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La Motor imagery & il suo impiego nella Psicologia dello Sport

Marchesoli Valeria, Mazzucco Luca, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Motor imagery: si tratta di un’esperienza che può risultare estremamente reale, tanto da spingere Conway (2001) a definirla “simil-esperienziale”, grazie alle sue qualità sensoriali, alle emozioni che la accompagnano ed alle credenze metacognitive dei soggetti riguardanti il significato delle immagini elaborate.

1 – DEFINIZIONE DI IMAGERY E MOTOR IMAGERY

[blockquote style=”1″]L’immaginazione è più importante della conoscenza[/blockquote] citava Einstein nel 1929.

Beck (2014) ha dichiarato [blockquote style=”1″]Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni interne, cosa decisamente favorita dall’imagery.[/blockquote] Queste due affermazioni evidenziano il ruolo positivo che l’imagery può ricoprire nell’affrontare la psicopatologia ma anche le sfide quotidiane. L’imagery può essere definita come una [blockquote style=”1″]esperienza quasi-sensoriale e quasi-percettiva che avviene in assenza di condizione stimolo esterna[/blockquote] (Kosslyn, Ganis & Thompson, 2001).

Si tratta di un’esperienza che può risultare estremamente reale, tanto da spingere Conway (2001) a definirla “simil-esperienziale”, grazie alle sue qualità sensoriali, alle emozioni che la accompagnano ed alle credenze metacognitive dei soggetti riguardanti il significato delle immagini elaborate. Esistono diverse tipologie di imagery. Munzert e collaboratori (2009) distinguono tra “visual imagery” (VI), centrata su aspetti esterni, con un’attenzione particolare alla relazione tra corpo e ambiente e motor imagery (MI), focalizzata sugli stati interni e con un’attenzione diretta ai propri movimenti e all’agenticità delle proprie azioni. Gli autori sottolineano come le immagini visive possono coinvolgere tutti i sensi, mentre le immagini dinamiche dell’atto motorio si concentrano principalmente su cinestetica e/o informazioni visive. La Motor Imagery (MI) costituisce uno strumento centrale dell’allenamento sportivo e viene definita da Moran e collaboratori (2012) come una [blockquote style=”1″]capacità cognitiva che permette un’esperienza motoria in assenza di alcuna attivazione muscolare[/blockquote].

Ridderinkhof e Brass (2015), in un importante lavoro di sintesi, mettono in luce alcuni aspetti fondamentali della motor imagery: – la motor imagery si basa sull’attivazione interna di un’immagine anticipatoria degli effetti generati dall’azione specifica: – tale rappresentazione motoria conduce ad un processo di emulazione interna delle azioni motorie pianificate molto simile a ciò che avviene nella realtà; – il confronto tra gli effetti dell’azione anticipata e gli effetti dell’emulazione interna può generare un segnale di errore che costituisce la base per il miglioramento della prestazione motoria, anche senza l’esecuzione del movimento reale; – tale meccanismo evolutivo avverrebbe in regioni cerebrali sovrapponibili a quelle coinvolte nell’azione motoria reale.

2 – MOTOR IMAGERY, EFFETTO CARPENTER, EQUIVALENZA FUNZIONALE E CORRELATI NEURALI

La Teoria Psiconeuromuscolare (Carpenter, 1894) ha cercato di spiegare il funzionamento della motor imagery secondo il principio ideomotorio definito «effetto Carpenter». Tale effetto sostiene che il cervello dell’atleta che esegue la motor imagery, invia configurazioni di impulsi neuromuscolari simili a quelli originati durante l’esecuzione reale del medesimo comportamento motorio, fornendo un feedback neuromuscolare che permette aggiustamenti al programma motorio stesso. Questo processo di “attivazione specifica”, eseguito in assenza di movimento reale, ma rilevabile attraverso misure del potenziale elettrico muscolare (EMG) sui muscoli interessati dall’attività immaginativa, faciliterebbe l’apprendimento di abilità motorie.

Pascual-Leone e collaboratori (1995) hanno rilevato che le modificazioni nella mappa della corteccia sensomotoria dopo un training motor imagery sono simili a quelle ottenute con esercizio fisico. Kosslyn e collaboratori (2001), partendo dai risultati di numerosi studi di brain imaging (fMRI e EEG), hanno proposto la teoria della “equivalenza funzionale” secondo la quale VI e motor imagery reclutano strutture e/o processi neurali simili alla reale attività di percezione visiva e di attività motoria. Tale evidenza sostiene inoltre il ruolo che l’attività di imagery può ricoprire nel controllo delle emozioni associate alle attività coinvolte. Munzert e collaboratori (2009) sottolineano che le aree corticali coinvolte in un compito motorio sono numerose (corteccia motoria primaria (M1), area motoria supplementare (SMA), area motoria presupplementare (pre-SMA), le porzioni ventrali e dorsali della corteccia premotoria (PMC)), che tali aree sono strettamente legate a cervelletto e gangli della base e che altre aree sono importanti per l’esecuzione motoria (corteccia somatosensoriale primaria (S1) e parte del lobo parietale, in particolare la corteccia parietale superiore ed inferiore). Recenti studi hanno rilevato che tali aree sono attivate sia dalla motor imagery sia dall’esecuzione reale del movimento motorio immaginato (Munzert, Loreya & Zentgrafa, 2009). Porro e collaboratori (1996) sottolineano però che la corteccia motoria primaria (M1), durante la motor imagery, presenta un’attivazione con intensità ridotta rispetto all’esecuzione reale, mettendo in luce come la differenza tra l’attività cerebrale durante la motor imagery e durante l’esecuzione della stessa attività motoria sia esclusivamente di tipo quantitativo e non qualitativo.

3 – MOTOR IMAGERY: ESPERTI VS NOVIZI

Esiste però una differenza nell’equivalenza funzionale tra motor imagery e esperienza motoria reale che dipende dalle caratteristiche del soggetto, specificate da Jeannerod (2006) e Milton e collaboratori (2008): – capacità di immaginazione – esperienza relativa al determinato compito motorio – attenzione selettiva (tipicamente il novizio utilizza un livello di attenzione troppo elevato o eccessivamente ridotto) – interazione tra sistema limbico e cognitivo (una maggiore attivazione del sistema limbico è associato ad una ridotta attività nelle aree cerebrali coinvolte nella pianificazione motoria e nel meccanismo di ricompensa). A supporto di tale ipotesi risulta importante il lavoro di Lotze e collaboratori (2001) che hanno rilevato come i pazienti con amputazione dell’arto superiore, durante la MI della mano fantasma, mostrino un’attivazione della corteccia motoria contro laterale, cosa che non avviene in soggetti nati senza il braccio e che quindi non hanno potuto maturare l’esperienza relativa all’uso dell’arto mancante. Anche Wei e Luo (2010), attraverso studi fMRI, hanno rilevato che gli sportivi esperti, rispetto ai novizi, durante la motor imagery relativa al loro sport, presentano una maggiore attivazione del paraippocampo e dell’area prefrontale, aree rilevanti per la rappresentazione ed il controllo motorio. Nessuna differenza emerge invece se la motor imagery riguarda azioni non specifiche di quel determinato sport. In definitiva, maggiore è l’esperienza in una determinata attività motoria, maggiore è il risultato della motor imagery relativa ad essa.

4 – MOTOR IMAGERY: LE DIMENSIONI DELL’ABILITÀ IMMAGINATIVA

L’acquisizione della capacità immaginativa richiede un allenamento sistematico, che deve basarsi sulle caratteristiche fondanti della Imagery, che Conway e Pleydell-Pearce (2000) riassumono in: – vividezza delle immagini (chiarezza, forma e ricchezza sensoriale con cui l’immagine motoria viene costruita) – controllo delle immagini (facilità e accuratezza con cui l’immagine può essere trasformata e manipolata a livello mentale) – immagine negativa (associata alla psicopatologia e ad immagini intrusive) – immagine positiva (usata per simulare ed esercitare modalità più adattive di agire) – immagine creata volontariamente – immagine recuperata involontariamente (tipicamente un ricordo che emerge spontaneamente) – first-person perspective (1PP) (il soggetto immagina di eseguire l’azione osservando tramite i propri occhi e usando tutti i propri sensi, come se avesse una videocamera posizionata sulla propria testa) – third-person perspective (3PP) (il soggetto immagina di osservare l’azione dall’esterno, come se una videocamera riprendesse un film di cui è protagonista). In pratica non si tratta semplicemente di sviluppare la capacità di “vedere”, ma di “sentire” tutta la ricchezza sensoriale dello stimolo e i suoi correlati cognitivi ed emotivi, evitando l’insorgere di immagini involontarie e negative in grado di rendere l’esperienza di imagery iatrogena. Un valido esempio in tale senso è rappresentato dal DPTS, dove l’imagery è negativa, involontaria ed estremamente vivida e angosciante, arrivando anche ad assumere la forma di un vero e proprio flashback dissociativo, in cui il soggetto perde il contatto con la realtà attuale e rivive quanto accaduto nell’evento traumatico (Van der Kolk, 1994). È quindi evidente che un utilizzo errato della motor imagery può avere esiti negativi.

5 – UTILIZZO DELLA MOTOR IMAGERY

Jones e Stuth (1997) evidenziano che la motor imagery è tipicamente utilizzata da: – PAZIENTI per recuperare abilità motorie perse o compromesse da disturbi neurologici. Page e collaboratori (2007) hanno dimostrato che pazienti colpiti da ictus cerebrale trattati con un programma che includeva una pratica motoria sia fisica che mentale, dimostravano una riduzione significativamente maggiore della menomazione dell’arto, rispetto a pazienti che eseguivano esclusivamente una pratica fisica ed esercizi di rilassamento. – ATLETI E ARTISTI, per migliorare la propria prestazione, regolare il proprio stato di attivazione, identificare e/o modificare pensieri e immagini maladattive (noia, scarsa autostima, bassa motivazione, limitata concentrazione), riabilitazione dagli infortuni. Attualmente la prevalenza di utilizzo della motor imagery riguarda l’ambito della Psicologia Positiva e della Psicologia dello Sport.

6 – MOTOR IMAGERY E SPORT

Nello Sport la motor imagery costituisce una componente fondamentale della preparazione mentale degli atleti ed il suo uso è ampiamente diffuso tra gli atleti professionisti come tecnica complementare all’allenamento sul campo. Jones e Stuth (1997) stimano infatti che tra il 70% e il 99% degli atleti di elite utilizzi la motor imagery nei propri allenamenti in sport quali: tennis, tiro con l’arco, golf, ginnastica, sci, motociclismo, calcio e basket. Si tratta di sport molto diversi tra loro, che indicano l’adattabilità della motor imagery alle due capacità fondamentali che uno sportivo deve possedere:
– “closed motor skills” (es. il servizio nel tennis, il tiro a canestro nel basket, il tiro con l’arco), dove l’attività è indipendente dal contesto ambientale

–  “open motor skills” (es. la volèe nel tennis, il calcio di rigore nel calcio), dove il movimento è legato a stimoli ambientali (es. movimento della pallina, linguaggio del corpo dell’avversario).

I motivi di tale successo vanno ricercati nella forte connessione mente-corpo che caratterizza ogni sport e che rende l’uso della motor imagery una pratica spontanea per gli atleti. Infatti: 1. Ogni azione sportiva è un’attività polisensoriale 2. L’atleta è allenato a percepire ogni sensazione che proviene dal corpo (tramite la motor imagery attiva processi che sperimenta quotidianamente, ad esempio, nel tennista l’immagine mentale del tenere una pallina in mano, avvia immediatamente il repertorio di sensazioni associate a questa situazione) 3. Le sensazioni corporee guidano l’atleta in un costante processo di autoregolazione al fine di dominare la fatica, gestire gli errori, distribuire le sue energie 4. L’atleta riconosce molto bene le emozioni, vissute spesso in maniera estrema durante le competizioni. Mal di stomaco, cuore in gola sono esperienze facilmente rievocabili dagli atleti. Di conseguenza, anche a distanza di tempo (come nel DPTS), la rievocazione mentale di queste condizioni psicologiche comporterà l’attivazione di tutte le sensazioni collegate.

7 – SPORT, MOTOR IMAGERY E MODELLO PETTLEP

Il protocollo di motor imagery più utilizzato in ambito sportivo è il modello PETTLEP (fig.1) di Holmes e Collins (2001). Esso si basa sul concetto di “equivalenza funzionale” e definisce gli aspetti fondamentali per l’efficacia della sua applicazione: 1. Physical (l’imagery deve essere di tipo fisico). Sottolinea inoltre che far precedere una motor imagery da una fase di rilassamento potrebbe avere ripercussioni negative sulla prestazione reale. 2. Environment (il contesto immaginato deve essere simile a quello reale) sottolinea la necessità di stimolare, con script opportuni o filmati, la percezione dell’atleta di trovarsi in contesti familiari (di allenamento o competizione) tali da permettergli di vivere l’esecuzione della prestazione come se realmente stesse accadendo     3. Task (il compito immaginato deve essere adattato alle abilità del soggetto) definisce la necessità di una «coerenza fisiologica» fra l’attività immaginativa e competenza reale dell’atleta 4. Timing (I tempi di esecuzione devono essere simili a quelli reali) 5. Learning (il compito deve mirare all’incremento delle capacità del soggetto) sottolinea la necessità di mantenere un’equivalenza funzionale fra l’effettivo apprendimento fisico/tecnico/tattico dell’atleta e il suo processo di imagery 6. Emotion (l’esperienza di imagery deve elicitare le stesse emozioni emergenti nella realtà) evidenzia la rilevanza della componente emozionale dell’imagery, in grado di migliorare le risposte emozionali che l’atleta vive in setting competitivi; 7. Perspective (il punto di vista 1PP è quello più adatto per la maggior parte di sport).

8 – VISUAL IMAGERY, MOTOR IMAGERY E RIABILITATAZIONE SPORTIVA

L’infortunio è un evento comune fra gli atleti e la gravità dell’infortunio può impedire il normale allenamento motorio. VI e motor imagery possono coadiuvare l’atleta ad affrontare il processo riabilitativo intervenendo su diversi aspetti : – GESTIONE DEL DOLORE mediante – immagini dissociative (immagini che distraggono il pensiero dal dolore) aventi l’obiettivo di far sviluppare al soggetto un’immagine mentale multisensoriale di sé, immerso in un ambiente tranquillo e rilassante (soggettivamente significativo), che potrebbe agevolare la riduzione dell’attività del sistema nervoso simpatico, consentendo una graduale diminuzione della tensione muscolare con una riduzione della distribuzione degli impulsi del dolore – immagini associative (immagini focalizzate sul dolore) volte a conferire al dolore delle vere e proprie proprietà fisiche (forma, dimensione, colore, movimento). Identificate le caratteristiche multisensoriali associate alla sensazione di dolore è possibile, modificandone il contenuto, trasformarle in sensazioni in grado di provocare uno stato di sollievo (ad esempio, paragonando delle fitte ad un arto a delle pugnalate inferte con la punta di un coltello acuminato è possibile immaginare che il coltello pian piano diventi spuntato fino a trasformarsi in un coltello di plastica con una conseguente riduzione della sensazione di dolore).
– PROCESSO DI RIABILITAZIONE l’atleta infortunato visualizza, in stato di rilassamento, immagini mentali che prevedono il superamento ottimale delle fasi utili al completo recupero fisico e di ritorno alle competizioni (mastery approach), inserendo anche rappresentazioni mentali delle proprie abilità di coping utili a superare in maniera efficace i possibili problemi reali e/o previsti (coping style of imagery) che si incontrano in fase di riabilitazione. – PRESTAZIONE dei movimenti o azioni complesse che l’atleta infortunato non è in grado di compiere.

9 – IO, L’AZIONE E LA MOTOR IMAGERY

Il successo della motor imagery sulla prestazione sportiva reale dipende dal singolo atleta; per questo motivo è fondamentale sviluppare script personalizzati che contengano informazioni soggettivamente significative per quell’atleta. Ronaldinho, vincitore del Pallone d’oro 2006, dichiara: [blockquote style=”1″]Il mio allenamento prevede anche la creazione di un’immagine mentale di come passare al meglio la palla a un mio compagno. Lo faccio sempre, prima di ogni partita, ogni giorno e ogni notte, immaginare un modo di giocare a cui nessun altro ha pensato, tenendo sempre a mente i miei punti di forza e quelli dei miei compagni.[/blockquote]

Quello che segue è un esempio di script motor imagery (basato sul modello PETTLEP) utilizzato da un atleta professionista dei 100 metri piani durante i giorni precedenti la gara e nella fase di riscaldamento (Lucidi, 2001): Assumo una posizione comoda … chiudo gli occhi … faccio dei respiri profondi … Sento i punti d’appoggio del mio corpo sul lettino … la nuca … le spalle … i glutei … i talloni. Ho ultimato il riscaldamento … entro in pista … mi avvicino alla partenza dei 100 metri … sono dietro ai blocchi di partenza … vedo la corsia di fronte a me … vedo il pubblico … lo sento … vedo lo starter … vedo gli avversari al mio fianco … ho una grande voglia di correre forte … mi concentro solo su me stesso … sento i miei muscoli pieni di energia e di forza. Mi posiziono sui blocchi … sento il battito cardiaco che aumenta … sento l’adrenalina che sale sento il colpo di pistola … esco dai blocchi come un’esplosione … eseguo i primi appoggi lunghi e potenti … eseguo la fase di accelerazione fluida … sento il vento sul viso … le gambe si muovono veloci … il traguardo è sempre più vicino … supero la linea del traguardo … respiro … mi giro verso il tabellone elettronico e leggo il risultato che attendevo … ho ottenuto la prestazione che mi aspettavo … sento dentro di me emozioni positive.

10 – IO, L’ALTRO, L’AZIONE E LA MOTOR IMAGERY

Ridderinkhof e Brass (2015) evidenziano che la motor imagery oltre a permettere di apprendere, migliorare ed affinare una propria determinata capacità motoria, potrebbe anche consentire un percorso inverso: imparare, migliorare ed affinare la nostra capacità di predire le intenzioni motorie altrui, partendo dal riconoscimento delle caratteristiche cinestetiche attuali. In tale compito ricoprirebbe un ruolo centrale il “sistema corticale dei neuroni specchio” (mirror neuron system – MNS). La motor imagery sarebbe quindi al centro di un “doppio processo” che permetterebbe di migliorare le attività motorie in ambito “competitivo-relazionale” come ad esempio nel parare un calcio di rigore.

Non è dai particolari che si vede un giocatore Il calcio di rigore è spesso fondamentale per decidere le sorti di una partita di calcio. Si tratta di un confronto impari tra rigorista e portiere, dato che statisticamente solo il 20% dei rigori viene parato (Dohmen, 2008). Infatti, il portiere ha una sola possibilità: rispondere a ciò che vede nel tempo che intercorre tra il momento in cui la palla è colpita e il momento in cui la palla supera la linea di porta, tempo stimabile in 500-700 ms (Franks & Harvey, 1997). L’unica alternativa per il portiere sarebbe partire prima che la palla sia colpita dal rigorista, ma questo vorrebbe dire indovinare dove andrà a finire la palla, o meglio, sapere dove il tiratore pensa di voler mettere il pallone. Memmert e collaboratori (2013) hanno individuato le caratteristiche insite nel movimento dei rigoristi prima di calciare la palla, che influenzeranno la direzione della palla stessa: – obliquità della rincorsa – orientamento e rotazione del busto, – orientamento e posizionamento del piede che non calcerà la palla. L’orientamento del piede di supporto in particolare, rappresenta l’aspetto maggiormente predittivo della direzione che assumerà la palla, in quanto tende a puntare nella direzione dove la palla si sta dirigendo. Savelsbergh e collaboratori (2010) hanno dimostrato che tramite l’osservazione video dei calci di rigore i portieri possono ottimizzare la loro capacità di riconoscere tali caratteristiche.

Ridderinkhof e Brass (2015) evidenziano però che il portiere non si limita ad osservare le caratteristiche cinematiche di colui che calcia il rigore, ma che collega tali caratteristiche alla propria esperienza cinestetica, esattamente come se fosse lui ad eseguire l’azione.
Il portiere ha quindi bisogno di un ricco modello generativo dell’effetto sensoriale, che può acquisire osservando molti calci di rigore realizzati da altri giocatori, ma anche acquisendo una esperienza diretta nel tiro dei calci di rigore. In definitiva il portiere più abile sarà il portiere – in grado di “leggere” la cinematica del corpo dell’avversario – che possiede il più ricco repertorio di calci di rigore (eseguiti realmente o tramite motor imagery). Previsioni simili possono essere fatte per altri sport quali ad esempio la risposta nel tennis.

In conclusione, il target dell’atleta impegnato in attività di tipo “closed motor skills” è quello di utilizzare la motor imagery al fine di affinare sempre più i propri comportamenti motori. L’atleta impegnato anche in attività di tipo “open motor skills”, dovrà anche essere in grado di osservare i particolari dei movimenti altrui, ma soprattutto di eseguire quei determinati movimenti, diventandone un esperto.

Chi consuma cannabis in adolescenza mostra un deficit nella memoria episodica

Il consumo di cannabis in adolescenza è associato a deficit nella memoria episodica (EM), ossia quel tipo di memoria concernente i nostri ricordi autobiografici. 

Nel 2010 la National Survey on Drug Use and Health ha identificato la cannabis come droga più comunemente consumata negli Stati Uniti. Inoltre, a seguito di una recente politica depenalizzante la sostanza in questione, in Colorado è aumentato l’abuso di cannabis e contemporaneamente tra gli adolescenti si è ridotto il rischio percepito legato al suo consumo.

 

Cannabis e memoria episodica

Il consumo di cannabis è associato a deficit nella memoria episodica (EM), ossia quel tipo di memoria concernente i nostri ricordi autobiografici. Tra le strutture limbiche, l’ippocampo gioca un ruolo fondamentale nell’integrazione dei ricordi ed è caratterizzato da un’alta densità di recettori per i cannabinoidi di tipo 1 (CB1). La cannabis influisce negativamente sulla memoria stimolando l’eccessiva espressione dei recettori CB1 nell’ippocampo, che a sua volta inibisce la trasmissione glutammatergica, GABAergica e sopprime la LTD (Long-term depression) e la LTP (Long-term potentiation).

Nei soggetti che abusano di cannabis, inoltre, il volume e la forma dell’ippocampo appaiono diversi rispetto alla popolazione generale, e tale scarto sembra ampliarsi di concerto alla durata del periodo di consumo della sostanza.

 

Cannabis in adolescenza: lo studio

Sulla base di queste ipotesi, il team guidato da Matthew J. Smith ha indagato gli effetti dell’uso della cannabis in adolescenza sulla memoria episodica e sulla morfologia dell’ippocampo in 97 soggetti che tra i 16 e i 17 anni avevano fatto uso di cannabis per almeno 3 anni, ma che da due non ne facevano più uso. Il campione è stato categorizzato come segue:

– 44 soggetti sani (CON);
– 10 soggetti sani con un passato di abuso di cannabis (CON-CUD; i.e: CUD, Cannabis Use Disorder);
– 28 pazienti schizofrenici (SCZ);
– 15 pazienti schizofrenici con un passato di abuso di cannabis (SCZ-CUD).

Gli sperimentatori hanno voluto includere nell’esperimento anche due gruppi di pazienti schizofrenici in quanto anche questa categoria di pazienti evidenzia un deficit della memoria episodica e quindi, all’ interno di tale esperimento, si caratterizzano come un ottimo termine di paragone per i soggetti senza disturbi psichiatrici.

Dopo la somministrazione dei test tesi a valutare le capacità cognitive, i soggetti si sono volontariamente sottoposti a risonanza magnetica. Dai risultati è emerso come i soggetti CON-CUD mostrino delle differenze nella forma dell’ippocampo rispetto ai soggetti CON, ed in particolare: introflessioni in corrispondenza dell’ippocampo anteriore, medio-dorsale e medio-ventrale ed estroflessioni nelle regioni dorsolaterali e antero-ventrali. Inoltre, nei soggetti CON-CUD il volume dell’ippocampo destro risulta maggiore rispetto al sinistro. I pazienti schizofrenici, invece, mostrano introflessioni nella regione medio-dorsale dell’ippocampo, così come nelle regioni anteriore e posteriore dell’ippocampo ventrale; le estroflessioni sono osservabili nelle regioni dorsolaterale e dorsale anteriore.

In particolare, la differente morfologia dell’ippocampo nei soggetti CON-CUD è associata ad una ridotta performance nei test di memoria episodica, mentre nei SCZ-CUD è associata con la maggiore durata del CUD e con un tempo di remissione del CUD più breve.
Rispetto alle capacità cognitive, invece, nei soggetti sani con un passato di abuso di cannabis sono rilevabili performance di memoria episodica peggiori nel 18% dei casi rispetto a chi non ha mai utilizzato questa droga. Tali deficit risultano più severi tra i pazienti schizofrenici con un passato di abuso di cannabis (SCZ-CUD), arrivando al 26% dei casi quando comparati agli SCZ senza CUD. Infine gli SCZ ottengono punteggi ridotti nei test di memoria episodica rispetto ai soggetti CON-CUD.

All’interno del gruppo CON-CUD, quando confrontato con i soggetti CON, le modificazioni nella forma dell’ippocampo sinistro correlano con l’abuso di cannabis. Rispetto ai pazienti SCZ-CUD, gli sperimentatori riportano modificazioni nella forma dell’ippocampo destro correlate ad una maggiore durata del CUD, quando invece una maggiore durata del periodo di astinenza dalla sostanza è associato a ridotti mutamenti nella forma dell’ippocampo sinistro.

In conclusione, dallo studio in questione emerge come tra i soggetti CON-CUD e SCZ-CUD si riscontri un deficit significativo della memoria. Inoltre, una maggiore durata del CUD e una più breve durata del periodo di astinenza dalla cannabis correlano positivamente con le modificazioni nella forma dell’ippocampo. Sebbene qualitativamente diversa, la forma dell’ippocampo dei soggetti CON-CUD e SCZ risulta alterata, risultato in accordo con la letteratura precedente che stabilisce come gli adolescenti che abusano della cannabis siano esposti ad un rischio maggiore di sviluppare disturbi dello spettro psicotico, forse per via della neurotossicità della sostanza, come riportato da una recente meta-analisi (Rocchetti et al., 2013); una seconda ipotesi sosterrebbe il ruolo interferente della cannabis nel processo di pruning dell’ippocampo durante la maturazione dei neuroni (Lisdahl et al., 2013).

Il rimpianto del passato e dell’amore perduto negli italiani

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  12/12/2015

 

Si dice che gli italiani siano perennemente rivolti a un passato da sognare o da maledire e rimproverare. Rinchiusi in un pensoso ruminare, rivanghiamo un’età dorata ormai sfuggita e preferiamo perderci in essa, invece che goderci il presente.

Alcuni rimpiangono Berlinguer, altri l’Impero Romano, altri ancora –più laici- il Rinascimento. I migliori sono forse quelli che rimpiangono un amore perduto. In questa perdita hanno perso il senno, come un Orlando Furioso senza un Astolfo che si sobbarchi il viaggio sulla luna per recuperarlo.
Eppure anche in questo caso abbiamo nostalgia di noi stessi, di un noi stessi immaginario e migliore che affonda la sua esistenza nel passato.

[blockquote style=”1″]Quello che mi manca di lui sono io quando stavo con lui[/blockquote]

scrive Chiara Gamberale, ed è un buon modo per individuare il nocciolo di ogni nostalgia. Ritorniamo a cercare noi stessi in un’illusione di felicità. Può accadere volontariamente oppure il ricordo può sorgere inaspettato, come nella madeleine di Proust. In quel caso, fu la fisiologia a squadernare la psicologia del ricordo e della nostalgia. Anche se non si trattava di un ricordo d’amore, ma di una memoria infantile, quello delle vacanze estive a Balbec e delle visite alla zia Leonie. Grazie al profumo di un alimento.

O come le poesie d’amore di Vincenzo Cardarelli, intrise dello struggimento autunnale dell’amore perduto per Sibilla Aleramo, troppo spregiudicata e libera per il timido poeta. Il senso desolante della fine si mescola all’amarezza per la delusione:

[blockquote style=”1″]Dovevamo saperlo che l’amore / brucia la vita e fa volare il tempo.[/blockquote]

L’ansia patologica di cui era vittima Cardarelli era il terrore di essere lasciato solo, il timore pervasivo del non sentirsi adatti. Non solo nell’addio definitivo, ma perfino negli arrivederci Cardarelli coglieva i presagi di una separazione:

[blockquote style=”1″]Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo/così, senza speranza./Se tu sapessi com’è già remoto/il ricordo dei baci/che poco fa mi davi,/di quel caro abbandono,/di quel folle tuo amore ov’io non mordo/ se sapore di morte.[/blockquote]

Si tratta di un trauma, e del trauma ha tutte le caratteristiche. Il senso d’irrealtà con i sensi al tempo stesso acutizzati e rallentati, la realtà quotidiana attorno a noi diventata falsa e irrilevante, come se ci trovassimo sotto ad una campana di vetro. Arrivano involontariamente pensieri, ricordi e immagini di quello che è successo e che è stato per sempre perduto. Sono i pensieri intrusivi, sgraditi compagni del dolore. E poi si rimugina infinitamente sull’evento, si rimestano i ricordi, si pensa ripetutamente a quello che è accaduto per cercare di capire le ragioni dell’infelicità; ma non c’è nulla da capire.

È la cosiddetta ruminazione, studiata dalla ricercatrice Nolen-Hoeksema (1991). Una catena di pensieri e quesiti generici e astratti che una persona inizia a porre a se stessa in risposta al suo stato emotivo triste e depressivo.

Perché succede a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo? Perché non riesco a dare un senso a quello che mi succede?

Un altro termine che si usa in psicologia è brooding, la passiva contemplazione di ciò che c’è di sbagliato nella propria vita; è una forma di ragionamento astratto orientato a ripetersi domande sul “perché” degli eventi e dei sintomi senza cercare una soluzione attiva (es: “perché capita sempre a me e non agli altri?”).

Indubbiamente questa situazione riflette una mentalità passiva e una situazione nella quale non vi è possibilità di riscatto e progresso. Può essere la situazione di un amore disperato, o anche il riflesso di una condizione amara e priva di speranze. Questa mentalità dovrebbe essere stata spazzata via dalla nozione moderna di progresso e di fiducia nelle capacità umane di migliorare se stessi e il mondo. Le culture antiche erano invece malate di nostalgia. Il passato era inevitabilmente migliore, anzi perfetto. Un’età dell’oro che non si sarebbe mai più ripetuta. Poi la decadenza, dall’argento al bronzo fino al presente grigio e ferreo, violento e ingiusto. Questa psicologia pessimistica rifletteva le difficili condizioni di vita del passato e così inventava una nostalgia per un’epoca immaginaria e senza tempo dove si può godere di un’abbondanza illimitata, un mondo privo di sofferenza e mortalità, pieno di vitalità e piaceri. È il mito dell’Età dell’Oro.

Fu Jung, ispirandosi all’antropologia di Fraser e Antkinson, a proporre che il mito sia un’espressione narrativa e simbolica, di una realtà psichica umana.

Il mito come una manifestazione collettiva dello spirito umano, di cui rivela e, al tempo stesso, dissimula le tendenze inconsce. La psicologia moderna ridimensiona l’importanza della componente inconscia ma accetta le intuizioni di Jung: la psiche umana nasconde un sogno –per nulla inconscio- di un’utopia, un sogno in cui risuoni l’eco di un passato antico ormai perduto in cui si godeva di un’ideale e perfetta società. Questo sogno è anche la speranza di una rinnovata epoca di pace, giustizia e abbondanza che raggiungeremo in futuro.

La modernità ha segnato una svolta, il passaggio da una mentalità pessimistica e volta al passato a un atteggiamento diretto al futuro, ottimistico e fiducioso nel progresso. Non è detto che la nuova mentalità non condivida qualcosa di quella antica. Il sogno dell’abbondanza forse rivive nella previsione di una futura potenza tecnologica che inaugurerà un’età di abbondanza per l’umanità, stavolta non più nostalgica ma realizzazione pratica dell’esplosione dell’Intelligenza con la I maiuscola, nuova dea della modernità disincantata, e dell’avanzamento esponenziale della sua sposa, la Tecnologia.

Nei popoli mediterranei questa fede nel progresso è meno diffusa e lo sguardo all’indietro sopravvive più strenuamente. Il presente si unisce a un senso d’insufficienza e di delusione, mentre l’antichità, che sia trascorsa da pochi decenni o da secoli e perfino millenni, si colora dell’oro della felicità e dell’amore perduto. E su questo ci piace ruminare, magari leggendo i versi di Vincenzo Cardarelli.

iFeel: diario dell’umore versione 2.0 – Recensione dell’App

L’app si configura come un moderno diario dell’umore, che permette di registrare lo stato emotivo. Inserendo diversi dati e utilizzando i filtri dell’app, l’utente ha la possibilità di visualizzare il grafico dell’andamento del proprio umore.

iFeel è una app ideata e realizzata da Riccardo Chiarini che consente di monitorare alcune informazioni psicologiche di base giorno per giorno.

L’app si configura come un moderno diario dell’umore, che permette di registrare lo stato emotivo (scegliendo tra alcune opzioni, come ‘felice’, ‘pensieroso’, ‘triste’, etc.); inoltre, viene richiesto di assegnare un punteggio a ogni giorno su una scala da 0 a 10. Accanto alla registrazione dello stato emotivo, l’utente può indicare dove si trovava in quel giorno, che tempo faceva e può aggiungere una breve descrizione narrativa. Infine, è possibile corredare ogni giornata con una foto rappresentativa.

Inserendo questi dati e utilizzando i filtri dell’app, l’utente ha la possibilità di visualizzare sia il grafico dell’andamento dell’umore (in base ai punteggi assegnati a ogni giorno) che un’eventuale correlazione tra il meteo e lo stato emotivo. Inoltre, l’app fornisce una mappa che permette di localizzare la frequenza delle presenze nei diversi punti geografici e riassumere tutte le informazioni raccolte sulla base della posizione. Infine, è presente una sezione Aforismi che raccoglie diverse frasi celebri e di possibile incoraggiamento (una al mese), consentendo anche la possibilità di inviare aforismi di propria conoscenza da aggiungere alla pagina.

Alla registrazione, l’utente indica il sesso e il tema che vuole sia applicato alla grafica; inoltre, può impostare un orario in cui ricevere dall’app la notifica che gli ricordi di procedere con la registrazione della giornata trascorsa o in corso; infine, può aggiungere una foto al profilo e può decidere di aumentare il controllo di sicurezza aggiungendo una password.

Infine, il diario è esportabile in pdf, consentendo all’utente di conservare quanto registrato anche una volta che decida di non utilizzare più l’app, oppure di condividerlo con altre persone agilmente via e-mail.

La pubblicità sul sito dell’app promette di aiutare l’utente a conoscersi meglio e essere più felice. In effetti, la prima cosa che mi viene in mente rispetto all’utilizzo di iFeel è il ‘Promemoria‘, che ti ricorda ogni giorno di fare il punto su come stai, come è andata la giornata, eccetera. Hai la sensazione di ritagliarti un momento per te, dare un voto alle esperienze che hai fatto o non hai fatto nel corso del giorno trascorso e stabilire il tuo umore. In qualche modo, prendi consapevolezza della cosa, che di per sé ti aiuta a trovare un attimo e fermarti.

Mi è capitato di dare un voto molto basso a una specifica giornata, e questo mi ha spinta a chiedermi cosa non fosse andato bene, cosa mi avesse buttata giù o fatta innervosire. Allo stesso modo, mi è capitato di avere difficoltà a scegliere un solo stato d’animo tra quelli proposti, e di cambiare idea 5 minuti dopo aver registrato la mia giornata (anche questo ovviamente è possibile, per gli indecisi e i colpi di scena di fine giornata).

Spesso ci troviamo a correre molto, arrivando a sera senza aver capito bene né come ci siamo sentiti né, di conseguenza, cosa possiamo modificare per sentirci meglio nel caso in cui qualcosa non stia funzionando. Pur nella sua estrema semplicità, l’app mi sembra possa essere utile in questo senso a creare un punto di settaggio, in cui ci fermiamo un attimo e facciamo a noi stessi quelle due o tre domande che ci consentono di non rotolare troppo dietro agli eventi e agli appuntamenti, ma di darci una pausa.

Allo stesso modo, riguardando lo storico attraverso il grafico dell’umore oppure le foto caricate giorno per giorno, abbiamo la possibilità di renderci meglio conto di come tutto sia relativo a un momento, a una giornata o a una situazione. Ci si ricorda del perché abbiamo dato 4 a una certa giornata solo una settimana fa, e di aver dato 8 alla giornata di ieri, e questo aiuta a toccare con mano la labilità delle brutte giornate, delle situazioni difficili e dei malumori.

Pensando invece all’utilizzo clinico dell’app, penso che possa essere un buon tramite per tenere d’occhio come sta un paziente tra una seduta e l’altra. La facilità di utilizzo di iFeel e la sua essenzialità permettono di non perdersi in compilazioni troppo lunghe e dispendiose di tempo, mentre il fatto di centrare le considerazioni su 2/3 punti fondamentali assicura chiarezza e semplicità. In questo modo, la notifica non diventa un fastidioso ricordarsi di compilare qualcosa, ma un promemoria che ti fa dire ‘ok, come sono stata oggi?’ e ti porta a fare il punto prima di ripartire con la nuova giornata.

In un futuro lavorativo che promette sempre di più il contatto in remoto con il paziente (pensiamo alle sedute via Skype o anche solo alle telefonate tra una seduta e l’altra) penso che lo sviluppo di strumenti semplici come questo possa essere una buona modalità per tenere sotto controllo quello che succede, aiutare nella sintesi e in una considerazione più riassuntiva e meno sensibile degli avvenimenti singoli di tutti i giorni; in questo modo, il paziente può essere più consapevole della visione d’insieme e il terapeuta può capire meglio cosa succede e quali sono le circostanze più difficili per la persona, suggerendo anche interessanti punti su cui focalizzare gli interventi.

L’app è gratuita e disponibile per iOS e Android.

Tricotillomania: caratteristiche e tipologie di trattamento

Libera Liana Diana – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Il termine tricotillomania (hair pulling disorder) fu introdotto nel 1889 da Francois Henri Hallopeau, con lo scopo di indicare una condizione caratterizzata dal frequente atto di tirare i capelli con conseguente perdita di quest’ultimi.

Tricotillomania: inquadramento diagnostico

Nel DSM IV, la tricotilllomania era classificata come un disturbo del controllo degli impulsi; oggi tale condizione è inserita nel DSM 5, nella categoria Obsessive-compulsive and related disorder. Questa nuova categoria diagnostica è costituita da: il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), il dismorfismo corporeo, l’accumulo patologico (disposofobia/hoarding), l’escorazioni cutanee (skin picking disorder), il DOC provocato da sostanze o in seguito ad una condizione medica e altri specificati/ non specificati DOC e correlati.

I criteri diagnostici per la diagnosi di tricotillomania proposti dal DSM5 sono i seguenti:

  • A. Strapparsi ricorrentemente i propri capelli, con conseguente perdita degli stessi;
  • B. Ripetuti tentativi di ridurre o interrompere tale comportamento;
  • C. Tirarsi i capelli causa disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento;
  • D. Strapparsi i capelli o la perdita dei capelli non è attribuibile ad un’altra condizione medica;
  • E. Strapparsi i capelli non è meglio spiegato da i sintomi di un altro disturbo mentale (APA 2013).

Gli individui con hair pulling disorder (HPD) tipicamente tirano i capelli utilizzando le dita, delle pinzette o altri strumenti. La lunghezza della durata di un episodio di tricotillomania è individuale, ma la durata media è di 45 minuti al giorno. Le aree maggiormente colpite sono il cuoio capelluto (75%), le ciglia (53%), le sopracciglia (42%), la barba (10%) e le aree pubiche (17%) (Duke 2010). Alcuni soggetti con tricotillomania spesso ingeriscono i capelli strappati, dando origine a tricobezoari che portano a complicazioni gastrointestinali e interventi chirurgici.

 

Caratteristiche della tricotillomania e comorbilità

L’HPD è tutt’altro che raro, colpisce l’1% della popolazione di cui la maggior parte sono donne (88% – 94%). Le differenze di genere possono essere dovute al fatto che le donne siano più inclini degli uomini a chiedere aiuto e che molti più uomini presentano tale disturbo in comorbidità con il Disturbo Ossessivo compulsivo. Inoltre vi sono dei veri e propri bias di genere: infatti negli uomini, l’età di insorgenza della tricotillomania è più tardiva rispetto alle donne (Lochner 2010). Esistono tre tipologie di HPD:

  • Esordio precoce: si presenta in bambini con età inferiore agli otto anni;
  • Automatico: l’episodio di pulling ha luogo quando il soggetto è impegnato a fare altro (guardare la televisione, leggere etc). Questa tipologia colpisce il 75% dei pazienti;
  • Focalizzato: i pensieri occupano l’attenzione del soggetto e il pulling avviene in risposta ad un sentimento di urgenza (ad es. ridurre la tensione), ad un impulso o ad uno stato emotivo negativo. (Shoenfeld 2012).

La comorbidità è alta con le diagnosi psichiatriche (82%), con la depressione maggiore (37-65%), con i disturbi d’ansia (55 – 60%) e con l’abuso di alcolici (33%) (Shoenfield 2012). La diagnosi differenziale va fatta rispetto al Disturbo Ossessivo Compulsivo, al dismorfismo corporeo, ai sintomi psicotici e a condizioni che possono essere dovute ad una patologia medica o dermatologica (Snorrason 2015).

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per la tricotillomania

Le teorie cognitivo-comportamentale ritengono che alcuni pensieri (ad esempio ‘Questo capello grigio deve andarsene’) e le sensazioni emotive, come l’agitazione o la noia, possono costituire un trigger per il comportamento di pulling. Molto importanti sono anche i fattori contestuali, ad esempio una specifica stanza può incidere sulla messa in atto del comportamento (Snorrason 2015). La terapia cognitivo comportamentale propone per il trattamento della tricotillomania diversi interventi tra i quali il più diffuso è l’Habit Reversal Training (HRT).

L’HRT comprende diversi aspetti: il trainig sulla consapevolezza, il training sulla risposta compensatoria, il supporto sociale e il controllo degli stimoli.

 

Tricotillomiania: il training sulla consapevolezza

Il training sulla consapevolezza si articola in una serie di interventi, simulazioni ed esercitazioni che hanno lo scopo di incrementare la consapevolezza del paziente rispetto ai comportamenti di tricotillomania. Si procede in primo luogo con un’intervista di assessment, durante la quale si identifica in maniera dettagliata, tutto ciò che accade prima, dopo e durante il comportamento target. L’intervista permette di individuare i Warning Sign, gli indici ambientali e sensoriali che predicono il verificarsi del pulling (es. protendere la mano verso i capelli). All’intervento in seduta, si aggiungono degli homework, caratterizzati da attività di automonitoraggio dei warning sign. Una volta individuati quattro o cinque warning sign, inizia una fase di esercitazione, durante la quale a ruoli alternati, nel contesto conversazionale, il paziente si esercita a discriminare cosa rappresenta un warning sign da comportamenti diversi.

Nel training sulla risposta compensatoria, si concorda insieme un’azione da mettere in atto quando si riconosce un warning sign che potrebbero attivare il comportamento di pulling. La risposta compensatoria ha particolari caratteristiche: deve essere semplice, incompatibile con la tricotillomania e socialmente discreta. Una volta stabilita, tale azione viene svolta per un minuto o finchè la sensazione di urgenza di strappare i capelli decade.

Il supporto sociale si realizza attraverso una persona scelta nel contesto interazionale del paziente. Il soggetto che fa da supporto sociale, ha il compito di rinforzare e lodare il paziente quando usa le strategie apprese in terapia; in caso contrario, senza usare un tono perentorio o di rimprovero, andrà a ricordare l’utilizzo degli esercizi terapeutici.

Infine, il controllo degli stimoli permette di minimizzare l’influenza dei fattori contestuali sul comportamento di pulling. Strategie di questo tipo consistono nel buttare le pinzette, coprire lo specchio del bagno, ridurre il tempo di esposizione a situazioni di rischio, assumere posizioni diverse quando si sta seduti e ridurre l’effetto di alcune emozioni (Snorrason 2015).

Oltre all’ HRT vi sono le strategie di potenziamento che includono la terapia cognitiva, la terapia dialettica comportamentale (DBT) e l’ACT (Acceptance and commitment therapy).

La terapia cognitiva sostiene l’esistenza di diverse tipologie di pensieri disfunzionali; alcuni si basano su caratteristiche particolari del capello (es. capelli grigi), altri sono detti pensieri Slippery Slope (es. ‘Ne tiro solo uno e poi mi fermo’) ed infine le giustificazioni (es. ‘Ho avuto una brutta giornata’). Il terapeuta utilizzando gli homework, la ristrutturazione cognitiva e l’esercizio aiuta il paziente ad individuare questi pensieri disfunzionali, a riconoscere i pro e i contro dei comportamenti di pulling ed infine individuare una valida alternativa alla tricotillomania.

La terapia dialettica comportamentale (DBT), attraverso le tecniche di mindfulness e le strategie di regolazione emotiva, si propone lo scopo di incrementare la consapevolezza di stati affettivi particolari, come la noia e la frustrazione, e di correggere le strategie di regolazione non adattive che rinforzano i comportamenti di tricotillomania.

Infine l’acceptance and commitment therapy (ACT) si basa sul principio che il comportamento di pulling si origini da una tendenza all’evitamento. L’intervento, in breve, si basa sull’identificare degli obiettivi di vita importanti per il paziente e di incrementare la consapevolezza rispetto al negativo effetto della tricotillomania sul raggiungimento di tali scopi.

 

CBT e tricotillomania: uno sguardo ai dati

Alcuni studi hanno dimostrato come le tecniche comportamentali come l’HRT sono maggiormente efficaci nel caso del pulling automatico, invece la DBT e l’ACT sono più indicate per i comportamenti di pulling focalizzato (Franklin 2012).

Evidenze sperimentali evidenziano che il 50% – 60% dei soggetti con tricotillomania ha mostrato miglioramenti significativi successivamente ad una psicoterapia basata su HRT e sul controllo degli stimoli. Nello studio di Van Minnen e colleghi del 2003, 43 soggetti adulti con tricotillomania sono stati divisi in tre gruppi: il primo è stato sottoposto a sei sessioni, a cadenza bisettimanale, di psicoterapia basata su HRT; il secondo gruppo a 12 settimane di trattamento con la fluoxetina e il terzo faceva parte di una lista di attesa. I risultati indicano che il 64% dei soggetti del primo gruppo hanno mostrato cambiamenti positivi significativi. I restanti due gruppi hanno riportato tali modificazioni nella misura del 9% (fluoxetina), e del 30% (lista d’attesa). Tuttavia un successivo follow up a distanza di due anni ha indicato un aumento significativo dei sintomi per molti pazienti.

Nel tentativo di superare questi limiti, si è provato ad affiancare la HRT a delle tecniche terapeutiche che prestino una maggiore attenzione alle esperienze interne, in particolare la CT, la DBT e l’ACT. Tali sperimentazioni hanno come risultato che gli effetti benefici della terapia si estendono da 3 a sei mesi nel follow up; d’altronde non vi sono altre evidenze che hanno analizzato i tassi di recidiva oltre i sei mesi (Snorrason 2015).

Il cercatore pauroso: temo che tu non mi ami perché io non posso stare da solo – Tracce del tradimento Nr. 36

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVI. Il cercatore pauroso: Temo che tu non mi ami perché io non posso stare da solo.

 

La donna impaurita, l’uomo impaurito vivono per l’altro e la percezione della propria inferiorità è costante, l’altro è perfuso di bellezza e forza ed essi vivono nel terrore che egli si stanchi e le lasci sole.

Cercano sperando di non trovare, spesso non trovano, e se trovano, soffrono in silenzio aumentando il desiderio di stare con il compagno e rimandando i conflitti. Così diventano ancora più dipendenti, melanconici.

Serafina, 46 anni, viene in seduta disperata, parla a spizzichi e a bocconi e fa fatica a concentrarsi su ciò che dice. È evidentemente depressa e racconta una storia difficile. Dalla sua prima giovinezza si è fidanzata e poi sposata con un ragazzo che è stato accolto dalla sua famiglia come un figlio. Al punto che i genitori preferivano lui ai numerosi figli che avevano. Il ragazzo è sempre stato irreprensibile e protettivo con lei, non permettendole di lavorare e accondiscendendo a tutte le paure di lei: di viaggiare, di vedere amici, di avere un figlio, di fare qualsiasi cosa nuova e diversa dallo stare in casa a chiacchierare davanti alla televisione. Alcune volte l’uomo aveva cercato di esprimere il desiderio di avere un figlio, ma lei aveva sempre rifiutato sostenendo che stare con lui le bastava e che non avevano bisogno di nient’altro che della loro coppia.

Un giorno aveva trovato un biglietto di amore inequivocabile ed esplicito, di una donna a suo marito e terrorizzata aveva chiesto spiegazioni, aspettandosi le consuete rassicurazioni e la ripresa della consueta routine. L’uomo le aveva comunicato invece che si era stufato, che non la amava più e aveva intenzione di andare a vivere con la sua nuova donna dal giorno dopo. Si possono immaginare le reazioni di lei e della sua famiglia. Ma lui aveva difeso il suo progetto con forza e grande determinazione arrivando a essere anche estremamente ostile con lei quando lei lo seguiva o cercava spiegazioni.

Si era messo a convivere nella nuova famiglia e aveva avuto in pochi anni due figli. La donna era rimasta in casa sola, depressa e molto isolata e, ormai da molti anni prendeva antidepressivi e rimuginava sulla situazione ingiusta da lei subita e sulla propria incapacità a capire le esigenze di lui, incolpando però lui di scarsa chiarezza. Non era più uscita di casa e si era chiusa nella sua famiglia di origine che aveva alimentato il rimuginio sul passato e il senso di un dolore fatale e impossibile da superare.

Questo caso è significativo della situazione in cui si vengono a trovare le persone impaurite della solitudine quando si rifiutano di affrontare le implicazioni delle scelte affettive rassicuranti ma spesso limitate che impongono ai propri partner. È un punto di riflessione il fatto che nelle condizioni di dipendenza e paura in cui ci si muove si vadano a cercare tracce di tradimento. Si potrebbe pensare che un comportamento più coerente sarebbe rappresentato da una rinuncia a qualsiasi tentativo di incrementare informazioni potenzialmente minacciose, ma non è così e per svariati motivi che ora cercheremo di analizzare. Innanzitutto la ricerca delle tracce nell’ansioso ha spesso il movente di cercare rassicurazione e certezza assoluta che le tracce e il tradimento siano assolutamente da escludere. È quindi una procedura di ricerca di certezza assoluta. Infatti, come nel caso sopradescritto la ricerca delle tracce ha in alcuni casi una illusoria funzione di incrementare la sicurezza e la tranquillità.

In altre circostanze lo scopo della ricerca di tracce è invece tutta interna a una riduzione di visioni catastrofiche intollerabili o molto dolorose. Ed è vissuta come un impulso non rimandabile. Una sorta di tranquillante che a volte purtroppo si trasforma in un danno imprevisto. In altri casi la ricerca delle tracce è in situazioni di certezza relazionale e affettiva come una illusione di averne ancora di più sempre di più. Come se ci fosse una sfiducia di fondo in una relazione che procede in binari tranquilli e si volesse che diventino assolutamente del tutto e per sempre tranquilli. Un ‘di più’ che a volte diventa invece un drammatico ‘di meno’. In altri casi si controllano tutti gli aspetti del compagno, le cose che dice, le cose che pensa, le telefonate che fa, e si crede che questo controllo, molto mentale, ferreo e rigidissimo, sia una modalità di rapporto che possa garantire una maggiore tranquillità.

La ricerca delle tracce in queste persone è solo una delle tante procedure di controllo che mettono in atto e che lentamente stringe intorno al collo del compagno o della compagna un cappio potente e strettissimo. Spesso quando poi si trovano le tracce del tradimento il dolore e lo stupore sono altissimi, perché la conoscenza che si possiede di come si conducono i rapporti di amore è del tutto collegata con il controllo e non ci si rende affatto conto di come possa a lungo andare risultare intollerabile a chi lo subisce.

Questo genere di controllo è spesso sostitutivo dell’affetto e degli scambi emotivi e sessuali, e il compagno fugge alla ricerca di una persona meno controllante e più vicina. Perché questo lavoro di controllo non è necessariamente simile a un impegno emotivo comune e attento alla reciprocità. E’ un sintomo di una sofferenza e di una grande paura di stare soli e spesso di una scarsa conoscenza delle relazioni di intimità e di reale scambio.

Sandra era una signora romana, un bella donna alta ed elegante, avvocato in uno studio modesto ma serio e di lunga storia. Aveva sposato un musicista di buon talento che riempiva le sue giornate di buona musica e le sue serate di compagnia solidale. La signora era figlia di una madre tirannica, gravemente ansiosa e controllante che ancora telefonava ai figli ormai di mezza età per chiedere il resoconto delle loro giornate e fornire consigli, controlli e compagnia. La signora aveva dedicato a questa madre molte ore della sua vita togliendole anche al marito, quando si recava dalla madre dava ordini e indicazioni al marito su come passare il tempo. Il marito veniva da una famiglia spezzata, da un padre fuggito via e orfano di madre, aveva sperato di avere compagnia dalla moglie.

Negli anni non avevano avuto figli e la moglie rattristata da questo si era stretta sempre più al marito chiedendo compagnia e legandolo a un ininterrotto filo di discorsi, progetti, opinioni su tutto e decidendo anche che tipo di cravatta o che pantaloni dovesse mettersi al mattino. Prima di uscire preparava a lui i vestiti da mettersi, la colazione e il pranzo e si aspettava di sentirlo al telefono molte volte al giorno per avere notizie del suo lavoro. La casa era pulita come uno specchio e ogni cosa aveva un certo ordine che lei decideva e che non doveva essere interrotto da nessuno.

Il marito per molti anni aveva accettato una situazione che gli stava un poco stretta anche perché questa ininterrotta vicinanza mentale non era accompagnata da una intimità sessuale da lui ritenuta insoddisfacente. La moglie durante i rari rapporti sessuali si dimostrava del tutto disinteressata e passiva e a volte nel bel mezzo di un rapporto cominciava a parlare di lavare le tende o dell’ultimo libro interessante che aveva letto.

La situazione si sarebbe potuta forse sviluppare in modo sereno e non interrompersi se il marito non fosse stato spedito all’estero a fare un periodo di lavoro. L’uscita da casa aveva reso la moglie molto depressa e passiva, mentre lui si sentiva molto galvanizzato da un nuovo ambiente sentendosi per la prima volta più libero. La moglie non si era resa conto di nulla, anche se i ritorni a casa si facevano più radi e la comunicazione telefonica, per questioni di linea, maggiormente difficoltosa e rara. Un giorno, durante un ritorno in cui il marito si faceva scontroso e stanco e poco vicino a lei, aveva cercato nel portafoglio con lo scopo di vedere se trovava lo stesso ordine e gli stessi oggetti così come lei li metteva. Era rimasta senza fiato vedendo una foto del marito abbracciato a una signora alta ed elegante che lo baciava con passione. Alla richiesta di un chiarimento il marito aveva confessato il tradimento ma lo aveva giustificato come una dolorosa necessità dovuta al suo esagerato controllo e alle sue esigenze di vicinanza esagerate. “Non ti amo da almeno 10 anni” così era stata la sua risposta e “non voglio in nessun modo rimanere con te neanche un minuto di più”.

Non esistono strategie che possano con assoluta certezza difendere chiunque dall’arrivo imprevisto e catastrofico di eventi affettivi nuovi, scandalosi e imprevedibili. Il modo sensato di vivere è godersi il buon periodo sapendo che non è detto che sia definitivo ma che saremo in grado di sopravvivere a qualsiasi evento ci troviamo davanti. Questo modo è realistico e legato fortemente ad un idea di sé come persone affettivamente competenti.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Come le tasse sulle sigarette riducono la mortalità infantile

L’aumento delle tasse sul prezzo di un pacchetto di sigarette negli USA è fortemente associato con una minore mortalità infantile.

Questo è ciò che emerge da un recente studio condotto da Stephen Patrick, presso la Vanderbilt University, e appena pubblicato sulla rivista Pediatrics. Tale analisi è stata condotta utilizzando i dati dal 1999 al 2010 del Center for Disease Control americano circa la mortalità infantile (morte nel primo anno di vita), le sue cause e i dati sulla fluttuazione di prezzi e tassazione del tabacco. Effettivamente, il fumo negli Stati Uniti è un problema a priorità assoluta, poiché lo stesso CDC lo ha recentemente identificato come la maggiore causa di morte e disabilità negli USA, calcolando tutti i casi di patologie di natura cardiovascolare causate sia direttamente che indirettamente dal fumo.

Già altre ricerche in passato hanno mostrato come le donne fumatrici durante la gravidanza abbiano molte più probabilità di mettere al mondo neonati sottopeso, nati prematuramente o vittime della Sudden Death Infant Syndrome (SIDS), patologia di origine ancora completamente sconosciuta, che porta nel primo anno di vita alla morte di bambini apparentemente perfettamente sani. Un aumento della tassa sul tabacco si era già rivelato fortemente correlato con una diminuzione del suo consumo durante la gravidanza e con un conseguente decremento di nascite premature e sottopeso, ma fino ad oggi nessuno studio aveva direttamente confrontato la tassazione del tabacco con la frequenza di morti infantili.

Ben oltre ogni aspettativa, la presente ricerca mostra come per ogni singolo dollaro di incremento del prezzo delle sigarette si verifichino due morti infantili in meno al giorno, ovvero 750 morti in meno nell’intero anno (3,2%)! In particolare, tale correlazione si dimostra essere particolarmente forte nel caso dei neonati afroamericani, che normalmente hanno il doppio delle possibilità di morire prima del loro primo compleanno rispetto a tutti gli altri neonati: prevedibilmente, poiché la popolazione afroamericana è distribuita per la maggior parte nei ceti economicamente più bassi, è anche quella che risente di più di un aumento economico di un prodotto di largo consumo come la sigaretta.

In conclusione, questo studio rivela come la tassazione del tabacco sia uno strumento efficace e credibile di decremento del numero di fumatori e conseguente prevenzione di malattie e mortalità del fumatore stesso e del neonato che questi porta in grembo. Nonostante i dati riportati si riferiscano esclusivamente agli Stati Uniti, non sono certo da sottovalutare e ignorare qui in Italia, visto e considerato che il bel paese ha il più alto tasso di mortalità infantile rispetto ai maggiori paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia e Spagna; dati ONU 2012).

Bias ed Euristiche – Introduzione alla Psicologia Nr. 38

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 38)

 

I bias sono particolari euristiche usate per esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentale e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria. 

 

Bias è un termine inglese, che trae origine dal francese provenzale biais, e significa obliquo, inclinato. Questo termine, a sua volta trae origine dal latino e, prima ancora, dal greco epikársios, obliquo. Inizialmente, tale termine era usato nel gioco delle bocce, soprattutto per indicare i tiri storti che portavano a conseguenze negative. Nella seconda metà del 1500, il termine bias, assume un significato più vasto, infatti sarà tradotto come inclinazione, predisposizione, pregiudizio.

Insomma, i bias cognitivi sono automatismi mentali sui quali si generano schemi cognitivi maladattivi utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica. Si tratta, il più delle volte di errori cognitivi (es. ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, Minimizzazione o Massimizzazione, Personalizzazione, etc.) che impattano nella vita di tutti i giorni non solo su decisioni e comportamenti ma anche sui processi di pensiero.

Quindi, i bias non sono altro che costrutti non del tutto corretti perché fondati su percezioni errate o deformate, su pregiudizi, su ideologie, quindi niente da sottoporre al giudizio critico. Questi pregiudizi creano schemi mentali che inducono a valutare situazioni o comportamenti senza giudicarli. In molte situazioni si utilizzano per spiegare comportamenti messi in atto, tipo gesti di razzismo o omofobici.

Succede, spesse volte, senza analizzare, pesare e valutare ogni dettaglio, che utilizziamo strategie note col termine di euristiche. Anche questo nome deriva dal greco: heurískein vuol dire trovare, scoprire.

Le euristiche sono, al contrario dei bias, procedimenti mentali intuitivi, e sbrigativi, scorciatoie mentali, che permettono di avere un’idea generica su un argomento senza effettuare troppo sforzi cognitivi. Sono strategie veloci utilizzate di frequente per giungere presto a delle conclusioni.

Nel 2002 Kahneman e Frederick proposero (o teorizzarono) che l’euristica cognitiva funzionasse per mezzo di un sistema chiamato sostituzione dell’attributo, che avviene senza essere consapevoli. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso da un punto di vista inferenziale, risulta essere sostituito da un euristica che è un concetto affine a quello precedente ma formulato più semplicemente. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo.

Per concludere, i bias sono particolari euristiche usate per creare delle opinioni o esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentali e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria.

Supponiamo che una pianta piccola con uno stelo e dei petali sia un fiore, anche se non abbiamo mai visto prima quello specifica tipologia sappiamo in ogni caso che si tratta di un fiore. Tutti abbiamo in mente cos’è un fiore, ne abbiamo visto molti e di molti tipi per questo nella nostra testa abbiamo delle immagini relative alle varie caratteristiche presentate da un fiore. Per questo, quando vediamo qualcosa che ha caratteristiche simili, anche se non sappiamo esattamente di che fiore si tratta, possiamo comunque dire con molta probabilità che è un fiore.

Per esprimere questo giudizio abbiamo usato una euristica, caratteristiche del fiore, che ci ha portati in breve tempo a una risposta repentina. Se procedessimo utilizzando un bias, invece, utilizziamo un pregiudizio non criticabile, ad esempio: ‘i fiori sono brutti’, e, dunque, a quel punto non mi fermo neanche a osservarli, giudizio non criticabile.

In sintesi, se le euristiche sono scorciatoie comode e rapide estrapolate dalla realtà che portano a veloci conclusioni, i bias cognitivi sono euristiche inefficaci, pregiudizi astratti che non si generano su dati di realtà, ma si acquisiscono a priori senza critica o giudizio.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Plasticità neuronale e cognitiva nella memoria prospettica di anziani dopo un training con la virtual week

 

Plasticità neuronale e cognitiva nella memoria prospettica di anziani dopo un training con la Virtual Week

Nathan S. Rose, Peter G. Rendell, Alexandra Hering, Matthias Kliegel, Gavin M. Bidelman and Ferguson I. M. Craik

Recentemente è stata descritta la Virtual Week come uno strumento utilizzato per la valutazione della memoria prospettica, gli autori ci illustrano come invece può essere utilizzata anche per stimolare la memoria prospettica.

Introduzione: Memoria Prospettica e terza età

La Memoria Prospettica (MP), abilità di ricordare ed eseguire con successo le proprie intenzioni e le attività pianificate, è importante per condurre una vita indipendente (Einstein and McDaniel, 1990). Il normale processo di invecchiamento ha un effetto negativo sulle abilità di Memoria Prospettica (Henry et al., 2004).

Tenendo in considerazione l’invecchiamento generale nel mondo, è estremamente importante sviluppare modalità per supportare un buon funzionamento di Memoria Prospettica così che gli anziani continuino a vivere indipendentemente, a casa, e senza il bisogno di essere assistiti.

Gli autori del presente studio hanno utilizzato un gioco computerizzato chiamato Virtual Week (Rendell & Craik, 2000) con lo scopo di allenare la Memoria Prospettica di un gruppo di anziani. L’obiettivo è stato quello di indagare se tale stimolazione potesse produrre neuro-plasticità nella Memoria Prospettica e trasferire tale miglioramento nella vita reale e nel funzionamento di vita quotidiano.

Generalmente i programmi di stimolazione cognitiva vengono classificati come ‘Compensatory Approach‘ e ‘Ristorative Approach‘. Il primo ha l’obiettivo di insegnare strategie e tecniche per compensare uno specifico deficit cognitivo; il secondo ha l’obiettivo di riabilitare e rendere migliore il funzionamento dei processi neurocognitivi che sono coinvolti più genericamente in molti domini della cognizione.

Sono scarse però le evidenze che dimostrano cambiamenti o miglioramenti importanti nel funzionamento quotidiano attraverso l’uso di training specifici (McDaniel and Bugg, 2012); ciò porta a pensare che programmi di allenamento cognitivo dovrebbero essere elaborati con lo scopo ultimo di allenare e condurre quindi al cambiamento (Craik and Rose, 2012).

Gli autori di questo studio hanno cercato di rispondere a tre domande: 1) Può un programma di stimolazione migliorare la Memoria Prospettica di un gruppo di anziani? 2) Può un programma di stimolazione indurre plasticità cerebrale in meccanismi sottostanti la Memoria Prospettica? 3) Può un programma di stimolazione portare miglioramenti nell’eseguire altri compiti di Memoria Prospettica?

Materiali e Metodi

Sono stati selezionati 59 anziani, di cui 23 facenti parte del gruppo sperimentale che ha ricevuto un mese di training sulla Memoria Prospettica con la Virtual Week, 14 facenti parte del gruppo di controllo attivo, e 18 facenti parte del gruppo di controllo passivo. L’età media era compresa tra 60 e 79 anni.

Training di Memoria Prospettica con la Virtual Week

Il programma di allenamento Virtual Week (il training) è simile all’originale versione computerizzata (Rendell et al., 2007) ma il contenuto dei compiti varia lungo il corso di 24 giorni virtuali. Inoltre la difficoltà del compito aumenta nel corso dei 24 giorni virtuali e i partecipanti procedono al livello successivo solo dopo aver completato il 70% dei compiti correttamente. Il livello di difficoltà si fa maggiore durante il corso del programma di allenamento, ed aumentano il numero di compiti da eseguire, la complessità dei compiti e la quantità di interferenza.

I partecipanti del gruppo sperimentale che ha eseguito il training di Memoria Prospettica  con la Virtual Week, ha svolto 24 livelli del gioco per circa un mese (tre sessioni alla settimana e due livelli per ogni sessione). Inoltre, al termine di ogni settimana di training ai partecipanti veniva chiesto quali strategie utilizzassero per ricordare di eseguire i compiti di Memoria Prospettica .

Gruppo di controllo attivo

Il gruppo di controllo attivo ha ricevuto un training musicale (Moreno et al., 2011) dove la sessione di allenamento era di 40-60 minuti, e i partecipanti completavano un totale di 20 sessioni durante un periodo di 4 settimane. Il programma includeva una combinazione di compiti cognitivi, percettivi e motori e consisteva nell’insegnare ai partecipanti concetti musicali di base come ritmo, tono, melodia e voce.

Gruppo di controllo passivo

Il gruppo di controllo passivo partecipa solo alle sessioni di pre-test e post test.

Misure

Misure per la Memoria Prospettica

  • Virtual Week computerizzata (Rendell et al., 2007): La Memoria Prospettica veniva valutata attraverso la Virtual Week. La Virtual Week è un gioco computerizzato che rappresenta una settimana virtuale dove ai partecipanti viene chiesto di lanciare un dado e di eseguire specifiche attività di vita quotidiana, in un preciso momento della giornata. Ogni giorno virtuale inizia alle 7.00 a.m. e termina alle 10.15 p.m. Durante ogni giorno virtuale ai partecipanti viene chiesto di eseguire diversi compiti di Memoria Prospettica. Alcuni di questi vengono illustrati all’inizio di ogni giorno virtuale e sono gli stessi per ogni giorno (compiti regolari). Altri sono illustrati durante la giornata e sono diversi per ogni giorno (compiti irregolari). Inoltre, alcuni compiti sono da svolgere durante uno specifico evento, indicato da una carta evento (compiti event-based), altri sono da eseguire in specifici momenti della giornata virtuale e quindi necessitano un controllo costante dell’orologio localizzato al centro del tabellone (compiti time-based). Vi è inoltre un terzo tipo di compito da eseguire (compiti time-check) che richiede al partecipante di monitorare un cronometro al centro dello schermo, che mostra la quantità di tempo reale trascorsa dall’inizio del giorno virtuale. Quando il cronometro segna uno specifico passaggio di tempo (esempio 2 minuti o 4 minuti), il partecipante deve interrompere ed eseguire il compito time-check selezionando l’appropriato compito dalla lista. Tutti i partecipanti eseguivano prima un giorno virtuale di prova, per la sessione pre-test, per imparare ad utilizzare il gioco e ad eseguire i diversi tipi di compiti di Memoria Prospettica, e successivamente completavano tre giorni virtuali della Virtual Week. Tutti i partecipanti eseguivano tre giorni virtuali anche al post-test, per valutare i cambiamenti nella performance prima e dopo l’intervento del training con la Virtual Week.
  • Call back task: Per valutare la naturale performance di Memoria Prospettica nella vita quotidiana, viene utilizzato un nuovo compito di Memoria Prospettica. I partecipanti sceglievano una fascia oraria di 2 ore, durante il quale dovevano essere a casa, chiamare l’istituto di ricerca, e lasciare un messaggio. Durante questa fascia temporale uno sperimentatore chiamava, e dava loro le istruzioni del compito. I partecipanti dovevano richiamare lo sperimentatore in un momento preciso (esempio: 15 e 40 minuti dopo aver ricevuto il messaggio) e lasciare un messaggio. La stessa procedura veniva ripetuta un’ora dopo con nuove istruzioni. Ai partecipanti veniva chiesto di non usare promemoria o timer.
  • N-back + PM cues (West and Bowry, 2005): Per valutare la Memoria Prospettica in un setting di laboratorio standardizzato è stato somministrato un compito 2-back computerizzato (lettere per il compito continuo e colori specifici come cues di MP). I partecipanti vedevano una serie di lettere colorate in maiuscolo, una lettera al secondo. Il compito era di premere un tasto marchiato “yes” quando la lettera sullo schermo coincideva con quella presentata 2 lettere prima, e un tasto “no” quando non era uguale a quella presentata 2 lettere prima. Successivamente i partecipanti venivano informati che vi era un altro compito di Memoria Prospettica da eseguire, dovevano premere la barra spaziatrice quando vedevano una lettera presentata in un determinato colore. Successivamente eseguivano le due procedure insieme.
  • Breakfast task (Craik and Bialystok, 2006): Il compito consiste di una simulazione computerizzata degli elementi coinvolti nella preparazione e nel servire la colazione. Le componenti del compito misurano due funzioni neuropsicologiche: pianificazione e gestione di più compiti. Ai partecipanti veniva chiesto di preparare 5 diversi cibi con differenti tempi di cottura (salsicce = 4,5 minuti; uova = 2 minuti). L’obiettivo era di avere tutte le pietanze pronte allo stesso momento, senza sovra cuocerle o sotto cuocerle..
  • The Prospective-Retrospective Memory Questionnaire (PRMQ; Crawford et al., 2003): Il questionario self-report ha l’obiettivo di valutare la Memoria Prospettica durante la vita quotidiana, e consiste di 16 domande sugli insuccessi di Memoria Prospettica e retrospettiva in situazioni di vita quotidiana.

Competenze di tutti i giorni

Timed instrumental activities of daily living (TIADL; Owsley et al. 2002): Per valutare le abilità di vita quotidiana ai partecipanti veniva chiesto di completare 5 compiti: cercare un numero di telefono su una rubrica; contare una certa quantità di denaro in monetine; leggere gli ingredienti su tre barattoli di cibo; mettere un oggetto su uno scaffale; leggere le indicazioni di due medicinali. Uno sperimentatore leggeva al partecipante le istruzioni per tutti i 5 compiti prima del test.

Misure neuropsicologiche

E’ stata somministrata una batteria di test volta a valutare le funzioni neuropsicologiche: Digit-Symbol (sub test della WAIS III; Wechsler, 1997) con lo scopo di valutare la velocità di elaborazione; Stoop Test (Stroop, 1935) con l’obiettivo di valutare le capacità di inibizione e controllo volontario; Versione computerizzata del paradigma dei cubi di Corsi (Milner, 1971) con l’obiettivo di valutare la memoria di lavoro; Matrici Progressive di Raven (Raven et al., 1996) per valutare l’intelligenza fluida.

Metodi ERP

Un sottogruppo dei partecipanti eseguirono il compito N-back + pm cues mentre veniva registrato il loro elettroencefalogramma (EEG), così da ottenere i markers neuropsicologici della localizzazione dei cue di MP. Gli autori analizzarono i potenziali evento-relati (ERPs) associati alla presentazione dei cue di Memoria Prospettica durante la performance del compito. 13 partecipanti nel gruppo sperimentale e 23 nei gruppi di controllo completarono entrambe le sessioni EEG pre e post – test.

 

Procedura

Dopo aver condotto un’intervista telefonica per valutare lo stato cognitivo generale dei partecipanti, quelli idonei erano invitati alla sessione pre-test della durata di 2-3 ore. Dopo aver firmato il consenso informato, i test venivano somministrati nel seguente ordine: Virtual Week, Breakfast Task, Stroop Test, 2-back task + mp, Corsi, Matrici Progressive di Raven, TIADL. La sessione finiva con il PRMQ e le istruzioni generali per il Call-back task. Iniziava poi il programma di training di Memoria Prospettica con la Virtual Week per il gruppo sperimentale e il training musicale per il gruppo di controllo attivo. Circa 1 mese dopo i partecipanti venivano rivalutati per la sessione post-test.

Risultati

  • Utilità del training: Il numero medio dei compiti di Memoria Prospettica eseguiti correttamente ogni giorno virtuale, durante il programma di training, aumentava regolarmente e le strategie utilizzate dai partecipanti cambiavano: la maggior parte delle strategie utilizzate alla fine della prima settimana del training rappresentavano strategie inefficaci mentre alla fine della quarta settimana rappresentavano strategie buone.
  • Il training induce plasticità?: I risultati mostrano ampi miglioramenti, associati al programma di training, nell’eseguire tutti i tipi di compiti di Memoria Prospettica della Virtual Week nel gruppo sperimentale rispetto ai gruppi di controllo. Inoltre la performance nei compiti Call-back e TIADL risultava migliore dopo il programma di training con la Virtual Week rispetto ai gruppi di controllo: emergeva una riduzione significativa del tempo impiegato per svolgere il compito Call-back e per completare le attività strumentali di vita quotidiana. Ciò è coerente con l’idea di un’importante cambiamento.
  • Plasticità neuronale: Per valutare la possibilità che il programma di training con la Virtual Week potesse produrre plasticità cerebrale, sono stati confrontati i potenziali evento-relati (ERPs), associati con la localizzazione dei cue di Memoria Prospettica, nelle sessioni pre e post-test per il gruppo sperimentale e i gruppi di controllo. I risultati preliminari ERPs mostrano qualche suggerimento circa la neuro-plasticità grazie al training: si osserva una riduzione sulla corteccia occipito-parietale destra associata ad una corretta performance di Memoria Prospettica, in particolare negli stadi successivi durante la selezione della risposta e la messa in atto dei compiti.

 

Discussione e conclusione

I partecipanti del gruppo sperimentale che hanno condotto un mese di training con la Virtual Week ottengono sostanziali miglioramenti nella performance di Memoria Prospettica per i compiti della Virtual Week. Tale plasticità viene trasferita anche ai compiti di Memoria Prospettica (Call-back task) che rappresentano compiti di vita reali e a misure neuropsicologiche legate alla capacità di vita quotidiana (TIADL).

Concludendo quindi, un breve programma di training della Memoria Prospettica con la Virtual Week ha portato ampi miglioramenti della Memoria Prospettica e qualche piccolo cambiamento nei correlati neuronali responsabili dell’elaborazione della Memoria Prospettica. I miglioramenti emergono rispetto all’aumento dell’accuratezza e dell’efficienza nell’esecuzione dei compiti di Memoria Prospettica di vita reale e di attività strumentali di vita quotidiana.

Il programma di training Virtual Week, che incorpora il principio di allenare per il cambiamento, rappresenta quindi una procedura innovativa per training cognitivi e una possibilità per aumentare le abilità funzionali.

La percezione del tempo nel deterioramento cognitivo

Barbara Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Ogni volta che abbiamo a che fare con una lesione o disfunzione cerebrale, ovunque essa sia, abbiamo a che fare con un problema nella percezione del tempo. Questo fenomeno si riscontra in modo evidente nel deterioramento cognitivo.

La complessita’ della percezione del tempo e il suo coinvolgimento nel deterioramento cognitivo

La percezione del tempo è uno degli argomenti più controversi della neuropsicologia. Nonostante decenni di studi non abbiamo ancora un modello che descrive il funzionamento neurocognitivo della percezione temporale con il quale siamo tutti d’accordo. Probabilmente questo accade perché non sappiamo bene come definire il tempo, esattamente come diceva Agostino nelle sue ‘Confessioni’: Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so….

Quando parliamo di percezione del tempo in termini cognitivi cosa intendiamo? Come fa il cervello a codificare o decodificare un intervallo di tempo trascorso? Oppure come fa il cervello a rappresentarsi il tempo di vita trascorso nel passato, formulare un’idea del tempo futuro o, ancora più difficile, orientarsi nel tempo quotidianamente per sapere sempre che giorno, mese e anno è per 365 giorni all’anno per tutta la vita?

La dimensione del tempo e’ troppo poco definibile e troppo complessa per poter essere operazionalizzata e studiata e infatti la letteratura sul tempo è molto dibattuta. Esistono diversi modelli che si contendono il primato (Gibbon et al., 1984; Killeen e Fetterman, 1988). Tuttavia tutti quanti cercano di spiegare unicamente come riusciamo a stimare una durata temporale (quanto tempo è passato tra due stimoli o quanto tempo è durato uno stimolo), funzione che, tra l’altro, nella quotidianità non usiamo mai perché abbiamo sempre un orologio a portata di mano.

Tutti i modelli sono complessissimi e prevedono diversi moduli cognitivi in cui l’informazione temporale viene elaborata. Tali moduli prevedono sempre il coinvolgimento di una componente sensoriale che elabora la modalità con cui viene presentato lo stimolo che deve essere decodificato (ad esempio modalità uditiva), per la quale si attivano le cortecce sensoriali primarie. Inoltre sono previsti moduli attentivi (devo prestare attenzione allo stimolo temporale per decodificarlo), moduli mnesici (devo rievocare durate simili per capire più o meno in che ordine temporale siamo) e moduli esecutivi (devo confrontare la durata corrente con quelle esperite in passato e rievocate dalle componenti mnesiche per decidere quanto è durato quello stimolo), per le quali si attivano le aree parieto-frontali e temporali.

Insomma, indipendentemente dal modello che consideriamo, che dia più peso alle componenti mnesiche o attentive, pare che per decodificare una durata temporale siano indispensabili molteplici aree cerebrali. Se poi consideriamo gli altri aspetti della percezione temporale di cui sopra ci domandavamo, (ordine temporale e rappresentazione dell’arco di vita) per cui occorrono ulteriori funzioni mnesiche ed esecutive, possiamo dire che tutto il cervello interviene nella percezione temporale (Grondin, 2010). Come non esiste concretamente il tempo, non esiste l’area cerebrale del tempo, come esiste invece l’area dello spazio solidamente localizzato nel lobo parietale destro. Pertanto, ogni volta che abbiamo a che fare con una lesione o disfunzione cerebrale, ovunque essa sia, abbiamo a che fare con un problema nella percezione del tempo. Questo fenomeno si riscontra in modo evidente nel deterioramento cognitivo.

Il deterioramento cognitivo: come si manifesta

Per deterioramento cognitivo si intende una patologia in cui le cellule cerebrali vanno incontro a progressiva necrosi. Una volta iniziato il processo di deterioramento cognitivo non lo si può fermare e l’esito finale è sempre lo stesso. I diversi quadri di deterioramento cognitivo, o demenze per meglio intenderci, si distinguono a seconda delle aree inizialmente coinvolte dal processo di degenerazione cellulare. Nella demenza di Alzheimer le prime aree coinvolte sono l’ippocampo e i lobi temporali mesiali. Il risultato e’ una iniziale perdita di memoria. Nella demenza di Parkinson le prime aree coinvolte sono i gangli della base che proiettano ai lobi frontali e parietali. Il risultato e’ una iniziale perdita delle funzioni di controllo dei movimenti e delle funzioni attentive. Nelle demenze vascolari, le quali si sviluppano a causa di encefalopatia multilacunare diffusa, si riscontra una iniziale perdita delle funzioni attentive, esecutive e visuo-spaziali. In ogni caso, indipendentemente dal quadro dementigeno in atto e dall’area inizialmente coinvolta, avremo un deficit nella percezione temporale che è destinato a peggiorare. Questo non è un problema da poco. E’ vero che perdere la memoria impedisce di apprendere nuove informazioni e rievocarne di vecchie, ma perdere la percezione del tempo disconnette dalla realtà con grosse ripercussioni sull’adattamento all’ambiente.

Il decorso del deficit di percezione temporale nel deterioramento cognitivo

Il primo aspetto della percezione temporale che perde di funzionalità quando è in atto un deterioramento cognitivo è l’orientamento temporale ovvero la capacità di individuare il corretto momento della giornata, della settimana, del mese e dell’anno in cui ci troviamo, senza l’ausilio di indizi come la lettura del calendario. Per orientarsi nel tempo occorre avere appreso la ricorsività di giorni, mesi e stagioni, aspetto non banale per chi ha difficoltà di apprendimento e/o memoria. Occorre focalizzare l’attenzione ed elaborare correttamente gli indizi a disposizione come la luce del sole o la temperatura esterna. Occorre inoltre rievocare altri indizi come ad esempio se si tratta di un giorno lavorativo o feriale e infine tradurre tutte queste informazioni in numeri e nomi astratti e convenzionali. A noi tutti potrebbe sembrare facile poiché abbiamo a che fare quotidianamente con agende, telefoni e impegni lavorativi. Ma basta andare in vacanza e dimenticare il telefono a casa per accorgesi quanto sia immediato perdere qualche giorno e confondere la domenica con il martedì.

In altre parole l’orientamento temporale è una funzione che per operare perfettamente necessita di un cervello perfettamente funzionante. Non e’ un caso che l’orientamento temporale sia compromesso in tutti i quadri dementigeni anche in fase iniziale. Anzi, è il primo campanello d’allarme che ci indica che c’è un’alta probabilità che ci sia un deterioramento cognitivo in atto o che si svilupperà, anche nel caso in cui tutte le altre funzioni operano ancora nella norma (Guerrero-Berroa et al., 2009). Tutti i clinici che si occupano di demenze sanno che le prime 4 domande del Mini-Mental State Examination (MMSE – test breve per la valutazione del deterioramento cognitivo) che indagano l’orientamento temporale, sono estremamente significative per formulare la diagnosi. Anche quando l’errore è soltanto uno e le restanti 29 domande del test sono corrette, comunque ci si insospettisce.

Tractenberg e colleghi (2007), nell’intento di inserire 4 items brevi negli studi epidemiologici per poter indagare il funzionamento cognitivo oltre a quello prettamente medico, hanno individuato i 4 items dell’orientamento temporale del MMSE. In altre parole anche una piccola esitazione nell’orientamento nel tempo è un indice di disfunzione cognitiva, anche se lieve, e un forte predittore di futuro deterioramento cognitivo.

Deterioramento cognitivo: cosa provoca il deficit nella stima temporale?

E’ difficile stabilire quale aspetto della percezione temporale sara’ interessato dal deterioramento cognitivo successivamente all’orientamento temporale. Come dicevamo, ciò dipenderà dalle aree interessate dalla degenerazione cellulare. Certamente, la capacità di stimare la durata di un intervallo o di uno stimolo temporale, per la quale occorre una buona funzionalità di attenzione, memoria e funzioni esecutive, viene ben presto interessata dalla demenza.

Il modello che pare meglio spiegare questa funzione è la SET theory di Gibbon e colleghi (1984). Tale modello postula l’esistenza di un orologio interno che si attiva quando un individuo presta attenzione ad una durata temporale. L’orologio invierebbe pulsazioni costanti per tutta la durata dell’intervallo da stimare. Le pulsazioni sarebbero inviate ad un accumulatore, dopodiché contate. Il conteggio del numero delle pulsazioni rappresenterebbe una prima traccia grezza dell’intervallo temporale, la quale viene confrontata con rappresentazioni di intervalli temporali in memoria. Una volta eseguito il confronto l’individuo sarà in grado di fornire una risposta sulla durata dell’intervallo.

Il processo di produzione e invio di pulsazioni sarebbe localizzato nei gangli della base e sotteso dal sistema dopaminergico (Allison et al., 2011). Le funzioni attentive di focus sull’intervallo e le funzioni esecutive di confronto sarebbero sottese dai lobi frontali e parietali mentre le funzioni mnesiche di recupero di tracce temporali immagazzinate sarebbero sottese dai lobi temporali.

La letteratura su quale sia il processo funzionale del modello che determina un deficit nella stima temporale è scarsa e non del tutto chiara. Verrebbe spontaneo pensare che i pazienti con Parkinson potrebbero avere un deficit a livello della produzione e accumulazione di pulsazioni. Infatti un decremento di dopamina sembra produrre una decelerazione dell’orologio interno mentre un aumento di dopamina sembra produrre un’accelerazione (Perbal et al., 2005). Tuttavia pare che i pazienti con Parkinson mostrino deficit di stima temporale che sono attribuibili a difficoltà di memoria più che a variazioni di velocità dell’orologio interno. Infatti tali pazienti tendono a sottostimare gli intervalli più lunghi e sovrastimare intervalli più corti (Mioni et al., 2015) e commettono maggiormente errori quando gli intervalli da stimare vengono presentati nella stessa sessione, indice che la capacità di mantenere in memoria le tracce temporali gioca un ruolo importante nell’indurre i pazienti con deterioramento cognitivo a sbagliare (Koch et al., 2008).

Un altro studio sulla stima temporale nei pazienti con demenza dimostra che i pazienti con deterioramento cognitivo hanno performances simili in questo tipo di prestazione indipendentemente dalla diagnosi specifica (Heinik, 2012). Questi studi considerati globalmente ci dicono che la stima temporale è una funzione che tende ad essere deficitaria quando le funzioni mnesiche si riducono, ma può essere sufficiente una lieve riduzione della funzionalità della memoria affinché la stima temporale ne risenta. Diversamente i pazienti con Alzheimer ne sarebbero maggiormente colpiti rispetto agli altri quadri.

La Mental Time Travel in pazienti con deterioramento cognitivo

Un altro aspetto controverso della percezione del tempo è la capacità di rappresentarsi il proprio arco di vita sia in modo retrospettivo che prospettivo e spostarsi mentalmente su di esso. Tale capacità viene chiamata Mental Time Travel. I pazienti con Alzheimer, anche nelle fasi precoci del disturbo, sono particolarmente in difficoltà nel rievocare in corretto ordine temporale gli eventi passati. Non solo i pazienti con Alzheimer hanno difficoltà nell’ordinare gli eventi secondo una linea temporale, ma mostrano particolari difficoltà a generare immagini ego-centrate e forniscono racconti frammentati e depersonalizzati (Irish et al., 2011). Per contro, i pazienti con demenza frontotemporale sono maggiormente in difficoltà nel rappresentarsi il tempo in modo prospettico (Irish et al., 2013).

In altre parole, per essere in grado di viaggiare sulla propria linea di vita, è necessario compiere numerose operazioni mentali che coinvolgono memoria autobiografica, capacità visuo-immaginative, capacità esecutive e metacognitive per formulare idee future probabili sulla base di idee passate, ma soprattutto è necessario avere la capacità di rappresentarsi il tempo come dimensione unitaria e continua che ha luogo nei ricordi e termina in immagini formulabili ma non ancora avvenute. E’ una funzione eccessivamente complessa che nel deterioramento cognitivo si riduce presto e che ha un drammatico impatto sulla propria consapevolezza e senso di identità.

Conclusioni: l’importanza della ricerca in tema di deterioramento cognitivo e percezione temporale

Per riassumere abbiamo descritto la percezione temporale come funzione estremamente complessa, la quale si struttura di molteplici componenti. Per avere un corretto orientamento temporale, formulare una corretta stima di una durata di tempo o per essere in grado di rappresentarsi il proprio arco di vita e viaggiare su di esso nel passato e nel futuro, occorre un intatto funzionamento di tutte le funzioni cognitive e quindi un intatto funzionamento di tutte le aree cerebrali. Per questo motivo, quando è presente una disfunzione neurologica come un deterioramento cognitivo, indipendentemente dall’area cerebrale coinvolta e dallo stadio del disturbo, la percezione del tempo viene interessata in almeno una delle sue componenti.

Tutti i pazienti con demenza hanno difficoltà col tempo e tale deficit compromette significativamente l’adattamento all’ambiente. Questi presupposti sono di grande importanza sia scientifica che clinica. Da una parte abbiamo bisogno di modelli maggiormente definiti che descrivono la percezione del tempo in ogni suo aspetto e che non si limitino alla descrizione di tale funzione intesa come capacità di stimare una durata temporale. Dall’altra abbiamo bisogno di maggiori studi che descrivano i deficit temporali nei pazienti con deterioramento cognitivo e come essi interferiscano con il decremento della funzionalità delle altre funzioni cognitive.

In questo modo potremmo pensare alla formulazione di interventi specifici per preservare o rallentare la riduzione di questa funzione, così fondamentale in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Quando si parla di demenza e di interventi di stimolazione cognitiva per questi pazienti si pensa sempre all’attenzione e alla memoria. Ma se il tempo è una dimensione che integra tutte le funzioni ed è così determinante per l’adattamento, l’autonomia e il mantenimento di un senso di consapevolezza di Sé, potrebbe essere utile pensare ad interventi focalizzati primariamente a questa funzione.

ADHD, Deficit di Attenzione e Iperattività: un gioco da ragazze?

ADHD, il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) viene definito come un disturbo dello sviluppo caratterizzato da incapacità a mantenere l’attenzione per un periodo di tempo prolungato, impulsività e iperattività; per soddisfare la diagnosi secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013) i sintomi devono essere presenti in diversi contesti e devono avere esordio durante l’infanzia.

ADHD nel DSM 5

Con l’arrivo della quinta edizione del DSM (DSM-5; APA, 2013) la classificazione dell’ADHD è stata aggiornata per meglio comprendere il disturbo anche all’interno della popolazione adulta. Nello specifico, mentre per ottenere una diagnosi i bambini devono presentare almeno 6 sintomi tra quelli elencati nelle categorie di iperattività o deficit di attenzione, oltre i 17 anni a scopo diagnostico sono sufficienti 5 criteri.

 

ADHD nell’età dello sviluppo: differenze di genere

Per quanto riguarda il genere, l’ADHD è un disturbo tipicamente diagnosticato tra i bambini di sesso maschile, nonostante si stimi che la metà delle ragazzine con ADHD non riceva una diagnosi adeguata (Nadeau et al., 2015). Le cause di questa particolare differenziazione tra i generi possono essere svariate.

Secondo Ellen Littman, la sintomatologia dell’ADHD si differenzia tra i due generi, ma purtroppo quella “ufficiale” richiesta per ottenere una diagnosi di ADHD si basa sulla descrizione di bambini bianchi di sesso maschile, mentre sembra che ci sia una diversa manifestazione sintomatologica nelle femmine sia per differenze di genere nello sviluppo neurologico (come una maturazione più veloce del cervello femminile), che per differenze nelle caratteristiche neuroanatomiche (come differenze di dimensioni delle strutture cerebrali). Inoltre, anche differenze a livello ormonale e nelle aspettative sociali riferite al ruolo possono avere un impatto nella manifestazione sintomatologica del disturbo nella popolazione femminile.

In uno studio longitudinale che ha seguito per 10 anni 140 ragazze con un’età compresa tra 17 e 24 anni che avevano ricevuto una diagnosi di ADHD in età infantile (93 sia con deficit di attenzione che iperattività e 47 solamente con deficit di attenzione), Hinshaw (2002) ha rilevato come nella ri-valutazione a 10 anni dal momento della diagnosi, oltre il 40% delle ragazze non soddisfaceva più i criteri necessari. Tuttavia, queste ragazze presentavano sintomi psichiatrici più gravi e maggiori difficoltà nel funzionamento quotidiano, rispetto a soggetti non clinici con la stessa età ma senza diagnosi di ADHD nell’infanzia.

Nello specifico, le ragazze con ADHD combinato (cioè con la presenza di entrambi i sintomi, deficit attentivo e iperattività) avevano maggiori probabilità di presentare sintomi auto-lesivi e tentativi di suicidio, rispetto alle ragazze senza diagnosi: la metà di queste ragazze aveva messo in atto comportamenti autolesivi e quasi un quinto aveva tentato il suicidio, suggerendo un ruolo importante in questo senso dell’impulsività, tratto non contemplato nel sottotipo diagnosticato come ADHD con deficit di attenzione.

 

Donne con ADHD, diagnosi in età adulta

Secondo Nadeau (2002), molte donne con ADHD ricevono una diagnosi una volta diventate madri, quando i figli stessi hanno la medesima diagnosi e permettono a queste donne di riconoscersi nelle caratteristiche del disturbo. Le pazienti adulte con ADHD tipicamente presentano importanti difficoltà con la gestione del tempo e del denaro, una disorganizzazione cronica che riguarda tutti gli ambiti di vita, vissuti di stress e ansia, la sensazione di essere sopraffatte dalle richieste dell’ambiente, una storia di ansia o depressione e annoverano figli o fratelli con ADHD.

Rucklidge e Kaplan (1997) hanno raccolto dati su 102 donne con un’età compresa tra 29 e 59 anni (con un’età media di 41 anni), tutte madri di un figlio o una figlia con diagnosi di ADHD: la metà di queste donne ha ricevuto a sua volta una diagnosi di ADHD. In particolare, le donne diagnosticate avevano maggiori probabilità di presentare uno stile di risposta di impotenza appresa davanti alle situazioni negative e tendevano a incolparsi di più per le situazioni infauste; erano inoltre più propense a credere di non poter controllare gli eventi della loro vita. Sicuramente è importante approfondire meglio la sintomatologia ADHD anche all’interno della popolazione femminile, dove sembra manifestarsi con caratteristiche talmente differenti dalla versione “ufficiale” richiesta per fare diagnosi, che rischia di non consentire un corretto inquadramento nelle bambine con ADHD; questo potrebbe portare a importanti difficoltà ad accedere ai servizi e ai percorsi in tempi brevi, aumentando la probabilità di sofferenza e di insorgenza di sintomi psichiatrici di elevata gravità.

Quando l’affitto lo pagano mamma e papà: dipendenza finanziaria nelle nuove generazioni

Che sia la crisi economica, la scarsa iniziativa delle nuove generazioni o una caratteristica della società contemporanea, è sotto gli occhi di tutti come, oggi, i giovani tendano a rendersi indipendenti in età più avanzata rispetto a quanto avvenisse in passato.

Un recente studio dell’Università del Nord Carolina ha esaminato un campione di oltre sei mila soggetti indagandone la situazione economica, formativa e lavorativa. Otto anni dopo la prima raccolta di dati, i ricercatori hanno ricontattato i partecipanti per una seconda valutazione, con l’obiettivo di comprendere come la situazione di ciascuno si fosse evoluta.

Che si tratti del pagamento delle tasse universitarie, di un aiuto per l’affitto o di un contributo mensile generico, i genitori continuano a farsi carico economicamente dei figli anche quando questi abbandonano il nido.

Lo studio ha rivelato che il 40% dei ragazzi di età compresa tra i 25 e i 32 anni fa affidamento sull’aiuto finanziario dei genitori pur abitando fuori casa. Il dato si riferisce alla popolazione nordamericana, ma descrive qualcosa di molto vicino alla realtà che osserviamo quotidianamente: i giovani cercano di crearsi una vita autonoma, di andare ad abitare soli, con il partner, con amici o coetanei, ma raramente è possibile fare tutto senza aiuti. Che si tratti del pagamento delle tasse universitarie, di un aiuto per l’affitto o di un contributo mensile generico, i genitori continuano a farsi carico economicamente dei figli anche quando questi abbandonano il nido.

Un ulteriore elemento risulta significativo: i ragazzi provenienti da famiglie di status socio economico più elevato in genere sono parzialmente indipendenti tra i 20 e i 25 anni ma con il passare degli anni continuano a non provvedere del tutto autonomamente alle proprie esigenze, restando incastrati in tale situazione per lungo tempo e, in alcuni casi, scegliendo di tornare in casa dei genitori per un certo periodo. Per chi frequenta il college, invece, l’indipendenza parziale degli anni della formazione è il primo passo di un percorso di crescita e di ingresso nell’età adulta ed è seguita da una rinuncia totale agli aiuti economici da parte di mamma e papà; questo è vero soprattutto per chi inizia a pagare da sé le tasse universitarie.

Uno scenario che ci invita ad una seria riflessione. Innanzitutto, emerge un nuovo profilo della famiglia e dei legami intergenerazionali: la genitorialità si connota nei termini di un impegno economico prolungato nel tempo e questo avviene soprattutto nei nuclei familiari di status socioeconomico elevato. Ma è importante trarre da quanto emerso anche una seconda considerazione: se l’università permette di rendersi economicamente indipendenti ma impone un periodo di parziale dipendenza, è importante intervenire per evitare il perpetuarsi di circoli viziosi che impediscano a chi proviene da un contesto meno agiato di scegliere di investire sulla propria formazione. Il passo più importante potrebbe essere proprio una riduzione delle tasse universitarie, specie in un paese, come l’America, in cui il costo dei college è davvero proibitivo. Lo scorso gennaio Obama ha proposto di lavorare nella direzione della gratuità della formazione accademica; non resta che aspettare e vedere quali risposte si sapranno trovare per sciogliere questa complessa questione sociale.

La CBT-E per la cura dei disturbi dell’alimentazione nel sistema sanitario inglese

Il Chief Medical Officer del National Health Service Inglese raccomanda la CBT-E per la cura dei disturbi dell’alimentazione

I pazienti che soffrono di disturbi dell’alimentazione – ovunque essi vivano e indipendentemente dalla loro età o diagnosi specifica – dovrebbero avere rapido accesso a un trattamento presso il National Health Service (NHS) inglese, secondo il resoconto annuale “Health of the 51%: Women” del Chief Medical Officer Dame Sally Davies, che si propone di affrontare il crescente problema dei disturbi dell’alimentazione, come l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa.

Il trattamento, chiamato terapia cognitivo-comportamentale migliorata o ‘CBT-E‘, è stato sviluppato con un finanziamento a lungo termine del Wellcome Trust presso il Centre for Research on Eating Disorders del’Università di Oxford Centre. La CBT-E è il primo trattamento per i disturbi dell’alimentazione a mostrare risultati positivi per i pazienti di tutte le età e diagnosi.

Oggi, nelle sue raccomandazioni chiave per il NHS, che accompagnano la relazione annuale del 2015 dal titolo “Health of the 51%: Women” il Chief Medical Officer ha detto che l’NHS inglese dovrebbe commissionare servizi per fornire la CBT-E ai pazienti.

Nel Regno Unito si stima che almeno 725.000 persone soffrano di disturbi dell’alimentazione, di cui circa il 10% sono maschi e il 90% sono di sesso femminile. Le cifre pubblicate nel 2014 dall’Health and Care Information Centre hanno mostrato che c’è stato un costante aumento dei ricoveri ospedalieri a causa dei disturbi dell’alimentazione dal 2005-6, con un incremento di circa il 7% ogni anno.

La CBT-E è il prodotto di un programma esteso di ricerca clinica finanziata dal Wellcome Trust. Negli ultimi 15 anni, una serie di studi randomizzati controllati per valutare il suo potenziale uso come trattamento sono stati effettuati nel Regno Unito, Australia, Danimarca, Germania, Italia e Stati Uniti.

La Wellcome Trust ha anche supportato una nuova forma di formazione on-line sulla CBT-E per i terapeuti in modo che il trattamento possa essere implementato rapidamente. In passato la lenta formazione dei terapeuti è stata uno dei principali ostacoli all’implementazione di nuovi trattamenti psicologici. Usando questo nuovo metodo, più di 700 terapeuti in tutto il mondo hanno ricevuto una formazione centrata sul web nella CBT-E negli ultimi 18 mesi.

Il professor Christopher Fairburn, che ha sviluppato il trattamento presso il Centre for Research on Eating Disorders delll’Università di Oxford, e che ha lavorato in questo campo da oltre 30 anni, ha dichiarato:

“Per la prima volta c’è un unico trattamento efficace che funziona in tutti i disturbi del’lalimentazione – tra cui l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating – e in tutti i gruppi di età. Il trattamento semplificherà il lavoro dei medici e porterà al miglioramento della salute dei pazienti”.

Il Dr John Isaac, capo del Neuroscience and Mental Health al Wellcome Trust, ha dichiarato:

“I disturbi dell’alimentazione possono essere devastanti e preoccupanti, stiamo assistendo a un costante aumento del numero di pazienti che ne sono affetti. La CBT-E è una potente dimostrazione di come un attento sviluppo di nuove terapie psicologiche, supportate da studi clinici su larga scala, sia in grado di portare il trattamento a un  ampio numero di pazienti. Mi auguro che l’introduzione di questo nuovo servizio potrà fare la differenza per la vita dei pazienti”.

Lorna Garner, Chief Operating Officer di Beat, un gruppo caritatevole che sostiene le persone affette da disturbi dell’alimentazione, ha detto:

“Beat da tempo sta facendo una campagna per i pazienti con disturbi alimentari affinché abbiano accesso tempestivo alle terapie che hanno evidenza di efficacia. Siamo molto incoraggiati da questa raccomandazione del Chief Medical Officer che, se attuata avrà un impatto drammatico e positivo su una percentuale molto elevata di persone affette da disturbi dell’alimentazione. I dati a disposizione dimostrano che l’intervento precoce ha non solo il miglior risultato per i pazienti, ma ha anche un impatto molto positivo sull’economia e sulla società nel suo complesso”.

Opinioni che ognuno potrebbe avere, di Michele Serra (2015) – Recensione

Gli episodi che si susseguono sembrano rappresentare i tasselli di una società in crisi in cui il lontano, l’evanescente, l’astratto stanno rubando il posto al vicino, al tangibile, alla realtà materiale; in cui le nostre autocelebrazioni venate di narcisismo ingombrano paradossalmente una realtà sempre più inconsistente e virtuale; in cui tutto è in corso, ma non qui e quindi finisce per attraversarci senza riguardarci davvero.

Il protagonista del romanzo è Giulio, 35 anni, sociologo ricercatore non meglio definito che studia e categorizza – insieme al suo amico antagonista, nonché inguaribile ottimista Ricky – l’esultanza dei calciatori dopo il gol; ha una compagna, Agnese, egofono-dipendente e sta cercando di vendere il capannone del padre ebanista ancora pieno di legni pregiati, ma ormai fermo da tempo. Giulio vive in una pianura indefinita, chiamata Capannonia, dove il nostro eroe sconsolato si sente fuori posto e in cui perdersi[blockquote style=”1″] sarebbe al tempo una vertiginosa certezza e un’entusiasmante liberazione[/blockquote], ma invece sono le strade che percorre da una vita, ma che non riconosce più.

Gli episodi che si susseguono sembrano rappresentare i tasselli di una società in crisi in cui il lontano, l’evanescente, l’astratto stanno rubando il posto al vicino, al tangibile, alla realtà materiale; in cui le nostre autocelebrazioni venate di narcisismo ingombrano paradossalmente una realtà sempre più inconsistente e virtuale; in cui tutto è in corso, ma non qui e quindi finisce per attraversarci senza riguardarci davvero.

Ognuno è un pronome indefinito che sembra voler sgonfiare l’enorme bolla narcisistica che ingombra il nostro tempo e che sembra spogliare ciascuno del proprio ‘Io’ rendendolo anonimo e silenzioso.

E così vediamo il nostro eroe assistere ad un immobile avanzare di opinioni foriere di sterili polemiche riguardo la morte di un cinghiale; recuperare Agnese al pronto soccorso perché investita da un ciclista che non ha visto, perché anche lei affetta dalla sindrome dello sguardo basso; fare un lavoro tanto precario quanto inutile, emblema di quanto il narcisismo possa essere ospite indiscusso del nostro presente; soffrire allo stesso tempo la distanza degli altri esseri umani oscurati dalla tecnologia e la costante presenza dei loro ‘Io’ decantati senza misura attraverso parole e immagini.

Fortunatamente, vediamo Giulio anche disgustarsi dell’autismo digitale che pervade il nostro oggi, perdersi e interrogarsi; e alla fine non accontentarsi di una realtà piena di continue interferenze, con cui non si è più davvero in contatto. Sembra necessario, tanto al protagonista quanto al lettore, spegnere le luci, abbassare i volumi e ingannare il tempo per recuperare un ritmo interiore che ci permetta di disegnare la strada da percorrere, quella più autentica.

Giunto alla fine saprà rispondere al suo interrogativo sul perché continuano a costruire le rotonde:

perché il nostro destino è sbagliare strada[/blockquote], il nostro destino è perdersi e ri-orientarsi, ma senza l’aiuto di una voce artificiale, che renderebbe la strada intrapresa un illusorio autoinganno.

Ognuno potrebbe: ‘ognuno’ è un pronome indefinito che sembra voler sgonfiare l’enorme bolla narcisistica che ingombra il nostro tempo e che sembra spogliare ciascuno del proprio ‘Io’ rendendolo anonimo e silenzioso. ‘Potrebbe’ è una forma verbale che entra in punta di piedi, che lascia sospesa un’occasione, quella di poter fare qualcosa per migliorare, qualsiasi cosa. Certo, anche questa rimane un’opinione.

D’altronde oggi chi non ne ha una?!

Della separazione e della riconnessione. Elementi di psicopatologia e di psicoterapia sistemico-relazionale in chiave di Ecologia della Mente – Intervista agli autori

Il nuovo libro di Giovanni Madonna e Francesca Nasti sul processo dell’ammalarsi e del guarire/curare: intervista doppia agli autori.

Intervista doppia a Giovanni Madonna e Francesca Nasti, autori per FrancoAngeli, di un nuovo testo, di chiara matrice epistemologica batesoniana, che invita a un’esplorazione del territorio clinico presentando stralci di conversazione estratti da alcune psicoterapie per offrire una descrizione ostensiva della pratica clinica che non perde mai di vista la connessione con il territorio teorico/epistemologico sistemico-relazionale da cui ha avuto inizio l’esplorazione.

Intervistatore (I): Dottor Madonna da dove nasce l’idea di questo nuovo libro?

Dottor G. Madonna (GM): Dalla voglia di sottolineare che una buona teoria non è un arzigogolo mentale separato dalla pratica; e dalla voglia di proporre una descrizione ostensiva delle implicazioni cliniche derivanti dall’adozione dell’Ecologia della Mente come matrice epistemologica di riferimento. Considero significativo, a questo proposito, che alcuni fra gli interventi clinici presentati possano essere considerati anche come enunciazioni teoriche: l’epistemologia è intimamente connessa con la clinica, non è altro rispetto alla clinica; e la clinica non è altro rispetto all’epistemologia.

I: L’allenamento alla riconnessione, che richiede costantemente allo psicoterapeuta di mettere insieme parti differenti, una accanto all’altra, non crede che rischi di destabilizzare? In tutta questa complessità non c’è il rischio di perdersi?

GM: Allenare il proprio paziente alla riconnessione – non è altro, in fondo, che dare diritto di cittadinanza alla complessità che noi siamo, noi pazienti e noi psicoterapeuti. Proporre connessioni, inoltre, non è intervento unilaterale, non è interpretare o ridefinire; è proporre nuove possibilità di senso che, affidate al processo stocastico potranno o no, per vie imprevedibili, generare salute e benessere. Le proposte di senso non armoniche rispetto all’ecologia delle idee dello psicoterapeuta semplicemente non saranno proposte; e le proposte di senso non armoniche rispetto all’ecologia delle idee del paziente semplicemente non vi attecchiranno. E questo sarà rispettato dallo psicoterapeuta, che non considererà quel non attecchimento come una resistenza, ma come un aiuto a correggere il suo modo di aiutare il paziente. E da questa dinamica tutti e due – paziente e psicoterapeuta – non risulteranno destabilizzati: potranno invece conservarsi – come tutto ciò che vive finché vive – dinamicamente stabili, e godere di una stabilità aperta al cambiamento.

I: A leggere il testo sembra che lei non consideri separate patologia e normalità…

GM: Certo, è così, non sono separate. Sia un sano che un malato possono preoccuparsi, essere tristi, esaltarsi… possono abbuffarsi o saltare il pasto… la differenza consiste nel fatto che i malati si specializzano rigidamente… se non si specializzassero non sarebbero malati… tutte le malattie insieme si contempererebbero fra loro generando salute… Dobbiamo allenarci a non pensare in termini dicotomici… a considerare le tradizionali dicotomie – compresa quella salute/malattia in termini di processi distinti, ma non separati.

I: A un certo punto del testo, in un breve frammento di un caso clinico, lei, rivolgendosi a un paziente, afferma “questa è una battaglia che può vincere solo se accetta di perderla”; crede che lo stesso si possa dire anche a uno psicoterapeuta in riferimento agli obiettivi che si pone nello svolgere la professione?

GM: Sì, credo di sì; e mi piace questo isomorfismo che proponi. Lo psicoterapeuta non dovrebbe accanirsi – sia pure a fin di bene – nel perseguire obiettivi volti al cambiamento dell’altra parte della più ampia ecologia che lo comprende, ovvero dell’altra parte del cosiddetto sistema terapeutico: il paziente. Proprio come una parte del paziente non dovrebbe accanirsi nel tentativo di cambiare un’altra parte della più ampia ecologia che il paziente tutto intero è.

I: Dottoressa Nasti cosa ha significato per una giovane professionista avere la possibilità di essere coautrice di un libro con Giovanni Madonna?

Dottoressa F. Nasti (FN): Ha significato avere coraggio e allo stesso tempo lasciarsi infondere dalla fiducia di essere all’altezza del compito. Fiducia che ho potuto coltivare a partire da quella stessa dimostratami da Giovanni Madonna, mio formatore all’IIPR di Napoli (dove sono attualmente allieva didatta), nell’affidarmi i commenti ai suoi stralci di psicoterapia. Ha significato avere cura di studiare il processo dell’ammalarsi, del curare e del guarire come se fossi dietro lo specchio di un laboratorio epistemologico. Ha significato sperimentare ancora una volta l’importanza assieme alla bellezza del pensiero sulla metodologia, a sostegno della convinzione consolidata che le teorie hanno bisogno di essere abitate nell’esercizio della pratica clinica, così da porre in essere un modus operandi nel quale i concetti e le premesse dei modelli teorici orientano l’azione psicoterapeutica. Ha significato quindi pensare alla teoria attraverso la pratica e la pratica attraverso la teoria col paradigma della complessità scevra tuttavia da complicatezze e col modello psicoterapeutico batesoniano sviluppato appunto da Giovanni Madonna.

I: Dottoressa a fine testo, commenta quanto teorizzato da Madonna con altre sue riflessioni e lo fa avvalendosi di alcuni casi clinici. C’è qualcuno dei casi presentati che l’ha maggiormente colpita e perché?

FN: Credo che la psicoterapia abbia tra i massimi obiettivi la possibilità di creare chance. Per questo cito il caso di Petra. Ci auguriamo che i pazienti facciano un viaggio, esperienza di bellezza del lavoro epistemologico e siano capaci di valutare la riuscita della psicoterapia apprezzando l’insorgenza e/o il recupero della capacità di concepire la propria vita, sé e gli altri anche diversamente da quel modo che aveva generato sofferenza, dolore o malattia. Cito Petra per l’esemplificazione del processo di re-integrazione che secondo me si rende visibile negli stralci che la riguardano e non ultimo per la sintonia tra psicoterapeuta e paziente da cui nascono passaggi dialettici delicati, sensibili e poetici.

Occuparsi di chi soffre di demenza: il carico soggettivo del caregiver

Giulia Montanari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive, la sfera comportamentale ed emotiva e comporta una perdita progressiva di autonomia. Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene anche definita una malattia familiare.

 

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive (memoria, capacità di ragionamento, di pianificazione, di giudizio…), la sfera del comportamento e delle emozioni e comporta una perdita progressiva di autonomia (van der Lee, 2014). Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene anche definita una malattia familiare.

Il ruolo di cura del familiare (carer), che si assume più o meno consapevolmente il compito dell’assistenza al paziente demente, è importante e muta nel corso dell’intero periodo di assistenza, dall’esordio delle responsabilità fino all’istituzionalizzazione e al decesso del paziente.

La percezione di un carico di cura eccessivo rivolto al malato viene definito ‘burden‘ ed è costituito dall’insieme dei problemi fisici, psicologici o emozionali, sociali e finanziari che devono affrontare i familiari di anziani con deficit fisici o cognitivi. Pertanto Il burden provoca un forte stress e la sensazione di non riuscire a far fronte alle richieste di cura. (Zarit, 1986).

E’ possibile distinguere tra aspetti oggettivi del carico che sono legati all’impegno fisico, assistenziale e alla gestione dei disturbi comportamentali del malato, e aspetti soggettivi riguardanti tematiche di perdita di identità del malato, di intimità e reciprocità nella relazione, isolamento e ritiro sociale del caregiver. La letteratura ha evidenziato come questi ultimi aspetti siano strettamente correlati con il benessere fisico e psicologico del caregiver (Zarit et al, 1986).

In questo articolo si andranno ad individuare quali siano le caratteristiche del paziente con demenza e del caregiver che sono significativamente determinanti del carico soggettivo del familiare, inteso appunto come salute mentale. Gli studi presi in esame hanno utilizzato diversi modelli di riferimento relativi allo stress per indagare i diversi fattori (Lazarus e Folkman, 1984; Poulshock e Deimling, 1984; Haley, 1987; Pearlin et al., 1990).

Caratteristiche del paziente affetto da demenza

Tutti questi modelli individuano come fattori determinanti nel paziente demente la presenza di problemi comportamentali o sintomi psichiatrici della demenza e la mancanza di cura di sé e bisogno di supporto. I problemi comportamentali, i disturbi dell’umore o i sintomi psichiatrici risultano essere molto frequenti nei pazienti con demenza e sono considerati fattori determinanti di burden del caregiver (van de Wijingaart et al., 2007). In particolare, essi sono correlati positivamente con il disagio psicologico o emotivo del caregiver (Pot et al, 1998; Meiland et al, 2005; Lee et al , 2006).

Inoltre, la presenza di sintomi depressivi (Goode et al , 1998; Alspaugh et al, 1999; Rabinowitz et al, 2009) e di sintomi ansiosi nel paziente (Mahoney et al , 2005 . Pioli , 2010) hanno un impatto negativo sulla salute mentale del caregiver ( Hooker e Bowman, 2002) o sono associati ad un effetto negativo sul carico assistenziale (Rapp e Chao, 2000).

Diversi studi (Meiland et al., 2005; Pot et al., 1998) hanno evidenziato come un elevato grado di assistenza o di supporto richiesto nelle attività della vita quotidiana (ADL) dai pazienti con demenza sia un fattore determinante del distress del caregiver. In particolare, la disabilità nelle attività della vita quotidiana e la mancanza di cura di sé del malato, rappresentano un fattore determinante la salute mentale (Braithwaite, 1996), il benessere del caregiver (Lawton et al., 1991) e più nello specifico nell’insorgenza di sintomi depressivi nello stesso.

Un dato interessante emerso in questi studi, è che la presenza di disturbi delle funzioni cognitive nei pazienti, non rappresenti un fattore determinante il burden del caregiver e non abbia un impatto sulla salute mentale dello stesso. Ciò non toglie che essi non possano essere rilevanti con il progredire della malattia e quando il paziente sarà totalmente a carico della famiglia e non in regime ambulatoriale.

Caratteristiche del caregiver di pazienti con demenza

Per quanto riguarda i fattori determinanti nel caregiver, essi possono essere suddivisi in: fattori sociali legati al caregiving (funzionamento sociale, rete e supporto sociale) (Pearlin et al, 1990.); salute fisica e mentale del caregiver; senso di competenza, autoefficacia e adeguatezza del caregiver (Pearlin et al, 1990.); tratti di personalità e strategie di coping del caregiver.

Diversi studi hanno mostrato come interazioni sociali negative e una rete sociale limitata siano fattori determinanti di depressione nel caregiver (Haley et al. , 2003), mentre la disponibilità di sostegno sociale e la valutazione personale di supporto siano associate sia ad una diminuzione del burden (Gold et al., 1995; Coen et al. , 1997) che ad una diminuzione dei sintomi depressivi (Au et al., 2009).

Per quanto riguarda il funzionamento sociale, maggiore è l’insoddisfazione da parte del caregiver rispetto al supporto dato e maggiore sarà il suo burden (Reis et al., 1994), mentre la percezione di un sostegno positivo lo diminuisce (Shurgot e Knight, 2005). Allo stesso modo, un buon rapporto con il paziente diminuisce il burden, mentre la tensione legata al ruolo di caregiver predice un burden maggiore (Campbell et al., 2008; Braithwaite, 2000). Inoltre, la preoccupazione e le difficoltà legate all’accudimento del paziente sono predittori della sintomatologia psicologica (Crispi et al., 1997).

Cattive condizioni di salute fisica del caregiver, rappresentano un fattore determinante nella comparsa di problemi di salute mentale nello stesso (Wu et al., 2009), e in particolare di depressione (Lawton et al, 1991; Haley et al, 2003; O’Rourke e Tuokko, 2004; Mahoney et al, 2005). Inoltre anche la preoccupazione e la tensione nel caregiver sono positivamente correlate alla depressione (Edwards et al., 2002).

Una cattiva salute fisica associata ad una prospettiva negativa sulla vita (Vitaliano et al., 1991), una bassa salute autoriferita e meno gioia (Reis et al. 1994), una bassa valutazione della salute collegata alla qualità di vita (Andrén e Elmstahl, 2007), una bassa auto-valutazione della salute (Baker et al., 2010) e una scarsa salute fisica e mentale (Conde-Sala et al., 2010) rappresentano tutti fattori determinanti il burden del caregiver. Tuttavia, il benessere soggettivo risulta essere significativamente determinante nella diminuzione del burden (Aminzadeh et al., 2006).

Il senso di competenza è risultato essere uno dei più importanti fattori determinanti i sintomi psicologici e psicosomatici nei caregivers (Droes et al., 1996). In particolare, per i caregivers con un basso senso di competenza, i sintomi psichiatrici del paziente rappresentano un importante fattore predittivo di stress emotivo (Meiland et al., 2005). Un aumento di competenza e una diminuzione del sovraccarico del caregiver determinano una riduzione della depressione (Mausbach et al., 2007) e al tempo stesso un elevato senso di autoefficacia e di autostima diminuiscono sensibilmente il burden (Chou et al., 1999; Chappell e Reid, 2002; Gonyea et al., 2005).

In uno studio, Cooper et al., hanno individuato come l’utilizzo, da parte dei caregivers, di strategie focalizzate sulle emozioni produrrebbero meno ansia rispetto all’utilizzo di strategie focalizzate sul problema, che invece tenderebbero ad aumentarla (Cooper et al. , 2008).

Tuttavia, non emergono le stesse conclusioni anche per il burden. Infatti, diversi studi hanno mostrato come l’utilizzo di strategie focalizzate sul problema siano associate a più bassi livelli di burden, mentre strategie focalizzate sulle emozioni a livelli più elevati (Chou et al, 1999; Riedijk et al, 2009). In ulteriori studi, si è osservato come la maggior parte dei caregivers tendesse ad utilizzare strategie focalizzate sulle emozioni, strategie che pertanto aumenterebbero maggiormente il burden (Vitaliano et al., 1991; Kim et al., 2012).

Per quanto riguarda i tratti di personalità, in particolare è emerso come il nevroticismo sia collegato ad una salute mentale peggiore (Hooker et al., 1998) e a un maggior burden (Reis et al, 1994;. Shurgot e Cavaliere, 2005; Choi e Kim, 2008) del caregiver.

Si può concludere da questa review che i problemi comportamentali del paziente o i disturbi dell’umore sono costantemente riportati come importanti fattori determinanti il carico del caregiver, la depressione e la salute mentale. Soprattutto per il burden, la maggior parte degli studi mostrano come i problemi comportamentali siano più significativamente determinanti rispetto ai disturbi cognitivi o della mancanza di cura di sè.

Le risorse del caregiver, per esempio i tratti di personalità, gli stili di coping, le competenze, sono fattori determinanti forti e possono essere considerati mediatori tra l’impatto dei problemi comportamentali del paziente e il carico del caregiver, la depressione e la salute mentale.

Di tutti i tratti di personalità misurati nel caregiver, il nevroticismo ha il maggiore impatto sul caregiver. Per quanto riguarda le competenze del caregiver, sentirsi competente o un maggior senso di autoefficacia generale diminuiscono il carico del caregiver e promuovono la salute mentale del caregiver.

Questi studi forniscono interessanti spunti per la pratica clinica con lo scopo di abbassare il burden del caregiver. In particolare, è possibile lavorare sia sulla gestione dei disturbi comportamentali del malato, fornendo al familiare strategie pratiche applicabili nella vita quotidiana, che sulle strategie utilizzate dai familiari stessi nella gestione del malato.

In generale, il carico del caregiver e i suoi fattori determinanti restano un tema importante e risultano sicuramente necessarie ulteriori ricerche, anche per quanto riguarda le variabili del caregiver, quali il genere e le strategie di coping.

Alaska, di Claudio Cupellini: l’insostenibile fragilità del legame – Cinema & Psicologia

In Alaska di Claudio Cupellini, la relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.

Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo

Fausto è un giovane italiano emigrato a Parigi, lavora come cameriere e sogna di diventare maître per non dover più stare sotto padrone. Nadine è parigina, si trova lì per un provino come indossatrice, ma fugge non riuscendo a tollerare il rischio di un giudizio negativo sul suo corpo e su se stessa. Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo. Su quel tetto i loro sguardi si incontrano e in un attimo si accende la speranza. Questa l’apertura dell’ultimo lavoro di Claudio Cupellini, Alaska (2015), in cui tragicità e grottesco muovono i primi e veloci passi, gettando subito il pubblico nel vivo della storia, anzi di una storia d’amore.

Il film si snoda seguendo il legame di Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Berges-Frisbey) tra situazioni estreme e vita quotidiana, in un ritmo vorticoso e caotico che tiene incollati allo schermo fino all’ultimo respiro. Nei due protagonisti vive un desiderio pulsante di emergere nel mondo, di provare emozioni forti e di lasciare spazio all’ingenuità che ancora li accende nel gioco e nella leggerezza della loro età. Ma nei loro sguardi incerti traspare una grande paura del futuro, del fallimento e del deserto che porta con sé la solitudine. Reagiscono insieme, aggredendo la vita, ma l’alternanza di queste emozioni vive nel loro legame e ne determina in ogni attimo l’andamento: ognuno cerca nell’altro complicità, identificazione e sicurezza per allontanare, finché possibile, i rischi di un temutissimo confronto con la realtà.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Nei caratteri di Fausto e Nadine emergono alcuni dei nuclei più dolorosi del Disturbo Borderline di Personalità, espressi quasi unicamente – e forse non a caso – nelle loro azioni, veloci imprevedibili e violente, e nei fatti che li vedono protagonisti. Corrono insieme sul filo della vita e della morte cercando un equilibrio, mai davvero possibile. La protezione che riescono a offrire l’un l’altro alimenterà la paura dell’abbandono, lasciandoli sospesi in un paradosso che li farà oscillare tra amore e paura, tra dipendenza e bisogno di fuga.
Uno dei nuclei centrali del DBP è proprio questa percezione fragile del legame, tra iper-idealizzazione e svalutazione, nell’impossibilità di trovare una giusta distanza e un confine stabili.

La relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura: se l’altro non è più disponibile in ogni momento, se la soddisfazione personale distrae dalla relazione, se non c’è tempo per giocare, allora quella routine calda e stabile diventa improvvisamente fonte di insoddisfazione e minaccia, un segnale di imminente abbandono.

Se la costanza e l’intensità del contatto fisico riescono a mantenere vivo il legame, nella distanza tutto diventa rarefatto, incerto, pauroso. L’impossibilità di fidarsi dell’altro in assenza delle sue attenzioni e del suo sguardo desiderante, rende necessaria un’azione forte che tolga ogni dubbio: un tradimento che giustifichi l’abbandono, un pericolo che gli faccia temere il vuoto della perdita, una richiesta disperata e rabbiosa di aiuto che generi sentimenti di colpa e garantisca di nuovo l’accudimento sperato. La dipendenza vive di idealizzazione, la paura di cieca svalutazione.

Ma come costruire se stessi nell’impossibilità di esplorare il mondo? Questo paradosso ben descrive il secondo nucleo di sofferenza nel DBP: il vuoto identitario. L’immagine di sé diventa positiva nella relazione e lì trova la forza per emergere e la sicurezza necessaria per cercare un’identità propria, una realizzazione personale. Fuori dalla simbiosi idealizzata però, torna il pericolo del vuoto e della non-protezione. L’immagine positiva di sé si perde e si trasforma in un bluff. Se Nadine ha successo, è Fausto a sentire la sua vita insufficiente, ad aver bisogno di riscatto e di conferme personali fuori dalla relazione. Se Fausto vive il suo successo, è Nadine a crollare nel vuoto, a sentire l’inferiorità, a temere la solitudine, il degrado. Nella continua alternanza di successi dell’uno e fallimenti dell’altro, la rottura sembra essere l’unico modo per spezzare il circolo vizioso e ripartire da soli.

Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia.

Liberarsi del legame che li unisce, li aiuta a trovare risorse nuove e inaspettate, un’inossidabile capacità di sopravvivere e restare resilienti di fronte ad esperienze negative senza lasciarsi sopraffare. E le conferme arrivano: ce la fanno anche da soli, come sempre. Tuttavia le identità costruite nelle brevi esplorazioni solitarie non riescono a sopravvivere alla colpa generata dalla rottura della relazione, mai completamente superata. Le loro nuove identità risultano presto posticce e fragili, non reggono il confronto con la realtà e il senso di sé perde lentamente coerenza. L’instabilità emotiva che emerge, riaccende il conflitto doloroso tra desiderio di dipendenza e spinta all’autonomia, tra rinuncia all’altro e riscatto personale.
Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia. Ritrovarsi nello sguardo dell’altro è l’unico modo per approdare in un porto sicuro, per cedere di nuovo al calore della dipendenza e riprendere finalmente fiato. Il dolore è spento, per ora.
C’est fini.

Vuoi fare qualcosa di buono per la tua salute? Prova ad essere generoso!

Ricerche scientifiche suggeriscono che spendere soldi per gli altri può incrementare il livello di felicità, ma può anche avere benefici sulla salute fisica.

Ogni giorno ci troviamo di fronte a scelte che riguardano il modo in cui spendere i nostri soldi, se comportarci o meno in modo generoso, che si tratti di pensare a come dividere il conto di un pranzo in compagnia o di fare o meno una donazione all’ente di beneficenza che ci ha appena chiamato telefonicamente o alla persona che ci ha fermato per strada.

Ricerche scientifiche suggeriscono che spendere soldi per gli altri può incrementare il livello di felicità, ma può anche avere benefici sulla salute fisica.
Esiste qualche evidenza in merito a una relazione diretta tra “donare il proprio tempo” e “salute fisica”, ma nessuno ha mai esaminato se ci sia lo stesso effetto se ad essere donati siano i soldi.

Così Ashley Whillans, PhD student in Psicologia Sociale e della Salute presso la University of British Columbia, e i suoi colleghi hanno deciso di condurre un esperimento per scoprire se spendere soldi per gli altri potrebbe abbassare la pressione sanguigna (prossimamente pubblicato su Journal of Health Psychology). Questo lavoro fornisce la prima evidenza empirica che tale decisione potrebbe anche avere implicazioni clinicamente rilevanti per la salute fisica.

L’esperimento consisteva nel dare 40 dollari a settimana, per tre settimane, a 128 adulti (età 65-85). Alla metà dei partecipanti, selezionati in modo casuale, veniva detto di spendere i soldi per se stessi, all’altra metà di spenderli per gli altri. Inoltre venivano invitati a consumare i loro 40 dollari tutti in un giorno e tenere le ricevute dei loro acquisti.

La misurazione della pressione sanguigna dei partecipanti avveniva prima, durante e dopo l’effettuazione dei loro pagamenti. Si è scelto di esaminare questo valore in questo studio perché si può misurare in modo affidabile in laboratorio e perché un’alta pressione sanguigna è un indice significativo per la salute – avere cronicamente un’elevata pressione arteriosa (ipertensione) è responsabile di 7,5 milioni di morti premature ogni anno.
Ecco cosa è stato trovato: nei partecipanti precedentemente diagnosticati con alta pressione sanguigna, spendere soldi per gli altri ha ridotto significativamente il loro livello di ipertensione nel corso dello studio. L’entità di questi effetti si può ritenere paragonabile ai benefici di interventi farmacologici (farmaci anti-ipertensivi) e dell’esercizio fisico. I partecipanti a cui era stata diagnosticata un’elevata pressione arteriosa e che erano stati invitati a spendere i soldi per se stessi, invece, non mostrarono cambiamenti a livello di pressione sanguigna durante lo studio.
Inoltre, come previsto, per le persone senza ipertensione, non si sono riscontrati benefici dallo spendere soldi per gli altri.

 

Nei partecipanti precedentemente diagnosticati con alta pressione sanguigna, spendere soldi per gli altri ha ridotto significativamente il loro livello di ipertensione nel corso dello studio

 

L’importanza della ricerca di Whillans e colleghi sta nell’aver trovato la prova sperimentale del fatto che il modo in cui la gente spende i propri soldi ha un significato, andando ad avvalorare la tesi di una promozione dei benefici della generosità finanziaria.
Si è constatato, poi, che le persone sembrano avere maggiore giovamento dallo spendere soldi per coloro a cui si sentono più vicini, come amici intimi e familiari. Per esempio, un partecipante allo studio era un veterano di guerra: egli donò la sua somma di denaro ad una scuola, costruita in onore di un amico che aveva servito con lui nella guerra del Vietnam. Un altro partecipante, invece, donò i suoi soldi ad un ente di beneficenza, che aveva aiutato sua nipote a sopravvivere all’anoressia.

Sicuramente c’è ancora molto da scoprire su quando e per chi si rivelano i benefici, in termini di salute, della generosità finanziaria. Per esempio noi non sappiamo molto su come o quanto la gente dovrebbe spendere per gli altri per godere di benefici di lunga durata per la salute. Di certo, la ricerca suggerisce che gli effetti positivi delle nuove circostanze possono scomparire velocemente. Così, per mantenere più a lungo termine i benefici per la salute della generosità finanziaria, potrebbe essere necessario impegnarsi in nuovi atti generosi, prioritariamente verso persone a cui ci si sente vicini.

Eppure la generosità finanziaria non porterebbe sempre vantaggi alla salute.
Attingendo a ricerche sul caregiving, la generosità finanziaria potrebbe fornire benefici solo quando non comporta costi personali schiaccianti.
La lettura di questo articolo ci invita quindi a pensarci due volte prima di donare i risparmi di un’intera vita in beneficenza: lo stress correlato a un aiuto così esteso potrebbe minare i benefici potenziali.

Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per replicare questi risultati, le scoperte di Whillans e collaboratori forniscono alcune delle prove più forti, fino ad oggi, sul fatto che le decisioni quotidiane, relative all’impegnarsi in atti finanziariamente generosi, possano portare, causalmente, a benefici per la salute fisica.
Fare un passo verso una salute migliore (e verso la felicità) potrebbe essere semplice come spendere i vostri prossimi 20 euro con generosità!

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