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La matematica dell’amore: quante probabilità abbiamo di incontrare l’anima gemella?

Nel 2010 Peter Backus, accademico dell’Università di Warwick, ha pubblicato “Why I don’t have a girlfriend”, un articolo scientifico che si proponeva di applicare l’equazione di Drake alla probabilità di fidanzarsi a Londra, stimata da lui in una sola possibilità su 285mila.

Fin da bambini impariamo a fare una distinzione di base tra le materie umanistiche e quelle scientifiche, e presto impariamo a posizionare le questioni affettive tra le prime e la matematica tra le seconde. Ma se ci pensiamo, parte della matematica tratta di incognite, e cosa c’è di più incognito delle questioni di cuore? In realtà, colpo di scena, sembra ci possa essere un felice matrimonio tra il matrimonio, appunto, e la scienza delle probabilità. Nel 2010 Peter Backus, accademico dell’Università di Warwick, ha pubblicato “Why I don’t have a girlfriend”, un articolo scientifico che si proponeva di applicare l’equazione di Drake alla probabilità di fidanzarsi a Londra, stimata da lui in una sola possibilità su 285mila. Niente di entusiasmante, insomma.

Ma facciamo un passo indietro. L’equazione in ballo è stata ipotizzata e scritta nel 1961 dall’astronomo Frank Drake, per calcolare quante civiltà esistessero nella nostra galassia. Backus, che nel 2010 celebrava 3 anni di status di single, ha utilizzato questa equazione per prevedere quante donne potesse incontrare a Londra che avessero le caratteristiche da lui richieste in termini di età, livello di istruzione e aspetto fisico. Purtroppo, ha in seguito concluso che ci fossero solo 26 donne in tutto il Regno Unito che soddisfacessero i requisiti richiesti, candidandosi quindi come potenziali fidanzate. Concludeva Bakus alla fine del suo articolo [blockquote style=”1″]Quindi c’è una probabilità dello 0,00034% che facendo serata a Londra io incontri una di queste donne. [/blockquote]

Guardiamo più da vicino questa equazione. Nella sua versione “romantica”, Bakus ha calcolato il numero di potenziali fidanzate considerando parametri come la crescita della popolazione nell’anno precedente, la percentuale di donne sulla popolazione generale, la percentuale delle donne che vivevano a Londra, la percentuale di donne di Londra con un’età congruente con la propria, tra queste, la percentuale di quelle con un livello di istruzione appropriato e su queste infine le donne che avevano anche le caratteristiche fisiche preferite da Bakus.

Capite da voi che se dobbiamo pensare di avere una possibilità su 285mila di incontrare una persona adeguata per noi secondo i criteri considerati, viene voglia di lasciar perdere.
Ma la speranza è l’ultima a morire, e ci viene in soccorso un altro algoritmo matematico: quello di Gale-Shapley, conosciuto anche come “il problema del matrimonio stabile”. Innanzi tutto parliamo di cose serie, visto che Shapley ha vinto il Nobel per l’economia nel 2012 (insieme a Alvin Roth) per il contributo alla teoria delle allocazioni stabili. Qualche tempo dopo, lo stesso Shapley ha creato con David Gale un algoritmo che aiuta a stabilire una corrispondenza di coppia.

Cercando di renderla semplice, nel suo libro “La matematica dell’amore” Hannah Fry, docente all’UCL Centre for Advanced Spatial Analysis di Londra, esemplifica la cosa così. Mettiamo che a una festa ci siano 3 ragazzi e 3 ragazze, e che siano tutti piuttosto tradizionalisti; a questo punto, il primo ragazzo si farà avanti con la ragazza preferita tra le 3, e si troverà davanti alla possibilità di essere corrisposto o rifiutato. Nella prima opzione, avrà di fianco la miglior partner a disposizione, mentre nel secondo caso proverà a invitare la seconda scelta. Di nuovo, in caso di esito positivo avrà di fianco la miglior partner possibile tra quelle rimaste (escludendo quindi la prima scelta, per indisponibilità), mentre in caso di esito negativo potrà farsi avanti con la terza. A questo punto indicativamente cosa succederà? Dando per certo che alla fine della serata tutte le persone saranno accoppiate, succederà che tutti gli uomini (che si saranno fatti avanti) avranno accanto la partner migliore a loro disposizione, mentre le donne finiranno con il “meno peggio” tra i partner che si sono proposti. E il fattore che a quanto pare fa la differenza è proprio il livello di attività (o passività) nel processo di scelta.

Mentre gli uomini del nostro esempio si spendono da subito per arrivare alla loro “condizione migliore” (la ragazza adocchiata da subito), le donne restano in un’attesa passiva e, detta brutalmente, “raccolgono quello che rimane”. Se spostiamo lo stesso ragionamento sulle accoppiate lavoratori-posti di lavoro, vediamo come allo stesso modo sia più utile per le aziende cercare attivamente dei candidati. Se un’azienda seleziona tra i candidati che hanno inviato CV, questa sceglierà il candidato che riterrà migliore, ma solo tra quelli che si sono mostrati interessati. Se invece l’azienda decide di cercare attivamente una figura, potrà scegliere il migliore (per le sue esigenze) tra tutte le persone disponibili, nel rischio di un rifiuto da parte sua ma dando una possibilità al “matrimonio ottimale”.

In sintesi, quello che emerge accostando la matematica all’amore sembra essere un unico consiglio: buttatevi. A quanto pare, restare in attesa che qualcosa accada o che l’amore della vostra vita bussi alla porta non sembra aiutare, mentre rischiare i due di picche e farsi avanti scegliendo per primi il potenziale partner premia di più. La fortuna aiuta gli audaci, insomma. E ha premiato il nostro Backus, che nel 2012 ha incontrato Rose, la sua donna su 285mila (speriamo per lui), convolando a nozze nel 2013. Fortuna? Possibile, ma ricordiamoci che alla fortuna si deve quantomeno dare (attivamente) una possibilità.

Intrattabili dopo una notte insonne? Rivelato il meccanismo alla base della disregolazione emotiva da privazione di sonno

Una nuova ricerca rivela i cambiamenti che la privazione del sonno può imporre alla nostra capacità di regolare le emozioni e di stanziare le risorse cerebrali per l’elaborazione cognitiva.

Quante volte ci è capitato di essere intrattabili e troppo emotivi dopo una nottataccia? Probabilmente in quelle corcostanze la capacità del cervello di regolare le emozioni è compromessa dalla fatica.

Questa è una cattiva notizia per il 30% di noi che dormono meno di sei ore a notte (secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention).

Un nuovo studio dell’Università di Tel Aviv ha identificato il meccanismo neurologico responsabile del disturbo nella regolazione delle emozioni e dell’aumento di ansia, già dopo una sola notte insonne.

La ricerca rivela i cambiamenti che la privazione del sonno può imporre alla nostra capacità di regolare le emozioni e di stanziare le risorse cerebrali per l’elaborazione cognitiva.

Lo studio è stato guidato dal Prof. Talma Hendler:

Prima del nostro studio, non era chiaro cosa fosse responsabile della disregolazione emotiva provocata dalla perdita di sonno. Abbiamo ipotizzato che la mancanza di sonno potesse intensificare l’elaborazione delle immagini emozionali e quindi ostacolare le funzioni esecutive cerebrali. Siamo rimasti molto sorpresi nello scoprire che ha un impatto significativo sull’elaborzione sia di immagini neutre che di quelle emotivamente significative: perdiamo la nostra neutralità; la capacità del cervello di dire ciò che è importante è compromessa. E’ come se improvvisamente tutto fosse importante.

Durante lo studio 18 adulti hanno affrontato due prove durante le quali venivano sottoposti a fMRI e / o EEG, la prima dopo una buona dormita e la seconda dopo una notte insonne in laboratorio.

In uno dei test i partecipanti dovevano descrivere la direzione in cui si muovevano piccoli puntini gialli su immagini distraenti. Queste immagini avevano una valenza emotiva: positiva (un gatto), negativa (un corpo mutilato), o neutra (un cucchiaio).

Dopo una notte di riposo i partecipanti hanno individuato la direzione dei puntini sopra le immagini neutre più velocemente e con maggiore precisione, e il loro EEG ha evidenziato differenze nelle risposte neurologiche a distrattori neutri e emozionali. Nella condizione di privazione di sonno, tuttavia, la performance è stata peggiore sia nel caso di distrattore neutro e che in quelli emozionali, e la risposta elettrica encefalica, come misurato da EEG, non ha evidenziato una differenza significativa per le immagini emozionali. Questo è un indice di un decremento nel processo di regolazione. Afferma Ben-Simon:

Potrebbe essere che la privazione del sonno comprometta universalmente il giudizio, ma è più probabile che la mancanza di sonno renda le immagini neutre in grado di provocare una reazione emotiva

I ricercatori hanno condotto un secondo esperimento testando livelli di concentrazione. Ai partecipanti sono state mostrate immagini neutre ed emotive durante l’esecuzione di un compito di attenzione (schiacciare un pulsante in alcuno momenti), in cui dovevano ignorare immagini distraenti di sfondo con contenuto emozionale o neutro, mentre venivano sottoposti a fMRI.

Questa volta i ricercatori hanno misurato i livelli di attività in diverse parti del cervello alla fine del compito cognitivo.

I risultati indicano che i partecipanti dopo una sola notte insonne sono stati distratti da ogni singola immagine (neutra ed emotiva), mentre i partecipanti ben riposati erano distratti solo da immagini emozionali.

L’indicatore è stato il cambiamento di attività dell’amigdala, un importante nodo limbico responsabile dell’elaborazione emotiva e associata alla rilevazione e valutazione di spunti salienti nel nostro ambiente. Ha detto il Prof. Hendler:

Senza dormire, il semplice riconoscimento di quello che è un evento emotivo e quello che è un evento neutro è interrotto. Possiamo venire provocati allo stesso modo da qualunque stimolo, anche neutro, e perdere la nostra capacità di distinguere tra informazioni più o meno importanti. Questo può portare a una distorsione dei processi cognitivi e alterare la capacità di giudizio e la risposta ansiosa 

Le nuove scoperte sottolineano il ruolo vitale del sonno nel mantenimento di un buon equilibrio emotivo. I ricercatori stanno attualmente studiando come nuovi metodi di intervento sul sonno (per lo più sul sonno REM) possano contribuire a ridurre la disregolazione emozionale legata all’ansia, alla depressione e disturbi da stress traumatici.

L’immagine corporea & il rapporto col proprio corpo – Introduzione alla Psicologia nr. 39

L’immagine corporea, ovvero la rappresentazione che abbiamo di noi stessi, è fortemente influenzata dai nostri stati interni, che portano alla formazione di una immagine legata a uno stato emotivo. Le emozioni rendono questa rappresentazione mentale positiva o negativa.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 39) RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA REALIZZATA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY MILANO

 

Il concetto di immagine corporea è stato oggetto d’interesse in primo luogo da parte dei neurologi, ambito in cui nasce tale concetto, e poi dei comportamentisti, che si sono cimentanti nel cercare una chiara spiegazione a tale costrutto.

La definizione più accreditata, e a tutt’ora in uso, è quella che risale a Paul Schilder del 1935:

L’immagine corporea è l’immagine e l’apparenza del corpo umano che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il nostro corpo ci appare.

L’immagine corporea, ovvero la rappresentazione che abbiamo di noi stessi, è fortemente influenzata dai nostri stati interni, che portano alla formazione di una immagine legata a uno stato emotivo. Le emozioni rendono questa rappresentazione mentale positiva o negativa.

Inoltre, l’immagine corporea è influenzata da schemi precoci che si generano da quando si è molto piccoli nell’interazione con la madre. Così facendo si ottengono delle immagini pregne di significato emotivo e di vissuto relazionale che influenzeranno i comportamenti adulti.

Nell’immaginario collettivo con il termine immagine corporea si tende a individuare la propria fisicità, legata al concetto del bello, volta ad attirare l’attenzione dell’altro. Chiaramente, avere una immagine corporea interessante aiuta a mantenere alta la propria autostima aumentando anche il senso di efficacia personale percepito. Di conseguenza, anche le relazioni sociali risultano influenzate da una immagine corporea positiva, incrementando in questo modo lo stato di benessere.

Negli ultimi 30 anni le donne, e anche gli uomini, hanno sviluppato una maggiore attenzione per il proprio corpo che ha portato a non accettarsi semplicemente così come si è, ma a cercare di migliorarsi con l’aiuto dell’esercizio fisico, dell’alimentazione e, perché no, della chirurgia in casi estremi.

Ad oggi, vige ancora la posizione che la magrezza simboleggia l’eldorado della felicità. Niente di più falso, il corpo bello è solo un involucro che nasconde parti più intime di noi stessi e se queste parti non fossero a posto anche l’involucro perderebbe di efficacia.

Purtroppo, come mai in passato, le donne, ma anche gli uomini, insoddisfatti del loro corpo lo combattono spietatamente e quotidianamente, attraverso diete e comportamenti restrittivi. Ma tutto questo ci porta indietro nel tempo cronologico, poiché si tratta di comportamenti tipici adolescenziali che se non risolti si cristallizzano e di conseguenza si cronicizzano, acuendo e amplificando il malessere.

Controllare costantemente il proprio corpo porta a concentrarsi, fino alla forma più estrema di ossessione, su comportamenti ad alto rischio di formazione di un disturbo dell’alimentazione sia di tipo restrittivo sia di tipo abbuffatorio.

Quindi, per non cadere nella patologia alimentare, è opportuno costruire una immagine corporea positiva, senza rincorrere a immagini e stereotipi propostici continuamente dai media. Per cui diventa un processo fatico in termini emotivi e comportamentali, che ha come risultato finale l’accettazione di se stessi, con pregi e difetti

Quindi, per riuscire a sviluppare una immagine corporea adeguata è necessario credere in se stessi e nelle proprie capacità, apprezzarsi per come si è, praticare esercizio fisico ma per migliorare il proprio benessere e non per esasperare la propria forma fisica, e in fine accettare i propri limiti.

Dulcis in fundo, se necessario, chiedere aiuto a un professionista.

 

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Uomo e cane: le origini dell’amicizia più lunga del mondo

Giulia Grigi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Le relazioni tra esseri umani e cani danno vita a storie affascinanti. I cani sono fisicamente molto diversi e si comportano in modo differente da noi. Non dicono una parola, e non sembrano interessati alla cultura. Eppure molte persone considerano i cani come membri della propria famiglia. Diversi scienziati sono interessati al legame uomo-cane e hanno iniziato a raccontare come nasce questa amicizia.

 

Circa 20 anni fa, il gruppo di ricerca di Michael Tomasello del Max Plank Institute per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia, in Germania, e lo Cśanyia di Budapest, pubblicarono indipendentemente articoli scientifici su come i cani che vivono in famiglia riuscissero a seguire i gesti del proprietario (pointing) per ritrovare il cibo nascosto. Da questa scoperta è nata una florida area di ricerca che si occupa di indagare le basi biologiche del legame uomo-cane.

Ad esempio, i ricercatori hanno imparato che gli esseri umani ed i loro amici vivono in una relazione d’attaccamento, proprio come la mamma col suo bambino. L’uomo e il cane godono l’uno della compagnia dell’altro trovando mutuo supporto anche in situazioni rischiose. La relazione di attaccamento fornisce inoltre il fondamento della cooperazione: noi umani aiutiamo i cani a muoversi nella società moderna, e loro ci aiutano quando manchiamo di specifiche abilità; ne sono un esempio i cani-guida per i le persone non vedenti. Inoltre i cani, se maltrattati dimostrano, alle volte, sintomi psicologici simili a quelli dei bambini che hanno sviluppato una relazione di attaccamento insicura con le figura di riferimento.

Le ricerche hanno anche dimostrato che i cani possono facilmente adattarsi alla vita in famiglia grazie alle loro abilità attentive, alla sensibilità ai metodi comunicativi e al comportamento emotivo umano. In modo simile agli esseri umani, i cani tendono ad esprimere le emozioni attraverso delle vocalizzazioni, sembrano reagire alle sfumature emotive del pianto e del parlato di noi uomini. I cani, inoltre, eccellono nell’imparare attraverso l’osservazione, e ciò gli permette di seguire le regole della vita domestica.

Oggi le moderne tecnologie stanno ampliando la relazione uomo-cane, aiutandoci a comprenderla meglio, ed a sviluppare nuove forme di interazione. Strumenti tecnologici, come i robot interattivi, potrebbero un giorno far si che i cani partecipino a nuovi compiti cooperativi con gli esseri umani. Ci stiamo muovendo verso un mondo sempre più complesso, e l’abilità di attaccamento e di adattamento dei cani, potrà continuare a tenerli al nostro fianco.

 

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https://vimeo.com/19472436

 

Senso di appartenenza

Il cane è una specie unica nel regno animale, poiché ha capito come unirsi ed adattarsi ad una comunità di un’altra specie – segno di competenze sociali sofisticate. Gli psicologi definiscono la competenza sociale come l’abilità degli individui di armonizzare i propri bisogni ed aspettative con il gruppo. Essa dipende dal padroneggiare una serie di abilità complesse: generare attaccamento, regolare l’aggressività, imparare e seguire le regole, fornire assistenza e partecipare alle attività del gruppo. Questa gioca un ruolo fondamentale quando i membri di una specie non umana partecipano alle nostre unità sociali. È per questo che quando si progettano studi che coinvolgono uomini e cani si devono tenere in considerazione tutte le caratteristiche della competenza sociale. Così possiamo capire la loro compatibilità con noi. Ma la domanda interessante è: come sono stati in grado i cani di sviluppare questa competenza?

Chiunque abbia avuto la possibilità di crescere un lupo o un cane in casa sarà d’accordo nell’affermare che tra i due c’è grande differenza. I primi non diventano facilmente membri della famiglia, nonostante tutti gli sforzi che si possano fare per socializzarli. I cani, invece, sono stati in grado di creare un ponte, poiché hanno apportato modifiche significative nei loro geni nel corso dei secoli di addomesticazione, seguiti dalla selezione di componenti genetiche che supportano lo sviluppo di competenze sociali simili a quelle umane.

Attaccamento per la vita

Una componente cruciale della competenza sociale è l’abilità di creare attaccamento. Molti ricercatori (se sono molti, qualcuno va citato) sono concordi nell’affermare che il legame di attaccamento dei cani giovani o adulti ed i loro proprietari, ricordi molto quello che esiste tra madre e neonato.

Negli anni ’60 gli psicologi John Bowlby e Mary Ainsworth hanno sviluppato un interessante teoria per spiegare il forte legame tra la madre e il suo piccolo. Affermano che il legame, noto come attaccamento, fa si che il piccolo cresca in un ambiente sicuro con l’opportunità di esplorare e conoscere la complessità della vita umana. Ainsworth e colleghi introducono un semplice test che oggi è un metodo standard per misurare la qualità di tale legame nella vita di ogni giorno: la strange situation.

Gli etologi hanno impiegato vari anni per riconoscere che i cani ed i loro proprietari mostrano dei pattern analoghi a quelli madre-bambino. Nel 1998, il comportamentalista animale Jòzey Topàl chiese a 51 proprietari di cani di partecipare ad un esperimento simile alla strange situation. Esseri umani e cani erano portati in una stanza e lì passavano del tempo giocando insieme, inizialmente loro due soli, poi con un gioco offerto dal proprietario. Dopo un certo tempo l’essere umano lasciava la stanza ed il cane rimaneva solo o in compagnia di un estraneo. Con sorpresa degli sperimentatori molti cani si sono comportati come i bambini: quando i proprietari erano presenti i cani gli stavano vicino e non cercavano di lasciare la stanza, e molti giocavano volentieri con loro. I cani giocavano di meno con gli sconosciuti, molti smettevano di giocare con l’estraneo quando il proprietario si allontanava dalla stanza. I ricercatori hanno interpretato questa preferenza come un’indicazione che il cane vede nel proprietario un rifugio sicuro in caso di potenziale pericolo.

Il gruppo di ricerca di Topàl ha effettuato un test per capire se questo comportamento rappresentasse una relazione di attaccamento attraverso uno studio comparativo tra giovani cani e lupi. In questo studio 13 lupi e 11 cani sono stati separati dalla madre a 4/6 giorni dalla nascita e sono stati cresciuti da un essere umano fino all’età di 4 mesi. Passato questo lasso di tempo hanno riproposto la situazione nella stanza con il gioco e la presenza di un estraneo. Nonostante avessero avuto la stessa esperienza sociale dei cani, i lupi non mostravano differenze quando era presente il proprietario o un estraneo; solo i cani usavano il primo come “base sicura”. In uno studio parallelo del 2001 la comportamentalista animale Marta Gacsì scoprì che anche i cani adulti possono sviluppare una relazione di attaccamento con gli umani.

Secondo queste ricerche è possibile affermare che una relazione di attaccamento tra umano e cane è presente e si instaura durante tutto l’arco della vita del cane.

Nel bene e nel male

Come accade per i bambini, anche le relazioni di attaccamento uomo-cane possono essere di tipo insicuro. Quando i proprietari sono anaffettivi, i loro cani sono propensi a sviluppare ansia da separazione: se lasciati soli abbaiano eccessivamente, cercano di scappare distruggendo porte e pareti e facendo i propri bisogni in casa. Uno studio del 2011 condotto dall’etologa Veronika Konok mostra che quando separati dai propri umani, i cani rimangono vicini alla sedia sulla quale si siedono di solito. Al contrario i cani che mostrano ansia da separazione non manifestano preferenze per gli oggetti toccati o dimenticati dai proprietari. I ricercatori hanno concluso che questi animali potrebbero avere problemi nell’associare i proprietari con la loro casa o con gli oggetti personali, così da non essere sicuri quando se ne vanno.

Proprio come succede per i bambini che manifestano ansia di separazione, l’ansia nei cani è sintomo della personalità di che se ne prende cura. In uno studio del 2015, Konok e colleghi riportano che i proprietari che manifestano maggiori livelli di evitamento nelle proprie relazioni di attaccamento tendono ad avere cani con più alti livelli di ansia da separazione.

Legami emotivi

I cani sono ammirati anche per la loro sensibilità emotiva. Le persone che vivono con loro gli attribuiscono spesso emozioni; assumendo che possano essere felici, tristi, arrabbiati e gelosi, proprio come gli esseri umani. Per anni i ricercatori accademici si sono rifiutati di attribuire emozioni agli animali. Questo atteggiamento sta lentamente cambiando: oggi parlare di emozioni nei cani o in altre specie animali non è più considerato un sacrilegio. C’è ancora una domanda che rimane senza risposta: l’emozione provata dal cane ha lo stesso significato che intendiamo noi?

Sebbene alcuni ricercatori accettino il fatto che la felicità e la paura nei cani sia simile a quella dell’esperienza umana, ci sono degli studi che mostrano la differenza tra le due specie nelle emozioni complesse, come il ‘senso di colpa’. Negli uomini il senso di colpa insorge quando le persone violano una regola sociale, come ad esempio rubare il cibo di un altro. Due studi indipendenti, il primo condotto nel 2009 dal comportamentalista Alexandra Horowitz e il secondo nel 2012 ad opera della comportamentalista canina Julie Hecht, hanno preso in esame il comportamento di cani a cui era stato detto di non infrangere una determinata regola. Nel primo, a 14 cani era stato insegnato a non magiare il cibo dal tavolo da pranzo, dando loro la possibilità di obbedire o meno. Terminata questa fase veniva detto ai proprietari come si erano comportati: a volte riportando il vero, altre volte no; veniva chiesto loro di congratularsi con i cani obbedienti e di sgridare quelli che non lo erano stati. Tutti i cani che erano stati rimproverati, indipendentemente da come si erano comportati durante il compito, hanno mostrato dei comportamenti che gli esseri umani identificano come senso di colpa, suggerendo che i quadrupedi stavano reagendo al comportamento dei proprietari, piuttosto che essere consapevoli della trasgressione.

Sulla tristezza non ci sono ricerche che suggeriscono interpretazioni definitive, ma le psicologhe Deborah Custance e Jennifer Meyer sono state in grado di fornire dati scientifici sulla credenza che il pianto umano evochi nei cani comportamenti associati. In una ricerca del 2012 i due autori hanno osservato le reazioni di 18 cani a comportamenti di pianto (mugolii riconducibili al pianto o pianto vero e proprio) sia con estranei che con i propri familiari. Quasi tutti i cani si sono approcciati guardando la persona che piangeva o toccandola. Questi comportamenti erano meno frequenti se la persona parlava o mugolava.

Anche se i proprietari potrebbero aver antropomorfizzato il comportamento canino credendo che questi atteggiamenti siano segno di abilità empatiche, gli autori hanno concluso che c’è una spiegazione più semplice: il pianto umano è simile alle vocalizzazione di sofferenza dei mammiferi, cani inclusi, ed evoca in loro sofferenza e non empatia. Quest’ultima richiederebbe che il cane riconoscesse lo stato interno dell’umano.

A supporto di questi dati, una ricerca del 2014 condotta dagli psicologi Ted Ruffman e Min Hooi Yong ha mostrato che ascoltare un bambino che piange aumenta i livelli di cortisolo presente nel sangue del cane, provocando stress.

Fai come faccio io!

Molto della cultura umana è basato sull’apprendimento sociale. Il linguaggio, le regole della società e l’uso degli oggetti, sono trasmessi dai membri più anziani a quelli più giovani e da pari a pari. I cani sono molto propensi ad imparare osservando. Questa abilità è molto diffusa nel mondo animale, ma apprendere da rappresentanti di un’altra specie è molto più raro. Da poco tempo la scienza ha iniziato ad esplorare questa capacità.

Uno dei più comuni test per le abilità osservative è un semplice compito di deviazione chiamato detour task, nel quale il cane posto al di là di una recinzione di 3 metri di lunghezza deve raggiungere un target: del cibo o un gioco. In uno studio del 2001, il comportamentalista animale Peter Pongràcz, ed il suo gruppo, hanno mostrato come i cani che vivono in famiglia necessitano in media di 6/7 tentativi per padroneggiare questo compito, ma gli basta osservare una volta un cane esperto eseguire il compito per compierlo a loro volta. I cani apprendono in egual modo dagli esseri umani.

Il gioco che noi umani facciamo con i nostri bambini per insegnargli i comportamenti adeguati aiuta i ricercatori a capire come i cani imparano osservando. Madri e padri spesso mostrano una specifica azione (per esempio, come toccarsi il naso con un dito) ed incoraggiano i figli a fare altrettanto. Nel 2006 Topàl e i suoi colleghi sono stati i primi a dimostrare che le persone potevano insegnare allo stesso modo ai cani.

Cooperazione: siamo pratici

Nella società occidentale moderna i cani sono spesso amati solo perché sono cani. Ma probabilmente oggi non ci sarebbero se non avessero dimostrato di essere così utili alle società del passato; svolgendo compiti di difesa del territorio, proteggendo il gregge e trainando slitte. Oggi i cani continuano a svolgere compiti di pubblica utilità, ad esempio nelle unità cinofile di polizie, eserciti e squadre di soccorso, così come i cani che aiutano le persone con disabilità fisiche e psichiche. Inoltre, i cani guida per disabili forniscono non solo un aiuto pratico nelle attività quotidiane, ma hanno un importante ruolo sociale: l’amicizia. Infatti, un elemento vitale della competenza sociale dei cani riguarda le loro impressionanti capacità di cooperazione. In un un’utile relazione di collaborazione ogni individuo deve dimostrare autocontrollo, tenere ben presenti gli obiettivi dell’altro e imparare quando è il suo turno. Degli studi hanno dimostrato che i cani guida possiedono queste competenze.

I cani possono collaborare in compiti nei quali sembrano capire le conseguenze di una azione di collaborazione. In uno studio pubblicato nel 2014, gli psicologi Ljerka Ostojic e Nicola Clayton si sono occupati dell’abilità dei cani di risolvere un compito di problem solving chiamato loose-string task. Nella predisposizione classica ai 2 partner è data una scatola dalla quale spuntano i capi di una medesima corda. Se entrambi i cani prendono un capo e tirano simultaneamente riusciranno a muovere l’oggetto target, posizionato sul fondo della scatola, in modo da avvicinarlo e poterlo afferrare. Tirando solamente un capo della corda, questa si sfilerà dall’apparato senza che nulla venga mosso. Durante l’esperimento i cani imparano a ricevere il premio quando coordinano i loro comportamenti, sia che si tratti di un compagno umano, che di un altro cane. Così, essi sono stati in grado di riconoscere la specifica azione che era necessaria da mettere in pratica per avere successo. Questo rapido sviluppo di cooperazione tra il cane e l’altro partner spiega perché sono così bravi ad aiutare noi umani in compiti di precisione come guidare una persona non vedente per le strade caotiche di una città.

I cani nel futuro High-Tech

L’invasione della moderna tecnologia nella vita di tutti i giorni potrebbe aver portato i proprietari di cani a pensare come la relazione con i loro compagni di vita potrebbe evolvere nell’era digitale. Già oggi i cani hanno iniziato ad interagire con la tecnologia e anche a creare delle partnership ad hoc con alcuni dispositivi. In un recente studio pubblicato su Plos One la comportamentalista animale Anna Gergely ha provato a mandare a dei cani del cibo attraverso una macchinina telecomandata. Dopo alcune interazioni, iniziano a guardarla, a toccarla o a spingerla, se questa non si muove più, come se volessero che la macchinina facesse il suo dovere.

In superficie, le azioni che i nostri amici a quattro zampe mettono in pratica con gli strumenti tecnologici sono simili a quelle messe in pratica con i proprietari in circostanze simili. In linea di principio, se l’abilità del dispositivo diventa più complessa, dovrebbe diventarlo anche la relazione cane-macchina. Questa relazione potrebbe avere anche dei risvolti positivi.

In un progetto recente guidato dall’ingegnere informatico Bernard Plattner, i ricercatori hanno testato l’idea che la ricerca di persone disperse nei boschi o in aree di montagna potrebbe essere più efficace se i gruppi di ricerca fossero accompagnati da gruppi di cani e da piccoli aerei dotati di telecamere. La comportamentalista animale Linda Gerencser ha lavorato in collaborazione con l’addestratrice cinofila Barbara Kerekes per insegnare a 4 cani a seguire un robot aereo ad una distanza di 100-150 metri. Hanno inoltre insegnato agli animali a fermarsi nel seguire i robot ed iniziare a cercare il disperso con l’olfatto se vedevano la macchina sorvolare una specifica area. I cani avrebbero poi avvertito i soccorritori umani abbaiando se avessero trovato la persona.

I ricercatori credono che con lo sviluppo della tecnologia queste macchine potrebbero migliorare le prestazioni dei gruppi di soccorso tradizionali, specialmente se i cani imparassero a riconoscere i robot volanti come compagni di squadra – ai quali potrebbero rispondere con lo stesso entusiasmo con cui rispondono a noi.

La vita dell’essere umano si sta sviluppando sempre più lontano dalla natura, ed i cani non saranno mai in grado di comprendere la mole di questi cambiamenti. Le loro competenze sociali, però, potranno aiutarli ad imparare a vivere in una società in evoluzione proprio come hanno fatto fin dall’inizio del loro viaggio al nostro fianco.

Delay discounting: alla ricerca delle basi genetiche dell’impulsività

Il Delay discounting è definitivo come il progressivo declino del valore soggettivo di una data ricompensa con l’allontanarsi nel tempo del momento del ricevimento della stessa. In altre parole, il Delay Discounting si riferisce alla tendenza, a preferire una ricompensa più piccola subito disponibile, invece di una ricompensa maggiore, ma per la quale è necessario aspettare.

Secondo un rapporto presentato al meeting annuale dell’American College of Neuropsychopharmacology, l’incapacità di attendere una gratificazione maggiore di quella che si può avere subito è un tipo di impulsività fortemente influenzata dal nostro corredo genetico, cioè è una caratteristica che può essere ereditata. Identificare i geni e le proteine coinvolte nel Delay Discounting, potrebbe essere un passo importante per comprendere meglio una varietà di disturbi psichiatrici, in particolare le dipendenze e altri disturbi che coinvolgono le scelte impulsive.

In uno studio che ha coinvolto ben 602 gemelli, il Dr. Andrey Anokhin e i suoi colleghi della Washington University School of Medicine hanno scoperto che il Delay Discounting migliora man mano che gli adolescenti crescono, per cui i 18enni hanno una maggiore capacità di differire la gratificazione rispetto agli adolescenti più giovani.

L’età comunque è solo uno dei fattori in gioco, il corredo genetico infatti è responsabile per circa la metà della differenza del livello di Delay Discounting tra gli individui. Infatti molti geni influenzerebbero il Delay Discounting e alcuni dati preliminari suggeriscono che questi geni dell’impulsività possano includere geni che codificano per gli enzimi che sintetizzano la serotonina. Il dottor Anokhin però esorta alla cautela nel formulare, sulla base di questi dati, ipotesi sulle possibili applicazioni cliniche.

Gli studi in corso in tutto il paese comprendono l’analisi del DNA e un questionario su un campione di più di 25.000 soggetti, allo scopo di identificare i geni specifici coinvolti nel Delay Discounting. Questi studi intendono migliorare la nostra comprensione di un tratto comportamentale che può avere effetti profondi sulla vita quotidiana e il benessere psicologico delle persone.

Guida portatile alla psicopatologia della vita quotidiana (2015) di Costanza Jesurum – Recensione

Il libro della Jesurum costituisce un riuscito tentativo di utilizzare l’ironia e il linguaggio quotidiano per introdurre (senza banalizzarli) temi fondamentali della psicologia clinica al lettore non specializzato.

Eppure questo titolo mi ricorda qualcosa” potrebbe osservare un lettore non del tutto ignaro di psicoanalisi. E in effetti il titolo riprende e assorbe quello del libro che più di tutti contribuì all’affermazione del nome di Freud al di fuori dell’ambiente medico viennese, quella ‘Psicopatologia della vita quotidiana’ dove per la prima volta si affacciò l’ipotesi che i lapsus e gli atti mancati possano rimandare a un significato nascosto nell’inconscio.

Il risultato è volutamente straniante e ricorda un simile tentativo in altro contesto: Toti Scialoja iniziava una poesia “Non possum tecum vivere/ nec sine te stamani/ lo grido sulle rive dove vagano i cani” piegando il verso di Catullo a un altro metro e un altro registro comunicativo. Il senso originario non ne veniva del tutto stravolto; l’ironia della contaminazione trasudava amarezza quanto vis comica. L’intento della Guida portatile è, d’altra parte, introdurre l’ironia nel discorso psicologico; ma il sorriso che si vuole strappare a chi legge non è mai fine a se stesso. Serve invece ad attrarre l’attenzione in modo lieve e rapsodico su argomenti serissimi: segnatamente le varie forme sintomatiche che attraversano l’esistenza in un mondo che, lo si voglia definire liquido o postmoderno, ci risulta sempre più nevrotico e nevrotizzante.

L’autrice è una psicologa analista (di sponda AIPA), laureata sia in filosofia che in psicologia, a suo tempo allieva di Luigi Aurigemma (curatore italiano unico delle Opere di Jung per Bollati Boringhieri), già autrice di un Manuale antistalking (uscito presso il Melangolo nel 2014); ma soprattutto redattrice unica e prolifica di uno dei blog più seguiti in ambito psicologico: Zauberei (in passato Zauberei Putipù: beizauberei.wordpress.com). Zauberei offre da anni uno sguardo disincantato e allo stesso tempo vigile sulla società italiana, usando gli strumenti della psicologia ma senza rinunciare alla battuta fulminante. Del blog il libro mantiene lo stile frizzante, ricco di termini sapidamente profani per attirare l’attenzione di lettori anche digiuni di psicologia su temi di universale interesse. Spesso si strizza l’occhio al lettore con allusioni a un immaginario largamente condiviso, dal disastro annunciato di Cassandra Crossing per introdurre il tema dell’ansia alla passeggiata di Vivian su Rodeo Drive (in Pretty Woman) per alludere allo shopping compulsivo.

Di fatto, però, una simile impostazione presenta interessantissimi vantaggi. Per illustrare il primo si può tornare indietro al famoso Blue Book promosso dalla Scuola di Ulm (Dahl, Kächele e Thomä, 1988). Nella bibbia della ricerca empirica sul processo si osservava come uno dei pochissimi predittori dell’efficacia di un rapporto terapeutico è costituita dalla sovrapponibilità del vocabolario del terapeuta e di quello del paziente. Si poteva affermarlo perché i ricercatori avevano registrato integralmente psicoterapie di varie impostazioni teoriche e avevano trascritto i relativi contenuti per effettuare delle analisi al computer. Ne era risultato che l’attitudine del terapeuta a parlare la stessa lingua del paziente, in senso letterale, costituiva un fattore di successo molto più significativo della sua teoria di riferimento. La scelta, nel caso della Guida portatile, è quella di parlare la stessa lingua del lettore, ma senza cadere (e questo è il secondo vantaggio) nella triste banalizzazione.

Una delle usuali conseguenze più infauste della psicologia mediatizzata è quella di avvicinarsi al lettore (o allo spettatore) così tanto da non offrire più nessun contenuto realmente scientifico. L’editor della collana popolare e il presentatore della trasmissione televisiva spingono l’esperto psicologo (o presunto tale) a semplificare sempre di più il proprio messaggio per poter vendere il prodotto; finché il compromesso finale è che si sacrifica qualunque contenuto che superi il mero senso comune, pur di apparire, di esserci, di guadagnare visibilità.

Nel caso del libro della Jesurum la brillantezza porta invece il lettore ad interessarsi dell’argomento trattato (che di solito riguarda direttamente lui stesso o almeno una delle sue conoscenze), finché non arriva il momento di introdurre un concetto psicologico. E a quel punto il lettore è coinvolto; non può fuggire (o meglio: può ma si rende conto che se ne dispiacerebbe).

Capita così, per esempio, che l’autrice parli di un personaggio del proprio mondo interno che chiama “Osvaldo”, per poi introdurre il tema del sabotatore interno, alludendo poi all’autore che ne ha introdotto la teorizzazione (nella fattispecie W. R. Fairbairn), ma in maniera del tutto rassicurante, come se si trattasse di un amico dj che poi è diventato famoso ma non ha dimenticato le frequentazioni di un tempo… e infine offrire indicazioni per approfondimenti e non trascurare di avvertire che, se qualcuno avesse riconosciuto in se stesso il comportamento di Osvaldo, la psicoterapia non è una strada da escludere a priori.

L’operazione compiuta con il libro è senza dubbio molto coraggiosa, dal punto di vista del ruolo dell’autrice. Al di là del successo commerciale del libro, infatti, la Jesurum ha scelto di correre un rischio. L’uso dell’ironia presenta infatti potenziali effetti collaterali. Tanto più questo avviene allorché si decida di esporre anche se stessi a un tale specchio, che può abbellire ma anche deformare: in questo senso l’autrice non manca di raccontare le proprie contraddizioni e difficoltà, oltre quelle viste nel proprio mondo (quotidiano e professionale). Questo significa esporsi e non aver paura che possibili pazienti e/o colleghi guardino al personaggio con sufficienza.

Lo psicologo è infatti, di solito, terribilmente serioso, mostra un atteggiamento che tenta di suscitare nell’altro reverenza e ammirazione; teme lo scherzo come una possibile forma di auto-smascheramento. Ci sia consentito allora di dire che questo libro rappresenta una boccata d’aria fresca, proprio al confronto con i tanti, troppi sedicenti capiscuola che vendono essenzialmente fumo. In questo senso, se si può forzare la metafora, qui si trova anche l’arrosto e non è per nulla sgradevole che la carne risulti fortemente speziata.

A Natale siamo tutti più felici? Non secondo la ricerca.

La Fondazione BRF Onlus riflette sui disagi collegati ai periodi di festa

Secondo numerose leggende metropolitane in prossimità delle feste aumentano i disturbi psicopatologici. Ma è davvero così? Una recente ricerca scientifica, pubblicata su Innovations in Clinical Neuroscience, attesta che effettivamente in prossimità del Natale l’umore generale peggiori e che il numero di decessi alcol-correlati aumenti. E in Italia? La Fondazione BRF ONLUS – Istituto per la Ricerca Scientifica in Psichiatria e Neuroscienze con sede a Lucca, il cui presidente è il Prof. Armando Piccinni e la responsabile ricerche la Prof.ssa Donatella Marazziti, ha riflettuto sull’argomento con il Dott. Antonello Veltri, membro del comitato scientifico.

 

“Secondo il National Institute of Health – spiega Antonello Veltri, membro del comitato scientifico della Fondazione BRF Onlus – le festività natalizie rappresentano un periodo dell’anno caratterizzato da una elevata incidenza di depressione. Gli ospedali e le forze di polizia segnalano un’alta incidenza di suicidi e tentativi di suicidio. Gli psichiatri, gli psicologi e altri professionisti della salute mentale riportano un aumento significativo della frequenza con cui i pazienti lamentano sintomi depressivi. Una ricerca epidemiologica nordamericana ha riportato che il 45% degli intervistati era preoccupato di possibili flessioni del tono dell’umore durante le festività natalizie”. Colpa forse del clima invernale e della riduzione della durata dell’esposizione alla luce solare, che aumentano l’incidenza del cosiddetto disturbo affettivo stagionale (SAD). “Alcune persone – continua il Dott. Veltri – provano sentimenti di tristezza, rabbia e insofferenza per l’eccessiva commercializzazione del Natale, per lattenzione esasperata verso i regali e per lenfasi dei media su relazioni sociali e familiari ideali che molti desiderano, ma non possiedono.

Altri si deprimono perché il Natale è uno stimolo a rimuginare sull’inadeguatezza della propria vita, soprattutto in personalità con tendenza al vittimismo e all’autocommiserazione, confrontata con quella di altre persone che sembrano avere di più e fare di più. Altri ancora diventano ansiosi e preoccupati a Natale a causa della pressione, sia commerciale che auto-indotta, verso gli acquisti con il rischio di spendere un sacco di soldi per i regali e incorrere in debiti crescenti. Altri riferiscono di temere il Natale a causa dell’obbligo implicito di dover incontrare familiari, amici e conoscenti che, invece, preferirebbero evitare e non frequentare. Infine, molte persone si sentono sole a Natale perché hanno subito la perdita di persone care o dei loro posti di lavoro”.

Nel caso in cui la tristezza mostri degli aspetti psicopatologici una strada da seguire rapidamente, spiegano i membri del comitato scientifico della Fondazione BRF Onlus, è quella che porta a consultare un professionista qualificato (psichiatra, psicologo) affinché possa effettuare una corretta diagnosi e, se necessario, impostare un trattamento specifico. Inoltre, tra i suggerimenti per vivere al meglio il Natale e ridurre lo stress da festività sicuramente può essere importante decidere in anticipo un limite personale per quanto riguarda i soldi spesi per i regali e il numero di eventi sociali a cui partecipare. “E’ utile poi – conclude il Dott. Veltri – non accettare alcuna definizione ideale di Natale che i media cercano di imporre, abbassare le aspettative generali, mantenersi attivi e impegnati in modo da ridurre la tendenza a rimuginare”.

 

ABSTRACT DELLA RICERCA:  The Christmas Effect on Psychopathology

Urban legend suggests that psychopathology tends to increase around the holidays, including Christmas. To explore this issue, we undertook a literature search of the PsycINFO and PubMed databases for empirical studies relating to this phenomenon. According to our findings, the general mood of individuals may worsen and the number of alcohol-related fatalities may increase around the Christmas holiday; however, overall utilization patterns by psychiatric patients in emergency rooms and in inpatient wards is lower as is the prevalence of self-harm behavior and suicide attempts/completions. Following the Christmas holiday, there appears to be a rebound phenomena with these latter behaviors—a concerning pattern that is relevant for both psychiatrists and primary care clinicians.

Keywords: Christmas, holiday, psychiatric disorders, psychopathology, self-harm, suicide

Riciclare regali a Natale si può! (e fa bene a tutti)

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 20/12/2015

 

Regifting, riciclare i regali che non ci sono piaciuti. A Natale o in altre occasioni. È un tabù sociale, ma sempre più accettato. O almeno così dice la scienza psicologica. Qualche anno fa su Psychological Science alcuni ricercatori esplorarono il regifting sia dal punto di vista del donatore che del ricevente.

Nello studio, 178 partecipanti sono stati divisi nei ruoli virtuali di donatore e ricevente. A tutti è chiesto di immaginare di avere ricevuto un orologio come regalo di laurea. Sia ai donatori che ai riceventi è stato chiesto di immaginare che il ricevente avesse riciclato il regalo di laurea donandolo a un amico o che lo avesse gettato nella spazzatura. I risultati dissero i donatori considerano il regifting una reazione accettabile, mentre i riceventi se ne vergognano.

Perché questa asimmentria? Secondo i ricercatori, i riceventi ritengono che i donatori mantengono un residuo di diritto di proprietà sul regalo, argomento che i donatori non condividono perché pensano che i loro diritti sul regalo, una volta consegnato, siano svaniti. E quindi non giudicano le reazioni del ricevente.

Il Regifting non è sbagliato, scrive uno degli autori della ricerca, Gabrielle Adams dalla London Business School. È un modo per garantire che i doni siano diretti a chi saprà veramente goderne. La gente non dovrebbe vergognarsi di dare a qualcun altro un dono che hanno ricevuto.

Lo studio dice che per i donatori è meno sgradevole immaginare che il regalo, non gradito, venga riciclato piuttosto che buttato o messo da parte. Il regifting li rende più disposti a comprendere e accettare benevolemente che il loro regalo non possa essere piaciuto. Le conclusioni dei ricercatori sono piuttosto ottimistiche, poiché sostengono che i risultati del lavoro incoraggiano a rompere il tabù sociale del regifting. Non ne sarei troppo sicuro. I riceventi, che poi sono quelli che devono attuare il regifting, mostrano di non condividere l’atteggiamento pragmatico dei donatori e continuano a vergognarsi del rigifting, non valutandolo come migliore o più accettabile del gettare o metter via il regalo poco gradito.

Insomma, i tabù sociali ci sono e agiscono sempre, soprattutto in chi avrebbe l’occasione di violarli, i riceventi del regalo in questo caso. I donatori, invece, sono di mentalità più flessibile, ma è anche vero che non sono coloro che in prima persona dovrebbero rompere il tabù. Come al solito, è più facile fare le rivoluzioni se è qualcun altro colui che deve impegnarsi.

Autolesionismo in adolescenza e nei giovani adulti: la disregolazione emotiva

Autolesionismo: un fenomeno allarmante che diventa sempre più diffuso tra gli adolescenti ed i giovani adulti, seppur venga spesso sottovalutato. L’autolesionismo comprende una categoria di comportamenti complessa ed eterogenea.

Scritto da: Maddalena Malanchini, Simona Frassica, OPEN SCHOOL DI STUDI COGNITIVI

Autolesionismo nel DSM5

Nel DSM-IV (APA, 2000) i comportamenti autolesionistici sono menzionati come uno dei criteri identificativi del Disturbo Borderline di Personalità (BPD) (criterio 5: ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante). Tuttavia le ricerche hanno dimostrato che tali modalità comportamentali si riscontrano anche in altre categorie diagnostiche (ad esempio nei disturbi d’ansia, depressione, abuso di sostanze, disturbi alimentari, schizofrenia e altri disturbi di personalità); e inoltre, molti degli individui che manifestano ricorrenti atti autolesionistici non soddisfano i criteri per il Disturbo Borderline di Personalità.

Autolesionismo non suicidario

Ecco perché i curatori del DSM-5 (APA, 2013) hanno deciso di inserire nell’ultima edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali le categorie diagnostiche di “Autolesionismo non suicidario” (NSSI: not suicidal self injury) e “Autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato” (NSSI-NAS). Tali disturbi sono stati inseriti nella categoria dei disturbi diagnosticati generalmente per la prima volta nell’infanzia, fanciullezza e adolescenza.

 

Incidenza e distribuzione dell’autolesionismo nella popolazione

L’autolesionismo, infatti, è molto diffuso tra gli adolescenti e i giovani adulti. L’incidenza di tale fenomeno in queste fasce d’età oscilla tra il 15-20% (Ross et al., 2002) e l’esordio si aggira tra i 13 e i 14 anni (Herpertz, 1995; Nock et al., 2006; Withlock et al. 2006, Ross et al., 2002). Ricerche recenti suggeriscono che pensieri e comportamenti autolesivi si manifestano anche in soggetti più giovani, minori di 14 anni; inoltre hanno riscontrato che i pensieri autolesivi nelle ragazze tra i 13 e i 14 hanno una prevalenza del 22%, e fino al 15% di esse hanno tentato di farsi del male almeno una volta negli ultimi 6 mesi (Stallard et al.,2013). In età adulta, invece, l’incidenza risulta essere del 6% (Briere & Gil, 1998; Klonsky, 2011). Sia in adolescenza sia in età adulta l’incidenza dell’autolesionismo è più elevata tra la popolazione psichiatrica, in particolare tra i soggetti affetti da disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia e nelle persone caratterizzate da alti livelli di disregolazione emotiva (Klonsky, 2003; Andover et al., 2005). Inoltre l’ autolesionismo in adolescenza è associato con depressione, stress, ansia, disturbi della condotta e abuso di sostanze (Nock et al., 2006), e con relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico (Fliege et al., 2009).

 

Forme di autolesionismo e classificazione

In letteratura, il termine maggiormente utilizzato per far riferimento a comportamenti autolesivi è “Deliberate Self Harm” (DSH, tradotto come “auto-danneggiamento intenzionale”), il quale comprenderebbe le condotte identificate come “Self Harm”, “Self poisoning”, “Self injury”. Nello specifico, il termine Self Harm (Auto-danno) si riferisce a condotte a rischio come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e il gioco d’azzardo; i comportamenti di Self Poisoning (Auto-avvelenamento) consistono in azioni quali l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe; le condotte autolesive denominate Self Injury (Auto-ferita) racchiudono fenomeni immediati e intenzionali come il tagliarsi o il bruciarsi.

Il danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte dirette ed intenzionali viene chiamato quindi Self Injury oppure self injurious behavior (autolesionismo) ovvero comportamento di auto-ferimento. Il riconoscimento dell’autolesionismo come disturbo specifico (NSSI: not suicidal self injury) nel DSM-5 ha fatto sì che l’autolesionismo venisse compreso all’interno di esso.
Una delle prime classificazioni riguardo l’ autolesionismo è stata proposta da A. Favazza e R. Rosenthal nel 1990, che distinguono i comportamenti autolesivi a seconda del grado di danneggiamento dei tessuti e del pattern comportamentale.

Gli autori sottolineano la presenza di tre principali tipologie (Favazza & Rosenthal, 1993):

A) Autolesionismo maggiore consiste in atti infrequenti e isolati che provocano un danneggiamento dei tessuti grave e permanente; solitamente è associato alle psicosi o alle intossicazioni acute e include atti quali la castrazione e l’enucleazione oculare.

B) Autolesionismo stereotipico comprende comportamenti ripetuti in modo costante e ritmico, che sembrano essere privi di un significato simbolico, comunemente associati a grave ritardo mentale, all’autismo o alla sindrome di Tourette; ne sono esempi il mordersi o dare colpi con la testa.

C) Autolesionismo moderato/superficiale consiste in atti episodici o ripetuti a bassa letalità che comportano un lieve danneggiamento dei tessuti corporei (tagli, bruciature, abrasioni); il soggetto utilizza strumenti esterni come rasoi, lamette, forbicine; i gesti assumono solitamente un significato simbolico, in genere relazionale. Si tratta della distruzione o alterazione dei tessuti corporei senza intenzione cosciente di suicidio.

Questa tipologia si suddivide ulteriormente in tre sottocategorie (Favazza & Simeon, 1995):

Autolesionismo moderato compulsivo: include comportamenti ripetuti o ritualistici che accadono molte volte quotidianamente (ad esempio tirarsi i capelli – tricotillomania – , mangiare le unghie – onicofagia – , graffiarsi); è classificato solitamente come disturbo del controllo degli impulsi (per esempio la tricotillomania).

Autolesionismo moderato episodico: il soggetto, attraverso il tagliarsi, bruciarsi, colpirsi, cerca di trovare sollievo da pensieri o emozioni intollerabili che è incapace di gestire, riacquistando rapidamente un senso di controllo e padronanza; si ritrova all’interno di sindromi psichiatriche quali i disturbi dell’umore, i disturbi dissociativi, i disturbi d’ansia e i disturbi di personalità.

Autolesionismo moderato ripetitivo (o ripetuto): il soggetto si descrive come dipendente dal comportamento autolesivo, fino a farne un criterio costitutivo della propria identità (ad esempio definendosi un “cutter”).

 

Cause dell’autolesionismo

Autolesionismo come strategia di coping e regolazione emotiva

Nella review effettuata da Klonsky (2007) vengono esaminate le principali teorie che spiegano le ragioni per le quali le persone ricorrono all’autolesionismo. La prima, ed anche la più condivisa dai ricercatori, è quella della regolazione del distress e dell’ansia: quando le emozioni negative diventano intollerabili, entra in gioco il ferirsi come tecnica di riduzione della tensione. Un modello proposto da Chapman e collaboratori pone al centro l’idea che i gesti autolesivi vengano reiterati per cercare di estinguere “stati psicologici” indesiderati (Chapman et al., 2006). Anche Kamphuis e collaboratori hanno ipotizzato che l’autolesionismo sia una strategia disadattiva di gestione delle emozioni, in quanto gli individui frequentemente affermano di attuarlo per regolare gli stati affettivi avversi (Kamphuis et al., 2007).

Si potrebbe dire che la messa in atto di comportamenti autolesivi sia un tramutare in sofferenza fisica (quindi più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emozionale che non si sa come gestire: per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore. L’infliggersi dolore e la vista del proprio sangue consentono di avere un prova tangibile che la propria sofferenza è reale, che c’è qualcosa di concreto e visibile per cui provare dolore.

In questo senso, l’autolesionismo sembra assumere la valenza di una strategia disadattava di coping (nozione proposta da Favazza, 1998). Le strategie di coping sono strategie con le quali le persone affrontano le situazioni potenzialmente stressanti. In modo più sistematico, il coping viene definito come l’insieme degli sforzi cognitivi, affettivi e comportamentali di un individuo, attuati per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come eccedenti le risorse della persona (Lazarus, 1991).

Il coping è il risultato dell’interazione tra la persona, la situazione e soprattutto la percezione personale di ogni situazione problematica. Da uno studio recente riguardo le strategie di coping è emerso che tra i tre fattori identificati (coping sociale e attivo, ricerca di soluzioni esterne, coping non-produttivo), soltanto il coping sociale e attivo correla in modo significativo con assenza di comportamenti autolesionistici. Gli elementi che costituiscono tale strategia di coping (lavorare con successo e provare un senso di realizzazione, insieme a una rete di amicizie positive e a diversivi positivi come l’attività fisica) aiutano a limitare il senso di bisogno dei giovani di superare le difficoltà attraverso i tagli (Hall & Place, 2010).

 

Autolesionismo come punizione autoinflitta

La seconda funzione, riferita da più della metà dei soggetti intervistati, è quella che vede attuare queste condotte al fine di auto-punirsi o come forma di rabbia autodiretta (Nock et al., 2008; Hooley & St Germain, 2013), suggerendo che tra autocriticismo e autolesionismo ci sia una relazione causale.

Autolesionismo come comunicazione di un disagio

Una terza funzione, anche se meno frequente, è quella del mostrare agli altri, attraverso delle evidenze fisiche, la propria sofferenza interiore (Klonsky, 2007).

Autolesionismo nelle pratiche culturali e simboliche

Una menzione particolare meritano alcune pratiche considerate culturali: tatuaggi, piercing e alcuni riti spirituali o di altro tipo. Ad esclusione dei rituali, le altre pratiche non sottendono un significato profondo: i tatuaggi e i piercing, piuttosto diffusi attualmente nella società occidentale, secondo Favazza (1998), vengono attuati nella stragrande maggioranza dei casi per apparire attraenti, per attirare l’attenzione e per essere provocanti. Nonostante non abbia compiuto uno studio formale con un gruppo di soggetti, la sua impressione è che le persone che hanno tatuaggi elaborati e piercing (non i semplici orecchini) mostrino maggiori livelli di psicopatologia rispetto a un ipotetico gruppo di controllo. Ad ogni modo, la presenza di una psicopatologia non può certo essere inferita soltanto dal fatto che il soggetto ingaggi tali pratiche (Favazza, 1998).

Una ricerca recente effettuata su soggetti con “body modifications” (BMs – tatuaggi e piercing) ha evidenziato che il 27% dei partecipanti ha avuto episodi di autolesionismo durante l’infanzia. I dati suggeriscono che le BMs sono identificabili come comportamenti che vanno dalla semplice imitazione del gruppo dei pari fino all’essere sintomi della presenza di gravi condizioni psicopatologiche (Stirn & Hinz, 2008).

Autolesionismo vs tentato suicidio

Parlando di autolesionismo e, più in generale di condotte autolesive, non si possono tralasciare alcune considerazioni sul tentato suicidio. I comportamenti suicidari sono considerati forme di autolesionismo che si collocano ai margini estremi del continuum delle condotte autolesive, sebbene differiscano dall’autolesionismo per diverse ragioni. Infatti le condotte di auto-ferimento, oltre ad essere più frequenti, prevedono al loro interno diversi possibili comportamenti (ad esempio il tagliarsi, il bruciarsi, etc.) con conseguenze fisiche meno gravi rispetto a quelle utilizzate nei tentativi di suicidio (Muehlenkamp, 2005, 2012; Andover & Gibb, 2010). Inoltre, le persone che attuano condotte autolesive non intendono porre fine alla loro vita (Klonsky, 2007; Favazza, 1998) ed è proprio per questa ragione che nel DSM-5 si è deciso di considerare il NSSI come un disturbo a sé stante.

Gli studi effettuati su questi temi sottolineano come le condotte autolesive siano da considerare dei fattori di rischio per il suicidio. Klonsky e collaboratori (2013) hanno osservato che i comportamenti autolesivi sono maggiormente correlati a storie di tentati suicidi più di qualsiasi altro fattore di rischio per il suicidio (ad esempio depressione, ansia, impulsività e BPD). Inoltre ci sono numerosi studi longitudinali che hanno evidenziato che le condotte autolesive sono un fattore predittivo di suicidio più forte di una serie di pregressi tentati suicidi (Asarnow et al., 2011; Guan et al., 2012; Wilkinson et al., 2011).

La teorizzazione del suicidio elaborata da Joiner (2005) sembra fornire una spiegazione convincente su questa relazione. Secondo Joiner al fine di attuare un tentativo di suicidio potenzialmente letale le persone devono possedere sia il desiderio di uccidersi sia la capacità di attuare delle condotte al fine di concretizzare tale desiderio. In genere le persone hanno paura ed evitano il dolore fisico, soprattutto quello che conduce alla morte. Quindi acquisire la capacità di uccidersi implica il superare la paura del dolore connesso alle azioni concrete utilizzate per riuscirci.

Alla luce di quanto fino ad ora esaminato, i comportamenti autolesionistici possono rappresentare un fattore di rischio per il suicidio perché essendo fortemente associati con il distress emotivo e relazionale, i quali a loro volta aumentano il rischio di sviluppare un’ideazione suicidaria, con il passare del tempo desensibilizzano le persone dal dolore fisico e per questo aumentano la capacità di attuare un agito suicidario.

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Le credenze errate sull’autolesionismo e teorie del passato

Nel corso degli ultimi dieci/quindici anni i ricercatori hanno dissipato alcune delle credenze errate rispetto all’autolesionismo e più in generale sulle condotte autolesive. Una di queste l’abbiamo enunciata all’inizio di questo lavoro ed è quella che ha condotto gli estensori dell’APA a riconoscere un’autonomia diagnostica ai comportamenti autolesivi, istituendo la categoria diagnostica dell’autolesionismo non suicidario, non considerandoli più esclusivamente come uno dei criteri diagnostici del disturbo Borderline di personalità.

Un’altra credenza errata rispetto ai comportamenti autolesivi riguarda la loro eziologia. In passato molti studiosi li consideravano il risultato o anche una riattualizzazione di pregresse esperienze di abuso sessuale in età infantile. I dati di recenti meta-analisi, invece, hanno dimostrato che tra i due fattori esistono modeste se non trascurabili associazioni (Klonsky, 2008).

Infine, un’ultima credenza errata è quella che riguarda la principale motivazione alla base delle condotte di autolesionismo. Si riteneva che questa fosse associata al desiderio di attirare l’attenzione ed elicitare delle reazioni da parte degli altri: studi condotti da diversi ricercatori, che hanno visto l’utilizzo di differenti metodologie di ricerca e l’analisi di numerosi campioni di soggetti, hanno dimostrato, invece, che i comportamenti autolesivi sono da considerarsi una strategia, prevalentemente “privata”, di rapido sollievo da intense emozioni negative (Nock, 2004; Klonsky, 2007, 2008; Chapman et al. 2006).

 

Autolesionismo e disregolazione emotiva

A tal proposito Andover & Morris (2014) hanno condotto una review riguardo al ruolo della disregolazione emotiva nell’ autolesionismo non suicidario, partendo da tre evidenze presenti in letteratura:

1) l’autolesionismo non suicidario è comunemente messo in atto come strategia per regolare le emozioni, poiché comporta un’attenuazione dell’esperienza emotiva negativa;

2) le persone che compiono gesti autolesivi spesso riportano alti livelli di disregolazione emotiva rispetto a coloro che non hanno una storia di comportamenti autolesivi;

3) gli interventi terapeutici che hanno dimostrato efficacia nel ridurre l’autolesionismo non suicidario si focalizzano, con training specifici, sullo sviluppo di abilità di regolazione delle emozioni.
In particolare, sembra che mettere in atto condotte autolesive riduca l’intensità dei vissuti negativi (comportando ad esempio una riduzione soggettiva della tensione, della paura, della tristezza), ma produca anche emozioni positive e che ciò sia uno dei fattori cruciali per mantenere nel tempo l’autolesionismo non suicidario (Andover & Morris, 2014).

Il modello comportamentale dell’autolesionismo

Un primo modello interessante è il modello comportamentale, empiricamente supportato, proposto da Noch e Prinstein, secondo cui la condotta autolesiva è mantenuta sia da rinforzi automatici (intrapersonali) sia da rinforzi sociali (interpersonali); i rinforzi automatici sono però maggiormente riferiti dai soggetti. Il concetto di rinforzo automatico è in linea con la funzione di regolazione emotiva, infatti l’autolesionismo non suicidario è tipicamente utilizzato per ridurre le emozioni indesiderate o per produrre emozioni desiderate (Nock & Prinstein, 2004).

Il profilo psicofiosiologico nell’autolesionismo

Anche ricerche di psicofisiologia supportano l’ipotesi secondo cui l’autolesionismo eserciti la funzione di regolare le emozioni, in quanto hanno riscontrato una diminuzione dell’arousal durante e dopo la descrizione di comportamenti autolesivi. Studi di laboratorio suggeriscono che il dolore fisico sia una caratteristica importante nella regolazione emotiva dell’autolesionismo: è stato dimostrato infatti un decremento nei vissuti emotivi negativi dopo esser stati sottoposti a uno stimolo doloroso e un aumento dei vissuti positivi. Il ruolo del dolore fisico nella regolazione emotiva può essere più accentuato per alcuni soggetti autolesionisti, come coloro che riportano nessun dolore durante tali condotte o coloro con una bassa percezione soggettiva del dolore.
Nel complesso le ricerche sulla funzione di regolazione emotiva dell’autolesionismo suggeriscono che tale comportamento sia fisiologicamente e psicologicamente mantenuto in quanto efficace, anche se maladattiva, strategia di regolazione emotiva (Andover & Morris, 2014).

 

Marsha Linehan: le ricerche su autolesionismo e disregolazione emotiva nel disturbo borderline

La maggior parte delle ricerche sul concetto di disregolazione emotiva e sulla sua implicazione nelle condotte autolesive non suicidarie è stata guidata dalla teoria di Marsha Linehan sulla disregolazione emotiva nel BPD, la quale ipotizza sia una vulnerabilità emotiva di base della persona sia dei deficit nelle abilità di regolazione delle emozioni (Linehan, 2011). Per vulnerabilità emotiva l’autrice intende che i soggetti affetti dal disturbo esperiscono le emozioni in modo più intenso, sono più suscettibili agli stimoli emotigeni positivi e negativi, e ritornano più lentamente a uno stato affettivo di base.

In secondo luogo, le persone con BPD hanno difficoltà nel gestire alti livelli di attivazione emotiva poiché sono carenti nelle abilità di regolazione delle emozioni; la regolazione emotiva richiede infatti due capacità: l’abilità di sentire ed etichettare le emozioni provate e l’abilità di ridurre gli stimoli emotivamente rilevanti, che potrebbero causare la riattivazione di emozioni negative/positive oppure risposte emotive secondarie. Tale modello, anche se ipotizzato per il Disturbo Borderline, è stato cruciale per la comprensione della disregolazione emotiva presente nell’autolesionismo (Andover & Morris, 2014).

Autolesionismo negli adolescenti: la funzione di regolazione cognitiva

Inoltre alcune ricerche suggeriscono che l’autolesionismo non suicidario svolga una funzione di regolazione cognitiva oltre che una funzione di regolazione emotiva, poiché hanno identificato un’associazione tra i comportamenti autolesivi come strategia di modulazione della risposta e il processo di attribuzione. (Andover & Morris, 2014). In particolare, gli adolescenti che compiono gesti autolesivi riportano che tale comportamento li distrae da pensieri non desiderati (Nock et al., 2009).

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I trattamenti per l’autolesionismo

Concludendo, gli ultimi quindici anni hanno visto un massiccio avanzamento nella comprensione dei comportamenti autolesivi (Klonsky et al., 2014). Ora sono maggiormente delineate le loro caratteristiche descrittive, i correlati psicosociali e le funzioni da essi svolte. Klonsky suggerisce che ora bisogna utilizzare tali conoscenze per sviluppare delle teorie esplicative empiriche di questi fenomeni e delineare degli interventi ad hoc, finalizzati a venire incontro alle necessità delle persone che incorrono in condotte autolesive. Ovviamente questi due obiettivi risultano fortemente interdipendenti tra loro: le teorie basate su dati empirici permettono lo sviluppo di modelli di intervento sempre più efficaci e questi, a loro volta, permettono una revisione e un potenziamento delle teorie che li hanno prodotti.

Infine nel lavoro di Turner e collaboratori (2014) viene effettuata una revisione sistematica della letteratura sui trattamenti per i comportamenti autolesivi, mostrando come spesso essi non siano davvero specifici per queste condotte, ma siano degli adattamenti di trattamenti creati per condizioni correlate come il BPD o le tendenze suicide. Diverse tipologie di intervento, tra cui la Dialectical Behavior Therapy – DBT, la terapia di gruppo sulla regolazione delle emozioni, la psicoterapia dinamica decostruttiva, l’utilizzo di psicofarmaci (Aripiprazolo, Naltrexone, SSRI associati o meno alla terapia cognitivo-comportamentale) sembrano essere efficaci nel riuscire a ridurre le condotte autolesive.

Ciononostante esistono pochi studi controllati che indagano in maniera specifica la loro efficacia nel trattamento dell’autolesionismo. Gli approcci di psicoterapia strutturati e focalizzati in maniera specifica sui comportamenti di auto-ferimento, sulla collaborazione all’interno della relazione terapeutica e sulla motivazione al cambiamento sembrano essere quelli maggiormente efficaci nella riduzione di tali condotte. I farmaci che agiscono sui sistemi dopaminergici, serotoninergici e oppioidi producono effetti positivi. In futuro studi controllati, focalizzati in maniera specifica sui comportamenti autolesivi, permetteranno di delineare dei trattamenti sempre più efficaci.

Questione di sincerità o di punto esclamativo? Come la punteggiatura degli sms influenza la loro credibilità

Un team di ricercatori della Harpur College Binghamton University, ha studiato come la punteggiatura contenuta nei messaggi di testo influenza il significato che attribuiamo al messaggio ricevuto.

I 126 studenti reclutati per l’esperimento hanno dovuto leggere una serie di conversazioni sotto forma di messaggi di testo o di appunti scritti a mano. Nelle 16 conversazioni, il messaggio del mittente conteneva una dichiarazione seguita da un invito formulato come una domanda (per esempio, Anna mi ha regalato i suoi biglietti per il teatro. Vuoi venire?). La risposta del ricevente era una sola parola affermativa (va bene, certo, ok).

C’erano due versioni di ogni scambio: una in cui la risposta terminava con un punto e un’altra in cui non aveva alcuna punteggiatura. Sulla base delle risposte dei partecipanti, i messaggi di testo che si concludevano con un punto sono stati valutati come meno sinceri di quelli senza. I testi scritti a mano, al contrario, non risentivano di questa differenza.

In alcuni follow-up più recenti, la squadra ha anche scoperto che una risposta di testo con un punto esclamativo viene, invece, interpretata come più sincera. Anche se la maggior parte dei segnali sociali e contestuali mancavano, la sincerità dei messaggi brevi è stata valutata in modo diverso a seconda della presenza o dell’assenza di punteggiatura.

Secondo i ricercatori, questi risultati indicano che la punteggiatura influenza il significato percepito dei messaggi di testo, e viene utilizzata da chi si scambia messaggi per trasmettere emozioni e altre informazioni pragmatiche e sociali.

L’abilità umana a comunicare informazioni complesse e utilizzare sfumature nelle conversazioni, non si è arresa di fronte al formato asettico dei messaggi di testo, ma anzi, ha cercato modi alternativi, seppur ancora imprecisi e spesso ambigui, per trasmettere gli stessi tipi di informazioni.

Il DSM 5 e la diagnosi di Depressione Maggiore: dove è finito il diritto di soffrire?

La diagnosi di depressione maggiore in concomitanza al lutto era fatta, nel DSM-IV, con sintomi aggiuntivi elencati nel criterio E. Cosa è cambiato nel DSM 5?

Barbara Valenti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Modena

Considerate il seguente esempio:

Il signor Mario Rossi si presenta al colloquio lamentando umore depresso, perdita di interesse e piacere, riduzione dell’appetito, insonnia e problemi di concentrazione, difficoltà nel portare a termine i compiti richiesti al lavoro e ridotti contatti interpersonali. Questa situazione è iniziata circa un mese fa, dopo la morte della compagna alla quale era legato da molti anni.

Sulla base delle informazioni fornite, come valutereste la situazione del signor Mario Rossi?

Un clinico nella sua valutazione farebbe riferimento al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), un sistema di classificazione ampiamente diffuso in ambito clinico, basato su un modello ateorico e categoriale che classifica i disturbi ricorrendo a precisi criteri diagnostici.

Ritornando all’esempio, se confrontassimo le difficoltà indicate dal signor Mario Rossi con le indicazioni del DSM arriveremmo a conclusioni profondamente diverse a seconda della versione. Nel 2013 è infatti uscita l’ultima edizione del manuale, il DSM 5, che rispetto a quella precedente, il DSM IV-Tr, presenta importanti differenze.

Il DSM IV-Tr nella definizione di Depressione Maggiore indicava:

dopo la perdita di una persona amata, anche se i sintomi depressivi sono sufficienti per durata e per numero a soddisfare i criteri per l’Episodio Depressivo Maggiore, essi dovrebbero essere attribuiti al Lutto (DSM IV-Tr, 2000).

La diagnosi di Depressione Maggiore in concomitanza al lutto veniva contemplata solo in presenza di specifici sintomi aggiuntivi elencati nel criterio E:

  • una durata equivalente o maggiore a due mesi
  • una compromissione marcata del funzionamento
  • ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio (DSM IV-TR, 2000).

Il razionale di queste indicazioni è quello di differenziare una reazione considerata normale – il lutto – da una condizione psicopatologica – la Depressione Maggiore.

Il DSM 5 ha eliminato questa discriminazione e al suo interno non c’è traccia del criterio E, sostituito da una nota che suggerisce al clinico di valutare con attenzione se in caso di eventi legati alla perdita (come lutto, gravi problemi economici, disastri naturali, grave malattia o disabilità) il soggetto presenta i sintomi di un Episodio Depressivo Maggiore (EDM) in aggiunta alla reazione naturale – senza specificare cosa si intenda per ‘naturale’. Il paragrafo introduttivo sui disturbi depressivi ricorda inoltre che la compresenza di lutto e sintomi depressivi si associa a prognosi peggiore, e che in questi casi il trattamento con antidepressivi può facilitare ricovero (DSM 5, 2013).

In sostanza, per il DSM IV-Tr il signor Rossi sarebbe in lutto mentre per il DSM 5 si tratterebbe di un caso di Depressione Maggiore.

Questo rilevante cambiamento di prospettive è stato accompagnato da un acceso dibattito in letteratura. Secondo gli autori favorevoli all’eliminazione del criterio E tale scelta si basa su evidenze scientifiche e già nel 2001 Zisook evidenziava l’utilità del bupropione nel trattamento di Episodio Depressivo Maggiore immediatamente successivi alla perdita di una persona cara (es: lutto), sostenendo che la capacità del farmaco di ridurre la sintomatologia depressiva e insieme le manifestazioni lutto correlate sfiderebbe le indicazioni del DSM-IV di non trattare farmacologicamente i casi di lutto (Zisook et al, 2001).

Ricerche successive (Zisook e Kendler, 2007; Zisook, Shear & Kendler, 2007; Lamb et al, 2010) mettono in dubbio la validità del Criterio E sulla base dell’assenza di differenze significative tra Episodio Depressivo Maggiore lutto correlati e Episodio Depressivo Maggiore non lutto-correlati. Anche Corruble et al (2009) sostengono questa posizione, arrivando a concludere che i soggetti del loro campione classificati come ‘lutto’ presentavano sintomi depressivi più gravi rispetto ai soggetti con depressione maggiore, inclusi maggiore ideazione suicidaria e senso di inutilità.

Un ulteriore argomento che depone a favore dell’eliminazione del criterio E sarebbe l’assenza di differenze significative tra condizioni di lutto e sintomi depressivi non severi conseguenti ad altri tipi di eventi stressanti (Kendler, Myers & Zisook, 2008). Infine Kendler (2010), riassume le ragioni a favore dell’eliminazione del criterio E aggiungendo quanto segue:

  • il criterio E, che impedisce la diagnosi di depressione maggiore in caso di lutto recente, è stato inserito nel DSM IV-Tr sulla base dei lavori di un unico autore;
  • l’International Classification of Dieseases (ICD, l’altro principale sistema di classificazione dei disturbi) non prevede nessun criterio E nella diagnosi di Depressione Maggiore;
  • il termine generico ‘depressione’ spesso usato per indicare il lutto non va confuso con il concetto diagnostico di Depressione Maggiore;
  • la diagnosi in psichiatria non implica necessariamente il trattamento, un bravo psichiatra di fronte a un Episodio Depressivo Maggiore lutto correlato parte da un’accurata valutazione diagnostica e, quando i criteri per la depressione maggiore sono soddisfatti, valuta se adottare la tecnica del ‘guardare e aspettare’ oppure se, a causa di ideazione suicidaria, marcata compromissione del funzionamento o un sostanziale peggioramento clinico, i benefici del trattamento sono superiori ai limiti.

Ad un’analisi più attenta, l’evidenza scientifica a sostegno di questo cambiamento si è dimostrata fallace.

Riprendendo nell’ordine gli articoli finora citati: un articolo pubblicato da Whoriskey (2006) sul Washington Post denuncia lo scarso rigore scientifico nella ricerca di Zisook e colleghi (2001), che nonostante un campione di soli 22 soggetti, la loro mancata randomizzazione e l’assenza di un gruppo di controllo pretendeva di sfidare l’indicazione del DSM IV-Tr di non fare ricorso al trattamento farmacologico in caso di lutto (Whoriskey, 2006). Wakefield e First (2012) hanno analizzato nel dettaglio vari articoli favorevoli all’eliminazione del criterio E soffermandosi su un errore di concetto che ricorre sia nella prima ricerca di Zisook e Kendler (2007) che quella successiva (Zisook, Kendler e Shear; 2007): esprimersi a favore dell’eliminazione del criterio E sulla base dell’assenza di differenze significative tra le varie forme di Depressione Maggiore non ha niente a che fare con il criterio E in sé, il cui fine è quello di distinguere tra una condizione patologica e una non patologica (Wakefield & First, 2012).

Va aggiunto che gli stessi Zisook, Kendler e Shear (2007) riconoscono di aver misclassificato la condizione di lutto nella loro ricerca, inserendovi anche casi di Episodio Depressivo Maggiore, ma ignorano questo dettaglio nelle loro conclusioni.

Un simile errore di concetto è stato compiuto da Lamb e colleghi (2010) che hanno incluso nelle loro analisi una ricerca di Kessing et al (2010) dove nella condizione lutto rientravano anche pazienti ricoverati, i 2/3 del gruppo, e pazienti con ideazione suicidaria, il 73% (Wakefield e First, 2012). Allo stesso modo, Corruble e colleghi (2009) hanno considerato lutto anche quelle situazioni in cui i pazienti presentavano ritardo psicomotorio (70.5%), sentimenti di inutilità (66.8%) e ideazione suicidaria (36%), tutti elementi che vengono inclusi nel criterio E come indici di una probabile Depressione Maggiore (Wakefield & First, 2012). Rispetto all’argomento sostenuto da Kendler, Mayers e Zisook (2008), ovvero la somiglianza tra lutto e sintomi depressivi non severi conseguenti ad altri tipi di eventi stressanti, altri autori sulla base di simili dati sono arrivati all’opposta conclusione di mantenere il criterio E ed estenderlo alle altre situazioni di perdita (Wakefield et al, 2007). Infine, anche le ragioni elencate da Kendler (2010) sono opinabili:

  • dichiarare che il criterio E impedisce la diagnosi di Depressione Maggiore in caso di lutto non corrisponde a verità, questa è possibile a patto che vengano soddisfatti specifici sintomi aggiuntivi (DSM IV-Tr, 2000). Con il lavoro di un unico autore Kendler sembra riferirsi alle pubblicazioni di Clayton (Clayton, Desmarais & Winokur, 1968; Clayton, Halikas, & Maurice WL, 1972; Clayton, Herjanic & Murphy, 1974) che ancora oggi forniscono evidenze persuasive circa l’utilità del criterio E (Wakefield e First, 2012).
  • Nelle linee guida dell’ICD-10 il lutto viene riconosciuto come una reazione normale, solitamente non superiore ai 6 mesi, non codificabile come disturbo mentale se appropriata alla cultura di riferimento dell’individuo (WHO, 1992). Inoltre, anche se l’ICD-10 non menziona il lutto nella diagnosi di Depressione Maggiore è probabile che questo venga incluso nella prossima versione, l’ICD-11 (Maj, 2012). Includere l’assenza del criterio E nell’ICD tra le ragioni a favore della sua esclusione nel DSM 5 perde quindi di significato.
  • È proprio la confusione che spesso si crea tra i termini depressione e lutto a rafforzare la necessità di una chiara distinzione tra i due, soprattutto considerando che nel mondo reale, la maggior parte delle prescrizioni saranno fornite da medici di medicina generale che hanno 6 minuti per ogni paziente, non conoscono accuratamente i criteri diagnostici e desiderano la soluzione più veloce (Frances, Pies & Zisook, 2010).
  • Quest’ultimo punto ben evidenzia il rischio di sovradiagnosticare, ora che il criterio E è stato eliminato si suggerisce al clinico di segnare – in ogni caso – la presenza di psicopatologia, e di ricorrere al farmaco solo se i sintomi sono sufficientemente gravi.

In sostanza la validità del criterio E viene negata ricorrendo alla sua stessa indicazione, ovvero quella di trattare farmacologicamente le condizioni patologiche che presentano sintomi molto simili rispetto a quelli suggeriti da Kendler (ideazione suicidaria, marcata compromissione del funzionamento o un sostanziale peggioramento clinico).

In accordo con il sito del DSM 5 le modifiche apportate sarebbero basate su evidenze scientifiche e finalizzate al miglioramento delle pratica clinica (DSM web site, 2014). Ad un’osservazione più accurata dei dati emerge tuttavia che la scelta di eliminare il criterio E è in contraddizione con quanto sostenuto, sia perché le ricerche scientifiche si sono rivelate inconsistenti, sia perché le nuove indicazioni potrebbero rivelarsi controproducenti per la pratica clinica, aumentando il rischio di diagnosticare erroneamente il lutto come patologia – e quindi di trattarlo farmacologicamente (First, 2011).

Ma se alla base di questa scelta non troviamo né evidenza scientifica né evidenza clinica, qual è il razionale che la sostiene? Il dubbio è che l’interesse non sia tanto quello di favorire il benessere dei pazienti bensì quello delle case farmaceutiche, basti pensare che otto degli undici membri della commissione APA (American Psychiatric Association) che hanno votato a favore di questo cambiamento riportano connessioni di ordine economico con le industrie farmaceutiche (Whoriskey, 2012). Sidney Zisook, il consigliere principale della commissione, è stato relatore e consulente per diverse case farmaceutiche oltre che primo autore nella ricerca che sostiene l’impiego del bupropione nel trattamento del lutto – ricerca sponsorizzata dalla Glaxo (Whoriskey, 2012).

Per prevenire ulteriori critiche a partire dal 2007 l’APA ha istituito una politica di divulgazione obbligatoria per i suoi membri, a cui viene richiesto di segnalare la presenza di eventuali conflitti di interesse e limitare ad un massimo di 10.000 dollari il compenso annuo ricevuto dalle industrie (APA, 2007). Nonostante questa richiesta il 69% dei membri appartenenti alla commissione che ha lavorato al DSM V ha dichiarato legami con le case farmaceutiche, e tale percentuale aumenta tra i membri che si sono occupati di disturbi per i quali i farmaci sono indicati come trattamento di prima scelta, nello specifico: l’83% dei membri della commissione dedicata ai Disturbi dell’umore ha dichiarato una qualche forma di legame con le industrie, o le compagnie associate alle industrie, che producono i farmaci segnalati per il trattamento (Cosgrove & Krimsi, 2012).

Ritornando all’esempio iniziale, alla luce di quanto finora citato la miglior conclusione che può essere tratta è quanto sostenuto da Allen Frances (2012), professore presso il Dipartimento di psichiatria della Duke University e a capo della task force che aveva prodotto il DSM IV-Tr:

il lutto diventerà Disturbo Depressivo Maggiore, quindi le nostre prevedibili e necessarie reazioni emotive alla perdita di una persona cara saranno medicalizzate e banalizzate, sostituendo con pillole e rituali medici superficiali le consolazioni profonde derivate dalla famiglia, dagli amici, dalla religione e dalla resilienza che viene con il tempo e con l’accettazione delle limitazioni della vita.

 

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Depressa da morire: è concepibile l’eutanasia per casi di depressione?

Plusdotazione: risorsa o rischio per la famiglia? Uno studio sullo stress genitoriale di famiglie con bambini ad alto potenziale

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Plusdotazione: risorsa o rischio per la famiglia? Uno studio sullo stress genitoriale di famiglie con bambini ad alto potenziale

Autore: Valeria Bertolotti (Università degli Studi di Pavia)

Abstract

La giftedness, lo stress genitoriale ed il parenting sono i temi sui quali il presente scritto si concentra. Nello specifico viene esaminato il contesto di famiglie con bambini ad alto potenziale (gifted) con l’obiettivo principale di indagare i livelli di stress che tali famiglie presentano. La teoria di riferimento della ricerca riguarda il filone sistemico – relazionale, dal quale derivano alcuni principali modelli sulla giftedness focalizzati sui processi di sviluppo dell’individuo, che rappresentano dei riferimenti importanti nell’attuale ricerca in questo ambito.

Successivamente è introdotto e discusso il contesto famiglia, con particolare enfasi all’analisi del parenting, inteso come condotta genitoriale, e dello stress genitoriale. Infine sono riportati i risultati della ricerca sullo stress genitoriale, da cui emerge che le famiglie con bambini ad alto potenziale risultano maggiormente stressate delle altre famiglie con bambini a sviluppo tipico. La causa principale di questo maggiore stress sembra essere la difficile gestione che questi bambini comportano, derivante dal loro temperamento richiestivo e sfidante. Nonostante non venga approfondito nello specifico il parenting, sembra che le relazioni tra genitori e figli e le percezioni circa il ruolo genitoriale di famiglie con bambini gifted siano buone.

 

Abstract (English)

Giftedness, parenting and parental distress are the main subjects of this paper. In particular the context of families with gifted children is examinated, to the purpose of studying the distress levels that such families report. The theoretical introduction, based on the systemic perspective, presents some of the main developmental models of giftedness, focused on the individual developmental process.

Later, the themes of parenting and parental distress are introduced and analyzed. In closing, results of parental distress research are reported: the data show that families with gifted children feel more stressed than other families with typical development children.  The first cause of this situation seems to be the complexity attributed to gifted children, resulting from their demanding and challenging temperament. Although parenting isn’t specifically analyzed, it seems that, among families with gifted children, parents – children interactions and parents’ perceptions about their role are quite positive.

Keywords: plusdotazione, genitorialità, stress genitoriale, bambini difficili, madri

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

Schizofrenia e cellule staminali: verso la creazione di un modello esplicativo “in vitro”

Diego Moriggia, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

L’impiego di queste cellule può rappresentare un punto di svolta nella ricerca sulla schizofrenia (nonché di altre malattie mentali, quali ad esempio l’autismo; Brennand, Gage, 2012), e per più ragioni: una di queste risiede nell’opportunità di poter creare, a partire da differenti tipi di cellule neuronali (quali, ad esempio, oligodendrociti, astrociti, interneuroni), rappresentazioni di diverse aree del cervello, la cui reciproca interazione verrà poi osservata (Filippich et al., 2013).

La schizofrenia è universalmente riconosciuta come una delle più gravi ed invalidanti malattie mentali.
Essa consta di tre principali classi di sintomi: nella cosiddetta sintomatologia positiva, i pazienti affetti da schizofrenia manifestano allucinazioni, delirio e generale disordine del pensiero; i sintomi negativi, invece, sono caratterizzati da appiattimento dell’affettività, impoverimento di linguaggio ed eloquio (alogia), mancanza di volizione (abulia). In aggiunta a ciò, segnaliamo disturbi di carattere cognitivo, quali deficit attentivi, di memoria e pianificazione/organizzazione (APA, 2013).

I tentativi di spiegare l’insorgenza della malattia sono molteplici e assai differenziati per ambito d’intervento; importanti risultati sono arrivati, infatti, dagli studi di neuroimaging e dalle indagini anatomiche post mortem, i quali hanno evidenziato che negli individui affetti da schizofrenia è possibile osservare una sensibile diminuzione del volume encefalico, della dimensione delle singole cellule, nonché un’abnorme distribuzione neuronale nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo (Wong et al., 2003). Un altro versante è rappresentato dagli studi neurofarmacologici, che hanno segnalato anormalità nell’attività di diverse popolazioni di neuroni (specie i dopaminergici, glutammaergici e GABAergici; Sullivan, 2003).

Ciò che, tuttavia, è di grande ostacolo nella ricerca sulle cause della schizofrenia è la difficoltà di ottenere neuroni vivi da pazienti affetti da questo disturbo, per poi poterne studiare efficacemente l’interazione; possiamo citare – a questo proposito – i modelli appresi dagli studi sui topi, nei quali viene sperimentalmente ricreata una condizione fenotipica del tutto simile a quella di uno schizofrenico (seppure con opportune limitazioni proprie del protocollo; Brennand, Gage, 2012).
In quest’ottica, lo studio delle interazioni neurali viene enormemente avvantaggiato da una recente frontiera di ricerca, rappresentata dall’impiego delle cellule staminali.

Negli ultimi anni si è spesso parlato dei molteplici impieghi di questo tipo di cellule, la cui peculiarità sta nella possibilità di svilupparsi in qualsiasi tipo di cellula umana, a partire da uno stato non specifico. La rivoluzionaria scoperta effettuata in tale ambito è figlia delle ricerche di Shinya Yamanaka (Takahashi et al., 2006), che ha rivelato la possibilità di far regredire una cellula somatica proveniente da un topo, fino allo stato “non-differenziato”. Un anno dopo, un gruppo guidato sempre da Yamanaka (Takahashi et al., 2007), più un altro team diretto da James Thompson (Yu et al., 2007) dimostrano per la prima volta che è possibile ottenere il medesimo risultato servendosi di una cellula umana (in questo caso un fibroblasto, ovvero una cellula connettivale del derma e deputata alla sintesi dei componenti della sostanza intercellulare). Le cellule ottenute (del tutto simili a cellule staminali embrionali e che da qui in avanti chiameremo iPSCs, Induced Pluripotent Stem Cells, in italiano Cellule Pluripotenti Indotte) potranno poi essere riconvertite in cellule appartenenti a qualsiasi tessuto umano, mediante apposita procedura (Maherali et al., 2007; Meissner et al., 2007; Takahashi et al., 2007; Wernig et al., 2007; Yu et al., 2007).

L’impiego di queste cellule può rappresentare un punto di svolta nella ricerca sulla schizofrenia (nonché di altre malattie mentali, quali ad esempio l’autismo; Brennand, Gage, 2012), e per più ragioni: una di queste risiede nell’opportunità di poter creare, a partire da differenti tipi di cellule neuronali (quali, ad esempio, oligodendrociti, astrociti, interneuroni), rappresentazioni di diverse aree del cervello, la cui reciproca interazione verrà poi osservata (Filippich et al., 2013).

Non solo, questa strategia garantisce l’opportunità di poter individuare nei neuroni eventuali deficit innati, senza che vi siano interferenze dovute a fattori ambientali (abuso di alcool o sostanze, indigenza, quantità di farmaci assunti a scopo terapeutico).
Ma in quale modo è possibile operare un simile intervento? Più precisamente, come si riesce a controvertire una differenziazione cellulare già terminata?

Come si potrà immaginare, una spiegazione dettagliata finirebbe inevitabilmente per dilungarsi in complesse nozioni di genetica e biologia cellulare; ci limiteremo, perciò, a citare i passi principali.
Le cellule differenziate possono essere riprogrammate nello stato pluripotente mediante l’espressione artificiale di quattro geni: Oct4, Sox2, Klf4 e c-Myc. Complessivamente, questi quattro geni sono naturalmente espressi nelle cellule staminali embrionali mentre rimangono inespressi in una cellula stabilmente differenziata, dal momento che il processo di differenziazione ne prevede la disattivazione progressiva; occorre, pertanto, introdurli artificialmente in una cellula. Il team di Yamanaka, a proposito, si è servito di un vettore retrovirale, cioè un virus modificato appositamente per trasmettere una specifica informazione genetica. Mediante ulteriori protocolli di differenziamento, successivamente, è possibile pilotare la crescita di una iPSC nella direzione desiderata (per maggiori informazioni, si veda: Chambers et al., 2009; Abbas, A. K., Aster, J. C., & Kumar, V., 2013; Bagnara, G. P., 2013; D’Amato, L. C., & di Porzio, U., 2011).

Nonostante questa metodologia di ricerca sia agli albori, i risultati fin qui ottenuti paiono incoraggianti. Il team guidato da Fred Gage (Brennand et al., 2011), ad esempio, ha scoperto che i neuroni “derivati” da pazienti schizofrenici presentano difetti nella connettività, difetti collocati nella maturazione e funzionalità delle sinapsi; è, inoltre, presente un decremento del numero di neuriti, risultato coerente con la diminuzione di arborizzazioni dendritiche osservate in neuroni post-mortem (Selemon et al., 1999) e modelli animali (Jaaro-Peled et al., 2010). Sono stati quindi testati gli effetti di cinque antipsicotici (clozapina, olanzapina, loxapina, risperidone, tioridazina), con l’intento di stimolare la connettività neuronale: solo la loxapina si è rivelata efficace a riguardo (si suppone che una somministrazione controllata per dosaggio e tempo sia comunque efficace).

E’ opportuno sottolineare che, stante la sua giovinezza, questa tecnica di ricerca non è esente da limiti. Uno di questi è rappresentato dalla variabilità all’interno dei neuroni derivati da iPSCs: queste differenze potrebbero essere dovute al modo in cui il vettore impiegato per il trasferimento dei geni si integri nella cellula, ma si potrebbero imputare anche a discrepanze nel nuovo sviluppo epigenetico, a spontanee mutazioni in seguito alle varie riprogrammazioni, alle differenti tecniche di coltura delle iPSCs e persino a diversità fra le cellule d’origine.

Un altro interrogativo è rivolto ai campioni sperimentali usati: ci si chiede, più precisamente, se effettivamente i pazienti studiati siano rappresentativi di una malattia così complessa qual è la schizofrenia. Nonostante i numeri dicano chiaramente che è possibile apprezzare discrepanze significative tra pazienti e controlli, ci si chiede se sia possibile esportare su larga scala le analisi effettuate sui neuroni derivati (Brennand, Gage ,2012).
La strada tracciata, dunque, procede verso una modellizzazione in vitro della malattia (mentale, in questo caso, ma non solo); nonostante la strada sia ancora molto lunga – a detta di molti scienziati coinvolti – giungeranno risultati estremamente utili per comprendere maggiormente l’entità di questa malattia.

Il trattamento della depressione previene la perdita della memoria e la demenza

Se la Depressione non viene trattata, o il soggetto che ne soffre non risponde adeguatamente al trattamento della depressione, la risposta infiammatoria può portare alla produzione di composti neurotossici che possono uccidere le cellule del cervello, con conseguente perdita di memoria e demenza.

 

Il circolo vizioso di stress e depressione

Stress e depressione interagiscono in un circolo vizioso. In soggetti particolarmente sensibili lo stress può portare alla depressione. A sua volta, la depressione, se non trattata, provoca stress. Questo stimola il sistema immunitario del corpo con lo scopo di combattere lo stress e la depressione, come se fossero una malattia o infezione.

L’accelerazione dello stimolo del sistema immunitario, il quale include la risposta infiammatoria, protegge inizialmente contro lo stress.

Ma nel corso del tempo, l’infiammazione cronica può causare una serie di problemi di salute. Infatti, in questo circolo vizioso, la Depressione può innescare una risposta infiammatoria.

Pertanto, Angelos Halaris, professore presso il Dipartimento di Psichiatria e comportamento Neuroscienze di Loyola University Chicago Stritch School of Medicina ha dichiarato:

É importante una precoce diagnosi di depressione, trattarla energicamente con lo scopo di raggiungere la remissione e lavorare per prevenire le ricadute.

 

Trattamento della depressione con Escitalopram

Halaris e colleghi si sono proposti di indagare se il trattamento con Escitalopram (ESC), un antidepressivo appartenente alla classe degli SSRI, potesse sopprimere l’infiammazione spostando i metaboliti della via chinurenina nei pazienti con un Disturbo Maggiore Depressivo (DMD).

A tal scopo sono stati testati 57 soggetti, 27 di controllo e 30 pazienti. I pazienti sono stati trattati con Escitalopram per 12 settimane. In ogni visita sono state effettuate valutazioni cliniche usando la 17-item Hamilton Depression Scale (HAM-D), l’Hamilton Rating Scale for Anxiety (HAM-A), il Clinical Global Impression (CGI) e il Beck Depression Inventory (BDI) così da poter monitorare l’effetto del farmaco.

Per esaminare la risposta infiammatoria, nel corso di ogni valutazione venivano inoltre raccolti campioni di sangue, i quali sono stati successivamente analizzati. Nello specifico i ricercatori hanno misurato i livelli ematici di nove sostanze secrete dal sistema immunitario.

Ciò che emerso è che l’80 % per cento dei 20 pazienti che hanno completato l’intero studio, ha riferito un sollievo completo o parziale dalla loro depressione, confermando le premesse di Halaris e colleghi. È emerso però un ulteriore risultato inaspettato: oltre al trattamento della depressione, l’Escitalopram protegge anche dai composti che possono causare la perdita di memoria e demenza.

 

Effetti sul cervello di una depressione non trattata o resistente al trattamento

Se la depressione non viene trattata, o il soggetto che ne soffre non risponde adeguatamente al trattamento, la risposta infiammatoria può portare alla produzione di composti neurotossici che possono uccidere le cellule del cervello, con conseguente perdita di memoria e demenza.

A dimostrazione di ciò tra i risultati dello studio è stato trovato che tra i pazienti trattati con Escitalopram, i livelli di due composti neurotossici erano scesi in modo significativo. Infatti i livelli di acido 3-idrossiantranilico erano diminuiti di oltre due terzi tra la settimana 8 e la settimana 12, e i livelli di acido quinolinico erano scesi del 50% durante le prime otto settimane risultando inferiori rispetto all’inizio dello studio.

L’Escitalopram appartiene a una classe di antidepressivi chiamati inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI). Per tanto è possibile che altri SSRI, come il Prozac, lo Zoloft e il Paxil, potrebbero proteggere contro le neurotossine, ma il dottor Halaris ha dichiarato che questo dovrebbe essere testato tramite altri studi.

In conclusione, per quanto si tratti di una scoperta eccezionale, bisogna sottolineare che lo studio è purtroppo limitato dal numero ristretto di soggetti partecipanti. La speranza di Halaris e colleghi e però quella che stimoli l’interesse a replicare i risultati con grandi gruppi e per un periodo di tempo più lungo.

Gleeden e le Avventure Extraconiugali

Gleeden: in una società dove il limite e il legame fanno fatica a trovare uno spazio o una ragione d’esistere, il tradimento è forse ormai sdoganato, quasi a rappresentare un diritto egualitario

Gleeden website

Seduta sull’autobus, ferma ad un semaforo, la mia attenzione viene attratta da una locandina viola acceso. Non riesco a leggere di cosa si tratta, intravedo una mela mordicchiata e una mano con le unghie laccate. Penso si tratti di un nuovo telefilm su un gruppo di casalinghe disperate.

Gleeden - avventure extraconiugaliQuando scendo dall’autobus, però, mi imbatto nuovamente nella locandina, appesa a quanto pare a diverse pensiline. Mi fermo a leggere cosa c’è scritto: “Gleeden, Essere fedeli a due uomini significa essere due volte più fedeli”. Rifletto qualche secondo sull’aforisma, e mi rendo conto che la pubblicità è relativa ad un “sito di incontri extraconiugali pensato dalle donne“.

Ho incominciato così a riflettere sul senso del tradimento che, in qualunque forma si manifesti, è sempre un’azione che muta in qualche modo un legame, in seguito alla quale si crea uno spartiacque, originando così un prima e un dopo. Muta anche l’identità delle persone coinvolte, dando loro magari un’etichetta che mai avrebbero pensato o desiderato avere.

I tradimenti, quindi, hanno dei tratti comuni: più che la persona, si tradisce la relazione costruita insieme (che sia d’amore o di amicizia, di lavoro o di collaborazione). E’ un atto per altro asimmetrico: vi è una persona che sceglie, che agisce, e una persona che subisce e che, solo in un secondo momento, può contro-reagire. Il tradimento, inoltre, si inserisce in un discorso culturale e sociale più ampio, mutando il proprio significato così come mutano i tempi.

Oggigiorno, invece, in una società dove il limite e il legame fanno fatica a trovare uno spazio o una ragione d’esistere, il tradimento è forse ormai sdoganato, quasi a rappresentare un diritto egualitario.

Si è sentito molto parlare di “analfabetismo affettivo”, e forse sotto questa etichetta fumosa che vuol dire tutto e niente, possiamo far rientrare il tradimento coniugale. Un rapporto duraturo, fatto di alti e bassi, può generare felicità, ma – questo è indubbio – crea anche frustrazione. Richiede energia, costanza, tempo, e anche una sicurezza interna non indifferente. Innamorarsi e scegliere una persona con la quale condividere un pezzetto della propria vita, i propri interessi, ma anche le proprie ambizioni e paure rappresenta un investimento emotivo e cognitivo non indifferente. E a monte di tutto questo, rimane il fatto che per poter amare qualcuno bisogna forse amare prima se stessi. Per potersi dedicare a qualcuno bisogna essere sicuri di aver dedicato sufficiente energia a se stessi.

Visito la homepage di Gleeden: il layout accattivante (che continua a ricordarmi vagamente le pubblicità di alcuni telefilm americani), una grafica semplice e poco testo scritto. Poche informazioni essenziali:

  • Oltre 2.825.642 iscritti (un numero piuttosto consistente)
  • Discrezione totale;
  • 100% utenti reali;
  • Una comunità mondiale (il sito, infatti, è la versione italiana di un network internazionale).

 

Iscriversi a Gleeden

L’iscrizione a Gleeden (gratuita) è composta da due fasi:

1) la scelta del nickname, il Paese di residenza (è interessante il fumetto che compare accanto alla scelta del paese: “A due passi da te o a chilometri di distanza, tutto è possibile”, un buon rimando alla mancanza e al crollo dei limiti), ciò che si è (donna, uomo, donna impegnata, uomo impegnato) e cosa si cerca (donna, uomo, donna impegnata, uomo impegnato, uomo e donna).

2) il profilo viene completato inserendo una password, la data di nascita, l’email e la propria città.

E’ interessante notare come dopo 30 secondi (di orologio) dalla creazione del profilo (totalmente vuoto, se non per la mia età, il mio nickname e per ciò che cerco) vengo contattata da tre utenti (due tramite chat e uno via messaggio privato), il mio account è aggiunto tra i preferiti di un utente e visitato da altri 6. Il numero aumenterà man mano, così come le richieste di chat, tutte per altro molto educate.

Il regolamento di Gleeden garantisce comunicazioni moderate e controllate, per evitare situazioni spiacevoli. Per completare il proprio profilo è richiesto di segnalare agli altri utenti il genere di relazione ricercata, scegliendo tra: breve, lunga, principalmente virtuale, ogni situazione eccitante, aperto/a a tutto, non ho ancora deciso. Il sito prevede anche un pulsante (stop) che garantisce una rapida uscita di scena, per evitare – forse – di essere rintracciati dal proprio partner o, perché no, dal proprio capo ufficio.

Stando al Corriere della Sera, che ha parlato del social network per incontri extraconiugali già in un articolo risalente al lontano dicembre 2009, l’identikit “del traditore” emersa dallo studio dei profili registrati sul sito era abbastanza chiara: uomo (68% degli aderenti), in media 39 anni, con una buona posizione sociale (il 34% si presentava come quadro). Le donne, invece, all’epoca rappresentavano una minoranza. Sarebbe interessante capire se la “fauna”di questo particolare social network si sia modificata in questi anni, e se sì come.

 

L’evasione condivisa su Gleeden nel vissuto contemporaneo

Rimane valida, a mio avviso, la riflessione fatta in apertura, ossia di come costumi, società, psiche e moralità siano strettamente interrelate tra loro, e come si modellino e modifichino lungo gli anni. In una società ormai quasi priva di tabù (culturali, ma anche psicologici) e soprattutto di regole, in cui l’ambiguo e l’indefinito hanno preso il posto del definito, in cui i ruoli sociali sono pressoché ribaltati o equiparati, un sito che garantisce un’evasione condivisa (anche solo per una sera, anche solo attraverso il canale della chat) va ad intersecarsi perfettamente con il vissuto contemporaneo.

Forse, il sapere di poter incontrare dall’altra parte una persona con lo stesso legame (un matrimonio, o una relazione stabile) potrebbe aiutare a sentirsi meno in colpa, sollevati dalla responsabilità di un gesto simile.

Potremmo anche riflettere sulla “scissione” che un sito del genere può rappresentare per un uomo e/o una donna con un compagno/a. Da un lato, infatti, la persona con cui condividere la quotidianità, magari una famiglia, l’affetto, la tenerezza; dall’altra, una seconda persona con cui sperimentare una configurazione diversa della propria identità, magari quella che vuole evadere dalla routine o da un ruolo che si vive come “troppo stretto”.

Un comportamento simile, che divide in due il sentimento, consente anche di proteggere la relazione “ufficiale” da eventuali pensieri o sentimenti aggressivi, che in ogni rapporto emergono e si manifestano.

In ultima analisi, inoltre, i siti come Gleeden che sponsorizzano incontri extraconiugali favoriscono una trasgressività “comoda”, quasi diciamo pronta, che non richiede nessuno sforzo se non quello di accendere il proprio computer e di – eventualmente – far calare il sipario con un semplice clic.

 

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Spirito natalizio o spirito del Grinch? Le aree cerebrali implicate nelle emozioni natalizie

I risultati mostrano la presenza di una specifica risposta cerebrale che verrebbe stimolata dalla visione di immagini natalizie, ma che sembra essere diversa per le persone che tradizionalmente celebrano il Natale rispetto alle persone che non sono solite celebrarlo.

Con sempre maggiore preavviso, negli ultimi anni, capita che un giorno andiamo a fare la spesa o a fare un giro in centro e troviamo tutto addobbato. E ci viene da pensare “Ci risiamo, anche quest’anno, è arrivato il Natale”. Davanti a questa evidenza, alcune persone reagiscono come bambini euforici e felici davanti alle lucine colorate e ai monumenti addobbati; altre persone si lamentano dello spreco di energia elettrica, della folla, della mercificazione della santità, della commercializzazione dei sentimenti e così via. Poi ci sono le persone che ci provano a fare finta di niente, ma non funziona. Le persone che “Vabbé, alla fine è come se fosse un lungo weekend”, ma non funziona neanche quello, perché nei weekend la gente che incontri non ti fa gli auguri e non gira con pacchi grandi più di te. Il piano B arriva veloce: provi a confrontarti con gli amici, a spiegare loro perché non hai tutta questa voglia di infilarti alla maratona delle cene aziendali, di vedere i bambini che giocano con la neve a casa da scuola, di ricordarti di quando eri piccolo. Qualche amico capisce, qualcuno interpreta forzatamente un’infanzia difficile, forse triste, che viene rievocata col Natale tuo malgrado, la maggior parte però dice che sei strano, che il Natale è così allegro, che non si capisce come puoi non cogliere la magia. Allora finisce che ti rassegni e aspetti pacatamente che arrivi il 7 gennaio, che si riparta con la routine e senza tutte queste luci.

Allora, amici solitari e rassegnati, c’è una novità. C’è chi ha pensato a voi. E non è Babbo Natale. Quest’anno sotto l’albero troviamo la ricerca di un gruppo di studiosi dell’Università di Copenhagen, che si sono chiesti fondamentalmente quello che i vostri amici vi chiedono da sempre: ma cosa c’è che non va in te? Perché non ti piace il Natale? La risposta, ovviamente è dentro di te. Ma anche dentro ai tuoi amici.

Dall’ articolo pubblicato sul British Medical Journal si legge testualmente che l’obiettivo di questo studio era [blockquote style=”1″]identificare e localizzare lo spirito natalizio nel cervello umano.[/blockquote] E per farlo, questo pool di neurologi ha pescato dalla popolazione non clinica (cioè da persone che NON avevano richiesto alcuna terapia) 10 partecipanti “natalizi” e 10 “non natalizi” (8 uomini e 2 donne in ogni gruppo), selezionandoli sulla base delle risposte fornite a una serie di domande tra cui “hai mai celebrato il Natale?”, “quali sono le tue sensazioni rispetto al Natale?” “che emozione associ al Natale?”. Una volta identificati, questi 20 soggetti sono stati tutti sottoposti a una sessione di Risonanza Magnetica Funzionale, uno strumento di neuroimmagine che consente di identificare quali aree cerebrali si attivano sotto specifiche stimolazioni o durante determinati compiti cognitivi. I ricercatori hanno poi mostrato a ogni soggetto una serie di 84 immagini natalizie intervallate da immagini di contenuto neutro, mentre contemporaneamente il loro cervello veniva scansionato nella risonanza. I partecipanti non erano stati messi al corrente dello scopo della ricerca, quindi non erano stati precedentemente sensibilizzati a notare il fatto che alcune immagini fossero di tema natalizio mentre altre fossero neutre.

I risultati mostrano la presenza di una specifica risposta cerebrale che verrebbe stimolata dalla visione di immagini natalizie, ma che sembra essere diversa per le persone che tradizionalmente celebrano il Natale rispetto alle persone che non sono solite celebrarlo. I ricercatori si sono spinti oltre, identificando una “area natalizia” del cervello, che si attiverebbe in risposta a stimoli a tema solo nelle persone natalizie, e che sembra comprendere i lobi parietali, la corteccia premotoria e quella somatosensoriale.

Questo cosa ci dice? I lobi parietali, intanto, sono stati associati alla trascendenza, il tratto personologico che descrive una certa propensione alla spiritualità. Inoltre, la corteccia frontale premotoria è importante per percepire emozioni di condivisione con le altre persone (è lì infatti che si collocano i famosi neuroni specchio, base neurale dell’empatia). Infine, la corteccia somatosensoriale sembra giocare un ruolo importante nel riconoscimento delle espressioni facciali e nella capacità di dedurre importanti informazioni sociali guardando il volto di chi abbiamo di fronte.

Ovviamente, lo studio mostra diversi punti deboli, tra cui senz’altro il campione molto ristretto, così come la possibilità che l’attivazione neurale riportata sia indicativa di un’attivazione emotiva tout-court e non per forza legata al Natale. È anche vero che sono state rilevate differenze tra persone che celebrano il Natale e quelle che non lo celebrano, il che restringe le possibilità interpretative in questo senso.
Insomma, nonostante questo sia senza dubbio uno studio preliminare, potrebbe aprire la strada a interessanti scoperte sul tema, e nel frattempo ci consente di portare una spiegazione “scientifica” allo spirito del Grinch che pervade alcuni di noi. Non sono io, è la mia corteccia.

Anoressia e Terapia Familiare: i cinque elementi clinici fondamentali

 

In questo articolo vengono presentati e discussi i cinque meccanismi patologici fondamentali di resistenza al cambiamento, propri dell’organizzazione famigliare coinvolta nella problematica dell’anoressia.

Anoressia e famiglia: Introduzione

In questo articolo vengono presentati e discussi i cinque meccanismi patologici fondamentali di resistenza al cambiamento, propri dell’organizzazione famigliare coinvolta nella problematica dell’anoressia. Lo spettro clinico che interessa questa esposizione è l’interazione reciproca di ogni attore presente nella famiglia e gli schemi usualmente attivi all’interno del contesto, come anche verso l’esterno – in questo caso il setting clinico terapeutico – del sistema stesso di relazioni. L’approccio che più di tutti sembra avere avuto sviluppi interessanti è l’approccio della terapia sistemico familiare e dell’analisi clinica, in termini sistemici, della patologia individuale innestata alle resistenze individuali e relazionali della famiglia stessa.

Anoressia: la famiglia come cornice e sfondo evolutivo

Il contesto familiare è il substrato fertile, il contesto nodale come anche il palco elettivo per la manifestazione dell’anoressia (Ugazio, 1998). Inserito nel contesto terapeutico vero e proprio, diviene risorsa ed elemento ristrutturante il sintomo stesso in una prospettiva di diagnosi e cura. Uno dei punti nodali, derivato direttamente dalla psicoanalisi freudiana, è il rapporto madre-bambina in prima istanza e, successivamente, la posizione relazionale/affettiva del padre circa le dinamiche specifiche del disturbo.

L’approccio Sistemico Familiare, e la sua variante in termini cognitivo-comportamentali ovvero la Family-Based Treatment – FBT, sono da considerarsi, tecnicamente e strategicamente, gli approcci più indicati, per due punti nodali:

  • Considerano la famiglia come lo sfondo e al contempo la cornice del paziente designato;
  • La famiglia di origine è la radice profonda che ha nel tempo originato/favorito il sintomo stesso.

Salvador Minuchin (Minuchin, 1980) proprio a tal proposito parla di famiglia anoressica e per estensione possiamo a nostra volta usare la variante famiglia anoressizzante/famiglia anoressizzata, una duplice terminologia che sottolinea ed evidenzia come la famiglia, per il terapeuta, sia al centro dell’attenzione clinica dal principio, e a sua volta la paziente designata sia contemporaneamente la portatrice di un disturbo individuale e l’individuo che manifesta lo stile e le dinamiche di un sistema più complesso, ove tutti i soggetti sono, loro malgrado, comunque partecipanti attivi ed attori di uno psicodramma sistemico familiare.

Accogliere, osservare e valutare le relazioni e le relative azioni che intercorrono nella famiglia è centrale per il lavoro terapeutico con chi soffre di anoressia. A questo devono essere aggiunti dei lavori in nulla secondari quali:

  • Tutto il lavoro di recupero e ricostruzione del panorama trigenerazionale (figlia, genitori, nonni);
  • Le linee generazionali in termini di affettività e/o collusione tra i singoli componenti e le rispettive parentele (s’intendono i conflitti, le alleanze, le rotture, i silenzi, i ricongiungimenti);
  • Le triangolazioni relazionali all’interno della famiglia stessa, quando e come avvengono e se sono stabili;
  • Le mitologie familiari che percorrono la famiglia di chi soffre di anoressia.

La famiglia, essendo matrice e dativa dell’identità, o comunque di una parte sostanziale di essa, è luogo dove viene definito il proprio Sé – nel senso più banale – ma anche ciò che organizza e definisce le grandezze, le intensità e modalità della così detta Popolazione di Sé (Perls, 1950) ovvero: le molteplici varianti interne del Sé che cambiano e modulano la loro natura in stretta relazione con un contesto esterno cognitivo/affettivo.

Comorbidità tra anoressia, disturbo di personalità e matrice familiare

Il tema della Popolazione dei Sé (Population of Self, PoS da qui in poi per brevità) è centrale quando l’anoressia nervosa ha una coincidenza, episodica o cronica, con un disturbo della personalità o con una psiosi , eventualità affatto non banale che il clinico può e deve sondare in termini sia di testistica come anche di osservazione/interazione in vivo col nucleo familiare in terapia. L’interpolazione del disturbo anoressico con uno di disturbo della personalità rende, paradossalmente, il lavoro clinico leggermente più facile – almeno nella fase di diagnosi pura e di diagnosi sistemico relazionale – ma ne innalza la difficoltà tecnica nei termini di gestione propria delle dinamiche intra-familiari e ciò per un motivo che è bene spiegare con un adeguato esempio.

Immaginiamo dei pezzi di vetro, schegge di varia grandezza e forma, che vengono posti su un piano fisso l’uno accanto all’altro, e immaginiamo di far passare della luce su di essi: noteremmo differenti e varie polarizzazioni dell’onda in un effetto caleidoscopico. La PoS della paziente con anoressia si comporta allo stesso modo con gli stimoli cognitivi/affettivi derivanti dal sistema familiare accogliendo e restituendo in modo difforme lo stimolo. Ciò che è interessante, di contro, è che anche la famiglia – i genitori o il genitore – agisce e pone in campo la sua Pos dando come esito un gioco di specchi dinamici ove ogni individuo del sistema famiglia risponde ad incastro agli altri.

Ne risulta un sistema dinamico con un suo specifico equilibrio ove la resistenza individuale al cambiamento coincide con i meccanismi patologici di ciascun componente il sistema famiglia. La stretta circolarità delle interazioni, lo scambio reciproco di comunicazioni ed agiti, sia essi consapevoli che inconsci, struttura un sistema internamente basato su risposte di tipo simettrico/asimmetrico (Bruch, 1983) o di escalation di ciascuno e rispetto gli altri. Struttura di personalità individuale, ruolo – implicito/implicito – e livello di funzionamento sono gli elementi sui quali strutturate un’ipotesi di intervento terapeutico circa l’invischiamento che il sistema, e reciprocamente gli individui, presentano.

La resistenza al cambiamento e i meccanismi patologici si auto-declinano in queste seguenti categorie/meccanismi, che a loro volta sono specifici della famiglia anoressizzante/famiglia anoressizzata.

Sistema chiuso – il ruolo dell’ iperprotettività genitoriale nell’anoressia

Ad oggi è possibile affermare con ampia certezza che l’anoressia nervosa è un disturbo individuale con una forte relazione con la storia e le dinamiche di un sistema familiare; da esso possiamo recuperare elementi di una cultura comune nella famiglia, come anche dinamiche oramai strutturate e sedimentate, passate tra le diverse generazioni, con peculiarità e modalità di funzionamento – individuale e d’insieme – quali:

  • Evitamento a qualsiasi forma di conflitto;
  • Atteggiamento iper-protettivo genitoriale;
  • Assenza di regole definite e contigue;
  • Assenza di confini tra il piano genitoriale e quello della prole.

I genitori, in special modo le madri, delle pazienti con anoressia risultano mettere in atto modalità iperprotettive, disciplinari e dominanti (Manara, 1991). Sembra che in questo tipo di struttura familiare siano sopra ogni cosa incoraggiati, e premiati, la disciplina, l’efficenza, l’ordine e il successo, piuttosto che la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza di giudizio, dell’acquisizione di uno stile personale di vita e di una matura consapevolezza.

Un’apparente, ma fragile, armonia tra i membri della famiglia diventa il modo in cui ci si preserva dal realizzare i problemi (e le loro eventuali implicite collusioni) al fine di mantenere una quiete in realtà sempre molto poco calma. A riprova di questo è bene far notare come ad esempio, sempre nel campo dei disturbi alimentari, lo sviluppo di un comportamento di tipo bulimico sembri essere collegato a caratteristiche familiari molto specifiche (Bruch, 2000), come la presenza di modelli familiari e madri molto protettive, con una reciproca carenza di manifestazioni positive di affettività, sostegno o contatto.

Le giovani donne che hanno una difficoltà nel controllo del proprio peso, vivono costantemente un senso di auto-squalifica e di self-judging poiché ritengono di non possedere una volontà abbastanza forte da cambiare il loro stato e conseguente condizione. Quindi venendo a mancare un sostegno positivo da parte della famiglia il senso di auto-squalifica aumenta.

Le figlie con anoressia possono esprimere una totale aderenza al modello materno con il desiderio di soddisfarla, superarla e riqualificarla agli occhi di una figura paterna.

In ambedue i casi abbiamo una manifestazione emblematica di un disturbo del concetto di sé ove il corpo viene spesso esperito come separato dal Sé, come se appartenesse a qualcun’altro, spesso l’ideazione è riferita direttamente ai genitori (L. Mainardi, G.O. Gabbard, 1995). Queste pazienti mancano di qualunque senso di autonomo riconoscimento positivo, al punto da percepirsi come non capaci di tenere sotto controllo le loro funzioni corporee, con un sottostante profondo sentimento di non valere nulla e reinvestono in modo inconscio la loro ansia ed inadeguatezza nella manipolazione della quantità e della dimensione del cibo assunto, questo come agito psicologico riferito figure significative, giudicanti ed esemplari.

Stallo evolutivo – l’influenza delle polarità manipolatorie nell’anoressia

Le ragazze con anoressia tendono a fornire un quadro, una perenne rilettura della loro famiglia sempre e comunque molto rispettabile, socialmente accettabile e quasi scevra da ogni critica o minimo appunto. Tale rilettura continua è da ascriversi in un legame tra l’anoressica e la famiglia ove quest’ultima è il termine di paragone – sia positivo che negativo – di ogni possibile evoluzione personale e di gruppo. Avendo la famiglia come quasi unico tema esistenziale, ed obiettivo condiviso, un livello estremizzato del suo ideale, per definizione irrealistico e per forza di cose castrante un dialogo diretto e senza rigide difese, la paziente con anoressia arriva ad una negazione diretta dei conflitti, degli eventuali fatti specifici – specialmente frustranti – della sua stessa persona e del suo nucleo familiare (De Pascale, 1991) . Ciò che anoressiche e bulimiche hanno in comune e l’incapacità di estraniarsi dal continuo doppio legame – dipendenza e conflitto con le figure genitoriali – con la madre e padre e di percepire la dimensione genitoriale in modo ulteriormente realistico. Ancora un punto di contatto, tra anoressia e bulimia, è che quello che dicono i genitori è, se non sempre giusto, quanto meno appropriato (anche senza un’ammissione diretta o esplicita).

In molte famiglie così strutturate si pone l’accento su un comportamento educato, su una iper valutazione del riconoscimento sociale e dei risultati conseguiti, sulla fierezza dei genitori verso la loro eterna bambina, da sempre, però, ascritta in un ruolo da piccola donna già adultizzata nelle aspettative. Non a caso la mancata espressione dei sentimenti, specie se negativi, è una regola granitica.

Le famiglie di chi soffre di anoressia sembrano quadri perfettamente dipinti, perfetti da esporre al mondo e sempre in attesa del massimo riconoscimento possibile.

Un clima apparentemente pacifico è, invece, molto suscettibile e condizionato dal possibile giudizio esterno, portando le dinamiche interne su un aspetto quasi sempre performante (Onnis, 2004) tutte volte alla potenziale subitanea altrui disconferma e le squalifiche – giudizi, premi – sono continue, anche se non richieste o volute e potenzialmente in crescendo.

La Selvini Palazzoli (1963, 1998), proprio sulla qualifica/squalifica reciproca nella famiglia, individua proprio in un continuo da Minuchin un altro elemento caratteristico di questo nucleo familiare: la possibilità che esista una polarità semantica di fondo Vincente/Perdente e che questa qualifica/squalifica rappresenterebbe esattamente la necessità di vincere e di uscire vittoriosa (per l’anoressica) da una lotta evolutiva impostata però su termini di potere patologico e labilità dell’Io.

Confusività – l’assenza di confini relazionali definiti nelle pazienti con anoressia

Minuchin (1980) fa notare come l’assenza di piani e ruoli definiti sia il motore primo nel favorire questo disturbo e come, paradossalmente, in un simile meccanismo familiare siano presenti confini molto rigidi tra l’interno e l’esterno della famiglia stessa, mentre dentro il sistema famiglia (tra i congiunti) i confini sono estremamente labili e non vi è quasi nessuna differenziazione tra un membro e l’altro, tra il piano genitoriale e quello dei figli e le rispettive peculiari responsabilità e/o risorse.

Il nascere, crescere, svilupparsi in un tale meccanismo produce uno spiccato, irrealistico, bisogno alla relazione con l’altro e ciò perché l’altro, manipolato o colluso in un sistema di potere ruolistico, definisce il Sé della persona in diretta relazione con essa.

Questo sistema esprime quindi una forte conflittualità che non solo non è affatto celata, ma diviene una dinamica manifesta elementare e continua all’interno della famiglia stessa, ove i giochi di manipolazione – seduttiva o collusiva – sono all’ordine del giorno e il riconoscimento dell’altro può passare solo attraverso una qualifica di giudizio qualificante/squalificante permanendo, quindi, in uno stato di belligeranza continua dove l’attenzione o affetto o approvazione altrui sono la meta ed il premio di ogni possibile dinamica.

Il senso di ultra responsabilizzazione, efficenza, efficacia e rigidità nell’anoressia (Selvini Palazzoli, 1998) è proprio da ascriversi in questo bisogno della paziente di qualificarsi tramite la squalifica altrui, in un gioco di superamento dove il livello massimo possibile è l’anoressica stessa che, come si ritrova nella letteratura clinica, elargisce consigli, trova soluzioni, studia, lavora, prepara da mangiare e gestisce le porzioni il tutto stando e agendo dal suo stesso disturbo in quanto figlia problematica e al contempo giovane genitore adeguato.

Anoressia e squalifica del maschile – perifericità del padre

L’elemento collusivo dell’identità nell’anoressia (Manara,1991) è il confronto e scontro con una madre percepita come ambivalente, potente come anche desiderabile nei suoi attributi sostanziali. Il gioco in campo è tutto al femminile e la figura paterna è quasi sempre in posizione periferica rispetto ad esso, o come osservatore e giudice dei giochi manipolatori o come termine di triangolazione nelle collusioni più violente ove si vuole acquisire un’alleanza.

Di contro, nello stile cognitivo/affettivo anoressico (Gabbard, 1995), si enuclea una progressiva idea del maschile profondamente squalificata, in termini di costruzione interna di un oggetto relazionale reale e realistico.

L’ambivalenza prima vissuta verso la madre è, poi, trasbordata anche sul padre (Gabbard, Selvini Palazzoli; 1995, 1998) ma questa volta nei termini di un padre prigioniero di una moglie affettivamente povera, affidabile ma carente di calore ed attenzioni e ciò è terreno fertile per la paziente con anoressia nel suo profondersi in cure ed attenzioni, ove l’idea sottostante è comunque quella di un maschile inadeguato, soggiogabile, inefficace o, in altre parole, come propagine consequenziale di un femminile potente ma coercitivo, rassicurante ma freddo, efficiente e mai vulnerabile.

Istrionismo identitario – l’inadeguatezza cronica nell’anoressia

Chi soffre di anoressia tende ad focalizzare tutta la vita familiare sulla sua patologia (Gabbard, Selvini Palazzoli; 1995, 1998), letteralmente indossandola, manifestandola ed animandola nei confronti sia dei familiari che di eventuali osservatori esterni. Ciò, sia a livello individuale che familiare, ha due distinti obiettivi:

  • L’accentramento del focus di attenzione sull’anoressia, come disagio – quindi identità anche se patologica comunque definita e raggiunta – e come elemento di prova, di sopportazione, rispetto i giudizi e valutazioni altrui, specie nei confronti della madre e poi del padre (Gabbard, 1995);
  • Manifestazione tangibile ed evidente di cronica inadeguatezza personale ma anche di conflitto – sintomo – non veramente espresso nei confronti della madre (Gabbard, 1995; Manara, 1991) .

Questo istrionismo identitario molto pronunciato, in cui anche l’abbigliamento e le movenze servono ad accentuare la più o meno evidente patologia sul corpo, è un esercizio di narcisismo che il paziente designato – l’anoressica – attua in quel sistema ascritto di perfezione e rispettabilità proprio del sistema familiare anoressizzato (De Pascale, 1991). Molte ragazze si esprimono con modalità assai simili, usando perfino immagini quasi identiche per dire che tutta la loro vita è stata dominata dal desiderio di soddisfare le proprie/altrui aspettative e dal costante timore di essere impari, meno brave di altri e pertanto causa di grosse delusioni. Questa inadeguatezza cronica è letteralmente contenuta e ridefinita nell’anoressia stessa, dove la plateale manifestazione dei segni anoressici – dimagrimento, trucco eccessivo, capelli lunghissimi e gonfi, abbigliamento ora troppo ampio ora violentemente aderente, ecc. – è sia una dichiarazione di sofferenza sia la sfida continua a stabilire, perseguire e conseguire obiettivi sempre più desiderabili e ciò mangiando il poco del pochissimo o addirittura nulla.

Non a caso l’angoscia e lo scontento riferito in terapia da ragazze con anoressia (L. Mainardi, G. O. Gabbard, 1995) contrasta, ad esempio, con non rari e straordinari risultati scolastici, con numerose e complesse attività, col volontariato, competizioni o addirittura vincenti gare sportive. Questa posizione di Istrionismo/Inadeguatezza (Ugazio, 1998) ha numerosi, riconosciuti, effetti e reazioni paradossali sulla famiglia:

  • Confina il malessere solo e solamente sulla ragazza;
  • E’ paradossale motivo di soddisfazione ed orgoglio, nonostante il disturbo;
  • Sminuisce la gravità individuale dell’anoressia procrastinando incontri specialistici tra cui la terapia familiare;
  • Distoglie dai vissuti di impotenza ed inadeguatezza genitoriali;
  • Mistifica e distorce altre triangolazioni in atto, ad esempio verso una sorella o un fratello o altri familiari componenti il nucleo.

 

Conclusioni

I cinque meccanismi patologici fondamentali, di resistenza al cambiamento, propri dell’organizzazione familiare coinvolta nella problematica dell’anoressia, se considerati in un approccio sistemico-relazionale, permettono, come se ne deduce, uno spettro di azione estremamente ampio al clinico dedicato, ponendolo in una prospettiva di efficacia ed efficienza ancor più incisiva perché capace di considerare il Sistema nelle sue cinque Condizioni cliniche fondamentali. L’agire solo sul termine patologicamente designato – il soggetto anoressico attivo – ha dimostrato come l’incisività e la tenuta del lavoro terapeutico sia costantemente a rischio perché parziali e in debito evolutivo con tutto il sistema in esame, mentre attenendosi a questi cinque punti nodali il coinvolgimento della famiglia è non solo la tipologia di terapia certamente più difficile da attuarsi in casi di anoressia, ma anche quella con maggiori probabilità di porre in essere significativi quanto stabili cambiamenti.

La Motor imagery & il suo impiego nella Psicologia dello Sport

Marchesoli Valeria, Mazzucco Luca, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Motor imagery: si tratta di un’esperienza che può risultare estremamente reale, tanto da spingere Conway (2001) a definirla “simil-esperienziale”, grazie alle sue qualità sensoriali, alle emozioni che la accompagnano ed alle credenze metacognitive dei soggetti riguardanti il significato delle immagini elaborate.

1 – DEFINIZIONE DI IMAGERY E MOTOR IMAGERY

[blockquote style=”1″]L’immaginazione è più importante della conoscenza[/blockquote] citava Einstein nel 1929.

Beck (2014) ha dichiarato [blockquote style=”1″]Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni interne, cosa decisamente favorita dall’imagery.[/blockquote] Queste due affermazioni evidenziano il ruolo positivo che l’imagery può ricoprire nell’affrontare la psicopatologia ma anche le sfide quotidiane. L’imagery può essere definita come una [blockquote style=”1″]esperienza quasi-sensoriale e quasi-percettiva che avviene in assenza di condizione stimolo esterna[/blockquote] (Kosslyn, Ganis & Thompson, 2001).

Si tratta di un’esperienza che può risultare estremamente reale, tanto da spingere Conway (2001) a definirla “simil-esperienziale”, grazie alle sue qualità sensoriali, alle emozioni che la accompagnano ed alle credenze metacognitive dei soggetti riguardanti il significato delle immagini elaborate. Esistono diverse tipologie di imagery. Munzert e collaboratori (2009) distinguono tra “visual imagery” (VI), centrata su aspetti esterni, con un’attenzione particolare alla relazione tra corpo e ambiente e motor imagery (MI), focalizzata sugli stati interni e con un’attenzione diretta ai propri movimenti e all’agenticità delle proprie azioni. Gli autori sottolineano come le immagini visive possono coinvolgere tutti i sensi, mentre le immagini dinamiche dell’atto motorio si concentrano principalmente su cinestetica e/o informazioni visive. La Motor Imagery (MI) costituisce uno strumento centrale dell’allenamento sportivo e viene definita da Moran e collaboratori (2012) come una [blockquote style=”1″]capacità cognitiva che permette un’esperienza motoria in assenza di alcuna attivazione muscolare[/blockquote].

Ridderinkhof e Brass (2015), in un importante lavoro di sintesi, mettono in luce alcuni aspetti fondamentali della motor imagery: – la motor imagery si basa sull’attivazione interna di un’immagine anticipatoria degli effetti generati dall’azione specifica: – tale rappresentazione motoria conduce ad un processo di emulazione interna delle azioni motorie pianificate molto simile a ciò che avviene nella realtà; – il confronto tra gli effetti dell’azione anticipata e gli effetti dell’emulazione interna può generare un segnale di errore che costituisce la base per il miglioramento della prestazione motoria, anche senza l’esecuzione del movimento reale; – tale meccanismo evolutivo avverrebbe in regioni cerebrali sovrapponibili a quelle coinvolte nell’azione motoria reale.

2 – MOTOR IMAGERY, EFFETTO CARPENTER, EQUIVALENZA FUNZIONALE E CORRELATI NEURALI

La Teoria Psiconeuromuscolare (Carpenter, 1894) ha cercato di spiegare il funzionamento della motor imagery secondo il principio ideomotorio definito «effetto Carpenter». Tale effetto sostiene che il cervello dell’atleta che esegue la motor imagery, invia configurazioni di impulsi neuromuscolari simili a quelli originati durante l’esecuzione reale del medesimo comportamento motorio, fornendo un feedback neuromuscolare che permette aggiustamenti al programma motorio stesso. Questo processo di “attivazione specifica”, eseguito in assenza di movimento reale, ma rilevabile attraverso misure del potenziale elettrico muscolare (EMG) sui muscoli interessati dall’attività immaginativa, faciliterebbe l’apprendimento di abilità motorie.

Pascual-Leone e collaboratori (1995) hanno rilevato che le modificazioni nella mappa della corteccia sensomotoria dopo un training motor imagery sono simili a quelle ottenute con esercizio fisico. Kosslyn e collaboratori (2001), partendo dai risultati di numerosi studi di brain imaging (fMRI e EEG), hanno proposto la teoria della “equivalenza funzionale” secondo la quale VI e motor imagery reclutano strutture e/o processi neurali simili alla reale attività di percezione visiva e di attività motoria. Tale evidenza sostiene inoltre il ruolo che l’attività di imagery può ricoprire nel controllo delle emozioni associate alle attività coinvolte. Munzert e collaboratori (2009) sottolineano che le aree corticali coinvolte in un compito motorio sono numerose (corteccia motoria primaria (M1), area motoria supplementare (SMA), area motoria presupplementare (pre-SMA), le porzioni ventrali e dorsali della corteccia premotoria (PMC)), che tali aree sono strettamente legate a cervelletto e gangli della base e che altre aree sono importanti per l’esecuzione motoria (corteccia somatosensoriale primaria (S1) e parte del lobo parietale, in particolare la corteccia parietale superiore ed inferiore). Recenti studi hanno rilevato che tali aree sono attivate sia dalla motor imagery sia dall’esecuzione reale del movimento motorio immaginato (Munzert, Loreya & Zentgrafa, 2009). Porro e collaboratori (1996) sottolineano però che la corteccia motoria primaria (M1), durante la motor imagery, presenta un’attivazione con intensità ridotta rispetto all’esecuzione reale, mettendo in luce come la differenza tra l’attività cerebrale durante la motor imagery e durante l’esecuzione della stessa attività motoria sia esclusivamente di tipo quantitativo e non qualitativo.

3 – MOTOR IMAGERY: ESPERTI VS NOVIZI

Esiste però una differenza nell’equivalenza funzionale tra motor imagery e esperienza motoria reale che dipende dalle caratteristiche del soggetto, specificate da Jeannerod (2006) e Milton e collaboratori (2008): – capacità di immaginazione – esperienza relativa al determinato compito motorio – attenzione selettiva (tipicamente il novizio utilizza un livello di attenzione troppo elevato o eccessivamente ridotto) – interazione tra sistema limbico e cognitivo (una maggiore attivazione del sistema limbico è associato ad una ridotta attività nelle aree cerebrali coinvolte nella pianificazione motoria e nel meccanismo di ricompensa). A supporto di tale ipotesi risulta importante il lavoro di Lotze e collaboratori (2001) che hanno rilevato come i pazienti con amputazione dell’arto superiore, durante la MI della mano fantasma, mostrino un’attivazione della corteccia motoria contro laterale, cosa che non avviene in soggetti nati senza il braccio e che quindi non hanno potuto maturare l’esperienza relativa all’uso dell’arto mancante. Anche Wei e Luo (2010), attraverso studi fMRI, hanno rilevato che gli sportivi esperti, rispetto ai novizi, durante la motor imagery relativa al loro sport, presentano una maggiore attivazione del paraippocampo e dell’area prefrontale, aree rilevanti per la rappresentazione ed il controllo motorio. Nessuna differenza emerge invece se la motor imagery riguarda azioni non specifiche di quel determinato sport. In definitiva, maggiore è l’esperienza in una determinata attività motoria, maggiore è il risultato della motor imagery relativa ad essa.

4 – MOTOR IMAGERY: LE DIMENSIONI DELL’ABILITÀ IMMAGINATIVA

L’acquisizione della capacità immaginativa richiede un allenamento sistematico, che deve basarsi sulle caratteristiche fondanti della Imagery, che Conway e Pleydell-Pearce (2000) riassumono in: – vividezza delle immagini (chiarezza, forma e ricchezza sensoriale con cui l’immagine motoria viene costruita) – controllo delle immagini (facilità e accuratezza con cui l’immagine può essere trasformata e manipolata a livello mentale) – immagine negativa (associata alla psicopatologia e ad immagini intrusive) – immagine positiva (usata per simulare ed esercitare modalità più adattive di agire) – immagine creata volontariamente – immagine recuperata involontariamente (tipicamente un ricordo che emerge spontaneamente) – first-person perspective (1PP) (il soggetto immagina di eseguire l’azione osservando tramite i propri occhi e usando tutti i propri sensi, come se avesse una videocamera posizionata sulla propria testa) – third-person perspective (3PP) (il soggetto immagina di osservare l’azione dall’esterno, come se una videocamera riprendesse un film di cui è protagonista). In pratica non si tratta semplicemente di sviluppare la capacità di “vedere”, ma di “sentire” tutta la ricchezza sensoriale dello stimolo e i suoi correlati cognitivi ed emotivi, evitando l’insorgere di immagini involontarie e negative in grado di rendere l’esperienza di imagery iatrogena. Un valido esempio in tale senso è rappresentato dal DPTS, dove l’imagery è negativa, involontaria ed estremamente vivida e angosciante, arrivando anche ad assumere la forma di un vero e proprio flashback dissociativo, in cui il soggetto perde il contatto con la realtà attuale e rivive quanto accaduto nell’evento traumatico (Van der Kolk, 1994). È quindi evidente che un utilizzo errato della motor imagery può avere esiti negativi.

5 – UTILIZZO DELLA MOTOR IMAGERY

Jones e Stuth (1997) evidenziano che la motor imagery è tipicamente utilizzata da: – PAZIENTI per recuperare abilità motorie perse o compromesse da disturbi neurologici. Page e collaboratori (2007) hanno dimostrato che pazienti colpiti da ictus cerebrale trattati con un programma che includeva una pratica motoria sia fisica che mentale, dimostravano una riduzione significativamente maggiore della menomazione dell’arto, rispetto a pazienti che eseguivano esclusivamente una pratica fisica ed esercizi di rilassamento. – ATLETI E ARTISTI, per migliorare la propria prestazione, regolare il proprio stato di attivazione, identificare e/o modificare pensieri e immagini maladattive (noia, scarsa autostima, bassa motivazione, limitata concentrazione), riabilitazione dagli infortuni. Attualmente la prevalenza di utilizzo della motor imagery riguarda l’ambito della Psicologia Positiva e della Psicologia dello Sport.

6 – MOTOR IMAGERY E SPORT

Nello Sport la motor imagery costituisce una componente fondamentale della preparazione mentale degli atleti ed il suo uso è ampiamente diffuso tra gli atleti professionisti come tecnica complementare all’allenamento sul campo. Jones e Stuth (1997) stimano infatti che tra il 70% e il 99% degli atleti di elite utilizzi la motor imagery nei propri allenamenti in sport quali: tennis, tiro con l’arco, golf, ginnastica, sci, motociclismo, calcio e basket. Si tratta di sport molto diversi tra loro, che indicano l’adattabilità della motor imagery alle due capacità fondamentali che uno sportivo deve possedere:
– “closed motor skills” (es. il servizio nel tennis, il tiro a canestro nel basket, il tiro con l’arco), dove l’attività è indipendente dal contesto ambientale

–  “open motor skills” (es. la volèe nel tennis, il calcio di rigore nel calcio), dove il movimento è legato a stimoli ambientali (es. movimento della pallina, linguaggio del corpo dell’avversario).

I motivi di tale successo vanno ricercati nella forte connessione mente-corpo che caratterizza ogni sport e che rende l’uso della motor imagery una pratica spontanea per gli atleti. Infatti: 1. Ogni azione sportiva è un’attività polisensoriale 2. L’atleta è allenato a percepire ogni sensazione che proviene dal corpo (tramite la motor imagery attiva processi che sperimenta quotidianamente, ad esempio, nel tennista l’immagine mentale del tenere una pallina in mano, avvia immediatamente il repertorio di sensazioni associate a questa situazione) 3. Le sensazioni corporee guidano l’atleta in un costante processo di autoregolazione al fine di dominare la fatica, gestire gli errori, distribuire le sue energie 4. L’atleta riconosce molto bene le emozioni, vissute spesso in maniera estrema durante le competizioni. Mal di stomaco, cuore in gola sono esperienze facilmente rievocabili dagli atleti. Di conseguenza, anche a distanza di tempo (come nel DPTS), la rievocazione mentale di queste condizioni psicologiche comporterà l’attivazione di tutte le sensazioni collegate.

7 – SPORT, MOTOR IMAGERY E MODELLO PETTLEP

Il protocollo di motor imagery più utilizzato in ambito sportivo è il modello PETTLEP (fig.1) di Holmes e Collins (2001). Esso si basa sul concetto di “equivalenza funzionale” e definisce gli aspetti fondamentali per l’efficacia della sua applicazione: 1. Physical (l’imagery deve essere di tipo fisico). Sottolinea inoltre che far precedere una motor imagery da una fase di rilassamento potrebbe avere ripercussioni negative sulla prestazione reale. 2. Environment (il contesto immaginato deve essere simile a quello reale) sottolinea la necessità di stimolare, con script opportuni o filmati, la percezione dell’atleta di trovarsi in contesti familiari (di allenamento o competizione) tali da permettergli di vivere l’esecuzione della prestazione come se realmente stesse accadendo     3. Task (il compito immaginato deve essere adattato alle abilità del soggetto) definisce la necessità di una «coerenza fisiologica» fra l’attività immaginativa e competenza reale dell’atleta 4. Timing (I tempi di esecuzione devono essere simili a quelli reali) 5. Learning (il compito deve mirare all’incremento delle capacità del soggetto) sottolinea la necessità di mantenere un’equivalenza funzionale fra l’effettivo apprendimento fisico/tecnico/tattico dell’atleta e il suo processo di imagery 6. Emotion (l’esperienza di imagery deve elicitare le stesse emozioni emergenti nella realtà) evidenzia la rilevanza della componente emozionale dell’imagery, in grado di migliorare le risposte emozionali che l’atleta vive in setting competitivi; 7. Perspective (il punto di vista 1PP è quello più adatto per la maggior parte di sport).

8 – VISUAL IMAGERY, MOTOR IMAGERY E RIABILITATAZIONE SPORTIVA

L’infortunio è un evento comune fra gli atleti e la gravità dell’infortunio può impedire il normale allenamento motorio. VI e motor imagery possono coadiuvare l’atleta ad affrontare il processo riabilitativo intervenendo su diversi aspetti : – GESTIONE DEL DOLORE mediante – immagini dissociative (immagini che distraggono il pensiero dal dolore) aventi l’obiettivo di far sviluppare al soggetto un’immagine mentale multisensoriale di sé, immerso in un ambiente tranquillo e rilassante (soggettivamente significativo), che potrebbe agevolare la riduzione dell’attività del sistema nervoso simpatico, consentendo una graduale diminuzione della tensione muscolare con una riduzione della distribuzione degli impulsi del dolore – immagini associative (immagini focalizzate sul dolore) volte a conferire al dolore delle vere e proprie proprietà fisiche (forma, dimensione, colore, movimento). Identificate le caratteristiche multisensoriali associate alla sensazione di dolore è possibile, modificandone il contenuto, trasformarle in sensazioni in grado di provocare uno stato di sollievo (ad esempio, paragonando delle fitte ad un arto a delle pugnalate inferte con la punta di un coltello acuminato è possibile immaginare che il coltello pian piano diventi spuntato fino a trasformarsi in un coltello di plastica con una conseguente riduzione della sensazione di dolore).
– PROCESSO DI RIABILITAZIONE l’atleta infortunato visualizza, in stato di rilassamento, immagini mentali che prevedono il superamento ottimale delle fasi utili al completo recupero fisico e di ritorno alle competizioni (mastery approach), inserendo anche rappresentazioni mentali delle proprie abilità di coping utili a superare in maniera efficace i possibili problemi reali e/o previsti (coping style of imagery) che si incontrano in fase di riabilitazione. – PRESTAZIONE dei movimenti o azioni complesse che l’atleta infortunato non è in grado di compiere.

9 – IO, L’AZIONE E LA MOTOR IMAGERY

Il successo della motor imagery sulla prestazione sportiva reale dipende dal singolo atleta; per questo motivo è fondamentale sviluppare script personalizzati che contengano informazioni soggettivamente significative per quell’atleta. Ronaldinho, vincitore del Pallone d’oro 2006, dichiara: [blockquote style=”1″]Il mio allenamento prevede anche la creazione di un’immagine mentale di come passare al meglio la palla a un mio compagno. Lo faccio sempre, prima di ogni partita, ogni giorno e ogni notte, immaginare un modo di giocare a cui nessun altro ha pensato, tenendo sempre a mente i miei punti di forza e quelli dei miei compagni.[/blockquote]

Quello che segue è un esempio di script motor imagery (basato sul modello PETTLEP) utilizzato da un atleta professionista dei 100 metri piani durante i giorni precedenti la gara e nella fase di riscaldamento (Lucidi, 2001): Assumo una posizione comoda … chiudo gli occhi … faccio dei respiri profondi … Sento i punti d’appoggio del mio corpo sul lettino … la nuca … le spalle … i glutei … i talloni. Ho ultimato il riscaldamento … entro in pista … mi avvicino alla partenza dei 100 metri … sono dietro ai blocchi di partenza … vedo la corsia di fronte a me … vedo il pubblico … lo sento … vedo lo starter … vedo gli avversari al mio fianco … ho una grande voglia di correre forte … mi concentro solo su me stesso … sento i miei muscoli pieni di energia e di forza. Mi posiziono sui blocchi … sento il battito cardiaco che aumenta … sento l’adrenalina che sale sento il colpo di pistola … esco dai blocchi come un’esplosione … eseguo i primi appoggi lunghi e potenti … eseguo la fase di accelerazione fluida … sento il vento sul viso … le gambe si muovono veloci … il traguardo è sempre più vicino … supero la linea del traguardo … respiro … mi giro verso il tabellone elettronico e leggo il risultato che attendevo … ho ottenuto la prestazione che mi aspettavo … sento dentro di me emozioni positive.

10 – IO, L’ALTRO, L’AZIONE E LA MOTOR IMAGERY

Ridderinkhof e Brass (2015) evidenziano che la motor imagery oltre a permettere di apprendere, migliorare ed affinare una propria determinata capacità motoria, potrebbe anche consentire un percorso inverso: imparare, migliorare ed affinare la nostra capacità di predire le intenzioni motorie altrui, partendo dal riconoscimento delle caratteristiche cinestetiche attuali. In tale compito ricoprirebbe un ruolo centrale il “sistema corticale dei neuroni specchio” (mirror neuron system – MNS). La motor imagery sarebbe quindi al centro di un “doppio processo” che permetterebbe di migliorare le attività motorie in ambito “competitivo-relazionale” come ad esempio nel parare un calcio di rigore.

Non è dai particolari che si vede un giocatore Il calcio di rigore è spesso fondamentale per decidere le sorti di una partita di calcio. Si tratta di un confronto impari tra rigorista e portiere, dato che statisticamente solo il 20% dei rigori viene parato (Dohmen, 2008). Infatti, il portiere ha una sola possibilità: rispondere a ciò che vede nel tempo che intercorre tra il momento in cui la palla è colpita e il momento in cui la palla supera la linea di porta, tempo stimabile in 500-700 ms (Franks & Harvey, 1997). L’unica alternativa per il portiere sarebbe partire prima che la palla sia colpita dal rigorista, ma questo vorrebbe dire indovinare dove andrà a finire la palla, o meglio, sapere dove il tiratore pensa di voler mettere il pallone. Memmert e collaboratori (2013) hanno individuato le caratteristiche insite nel movimento dei rigoristi prima di calciare la palla, che influenzeranno la direzione della palla stessa: – obliquità della rincorsa – orientamento e rotazione del busto, – orientamento e posizionamento del piede che non calcerà la palla. L’orientamento del piede di supporto in particolare, rappresenta l’aspetto maggiormente predittivo della direzione che assumerà la palla, in quanto tende a puntare nella direzione dove la palla si sta dirigendo. Savelsbergh e collaboratori (2010) hanno dimostrato che tramite l’osservazione video dei calci di rigore i portieri possono ottimizzare la loro capacità di riconoscere tali caratteristiche.

Ridderinkhof e Brass (2015) evidenziano però che il portiere non si limita ad osservare le caratteristiche cinematiche di colui che calcia il rigore, ma che collega tali caratteristiche alla propria esperienza cinestetica, esattamente come se fosse lui ad eseguire l’azione.
Il portiere ha quindi bisogno di un ricco modello generativo dell’effetto sensoriale, che può acquisire osservando molti calci di rigore realizzati da altri giocatori, ma anche acquisendo una esperienza diretta nel tiro dei calci di rigore. In definitiva il portiere più abile sarà il portiere – in grado di “leggere” la cinematica del corpo dell’avversario – che possiede il più ricco repertorio di calci di rigore (eseguiti realmente o tramite motor imagery). Previsioni simili possono essere fatte per altri sport quali ad esempio la risposta nel tennis.

In conclusione, il target dell’atleta impegnato in attività di tipo “closed motor skills” è quello di utilizzare la motor imagery al fine di affinare sempre più i propri comportamenti motori. L’atleta impegnato anche in attività di tipo “open motor skills”, dovrà anche essere in grado di osservare i particolari dei movimenti altrui, ma soprattutto di eseguire quei determinati movimenti, diventandone un esperto.

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