; un buon contatto oculare presuppone una microregolazione continua (il contatto deve esserci senza essere, però, prolungato ed eccessivo), come, ad esempio, i contatti oculari brevi, non forzati e con una intensa coloritura affettiva osservabili nella relazione madre-bambino quando siamo in presenza di un attaccamento sicuro.

Possiamo spiegare ai nostri pazienti l’importanza del contatto oculare, renderli consapevoli di eventuali disregolazioni nelle loro modalità di contatto oculare, legittimando anche il bisogno di evitare il contatto, quando vissuto come troppo intenso; possiamo scegliere di non adottare un contatto oculare diretto, che può essere vissuto come intrusivo. Tutto ciò aiuta il paziente ad diventare più consapevole dei propri vissuti e influisce positivamente sulle sue capacità di regolazione.

In ultima analisi, è importante procedere lentamente, avendo cura di effettuare una corretta processazione: se partiamo da una cognizione negativa dobbiamo arrivare ad una cognizione positiva e, di conseguenza, alle sensazioni ed emozioni positive correlate; viceversa, se partiamo da una sensazione corporea negativa dobbiamo arrivare ad una sensazione positiva e all’emozione e alla cognizione positiva correlata.

Relazioni pericolose: la violenza domestica ed i meccanismi di mantenimento

Il modello delle Zone Individuali di Funzionamento Ottimale: la prestazione sportiva dal punto di vista dell’atleta

Alessandro Martinelli – OPEN SCHOOL Sudi Cognitivi Modena

Le pressioni esterne, le nostre aspettative, quelle dei compagni o genitori sono aspetti che esercitano un’influenza sulla prestazione sportiva, amatoriale o professionistica che sia. Ma in che modo? Perché, ad esempio, un atleta nelle difficoltà e nella pressione esterna rende di più, mentre un altro di meno?

Le emozioni sono definite da Galimberti (2006, p.358) come una:

Reazione affettiva intensa con insorgenza acuta e di breve durata determinata da uno stimolo ambientale. La sua comparsa provoca una modificazione a livello somatico, vegetativo e psichico.

Queste influenzano la nostra performance, ma in che modo lo fanno? Il pattern di emozioni che contraddistinguono il nostro successo, o il nostro insuccesso, sono strettamente individuali o hanno aspetti uguali per tutti gli individui?

Nell’ambito della psicologia dello sport, a partire dagli anni ’80 in poi, le ricerche di tipo nomotetico hanno lasciato il passo a quelle di tipo idiografico (Manili & Palange, 2013).

Mentre il primo approccio studia i fenomeni secondo regolarità e cercando gli elementi generali, il secondo si propone di delineare i nessi di influenza delle emozioni su un piano individuale e specifico per ogni atleta. Le emozioni infatti rivestono una parte importante nella prestazione sportiva, sia come fattore inibente che come fattore facilitante, e molto dipende dalla valenza che gli viene attribuita dall’individuo.

Questo è alla base del Modello teorico delle Zone Individuali di Funzionamento Ottimale (Individual Zones of Optimal Functioning; IZOF) proposto da Hanin (1995) secondo il quale ogni atleta possiede la sua zona ideale di ansia in cui riesce a realizzare prestazioni ottimali, dove raggiunge il peak performance. L’ansia è definita uno stato di aumentata vigilanza contrassegnata da un’elevata attivazione emotiva (arousal), definita da Hanin (2000) come il grado e l’intensità con cui viene vissuta una determinata emozione. In generale, l’ansia permette all’individuo di anticipare la percezione di un eventuale pericolo prima che questo sopraggiunga, attivando specifiche risposte che spingono da un lato all’identificazione della strategia più adeguata per affrontarlo, dall’altro, all’evitamento e all’eventuale fuga.

L’acronimo IZOF sintetizza i seguenti concetti (Hanin, 1980):

  • Individual: rappresenta la zona di funzionamento ottimale. Questa risulta essere specifica ed individuale per ogni persona. Un determinato livello di ansia può essere funzionale o disfunzionale a seconda della caratteristiche personali dell’atleta, della disciplina praticata e del tipo di gara o competizione in cui si verifica;
  • Zone: si intende un’ area di valori al di fuori della quale la prestazione decade, mentre all’interno di questa si ottiene la prestazione migliore;
  • Optimal Functioning: ogni atleta esprime un livello di attivazione emotiva ottimale che risulta funzionale al raggiungimento della prestazione più elevata.

Il modello IZOF (Hanin, 1997, 2000) si colloca in un framework intra-individuale che ha lo scopo di descrivere, prevedere, spiegare e controllare le esperienze, ottimali e disfunzionali, dell’atleta in relazione alla performance individuali di successo e insuccesso.

Il modello è stato esteso non solo all’ansia, ma le zone di funzionamento ottimale hanno preso in considerazione il vissuto idiosincratico delle emozioni, per esaminarne gli effetti sulla performance sportiva (Hanin, 1997). Tale approccio si rivela così orientato all’azione ed in grado di fornire strumenti per concettualizzare e valutare con precisione le prestazioni in relazione a esperienze soggettive, pattern emozionali relativamente stabili e meta-esperienze per lo sviluppo di programmi individualizzati di autoregolamentazione (Hanin, 2003).

L’approccio indicato da Hanin (1997), consente quindi di analizzare in termini qualitativi e quantitativi l’esperienza emozionale soggettiva, permettendo di valutare quali emozioni caratterizzano le prestazioni migliori e peggiori, qual è la loro intensità e di prevedere quale effetto producono sulla prestazione sportiva le emozioni provate dall’atleta prima della competizione (Manili & Palange, 2013). In questo modello, il contenuto delle emozioni è stato concettualizzato in due fattori, indipendenti ma strettamente collegati: la tonalità edonica (positiva-negativa e piacevole-spiacevole) e l’effetto funzionale delle emozioni sulla prestazione sportiva (facilitante-inibente).

Le emozioni in tale modello sono ritenute unipolari, non variano quindi lungo un continuum che va da piacevole a spiacevole, ma sono ritenute separate. Ogni emozione, piacevole o spiacevole, positiva o negativa che sia, è separata dalla altre e può soggettivamente variare da un minimo ad un massimo.

Dall’interazione dei due fattori, tonalità edonica ed effetto funzionale, si derivano così quattro categorie di emozioni:

  • Piacevoli – facilitanti (positive – funzionali: P+);
  • Spiacevoli – facilitanti (negative – funzionali: N+);
  • Spiacevoli – inibenti (negative – disfunzionali: N-);
  • Piacevoli – inibenti (positive – disfunzionali: P-).

Queste 4 categorie sono di importanza cruciale all’interno del modello IZOF per prevedere l’effetto delle emozioni sulla prestazione e per comprendere e descrivere l’esperienza dell’atleta prima, durante e dopo la prestazione. Le emozioni possono dunque esercitare effetti totalmente diversi, benefici o meno in relazione al significato soggettivo e alla loro intensità.

Per Hanin le emozioni agiscono sulla nostra prestazione attraverso meccanismi di produzione e di utilizzo dell’energia necessaria per seguire il compito: quanta energia ho per questo compito/prestazione e come la utilizzo (Hanin 2000, D’Urso, Petrosso & Robazza, 2002a).

Il termine energia descrive aspetti sia psicologici che fisici, come ad esempio vigore, vitalità, intensità nel funzionamento mentale, persistenza nello sforzo, determinazione nel conseguire obiettivi personali. In questa prospettiva, emozioni piacevoli – facilitanti (P+) aiutano il soggetto a mobilitare e organizzare le funzioni motorie; emozioni spiacevoli e facilitanti (N+) servono soprattutto per la produzione di energia più che per il suo utilizzo. Emozioni piacevoli ma inibenti (P-) causerebbero una perdita di energia o un’inefficace utilizzazione delle risorse a disposizione, mentre quelle spiacevoli ed inibenti (N-) determinano una inadeguata generazione e utilizzazione di energia.

Come anticipato, i metodi idiografici sembrano essere quelli più appropriati a rilevare i patterns individuali delle emozioni ed il loro effetto, inibente o facilitante, sulla prestazione sportiva. Hanin ha sviluppato una procedura nella quale l’atleta viene messo al centro, che utilizza scale di misura formate da items che lui stesso genera, con la certezza quindi di avere descrittori di emozioni strettamente personali. Anche Cei (1998) sottolinea l’importanza di determinare tale zona attraverso un’intervista agli atleti, in cui vengano esplorati quali sono le emozioni piacevoli/spiacevoli che svolgono un’azione facilitante o inibente sulle loro prestazioni, con quale intensità si manifestano e come variano le singole emozioni.

Agli atleti è stato quindi chiesto di identificare items facilitanti (piacevoli e spiacevoli) ed inibenti (positivi e negativi) con l’aiuto di due liste distinte, una di aggettivi piacevoli e una con aggettivi spiacevoli ricavati dal lavoro di Watson e Tellegen (1985). Il Profilo emozionale viene poi delineato attraverso un metodo retrospettivo, chiedendo al soggetto di rievocare le proprie prestazioni ottimali e le condizioni che conducono al successo per poi selezionare dalle liste 4-5 emozioni positive e 4-5 negative tipiche del vissuto precedente la prestazione. La stessa procedura viene ripetuta per prestazioni che sono state fallimentari o di insuccesso e per ogni stato emotivo l’atleta deve infine indicare il livello di intensità provata. Questa valutazione dovrebbe essere ripetuta includendo anche anticipazioni di come l’atleta si sentirà poco prima dell’evento sportivo successivo e sia misurazioni effettuate nel periodo pre-gara.

Il modello IZOF fu poi implementato da Hanin (2000) che incluse anche fattori fisico-motori, aspetti fisiologici, capacità condizionali, tecniche e tattiche. Il modello infatti definisce le prestazioni legate allo stato bio-psico-sociale del soggetto come manifestazione situazionale, multimodale e dinamica. Tale descrizione multi-livello comprende almeno cinque dimensioni interdipendenti (forma, contenuto, intensità, tempo e contesto), ed ognuna di queste comprende diverse componenti.

  • La dimensione della Forma comprende sette componenti fondamentali: cognitiva, affettiva, motivazionale, fisica, motoria-comportamentale, operativa e comunicativa. In altre parole sotto la dimensione della forma vengono elencate le componenti psicologiche, quelle associate ad aspetti biologici o psicofisiologici e quelle che fanno riferimento all’interazione tra persona e ambiente.
  • La dimensione Contenuto è una caratteristica qualitativa dello stato delle prestazioni, che come abbiamo visto distingue le emozioni in piacevoli-facilitanti; spiacevoli-facilitanti; spiacevoli-inibenti; piacevoli-inibenti.
  • La dimensione Intensità che concerne vigore, vitalità e persistenza nello sforzo, può sia inibire che facilitare la prestazione sportiva.
  • La dimensione Tempo comprende componenti come durata, frequenza, cicli di lavoro, fasi. Gli stati emotivi degli atleti posso essere considerati prima della gara, durante e dopo.
  • Infine la dimensione Contesto è una caratteristica ambientale che riflette l’impatto che le variabili situazionali, interpersonali, e intra-gruppo hanno sull’intensità e sul contenuto delle emozioni. Esempi di impatto situazionale sono reazioni emotive innescate da competizioni di diverso livello (locale, nazionale, e internazionale), mentre le risposte emotive interpersonali e intra-gruppo riflettono come un atleta vive le interazioni che ha con un compagno di squadra o con il suo gruppo (Hanin, 2003).

In sintesi, ci dice Hanin (2003) che le prime tre dimensioni (forma, contenuti e intensità) descrivono le esperienze soggettive e le meta- esperienze, mentre le altre due dimensioni (tempo e contesto) caratterizzano le dinamiche delle esperienze soggettive degli atleti.

Anche altri autori hanno utilizzato, prendendo spunto dalla teoria dei costrutti personali di Kelly (1955), approcci idiografici per l’assessment psicologico e la progettazione di procedure di mental training. Butler e Hardy (1992) hanno sottolineato l’importanza di considerare la percezione che l’atleta ha di sé e della sua preparazione generale ed hanno proposto il performance profile, uno strumento che identifica i punti di forza e di debolezza del soggetto partendo dalla premessa che le persone cercano di dare un senso alle loro esperienza elaborando quadri di riferimento personali (D’Urso, Petrosso & Robazza, 2002a). Con questo metodo l’atleta partecipa attivamente alla costruzione del suo profilo di prestazione delineando un quadro completo delle sue caratteristiche psicologiche, tecniche e fisiche. Gli viene chiesto di identificare qualità e caratteristiche fondamentali per il suo sport (costrutti tecnici, fisici e mentali), scegliendo quindi quelli per lui più rilevanti. Per ciascun costrutto dovrà poi dare una valutazione di se stesso da 0 (per nulla) a 10 (moltissimo) dapprima riferito alla sua condizione attuale ed in seguito rispetto alla prestazione ottimale. L’atleta avrà così uno strumento che permetterà di confrontare due profili di prestazioni differenti, uno attuale ed uno ideale, che consentono di predisporre strategie di intervento individualizzate ed adattabili all’evoluzione dell’atleta.

Il modello IZOF e il performance profile si accomunano per l’importanza che viene data all’approccio idiografico per lo studio della relazione tra stati mentali e prestazione atletica. Gli aspetti per i quali si differenziano sono invece da rintracciarsi nel tipo di fattori considerati: se infatti il modello IZOF si concentra principalmente su fattori situazionali, o stati, il profilo di prestazione si concentra su fattori relativamente stabili, o tratti.

In una ricerca di D’Urso, Petrosso e Robazza (2002b) sono stati seguiti atleti esperti di rugby per un’intera stagione al fine di confrontare il modello IZOF con il performance profile. L’ipotesi fu che le emozioni pre-competitive non fossero predittive poiché soggette a fluttuazioni anche ampie durante la gara, a differenza di quelle fisico-motorie e psicologiche che invece sono maggiormente stabili anche nel corso della competizione. Lo strumento utilizzato comprendeva sia items derivati dal modello IZOF, e quindi descrittori emozionali, che items derivati dal performance profile: costrutti fisici, tecnici e mentali soggettivi.

I risultati dimostrarono che in uno sport di squadra come il rugby costrutti psicologici e fisico-motori sono in grado di discriminare gli atleti e differenziare le prestazioni in misura superiore rispetto alle emozioni, confermando l’ipotesi che gli stati emozionali sono soggetti a diverse fluttuazioni determinate dagli eventi che si susseguono in campo mentre i fattori attitudinali, fisici e tecnici rimangono più stabili. Questo conferma come il modello IZOF sia applicabile in modo più appropriato a fattori situazionali piuttosto che a costrutti relativamente stabili (D’Urso, Petrosso & Robazza, 2002b)

I risultati empirici hanno dimostrato come il pattern di emozioni che contraddistinguono il successo o l’insuccesso sia strettamente individuale: nella procedura di Hanin è il soggetto ad attribuire effetti vantaggiosi o svantaggiosi alle emozioni, mentre la caratteristiche positive o negative sono stabilite a priori. Dal concetto di zone di funzionamento ottimale è emersa la possibilità di differenziare prestazioni buone e scadenti e di discriminare il livello di successo degli atleti in base all’intensità delle emozioni pre-gara. L’identificazione di emozioni idiosincratiche funzionali e disfunzionali è una procedura che aiuta a fare prendere coscienza all’atleta delle sue condizioni psicologiche e degli effetti che queste hanno sulla sua performance, al fine anche di migliorarne la consapevolezza e l’abilità di regolare e predire il proprio sistema emotivo prima degli eventi sportivi più importanti (Hanin, 2000b).

Il modello IZOF ha avuto l’intento di spiegare la complessa relazione bidirezionale tra le emozioni degli atleti e le loro prestazioni, poiché non solo le emozioni pre-gara influiscono sulla performance, ma anche il feedback, generato dal risultato della prestazione, andrà ad influire sulla scelta delle emozioni reputate funzionali o disfunzionali per le successive competizioni (Robazza, Pellizzari & Hanin, 2004).

Il concetto di zona se non sembra essere applicabile ai fattori relativamente stabili, può essere però utilizzato ed esteso. Infatti, l’identificazione di zone individuali di funzionamento ottimale facilita l’atleta nella definizione di obiettivi personali a breve, medio e lungo termine e nei metodi per conseguirli; l’elaborazione di un profilo di prestazione (Butler & Hardy, 1992) risulta utile per individuare i punti di forza e debolezza dell’altleta, ottenere una rappresentazione visiva di come si percepisce, identificare i fattori che per il soggetto condizionano la performance, monitorare le condizioni psicologiche momento per momento e focalizzare gli obiettivi in modo chiaro.

La zona di sviluppo prossimale nella teoria di Lev Vygotskij – Introduzione alla Psicologia Nr. 37

La zona di sviluppo prossimale è un concetto introdotto per la prima volta da Vygotskij e indica l’area in cui si può osservare cosa il bambino è in grado di fare da solo e quali sono i potenziali apprendimenti possibili nel momento in cui è sostenuto da un adulto competente.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 37)

Succede che si crea, in questo modo, una interazione tra adulto e bambino che porta allo sviluppo di capacità in ambito di apprendimento e facilita l’acquisizione di competenze.

In sostanza, la zona di sviluppo prossimale è una sorta di ponte tra le capacità di sviluppo attuali del bambino e quelle potenziali, ottenibili attraverso l’iterazione con una persona più esperta.

Piaget considerava l’apprendimento del bambino formato da una serie di stadi: il raggiungimento dello stadio successivo avviene per maturazione cognitiva e superamento di quello precedente.

Vygotskij, al contrario, considerava il bambino come dotato di un potenziale che gli permette di acquisire nuove conoscenze nel momento in cui entra in contatto con soggetti aventi una maturazione cognitiva e una cultura maggiore di quella presentata dal bambino stesso. Questo scambio di competenze avviene nella zona di sviluppo prossimale e l’aiuto e il supporto fornito al bambino da un adulto (genitore o tutor) prende il nome di scaffolding.

 

Scaffolding & zona di sviluppo prossimale

Il termine scaffolding deriva dalla parola inglese scaffold, che, letteralmente, indica “impalcatura” o “ponteggio”, ovvero attrezzi usati dagli operai per svolgere un lavoro di costruzione. Quindi, così come gli operai costruiscono una casa, l’adulto o il tutor aiuta il bambino a costruire le proprie competenze cognitive. In psicologia e pedagogia, insomma, il termine scaffolding è usato per indicare l’aiuto, il sostegno, dato da una persona competente a un’altra, per apprendere nuove nozioni o abilità (Wood, Bruner, & Ross, 1976).

Questo termine fu utilizzato per la prima volta in un articolo scritto da Wood, Bruner e Ross pubblicato dal Journal of Child Psychology and Psychiatry in cui si presentavano i risultati ottenuti da uno studio in cui si osservavano un tutor e un bambino impegnati nella costruzione di una piramide tridimensionale con blocchi di legno. I risultati evidenziarono che quando il bambino era supportato e sostenuto dal tutor era in grado di implementare e arricchire al meglio le sue capacità cognitive.

Questa posizione deriva dall’assunto che ognuno possiede un potenziale cognitivo che può essere arricchito e corredato per mezzo dell’interazione con una persona più competente. Lo spazio dell’interazione, zona di sviluppo prossimale, costituisce una area di apprendimento in cui le capacità cognitive del bambino aumentano e possono essere sviluppate delle nuove forme di conoscenza.

Inoltre, nell’articolo, gli autori evidenziano che il sostegno dato dal tutor al bambino deve essere un processo in divenire perché adattato ai progressi dell’allievo. Quindi, è un supporto costante e sempre in evoluzione che porta il bambino all’attuazione delle competenze acquisite in piena autonomia.

Collins, Brown e Newman (1995) chiamarono il processo di progressiva autonomizzazione del bambino fading.

Lo scaffolding è usato anche attualmente quando uno studente è in difficoltà nell’ambito dell’acquisizione di nuove nozioni in ambito scolastico. In molti, sempre più spesso, chiedono aiuto a persone che svolgono specificamente questo ruolo di tutor nell’apprendimento, il cui scopo finale e far diventare autonomo l’allievo nell’attuazione del metodo acquisito. In questo modo entrano in gioco sia lo scaffolding sia il fading. Alla fine dell’attuazione di queste procedure, lo studente presenterà una maggiore fiducia nelle proprie capacità cognitive e comportamentali, fino a sentirsi più esperto nel sapere in generale. Chiaramente, questa prassi porta a incrementare anche l’autostima e la fiducia in se stessi, ottima medicina per affrontare al meglio gli ostacoli della vita.

Nel XXI secolo con l’avvento della tecnologia e l’uso del computer, si è verificato un cambiamento anche nei processi di apprendimento. Infatti, la relazione tra tutor e bambino è stata mediata dall’interazione tra macchina e bambino.

Grazie a questa nuova tecnologia è possibile apprendere e immagazzinare informazione in memoria attraverso tecniche diverse dalle precedenti. Sicuramente è la nuova era dell’apprendimento e della conoscenza che porta all’acquisizione più immediata e repentina di processi. Questa nuova modalità è stata definita dimensione ‘tecnologica’ dello scaffolding (Pea, 2004). E arriviamo ai nostri giorni, l’era dei nativi digitali.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Anche gli uomini necessitano di un sostegno ostetrico e psicologico durante la gravidanza?

Negli ultimi anni c’è stata una crescente attenzione riguardo l’ansia esperita dalle donne durante il periodo perinatale. Tuttavia, questo periodo, non è solo un momento unico della vita delle madri, ma anche di quella dei padri. Ciò che è stato osservato, è che anche gli uomini possono esperire una forte ansia nel periodo perinatale, conducendo ad un forte impatto negativo su se stessi, sulle loro partner e sul bambino.

Infatti, esperienze specifiche come l’estrema stanchezza, una salute precaria del genitore o del bambino, provate durante l’attesa di un bambino possono condurre a traumi relativi alla nascita e a sentimenti di inadeguatezza come genitore. Inoltre, all’interno di una sua ricerca, Swain suggerisce che esistano specifici processi pro-neurologici e/o cognizioni paterne, che sono uniche per il cervello degli uomini con bambini piccoli, indicando quindi che il periodo perinatale può essere cognitivamente un momento unico. Tuttavia, si sa poco riguardo la prevalenza e il decorso dell’ansia maschile in questo importante periodo.

Con lo scopo di ottenere maggiori informazioni al riguardo, Leach e colleghi hanno analizzato cinque database (PubMed, PsycINFO, Cochrane, SCOPUS, e Web of Science), con lo scopo di identificare i documenti più rilevanti pubblicati prima dell’aprile 2015.
Le informazioni ottenute sottolineano come i tassi di prevalenza di un ‘qualsiasi’ disturbo d’ansia varino tra il 4,1% e il 16,0% durante il periodo prenatale e il 2,4 e il 18,0% nel periodo postnatale. Pertanto i dati esaminati suggerirebbero che il decorso dell’ansia negli uomini sia abbastanza stabile nel periodo perinatale, e che tale momento sia spesso seguito da un potenziale decremento dell’ansia in seguito al parto.

Bisogna tenere conto però, che tale risultato è frutto di un grosso limite. La presenza di ampie variazioni nella metodologia e negli strumenti utilizzati per indagare l’ansia, rendono i risultati ottenuti poco attendibili ed omogenei. Inoltre l’ansia è altamente in comorbilità con la depressione, pertanto gli strumenti che indagano entrambi i disturbi allo stesso tempo, potrebbero aver fornito dei risultati falsati per lo scopo della ricerca.

In conclusione, è possibile confermare la presenza di ansia negli uomini nel periodo perinatale. Pertanto, non solo le madri, ma entrambi i genitori dovrebbero essere tutelati da discussioni ed interventi incentrati su cure ostetriche e di salute mentale durante il periodo perinatale.

Il gioco delle parti. Guida illustrata al tuo mondo interiore (2015) – Recensione

“Il gioco delle parti” è un breve volume illustrato e indirizzato ai pazienti o a “profani” della psicologia che vogliano comprendere meglio quanto e come interagiscono le diverse parti che ci compongono.

In realtà, dal mio punto di vista, il libro offre interessanti spunti anche a professionisti della salute mentale che come nel mio caso non hanno ricevuto una formazione specifica sul modello Internal Family Systems (IFS): si tratta di un approccio sistemico applicato alla terapia individuale, che concettualizza le persone come risultato dell’intreccio di diverse parti interconnesse e a volte in conflitto fra loro.

Il modello IFS è stato proposto da Schwartz e viene in questo caso utilizzato per spiegare con un linguaggio estremamente chiaro e comprensibile e con l’aiuto di materiale illustrativo originale qual è la struttura interiore che tutti condividiamo, fatta di tante componenti. In particolare, nel libro di Tom e Lauri Holmes, il modello IFS viene combinato con diversi concetti che hanno a che fare con la natura della consapevolezza per come la troviamo nella psicologia buddhista. Ma come è fatto questo breve volume? Vediamolo insieme.

I primi due capitoli sono dedicati a un’introduzione dei concetti base del modello, ancora una volta resi estremamente intuitivi dal linguaggio immediato, dai contributi grafici, e dagli esempi concreti tratti da storie di terapie. L’autore ci spiega come ci siano due importanti livelli di consapevolezza nella nostra mente: la consapevolezza quotidiana, quella attiva in un dato momento, che viene chiamata il “soggiorno” della consapevolezza. In sostanza, si tratta della componente di noi attiva in una precisa situazione, come la componente “collega” attiva al lavoro, piuttosto che la componente “mamma” o “moglie” attiva una volta rientrati a casa.

Di fianco a questo livello di consapevolezza, anzi, al di sotto di questa, si collocano quelle che l’autore chiama le consapevolezze “di scorta”: quelle che fanno parte di noi ma che in un dato momento sono silenti, perché non appropriate alla situazione o non utili in quel particolare frangente. Non servirebbe fare “entrare nel soggiorno” della consapevolezza la parte “moglie” quando si è in ufficio, così come attivare la parte “manager” una volta rientrati a casa potrebbe essere controproducente. Ma le diverse componenti non si caratterizzano semplicemente per ambito di competenza, e qui nascono i problemi. Perché se fosse questione di competenze e di tempistiche, sarebbe sufficiente mettere le componenti non utili in stand-by e riattivarle una volta che si creino le condizioni adeguate. Invece, le componenti sono trasversali, e includono per esempio anche la parte critica, la parte interessata o la parte analitica: va da sé che non è così semplice capire quando è utile che si attivi una componente piuttosto che un’altra.

Uno dei concetti che l’autore chiarisce da subito è che [blockquote style=”1″]ognuna delle nostre parti interpreta le percezioni a suo modo. Ognuna ha una propria concezione del mondo e pertanto l’approccio con cui affrontate l’esperienza della vostra vita varia molto a seconda della parte di voi che, di volta in volta, emerge nel soggiorno. [/blockquote] È il motivo per cui se una cosa ci viene detta sul lavoro o quando siamo in una modalità “lavoratrice” ha un peso diverso da una cosa detta in un contesto informale, per esempio in modalità “amica”. L’altra cosa da tenere a mente è che ogni parte di cui siamo composti ha un proprio compito nel nostro sistema. Tutto serve, altrimenti darwinianamente parlando, si sarebbe già estinto; bisogna però capire a cosa serve.

Un’altra informazione che ci aiuta a capire meglio cosa siano queste parti è la loro forma; allora impariamo che ogni parte ha quattro diverse dimensioni: sensoriale, emotiva, verbale e immaginativa. Come facciamo quindi a “funzionare” correttamente con questo stuolo di parti che balla il cancan? Qui entra in gioco il Sé, che è [blockquote style=”1″]la parte centrata di noi stessi, tramite la quale possiamo accedere alle parti appropriate nel momento in cui ci servono. [/blockquote]Diciamo che se le nostre parti fossero dei programmi su un computer, il Sé sarebbe il menu principale, che permette di dare uno sguardo complessivo e al contempo di decidere e attivare una specifica parte in uno specifico momento. Come facciamo a centrarci? Sembra che il primo passo sia prendere consapevolezza delle parti centrali del nostro sistema, cosa che viene sollecitata nel libro anche grazie ad alcune schede di lavoro alla fine di ogni capitolo. Secondo gli autori, [blockquote style=”1″]quando siamo nel Sé, siamo calmi e compassionevoli; siamo animati dalla curiosità, dalla chiarezza, dalla fiducia, dalla creatività, dal coraggio e dalla connessione.[/blockquote] Stare nel Sé ci serve per osservare ogni parte e trattarla con gentilezza e accettazione; inoltre, il dialogo tra le parti e il Sé è il concetto fondamentale della terapia delle parti (che ha come obiettivo riportare il Sé in primo piano): è solo dialogando con il Sé che ogni parte può iniziare a [blockquote style=”1″]accantonare i propri comportamenti estremi e assumere una funzione utile per il sistema.[/blockquote]

Andando avanti con la lettura, l’autore chiarisce meglio da dove nascono le parti che ci compongono, sottolineando come si siano tutte sviluppate per rispondere a delle esigenze fisiche, psicologiche o sociali, e come abbiano tutte un’intenzione fondamentalmente positiva. Abbiamo tutti delle parti fisiche e di sopravvivenza, come la parte di accudimento, la parte spaventata e la parte arrabbiata; inoltre, ci sono parti che ci aiutano ad adattarci e a partecipare alla vita sociale, come le parti di autocontrollo e le parti normative, ma anche le parti ribelli; vi sono poi le parti gestionali, che ci servono per “funzionare” nella vita di tutti i giorni, lavorativa e organizzativa, che ci permettono di essere (chi più e chi meno) multitasking. Attenzione però: se è vero che ci sono diverse parti, tutte tendenzialmente con intenzioni positive, e tutte sotto l’egida del Sé, come interagiscono queste parti tra loro? Perché è probabile che alcune siano in conflitto, e che diverse componenti competano tra loro per ricevere la nostra attenzione e per essere soddisfatte nei loro bisogni. Non solo: spesso alcune parti si coalizzano tra loro, per raggrupparsi nel nome di una missione superiore positiva (come mantenere la persona in salute) o negativa (come mantenere la persona in una condizione di sofferenza che però sembra essere utile a altro: il famoso beneficio secondario del sintomo). Queste coalizioni sono formate da parti che condividono un determinato obiettivo per il sistema, e questo non è per forza un male: tuttavia, le coalizioni divengono problematiche quando sono rigide nella forma e nelle loro intenzioni e azioni.

Come si risolvono i conflitti tra le parti? Con la negoziazione. Penso che questo sia uno dei concetti più interessanti del libro, perché permette di capire molto bene come la soluzione non sia eliminare delle componenti, o non ascoltarle. L’autore fornisce diversi esempi di quanto non ascoltare una parte possa portare solo a farla urlare ancora di più. Il modo per farla stare tranquilla, invece, è ascoltarla, comprendere il suo punto di vista e utilizzarlo per arrivare a un’azione condivisa e negoziata tra tutte le parti interessate e presieduta dal Sé. Questo avviene tramite l’inizio di un dialogo interiore, che apre la strada verso il compromesso in cui i bisogni fondamentali di tutte le parti sono ascoltati: [blockquote style=”1″]Poiché parti differenti hanno ruoli differenti, per rispondere a bisogni differenti del nostro sistema, è naturale che sorgano conflitti quando occorre mediare tra necessità e paure che sono in competizione. Il fatto di portare la consapevolezza del Sé nel processo ci consente di risolvere questi conflitti, poiché essere nel Sé ci consente di ascoltare tutte le parti. Una volta comprese le intenzioni positive di una parte, paziente e terapista possono aiutarla a capire come ciò che sta facendo ora non sia utile, per poi aiutare il sistema a tornare in equilibrio.[/blockquote]

Il modo per ridimensionare una parte che in una determinata situazione sta urlando qualcosa e sta prendendo possesso del salotto è aiutare questa parte protettiva ad avere fiducia nel Sé, riconoscendo il suo valore nella protezione del sistema e insegnandole che ora il sistema non è più in pericolo perché possiede nuove risorse.

Una terza sezione molto interessante del libro riguarda il modo in cui le nostre parti interne entrano in relazione con le parti interne altrui, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche di coppia. Gli autori parlano delle dinamiche ripetitive che spesso compongono i copioni nelle coppie, proponendo una struttura, a “Z”: le raffigurazioni cicliche non sembrano adatte, visto che a ogni risposta di un componente della coppia non entra nuovamente in gioco la parte iniziale dell’altra componente, ma una parte che viene richiamata da quella altrui. In questo modo, si creano delle dinamiche a staffetta in cui ogni parte di un membro della coppia tende a richiamare una specifica parte del partner, che a sua volta ne attiva una nuova del primo, e così via. Inoltre, le coppie spesso si etichettano in modo negativo descrivendo l’altro membro con caratteristiche stabili e negative, come “sei sempre…” o “non sei mai…”. Secondo gli autori “sono le parti protettive di una persona a etichettare l’altra persona normalmente per proteggere le parti vulnerabili del proprio sistema interiore. Quando si riesce a parlare con queste parti, dando loro modo di farsi ascoltare dal Sé, normalmente esse sono in grado di contenere il proprio atteggiamento difensivo. Così, possiamo trovare dei modi sicuri per comunicare agli altri le esigenze di queste parti.

La quarta parte del libro riguarda un altro importante tipo di parti: gli esiliati. Si tratta di quelle componenti che non hanno mai accesso al soggiorno, ma vengono continuamente rinchiuse in un angolo perché ritenute socialmente non accettabili oppure perché causano dolore evocando il ricordo di esperienze traumatiche. Per evitare che ciò succeda, entrano spesso in campo altre parti, chiamate i “vigili del fuoco”, comportamenti autodistruttivi che bloccano temporaneamente il dolore che sarebbe causato dagli esiliati. Rientrano in questa categoria esperienze puramente sensoriali, come le abbuffate che troviamo nelle pazienti bulimiche o i comportamenti autolesivi nelle pazienti borderline. Anche in questo caso, secondo gli autori, il percorso di miglioramento parte dalla centratura nel Sé che consente il riconoscimento prima dei vigili del fuoco e in seguito del loro tentativo di proteggere il sistema dal dolore, per poi consultandosi con lui trovare altre modalità tutelanti che non implichino solo un sollievo a breve termine. A questo punto, il paziente potrà incontrare gli esiliati alla presenza del Sé, con la capacità di stare a sentire le storie di queste parti senza per questo sentirsi sopraffatto dal dolore.

Infine, il libro si conclude con una connessione alla vita interiore e con un’ampia riflessione sul ruolo delle esperienze spirituali nel processo terapeutico, che mira a creare un armonioso dialogo tra le parti, sempre nella prospettiva di un Sé coerente.
Personalmente trovo che questo libro sia molto utile, soprattutto nella chiave divulgativa in cui è stato pensato. In una tendenza generale a teorizzare tutto e con una propensione a trovare parole difficili per spiegare cose semplici, credo invece che un approccio che riporta alla semplicità e che permette al paziente di comprendere meglio come sta funzionando sia molto utile. Raffigurarsi se stessi come un salotto, che ospita di volta in volta personaggi differenti, può essere utile per comprendere sia la molteplicità di caratteristiche che ci contraddistinguono, sia contemporaneamente il file rouge che le unisce, nel tentativo di aumentare la coerenza interna del sistema e la sua flessibilità nelle diverse situazioni. Gli psicologi e i terapeuti lavorano con la parola, che nasce come mezzo per comunicare e per comprendersi. Sono quindi personalmente dell’idea che più le parole (e in questo caso anche i disegni) possiedono questa funzione comunicativa, più sia interessante condividere queste parole con i pazienti e dare modo a loro per primi di comprendere con relativa semplicità la struttura del sistema, potendolo così identificare e gestire in modo più proficuo.

Prestare soccorso per ricevere amore: la sindrome della crocerossina

La crocerossina può esistere solo se vi è qualcuno da curare, non a caso queste persone scelgono e mantengono relazioni affettive con compagni che, per diversi motivi, rivestono il ruolo di bisognosi.

Sicuramente la maggior parte delle persone conoscerà bene la favola di Peter Pan e le sue avventure insieme alla sua amica Wendy. Quest’ultima è una bimba di dieci anni, ma le condizioni di vita l’hanno portata a comportarsi come un’adulta, la quale si prende cura dell’amico Peter conservandogli amorevolmente l’ombra affinché non si sgualcisca. E non solo: accetta di accompagnare il suo Peter, bimbo spensierato e immaturo, nelle sue peripezie prendendosi cura di lui, e al contempo supporta e accudisce anche tutti i bambini sperduti dell’isola che non c’è, insegnando loro le buone maniere ed essendo contenta di far questo. Lei fa di tutto per gli altri e questo la rende felice.

Ed è proprio al personaggio di Wendy Darling, della nota favola di J. M. Barrie, che ci si è ispirati per dare un nome ad una famosa sindrome: la Sindrome di Wendy, o meglio conosciuta come Sindrome della Crocerossina. La Sindrome di Wendy colpisce soprattutto le donne (ma non ne sono immuni gli uomini) le quali mostrano comportamenti particolarmente accudenti, protettivi, orientati al compiacimento, alla soddisfazione e alla gratificazione dell’altro, là dove il focalizzarsi sui bisogni altrui è ad evidente discapito dei propri.

Questi atteggiamenti possono essere attuati verso di chiunque: genitori, figli, fratelli, amici, colleghi, ma soprattutto vengono rivolti nei confronti del proprio partner.

La crocerossina può esistere solo se vi è qualcuno da curare, non a caso queste persone scelgono e mantengono relazioni affettive con compagni che, per diversi motivi, rivestono il ruolo di bisognosi. In tutto ciò il partner diviene oggetto d’amore incondizionato, idealizzato, aiutato e soccorso, tutto questo a discapito del proprio benessere.

È da aggiungere che questi comportamenti risanatori nei confronti dell’altro vengono attuati con piena volontà e consapevolezza. Infatti il prendersi cura del partner, vederlo soddisfatto, appagato, salvo grazie ai propri sacrifici gratifica la crocerossina, la quale si sente indispensabile per il proprio compagno, ma soprattutto questi atteggiamenti vengono percepiti come essenziali affinché la relazione possa andare avanti.

Solitamente i partner ‘soccorsi’ hanno la caratteristica di essere persone un po’ complicate, per qualche motivo inafferrabili o problematiche; con i quali si instaurano relazioni che inizialmente vengono percepite come difficili. Ma è proprio in queste situazioni che la crocerossina da un senso alla sua mission: io ti aiuterò, tu starai meglio, mi sarai riconoscente e mi amerai.

Wendy ha alcune credenze che sostengono il suo comportamento (Quadrio, 1982):

  • Io sono indispensabile;
  • L’amore richiede un certo sacrificio;
  • Gli altri intorno a me non devono arrabbiarsi;
  • Gli altri vanno protetti.

Dietro i soggetti con tale sindrome si nasconde sovente una personalità Dipendente ed una conseguente paura di ritrovarsi soli.

L’idea che non vi sia nessuno da aiutare spaventa, perché viene meno un modo di sentirsi utili e di offrire benessere. Supportare e aiutare l’altro determina infatti una percezione di sé come valorosi e indispensabili, di conseguenza si viene apprezzati. Alle spalle di questi comportamenti vi è una paura di essere abbandonati o rifiutati.

La sindrome di Wendy può dipendere dall’incatenarsi di più variabili, dove sicuramente gioca un ruolo cruciale la personalità del soggetto, ma anche lo stile di vita e l’educazione ricevuta, così come i bisogni e le circostanze della vita attuale.

Si tratta di soggetti che non concepiscono l’amore come qualcosa di gratuito, piuttosto pensano di doverselo in qualche modo meritare, con azioni di cura, sentendosi indispensabili o cercando di esserlo. Come venir fuori da questa sindrome?

Va inizialmente esplorata la storia di vita di questi soggetti, per capire come si è costruita la credenza che l’amore abbia un prezzo e vada in qualche modo guadagnato. Andrebbe quindi fatto un confronto con i personali vissuti abbandonici e la paura del rifiuto; al contempo fare i conti con la consapevolezza che nulla è per sempre, e che le eventuali separazioni non sono poi così terribili.

In seguito andrebbe fatto un lavoro sulla propria autostima, relativamente al fatto che le gratificazioni esistono soprattutto quando facciamo del bene a noi stessi. Inoltre andrebbe spostato il focus di questi soggetti da i bisogni dell’altro ai propri e allo svilupparsi di emozioni positive.

Perché qualsiasi relazione è in realtà un gioco di forze a doppio senso, dove entrambi i soggetti coinvolti devono vincere per stare bene.

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te.

(F. Battiato, “La Cura”)

REBT: l’influsso dello stoicismo sul pensiero di Albert Ellis

Matteo Guidotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

L’assunto di base della REBT è che pensiero ed emotività siano strettamente associati, agendo l’uno sull’altro in un rapporto circolare di causa ed effetto: i pensieri diventano sovente emozioni e le emozioni, in molte circostanze, diventano a loro volta pensieri, tanto da poter affermare che sotto certi aspetti siano essenzialmente la stessa cosa.

[blockquote style=”1″]Sopprimi la tua opinione ed avrai cancellato il “sono stato insultato”. Sopprimi il “sono stato insultato” ed avrai cancellato l’insulto.[/blockquote]
(Marco Aurelio)

Nel suo libro più conosciuto, Ragione ed emozione in psicoterapia (1962), Albert Ellis, fondatore della Terapia Comportamentale Razionale-Emotiva (REBT), indica l’originalità del suo approccio al disagio psichico nella centralità che le cosiddette “verbalizzazioni interiori” o “autoistruzioni” giocano sul mantenimento di stati emotivi spiacevoli e negativi nel paziente. Si tratta di frasi interiori, pensieri, che, ripetuti in modo automatico nella mente, contribuiscono a generare emozioni negative prolungate.

[blockquote style=”1″]L’individuo è raramente colpito da cose ed eventi esterni; piuttosto è afflitto dalle sue percezioni, atteggiamenti o frasi interiorizzate inerenti a cose ed eventi esterni [/blockquote](Ellis 1962, p. 57).

Ellis afferma di aver dedotto questo fondamentale principio da numerose sedute psicoterapeutiche, ma che l’idea fondamentale gli fu suggerita da alcune letture filosofiche, in particolare dagli antichi filosofi stoici.

 

Epitteto e le origini stoiche della REBT

Ora, il movimento stoico è una corrente di pensiero complessa, che si articola in almeno tre grandi periodi storici differenti, ognuno caratterizzato da un peculiare approccio alle domande filosofiche di fondo e influenzato da fonti differenti. Scorrendo le pagine degli scritti di Ellis si può affermare che, per lui, il termine “stoicismo” coincide per lo più con la cosiddetta “Stoa romana”, cioè il tardo stoicismo sviluppatosi nella cultura romana tra il I e il III secolo d.C. Esponenti di spicco di questa corrente sono Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. E’ soprattutto l’assidua lettura del Manuale (Enchiridion) di Epitteto a sollecitare la curiosità di Ellis, il quale pone una citazione dell’antico pensatore come base della sua scoperta in ambito clinico:

[blockquote style=”1″]Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti[/blockquote] (Epitteto, p. 7).

A tal proposito, il filosofo greco porta un esempio che si pone sulla scia della meditatio mortis, quale esercizio (áskesis) per distanziarsi dalle proprie passioni e vedere le cose nella prospettiva dell’universalità e dell’oggettività.

Epitteto, infatti, prende in causa proprio la paura della morte. Già Epicuro vi aveva dedicato una famosa riflessione, volta in primo luogo a dimostrare che a nessuna delle vicende umane va attribuita grande importanza – e che dunque è inutile turbarsi:[blockquote style=”1″] Il male che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi[/blockquote] (Epicuro, p. 125). Epitteto riprende questo argomento per dimostrare quanto ogni nostro timore o turbamento dipenda da una sottostante valutazione di pensiero:

[blockquote style=”1″]Così la morte non è nulla di terribile, ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l’ha intrapresa incolpa se stesso; chi l’ha completata non incolpa né gli altri né se stesso[/blockquote] (Epitteto, p. 7).

 

La REBT come educazione filosofica

Ellis ha dedicato la sua intera vita professionale a promuovere tale “educazione filosofica”, proprio nei termini espressi dallo stoicismo, in quanto disputa razionale sull’irrazionalità di certe nostre convinzioni e la loro ricaduta sullo stato d’animo dell’individuo.
L’assunto di base della REBT è che pensiero ed emotività siano strettamente associati, agendo l’uno sull’altro in un rapporto circolare di causa ed effetto: i pensieri diventano sovente emozioni e le emozioni, in molte circostanze, diventano a loro volta pensieri, tanto da poter affermare che sotto certi aspetti siano essenzialmente la stessa cosa.

A proposito di questo aspetto, in un’altra opera di larga diffusione, L’autoterapia razionale emotiva (1990), Ellis ribadisce la centralità dell’influenza stoica sul suo pensiero:

[blockquote style=”1″]Come sottolineato da Epitteto e Marco Aurelio, antichi filosofi della scuola stoica, negli esseri umani il sentimento coincide per lo più con il pensiero. Non completamente, ma in gran parte. Questo è il messaggio fondamentale che la Terapia Razionale-Emotiva ha cercato di diffondere per più di quarant’anni[/blockquote] (Ellis 1990, p. 24).

 

Il razionalismo nella REBT

Su questo punto è necessaria una breve precisazione, per non cedere all’idea che tanto lo stoicismo quanto la terapia razionale-emotiva siano forme di razionalismo puro. Ellis conia il termine “razionale” ben cosciente del fatto che l’obiettivo primario della terapia è quello di modificare le emozioni, ma poiché queste non esistono come cose in sé, scollegate dall’ideazione, esse possono essere controllate in modo efficace soltanto mediante i processi di pensiero. Questo, del resto, è il grande balzo in avanti rispetto alla pratica psicoanalitica imperante all’epoca, orizzonte culturale in cui il padre della REBT ha mosso i primi passi in ambito clinico.

Il richiamo da parte di Ellis allo stoicismo è pertanto puntuale e affatto casuale. Infatti, la cifra distintiva dell’intera filosofia ellenistica, entro cui ricade a pieno titolo il tardo stoicismo, è l’interpretazione della filosofia come arte di vivere e non pura speculazione, come “esercizio spirituale”. Il fatto è che per Epicuro, come per gli stoici, la filosofia è una terapia:

[blockquote style=”1″]la nostra sola occupazione deve essere la nostra guarigione… l’unico scopo è la tranquillità dell’anima[/blockquote] (Hadot, p. 39).

Razionale è quindi quel modo di pensare che favorisce il conseguimento dello scopo fondamentale, ossia la riduzione delle emozioni negative.

Nell’epoca ellenistica e romana il termine “filosofia” non designa una teoria o una maniera di conoscere, ma una saggezza, una sapienza vissuta, una maniera di vivere secondo ragione (homologouménos). La preminenza nello stoicismo dei processi di pensiero, dell’aspetto razionale, sui moti e gli stati dell’animo, deriva dalla precisa convinzione che la fonte di ogni turbamento interiore risieda nell’“interiore valutazione” o “giudizio” che l’individuo dà degli eventi del mondo.

[blockquote style=”1″]Le cose esteriori non giungono mai a toccare l’animo nostro, ma restano sempre immobili al di fuori, e ogni turbamento dipende dall’interiore valutazione[/blockquote] (Marco Aurelio, p. 3).

E ancora:

[blockquote style=”1″]Le cose per se stesse non riescono a toccare l’anima nemmeno un po’, né vi penetrano né possono mutarla e smuoverla. E’ l’anima che da sola si muta e si muove e gli avvenimenti sono per essa tali, quali i giudizi che essa ne formula[/blockquote] (idem, p. 19).

Secondo la visione stoica, l’uomo non è un essere in preda alle emozioni e alle passioni, ma possiede una specifica capacità intellettiva, la cosiddetta proàiresis, che consiste nel decidere volontariamente se seguire o meno un certo moto o desiderio dell’animo. Non per nulla il Manuale di Epitteto si apre con la seguente enunciazione:

[blockquote style=”1″]Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi: il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche e, in una parola, tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri[/blockquote] (Epitteto, p. 3).

 

REBT: i concetti fondamentali

Per ottenere la felicità occorrerà dunque raggiungere questa sorta di autarchia interiore, ovvero saper identificare – con l’uso della ragione – ciò che serve per raggiungere una condizione felice, saper distinguere quanto, di quello che serve, è in nostro esclusivo potere e quanto non lo è e, infine, impegnarsi concretamente nel tener fede alla decisione presa e resistere a moti contrari o irrazionali. Ecco enunciati alcuni concetti fondamentali della REBT:

(1) la disputa delle convinzioni irrazionali tramite la prova della veridicità e della consistenza logico-empirica dei pensieri disfunzionali;

(2) la ristrutturazione cognitiva, con particolare attenzione all’accettazione di ciò che non possiamo cambiare di noi stessi e del mondo esterno;

(3) la pratica quotidiana di rieducazione per fissare in nuove abitudini quanto è stato appreso.

 

Accettazione nella REBT

Rispetto al tema dell’accettazione, Ellis difende la REBT da facili accuse di superficialità, prendendo in causa ancora una volta la dottrina stoica – e in certo senso distanziandosene, almeno rispetto all’immagine distorta che il senso comune ha del saggio stoico, chiuso nella sua inattaccabile imperturbabilità.

[blockquote style=”1″]Si afferma che la terapia razionale-emotiva adatta fin troppo bene il paziente alla sua infelice situazione e lo induce a sopportare rassegnato condizioni che possono essere decisamente intollerabili. Questa obiezione è un’interpretazione erronea dello stoicismo e presume che la psicoterapia razionale-emotiva aderisca rigidamente agli insegnamenti di tale filosofia, il che non è vero. Epitteto, uno dei maggiori seguaci dello stoicismo, non asserì né lasciò intendere che si dovrebbero accettare serenamente tutti i mali del mondo e adattarsi ad essi con spirito di rassegnazione. Pensava che l’uomo dovrebbe anzitutto cercare di cambiare le situazioni negative e, quando non vi riesce, accettarle senza lamentarsene[/blockquote] (Ellis 1962, p. 201).

Allo stesso modo Ellis mette in guardia dal definire la REBT come una terapia grossolanamente edonistica, volta ad insegnare alle persone a divertirsi a scapito dei loro impegni più profondi e gratificanti. Lo scopo di “cambiare le situazioni negative”, perseguendo il compito di ridurre le emozioni negative e massimizzare quelle positive, è comune a tutte le scuole di psicoterapia. Non per questo si deve parlare di mero edonismo.

[blockquote style=”1″]Uno dei princìpi fondamentali della psicoterapia razionale-emotiva è il principio stoico dell’edonismo a lungo anziché a breve termine[/blockquote] (idem, p. 202).

Secondo la REBT, gli schemi di comportamento disfunzionali derivano da concezioni irriflessive e sono mantenuti da indottrinamenti verbali e radicate abitudini motorie di risposta dell’individuo. Ora, poiché è proprio la consuetudine a rendere imperfetti i nostri schemi comportamentali e le nostre convinzioni irrazionali, soltanto una notevole dose di “contropratica” può eliminare tali inefficienze – non basta un semplice insight. Pertanto, continua Ellis, [blockquote style=”1″]la terapia razionale è una forma di trattamento estremamente attiva e laboriosa, sia per il terapeuta che per il paziente, il quale riceve da quest’ultimo meno gratificazioni immediate, affetto, incoraggiamento a conservare i suoi puerili impulsi edonistici a breve termine di quanto non accada nelle altre psicoterapie [/blockquote](idem, 203).

 

REBT: prospettiva e addestramento

Per concludere, l’influenza dello stoicismo sul pensiero e la pratica psicoterapeutica di Ellis consiste principalmente nell’intendere la terapia da una parte come un esercizio intellettuale culminante nella trasformazione della visione del mondo (epitrophé), dall’altra come un esercizio pratico di educazione di sé culminante nel cambiamento di abitudini apprese e rigide (paideía). Non si tratta di trovare la soluzione più rapida e frettolosa, ma di esercitarsi nella maniera più efficace possibile nell’applicazione concreta di un metodo di pensiero maggiormente funzionale. Allo stesso modo, alla base della pratica filosofica stoica sta

[blockquote style=”1″]il parallelismo tra esercizio fisico ed esercizio spirituale: come, con esercizi fisici ripetuti, l’atleta dà al suo corpo una forma e una forza nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d’animo, trasforma la sua atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine il suo intero essere[/blockquote] (Hadot, p. 59).

Nello stoicismo il filosofare è un atto continuo, permanente, che occorre rinnovare a ogni istante. Marco Aurelio lo declina soprattutto come un orientamento costante dell’attenzione. La prosoké, infatti, è l’atteggiamento spirituale fondamentale del saggio stoico e consiste in una vigilanza e una presenza di spirito continue. Contenuto di questi atti attentivi sono prescrizioni “a se stessi”, meditazioni che assomigliano molto a dei veri e propri homework:

[blockquote style=”1″]Non dire a te stesso più di quel che ti riferiscono le rappresentazioni. Se ti riferiscono che un certo individuo ti diffama, non per questo ti si dice che tu ne sia danneggiato. Vedo mio figlio ammalato: questo vedo, ma non che sia in pericolo di vita. Procura quindi di attenerti sempre alle prime rappresentazioni e non aggiungervi del tuo; in questo modo, non ti succederà nulla[/blockquote] (Marco Aurelio, p. 49).

Su questo “aggiungere del proprio” alla rappresentazione oggettiva di uno stato o evento del mondo, Ellis lavorerà una vita intera, arrivando – attraverso una lunga serie di sedute psicoterapeutiche e la raccolta di molto materiale empirico – ad elencare le diverse categorie fondamentali di pensiero irrazionale sulle quali paziente e terapeuta sono chiamati a lavorare assiduamente in seduta. Da notare che l’attenzione al momento presente è in qualche modo il segreto e la cifra degli esercizi filosofici degli stoici. Essa [blockquote style=”1″]libera dalla passione che è sempre provocata dal passato o dal futuro, da eventi che non dipendono da noi; facilita la vigilanza concentrandola sul minuscolo momento presente, sempre padroneggiabile, sempre sopportabile, nella sua esiguità; infine apre la nostra coscienza alla coscienza cosmica, rendendoci attenti al valore infinito di ogni istante, facendoci accettare ogni momento dell’esistenza nella prospettiva della legge universale del cosmo[/blockquote] (Hadot, p. 35).

Parole che anticipano in modo sorprendente la pratica della mindfulness e meriterebbero un discorso a parte: qui infatti si va ben oltre Ellis.

La donna ed il tatuaggio: un modo per ritrovare se stessa

 

Le correlazioni più significative sono state trovate perlopiù nelle donne con quattro o più tatuaggi, e conducono a risvolti sorprendenti – perfino paradossali: le donne con almeno quattro tatuaggi hanno riportato i più alti livelli di autostima del campione; allo stesso tempo, però, hanno espresso i più alti livelli di depressione e le più alte frequenze di tentati suicidi!

Al giorno d’oggi il tatuaggio ed il gesto del tatuarsi hanno assunto molteplici motivi e scopi e sono dunque di difficile inquadramento per le scienze sociali. Se storicamente il tatuaggio è stato simbolo di una cultura e tradizione legate a diversi comportamenti antisociali come l’uso di droghe, la frequente adozione di condotte violente e più in generale l’indugiare in attività illecite, oggi il gesto del tatuarsi non è più compiuto (solo) dal poco di buono temuto da tutte le madri, ma anche dall’attore di Hollywood, dal calciatore famoso e, in definitiva, da chiunque si rispecchi nella cultura pop di questo inizio di millennio.

Alla ricerca psicologica spetta dunque l’arduo compito di districarsi in mezzo alla multiforme natura del corpo tatuato e di cercare sentieri sicuri che conducano ad una più chiara comprensione del fenomeno. E’ quello che fa, da anni, Jerome Koch, ricercatore della Texas Tech University che ha recentemente prodotto un nuovo studio che verrà pubblicato sul Journal of Social Science nel 2016. Se negli studi precedenti lo stesso Koch aveva rilevato una forte correlazione tra i comportamenti antisociali e le persone con quattro o più tatuaggi, in questo studio ha rovesciato la sua domanda, andando ad indagare la relazione tra il gesto del tatuarsi e il benessere psicofisico: 2394 studenti (tatuati e non) tra i 18 e i 20 anni hanno compilato alcune scale di autovalutazione sulla qualità della propria vita.

Le correlazioni più significative sono state trovate perlopiù nelle donne con quattro o più tatuaggi, e conducono a risvolti sorprendenti – perfino paradossali: le donne con almeno quattro tatuaggi hanno riportato i più alti livelli di autostima del campione; allo stesso tempo, però, hanno espresso i più alti livelli di depressione e le più alte frequenze di tentati suicidi!

Come spiegare questi risultati inaspettati? Si può presumere che la frequente ideazione suicidaria possa esser direttamente causata dall’abuso di sostanze e di condotte illecite e devianti che frequentemente sono correlate con il numero di tatuaggi, ma ci sembra un modo troppo semplicistico di inquadrare il problema. Lo stesso Jerome Koch, infatti, prova a fornirci una spiegazione più ambiziosa, basandosi anche sulle sue precedenti ricerche.
Le donne hanno con il proprio corpo un legame ben più profondo di quello degli uomini, sia per il modo in cui la sessualità le investe fin dalla pubertà, sia per la condizione di maternità in se stessa e sia purtroppo per l’estrema attenzione che la società oggi rivolge al corpo della donna (basti pensare alle mille diete esistenti, alla chirurgia plastica o all’immagine ipersessualizzata della donna nei media). E’ plausibile, dunque, che la donna trasformi – più dell’uomo – questa consapevolezza nei confronti del proprio corpo in un suo punto di forza: spesso le donne che hanno subìto una mastectomia adornano il seno perduto con un disegno tatuato sulla pelle; analogamente, le donne vittime di abusi sessuali ricorrono non di rado al piercing genitale.

E’ un modo, tutto femminile, di riappropriarsi del corpo rubato, del corpo smarrito, strappatogli via. Secondo Koch, infatti, il tatuaggio sta acquisendo sempre più una funzione ricostituente per il corpo della donna: attraverso il tatuaggio la donna può ri-costituire insieme il proprio corpo frammentato, diviso, segnato da un bisturi, da una violenza sessuale o perfino da una perdita che non è più necessariamente fisica, ma può anche essere semplicemente emotiva. E’ interessante, a tal proposito, notare come alcune ricerche precedenti dimostrino che le donne sono molto più inclini degli uomini a farsi togliere un tatuaggio, come gesto di distanziamento, dissociazione da un passato che non vogliono più: stando al presente studio, dunque, sembra che talvolta l’aggiunta di un tatuaggio possa svolgere la stessa funzione della sua cancellazione.

In conclusione, l’intuizione di Koch è senza dubbio acuta e sembra spiegare – seppur in via speculativa – i sorprendenti risultati del presente studio: il tatuaggio diventa il segno di una ri-presa di potere del proprio corpo, in risposta a perdite e violazioni subìte (fisiche o simboliche). La donna con molti tatuaggi può, dunque, aver deciso di utilizzare il proprio corpo come strategia di coping, come strumento per recuperare e rafforzare il senso di Sè – banalmente, la sua autostima. Tale gesto, però, può sopperire alla sofferenza causata dall’oggetto perduto solo parzialmente, come dimostrano i tentativi di suicidio e gli alti livelli di depressione. Il tatuaggio, e così il corpo, infatti, non possono bastare da soli a salvarci dal dolore per la perdita, da quel senso di frammentazione che consegue a qualsiasi trauma o lutto: è necessario innanzitutto cercare, e quindi donare un significato a ciò che abbiamo perduto, un significato in cui sia possibile, per noi stessi, tornare a riconoscerci.

Meditazione: può ridurre i pregiudizi razziali

Gli effetti della meditazione si estendono anche all’ ambito della psicologia sociale. Secondo uno studio appena pubblicato su Motivation and Emotion addirittura la pratica della meditazione, anche per soli sette minuti quotidianamente, sarebbe in grado di ridurre i pregiudizi razziali. E non servirebbe essere dei meditatori professionisti.

La tecnica in questione e’ la Loving-Kindness meditation (LKM) una pratica meditativa afferente al filone buddista che promuove gentilezza incondizionata verso sè e gli altri, mediante la visualizzazione di sè e degli altri.

I ricercatori hanno voluto testare l’ipotesi secondo cui praticare la meditazione Loving-Kindness focalizzandosi su membri di un gruppo etnico diverso dal proprio avrebbe ridotto il bias automatico di preferenza delle persone appartenenti al proprio in-group etnico-culturale.
Nello studio sono stati reclutati 71 adulti, non meditatori, di origine etnica caucasica. Ad ogni soggetto è stata fornita una fotografia di una persona dello stesso genere ma di etnia africana. Successivamente i soggetti hanno seguito le indicazioni per la pratica della meditazione Loving-Kindness focalizzandosi sulla persona ritratta nella fotografia; i soggetti nella condizione di controllo invece hanno osservato percettivamente i dettagli del volto fotografato. Entrambe le condizioni hanno avuto una durata di soli sette minuti.

Utilizzando lo strumento Implicit Association Test i ricercatori hanno misurato i tempi di reazione dei partecipanti durante un compito di associazione di parole positive e negative (ad esempio ‘felicità” o “sbagliato”) a volti appartenenti ai due gruppi etnici, africano e caucasico.
Generalmente in letteratura si riscontra un bias cultural-etnico per cui le persone associano più velocemente parole positive al proprio gruppo etnico rispetto a un gruppo etnico differente (e viceversa per le parole negative). Questo dunque è spesso utilizzato come indicatore implicito del bias a differenza dei questionari self-report massivamente esposti al rischio di elevata desiderabilità sociale.

Dai risultati è stato riscontrato che solo sette minuti di meditazione Loving-Kindness rivolta ad un membro di etnia differente dalla propria è in grado di ridurre il pregiudizio etnico-razziale nei confronti di un gruppo etnico diverso dal proprio.
Gli effetti della meditazione possono andare ben oltre il benessere psico-fisico mentale, potenzialmente impattando in qualche misura anche il benessere della collettività. Implicazioni da non ignorare, che possono indurre nuovi studi e la progettazione di applicazioni nell’ ambito della riduzione dei pregiudizi etnico-culturali.

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