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Il tormento del cercatore di tracce II parte – Tracce del tradimento Nr. 38

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVIII: il tormento del cercatore di tracce II parte

 

Continuiamo la nostra analisi dei meccanismi mentali che fanno sì che la diffidenza e la sfiducia, e quindi la gelosia e la ricerca di tracce di tradimento, si perpetuino auto-alimentandosi.

Nello scorso articolo abbiamo visto i meccanismi di pensiero. Ora vedremo altri meccanismi mentali, come la memoria. La memoria non appare come un archivio stabile e immodificabile delle esperienze passate, archivio dal quale, tutt’al più, vengono eliminati i fascicoli più antichi per lasciar posto ai nuovi. I ricordi e l’attribuzione ad essi dei significati è un processo attivo in cui la attuale visione di sé e del mondo riorganizza in modo ad essa congruente i frammenti del passato modificandone i particolari e soprattutto il significato. Così, ad esempio, la assoluta disponibilità di una persona era giudicata tale fino a che essa era considerata amica, ma dopo un tradimento gli stessi episodi vengono letti come manovre destinate ad ingannare conquistando stima ed amicizia al fine di approfittarsene successivamente. In tal senso la memoria è un cantiere in continua ristrutturazione in quanto l’ingegnere che cura i lavori cambia continuamente il progetto.

Gli elementi troppo inconciliabili con la “attuale visione delle cose” non trovano posto e finiscono accantonati, dimenticati in un angolo, rimossi; salvo poter essere ripescati quando un nuovo progetto si fa strada. Così il cercatore ripensando alla storia con il suo partner ricorderà soltanto quegli episodi che confermano la sua inaffidabilità o la sua preferenza per la persona sospettata di essere il rivale. Questi episodi, invaderanno tutto il campo della coscienza e faranno scomparire gli altri che invece disconfermerebbero l’ipotesi del tradimento. Mille prove di amore non saranno nulla di fronte a quell’unica prova di disinteresse o trascuratezza.

La gelosia aumenta la disponibilità mentale di immagini, pensieri e ricordi congrui con essa. Anche quando dei dati contrastanti sono registrati nel presente sfuggendo alla disattenzione selettiva o recuperati dal passato non essendo oggetto di oblio selettivo possono essere reinterpretati con ipotesi ad hoc. Infatti non esiste fatto che non possa essere reinterpretato in modo diverso e persino opposto. Una ipotesi ad hoc è una spiegazione inventata apposta per giustificare un fatto che metterebbe in discussione il nostro modo di vedere le cose, in modo da poterlo mantenere indisturbato. La gentilezza può essere vista come una manovra per avvicinarsi con l’inganno; un regalo come un modo di depistare le indagini, un espresso desiderio sessuale come la volontà di camuffare un crescente disinteresse o un risveglio della sessualità dovuto alla relazione con il rivale; la proposta di trascorrere un weekend insieme come la prova che c’è qualcosa da farsi perdonare.

Insomma non c’è mai una prova definitiva che l’altro sia sinceramente fedele, ogni evento si presta a molteplici interpretazioni a conferma dell’idea del tradimento. Negli esempi precedenti abbiamo riportato fatti considerati normalmente segno di affetto e di interesse ma lo stesso meccanismo può essere applicato, ancora più facilmente, a fatti del tutto indifferenti: l’idea di acquistare un’auto o un vestito può essere segno di vanità e di desiderio di conquista; la scrupolosità sul lavoro al desiderio di far colpo su un collega; l’attività sportiva come indizio di voglia di migliorare il proprio corpo per essere più seducente e così via.

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

La mindfulness coi pazienti affetti da fibromialgia – Mindfulness per fibromialgia

Mindfulness per fibromialgia: Il trattamento basato sulla mindfulness si rivela particolarmente utile in coloro che soffrono di fibromialgia, poiché consente di separare la risposta affettiva al dolore dalle ruminazioni sul dolore stesso e dal conseguente sviluppo di sintomi depressivi.

Elena Cristina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La fibromialgia è un disturbo da dolore cronico diffuso che colpisce sia i muscoli e le articolazioni sia il tessuto molle o fibroso, caratterizzato da fragilità, stanchezza e sonno non ristoratore. I criteri diagnostici dell’American College of Rheumatology includono dolore alla palpazione in particolari punti del corpo (tender points), disturbi del sonno, rigidità e tensione muscolare, disturbi cognitivi; sono comuni difficoltà di apprendimento e di memoria. E’ presente altresì una disregolazione del sistema neuroendocrino e la sua compromissione funzionale può talvolta essere assai profonda (Wolfe, 1990).
L’eziologia è tuttora sconosciuta sebbene molteplici fattori sono coinvolti nella sua insorgenza e sviluppo: fattori biologici, genetici e ambientali (Geoffroy et al., 2012).

Si stima che la fibromialgia abbia una prevalenza compresa tra l’1% e il 3% all’interno della popolazione americana, principalmente nel genere femminile, con un rapporto di 9:1 rispetto alla popolazione maschile. Sebbene non sempre evidente in tutti i pazienti, sono molto comuni anche sintomi depressivi, esacerbati dalla sintomatologia fisica. In circa il 18% delle persone con fibromialgia si rileva la presenza di depressione maggiore, con un tasso di prevalenza nel corso della vita tra il 58% e il 69%.

Il trattamento della fibromialgia è realizzato con antidepressivi, farmaci per il sonno e/o anti-infiammatori e analgesici.
Dal momento che molti dei trattamenti medico-farmacologici risultano inefficaci, i pazienti affetti da fibromialgia sperimentano spesso sentimenti di disperazione ed impotenza, aggravando ulteriormente la sintomatologia depressiva (Bennett,1996).

Le persone con fibromialgia soffrono alti livelli di distress e durante i loro episodi di crisi utilizzano in maniera massiccia i servizi sanitari, con notevole dispendio di risorse economiche (Penrod et al., 2004; Dobkin et al.,2003).
I sintomi psichiatrici possono esacerbare il dolore fisico e la compromissione del loro funzionamento generale, rappresentando gli aspetti più difficili da trattare della sindrome, ancor più dei meri disturbi fisici.
I risultati di differenti meta-analisi suggeriscono che l’optimum terapeutico prevede la combinazione di interventi medico-farmacologici, esercizio fisico ed interventi psicosociali; inoltre attestano che i più ampi miglioramenti si sono riscontrati in quei piani di trattamento che includono interventi di tipo non farmacologico (Rossy et al.,1999;Wigers et al. 1996; Redondo et al., 2004). Uno di questi è il programma MBSR, sviluppato originariamente da Jon Kabat-Zinn presso la Facoltà di Medicina dell’Università del Massachusetts.

Mindfulness

L’intervento Mindfulness-Based Stress Reduction o MBSR è stato sviluppato allo scopo di ridurre la sofferenza tra quei pazienti che soffrono di dolore cronico. Il programma MBSR utilizza delle tecniche e delle abilità di riduzione dello stress, tra le quali varie pratiche di meditazione formale, come la meditazione seduta, lo hatha yoga e una serie di altre tecniche con una focalizzazione sulla dimensione corporea, ad esempio il body scan. I partecipanti sono invitati a dirigere e a mantenere l’attenzione all’esperienza immediata, nel presente, assumendo un’attitudine interiore di apertura, accettazione, curiosità e compassione. Basato sulla tradizione di pratica meditativa buddista vipassana, il training MBSR incoraggia l’assunzione di una consapevolezza non giudicante nei confronti delle proprie esperienze, siano esse cognitive, emotive e somatiche, momento per momento. La posizione decentrata è considerata la chiave per scollegarsi dai propri schemi mentali, cognitivi e affettivi, per giungere ad un miglior adattamento e ridurre l’impatto negativo di pensieri ed emozioni, sensazioni associati al dolore cronico.

Gli effetti della partecipazione ad un programma MBSR sono stati esaminati in un’eterogeneità di condizioni cliniche, ad esempio, disturbi del comportamento alimentare, malattie cardiovascolari, dolore cronico, malattie oncologiche, dipendenze patologiche, depressione e prevenzione delle ricadute (Segal, 2002).
Sephton, Salmon e coll. (2007) hanno condotto uno studio RCT allo scopo di esaminare l’efficacia dell’intervento MBSR in un campione di 91 pazienti donne che soffrono di fibromialgia.
I due ricercatori hanno riscontrato che le loro partecipanti al trattamento MBSR hanno riportato una riduzione significativa della sintomatologia depressiva rispetto al trattamento tradizionale farmacologico sia relativamente ai sintomi cognitivi sia per i sintomi somatici.

A differenza di altre tecniche che promuovono il rilassamento, il training MBSR promuove l’auto-osservazione, l’accettazione, la compassione e la saggezza in risposta al dolore.
E’ stato osservato come l’accettazione è una variabile cognitiva che risulta particolarmente benefica in quei pazienti che soffrono di una malattia cronica e possiede una funzione adattativa a lungo termine per il benessere psicofisico. Una maggior accettazione del dolore è associata con una minor intensità percepita del dolore stesso, minori livelli di ansia e depressione, un’aumentata attività quotidiana e un ridotto utilizzo di medicinali.

Il trattamento Mindfulness per fibromialgia

Il trattamento basato sulla mindfulness si rivela particolarmente utile in coloro che soffrono di fibromialgia, poiché consente di separare la risposta affettiva al dolore dalle ruminazioni sul dolore stesso e dal conseguente sviluppo di sintomi depressivi.
La mindfulness rappresenterebbe dunque un moderatore che interviene sulla relazione tra l’intensità del dolore e la catastrofizzazione del dolore stesso, con importantissime implicazioni clinico-operative (Schütze et al., 2010).

Anche Delgado e Postigo (2013) hanno riscontrato l’efficacia di un intervento Mindfulness-Based Cognitive Therapy nel miglioramento della salute fisica, nel mantenimento a lungo termine del benessere psicofisico, nella riduzione della sintomatologia depressiva, nella riduzione del livello di disabilità e nell’incremento del livello di attività quotidiana. Diversamente dallo studio di Sephton e Salmon, non hanno rilevato differenze tra il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo nella variabile “intensità del dolore” prima e dopo il trattamento. Tuttavia i due autori suggeriscono che nella valutazione del dolore è importante non solo quantificare la variabile intensità ma anche il grado con cui i pazienti percepiscono lo stimolo doloroso come disagevole e avverso e in che misura sentono di poter fare buono uso di valide strategie di coping.
Già in un precedente studio è stata dimostrata l’esistenza di connessioni tra sintomi depressivi e l’attivazione di particolari aree cerebrali coinvolte nel processamento del dolore di tipo affettivo (dimensione valutativa-motivazionale) ma non in quello di tipo sensoriale (dimensione sensoriale-discriminativa) (Giesecke, Gracely, et al., 2005).

Coloro che partecipano ad un programma di mindfulness riportano altresì cambiamenti nella loro visione del mondo e della vita stessa, come più comprensibili, affrontabili e pieni di significato. La partecipazione al programma ha il potere di alterare la cornice entro la quale vengono letti gli eventi che accadono, specialmente quelli spiacevoli e difficili, giungendo ad una valutazione più neutra del dolore fisico e meno suscettibile di generare una risposta affettiva al dolore stesso.
Questi cambiamenti trovano espressione in un’alterazione della stessa funzionalità cerebrale nei soggetti meditanti. Così come dimostrato in un precedente studio di Davidson e Kabat-Zinn (2003), la partecipazione ad un programma MBSR correla con un incremento dell’attivazione dell’emisfero sinistro, un pattern che sta ad indicare una riduzione dell’impatto di affetti negativi, con conseguente aumento di affetti positivi. I risultati maggiori sono stati riscontrati in quei soggetti che hanno coltivato la pratica meditativa regolarmente, sia durante le 8 settimane di training, praticando ogni giorno per almeno 30-40 minuti, sia anche a seguito della conclusione del programma MBSR, con l’ausilio di materiale fornito dai conduttori (manuali e audio registrazioni). Ciò suggerisce l’importanza di considerare ulteriori variabili individuali, quali il grado di motivazione e determinazione nella gestione della propria malattia.

Mindfulness per fibromialgia: Conclusioni

In sostanza, il ricorso alle abilità di mindfulness per fibromialgia correla positivamente con la riduzione nell’utilizzo della ruminazione e di altre strategie di evitamento, tipiche delle persone che soffrono di fibromialgia e dolore cronico; una pratica continuativa di meditazione indebolisce la relazione tra l’intensità del dolore percepito e la sua catastrofizzazione, aumenta il sentimento di accettazione del dolore ed il senso di auto-efficacia nella sua gestione.

Sebbene si rendano necessari ulteriori studi che analizzino più dettagliatamente le differenti variabili in gioco (ad esempio il ruolo dell’attenzione, del supporto sociale, del contatto con i conduttori e con gli altri partecipanti) oltre che le specifiche componenti della mindfulness, sia l’intervento MBSR sia quello MBCT costituirebbero entrambi un promettente trattamento complementare, specialmente alla luce degli ancora attuali gap nella gestione medica di tale disturbo.
Un intervento di natura comportamentale orientato alla mindfulness, che ha come obiettivo la riduzione della sintomatologia depressiva, può indirettamente apportare benefici su molteplici aspetti, non solo fisici ma anche personali, familiari, sociali, lavorativi, migliorando notevolmente la qualità di vita di questi pazienti.

L’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale sull’insonnia e sull’infiammazione cellulare

Esiste una correlazione tra l’insonnia e l’infiammazione cellulare? Sembra di sì e la psicoterapia cognitivo-comportamentale sembra essere efficace per entrambi i fattori presi in considerazione.

L’insonnia è diagnosticata prendendo in considerazione alcuni parametri, quali difficoltà all’addormentamento, frequenti risvegli e l’impossibilità di riprendere sonno. In aggiunta ai sintomi notturni, nella maggior parte dei casi, sono presenti anche sintomi diurni, quali ad esempio fatica, irritabilità, sonnolenza, disturbi dell’umore e difficoltà di apprendimento e memoria.

L’insonnia, se di lunga durata, può avere delle conseguenze gravi con manifestazione di alcune psicopatologie come, su tutte, la depressione. Negli ultimi anni è aumentato l’interesse per lo studio relativo alle infiammazioni cellulari e sistemiche legate alla depressione e per comprendere se questi due fattori possono avere una relazione causale con i disturbi del sonno.

Alcuni studi hanno dimostrato con chiarezza che alti livelli d’infiammazione cellulare possono portare a un aumento delle Proteine C-Reattive (PCR) e a conseguenti sintomi depressivi e alterazioni dell’andamento del sonno (Meier-Ewert et al., 2004; Eisenberger et al., 2010; Raison et al., 2010; Ferrie et al., 2013). Altre ricerche, invece, hanno mostrato che la terapia cognitiva-comportamentale e l’utilizzo di tecniche meditative può indurre, almeno parzialmente, una riduzione dei leucociti e delle alterazioni trascrizionali associate alla risposta da stress (Morin et al., 2009; Irwin & Olmstead, 2012); nessuno ha però focalizzato il proprio interesse sulle possibilità di ridurre le infiammazioni sistemiche e cellulari legate all’insonnia.

Un gruppo di ricercatori dell’Università della California (Irwin et al., 2015) ha studiato gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale e del Tai Chi sull’infiammazione cellulare, ipotizzando questo come fattore causale dell’insonnia stessa.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per i disturbi del sonno consiste essenzialmente in una psicoeducazione, in un rafforzamento delle associazioni tra il letto e il momento di andare a dormire e in una ristrutturazione dei pensieri disfunzionali legati al sonno. Il trattamento dell’insonnia ha come obiettivo primario quello di migliorare la qualità e la quantità del sonno e i sintomi diurni correlati al disturbo.

Il Tai Chi, invece, è un’arte marziale cinese che nei paesi occidentali ha assunto i connotati di ginnastica utilizzata nella prevenzione di malattie. Non a caso, sono piuttosto noti i benefici del Tai Chi sulla riduzione della pressione sanguigna, sulla riduzione dello stress, miglioramento del sonno e sul trattamento della depressione (Wang et al., 2001, 2004; Irwin et al., 2008; Lavretsky et al., 2011)

Il gruppo di Irwin e colleghi ha utilizzato 123 adulti anziani (età superiore ai cinquantacinque anni) che soddisfacevano i criteri del DSM-IV per l’insonnia primaria, dividendoli in modo casuale in tre gruppi: pazienti sottoposti a una psicoterapia cognitiva-comportamentale per l’insonnia; pazienti che praticavano il Tai Chi; pazienti che costituivano il gruppo di controllo e che quindi non ricevevano alcun tipo di trattamento. Inoltre, i ricercatori, al quarto e sedicesimo mese di trattamento, misuravano nei tre gruppi i livelli della Proteina C-Reattiva (PCR).

Lo studio ha dimostrato che la psicoterapia cognitivo-comportamentale riduceva i sintomi dell’insonnia e i livelli di attivazione infiammatoria con conseguente diminuzione dei livelli delle PCR. Questa riduzione dei fattori d’infiammazione era costante anche nei successivi follow-up a sette e sedici mesi correlato sempre al miglioramento del sonno. Il gruppo che aveva utilizzato il Tai Chi, rilevava i medesimi aspetti positivi sullo stato del sonno, ma la riduzione infiammatoria non riguardava direttamente le PCR ma la proteina TLR-4 (Toll-Like Receptor 4). Il dato interessante è che in questo secondo gruppo, nei successivi follow-up, si denotava ancora una riduzione dei livelli di TLR-4, ma i benefici del Tai Chi sull’insonnia erano svaniti e i pazienti erano tornati a manifestare disturbi del sonno. Mentre, nel gruppo di controllo non si notavano cambiamenti significativi degli aspetti presi in considerazione.

Il dato più interessante di questa ricerca è che la psicoterapia cognitivo-comportamentale da una parte conferma la sua efficacia contro l’insonnia (alla pari del Tai Chi) e che, inoltre, porta a dei benefici nella qualità del sonno rilevati anche a distanza di mesi che sembrano essere critici nella riduzione dell’attività infiammatoria cellulare e nello specifico nella riduzione dei livelli di proteine C-reattive.

Il cervello dei videogamer cronici evidenzia una iperconnettività: pregio o difetto?

La dipendenza da gioco online o Internet Gaming Disorder è una condizione psicologica caratteristica di quei soggetti che sono ossessionati dai videogames. Tali pazienti si rivolgono allo specialista della salute mentale poiché arrivano persino a smettere di mangiare e a ridurre le ore di sonno, trascorrendo molto tempo davanti allo schermo del PC o della TV.

Un recente studio svolto su 106 ragazzi sud-coreani (età compresa tra 10 e 19 anni) con diagnosi di dipendenza da gioco online, ha evidenziato una maggiore connettività tra le aree corticali di questi pazienti rispetto alla popolazione di riferimento. Attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), infatti, è stato possibile confrontare l’attività cerebrale dei pazienti con quella di 80 soggetti di controllo, considerando come misura di connettività funzionale le aree simultaneamente attive e a riposo.

E’ bene capire che in determinati casi l’iperconnettività tra due aree è un fatto positivo, in quanto promuove migliori performance cognitive. Proponendo un esempio, nei pazienti considerati da questo studio emergeva una iperconnettività tra le aree deputate all’analisi degli stimoli visivi o uditivi e il cosiddetto salience network, ovvero una rete neurale che sottende i processi attentivi necessari a cogliere gli stimoli rilevanti (“salienti” appunto) in mezzo a tutti quelli proposti dal contesto ambientale. Potremmo perciò supporre che i videogamer possiedano una migliore capacità di dirigere l’attenzione verso gli stimoli target e di riconoscere le nuove informazioni nell’ambiente, peculiarità che permetterebbe loro di reagire velocemente alle difficoltà del gioco.

In altri casi, invece, l’iperconnettività si associa ad una maggiore distraibilità ed impulsività, due qualità non propriamente funzionali al raggiungimento degli obiettivi. In aggiunta a ciò, i pazienti considerati nello studio evidenziavano una maggiore connettività anche tra la corteccia prefrontale dorsolaterale e la giunzione temporo-parietale, un pattern già riscontrato in pazienti afflitti da schizofrenia, sindrome di Down e autismo.

Secondo Jeffrey Anderson, uno degli autori della ricerca, i pro di questa aumentata connettività tra le aree potrebbero essere difficilmente separabili dai problemi che li accompagnano, motivo per il quale non è ancora chiaro se una consistente fruizione di videogiochi sia veramente migliorativa delle capacità cognitive.

La trilogia dei colori (1993-1994) di K. Kieślowski – Recensione

Tra il 1993 e il 1994 vengono realizzate tre pellicole dal regista e sceneggiatore polacco Krzysztof Kieślowski: ‘La trilogia dei colori’. I film: Film Blu, Film Bianco e Film Rosso sono ispirati ai colori della bandiera francese e agli ideali in essi rappresentati: libertà, uguaglianza, fratellanza.

Il film blu concentra la tematica sulla libertà, il film bianco sull’uguaglianza e il film rosso sulla fratellanza. Questi tre film non sono apparentemente legati gli uni agli altri se non nella costituzione finale dei colori della bandiera. Visti singolarmente assolvono tutte le tematiche in essi racchiuse, le storie non rimangono in sospeso, la morale è ben chiara, sono tutti autoconclusivi. Per poter cogliere la grandiosità dell’opera però è necessaria una visione attenta di tutti e tre i film.

Tutti i personaggi sono presenti in tutti e tre i film, si incontrano, intravedono, sfiorano, tutti sono in rapporto con gli altri, tutto è connesso, bisogna solo fare attenzione. Dialoghi e trame scritti dal regista in collaborazione con Krzysztof Piesiewicz inoltre, enfatizzano tale particolarità. Cosa vediamo nei film? Persone diverse in luoghi diversi pensano la stessa cosa, compongono la stessa musica, alcuni addirittura vivono la stessa vita, tutti influenzano in qualche modo il contenuto delle trame, da tutti dipende il tutto.

Il regista osserva la vita, la descrive attraverso le storie di gente comune. Il destino e la volontà, che a mio avviso qui può essere tradotto come acasualità, si intrecciano continuamente.

Kieślowski tratteggia i suoi personaggi, attraverso piccoli segni che poi trovano conferma nelle loro azioni. Dettagli apparentemente insignificanti, sono pensati dal regista in funzione del carattere di questi, secondo il personalissimo stile criptico e conciso. Non baderò ad accennare minimamente le trame, vorrei invece fornire una chiave di lettura particolare che magari porterà ad una più godibile visione del tutto per chi lo vorrà.

L’attenta osservazione delle tre pellicole non ha potuto non farmi pensare alla teoria Junghiana della sincronicità e a come siamo tutti inevitabilmente collegati gli uni agli altri. Cos’è la sincronicità?

Credo si possa spiegare in parole semplici come assenza di casualità nelle cose che si inserisce in uno spazio/tempo aspaziali e atemporali. Ciò che pensiamo possa essere un caso è in realtà accaduto per una forza, un’ energia inconscia collettiva e personale che cerca di portarci là dove dobbiamo arrivare. E’ una sorta di cammino del tutto personale che ci portiamo da generazioni e influenza i nostri pensieri. La nostra vita ci parla attraverso gli oggetti noi parliamo loro attraverso un legame che ignoriamo ma che esiste. (Teodorani M, 2006)

Discente di Freud, Jung si distacca ad un certo punto dalla visione pulsionistica del maestro arrivando alla sua psicologia analitica. Assecondando le sue intuizioni, che trovarono conferma partendo addirittura dalla teoria di Ippocrate secondo la quale l’universo è legato in tutte le sue parti da quelle che lui chiamava affinità nascoste affermando che tutte le cose sono in simpatia e che le coincidenze significative possono essere spiegate come null’altro che elementi simpatetici che si cercano gli uni con gli altri, Jung arriva a concepire la psicologia come una dottrina non rivolta esclusivamente all’ambito della salute mentale.

Nella psicoterapia Junghiana il fine ultimo è la guarigione dell’anima, i suoi studi si rivolgono a tutti, si estendono a tutti, poiché tutti necessitano di arrivare al concepimento e chiarificazione del proprio mondo interno, arrivare quindi al sé, attraverso il processo di Individuazione. Alla teoria di questo processo Jung ci arriva dopo aver affrontato un percorso personale e dopo aver ampliato il campo di azione, se cosi vogliamo dire.

Affascinato e incuriosito infatti dalle diverse discipline scientifiche, tra concetti di inconscio collettivo, archetipi e simbologia dei sogni, inizia una epistolare collaborazione con il Nobel per la Fisica, Pauli e si convince che l’essere umano fa parte di un tutto imprescindibile e arriva a concepire quel processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui distinti dalla generalità, prendendo spunto anche dalla fisica quantistica.

L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale. La necessità dell’individuazione è una necessità naturale, ostacolarla pregiudica l’attività vitale dell’individuo e porterebbe in casi estremi alla psicopatologia. (Jung, 2011)

Dal momento che la sincronicità è la manifestazione di una relazione diretta tra la mente e la materia questo significa che il mondo fisico e il mondo psichico sono interconnessi. Gli eventi sincronici sono manifestazioni in cui i mondi interno ed esterno vengono improvvisamente messi alla luce. La capacità di essere consapevole di queste invisibili leggi e di essere in armonia con esse è alla fine proprio quello che Jung chiamerà processo di individuazione e che prende origine dall’interpretazione degli archetipi e della loro azione attraverso i sogni ed eventi sincronici. Inconscio collettivo e soggettivo alla fine quindi saranno integrati arrivando cosi al sé.

Il parallelismo tra la visione Junghiana dell’uomo e la messa in scena del regista ha un certo fascino e pone una chiave di lettura quindi tutt’altro che banale.

Le pellicole mostrano il viaggio individuale di ogni protagonista attraverso le idee iniziali di fratellanza, uguaglianza e libertà ma nella scena finale del Film Rosso (ultimo) si palesa a mio avviso la chiave di lettura di sincronicità e individuazione. In questa ultima scena sono presenti tutti i protagonisti, unici supersiti di una tragedia, che evidenzia cosa? Null’altro che, a parer mio, solo chi è stato in grado di assecondare il proprio destino, è stato anche poi in grado di salvarsi.

I Film di Kieslowski e in questo caso ‘la trilogia dei colori’, non lasciano nulla al caso, ogni azione e singolo oggetto sono sistemati con criterio e scopi ben precisi, un allegoria continua con la vita che non ha nulla di casuale.

Le tecniche di rilassamento (2013) di Valentina Penati – Recensione

Cos’è il rilassamento e quali sono i principali metodi per raggiungerlo? Di ciò tratta questo manuale che si configura come una pratica rassegna delle principali tecniche di rilassamento che, dapprima inquadrate storicamente e ideologicamente, vengono poi esaminate nelle loro caratteristiche peculiari (aspetti fisiologici e metodologici, ambiti applicativi ed esercizi pratici).

Una guida concepita, quindi, per tutti i terapeuti che intendono conoscere e approfondire queste tecniche come utili strumenti da introdurre nella pratica clinica.

Secondo l’autrice si può definire rilassamento:

Un particolare stato psicofisico, caratterizzato da un lato da modificazioni specifiche dell’attività dell’organismo (la principale è la riduzione della tensione muscolare) e dall’altro da sensazioni psichiche percepite introspettivamente come benessere, serenità e tranquillità.

La contrazione muscolare, automatica reazione di difesa a situazioni percepite come minacciose, talvolta si può rivelare una risposta inefficace e controproducente poiché limita la possibilità di attuare comportamenti funzionali.

Se è vero, dunque, che gli stati emotivi possono accompagnarsi a tensioni muscolari e a modificazioni vascolari, respiratorie e viscerali, l’allenamento alla distensione muscolare tramite questi metodi può contribuire in modo vantaggioso al ripristino dell’attività cardiaca, respiratoria e digerente, inducendo così anche un alleviamento del carico emotivo e cognitivo che può predisporre a condotte più efficienti.

Imparare a riconoscere gli stati di tensione muscolare costituisce il primo passo per impegnarsi in un processo distensivo utile per ricontattare le sensazioni corporee e allontanarsi da pensieri disturbanti ed intrusivi che interferiscono con il funzionamento della persona.

Tra le principali tecniche scientificamente accreditate, nel manuale vengono annoverate:

  • Il rilassamento progressivo di Jacobson che, tramite fasi alternate di contrazione e distensione volontarie dei diversi distretti muscolari, riduce la tensione muscolare residua che può persistere anche in una condizione di riposo;
  • Il training autogeno di Schultz che, attraverso un atteggiamento di concentrazione passiva sul proprio corpo, mira a limitare le funzioni di controllo e ad attivare i processi di distensivi e rigenerativi;
  • L’esercizio del posto sicuro, mutuato dall’approccio EMDR, che si può configurare come una tecnica di visualizzazione capace di trasportare la persona da una situazione stressante ad una emotivamente più serena e tranquilla;
  • Le tecniche mindfulness che permettono l’apprendimento di concentrazione, consapevolezza del momento presente ed accettazione;
  • La respirazione addominale che contribuisce a rallentare una respirazione eccessivamente rapida e superficiale;
  • La visualizzazione, una tecnica immaginativa grazie alla quale la persona impara a visualizzarsi all’interno di un contesto, reale o immaginario, caratterizzato da sensazioni piacevoli e rilassanti.

Diversi sono i possibili ambiti applicativi all’interno dei quali è possibile integrare l’utilizzo di questi strumenti: da quello squisitamente clinico (trattamento dei disturbi di natura ansiosa) e medico (cefalee, bruxismo, dolore lombare cronico, balbuzie, neoplasie), a quello lavorativo (coaching) e sportivo (allenamento agonistico).

Il recupero del dialogo tra la nostra mente e il nostro corpo, associato a motivazione ed impegno, favoriscono l’interiorizzazione delle tecniche apprese e la loro applicazione in autonomia, potenziando la percezione di autoefficacia personale.

Neurofeedback: un aiuto per gestire le emozioni nei più giovani

Il neurofeedback è una metodologia che aiuta a tenere sotto controllo l’attività cerebrale e le emozioni ed è stata testata anche sui più giovani.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Infanzia e adolescenza sono età in cui si affrontano cambiamenti continui ed esperienze cruciali, e a volte il carico emotivo può essere difficile da gestire al punto che può addirittura provocare disagi psicologici successivi, in età adulta. Il neurofeedback è una metodologia che aiuta gli individui a tenere sotto controllo l’attività cerebrale (per esempio relativa a un evento emozionale), ma per ora è stato utilizzato solo sugli adulti. Un nuovo studio pubblicato su NeuroImage dimostra che la tecnica è promettente anche per i soggetti più giovani.

La difficoltà nell’affrontare le emozioni e tenerle sotto controllo può provocare disagi psicologici di varia natura, quando addirittura non si arriva (nel caso di eventi emotivamente catastrofici) a vere e proprie sindromi psichiatriche. Questo è vero soprattutto in età evolutiva: i traumi giovanili possono contribuire a sviluppare successivamente problemi di depressione, ansia, e anche peggio. Esistono varie tecniche per aiutare le persone a controllare le emozioni, fra queste c’è il neurofeedback, una metodologia con cui informazioni sulle variazioni dell’attività neurale di un individuo vengono fornite allo stesso individuo in tempo reale, permettendogli di autoregolare questa attività (ottenendo così un cambio nel comportamento del paziente). Questa metodologia è già in uso a scopo terapeutico sugli adulti, ma non è mai stata testata sui più giovani, che sono fra i soggetti più vulnerabili e che maggiormente potrebbero giovare dell’efficace controllo delle proprie emozioni.

Il nuovo studio ha usato il neurofeedback a risonanza magnetica funzionale (fMRI) in tempo reale su un campione di ragazzi.

[blockquote style=”1″]Abbiamo lavorato con soggetti fra i 7 e i 16 anni. I ragazzi osservavano immagini emotivamente cariche mentre la loro attività cerebrale veniva monitorata, per poi essere ‘restituita’ in tempo reale ai soggetti stessi[/blockquote] spiega Moses Sokunbi, ricercatore della SISSA, fra gli autori del lavoro. L’area cerebrale di riferimento, in particolare, era una porzione di corteccia cerebrale chiamata insula.
I ragazzi vedevano il livello di attivazione dell’insula su un “termometro” rappresentato sullo schermo di un computer e venivano istruiti a diminuire o aumentare l’attivazione con strategie cognitive, verificando poi l’effetto sul termometro.

Tutti i partecipanti hanno imparato a sovraregolare (innalzare) l’attività dell’insula (ma son stati meno bravi a sottoregolarla). Inoltre grazie a tecniche specifiche di analisi è stato possibile ricostruire il network complessivo delle aree coinvolte nella regolazione delle emozioni (oltre all’insula) e il flusso dell’attivazione al suo interno. In questo modo gli scienziati hanno potuto osservare che la direzione del flusso osservato quando il soggetto sovraregolava si ribaltava quando invece il soggetto sottoregolava.

[blockquote style=”1″]Questo risultato mostra che l’effetto del neurofeedback è andato oltre la superficie – la semplice attivazione dell’insula – influenzando profondamente tutto il network di regolazione delle emozioni[/blockquote] spiega Kathrine Cohen Kadosh, ricercatrice dell’Università di Oxford e prima autrice dello studio. [blockquote style=”1″]Questi risultati messi insieme dimostrano che il neurofeedback è una metodologia che può essere utilizzata con successo nei soggetti giovani.[/blockquote]

[blockquote style=”1″]L’infanzia e l’adolescenza sono periodi estremamente importanti per lo sviluppo emotivo Per questo motivo, l’abilità di plasmare i network cerebrali associati alla regolazione delle emozioni potrebbe essere cruciale per la prevenzione di malattie mentali, che sappiamo aver origine in questo periodo vitale quando la capacità emotiva del cervello si sta ancora formando[/blockquote] spiega Jennifer Lau, dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienza del King’s College di Londra, anche lei nel team che ha condotto lo studio.

 

LINK UTILI: • Link all’articolo originale: http://goo.gl/1A0jzL
IMMAGINI: • Crediti: Clemens v. Vogelsang (Glickr: https://goo.gl/dyZdda)

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Childhood and adolescence are ages of constant change and crucial experiences. At times the emotional weight can be difficult to manage and may lead to psychological issues in adulthood. Neurofeedback is a method that helps individuals to keep their brain activity (for example a response to an emotional event ) under control. While routinely used on adults, a new study published in NeuroImage demonstrates that the technique shows promise for young people as well.

Difficulty handling emotions and keeping them under control can cause various psychological issues and even lead to full-blown psychiatric problems (in cases of emotionally catastrophic events). This is especially true in childhood. Trauma experienced in youth can contribute to later problems such as depression, anxiety and even more serious conditions. There are various techniques for helping people control their emotions, including neurofeedback, a training method in which information about changes in an individual’s neural activity is provided to the individual in real-time and this enables the individual to self-regulate this neural activity to produces changes in behaviour. While already in use as a treatment tool for adults, until now the methodology had not been used on young people who are more vulnerable and could thus benefit from more efficient control of their emotions.

[blockquote style=”1″]The new study used real time fMRI-based neurofeedback on a sample of kids. We worked with subjects between the ages of 7 and 16 “They observed emotionally- charged images while we monitored their brain activity, before ‘returning’ it back to them[/blockquote] explains SISSA researcher and one of the authors of the study, Moses Sokunbi. The region of the brain studied was the insula, which is found in the cerebral cortex.

The young participants could see the level of activation of the insula on a “thermometer” presented on the MRI projector screen and were instructed to reduce or increase activation with cognitive strategies while verifying the effects on the thermometer. All of them learned how to increase insula activity (decreasing was more difficult).Specific analysis techniques made it possible to reconstruct the complete network of the areas involved in regulating emotions (besides the insula) and the internal flow of activation. In this way, scientists observed that the direction of flow when activity was increased reversed when decreased.

[blockquote style=”1″]These results show that the effect of neurofeedback went beyond the superficial- simple activation of the insula- by influencing the entire network that regulates emotions. They demonstrate that neurofeedback is a methodology that can be used successfully with young people[/blockquote] explains Kathrine Cohen Kadosh, Oxford University researcher and first author of the study.

[blockquote style=”1″]Childhood and adolescence is an extremely important time for young people’s emotional development. Therefore, the ability to shape brain networks associated with the regulation of emotions could be crucial for preventing future mental health problems, which are known to arise during this vital period when the brain’s emotional capacity is still developing [/blockquote] says Jennifer Lau, from the Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience at King’s College London, who has taken part in the study.

 

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Placebo ed effetto Placebo – Introduzione alla Psicologia Nr. 40

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 40)

Prima di entrare nel vivo del discorso guardiamo in dettaglio cosa si intende per placebo. In medicina, il placebo è una sostanza non pericolosa, innocua, neutra, che non possiede alcuna controindicazione se usata a scopi terapeutici. Può essere somministrato sotto forma di pillola o di liquido. In ogni caso, risulta privo di ogni principio farmacologico o chimico attivo e quindi non presenta alcuna efficacia terapeutica.

Il placebo è noto nell’ambito delle scienze naturali fin dal Settecento, ed è stato definito attraverso il futuro del verbo latino placere, placebo, che significa letteralmente piacerò, mi piacerà la terapia assunta. Di fatto, il placebo è il più antico ed efficace trattamento terapeutico conosciuto dall’uomo. Ad oggi, non esiste un farmaco in grado di equiparare i suoi effetti terapeutici e di benessere psicologico ottenuti.

Studi in cieco (dove il paziente non sa cosa sta prendendo) o in doppio cieco (sia il paziente che il medico che somministra non sono a conoscenza di cosa si somministra) hanno evidenziato risultati terapeutici migliori in pazienti trattati col placebo rispetto a coloro che hanno assunti farmaci normali.

L’effetto placebo, è il risultato dalla somministrazione di un farmaco placebo, e rappresenta l’esito terapeutico osservabile in chi ha assunto tale terapia. Solitamente, in chi lo prende si ottengono dei miglioramenti sia da un punto di vista organico sia psicologico. Tale miglioramento è sicuramente determinato dall’atteggiamento positivo mostrato dal paziente nei confronti della cura, perché prefigura una migliore e più repentina guarigione.

Risultati eclatanti si ottengono anche attraverso la chirurgia placebo, in cui, ad esempio, una semplice incisione induce effetti benefici su una malattia più importante presentata.

In generale, l’effetto placebo si verifica quando la persona si mostra positiva nei confronti del farmaco assunto e propenso a guarire. Manifesta, dunque, maggiore positività a propensione al cambiamento in termini di miglioramento del proprio stato di benessere.

A parità di trattamenti placebo si ottengono esiti terapeutici migliori quando il medico mostra atteggiamenti più empatici e accoglienti nei confronti del paziente. Questo atteggiamento positivo consente a chi riceve la cura di sentirsi più riconosciuto, e più ascoltato. Per questo, implementa la fiducia e le aspettative positive rispetto ai benefici del trattamento stesso.

Tutto questo evidenzia che il ricevere maggiori attenzioni terapeutiche innesca una forma di autosuggestione che si traduce in un effettivo e reale miglioramento per il soggetto malato. Tale effetto porterebbe a una maggiore produzione di endorfine, analgesici endogeni naturali, ormoni del buon umore, prodotti dall’organismo umano, derivanti dalla convinzione di riuscire a guarire con molta probabilità.

Chiaramente, un giudizio o un atteggiamento negativo da parte del medico o dello sperimentatore può indurre anche un effetto negativo sugli esiti della cura definito nocebo, in cui le aspettative negative producono un peggioramento del quadro clinico. L’effetto nocebo è riscontrabile anche nelle sperimentazioni cliniche in cui i partecipanti palesano gli stessi effetti collaterali che si verificherebbero tramite l’assunzione del vero farmaco. Questo succede perché è stato loro comunicato che la sostanza assunta potrebbe provocare degli effetti nocivi, di conseguenza le aspettative calano e la preoccupazione di non guarire aumenta.

Concludo dicendo: “Corpus sano in mente sana” ipse dixit!

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Religione e politica: quello che non abbiamo imparato in più di 2000 anni!

Gli esseri umani non hanno imparato molto in più di 2000 anni in termini di religione e politica. Infatti, la religione ha portato a tensioni sociali e conflitti, non solo nella società moderna, ma fin dal 700 a.C., secondo un nuovo studio pubblicato in Current Anthropology.

Il Professor Arthur A. Joyce, del Dipartimento di Antropologia dell’Università del Colorado, con il Professore Associato Sarah Barber, dell’Università della Florida Centrale, hanno trovato delle prove, in una serie di siti archeologici messicani, che contraddicono la credenza di lunga data che la religione abbia agito per unire le prime società statali; spesso, come lo studio attesta, essa ha avuto l’effetto opposto.

[blockquote style=”1″]Non importa se oggi non condividiamo particolari credenze religiose, ma quando le persone, in passato, hanno agito in base alle loro credenze, quelle azioni hanno avuto conseguenze reali e materiali[/blockquote] dichiara Barber, a proposito delle scoperte della squadra di ricerca, e aggiunge: [blockquote style=”1″]E’ doveroso riconoscere il ruolo della religione quando si considerano i processi politici.[/blockquote] Tale affermazione risuona come un monito e un saggio consiglio ancor di più oggi, di fronte a un maggior numero di esempi dell’intersezione tra politica e religione e del conseguente conflitto.

Il team di studiosi ha pubblicato le proprie scoperte nell’articolo “Ensoulment, Entrapment, and Political Centralization: A Comparative Study of Religion and Politics in Later Formative Oaxaca”, dopo aver speso molti anni nel condurre ricerche sul campo nella bassa valle del Rio Verde di Oaxaca, nelle pianure costiere del Messico, sul versante del Pacifico, i cui risultati sono stati confrontati con i dati provenienti dalla valle nell’altopiano di Oaxaca.

La ricerca riguarda reperti archeologici riferiti al periodo tra il 700 a.C. e il 250 d.C, identificato come il momento della comparsa degli stati nella regione. All’epoca, nella bassa valle del Verde, i rituali religiosi, coinvolgenti offerte e la sepoltura di persone in cimiteri in comunità più piccole, crearono forti tensioni a livello locale, che impedirono la creazione di istituzioni statali più grandi. Nella Valle di Oaxaca, invece, gruppi elitari divennero fondamentali per mediare tra la politica delle loro comunità e il “volere” degli dei, tanto che, alla fine, si scatenò il conflitto all’interno delle comunità tradizionali, che culminò con la nascita di uno stato regionale, con a capo la città collinare di Monte Albán.

[blockquote style=”1″]Sia nella Valle di Oaxaca sia nella bassa Valle del Rio Verde, il ruolo della religione fu importante nella formazione e nella storia delle prime città e stati, ma in modi diversi[/blockquote] dice Jo-yce, autore principale dello studio.

Proseguendo nella lettura dell’articolo si capisce come l’ingerenza conflittuale della religione, nella bassa valle del Rio Verde, si palesi, ad esempio, nella rapida ascesa e conseguente caduta delle sue istituzioni statali: nella capitale Rio Viejo, la popolazione aveva costruito enormi templi dal 100 d.C.; eppure, questi imponenti edifici ad alta intensità di lavoro, insieme a molte altre città in tutta la valle, furono abbandonati poco più di un secolo più tardi. [blockquote style=”1″]Dato il ruolo della religione nella vita sociale e nella politica di oggi, tutto questo non dovrebbe sorprenderci [/blockquote]conclude Joyce.

Emozione e memoria: le Flashbulb Memories

Un fenomeno esemplificativo di interazione tra aspetti cognitivi ed emotivi è rappresentato dalle cosiddette Flashbulb memories: ricordi vividi, dettagliati e persistenti delle circostanze di apprendimento di un evento significativo e a forte carica emotiva.

Le emozioni possono notevolmente influenzare i processi cognitivi legati alla memoria. La forza dei ricordi dipende dal grado di attivazione emozionale, per cui eventi o esperienze vissute con una partecipazione emotiva di livello medio-alto vengono catalogati nella nostra mente come importanti, grazie al coinvolgimento di strutture cerebrali che fanno parte del sistema limbico, quali amigdala e ippocampo; il coinvolgimento di tali strutture determina una maggiore probabilità che il ricordo venga successivamente richiamato alla memoria.

Un fenomeno esemplificativo di interazione tra aspetti cognitivi ed emotivi è rappresentato dalle cosiddette Flashbulb memories. Brown & Kulik (1977) definiscono flashbulb memories (o ricordi fotografici) i ricordi vividi, dettagliati e persistenti delle circostanze di apprendimento di un evento significativo e a forte carica emotiva.

Questi ricordi si caratterizzano per il fatto che gli individui conservano dettagliatamente e a lungo, non solo il ricordo dell’evento in sé, ma anche la circostanza in cui hanno appreso la notizia, il luogo in cui si trovavano, il momento della giornata, l’attività in corso di svolgimento, la fonte della notizia, la reazione emotiva vissuta al momento, gli altri presenti e le loro reazione emotive, e le immediate conseguenze dell’evento (Mecacci, 2001).

I primi studi si focalizzarono sul fenomeno del ricordo fotografico relativamente ad eventi pubblici traumatici. Quando si viene a conoscenza di un evento pubblico traumatico, che ha come protagonista un personaggio celebre, gli individui verrebbero colpiti dalla notizia inaspettata e avvertirebbero le conseguenze dell’evento per sé e per il loro gruppo. In virtù di questo, l’evento verrebbe registrato con una grande ricchezza e vividezza di dettagli. In seguito, le reiterazioni dell’accaduto, ossia le discussioni con altre persone e le ruminazioni mentali, interverrebbero a consolidare la traccia mnestica. Le flashbulb memories vengono memorizzate in una sola occasione e trattenuti per tutta la vita.

Per molti americani, l’11 Settembre 2001 è una data che contiene un significato particolare; si tratta del giorno in cui si verificarono una serie di attacchi terroristici negli Stati Uniti d’America che causarono quasi 3000 morti. La maggior parte degli adulti ricordano facilmente quando ciò è accaduto, ma ricordano davvero gli attacchi o stanno ricordando il momento in cui hanno appreso la notizia degli attacchi? Va da sé che la gente non può ricordare un’esperienza alla quale in realtà non ha assistito.

Un altro storico esempio è l’esplosione della navetta spaziale Challenger (1986), evento trasmesso in televisione e visto da milioni di persone, alcune delle quali affermano di ricordare in maniera vivida dove erano quando hanno appreso la notizia del disastro, da chi hanno appreso la notizia e numerosi altri dettagli. E ancora, molte persone affermano di poter ricordare esattamente cosa stavano facendo e dove erano quando sentirono della scioccante morte della principessa del Galles, Lady Diana o dell’assassinio di J.F. Kennedy (Hilgard et al., 1989).

Più di recente, il concetto di flashbulb memories è stato applicato anche a eventi privati e ad eventi pubblici negativi o positivi (Mecacci, 2001). Le principali determinanti della formazione delle flashbulb memories sembrano dunque essere: un alto livello di sorpresa, un elevato livello di consequenzialità (intesa come possibilità dell’evento di produrre conseguenze significative sulla vita dell’individuo o gruppo sociale cui appartiene), e il livello di attivazione emotiva (Finkenauer et al., 1998). In seguito, il ripercorrere mentalmente l’accaduto e discuterne con altre persone interverrebbe a consolidare il ricordo. Se queste variabili non raggiungono livelli sufficientemente alti, non è possibile la formazione di ricordi flashbulb.

La sospensione del giudizio nella selezione etica delle Risorse Umane

Chi si occupa di selezione del personale dovrebbe abbandonare ogni pregiudizio ed assumere un atteggiamento simile a quello degli Scettici, ovvero sospendere ogni giudizio, rigettare ogni orientamento dogmatico; dovrebbe, al contrario, possedere un’elevata capacità di tollerare le situazioni di ambiguità per rivedere le proprie impressioni.

 

Lo scetticismo antico utilizzava il termine ἐποχή (epochè) per indicare la sospensione del giudizio, considerata dagli Scettici come necessaria, data l’assoluta incertezza di ogni conoscenza concernente la realtà esterna.

Sesto Empirico negli Schizzi Pirroniani usa il termine ἐποχή (epochè) per indicare un atteggiamento che consente di conseguire l’imperturbabilità:

Allo Scettico è accaduto ciò che si narra del pittore Apelle. Dicono che questi, dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma. Non riuscendovi in alcun modo, vi rinunziò e scagliò contro il dipinto la spugna, nella quale astergeva il pennello intinto di diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, vi lasciò un’impronta che pareva schiuma. Anche gli Scettici speravano di conseguire l’imperturbabilità dirimendo la disuguaglianza che c’è tra i dati del senso e quelli della ragione; ma, non potendo riuscirvi, sospesero il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, tenne dietro l’imperturbabilità, quale l’ombra al corpo

(Schizzi Pirroniani, I).

Gli Scettici, dunque, analogamente a quanto accadde al pittore Apelle, volevano impadronirsi dell’imperturbabilità, dirimendo l’anomalia degli eventi, ma non riuscendovi, sospesero il giudizio a cui seguì l’imperturbabilità.

Limitandoci al presente, quindi, il vero fine dello Scettico è l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni.

ἐποχή (epochè) è un processo cognitivo opposto al concetto di pregiudizio, cioè un giudizio basato su opinioni precostituite e su stati d’animo irrazionali, anziché sulla conoscenza diretta di un determinato fenomeno. “

Pregiudizio è un termine che deriva dal latino (da prae, cioè prima e iudicium, ovvero giudizio) e consiste in una valutazione preventiva ad una conoscenza diretta.

Chi si occupa di selezione del personale dovrebbe abbandonare ogni pregiudizio ed assumere un atteggiamento simile a quello degli Scettici, ovvero sospendere ogni giudizio, rigettare ogni orientamento dogmatico; dovrebbe, al contrario, possedere un’elevata capacità di tollerare le situazioni di ambiguità (Frenkel-Brunswick, 1949) per recepire nuove informazioni, rivedere le proprie impressioni, modificare il proprio giudizio.

L’efficienza di un’azienda dipende anche da un’attenta selezione delle Risorse Umane; eventuali errori di valutazione commessi durante la fase di selezione possono avere ricadute molto negative sull’azienda, quindi il selezionatore dovrebbe innanzitutto essere trasparente, sospendere ogni giudizio, escludere dal processo scientifico di selezione la dimensione morale, che rientra certamente nella sfera della filosofia, ma non in quella della psicologia, né tanto meno nella selezione del personale. Il processo di selezione non ammette una valutazione morale del soggetto, altrimenti non sarebbe etica.

Esiste certamente una forte componente soggettiva nel processo di selezione: infatti, accanto ai dati che si prestano ad un’interpretazione oggettiva (indici comportamentali, test attitudinali, test della personalità….), c’è lo schema cognitivo del selezionatore modellato sulla sua storia personale e sulla sua visione del mondo.

La soggettività, dunque, non può essere completamente eliminata dal processo di selezione, tuttavia deve essere gestita: il selezionatore deve essere un fotografo della realtà, fare sua la tecnica dell’impersonalità nella ricerca dell’oggettività. Il selezionatore dovrà operare come un fotografo, cioè dovrà rappresentare la realtà proprio così com’è, senza giudicare (la persona), senza focalizzarsi troppo sulla propria storia personale ed ispirandosi a valori quali l’integrità e l’etica.

Un po’ come nel naturalismo letterario ed artistico, dove l’arte si configura come uno studio appassionato (cioè senza passioni) del reale senza inclusioni giudicanti, con rigore scientifico ed efficacia conoscitiva, analogamente, nel processo di selezione, dovrebbero trionfare i principi di oggettività, imparzialità e scientificità.

Tutti gli approcci alla selezione del personale che si sono succeduti nel corso degli anni si sono ispirati al principio secondo cui le persone hanno caratteristiche diverse che le rendono diversamente orientabili verso le varie attività professionali. Ovvero, proprio perché ci sono svariate mansioni, le organizzazioni utilizzano la selezione in modo tale da poter collocare in ciascuna mansione la persona più adeguata. Tale fine verrà raggiunto solo se chi si occupa di selezione del personale sospenderà il proprio giudizio e si metterà dietro l’obiettivo di una macchina fotografica, usando assoluta imparzialità.

Psicologia politica: le basi cognitive delle scelte di voto

La psicologia politica, sulle scie delle ricerche svolte nell’ambito della social cognition, ha studiato le basi cognitive del comportamento di voto basandosi sul costrutto dell’ atteggiamento come organizzatore della conoscenza e precursore della scelta di voto.

Romina Edith Monteleone – Open School Studi Cognitivi Milano

In concomitanza con le radici teoriche del cognitivismo, queste ricerche postulano un modello di uomo, quale soggetto attivo, che seleziona ed elabora l’informazione dall’ambiente esterno. Questo filone di ricerca presuppone l’idea di un uomo come economizzatore cognitivo – Cognitve miser – (Redwask, 2004). La social cognition mette l’accento soprattutto sui processi di conoscenza, ovvero sulle modalità di elaborazione della conoscenza in ambito sociale: codifica, organizzazione e recupero.

Lo studio della struttura della conoscenza politica, secondo Mc Graw (2000), può essere diviso in due filoni: quelli che si occupano della struttura in termini di rappresentazioni mentali e quelli che si focalizzano nella struttura in termini di processo (information-processing). In ogni modo, questa divisione è solo teorica perché entrambi formano parte dell’organizzazione della conoscenza:

…The procedural contributions receive more attention…..To some extent , the “structure vs process” distinction is artificial; both are often jointly considered in the same project; as they are both necessary for a full understanding or political thinking.

Mc Graw (2000) pagina 810.

Ruswell, Fazio & Petty (2006) propongono di concepire gli atteggiamenti politici come una struttura cognitiva costituita dai legami in memoria fra la rappresentazione di un oggetto e la sua valutazione. L’atteggiamento viene stabilito come una struttura che filtra la percezione e l’interpretazione della situazione, orientando la conoscenza verso l’azione. Questi procedimenti sono regolati in base al livello di accessibilità (accessibility) ovvero alla facilità o difficoltà di richiamare alla memoria questo legame quando l’individuo si trova di fronte all’oggetto.

Gli atteggiamenti accessibili orientano la categorizzazione degli stimoli. Uno stimolo può essere categorizzato secondo diversi criteri in diverse categorie. A seconda della categoria, lo stimolo assume una connotazione valutativa: se la valutazione di un attributo è altamente accessibile, lo stimolo sarà categorizzato secondo quel preciso attributo e non su altri (Cavazza, 2005). Di contro, di fronte ad una scelta fra alternative (atteggiamento ambivalente), se l’individuo non dispone di un atteggiamento accessibile in memoria con cui confrontarlo, sarà costretto a formarsi una rappresentazione dello stimolo che sarà ampiamente influenzata dalle caratteristiche salienti in quel momento ed in quel contesto (frame) .

Rudolph & Popp (2007) analizzano le determinanti degli atteggiamenti ambivalenti verso i partiti politici ed i candidati. Il lavoro degli autori parte dalla critica del Modello HSM – il Heuristic Systemtic Model- (Chaiken & Egly, 1999; in Rudolph & Popp 2007) che presuppone che l’ambivalenza sia prodotta dai procedimenti euristici, caratterizzati da basso impegno cognitivo, a detrimento di processi cognitivi più elaborati che genererebbero atteggiamenti polarizzati (univalenti). Gli autori, di contro, postulano che il grado di ambivalenza è correlato allo sforzo cognitivo che l’individuo realizza durante l’ information process: a maggior impegno, maggior ambivalenza.

I risultati suggeriscono che la partecipazione politica modera l’impegno cognitivo. Il modello dell’ ambivalenza proposto inoltre ipotizza che i soggetti sono situati su in continuum psicologico: da una parte gli elettori univalenti (univalent citizens) che esprimono un atteggiamento unilaterale verso i partiti/candidati. Nell’ estremo opposto si trovano gli individui che hanno un atteggiamento polivalente verso i soggetti politici.

Secondo Rudolph & Popp (2007), l’interesse che gli studiosi dedicano a questo aspetto, può essere dovuto al fatto che gli atteggiamenti ambivalenti assolvono funzioni diverse rispetto a quelli monovalente. Dal punto di vista cognitivo, l’alta ambivalenza si associa prevalentemente a scarsa accessibilità, moderazione e scarsa certezza. Questa costellazione di caratteristiche fa si che l’atteggiamento bivalente non sia molto funzionale ad orientare la conoscenza ed il comportamento di voto. In questo elaborato, di contro, noi sosteniamo che questo genere di atteggiamenti servano a rafforzare una azione prosociale. A supporto delle nostre asserzioni:

A nostro avviso diversi indizi fanno propendere per l’ipotesi secondo la quale questo genere di atteggiamenti servono ad una funzione adattativa, proprio grazie la loro flessibilità strutturale che consente alle persone di esprimere la propria posizione enfatizzando quella componente che meglio si accorda con il contesto normativo specifico, senza per questo sentirsi incoerenti…

 in Cavazza (2005) pagina 53-54.

Per fare un esempio pensiamo a due militanti (A e B) che si trovano in un’assemblea a discutere con un gruppo tutti d’accordo nel rifiutare un dato provvedimento del partito.

Poniamo il caso che il militante A abbia un atteggiamento nettamente positivo su tale provvedimento, mentre il militante B possa avere un atteggiamento ambivalente. Il militante A ha diverse possibilità di azione: affermare il suo punto di vista nettamente minoritario in quel contesto, immettendo il conflitto nella discussione, tacere, sopportando la frustrazione di non aver espresso la propria posizione, o addirittura mentire, ed esprimersi in accordo con gli altri, favorendo l’insorgere di una tensione emotiva propria della dissonanza cognitiva (penso una cosa e ne faccio un’altra). Invece per il militante B, la situazione è più semplice: egli potrà esprimere con particolare enfasi gli aspetti negativi sia positivi che associa a quel provvedimento, senza che tutto ciò rifletta, in modo rilevante, sul concetto di sé ed altri costrutti psicologici (autoefficacia, e cosi via).

Nelle ricerche di Cavazza & Buttera (2003), (in Cavazza, 2005), si osserva che il cambiamento dell’atteggiamento ambivalente dipende della percezione della normatività del messaggio persuasivo, per esempio, le persone ambivalenti nei confronti delle politiche di welfare si esprimono maggiormente in accordo con la posizione sostenuta dalla maggioranza rispetto le persone non ambivalenti.

In conclusione, abbiamo visto come la psicologia cognitiva e le ricerche nell’ambito della social cognition, abbiano prodotto una quantità significativa di teorie sull’atteggiamento come costrutto cardine nello studio del comportamento del voto. Gli atteggiamenti politici guidano il soggetto verso un determinato candidato. Per ultimo, le teorie sull’atteggiamento ambivalente assumano una rilevanza fondamentale nella costruzione delle campagne elettorali poiché gli indizi di flessibilità cognitiva che ci fanno propendere per un’ipotesi (scelta del candidato) esprimono una vulnerabilità al cambiamento che può essere facilmente manipolata tramite l’esposizione ad una comunicazione persuasiva ( Caprara, 2007).

La relazione tra apprendimento ed empatia: si può imparare a essere più empatici con gli estranei?

I deficit di empatia aumentano i conflitti e le sofferenze umane. È quindi fondamentale capire come possa essere appresa l’empatia, e come le esperienze di apprendimento generino processi di empatia molto importanti per il cervello umano.

 

I conflitti tra persone di diverse nazionalità e culture spesso derivano da una mancanza di empatia o compassione per lo straniero. Più empatia nei confronti dei membri di altri gruppi potrebbe quindi favorire la convivenza pacifica.

È però possibile imparare ad entrare in empatia con gli estranei. Sorprendentemente esperienze positive con persone provenienti da un altro gruppo sono in grado di innescare un effetto di apprendimento del cervello, che porta ad un aumento dell’empatia. Come alcuni ricercatori presso l’Università di Zurigo rivelano, anche solo una manciata di esperienze positive di apprendimento è già sufficiente per essere più empatici. Infatti, uno studio condotto dall’Università di Zurigo ha esaminato come l’empatia possa essere appresa con gli estranei e come le esperienze positive con gli altri influenzano le risposte cerebrali empatiche.

Sulla base del modello che vede il deficit di empatia come una soppressione consolidata delle risposte cerebrali legata alla sofferenza di sentirsi out-group (fuori dal gruppo), Hein e colleghi hanno condotto uno studio.

L’esperimento era composto da tre parti, ovvero pre-intervento, intervento di apprendimento e post-interveneto, e il campione era formato da persone di origine svizzera e di origine balcanica. Durante tutte le tre parti dello studio, i partecipanti svizzeri sono stati associati sia con persone di origine svizzera (in-group, interni al gruppo), sia ai soggetti di origine balcanica (out-group, esterni al gruppo). L’intervento si basava sull’apprendimento che nasce dalla mancanza di un esito negativo atteso.

I partecipanti infatti prevedevano di ricevere scosse dolorose, ma sapevano anche che una delle persone presenti nella stanza avrebbero potuto pagare per salvarlo dal dolore. Il nome del potenziale soccorritore veniva rivelato appena prima dell’intervento iniziato, ed era un tipico nome balcanico nel gruppo sperimentale, e un tipico nome svizzero nel gruppo di controllo.

Misurando l’attivazione cerebrale dei partecipanti nel corso dell’esperimento è stato possibile osservare che inizialmente vedere un membro esterno al gruppo soffrire, innescava un’attivazione cerebrale debole, rispetto al vedere un membro del proprio gruppo provare dolore.

Tuttavia, bastavano solo una manciata di esperienze positive con qualcuno del gruppo straniero per portare ad un aumento significativo delle risposte empatiche. Più forte era l’esperienza positiva con la persona esterna al gruppo, maggiore era l’aumento dell’empatia neuronale.

Pertanto Hein e colleghi, grazie al loro studio, hanno scoperto i meccanismi neurali e psicologici attraverso i quali l’apprendimento interagisce con l’empatia.

Chi sono i buoni, i brutti e i cattivi del 2015? La psicologia dove si colloca?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 26/12/2015

 

L’anno finisce, ed è tempo di bilanci e di esami di coscienza. Com’ è andata nel 2015? Chi sono stati i buoni e i cattivi? La strega della psicologia, che ha giurisdizione su questi temi, che ci dice? Googlando “buoni” e “cattivi” e “2015” cosa esce fuori, accostando la parola “psicologia”?

In italiano è saltato fuori il solito dibattito sui videogiochi violenti, non si capisce se innocui, utili o dannosi. No, non è interessante. I cattivi sono quelli che continuano a rimuginare sui videogames invece di raccontare la favola di Pollicino e i suoi fratelli ai loro bambini. Una favola violentissima, leggere per credere. In inglese, dopo strani eventi e pubblicazioni che si intitolano al gioco di parole con il buono, il brutto e il cattivo (Sergio Leone è un meme irresistibile nell’anglofonia) trovo qualcosa di davvero interessante qui, dove si insinua il dubbio che la “cattiva” del 2015 sia proprio la psicologia.

È per caso la psicologia una “bad science”? Un gruppo di ricercatori ha ripetuto una serie di studi sperimentali risalenti al 2008 e solo i risultati di un terzo degli studi sono stati replicati. Risultato desolante, almeno apparentemente. La psicologia è una scienza che continua a essere inaffidabile e poco esatta in un mondo ormai dedito a saperi precisi e inesorabili? Non è così semplice. Il risultato è desolante solo per chi si è nutrito dell’epica di Popper e del metodo scientifico, sempre riproducibile e falsificabile a volontà. La scienza è un metodo, non una mannaia che cala su ogni singolo risultato scientifico. Che solo un terzo dei risultati pubblicati sia poi replicabile, e quindi a rigore “vero”, accade anche in altri rami della scienza con la fama di essere più esatti.

La pubblicazione è frutto di una selezione che tiene conto del rigore metodologico. Di qui a dire che i risultati pubblicati siano già così filtrati da essere tutti replicabili ce ne corre. È il tempo e la comunità scientifica intera che negli anni, anzi nei decenni, seleziona i (pochi) risultati alla lunga davvero significativi. E quindi veri. Ogni ricercatore ha le sue distorsioni e cerca di pubblicare con tutte le sue forze e con tutta l’anima i risultati che confermano le sue idee. Tutta l’epica di Popper dello scienziato che cerca di confutare le proprie stesse idee è un racconto un po’ ingenuo, fatto da un filosofo che non ha mai tirato la carretta del lavoro scientifico, un lavoro molto meno gratificante e divertente di quel che sembra. Occorre pubblicare, pubblicare e pubblicare. O morire: publish or perish.

In altre discipline la situazione non è diversa. Prendi la ricerca biomedica, che influisce sulle vite e sulla salute di milioni di persone. Mica come quell’ancella della psicoterapia, sempre a metà strada tra scienza e suggestione. Ebbene, più della metà dei risultati biomedici non è riproducibile! Per dieci anni C. Glenn Begley e la sua squadra hanno lavorato come responsabili della ricerca sul cancro per la società farmaceutica Amgen e hanno cercato di replicare cinquantatré studi di riferimento pubblicati su riviste e condotti da laboratori rispettati.

Quante volte sono riusciti a replicare i risultati? Solo sette volte. Sette su cinquantatré! E non è finita. A questo punto andiamo a leggerci Scientific American che riporta vari casi storici di risultati alla lunga significativi, ma a loro tempo non replicati e non replicabili. E “a loro tempo” può voler dire secoli, come nel caso del modello di Galilei, la cui definitiva replica arrivò solo nel 1851 (quasi trecento anni dopo) grazie al fisico francese Jean Bernard Léon Foucault con il suo famoso pendolo mentre le prove ideate e “dimostrate” sperimentalmente da Galilei in persona risultarono alla lunga deboli (e alcune sballate).

Insomma, la psicologia è una scienza strana, così come la psicoterapia, ma non è la racchia e brutta del mazzo e nemmeno la cattiva, e di storie da raccontare ne ha tante. È vero che ci sono almeno 400 modelli concorrenti di psicoterapia, roba da mettersi le mani nei capelli e disperarsi. E invece occorre mantenere la calma e lasciare fare al tempo della scienza, che svolgerà il suo crudele lavoro chiarificatore –già in corso- senza indulgere in fumose integrazioni che lasciano il tempo che trovano.

Non ci sono saperi cattivi, dunque, ma solo saperi parziali e fallibili. Sarebbe stato inutile, del resto, far cadere gli antichi dogmi per sostituirli con nuove divinità. E i buoni dove sono? Mah, forse occorre andare a cercare anch’essi in luoghi insospettati e poco usati. Su Psychology Today John Johnson riflette su egoismo buono e cattivo. Il rapporto tra cooperazione ed egoismo è complesso. E sebbene esista certamente un egoismo cattivo in cui il bene di qualcuno trae linfa dal male altrui, come accade nelle azioni criminali, esiste un egoismo buono che è presupposto di ogni possibile altruismo. Non posso dare nulla a nessuno se prima non me lo sono egoisticamente, procurato. È la logica win-win, in cui però c’è anche il mio win, il mio vantaggio personale. Un po’ come ci dicono gli assistenti di volo al decollo quando ci istruiscono sulle operazioni di soccorso: prima di salvare qualcuno salvate voi stessi. Prima di aiutare i bambini a indossare le maschere dell’ossigeno, indossatene una voi per primi. Altrimenti non avrete la forza di aiutare nessuno. Questi sono i buoni del 2015.

Come rovinarsi la vita di coppia sistematicamente di Rainer Sachse e Claudia Sachse (2015) – Recensione

Come possiamo evitare di restare incastrati in una buona relazione, stabile, banale, monocorde, priva di sfide eccitanti? Come possiamo portare un pizzico di sale, o meglio, qualche tossina, allo scopo di giocare un ruolo decisivo nel porre fine ad un rapporto monotono?

Rainer Sachse e Claudia Sachse, in questo libro edito da Feltrinelli, descrivono strade diverse per mettere il piede sull’acceleratore e rovinarsi la vita di coppia. Gli autori tracciano in modo ironico, provocatorio e paradossale il terreno su cui le coppie giocano il loro destino e sottopongono al lettore una domanda: che cosa costituisce una sfida eccitante nella relazione? Non è essa stessa una sfida più che eccitante? Vivere una relazione di coppia è forse una delle cose più complicate che l’essere umano possa tentare di fare; il sentiero è ricco di ostacoli e per sua natura già imprevedibile. Ci stupiamo di fronte alla durata dei rapporti, non di fronte alle sue crisi.

Nella prima parte (consigli per principianti) gli autori pongono l’accento sui motivi relazionali. In una relazione i partner necessitano di nutrimento emotivo, di una reciproca cura dei propri bisogni fondamentali: il bisogno di sentirsi riconosciuti, amati, confermati nel proprio valore; il bisogno di sentirsi importanti e di avere un ruolo rilevante nella vita dell’altro; il bisogno di percepire con sufficiente sicurezza che nonostante i conflitti non saremo di punto in bianco abbandonati; il bisogno di ricevere protezione, aiuto e sostegno in caso di bisogno; il bisogno di sentirsi indipendenti, autonomi, di poter disporre di un territorio personale con confini solidi, pur sentendosi vicini e insieme all’altro.

La sfida sta nel sentire i bisogni del partner, oltre che i propri, e adattarsi costantemente ai cambiamenti che avvengono nell’individuo, oltre che nella coppia. La relazione è un organismo vivente e se non ce ne prendiamo cura in maniera sempre rinnovata deperisce. Niente di più facile, come sottolineano gli autori. La negazione dei desideri più profondi del partner toglie linfa vitale alla relazione e predispone all’attivarsi di una serie di circoli viziosi.

Nella seconda parte del manuale (per i più esperti) gli autori chiamano in causa dinamiche più complesse, ricorrendo al concetto di giochi dello psicologo americano Eric Berne o giochi d’interazione. Questi giochetti sottili possono far naufragare la nostra relazione e, come effetto collaterale, noi insieme a lei. Gli autori descrivono diverse strategie che, se da una parte veicolano desideri e bisogni sottostanti, dall’altra rischiano di incastrare la relazione in circuiti autodistruttivi. Gli autori, privilegiando il paradosso e la provocazione, rendono palesi e caricaturali aspetti del funzionamento personale in cui tutti possiamo in qualche modo rispecchiarci. Fanno la differenza la costanza, l’intensità, la perseveranza, la flessibilità, la libertà e la consapevolezza con le quali possiamo dedicarci a qualcuna di queste strategie.

Questo manuale pronto all’uso, ha il pregio di illuminare in modo semplice la quotidiana sfida delle relazioni umane. La semplicità, la chiarezza e il tono ironico fanno comprendere ad ogni lettore l’esistenza di motivazioni, bisogni, desideri e il loro ruolo portante nell’architettura delle relazioni. D’altra parte non basta conoscere gli errori da evitare e non sempre un’esortazione sotto la formula di paradosso è la chiave per un cambiamento definitivo e duraturo. Di certo è facile rovinarsi la vita di coppia, e questo vale per tutti. Smettere di farlo e lasciarsi andare alle imprevedibili ripercussioni di un legame duraturo e profondo è di certo un’altra cosa: richiede un faticoso e, al tempo stesso, sorprendente percorso di conoscenza di sé.

Regolazione emotiva: un processo che inizia nei primi mesi di vita

Lo sviluppo delle emozioni e la regolazione emotiva nei bambini

Lo sviluppo psicologico del bambino appare strettamente connesso alle capacità di regolazione emotiva che il piccolo acquisisce nel corso della prima infanzia. Buone competenze di regolazione emotiva consentono un’efficace modulazione delle proprie emozioni (positive e negative) contribuendo a mantenere integra l’organizzazione comportamentale e psicologica dell’individuo.

Articolo di Di Egidio Marika, Di Francesco Federica 

 

Durante l’infanzia, in particolare nel primo anno di vita, la regolazione emotiva si configura come un processo essenzialmente diadico, in cui assume un ruolo fondamentale l’attività regolatoria svolta dal caregiver.

Sebbene numerosi indicatori attestino la natura organizzata delle emozioni infantili e la capacità dei lattanti di regolare attenzione e affetti – già a due mesi i bambini sono in grado di discriminare le espressioni facciali prodotte dagli adulti attribuendovi uno stato emotivo, di imitare le espressioni altrui e, soprattutto, di regolare la propria risposta emotiva sulla base degli indici espressivi forniti dal genitore – è pur vero che tali competenze, per potersi sviluppare in maniera compiuta, necessitano della presenza di un adulto sensibile e responsivo, in grado di interpretare i segnali del bambino e offrire il proprio aiuto al piccolo nella modulazione delle sue emozioni. In queste prime fasi del percorso evolutivo è dunque il caregiver a offrire la struttura esterna perché i processi regolatori possano svilupparsi e maturare, favorendo il passaggio dalla regolazione emotiva diadica all’autoregolazione.

Le osservazioni videoregistrate di interazione faccia-a-faccia dei bambini di qualche mese con le loro madri costituiscono una fonte straordinaria di conoscenza rispetto a queste tematiche, testimoniando come la disposizione del bambino alla comunicazione si alimenti di una regolazione reciproca che, all’inizio, è principalmente diretta dal genitore (Barone, 2007).

Regolazion emotiva: Il paradigma dello Still-Face

Una delle dimostrazioni più convincenti deriva dalle ricerche condotte utilizzando il paradigma della Still-Face (o paradigma del volto immobile; Tronick et al. 1978). Tale procedura consiste in un’osservazione strutturata che prevede tre brevi episodi sequenziali: nel primo episodio di interazione faccia-a-faccia la madre è chiamata a interagire con il bambino così come fa abitualmente, utilizzando la voce, le espressioni del volto, i gesti e così via; nel secondo episodio di Still-Face alla madre viene invece chiesto di assumere un’espressione del viso neutra e di restare immobile e in silenzio; nell’ultimo episodio la madre riprende l’interazione che aveva interrotto ricominciando a parlare e a interagire nella modalità abituale.

Le ricerche effettuate con questo paradigma sono riuscite a mettere in luce come il bambino, già a 3-4 mesi, si dimostri estremamente sensibile alle modificazioni dell’espressività materna, modificando a sua volta le proprie modalità comunicative. A fronte del volto non responsivo della madre, il bambino inizialmente intensifica i suoi sforzi comunicativi rivolti a quest’ultima accentuando il sorriso, le vocalizzazioni e l’intensità dello sguardo (Brezelton, Cramer, 1990, citato in Riva Crugnola, 2007); successivamente, in concomitanza della persistente inespressività del volto materno, fa ricorso a condotte di auto-regolazione emotiva volte a modificare i propri stati di disagio, sia evitandone il contatto, rivolgendo lo sguardo altrove e assumendo anch’egli una mimica inespressiva, sia ricorrendo alla stimolazione di parti del proprio corpo (mano in bocca, grasping di una mano sull’altra) e alla manipolazione dei propri indumenti (Riva Crugnola, 2007).

Le risposte comportamentali fornite dai lattanti sottoposti alla procedura di Still-Face manifestano in maniera evidente gli effetti della temporanea indisponibilità emotiva materna, rivelando un chiaro aumento dello stress e del disagio emotivo esperito dai bambini. Le stesse reazioni testimoniano, inoltre, il ruolo del genitore in qualità di regolatore esterno dello stato emotivo del bambino: quando la madre non può svolgere la sua normale funzione regolatoria, al piccolo non resta altro che attivare schemi comportamentali atti a ridurre i livelli di arousal per cercare di gestire, in maniera autonoma, lo stress emotivo generato dalla momentanea “assenza” del genitore.

Le strategie di regolazione emotiva dei bambini

A questo proposito Gianino e Tronick (1988, citato in Tronick, 2006) propongono di suddividere i comportamenti auto-regolatori dei bambini in due grandi categorie: autodiretti ed eterodiretti.
I primi riguardano strategie di regolazione emotiva volte a ottenere il controllo del proprio stato emotivo agendo su se stessi. Queste azioni permettono al bambino di controllare gli affetti negativi attraverso lo spostamento dell’attenzione dall’evento disturbante, o attraverso la sostituzione di una stimolazione negativa con una stimolazione positiva (Rothbart, Derryberry, 1984, citato in Tronick, 2006). Tra le principali strategie regolatorie autodirette è possibile annoverare comportamenti quali il distoglimento dello sguardo dallo stimolo fonte di stress – comportamento che, riducendo la frequenza cardiaca del bambino, contribuisce ad abbassare il livello di attivazione fisiologica del piccolo – e comportamenti auto-consolatori e auto-stimolatori quali il succhiare e manipolare parti del proprio corpo (dita, capelli, orecchie, ecc.) o dei propri indumenti (vestiti, seggiolino, ecc.), anche questi con effetto calmante sul bambino soggetto a condizione di stress.

Le strategie regolatorie eterodirette si presentano invece come strategie finalizzate a ottenere il controllo del proprio stato emotivo agendo sul partner adulto, affinchè intervenga per favorire una riduzione dei livelli di attivazione. Esempi di strategie eterodirette sono tutte quelle manifestazioni affettive in grado di svolgere una funzione di regolazione emotiva nei confronti del comportamento dell’interlocutore, in particolare: vocalizzazioni, espressioni facciali, tentativi di essere presi in braccio, attività motoria associata a stati di fastidio o nervosismo (ad esempio contorcersi ed agitarsi sul seggiolino), orientamento dello sguardo verso il viso del partner adulto.

Chiaramente la distinzione tra comportamenti autodiretti ed eterodiretti non è così netta e immediata. Anche i comportamenti autodiretti possono rappresentare una forma di comunicazione, trasmettendo al caregiver la valutazione del bambino circa il successo o il fallimento dei tentativi da lui compiuti e il suo stato emotivo. Il caregiver, di conseguenza, potrà agire sulla base di tale messaggio al fine di aiutare il piccolo a raggiungere i propri obiettivi regolatori e interattivi.

In generale, i comportamenti autodiretti ed eterodiretti fanno entrambi parte del normale repertorio di cui il bambino dispone per fronteggiare la tristezza, la rabbia e gli affetti positivi più accentuati che possono trasformarsi in distress. Entrambe le strategie consentono, infatti, al bambino di contenere gli effetti potenzialmente dirompenti che queste emozioni, nei loro aspetti più estremi, possono provocare sulle azioni che egli mette in atto nel tentativo di raggiungere i propri obiettivi (Tronick, 2006).

Sebbene l’apporto della relazione diadica con la madre sia evidente fin dalle prime settimane di vita, è all’età di 3-6 mesi che l’incidenza di tale relazione si rende più evidente: lo sviluppo delle capacità espressive, attentive, percettive, mnestiche e di sensibilità sensoriale, insieme alla continuità delle esperienze con il caregiver, favorisce l’inizio delle prime distinzioni preferenziali nei confronti di quest’ultimo e il ricorso a condotte di regolazione emotiva sempre più articolate e complesse, centrate sulla focalizzazione dell’attenzione verso gli oggetti e l’ambiente circostante o finalizzate a richiamare l’attenzione dell’adulto per ottenere supporto da quest’ultimo nella modulazione delle proprie emozioni (Kopp, 1989, citato in Riva Crugonola, 2007).

La mutua regolazione tra il bambino e il genitore continuerà a caratterizzare il processo di regolazione emotiva anche nei mesi successivi, restando la modalità elettiva di riferimento almeno fino al periodo prescolare. All’interno di questo ampio range temporale è comunque possibile evidenziare alcuni snodi fondamentali, il principale dei quali è rappresentato dalla comparsa, nel secondo anno di vita, di strategie auto-regolatorie più mature, fondate sulle crescenti competenze simboliche, linguistiche e cognitive sviluppate in questo stesso periodo dal bambino. Strategie regolatorie significative diventano allora il gioco simbolico, la narrazione o il ricorso a oggetti transazionali, che il piccolo può utilizzare per tranquillizzarsi, per esempio a fronte dell’assenza della madre (Riva Crugnola, 2007).

Alcuni fattori di rischio possono tuttavia compromettere questo processo evolutivo sovrapponendosi alle incipienti capacità regolatorie. Un esempio di tali fattori di rischio può essere rintracciato nelle caratteristiche temperamentali infantili. In proposito alcune ricerche attestano come le caratteristiche temperamentali del bambino influenzino il ricorso a strategie regolatorie che coinvolgono i processi attentivi (Rothbart, Ziaie, O’Boyle, 1992; Kopp, 2002, citati in Riva Crugnola, 2007); mentre altre mettono in luce una relazione significativa tra tratti temperamentali negativi e scarsa incidenza di condotte auto-consolotorie (Braungkart-Rieker, 1998).

Ciò nonostante è doveroso sottolineare come il temperamento non rappresenti una dimensione di personalità stabile, risultando piuttosto influenzato dalle esperienze di vita del bambino (Rothbarth, 1981), dalla qualità dell’ambiente di crescita e dalla qualità dell’interazione con il caregiver. Anche in presenza di un temperamento “difficile” la responsività del caregiver può giocare un ruolo rilevante nell’orientare lo sviluppo della regolazione emotiva in una direzione di progressiva riduzione delle difficoltà emotive del bambino (Barone, 2007).

Oltre al temperamento, un ulteriore fattore di rischio per lo sviluppo delle capacità regolatorie potrebbe essere l’influenza esercitata dalla qualità della relazione di attaccamento sviluppata dal caregiver nei confronti dei propri genitori. Il pattern d’attaccamento sviluppato dall’adulto può infatti influenzare in maniera determinante il suo comportamento e il grado di sensibilità mostrato nei confronti del bambino. Nel caso dell’attaccamento sicuro, ad esempio, la sensibilità materna è costante e congrua, favorendo l’attuazione di pratiche genitoriali idonee a garantire lo sviluppo di adeguate competenze regolatorie e di sicurezza emotiva nel bambino. Nel caso dell’attaccamento insicuro-evitante, invece, la sensibilità si mostra in maniera scarsa e parziale all’interno degli scambi madre-bambino, favorendo percorsi evolutivi inadeguati allo sviluppo di una piena e matura competenza regolatoria.

In quest’ottica, è possibile affermare che un clima familiare caratterizzato da conflitti, scarsa sensibilità e dal prevalere di affetti negativi potrebbe rappresentare un serio fattore di rischio per lo sviluppo della regolazione emotiva, determinando un forte disadattamento psicologico e scarsa sicurezza emotiva nel bambino. Viceversa, un ambiente familiare caratterizzato dalla presenza di relazioni stabili tra i genitori, da manifestazioni di affetto positivo e da sensibilità e attenzione per le richieste del bambino dovrebbe essere in grado di garantire lo sviluppo di pattern di regolazione ottimali e preservare i bambini dallo sviluppo di future psicopatologie.

Cosa vuol dire perdere la faccia nella società confuciana & le implicazioni sul valore personale

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

In accordo con l’etica confuciana, le persone sono in relazione le une con le altre, coinvolte in un dato evento devono guadagnarsi valutazioni positive da parte degli altri e proteggere la propria immagine pubblica e la propria reputazione sociale.

Carol, nome occidentale, nazionalità singaporiana, è manager in una multinazionale. Ha scelto di accettare una posizione di coordinamento a Shanghai.
Capita nel mio studio perchè si sente sotto pressione, riferisce di essere stressata, irritabile e facilmente affaticabile. Partiamo in quarta con un bell’ABC, il cui C è ansia, con comportamenti di controllo compulsivo della mail dal cellulare, la minaccia è la possibilità che una collega cinese possa scriverle mail aggressive in cui non vengano rispettati gli accordi presi.

Ci inoltriamo nei B. Il worst case scenario è qualcosa che mi è familiare riguarda la possibilità di prestazioni mediocri, il timore che gli altri possano pensare male di lei, e infine l’attacco al valore personale: “non valgo nulla”.
Si incastra bene in una delle caselline delle credenze irrazionali di Ellis, quella appunto relativa al valore personale. Un terreno sicuro e prevedibile per il terapista occidentale.

D’altro canto però, seppure Singapore sia un piccolo stato molto globale e con moltissime influenze del mondo occidentale, chi ho di fronte ha una fisionomia orientale, parla un perfetto inglese ma è madrelingua cinese e, come lei stessa si definisce, è in qualche misura cinese.
Allora è quanto meno doveroso provare ad aprire anche la finestrella mentale del concetto orientale-confuciano di faccia o mianzi.
In accordo con l’etica confuciana, le persone sono in relazione le une con le altre, coinvolte in un dato evento devono guadagnarsi valutazioni positive da parte degli altri e proteggere la propria immagine pubblica e la propria reputazione sociale.

Per faccia si intende la valutazione della propria immagine pubblica a seguito della considerazione dell’individuo riguardo l’impatto delle proprie azioni in una data situazione sociale (Brown and Lewinson, 1987). Un individuo può pensare che sta perdendo, mantenendo o incrementando la faccia immaginando la valutazione sociale della propria performance in una data situazione.

Attenzione: la faccia è contagiosa, si estende ai propri parenti, perdere o guadagnare faccia è un affare familiare. Secondo l’approccio confuciano l’individuo è letteralmente la continuazione dei propri genitori e dei propri antenati, e non solo per via del sangue ma anche in termini di reputazione sociale e morale. Il territorio del sè dunque include chi lo ha biologicamente generato, nonchè le precedenti generazioni. Più che “sangue del mio sangue”, spesso il figlio viene descritto cosi intimamente come “la propria carne e il proprio sangue”.

Ricordo un episodio estremo in cui a seguito di diversi errori in una prestazione, un padre cinese critica pesantemente il figlio già adulto (e questa non è una novità nemmeno in occidente), utilizzando parole dure e dolorose, dubitando della reale paternità (dunque, “non sei la mia carne”): il big self “gruppale, familiare” ha ripetutamente perso la faccia, le conseguenze sono emotivamente devastanti.
Quest’ottica è profondamente differente rispetto al mondo occidentale in cui il perdere la faccia implica sicuramente valutazioni negative da parte degli altri ma viene mantenuta una maggiore autonomia e separatezza dell’individuo rispetto al suo gruppo familiare; e parimenti una persona non è tenuta ad assumersi le responsabilità dei comportamenti di un proprio parente.

Quindi possiamo chiederlo a Carol che cosa significa per lei “non valere nulla”: non essere in grado di garantire stabilità economica oltre che ai propri figli, prima di tutto alla madre (fenomeno che rimanda anche al supporto intergenerazionale e pietà filiale nelle famiglie cinesi), significa far perdere la faccia, retrocedere nella marcia intergenerazionale della reputazione positiva del proprio gruppo familiare. Essere valutata negativamente rischiando il licenziamento significa mettere a rischio di collasso non una, bensì due se non tre generazioni (e attenzione, ancor di più la generazione passata dei genitori che quella futura dei propri figli!).

Burnout nei medici specializzandi: uno studio su tre scuole del Policlinico Umberto I di Roma

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Burnout nei medici specializzandi: uno studio su tre scuole del Policlinico Umberto I di Roma

Autore: Rosanna Ciuffo (Università La Sapienza di Roma)

 

Abstract

Con il termine burnout è stato descritto il malessere psico-sociale che nasce da un impegno eccessivo nel lavoro, l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le helping profession qualora queste non gestiscano in maniera adeguata le proprie aspettative professionali e i carichi psicologici eccessivi che il loro impegno lavorativo li può portare ad assumere. Il presente articolo illustra la ricerca sul burnout effettuata presso tre corsi di specializzazione di medicina dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, alla quale hanno partecipato un gruppo di medici specializzandi appartenenti alle scuole di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Medicina Interna e Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva.

Gli scopi della ricerca sono stati quello di esaminare le eventuali differenze, rispetto al genere, al corso di specializzazione frequentato e all’anno di iscrizione, del gruppo di medici specializzandi che ha partecipato alla ricerca e quello di esaminare le associazioni delle dimensioni del burnout con le dimensioni del modello Job Demand-Control-Support di Karasek e Theorell al fine di indagare l’eventuale miglioramento euristico del modello con l’inclusione delle dimensioni individuali di autoefficacia accademica e recovery self efficacy. L’ipotesi di avere risultati differenti rispetto al genere e alla scuola degli specializzandi è stata confermata. Non è stata confermata, invece, l’ipotesi che fosse presente un effetto reality shock. Il job demands risulta maggiormente associato con le dimensioni esaurimento emotivo e depersonalizzazione, mentre il controllo risulta associato con la realizzazione personale. Le dimensioni individuali di autoefficacia accademica e recovery self efficacy aumentano la predittività del modello JD-C-S.

 

Abstract (English)

The term burnout was featured on the psycho- social malaise that stems from an over-commitment in the work, the result of a pathological process stressor that affects the helping profession if they do not manage properly their professional expectations and psychological loads excessive that their work commitments may lead them to assume. This article describes research on burnout carried out at three courses of specialization of Medicine, University “La Sapienza” of Rome, which was attended by a group of medical specialists belonging to the schools of Cardiovascular Diseases , Internal Medicine and Anesthesiology and Intensive Care .

The aims of the study were to examine any differences with respect to gender, specialization course attended and year of enrollment , the group of medical specialists who participated in the research and to examine the associations of the dimensions of burnout with the size of the model Job Demand -Control -Support Karasek and Theorell in order to investigate the possible improvement of the heuristic model with the inclusion of the individual dimensions of academic self-efficacy and recovery self -efficacy . The idea of having different results with respect to gender and the graduate school has been confirmed. Has not been confirmed , however, the hypothesis that there was an effect of reality shock. Job demands is more associated with the size of emotional exhaustion and depersonalization, while control is associated with personal fulfillment. individual dimensions of academic self-efficacy and recovery self -efficacy increase the predictability of the model JD -CS.

 

Keywords: burnout, demand, control, self-efficacy, recovery

 

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