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Parlami di lui e ti dirò chi sei: sfumature linguistiche e identità sociale

Quando parliamo, lasciamo spesso trapelare alcune informazioni circa la nostra identità sociale attraverso le sfumature linguistiche che utilizziamo per descrivere qualcuno.

 

Tracce dell’ identità sociale nelle strutture linguistiche

Questo è ciò che ha dimostrato un recente studio condotto da Shanette Porter dell’Università di Chicago, appena pubblicato su Psychological Science: siamo in grado di inferire alcune informazioni sull’identità sociale del nostro interlocutore (come l’etnia o l’orientamento politico) anche basandoci solo sull’utilizzo che questi fa di termini concreti o astratti per descrivere il comportamento di qualcuno.

Effettivamente, nella letteratura degli ultimi quarant’anni è stato ampiamente dimostrato come le persone esprimano le proprie credenze, valori o stereotipi sugli altri attraverso il modo in cui utilizzano il linguaggio: non conta, dunque, solo ciò che diciamo, ma anche come lo diciamo.

Descrivere il comportamento di una persona in modo concreto, utilizzando verbi ben definiti – ‘Luca ha colpito il suo amico‘ – tipicamente indica come quel comportamento sia una singolarità e non sia necessariamente ascrivibile alla personalità di Luca; al contrario, descrivere il comportamento di una persona in modo astratto, utilizzando perlopiù sostantivi e aggettivi – ‘Luca è un violento‘ – lascia ben intendere come quel comportamento descriva (secondo noi) una caratteristica tipica della personalità di Luca.

Già precedenti ricerche hanno rivelato la nostra tendenza ad usare queste sfumature espressive in modo favorevole quando parliamo di qualcuno che ci sta a cuore (o che appartiene al gruppo sociale con cui ci identifichiamo): siamo soliti, infatti, parlare in maniera astratta dei comportamenti positivi dei nostri cari e in maniera concreta dei loro comportamenti negativi. Sorprendentemente, tale tendenza si inverte simmetricamente quando parliamo di qualcuno appartenente ad un altro gruppo (banalmente, un estraneo).

 

Identità sociale e appartenenza al gruppo nelle sfumature linguistiche

Nel presente studio, dunque, Porter e colleghi hanno ipotizzato che le persone siano in grado di inferire da tali sfumature linguistiche se l’interlocutore appartiene o meno allo stesso gruppo sociale della persona di cui sta parlando. Attraverso una somministrazione online, ai partecipanti è stato chiesto di leggere un brano attraverso cui un autore sconosciuto ha descritto un comportamento positivo e negativo di Peter: in una prima condizione il comportamento positivo veniva descritto in termini astratti ed il comportamento negativo in termini concreti; in una seconda condizione il pattern era invertito; ai partecipanti è stato infine chiesto di giudicare se l’autore del brano appartenesse o meno allo stesso gruppo sociale di Peter.

I risultati hanno dimostrato come i partecipanti fossero molto sensibili a tali sfumature espressive: il primo gruppo di soggetti ha ritenuto che l’autore del brano appartenesse effettivamente allo stesso gruppo di Peter, mentre il secondo gruppo è stato di opinione contraria. Una successiva indagine ha poi rivelato come le idee e credenze religiose e politiche dei partecipanti non abbiano minimamente influenzato il loro giudizio.

Stando alle parole della stessa Shanette Porter, dunque:

Questi risultati dimostano come il linguaggio sia uno strumento di comunicazione molto potente, non solo per vie esplicite, ma anche attraverso sfumature più sottili ed implicite: due persone che utilizzano praticamente le stesse parole possono veicolare un informazione assai diversa sulle proprie credenze, sulle proprie attitudini e – in parole povere – sulla propria identità sociale.

Tale relazione tra il linguaggio dell’oratore e l’ identità sociale degli ascoltatori può giocare evidentemente un ruolo chiave nella comunicazione, sia essa meramente pubblicitaria o perfino politica.

Ma, in definitiva, queste conclusioni sono importanti per chiunque voglia comunicare utilizzando il linguaggio: sembra che il modo in cui comunichiamo sia ben più importante dell’effettivo oggetto della nostra comunicazione. O, per dirla utilizzando un linguaggio diverso: sembra che nel modo vi sia un mondo.

La plasticità del cervello dalla A alla Z

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

L’edizione di dicembre della rivista Current Opinion in Neurobiology riassume le conoscenze attuali sulla plasticità del cervello, intesa in senso molto ampio, partendo dall’infinitamente piccolo (plasticità a livello molecolare, nelle sinapsi) per arrivare fino al livello ‘macro’ (la plasticità osservabile nel comportamento umano).

Alessandro Treves (SISSA) e Thomas Mrsic-Flogel (Università di Basilea) hanno curato questo numero, coinvolgendo alcuni dei maggiori esperti internazionali sull’argomento. In una conferenza di Ted di qualche tempo fa, Roberto D’Angelo e Francesca Fedeli raccontano l’esperienza del loro figlio Mario: colpito a soli dieci giorni di vita da un infarto cerebrale, sembrava destinato a vivere con solo mezzo cervello funzionante, con tutte le difficoltà che ne conseguono a livello cognitivo (e motorio). Così non è stato: il bimbo a due anni (lo si vede nel video) riesce a camminare e parlare in maniera comparabile a quella di un coetaneo. Non è un miracolo: anche se il caso di Mario è particolarmente fortunato (anche grazie all’enorme impegno dei genitori nell’aiutarlo): ci troviamo di fronte a uno dei tanti esempi della capacità del sistema nervoso di adattarsi con successo alle condizioni avverse.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL VIDEO

 

Gli scienziati parlano di plasticità del cervello, un tema di grande interesse nella ricerca in neuroscienze, al quale è ora dedicato l’intero numero di dicembre della rivista Current Opinion in Neurobiology curato da Alessandro Treves, professore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e Thomas Mrsic-Flogel, dell’Università di Basilea in Svizzera. La rivista è specializzata in lavori di rassegna sistematica della letteratura su argomenti specifici, fondamentali per dare un quadro complessivo della ricerca alla comunità scientifica.

[blockquote style=”1″]L’edizione che abbiamo curato mirava a spaziare e a collegare concettualmente ambiti di ricerca differenti che raramente comunicano fra loro: si esplora la plasticità dal livello delle reazioni chimiche che avvengono dentro la sinapsi, per poi procedere in ‘su’ fino alla plasticità nel comportamento, passando attraverso diversi stadi, e con un excursus anche nell’intelligenza artificiale[/blockquote] spiega Treves.

Tanti ricercatori, tante sfaccettature [blockquote style=”1″]Su richiesta dell’editore, per comporre questo numero dedicato, abbiamo raccolto una trentina di lavori di rassegna redatti da scienziati esperti nel campo[/blockquote] spiega ancora Treves.

[blockquote style=”1″]Quali sono i “pezzi” più significativi? Per esempio quello di Judit Gervain, ex studentessa SISSA ora all’Universitè Paris Descartes, dedicato alla plasticità del linguaggio alla nascita, o quello di Agnes Kovacs, anche lei ex SISSA, ora all’Università Centrale Europea di Budapest, sulla flessibilità cognitiva legata al bilinguismo. O ancora, molto interessante è il lavoro di Yasser Roudi, brillante ex-studente SISSA ora al Kavli Institute, vincitore in Aprile del premio Eric Kandel, assegnato ogni due anni ad un giovane neuroscienziato, che tratta di “deep learning”, il nuovo “tormentone” dell’intelligenza artificiale.[/blockquote]

LINK UTILI: • Link all’edizione di Current Opinion in Neurobiology dedicata alla plasticità: http://goo.gl/1PTcTU

IMMAGINI: • Crediti: r. nial bradshaw Flickr: https://goo.gl/sMmCxK

Contatti: Ufficio stampa: [email protected]

Tel: (+39) 040 3787644 | (+39) 366-3677586

via Bonomea, 265 34136 Trieste

Maggiori informazioni sulla SISSA.

The December issue of the journal Current Opinion in Neurobiology reviews current knowledge about brain plasticity, in its broadest sense, starting from the infinitely small (plasticity at the molecular level, in synapses) up to the macro level (the plasticity observable in human behaviour).

Alessandro Treves (SISSA) and Thomas Mrsic-Flogel (University of Basel) have edited this issue involving some of the leading international experts in the field. At a Ted conference held some time ago, Roberto D’Angelo and Francesca Fedeli recounted the experience of their son Mario: struck by a cerebral infarction when he was only 10 days old, he seemed destined to live with only one half of his brain functioning, with all the difficulties such a condition would entail at the cognitive (and motor) level. But things went differently: at 2 years of age the boy (he can be seen in the video) can walk and speak like any other child of his age. It is not a miracle: even though Mario’s case is particularly lucky (in part thanks to his parents’ huge commitment to helping him), it is one of the many examples of the nervous system’s ability to adapt successfully to adverse conditions.

Scientists call it plasticity of the brain, a subject of great interest in neuroscience research, to which the journal Current Opinion in Neurobiology has now devoted its entire December issue, edited by Alessandro Treves, professor at the International School for Advanced Studies (SISSA) of Trieste and Thomas Mrsic-Flogel of the University of Basel in Switzerland. The journal specialises in systematic reviews of the literature on given topics, which are crucial for providing the scientific community with an overall view of the relevant research.

[blockquote style=”1″]The issue we edited aimed to bring together and conceptually connect different fields of research that rarely communicate with one another: it explores the different levels of brain plasticity from the chemical reactions taking place in synapses right up to plasticity in behaviour, passing through the different stages, and with a foray also into artificial intelligence[/blockquote] explains Treves.

Many researchers, many facets[blockquote style=”1″] On the publisher’s request, to put this issue together we collected about thirty reviews written by experts in the field[/blockquote] continues Treves. Which are the most significant contributions?

[blockquote style=”1″]For example, the paper by Judit Gervain, former SISSA student now at Université Paris Descartes, devoted to language plasticity at birth, or the review by Agnes Kovacs, also a former SISSA student and now at the Central European University of Budapest, on the cognitive flexibility associated with bilingualism. Or still another interesting piece is the paper about “deep learning” – the new buzz word in artificial intelligence – written by Yasser Roudi, a brilliant ex-SISSA student now at the Kavli Institute, who last April won the Eric Kandel prize, awarded to a young neuroscientist every two years.[/blockquote]

USEFUL LINKS: • Link to the issue of Current Opinion in Neurobiology devoted to plasticity: http://goo.gl/1PTcTU

IMAGES: • Crediti: r. nial bradshaw (Flickr: https://goo.gl/sMmCxK)

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Fattori predittivi dell’impatto di una seduta allarmante sullo psicoterapeuta in formazione – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Fattori predittivi dell’impatto di una seduta allarmante sullo psicoterapeuta in formazione

Bellardi C., Virga L., Boldrini M. P., Caselli G., Ruggiero G. M.

Attraverso questa ricerca si sono investigati i fattori predittivi dell’impatto di una seduta con paziente allarmante sul terapeuta in formazione.

Lo scopo è stato quello di definire se esista un legame tra stili relazionali (Bowlby), temi dolorosi, piani di vita (Sassaroli) e impatto di una seduta con paziente allarmante sul terapeuta in formazione. Inoltre si è inteso indagare se il percorso di formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale costituisca un elemento protettivo nei confronti di suddetto impatto.

Si è ipotizzato l’esistenza di una correlazione positiva tra le caratteristiche misurate (stile relazionale, temi dolorosi, piani di vita) e l’impatto di una seduta con paziente allarmante; inoltre si è ipotizzato che l’impatto del paziente allarmante sia direttamente proporzionale alla juniority dello psicoterapeuta in formazione.

La cornice teorica sulla quale si basa il lavoro è la letteratura relativa all’impatto degli eventi stressanti (Liotti, Weiss) e allo stile relazionale del paziente e del terapeuta in seduta, con particolare riferimento alla teoria dell’attaccamento (Bowlby) e dei cicli interpersonali (Semerari).

Il disegno progettuale, articolato in due fasi, si propone di indagare in un primo tempo le caratteristiche relazionali dello psicoterapeuta e successivamente si misura la reazione dello psicoterapeuta rispetto all’impatto del video somministrato relativo ad una seduta di psicoterapia con un paziente allarmante costruito ad hoc per questo studio.

Con l’intento di perseguire l’obiettivo di comprendere i fattori implicati nell’impatto di una seduta allarmante sul terapeuta in formazione, nel corso della scelta dei materiali da impiegare a tale scopo, si era inizialmente pensato alla costruzione di stimoli-vignetta, ma ci si è resi conto in itinere che uno stimolo video, attraverso cui proporre la visione di uno spezzone di seduta allarmante, sarebbe stato maggiormente in grado di esprimere contenuti capaci di elicitare le reazioni cognitive, emotive e comportamentali che avrebbero segnalato una vulnerabilità al contenuto rappresentato. Nelle fasi iniziali di preparazione dei materiali, si era pensato alla possibilità di proporre la visione di tre simulazioni di colloqui di psicoterapia, rispettivamente con un paziente allarmante che richiede un colloquio in emergenza; un paziente con disturbo narcisistico di personalità; un paziente con disturbo evitante di personalità.

Tutti e tre i video sono stati registrati a partire da copioni costruiti sulla base di colloqui clinici reali, ovviamente modificati per evitare che i contenuti potessero essere ricondotti ai pazienti in questione, e avvalendosi della collaborazione di attori professionisti e di una terapeuta di Studi Cognitivi. Dopo aver riflettuto lungamente sui tempi a disposizione per la somministrazione dei questionari, si è ritenuto opportuno scegliere solo uno dei tre video: si è optato per il video del paziente allarmante in quanto i ricercatori hanno valutato che tale paziente fosse quello che maggiormente avrebbe potuto impattare sui soggetti. Relativamente al video in questione, il copione è stato costruito a partire dal film “Gente comune”, un film del 1980, diretto da Robert Redford.

Nella prima fase del disegno progettuale, si sono investigate le caratteristiche dello psicoterapeuta, utilizzando i seguenti test: misurazione dello stile di attaccamento e relazionale attraverso ASQ, ECR, PTP Questionnaire – Painful Themes and Plans (PTP). Più specificamente, all’interno della cornice teorica del modello LIBET di Sassaroli-Ruggiero, per questo specifico studio pilota si è proceduto alla costruzione del Painful Themes & Plans Questionnaire, a partire dal Booklet LBET di Bassanini A., Caselli G., Redaelli C.A.., Ruggiero G.M. e Sassaroli S., con lo scopo di indagare nei soggetti sperimentali temi dolorosi intollerabili e piani di vita, enucleati dal modello stesso. Si tratta di un questionario self-report composto da 28 item, suddivisi in sette sottoscale, con quattro quesiti ciascuna relativi ai quattro temi dolorosi e ai tre piani di vita individuati dal modello LIBET. Il questionario prevede che le risposte vengano date su una scala Likert che va da 1 a 7 dove 1 significa per niente d’accordo e 7 totalmente d’accordo, purtroppo il questionario non è ancora stato validato, si auspica che ciò possa avvenire quanto prima. Si è inoltre proceduto alla misurazione della eventuale sintomatologia ansiosa e depressiva attraverso la somministrazione dell’HADS.

Nella seconda fase, dopo la somministrazione dello stimolo video, si è misurato l’impatto del paziente allarmante attraverso la somministrazione in 4 tempi (T0, T1, T2 e T3) del questionario IESR_Short, ovvero una versione abbreviata della scala IESR.

Il campione è costituito da allievi del primo (n.55) e dell’ultimo anno (n.53) delle scuole di psicoterapia cognitivo comportamentale di Studi Cognitivi.

E’ risultato che gli allievi del quarto anno rispetto agli allievi del primo hanno registrano maggiori difficoltà in termini di funzionamento relazionale, inflessibilità dei piani di vita e reazione all’evento stressante del paziente allarmante. Mentre la presenza di temi dolorosi intollerabili pare non essere correlata con l’impatto stressante, la presenza di piani di vita evitanti (piano di vita 1 prudenziale e piano di vita 3 auto-immunizzante) paiono costituire fattori predittivi della risposta all’evento stressante.

Si rileva come i limiti del presente studio possano essere legati alla somministrazione in classe di strumenti self-report, alla scelta del campione che ci permette di fare una valutazione sincronica e non diacronica nel tempo, alla mancanza di una valutazione della credibilità dello stimolo video e della presenza o meno di un percorso di psicoterapia individuale del terapeuta in formazione.

Si auspica che in futuro suddette ipotesi possano essere verificate con studi longitudinali che permettano di valutare stile relazionale, temi dolorosi, piani e impatto del paziente allarmante sullo stesso psicoterapeuta in formazione all’inizio e alla fine del percorso formativo.

Drop-Out (2014) di Federico Batini – Recensione

Segoloni Sonia

Ogni storia del libro ha purtroppo un fil rouge: il fatto di non aver abbandonato loro la scuola ma che la scuola abbia abbandonato loro. I sentimenti più ricorrenti tra questi ragazzi sono lo smarrimento e la rabbia ma soprattutto la delusione verso questa istituzione che li ha lasciati soli mentre avevano più bisogno di essere seguiti.

Il volume si presenta così suddiviso: Introduzione, Parte prima, Parte seconda. Nell’introduzione, ‘Di cosa parliamo quando parliamo di drop-out?’ a cura di Guido Benvenuto viene innanzitutto esplicitato il tema chiave del libro, ovvero i drop-out.

Con questo termine ci si riferisce ai ragazzi che abbandonano il ciclo scolastico prima di averlo completato. L’autore tratta questo fenomeno, ormai sempre più in espansione nel nostro Paese, dal punto di vista dei ragazzi, parte quindi dalle loro motivazioni, dai loro sentimenti, dalle cause che hanno portato questi ragazzi a troncare il percorso educativo troppo precocemente e dalle conseguenza riportate da questa scelta.

Tutto ciò verrà trattato nella prima parte, intitolata ‘Perchè ascoltare i drop-out?’. In questo capitolo viene proposta una larga e dettagliata definizione del termine drop-out e vi si chiarifica l’attuale situazione italiana anche in relazione con altri paesi europei grazie ai dati forniti dall’Eurostat: l’Italia risulta possedere il minor numero di laureati e diplomati rispetto a tutta l’Europa; infatti la percentuale di drop-out nel nostro paese è arrivata ormai al 17%.

Nella seconda parte, ‘Voci’, incontreremo dei ragazzi intervistati di età compresa tra i 16 e i 19 anni residenti nelle regioni Umbria e Toscana. Ogni storia ha purtroppo un fil rouge: il fatto di non aver abbandonato loro la scuola ma che la scuola abbia abbondato loro. I sentimenti più ricorrenti tra questi ragazzi sono lo smarrimento e la rabbia ma soprattutto la delusione e il disprezzo verso questa istituzione che li ha lasciati soli nel momento in cui loro avevano più bisogno di essere seguiti e accompagnati verso il loro futuro. La ricerca, condotta dal Professor Batini con un gruppo di suoi collaboratori, si basa sui dati ricavati da sessantasette interviste narrative semi-strutturate, tra le quali ventisette somministrate a ragazzi provenienti da Arezzo e quaranta da Perugia. È emerso che le cause dell’abbandono scolastico sono varie, ma le più ricorrenti sono: cattivi rapporti relazione con insegnanti e il voto di condotta.

Il libro ha inoltre lo scopo di abbattere i tanti pregiudizi che gravitano intorno ai Drop-out, troppo spesso etichettati come gli sbandati, gli svogliati: ‘ha abbandonato la scuola perchè non aveva voglia’ oppure ‘è andato a lavorare senza finire il liceo perchè non aveva abbastanza capacità per farcela’.

No. Non è assolutamente così, spesso la voglia del ragazzo nello studiare una data materia o un corso scaturisce dalla passione e dalla bravura derivanti dall’insegnate. Se non si parte da queste fondamenta, che devono essere solide, non si potrà costruire nulla di concreto e duraturo. Nel testo troviamo inoltre argomenti difficili come il bullismo, problemi familiari e difficoltà di apprendimento che i ragazzi non possono affrontare e gestire da soli, bisogna quindi dare loro il giusto e adeguato sostegno per rimettersi in piedi, prenderli per mano e accompagnarli verso il futuro che loro sperano di avere.

Personalmente non ho mai pensato di abbandonare il ciclo formativo, di sicuro ho avuto ripensamenti magari sulla scelta della scuola o dell’indirizzo, però ho degli amici che hanno smesso e le cause si sono poi rivelate essere un pessimo rapporto con quasi tutti gli insegnanti e la scelta errata del liceo. Uno di questi amici in particolare, dopo un periodo in cui ha deciso di lavorare, fortunatamente si è convinto a riprendere il ciclo di studi, terminandolo poi con successo. Attualmente questo ragazzo frequenta l’ultimo anno di Università ed è uno dei più brillanti del suo corso.

Mi ha colpito questo saggio, e credo che sia adatto sopratutto agli insegnanti. Le citazioni che ritengo più significative sono le seguenti:

Gino apprezza il percorso formativo mentre non apprezzava affatto la scuola, infatti non partecipava se non sporadicamente, anzi più spesso non andava proprio a scuola.

pag.77 – ‘Voci’

 

In classe mia c’era un ragazzo… un ragazzo… insomma uno non, non tanto normale, invece di aiutarlo gli urlavano e basta, a me mi mettevano voti bassi solo perché io quando qualcosa non andava glielo dicevo, mia mamma mi diceva sempre devi avere più rispetto ed è meglio che tieni chiusa un po’ quella bocca, ma perché io le ingiustizie non le posso vedere. Come quel giorno che mi ha messo 6 perchè non ero d’accordo sulla sua idea di uguaglianza tra i popoli, mi meritavo almeno un 7.

pag. 160 – ‘Voci’

 

Orientare un soggetto sulla base di ciò che, in un determinato contesto, non sa e non sa fare è un processo di etichettamento che non prelude a percorsi felici e appaganti, ma ad autosvalutazioni cognitive, bassa motivazione, percezione di inadeguatezza.

pag.18 – ‘Perchè ascoltare i drop-out?’

Non ho riscontrato limiti alla ricerca che considero sia stata portata avanti con molto tatto e senza pregiudizi alcuni, mettendo questi ragazzi a proprio agio senza farli sentire degli emarginati. Considerate le percentuali, piuttosto preoccupanti, dei ragazzi che lasciano il percorso di studi trovo l’argomento di questo saggio più che attuale, ci fa conoscere uno dei tarli più pesanti e che porta più conseguenze negative della società attuale.

Io credo che la disoccupazione derivi molto anche dalla insufficiente e spesso assente preparazione che presentano i ragazzi, bisognerebbe alzare gli standard della cultura e dovremmo affacciarci al mondo lavorativo professionalmente più consapevoli e preparati.

To have or to feel? I benefici taciuti degli acquisti materiali

Se è vero che il denaro non fa la felicità, non è un segreto che acquistare ciò che desideriamo può regalarci momenti piacevoli ed emozioni positive. Ma quando abbiamo la possibilità di comprare qualcosa, è meglio investire su un oggetto materiale o su una esperienza?

La ricerca degli ultimi anni suggerisce che le esperienze ci rendono più felici rispetto agli acquisti materiali e il senso comune sembra in molti casi condividere questa posizione (si pensi, ad esempio, all’incredibile diffusione di abbonamenti al cinema, cofanetti per un week end fuori porta e ingressi omaggio alle terme che è capitato a tutti di regalare o ricevere). Che cosa intendiamo, però, quando affermiamo che un concerto di James Blake ci rende più felici di una nuova lampada per il soggiorno? Di quale felicità stiamo parlando?

In un recente studio pubblicato su Social Psychological and Personality Science, i ricercatori della British Columbia University hanno messo a confronto la felicità associata ad acquisti materiali e esperienziali tenendo in considerazione le emozioni associate al momento del consumo. Circa 70 studenti hanno ricevuto un budget di 20 dollari e l’indicazione, per alcuni, di spenderlo per un acquisto materiale mentre, per altri, per un acquisto esperienziale.

Un altro gruppo di studenti, invece, è stato intervistato relativamente ad un regalo ricevuto; anche in questo caso il campione comprendeva circa 70 soggetti, una metà dei quali ha risposto alle domande con riferimento ad un dono materiale, l’altra metà ad una esperienza. Per tutti i partecipanti si è osservato l’andamento della felicità momentanea nel corso di circa due settimane.

I risultati indicano che, se è vero che le esperienze ci soddisfano di più sul momento, cioè mediamente offrono una felicità più intensa al momento dell’acquisto e dell’utilizzo, gli oggetti materiali ci rendono felici più a lungo. In altre parole, quando compriamo o riceviamo in regalo esperienze siamo molto felici, ma lo siamo per poco tempo e con il passare dei giorni ci restano solo i ricordi, mentre quando compriamo o riceviamo qualcosa di concreto la felicità provata al momento dell’acquisto è più contenuta, ma di fatto si rinnova ad ogni utilizzo, garantendo una maggiore frequenza di emozioni positive riferite al momento presente.

Come spesso accade, anche il dilemma ‘to have or to do’ non può essere risolto in modo univoco e conclusivo e richiede, piuttosto, di tenere in considerazione il contesto personale e sociale di riferimento.

Le conseguenze psicologiche nel malato di Parkinson e nei suoi familiari

Le difficoltà nei rapporti sociali, la difficoltà di accettare la progressiva invalidità fisica, sono problemi che il paziente con Parkinson deve affrontare e che spesso incidono negativamente sul tono dell’umore. Chi assiste il malato, invece, potrebbe sperimentare un calo del tono dell’umore e sperimentare sintomi che indicano la presenza di stress eccessivo.

Giulia Marcella Fatone – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Che cos’è la malattia di Parkinson?

Il Parkinson è un disturbo del sistema nervoso centrale, caratterizzato dalla degenerazione di alcune cellule nervose (neuroni), situate in una zona profonda del cervello, la Sostanza Nera. Queste cellule producono un neurotrasmettitore, la dopamina, che è responsabile di un circuito che controlla il movimento (Pezzoli e Tesei, 2001).

La malattia di Parkinson si manifesta quando la produzione di dopamina nel cervello cala consistentemente. I livelli ridotti di dopamina sono dovuti alla degenerazione di neuroni, nell’area chiamata Sostanza Nera (la perdita cellulare è di oltre il 60% all’esordio dei sintomi). L’evoluzione della malattia è lenta, ma progressiva e comporta numerose modificazioni a livello cognitivo, affettivo e comportamentale. A questi si associano sintomi motori caratteristici della malattia quali: rigidità, bradicinesia, e tremore a riposo. Tutto ciò influenza inevitabilmente la qualità di vita del paziente e dei familiari.

Il nome è legato a James Parkinson, medico inglese che per primo descrisse gran parte dei sintomi della malattia in un famoso libretto, il ‘Trattato sulla paralisi agitante‘ pubblicato nel 1817.

La malattia si riscontra in entrambi i sessi, con una lieve prevalenza, forse, in quello maschile, è presente in tutto il mondo e in tutti i gruppi etnici. L’età media di insorgenza del Parkinson è di 60 anni, ma nel 5-10% dei soggetti che sviluppano la malattia, questa si manifesta prima dei 50 anni e, in alcuni casi anche prima dei 40 anni: in questo caso definito Parkinson ad esordio giovanile (Pruneti, 2012). Le cause del Parkinson rimangono ancora sconosciute, sebbene molti esperti ritengono che chi si ammala di Parkinson sia geneticamente sensibile all’azione lesiva di alcune sostanze chimiche, non ancora ben definite che si possono trovare nel cibo, nell’acqua e nell’aria (Pezzoli e Tesei, 2001).

I principali sintomi della malattia di Parkinson

I principali sintomi del Parkinson sono: il tremore, la rigidità, la bradicinesia (lentezza dei movimenti automatici), a questi asi associano altri sintomi primari quali: disturbi dell’equilibrio, atteggiamento curvo e impaccio nell’andatura.

Tremore a riposo

È il sintomo più conosciuto e maggiormente rappresentativo della malattia di Parkinson. Il tremore spesso interessa una mano (si presenta come un’oscillazione con cinque-sei movimenti al secondo), ma può interessare anche i piedi e la mandibola. In genere è più evidente su un lato. È presente a riposo, ma in alcuni pazienti può essere presente anche in azione, in genere non è invalidante (Pezzoli e Tesei, 2001).

Rigidità

È un aumento del tono muscolare a riposo o durante il movimento. Può essere presente agli arti, al collo ed al tronco. La riduzione dell’oscillazione pendolare degli arti superiori durante il cammino è un segno di rigidità, associata a lentezza dei movimenti (Pezzoli e Tesei, 2001).

Lentezza dei movimenti (bradicinesia)

La bradicinesia è un rallentamento nell’esecuzione dei movimenti e dei gesti. Segno di bradicinesia sono le difficoltà nei passaggi posturali, passare da una posizione all’altra (per esempio da seduti ad in piedi), girarsi nel letto. Si evidenzia facendo compiere al soggetto con Parkinson alcuni movimenti di manualità fine, che risultano più impacciati, meno ampi e più rapidamente esauribili per cui, con la ripetizione, diventano quasi impercettibili. Sintomi correlati alla bradicinesia sono: la modificazione della grafia, che diventa più piccola (micrografia); la scialorrea (aumento della quantità di saliva in bocca), dovuta ad un rallentamento dei muscoli coinvolti nella deglutizione; la ridotta espressione del volto (ipomimia) (Pezzoli e Tesei, 2001).

Disturbo dell’equilibrio

Si presenta più tardivamente nel corso del Parkinson ed è un sintomo che coinvolge l’asse del corpo; è dovuto a una riduzione dei riflessi di raddrizzamento, per cui il soggetto non è in grado di correggere spontaneamente eventuali squilibri. Si può evidenziare quando la persona cammina o cambia direzione durante il cammino. La riduzione di equilibrio è un fattore di rischio per le cadute a terra. I disturbi dell’equilibrio non rispondono alla terapia dopaminergica (Pezzoli e Tesei, 2001).

Altri sintomi motori, Disturbo del cammino

Si osserva una riduzione del movimento pendolare delle braccia più accentuato da un lato, una postura fissa in flessione e un passo più breve. Talvolta si presenta quella che viene chiamata festinazione, cioè il paziente tende a strascicare i piedi a terra e ad accelerare il passo, come se inseguisse il proprio baricentro, per evitare la caduta.

Negli stadi avanzati del Parkinson, possono verificarsi episodi di blocco motorio, improvviso freezing (come un congelamento delle gambe) in cui i piedi del soggetto sembrano incollati al pavimento. Il fenomeno si può manifestare come un’improvvisa impossibilità ad iniziare la marcia o a cambiare la direzione. Oppure, si osserva quando il paziente deve attraversare passaggi ristretti (come una porta od un corridoio) o camminare in uno spazio affollato da molte persone. Questa difficoltà può essere superata adottando alcuni accorgimenti quali: alzare le ginocchia, come per marciare oppure considerare le linee del pavimento come ostacoli da superare. Anche l’utilizzo di un ritmo verbale, come quello che si utilizza durante la marcia militare, può risultare utile (Pezzoli e Tesei, 2001).

I disturbi dell’umore nella Malattia di Parkinson

Parkinson e depressione

La malattia di Parkinson, proprio a causa degli innumerevoli sintomi fisici, tra i quali: il tremore diffuso e le bradicinesie, è una malattia estremamente visibile. Vedere il proprio corpo trasformato dalla malattia e il sopraggiungere inarrestabile di molti sintomi fisici che inevitabilmente porteranno ad una sempre maggiore invalidità, tutto ciò, influisce negativamente sul tono dell’umore e sul livello d’ansia della persona. Le difficoltà nei rapporti sociali, la difficoltà di accettare la progressiva invalidità fisica e le menomazioni che comporta, sono problemi che il paziente con Parkinson deve affrontare e che spesso incidono negativamente sul tono dell’umore.

La depressione, infatti, è molto comune nella malattia di Parkinson, essa può precedere l’esordio della malattia e costituire un fattore di rischio: approssimativamente i sintomi depressivi sono presenti nel 25-40% dei casi. Si tratta per lo più di una depressione di lieve o moderata entità con caratteristiche omogenee (Pruneti, 2012). Quando la depressione compare in forma lieve, in uno stadio iniziale della malattia e prima del caratteristico quadro sintomatologico motorio, la diagnosi di un concomitante stato depressivo può divenire difficoltosa; infatti molti segni, quali il rallentamento psicomotorio, l’espressione facciale, il tono della voce, la variazione del ritmo sonno-veglia, dell’appetito e della libido, fanno parte della tipica sintomatologia del Parkinson o sono attribuibili a farmaci utilizzati per il trattamento. Secondo alcuni ricercatori, questo disturbo dell’umore in parte, può essere legato a una reazione negativa conseguente alla diagnosi di malattia cronica, ma più frequentemente è il risultato della riduzione di alcune sostanze neurochimiche correlate alla dopamina (noradrenalina e serotonina) (Pezzoli e Tesei, 2001). Ciò comporta modificazioni affettive e comportamentali come: la tendenza ad abbandonare le proprie attività quotidiane ed i propri interessi, la perdita di iniziativa, un atteggiamento apatico, abulico e anedonico. Talora si accompagnano alla depressione, pessimismo, mancanza di interesse, autosvalutazione, disforia e sintomi somatici con anoressia e insonnia, e la presenza di una componente ansiosa (Pruneti 2012).

Parkinson e disturbi d’ansia

Anche i disturbi d’ansia sono comuni nei pazienti con Parkinson, spesso associati ai disturbi depressivi, l’ansia può presentarsi come: attacchi di panico, disturbi fobici (legati soprattutto alla paura di cadere, a causa della instabilità posturale), disturbo d’ansia generalizzata, sintomi somatici e, inoltre, non è infrequente la comparsa di sintomi ossessivo-compulsivi. I sintomi ossessivo-compulsivi infatti, sembrerebbero manifestarsi principalmente in alcuni sottogruppi di pazienti con Parkinson, ovvero in pazienti in fase avanzata della malattia, ma soprattutto in pazienti con esordio clinico motorio nell’emilato di sinistra. Ciò potrebbe suggerire che la manifestazione di sintomi ossessivo-compulsivi sia correlata alla disfunzione dei circuiti frontostriatali (soprattutto nell’emisfero destro), in linea con quanto riscontrato nei pazienti affetti dal disturbo ossessivo-compulsivo (Poletti e Bonuccelli, 2011).

Parkinson e disturbi del controllo degli impulsi

Il fenomeno dei disturbi del controllo degli impulsi è riportato con una frequenza crescente nei pazienti con Parkinson. Questi sono disordini del comportamento, caratterizzati dall’impossibilità, da parte del paziente, di resistere a stimoli compulsivi, alcuni di questi sono: gioco d’azzardo patologico, ipersessualità, binge-eating, disturbo esplosivo intermittente e fumo compulsivo. Tutto ciò, può portare ad una compromissione del benessere individuale e sociale. Sembra che il fenomeno dei disturbi del controllo degli impulsi, si debba attribuire alla terapia con dopaminoagonisti (Poletti e Bonuccelli, 2011).

Parkinson e sintomi psicotici

In passato si riteneva che un eccesso di terapia anti parkinson potesse portare a disturbi della percezione, quali allucinazioni e deliri. Allucinazioni prevalentemente visive, raramente uditive, che generalmente compaiono nella seconda metà del decorso della malattia. I deliri vengono riportati con minor frequenza e possono essere di tipo paranoide o di gelosia. Attualmente si ritiene più probabile che che l’insorgenza di tali fenomeni sia dovuta all’effetto di un’interazione tra alcune caratteristiche cliniche e la terapia (Poletti e Bonuccelli, 2011).

La malattia di Parkinson nella famiglia

La malattia di Parkinson, anche se ad insorgenza graduale, rappresenta per la famiglia un momento di crisi profonda. Essa infatti, poiché ha un andamento cronico e progressivo, richiede alla famiglia continui adattamenti necessari, quali: cambiamenti di ruolo, di funzioni dei diversi membri del nucleo familiare e di dinamiche ormai collaudate nel tempo, per consentire di adattarsi ad essa, cercando di mantenere il più possibile l’autonomia dei diversi membri. Tutto ciò comporta ovviamente un cambiamento dell’identità della famiglia che diventa un’altra, conservando il ricordo di com’era prima dell’insorgenza della patologia.

Poiché è una malattia cronica e progressiva, occorre che il paziente e i familiari conoscano le numerose caratteristiche della patologia per imparare a gestirla, per non subirla passivamente, ma combatterla, ossia accettarla e imparare a farci i conti giorno dopo giorno senza lasciarsi sopraffare dallo sconforto (Carretti, 2004).

Infatti questa malattia richiede cure per tutto l’arco della vita, richiede attenzione ai diversi cambiamenti fisici, cognitivi e aggiustamenti continui della terapia. Una delle maggiori difficoltà riscontrabili nel paziente e nei suoi familiari è l’accettazione della diagnosi di Parkinson. La diagnosi e la consapevolezza di tutto ciò che comporterà questa patologia può gettare il paziente, ma anche l’intero nucleo familiare in uno stato di profonda depressione, disperazione e senso di impotenza. Negare la malattia è un atteggiamento che se da una parte può, almeno in un primo momento, preservare il paziente e la sua famiglia da un dolore insostenibile, dall’altro è un atteggiamento contro-produttivo dal momento che può ostacolare la capacità di prendere atto della patologia e ritardare così l’inizio della cura.

La malattia di Parkinson infatti, va curata subito e il prima possibile, in quanto una corretta e tempestiva terapia rende possibile anche ritardarne il progresso (Carretti, 2004).

L’accettazione è un processo che non ha mai fine per questi pazienti, infatti il Parkinson provoca molti cambiamenti e ad ogni cambiamento segue un’inevitabile adeguamento e accettazione del nuovo stato di cose. Gli equilibri che il paziente si crea faticosamente, facendo i conti con i sintomi fisici devono essere modificati alla comparsa di altri sintomi, così come gli equilibri familiari, che mutano per sopperire alle richieste e ai problemi del malato (Carretti, 2004).

Normalmente il parkinsoniano ci mette degli anni prima di accettare completamente la malattia e tutti i sintomi che comporta; la stessa cosa vale per i familiari, i quali, specie se il morbo di Parkinson è a lenta insorgenza, si illudono all’inizio di poter controllare la patologia. Nel corso degli anni, acuendosi i sintomi causati dalla patologia e aumentando i sintomi conseguenti agli effetti disinibitori dei dopamino-agonisti, gli ingravescenti compiti assistenziali sostenuti dai familiari aumentano sempre di più richiedendo tempo, attenzione, energia. Generalmente vi è una sola persona che si occupa dell’assistenza al malato, nella maggior parte dei casi (72%) sono donne, tra gli uomini più frequentemente troviamo mariti e figli. I coniugi sono per lo più coloro che si prendono cura dei loro partner.

Qualora non siano in grado di farlo subentrano al loro posto figli o nuore. Tra i coniugi più anziani che svolgono questa attività, almeno la metà ha, a sua volta, problemi di salute. Almeno un terzo dei familiari sono lavoratori e sommano l’attività assistenziale a quella lavorativa. Il ruolo dei familiari è senza dubbio importantissimo, sia per il benessere dei membri della loro famiglia che per la società, perché grazie a loro, chi ha gravi problemi di salute riceve dignitosamente il conforto e l’assistenza di cui necessita.

Certamente una delle maggiori sfide che il familiare si ritrova ad affrontare quotidianamente è quella di riuscire a gestire i compiti di assistenza al familiare malato di Parkinson, contemporaneamente ad altre attività che richiedono tempo, attenzione ed energia. Infatti mediamente il familiare si occupa della cura della casa (fare la spesa, fare le pulizie, cucinare), pulizia del malato (lavarlo, vestirlo, aiutarlo nella deambulazione), si occupa delle cure mediche (assistenza per la terapia), spesso si occupa anche del coordinamento e dell’organizzazione di altre persone che forniscono assistenza e molte volte deve anche occuparsi di altri membri del nucleo familiare (nonni, suoceri, bambini) (Pezzoli e Tesei, 2001).

Assistere un malato di Parkinson se da una parte può essere molto soddisfacente, dal momento che è espressione di amore per una persona a noi cara, dall’altro può diventare fisicamente, ma soprattutto psicologicamente esasperante. Se l’impegno richiesto diventa eccessivo, chi assiste il malato potrebbe sperimentare un calo di energia, del tono dell’umore e di capacità di far fronte ai problemi e sperimentare sintomi che indicano la presenza di stress eccessivo.

Tra i principali sintomi indicatori di stress, i familiari dei pazienti con Parkinson potrebbero lamentare a livello fisico: mal di testa, dolori muscolari, problemi di appetito, insonnia, peggioramento di malattie croniche e ridotte difese dell’organismo. A livello emotivo: senso di colpa, di abbandono, rabbia, depressione, ansietà. A livello cognitivo: perdita di memoria, difficoltà a prendere decisioni, ridotta capacità di concentrazione. I familiari possono inoltre riscontrare difficoltà relazionali lamentando: atteggiamento rinunciatario, colpevolizzante, irritabilità, impazienza, sensibilità eccessiva alle critiche (Pezzoli e Tesei, 2001).

La malattia di Parkinson: conclusioni

La malattia di Parkinson come si è detto è una complessa malattia neurodegenerativa, che porta alla comparsa di molteplici sintomi. Dal punto di vista motorio i principali sintomi riscontrabili sono tremori, rigidità, lentezza dei movimenti e sono il risultato della morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina. Oltre ai sintomi motori vi sono inoltre numerose modificazioni a livello cognitivo, affettivo e comportamentale. Disturbi quali depressione e ansia sono considerati facenti parte della malattia di Parkinson; altri sintomi riportati con minor frequenza, quali allucinazioni, deliri e disturbi del controllo degli impulsi sono probabilmente causati dall’interazione tra le caratteristiche cliniche dei pazienti e la terapia con farmaci dopaminergici.

La presenza di disturbi psicopatologici nei pazienti con malattia di Parkinson varia dal 12 al 90%: questa elevata comorbilità riflette probabilmente le modificazioni che si verificano nel complesso circuito funzionale che comprende gangli della base, talamo, strutture limbiche e corteccia prefrontale (Poletti e Bonuccelli, 2011).

Graded Motor Imagery per il trattamento del dolore cronico

Negli ultimi 10 anni le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno portato novità importanti nella comprensione del ruolo del cervello nel dolore cronico.

Sono sempre più numerosi gli studi che evidenziano come il dolore cronico sia associato ad una riorganizzazione della corteccia sensoriale primaria (Flor et al., 1995, 1997). I pazienti con dolore cronico presentano un’alterazione della rappresentazione corticale somatotopica e anche della capacità di integrare gli stimoli percettivi con la rappresentazione e la discriminazione spaziale tra il lato affetto e quello sano.
Risultano compromesse anche le performance motorie volontarie. Altri studi mostrano che questi cambiamenti non sono irreversibili: per esempio i campi della corteccia sensitiva si possono modificare tramite stimoli tattili che hanno anche una rilevanza comportamentale (scrittura braille, Florence et al., 1997).
L’applicazione clinica di questi studi ha visto la messa a punto di trattamenti specifici che hanno come obiettivo diretto la riduzione del dolore attraverso una riorganizzazione corticale.

La Graded Motor Imagery (GMI) è uno di questi trattamenti: il suo obiettivo è quello di coinvolgere in maniera graduale le cortecce motorie senza attivare le risposte protettive del dolore. Vengono applicati i principi fisioterapici dell’aumento graduale delle attività, adattati in modo da influenzare sia il sistema nocicettivo ipersensibilizzato, sia i meccanismi corticali alterati già menzionati.

L’utilizzo del feedback visivo con lo specchio è un tipo di trattamento ben conosciuto e validato, introdotto dall’équipe di Ramachandran e colleghi nel 1992, per il trattamento dell’arto fantasma e dell’emiparesi conseguente a stroke (review di Ramachandran & Altshuler, 2009).

Pur essendo l’approccio GMI molto più “giovane”, è stata verificata la sua efficacia nel trattamento della CRPS, e vi sono risultati incoraggianti anche per il trattamento di altre condizioni di dolore cronico (Moseley et al., 2004, 2006).

Moseley e Butler hanno proposto due innovative definizioni del dolore, che aiutano a capire il “terreno teorico” in cui affonda le radici l’approccio GMI. La prima (Moseley, 2003) descrive il dolore come “il prodotto di diversi sistemi, che viene costruito sulla base della specifica “firma neurale” individuale del dolore. Tale “firma neurale” è costruita ogni volta che il cervello conclude che i tessuti corporei sono in pericolo ed è necessario un intervento.

Il dolore è un riferimento anatomico localizzato nel cervello”. Da sottolineare che il dolore è concepito come un prodotto che viene costruito dal cervello (piuttosto che soltanto uno stimolo che viene percepito ed elaborato). La definizione più recente (Moseley & Butler, 2015) fà un ulteriore passo avanti descrivendo il dolore come “un’inferenza percettiva, tramite la quale l’esperienza è considerata un risultato nella coscienza che riflette la migliore stima di ciò che sarà una risposta vantaggiosa. La tendenza è quella di sovrastimare il pericolo e di conseguenza eccedere in comportamenti protettivi.”

GRADED MOTOR IMAGERY nel dolore cronicoConsigliato dalla Redazione

GRADED MOTOR IMAGERY disfunzione sensoriale, componente educativa, attivazione motoria (…)

 

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Responsabilità e disagio, una ricerca empirica sugli adolescenti piemontesi di Trinchero e Tordini (2011) – Recensione

Sonia Segoloni

Secondo Havighurst per affrontare questo periodo di “assestamento” vi sono dei “compiti di sviluppo” connessi alla fase adolescenziale, i quali si presentano in un preciso periodo della vita del soggetto e che assolti in modo adeguato possono condurre alle felicità.

Il volume “Responsabilità e disagio, una ricerca empirica sugli adolescenti piemontesi” si presenta suddiviso in tre capitoli. Il primo, “Il contesto dell’indagine” a cura di Maria Loretta Tordini, tratta della condizione in cui si trova la società attuale considerando tutti gli eventi più importanti che possano aver dato un contributo all’odierna situazione. Uno di questi è la globalizzazione che [blockquote style=”1″]ha mobilizzato masse di persone ma anche di capitali, culture, mentalità, valori, rivoltando certezze consolidate da anni e secoli, mescolando, cancellando, introducendo diverse realtà fra Popoli e Istituzioni[/blockquote] il boom economico del secondo dopoguerra e le varie trasformazioni politiche, Facebook e le innovative tecnologie.

Continuando di seguito con l’analizzare le sensazioni provate dai ragazzi di oggi sempre meno inclini a lasciare il proprio “ovile” per la sempre crescente incertezza che questo futuro offre loro, per poi concludere con dati più scientifici quali il Pil, prodotto interno lordo e il Bil, benessere interno lordo.

Il secondo capitolo che si intitola “Adolescenti tra responsabilità e disagio. Una ricerca empirica”, di Roberto Trinchero, pone all’attenzione del lettore un tema molto importante e sentito ovvero la transizione dalla “società dei ragazzi” alla “società degli adulti”. Questo periodo costituisce per il ragazzo sì un momento emozionante ma anche colmo di paure e incertezze, [blockquote style=”1″]il momento in cui il ragazzo si trova a far convivere e a cambiare gradualmente valori, norme, modelli, abitudini, stili di vita tipici della società dei ragazzi con i corrispondenti della società degli adulti.[/blockquote]

Secondo Havighurst per affrontare questo periodo di “assestamento” vi sono dei “compiti di sviluppo” connessi alla fase adolescenziale, i quali si presentano in un preciso periodo della vita del soggetto e che assolti in modo adeguato possono condurre alle felicità. Contemporaneamente il ragazzo si trova sì a dover assolvere questi compiti ma anche a dover contrastare e superare livelli di problematicità del disagio in cui potrebbe trovarsi, e ve ne sono vari. Questo ha portato all’esigenza di condurre un’indagine empirica il cui obiettivo è stato quello [blockquote style=”1″]di descrivere le caratteristiche degli adolescenti che manifestano atteggiamenti di possibile disagio e rilevare relazioni significative tra le variabili suddette e tali atteggiamenti[/blockquote]

Le ipotesi che hanno guidato il lavoro sono le seguenti: gli indicatori di disagio possono essere diversi: per sesso, età, diversi contesti abitativi e familiari, ragazzi che frequentano tipi di scuola differenti e ragazzi che considerano importanti aspetti differenti. La tecnica di rilevazione dei dati utilizzata è una variante della tecnica delle storie. I risultati della ricerca hanno fatto emergere sette nodi problematici, che possono essere considerati come rispettivi diritti e doveri per gli adulti e per i ragazzi. Infine nel terzo ed ultimo capitolo intitolato “L’adolescenza vista giorno per giorno. I contributi delle scuole coinvolte nell’indagine” si dà spazio alle scuole che insieme ai ragazzi possono ora discutere delle problematiche e dei temi più importanti emersi dai risultati della ricerca.

Le citazioni per me più significative sono : [blockquote style=”1″]I ragazzi andrebbero maggiormente responsabilizzati e coinvolti nelle decisioni e nelle attività degli adulti, promuovendo e spronando una partecipazione a vari livelli: attività di volontariato, servizio sociale, cure dei soggetti deboli, anziani o meno fortunati, educazione di pari più giovani di loro, mentoring, ruoli attivi in iniziative culturali e sociali.[/blockquote] Pag.125;

[blockquote style=”1″]I ragazzi affermano spesso di sentire la scuola come un mondo un po’ a sé rispetto alla vita che al di fuori vivono, talvolta avvertendola come qualcosa di estraneo, imposto. Ricorre in molti di loro la sensazione che la scuola sia una struttura rigida, pensata per contenerli ma non capace di interessarli. [/blockquote]pag.176;

[blockquote style=”1″]Nelle nuove generazioni si assiste ad una curiosa contraddizione: da un lato c’è la forte tendenza a rimanere ancorate a situazioni del passato, per la sicurezza che possono offrire di fronte all’incertezza di un futuro “liquido”. Dall’altro la crisi economica, le innovazioni tecnologiche e l’intreccio di relazioni mondiali, dovute anche alla facilità dei viaggi aerei e al loro costo decisamente competitivo rispetto ad altri mezzi di trasporto, avviano grandi movimenti di masse umane. In Italia, molti giovani tendono a procrastinare il momento di distacco dalla famiglia e di assunzione delle responsabilità individuali, definiti talvolta “bamboccioni”, in realtà pagano l’incertezza di un futuro economicamente ed emotivamente assai poco strutturato, fonte d’inquietudine, senza concrete prospettive di lavoro, mentre l’idea di una famiglia basata sul matrimonio sfuma a vantaggio di convivenze più o meno stabili[/blockquote] pag.24/25.

Il target a cui si rivolge questo saggio è a mio parere tutto il personale scolastico e i genitori, i quali possono così affrontare le difficoltà, in modo empatico e consapevole, dando la giusta fiducia e il meritato appoggio a questi ragazzi, che spesso si trovano costretti ad indossare la maschera dei duri per non mostrare le tante debolezze che si trascinano dietro, non tanto per loro spavalderia bensì per un errato esempio che la nostra società propone ai loro occhi di giorno in giorno.

Gli aspetti emotivi della dislessia evolutiva in infanzia, adolescenza e età adulta

La sofferenza emotiva dei soggetti con dislessia è stata indagata sopratutto nell’età infantile e adolescenziale, dove si ha effettivamente una maggior conseguenza psicopatologica nella quotidianità del bambino o dell’adolescente.

Cristina Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: dislessia, discalculia, disortografia

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) comprendono una serie di disturbi relativi all’apprendimento scolastico di base che possono coinvolgere diverse abilità necessarie in fase evolutiva (DSM 5, ICD – 10):

  • Dislessia, disturbo della lettura;
  • Discalculia, disturbo del calcolo;
  • Disortografia, disturbo dell’espressione scritta;
  • Disturbo dell’Apprendimento Non Altrimenti Specificato (NAS).

Il deficit si deve presentare in maniera persistente e in assenza di deficit neurologici, sensoriali e intellettivi. Quindi le linee guida per la diagnosi prevedono la presenza di una discrepanza tra le prestazioni attese in base all’età del bambino e quelle che vengono invece ottenute a livello scolastico. Questa discrepanza può ovviamente ostacolare il percorso scolastico del bambino, soprattutto se non diagnosticata e seguita in maniera corretta: conseguenze comuni sono la scarsa motivazione allo studio, difficoltà di adattamento, ma soprattutto un forte senso di frustrazione (Capozzi et al., 2008).

La Dislessia Evolutiva

Nella ricerca si trovano maggiormente studi legati alla dislessia: infatti secondo l’OMS è tra i deficit più diffusi nell’infanzia, colpisce circa il 4% della popolazione con un range variabile tra il 2 e il 10%.

La dislessia evolutiva è caratterizzata da una difficoltà nella decodifica della lettura, quindi un deficit di lettura e riconoscimento delle parole, non spiegabili dall’età mentale, da problemi di natura neurologica e dall’istruzione ricevuta (Viola, 2012).

Essendo la dislessia un disturbo evolutivo si può notare una notevole difficoltà durante la scuola primaria, momento in cui spesso avviene la diagnosi e iniziano i percorsi di aiuto (Stella, 2001), grazie a corretti sostegni ricevuti si arriva ad un significativo miglioramento nel tempo, portando di conseguenza a diversi cambiamenti anche nell’aspetto psicopatologico del bambino con diagnosi di dislessia (Tressoldi et al., 2001)

Le conseguenze emotive della dislessia in infanzia e adolescenza

Per quanto riguarda le conseguenze emotive della dislessia, Ryan (2006) si focalizza sulla sensazione di frustrazione provata dai bambini dislessici, che sembrerebbe nascere nel momento in cui il bambino diventa consapevole delle differenza di risultati tra sé e i suoi pari nella capacità di lettura. In particolare la frustrazione si presenta di fronte ai vani tentativi del bambino di soddisfare le aspettative proprie e altrui, che li porta spesso a difficoltà nelle relazioni sociali (porta a farli sembrare goffi, a difficoltà di accettazione da parte dei pari, ecc).

La sofferenza emotiva dei soggetti con dislessia è stata indagata sopratutto nell’età infantile e adolescenziale, dove si ha effettivamente una maggior conseguenza psicopatologica nella quotidianità del bambino o dell’adolescente.

Sappiamo infatti che la sintomatologia ansioso-depressiva è la più frequente in età infantile nei soggetti dislessici (Laghi et al., 2010). L’ansia si manifesta di fronte all’anticipazione di un fallimento, strategia spesso usata nei bambini con dislessia, che porta di conseguenza a vivere le situazioni nuove con particolare tensione e forte ansia (Prior et al., 1999).

La costante frustrazione di fronte ai fallimenti porta inoltre ad un costante sofferenza che spesso il bambino non mostra con i chiari sintomi della depressione, ma può mostrarsi con gesti rabbiosi soprattutto verso i genitori oppure dal versante opposto il bambino può nascondere i sentimenti di tristezza e rabbia diventando più attivo e difficilmente gestibile (Ryan, 2006).

Durante l’adolescenza questa rabbia spesso rischia di sfociare nell’abbandono scolastico e in problematiche di carattere sociale: gli adolescenti con dislessia mostrano spesso una sintomatologia ansioso-depressiva, basso senso di autoefficacia, somatizzazioni, difficoltà nell’integrazione sociale/isolamento sociale (Gagliano et al., 2007). Nell’adolescente quindi la sofferenza che prova è legata molto di più all’immagine di sé come inferiore agli altri che è stata alimentata nell’infanzia vivendo il senso di frustrazione per la differenza di capacità con gli altri pari.

Le conseguenze emotive della dislessia nell’età adulta

Per quanto riguarda i dati sulle difficoltà emotive in soggetti adulti con dislessia abbiamo poco materiale visto le poche ricerche condotte in letteratura, soprattutto in Italia (Riddick et al., 1999; Carroll e Iles, 2006). Come abbiamo già accennato, sappiamo che con il passare del tempo la dislessia può arrivare a significativi miglioramenti e con questo ovviamente diminuisce anche la sintomatologia ansioso-depressiva ad essa legata nell’infanzia. Questo probabilmente avviene anche in relazione al cessare delle responsabilità scolastiche: infatti i livelli d’ansia aumentano solo nel momento in cui i soggetti sono sottoposti ad un test sulle loro abilità di lettura.

Il gruppo dell’Università di Padova (Cerea et al., 2015) ha voluto svolgere la ricerca che presenterò per poter ampliare le conoscenze per ciò che riguarda l’indagine degli aspetti psicopatologici nei giovani adulti con diagnosi di dislessia.

Uno degli obiettivi di questa ricerca è proprio quello di indagare ciò che sostenuto in letteratura (Carroll et al., 2006; Riddick et al., 1999) ovvero la presenza di una sintomatologia maggiore in soggetti con diagnosi di dislessia in un campione italiano di giovani adulti, confrontato con un campione di controllo.

Lo studio è stato fatto su un campione di 15 studenti universitari al primo anno di Università, con diagnosi di dislessia in età evolutiva, e un campione di controllo di 15 studenti universitari senza dislessia. I soggetti del gruppo clinico erano tutti seguiti da un tutor nel percorso di studi, il quale forniva sostegno nell’organizzazione dello studio e faceva da intermediario tra i ragazzi e i docenti.

Al campione è stata somministrata una batteria di test:

  • La Battery for the Assessment of Reading and Writing in Adulthood, per la valutazione della lettura e della scrittura in età adulta;
  • Il Cognitive Behavioural Assessment-Young (CBA-Y), che delinea un profilo psicologico della persona individuando sia le sue risorse psicologiche positive sia le aree problematiche.
  • La Child Behaviour Check List (CBCL), per individuare informazioni sull’adattamento, sulle competenze e sui problemi comportamentali ed emotivi.
  • Il Beck Depression Inventory – II (BDI – II), indaga gli stati affettivi, cognitivi e somatici della depressione.
  • La Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES), che indaga l’autostima globale.
  • La Connor-Davidson Resilience Scale (CD-RISC), per misurare le capacità di gestione allo stress.

Dai risultati le scale che riportano una differenza significativa tra il campione di soggetti con dislessia e quello di controllo sono quelle che riguardano le lamentele somatiche, i problemi sociali e i problemi di attenzione, mostrando il campione clinico dei risultati maggiori. Mentre gli altri test di carattere sintomatologico non mostrano risultati significativi.

A differenza da quello che si trova in letteratura i soggetti con dislessia non dimostrano significative differenze per quanto riguarda gli stati d’ansia, la depressione, l’autostima o la resilienza. La scala delle lamentele somatiche comprende però emicranie, mal di stomaco, tic nervosi, affaticamento, sintomi che potrebbero avere un fondamento ansioso ma che possono non essere riconosciuti come tali dai soggetti.

Invece la categoria dei problemi sociali riguarda le difficoltà di relazione con gli altri, che possono portare ad un maggior senso di solitudine, alla difficoltà ad aprirsi o alla presenza di sentimenti di gelosia, già emersi nella letteratura di riferimento.

Infine è molto importante la presenza di maggiori problemi di attenzione del gruppo clinico, come la difficoltà di concentrazione, l’impulsività, l’incapacità di stare seduti per lungo tempo, ecc. Questo conferma la presenza di deficit di attenzione nei soggetti con diagnosi di dislessia, anche se non in comobidità con una diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività.

Per quanto riguarda l’assenza di differenze significative nelle scale somatiche ci può essere stata l’influenza dei fattori protettivi del gruppo di soggetti dislessici: la presenza di una diagnosi precoce, di interventi scolastici per il recupero delle abilità nella scuola primaria o secondaria e infine la presenza di un tutor scolastico. Probabilmente questi fattori hanno fatto sì che i soggetti provassero comunque nella loro esperienza scolastica un sostegno che li ha portati a vivere meno il senso di frustrazione e di fallimento, sviluppando un immagine di sé competente, limitando così lo sviluppo di problematiche ansioso-depressive.

Questo ci porta a sottolineare come la presenza di fattori di protezione possano attenuare lo sviluppo di problematiche sintomatologiche gravi e persistenti in soggetti con diagnosi di dislessia. Molto importante è la diagnosi precoce del deficit, che necessita di una preparazione e di un attenzione particolare da parte degli insegnanti oltre che dei genitori, al fine di poter preparare un percorso di studi adeguato alle competenze del bambino e che possa promuoverne un’immagine di sé come competente.

Il tormento del cercatore di tracce – Tracce del tradimento nr. 37

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVII: Il tormento del cercatore di tracce

 

Nell’animo del cercatore a questo punto avviene qualcosa di cognitivamente determinante: il cercatore non cerca prove che il suo partner lo ami o gli sia fedele ma al contrario mette al centro l’ipotesi che il suo partner lo tradisca e vuole la certezza assoluta che ciò non accada e per non sbagliarsi andrà a prendere in considerazione tutte le prove che potrebbero confermare l’ipotesi tanto temuta del tradimento.

Abbiamo visto negli articoli precedenti quali diverse motivazioni possano spingere una persona a cercare le tracce del presunto tradimento del suo partner. Ma c’è un modo di cercare che è caratteristico dei cercatori di tradimenti e che si auto-mantiene nel tempo? La nostra risposta è affermativa e sosterremo che quando si intraprende quel modo di cercare si è perduta per sempre la pace e si entra in un tunnel da cui è difficilissimo uscire.
In primo luogo ciò che accomuna i cercatori è l’intolleranza dell’incertezza; essi ritengono che se qualcosa è incerto e poco chiaro certamente avverrà una catastrofe. Sapere dunque è un modo di prevenire il danno possibile che certamente si nasconde dietro l’indefinito e lo sconosciuto.

Naturalmente non è così: quante volte ad esempio la scoperta di un’innocua avventura senza futuro la trasforma in qualcosa di importante che prende consistenza e che magari può interrompere il rapporto tanto desiderato proprio e solo perché scoperta. Ma al cercatore non importa questo rischio: l’importante è conoscere, egli deve assolutamente essere certo, costi quel che costi. Non sono il tipo di persone che possono far finta di niente, voltarsi dall’altra parte aspettando che la tempesta passi, fare buon viso a cattivo gioco: non capiscono in alcun modo la psicologia dello struzzo. Essi sono i cavalieri della chiarezza, vogliono sapere esattamente come stanno le cose; questo è un valore in sè più ancora della stessa relazione: meglio sapere con certezza che si è traditi che non sapere se lo si è o no, anche se in questo secondo caso c’è la possibilità di non esserlo.

Nell’animo del cercatore a questo punto avviene qualcosa di cognitivamente determinante: il cercatore non cerca prove che il suo partner lo ami o gli sia fedele ma al contrario mette al centro l’ipotesi che il suo partner lo tradisca e vuole la certezza assoluta che ciò non accada e per non sbagliarsi andrà a prendere in considerazione tutte le prove che potrebbero confermare l’ipotesi tanto temuta del tradimento. E’ come se si dicesse “devo dimostrare con certezza che non mi tradisce”, da quel momento in poi vaglierà esclusivamente tutte le prove a favore del possibile tradimento ed escluderà o non terrà in gran conto quelle contrarie, per lui è fondamentale non sbagliarsi sul tradimento. Meglio un errore che lo porti a sovrastimare il tradimento piuttosto che un errore che glielo faccia trascurare. Diventa un feroce pubblico ministero senza mai dare la parola alla difesa; per lui è meglio un innocente condannato ingiustamente che un colpevole in libertà.

Questo stesso modo di ragionare che mette al centro una sola ipotesi, in genere quella temuta, e trascura le ipotesi alternative e si muove nel tentativo di escluderla con certezza, finendo invece per averla sempre presente senza riuscire a raggiungere mai quella certezza assoluta che si desidererebbe semplicemente perchè è impossibile, è presente nella maggior parte dei disturbi psichici. Si pensi all’ipocondriaco che vuole escludere con certezza di essere ammalato, all’ossessivo che desidera eliminare ogni ragionevole dubbio sulla sua responsabilità, all’ansioso che cerca garanzie assolute sul funzionamento del suo cuore e sull’impossibilità di avere un infarto, al fobico sociale che non vuole rischiare in alcun modo di fare una brutta figura.Tutti questi disturbi condividono lo stesso modo di ragionare: vogliono escludere con certezza assoluta un’ipotesi ritenuta terribile. Il cercatore di tracce fa in maniera esasperata, data la posta in palio, quello che facciamo tutti noi e cioè cercare le conferme alle nostre convinzioni piuttosto che le disconferme.

Sappiamo che gli esseri umani tendono ad essere dei confermazionisti piuttosto che degli scienziati popperiani dediti a falsificare le loro credenze. Normalmente si cercano le prove a favore del proprio modo di vedere le cose e si sottovalutano o si ignorano le prove contrarie. L’attenzione selettiva e la memoria selettiva, ad esempio, sono due meccanismi ben studiati che perseguono proprio questo scopo della stabilità del proprio modo di vedere le cose. Il confermazionismo comporta un evidente vantaggio evolutivo e consiste nell’aspettativa che il mondo sia sempre uguale a se stesso e che dunque quello che si è verificato una volta tenderà a verificarsi di nuovo. Le nostre esperienze ci portano ad avere dei pregiudizi (ovvero dei giudizi anticipati) che generano aspettative su come andranno le cose e per questo ci consentono di fare previsioni. Se non avessimo pregiudizi ogni mattina ci sveglieremmo in un mondo del tutto nuovo, sconosciuto e imprevedibile e non sapremmo come muoverci per perseguire i nostri scopi.

Siamo affezionati alle nostre convinzioni e poco disposti a lasciarle perdere perché sono la guida che abbiamo per camminare e fino a quando non si manifestano decisamente infondate e dannose tendiamo a conservarcele gelosamente. Naturalmente le credenze saranno tanto più difficili da cambiare quanto più sono fondanti per la nostra visione del mondo e in particolare di noi stessi: è evidente che è più facile cambiare idea sulla propria abilità di giocatore di bocce, se è un’attività saltuaria e poco importante, che non sulla propria identità sessuale e, allo stesso modo, sarà più facile cambiare idea sull’affidabilità del vicino di casa che su quella del proprio partner, motivo per cui è proprio l’interessato ad essere l’ultimo che si accorge del proprio stato di tradito.

Il vantaggio evolutivo in sintesi consiste nel fatto che animali non confermazionisti non potrebbero far tesoro dell’esperienza, ne tantomeno della trasmissione transgenerazionale delle informazioni (che sono appunto credenze su come funziona il mondo) e si troverebbero ad ogni istante a ripartire da capo ripetendo sempre gli stessi errori talvolta fatali. Molti cercatori come abbiamo visto non cercano le prove a favore e contro l’ipotesi del tradimento ma esclusivamente quelle a favore perché non vogliono correre il rischio di commettere un errore importante ma così facendo sono degli investigatori di parte che scartano, non vedono parti importanti della realtà e ne sopravvalutano altri. Il cercatore fa un esame dei fatti molto limitato e una ricerca incompleta di informazioni e dati trascurando le ipotesi alternative che li giustificherebbero; tiene conto solo dell’ipotesi focale e non prende in considerazione altre spiegazioni.

Così facendo ricerca solo evidenze compatibili con l’ipotesi che sta tenendo sotto controllo. Inoltre ha un’eccessiva fiducia nella veridicità delle proprie conclusioni, anche se queste derivano da un esame limitato dei fatti. Quali sono i meccanismi che usa in questa ricerca di conferme nella speranza che, non trovandone alcuna (cosa impossibile) potrà escludere con certezza l’ipotesi tanto temuta? In primo luogo occorre soffermarci sulla attenzione e disattenzione selettiva. Quando analizziamo con i nostri sensi l’ambiente tendiamo a prestare maggiore attenzione a quei particolari che confermano le nostre ipotesi e a trascurare quelli che invece le mettono in discussione.

Se quando il partner torna a casa dopo una giornata di lavoro e la domanda che ci poniamo è quali siano gli indizi che è stato con la rivale noteremo e daremo significato a particolari che ci confermano questo nostro sospetto, come il fatto che sia imbronciato o sia un po’ in ritardo mentre non saranno prese in considerazione tutte le prove a favore della fedeltà come le telefonate interessate durante la giornata, il bacio affettuoso con cui ci saluta.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Assumere antidepressivi incrementa il rischio di episodi maniacali e disturbi bipolari

L’incidenza di episodi maniacali ed ipomaniacali nei pazienti depressi sembra spesso doversi imputare al trattamento farmacologico impiegato. Tuttavia, non è stato chiarito il meccanismo attraverso il quale tali farmaci possano predisporre i pazienti depressi a sviluppare questi episodi.

Nel dettaglio, ad oggi sappiamo che gli episodi maniacali acuti si associano all’uso di antidepressivi triciclici (TCA) e a doppia azione (es: SNRI), come ad esempio la venlafaxina. Tra i fattori di rischio più importanti per l’insorgenza del disturbo bipolare vi è una precedente storia familiare del disturbo, un episodio depressivo con sintomi psicotici, la diagnosi di depressione in giovane età ed infine la depressione resistente ai trattamenti.

Nel tentativo di stabilire l’incidenza di episodi maniacali, ipomanicali e del disturbo bipolare tra i pazienti depressi, i ricercatori guidati dal dr. Patel hanno esaminato le cartelle cliniche di 21012 soggetti con un’età compresa tra 16 e 65 anni, che stavano ricevendo un trattamento farmacologico per la depressione unipolare (criteri ICD-10) la cui storia psichiatrica era esente da episodi maniacali o disturbi bipolari.

Gli antidepressivi più comunemente prescritti erano SSRI (35,5%), mirtazapina (9,4%), venlafaxina (5,6%) e i triciclici (4,7%). In seguito, il team di ricerca ha valutato l’incidenza di successive diagnosi di disturbo bipolare ed episodi maniacali tra i pazienti considerati.

L’analisi ha rivelato che il rischio complessivo (annuo) di una nuova diagnosi di disturbo bipolare e di episodi maniacali nel periodo considerato (2006-2013) era del 1,1%, ovvero circa 10,9 pazienti su 1000. Inoltre, il picco di tali diagnosi avveniva tra i 26 e i 35 anni, range nel quale il rischio di nuove diagnosi arrivava al 1,2%.

Dalle analisi statistiche è stato possibile osservare come un qualsiasi precedente trattamento farmacologico antidepressivo era associato ad un aumentato rischio di successive diagnosi di disturbo bipolare e/o episodi maniacali; tale rischio oscillava tra il 1,3% e il 1,9%. Ulteriori analisi hanno rivelato come il rischio maggiore fosse associato all’impiego di SSRI e venlafaxina. Questi farmaci, infatti, risultavano associati ad un aumento del rischio di disturbi bipolari e/o episodi maniacali del 34-35%.

Tra i limiti della ricerca sicuramente vi è l’impossibilità di inferire alcun rapporto di causa-effetto tra le variabili, trattandosi appunto di uno studio osservazionale. Inoltre, i ricercatori hanno voluto sottolineare la possibilità che l’aumento del rischio delle patologie soprammenzionate potesse dipendere più da potenziali disturbi bipolari latenti piuttosto che dal trattamento farmacologico. Infine, non è stato possibile raccogliere adeguatamente tutte le informazioni riguardanti i fattori di rischio del disturbo bipolare e dell’episodio maniacale. Tuttavia, i risultati di questo studio ci invitano a riflettere sull’importanza dell’influenza dei farmaci antidepressivi (ma non solo) sulle patologie in comorbilità nei pazienti depressi.

La formazione sui trattamenti evidence-based per i disturbi dell’alimentazione

 

Una innovativa modalità di formazione su trattamenti evidence-based per i DCA è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training, in lingua inglese e gratuito, viene effettuato on line e illustra la CBT-E in dettaglio.

Un trattamento è definito evidence-based se, dopo ricerche di alta qualità su campioni di popolazione e attente valutazioni scientifiche, dimostra di avere i migliori risultati disponibili della ricerca, tanto da rappresentare una guida nel processo decisionale clinico, nelle fasi diagnostiche o di gestione del paziente.

Per quanto riguarda i disturbi dell’alimentazione, negli ultimi anni sono stati sviluppati e valutati alcuni trattamenti la cui efficacia è stata confermata da rigorosi studi controllati e randomizzati. I trattamenti più efficaci sono di natura psicologica e sono stati progettati principalmente per essere somministrati a livello ambulatoriale.

Negli adulti affetti da bulimia nervosa, la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) ha dimostrato in due studi controllati, recentemente pubblicati, di essere più efficace della terapia interpersonale (IPT) e della psicoterapia psicoanalitica.

Il disturbo da binge-eating sembra rispondere bene a una varietà di interventi psicologici, tra cui un adattamento della CBT per la bulimia nervosa, la IPT e l’auto-aiuto guidato.

Pochi studi sono disponibili per il trattamento degli adulti con anoressia nervosa e i trattamenti che hanno un certo grado di supporto empirico sono la CBT-E, la psicoterapia psicodinamica focale, il Maudsley Model of Treatment for Adults with Anorexia Nervosa (MANTRA) e lo Specialist Supportive Clinical Management (SSCM), una combinazione di intervento educativo, gestione clinica generale e psicoterapia supportiva.

Nei pazienti più giovani la ricerca si è focalizzata soprattutto sull’anoressia nervosa. Il solo intervento disponibile con moderata evidenza di efficacia è il trattamento basato sulla famiglia (FBT), conosciuto anche come il Metodo Maudsley, che determina una remissione piena attorno al 50% dei casi. La CBT-E, ha recentemente ottenuto risultati promettenti nel trattamento degli adolescenti affetti da anoressia nervosa e appare un candidato alternativo alla FBT, come recentemente raccomandato dal Chief Medical Officer Inglese. Infine la CBT-E ha dimostrato buoni risultati anche nel trattamento degli adolescenti con disturbi dell’alimentazione non sottopeso, come la bulimia nervosa o il disturbo da binge-eating, con un tasso di risposta oltre il 67%.

Sebbene siano fruibili vari trattamenti psicologici evidence-based per i disturbi dell’alimentazione, i corsi master e di perfezionamento, come pure le scuole di psicoterapia, raramente forniscono una formazione specialistica su queste forme di terapia. Come conseguenze negative, in Italia i clinici trovano poche opportunità per apprendere questi trattamenti psicologici e la maggior parte dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione riceve interventi non basati sull’evidenza.

Per far fronte a questo problema è stato progettato e implementato in Italia un master (il First Certificate of Professional Training in Eating Disorders and Obesity) che fornisce una formazione specifica e intensiva sulla CBT-E, e sono stati recentemente organizzati seminari di più giorni sulla CBT-E e sulla FBT. Purtroppo, sebbene questi training siano molto apprezzati e frequentati, non sono sufficienti. Da una parte, il master non risolve completamente il problema della disseminazione globale di questi trattamenti, perché può essere offerto ogni anno solo a un numero limitato di terapeuti, dall’altra i seminari di uno o più giorni possono solo introdurre il trattamento psicologico evidence-based, ma non sono in grado di sviluppare nei partecipanti le abilità necessarie per applicarlo in modo efficace.

Una potenziale strategia per superare l’ostacolo della disseminazione su scala globale è rappresentata dal cosiddetto web-centred training, che permette di formare un grande numero di terapeuti simultaneamente. Questa innovativa modalità di formazione è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training in lingua inglese è gratuito e viene effettuato tramite un sito web che descrive e illustra la CBT-E in dettaglio e incorpora alcune attività didattiche che aiutano gli allievi ad apprendere le procedure principali del trattamento e le abilità necessarie per somministrarlo.

Il centro CREDO ha anche sviluppato una misura standardizzata per valutare la competenza del terapeuta nell’uso della CBT-E. Il vantaggio principale del web-centred training consiste nella sua scalabilità, ovvero nella possibilità di formare un numero indefinito di terapeuti in tutto il mondo a basso costo, fornendo le conoscenze e competenze necessarie per implementare adeguatamente il trattamento. Lo svantaggio, è la mancanza del contatto diretto tra docente e allievo che può limitare lo sviluppo dell’entusiasmo e della curiosità nei discenti e far dipendere il processo di apprendimento interamente dal livello di motivazione del singolo allievo.

Negli ultimi anni molti sono stati i passi avanti nella disseminazione dei trattamenti basati sull’evidenza scientifica, ma tanti ne devono essere ancora fatti. Dare ad ogni paziente la possibilità di ricevere il miglior trattamento possibile rimane, ad oggi, una delle più grandi sfide che i ricercatori clinici si trovano ad affrontare.

Oltre la cultura degli psicofarmaci in infanzia e adolescenza: il Ministro della Salute apre un tavolo tecnico sul tema degli antidepressivi a bambini e adolescenti

Il tema degli psicofarmaci per i bambini non può essere trattato al di fuori di un approccio globale di psicologia di comunità orientato a valutare quali sono realmente i bisogni del bambino nel suo percorso di crescita fisica e di sviluppo psicologico.

Qual è la posizione degli psicologi sul tema degli psicofarmaci antidepressivi per bambini e adolescenti? Quali sono gli strumenti che mettono in campo gli psicologi per sostenere il bambino e la sua famiglia di fronte a situazioni di disagio psicologico?

I risultati delle prassi sulla somministrazione degli psicofarmaci ai bambini e adolescenti è ritornato alla luce in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ONU. I problemi sono numerosi e naturalmente coinvolgono aspetti economici, sociali e politici.

L’associazione Giù le mani dai Bambini che ha come mission anche la farmacovigilanza pediatrica ha presentato un comunicato stampa dove acclama la decisione del Ministero della Salute di aprire un tavolo tecnico sugli antidepressivi per bambini e adolescenti e ripercorre i lavori del Parlamento UE in occasione della giornata mondiale dell’Infanzia e dell’adolescenza. Si legge:

Al Parlamento Ue sono state chieste misure urgenti approvate per vietare il commercio del farmaco – ipotesi comunque remota – sia soprattutto per attivare una procedura di deferimento all’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) per una nuova valutazione dei prodotti medicinali a base di paroxetina nonché per aprire un’indagine finalizzata ad accertare se la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK) – la quale commercializza tuttora l’antidepressivo, e che, pur interpellata su quest’ultimo studio BMJ, si è trincerata dietro un ostinato silenzio – non abbia violato le norme antitrust dell’UE, garantendo un vantaggio sleale al proprio prodotto, che, secondo il British Medical Journal, e inefficace e pericoloso.

E’ proprio su questo tema che la comunità degli psicologi dovrebbe portare la propria riflessione ed esperienza per affermare l’importanza degli strumenti preventivi del disagio psicologico nell’età dello sviluppo come il sostegno psicologico individuale, famigliare e la programmazione di interventi psico-sociali di comunità.

Il tema degli psicofarmaci per i bambini non può essere trattato al di fuori di un approccio globale di psicologia di comunità orientato a valutare quali sono realmente i bisogni del bambino nel suo percorso di crescita fisica e di sviluppo psicologico.

Nel dibattito di questi giorni non compare questa riflessione che in realtà è la premessa epistemologica più importante perché permette di avvicinarsi al tema degli strumenti che favoriscono il benessere psicosociale del bambino e dell’adolescente. E’ importante, quindi, a fianco della presa di posizione contro gli psicofarmaci nell’età evolutiva iniziare a ribadire l’importanza di tenere in considerazione i bisogni evolutivi del bambino e dell’adolescente e il rispetto del percorso di sviluppo psicologico (relazionale, sociale, emotivo e cognitivo).

E’ evidente, infatti, per chi lavora sul campo che in molti casi si confondono comportamenti fisiologici dell’infanzia con modalità sintomatiche semplicemente perché la società degli adulti si è dimenticata o non conosce o non rispetta le espressioni comportamentali proprie del bambino.

A questo proposito si ricorda che nel mondo della scuola c’è stato bisogno di una Circolare Ministeriale (C.M. 8 del 6 marzo 2013) per riportare l’attenzione del mondo degli adulti sui bisogni del bambino e sull’importanza di osservare e capire la realtà psicologica del bambino e organizzare un progetto educativo individualizzato che tenesse in considerazione le esigenze specifiche.

I bisogni evolutivi speciali non sono altro che i bisogni presentati dai bambini che vivono situazioni sociali, psicologiche e famigliari precise. Abbiamo avuto bisogno di una circolare ministeriale per capire che i bambini sono tutti diversi, che possono avere problemi e soffrire come gli adulti e che tutto questo ha un impatto sulle possibilità di apprendere in modo sereno!

Oggi il mondo degli adulti, di fronte a comportamenti evolutivi del bambino come l’esigenza di muoversi, di correre, di giocare, è in difficoltà perché non è in grado di gestire l’esuberanza o l’apatia o l’inattività o di organizzare ambienti funzionali alla crescita e sviluppo del bambino. E’ in atto una tendenza a utilizzare categorie diagnostiche di fronte alla difficoltà degli adulti di gestire comportamenti evolutivi fisiologici o espressioni di disagio sociale, famigliare e culturale del bambino. L’aumento delle diagnosi di Adhd, infatti, è espressione di questo fenomeno. Lo stesso vale per la depressione infantile o la fobia scolastica che spesso sono il risultato di complessità sociali e famigliari, ma anche di richieste cognitive superiori alle possibilità del bambino.

Sulla base di queste riflessioni si ritiene importante proprio in relazione al dibattito sulla pericolosità degli psicofarmaci nell’infanzia iniziare a diffondere una cultura che parte dai bisogni evolutivi dei bambini per arrivare ad organizzare spazi educativi e sociali che rispettino l’infanzia e promuovano il diritto alla salute e al benessere psicosociale del bambino.

La comunità degli psicologi così come di altri professionisti socio-educativi-sanitari ha maturato un’esperienza indiscutibile rispetto al sostegno e alla cura delle problematiche psicologiche dell’infanzia e dell’adolescenza che dovrebbe essere considerata la strada principale in queste situazioni. E’ importante che gli psicologi ribadiscano che il sostegno psicologico, la psicoterapia, le attività psico-espressive sono gli strumenti elettivi nella gestione del disagio psicologico dell’infanzia e adolescenza, a fianco dei percorsi di psicologia di comunità finalizzati a creare spazi socio-educativi dove il bambino possa fare esperienza del proprio mondo sociale, affettivo e cognitivo.

Purtroppo l’aumento vertiginoso della prescrizione degli psicofarmaci ai bambini è il risultato di una cultura che non rispetta i comportamenti tipici dell’infanzia, i bisogni evolutivi e i tempi di crescita e maturazione psicologica del bambino. La nostra società obbliga il bambino a diventare adulto il prima possibile e questo sta avvenendo anche nella cura farmacologica dove non sono tenuti presenti il significato di alcuni comportamenti di disagio psicologico del bambino.

Ancora una volta ci si concentra sul sintomo senza chiedersi il perché il bambino presenta quell’insieme di manifestazioni e si utilizza un farmaco per contenere, ridurre il problema comportamentale. Per questo è importante nella giornata dell’infanzia e dell’adolescenza ricordarsi del bambino che è in noi per progettare percorsi di vita sociale (famiglia, scuola e ambiente sociale) e di psicologia di comunità che tengano presente i reali bisogni evolutivi dei bambini, i diritti dei bambini, il rispetto dei tempi di crescita e maturazione psicologica e la tutela della salute del bambino e dell’adolescente.

 

Natura e cultura nel comportamento umano: la genetica del comportamento in pillole

La genetica è una delle più grandi conquiste del ventesimo secolo, ha la facoltà di mettere in relazione le scienze biologiche con quelle comportamentali e fornisce alla psicologia, la scienza del comportamento, un posto tra le scienze biologiche.

Valeria Fiocco, Rosanna Narisi, Valentina Pedrazzetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

La genetica è una delle più grandi conquiste del ventesimo secolo, a cominciare dalla scoperta delle leggi dell’ereditarietà di Mendel, fino all’ottenimento della prima sequenza di DNA dell’intero genoma umano. Questa disciplina ha la facoltà di mettere in relazione le scienze biologiche con quelle comportamentali e fornisce alla psicologia, la scienza del comportamento, un posto tra le scienze biologiche (Plomin, 2001). La genetica include diverse strategie di ricerca, una delle quali è la genetica quantitativa, dedicata all’analisi dell’influenza dei geni e dell’ambiente e basata principalmente sugli studi sui gemelli.

Origini e sviluppi

Da tempo i gemelli attirano l’attenzione della scienza e da circa ottant’anni sono oggetto di ricerche sistematiche. Gli studi sulle coppie gemellari sono oggi universalmente considerati il metodo più potente per stabilire l’importanza dell’impatto dei geni e dell’ambiente nel determinare malattie e tratti di comportamento.

Tuttavia, non hanno sempre goduto dell’approvazione di cui oggi dispongono: nel tempo, infatti, si sono avvicendati periodi di rapido progresso e momenti di disinteresse e rifiuto per la nascente disciplina (Parisi, 2004).

Le radici di questo campo di ricerca si collocano nelle teorizzazioni di Gregor Mendel. Sulla base di molti esperimenti, Mendel concluse che in ogni individuo ci sono due elementi di ereditarietà per ciascun carattere che possono agire in maniera dominante o recessiva. Essi segregano (quindi si dividono) durante la riproduzione e la prole riceve perciò solo uno dei due elementi da ciascun genitore.

Il vero e proprio studio scientifico dei gemelli si fa unanimemente risalire a Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, che nel 1875 propose di osservare i gemelli per capire in che misura i fattori ereditari e quelli ambientali potessero influire sullo sviluppo della persona.

Il suo approccio scientifico, detto anche metodo classico dei gemelli, si basava sul presupposto che i gemelli monozigoti avessero identico patrimonio genetico e che i dizigoti avessero la stessa relazione genetica che si riscontra nei fratelli comuni.

Secondo Galton quindi l’osservazione delle differenze tra coppie di gemelli identici e fraterni avrebbe permesso di stimare il peso dell’ereditarietà e dell’ambiente. Premesso infatti un identico ambiente educativo per le rispettive coppie, se i monozigoti avessero presentato caratteristiche simili e i dizigoti caratteristiche contrastanti, sarebbe stato facile dimostrare che, nello sviluppo della personalità, ciò che conta veramente è il fattore ereditario. Galton viene ricordato anche come il fondatore dell’eugenetica, cioè lo studio dei mezzi atti a proteggere, accrescere e perfezionare gli esemplari più robusti e “meglio dotati” delle razze umane

Le tesi scientifiche non sono mai slegate dal contesto ideologico, filosofico e storico nel quale vengono prodotte: le idee di Galton servirono ai conservatori per giustificare le disparità sociali della società inglese del XIX secolo, che, nella loro concezione, erano dovute all’ereditarietà dell’intelligenza e non a disparità culturali ed economiche.

L’analisi sistematica delle somiglianze fra gemelli monozigoti e dizigoti fu introdotta da Siemens (1924) che formulò la regola secondo la quale i gemelli identici presentano una concordanza maggiore rispetto ai gemelli fraterni se il tratto preso in esame è ereditabile.,

Più tardi, durante il nazismo, le tesi dell’eugenetica trovarono nuova linfa grazie al conte Otmar von Verscheuer e al suo allievo Josef Mengele, che furono attratti dall’idea di creare una razza superiore con l’ausilio della manipolazione genetica. In particolare, Mengele, cercò di dimostrare le proprie tesi razziste attraverso orribili esperimenti condotti sui gemelli nel lager di Auschwitz.

Per questo motivo il dopoguerra concise con un periodo in cui le teorie eugenetiche e gli studi sui gemelli vennero completamente screditati.

Al declino degli studi sull’ereditarietà contribuirono anche alcune teorie psicologiche, in particolare quelle del comportamentismo, secondo le quali lo sviluppo dell’individuo è fortemente influenzato dall’ambiente in cui vive e dall’educazione che gli è impartita. Tali teorie, enunciate in alcune lezioni tenute da John B. Watson alla Columbia University nel 1912, costituirono la premessa per le grandi riforme sociali avvenute negli anni Sessanta e per la successiva affermazione del mito dell’istruzione di massa.

Oggi, il pendolo ideologico è cambiato ancora: gli incredibili progressi della genetica hanno permesso di declinare gli astratti concetti dell’ereditarietà in reali frammenti di DNA.

Gli attuali studi sui gemelli dimostrano che la maggior parte delle caratteristiche umane sono almeno parzialmente influenzate dai geni. Tuttavia, la vecchia dicotomia tra ereditarietà e ambiente non è più molto utile. Molte attività e funzioni dei geni sono aperte a influenze di tipo ambientale: i geni stessi possono essere attivati o spenti da segnali che provengono dall’esterno.

E’ anche possibile che i geni possano influenzare l’ambiente: alcune persone hanno una preferenza innata per lo sport, altre hanno il dono della scrittura. Le persone potrebbero perciò essere “destinate” dai loro geni a frequentare un certo tipo di amicizie e di ambienti culturali? Se ciò fosse vero, i geni di un individuo potrebbero certamente plasmare l’ambiente in cui agiscono almeno quanto l’ambiente plasma le attività dei geni.

Oggi gli studi sui gemelli, fondamentali per rispondere a tali quesiti, sono tornati in auge e molti gemelli in tutto il mondo partecipano alle nuove ricerche.

Lo studio della genetica del comportamento umano

Le influenze genetiche

Quelli che Mendel definiva genericamente elementi sono oggi noti come geni. Essi costituiscono l’unità base dell’ereditarietà e si presentano in più forme alternative dette alleli. La combinazione di tutti gli alleli di un individuo costituisce il suo genotipo, mentre l’insieme dei caratteri osservabili si definisce fenotipo.

Un carattere si dice monofattoriale quando è influenzato da un singolo gene che agisce in maniera dominante o recessiva (eredità mendeliana). Un allele si definisce dominante se produce un particolare fenotipo quando è presente allo stato eterozigote (presenza di differenti alleli per un determinato locus sui due membri di una coppia di cromosomi) e recessivo se produce un particolare fenotipo solo quando è presente allo stato omozigote (presenza dello stesso allele in un dato locus su entrambi i membri di una coppia di cromosomi).

Se un carattere è controllato da più geni lo si definisce, invece, poligenico. In generale, ciascuno dei geni che lo condizionano è ereditato in accordo con le leggi di Mendel. Tuttavia, non tutti gli alleli si comportano in modo completamente dominante o recessivo: molti alleli sono addittivi, nel senso che ciascuno di essi contribuisce in parte al fenotipo.

La maggior parte delle caratteristiche fenotipiche e comportamentali mostrano un’eziologia poligenica: esse sono determinate dall’azione congiunta di diversi geni, ciascuno portatore di un piccolo contributo. Il meccanismo della loro eredità è quindi più complesso e non è facile individuare quali e quanti geni cooperano nella specificazione di una data caratteristica (Boncinelli, 1998).

Le influenze ambientali

Nessun carattere è determinato esclusivamente dal patrimonio genetico, nemmeno quelli la cui trasmissione è legata ad un singolo allele dominante. Nel campo della genetica quantitativa, la parola ambiente include tutte le influenze che non siano dovute a fattori genetici. Questa accezione è più ampia di quella comunemente usata in psicologia, infatti oltre a quello che è comunemente inteso, come l’influenza dei genitori, l’ambiente comprende gli eventi prenatali, gli eventi biologici non genetici che si verificano dopo la nascita (malattie, alimentazione) e le modificazioni del DNA non ereditate.

Per i tratti complessi l’influenza ambientale è generalmente importante quanto quella genetica.
In generale, il modello eziologico più̀ accreditato per tratti di natura complessa come quelli psicologici e comportamentali è quello in cui geni diversi, ciascuno con un piccolo effetto, interagiscono tra loro e con fattori ambientali nel determinare una condizione di maggior rischio di sviluppare un certo comportamento. Tale modello è detto multifattoriale.

Genetica quantitativa

La genetica del comportamento ha applicazioni nell’ambito sia della psicologia che della psicopatologia; essa si occupa dello studio delle differenze tra individui (siano esse in tratti comportamentali – come l’intelligenza o la personalità – o in condizioni di patologia) cioè di identificare i fattori (genetici e ambientali) che rendono le persone diverse le une dalle altre.

Visto che la genetica del comportamento si occupa di differenze tra individui, la sua statistica di riferimento è la varianza, che dà informazioni in merito alla dispersione attorno ad un valore medio.

Una volta misurata la varianza per un particolare tratto di interesse, l’analisi genetica quantitativa ha lo scopo di scinderla, cioè dividere la varianza totale in parti attribuibili a componenti genetiche e componenti ambientali.

Fondi di varianza: contributo genetico

La prima fonte di variazione tra individui è data dagli effetti di tipo genetico. Il contributo genetico totale ad un fenotipo è dato dalla somma di effetti genetici additivi e non additivi. La genetica quantitativa considera primariamente gli effetti genetici di tipo additivo (A). L’ereditabilità di un carattere (considerata in senso stretto) si riferisce alla porzione della varianza fenotipica spiegata dagli effetti genetici additivi.

Se un genitore possiede un determinato allele, ciascun figlio ha una probabilità del 50% di riceverlo. Se ciò avviene, avrà sul fenotipo del figlio un effetto identico a quello che ha avuto sul fenotipo del genitore. Ciò significa che l’allele ereditato causa un aumento della somiglianza nel fenotipo fra genitore e figlio, indipendentemente dagli altri alleli in quel locus o in altri loci. L’ereditabiltà in senso stretto fornisce un’indicazione di quanto un carattere sia trasmissibile, ovvero il grado di similarità che ci si aspetta di osservare fra genitori e figli.

L’ereditabilità in senso ampio include invece anche effetti genetici non additivi: la dominanza e l’epistasi. In entrambi i casi gli effetti degli alleli non si sommano in maniera indipendente, ma interagiscono fra loro intraloco (dominanza) interloco (epistasi). In presenza di dominanza, l’effetto a livello fenotipico di un allele è condizionato dall’interazione con l’allele presente nello stesso locus. Poiché i figli ricevono solo un allele da ciascun genitore e non una combinazione di due alleli, hanno solo il 25%, e non più il 50%, di probabilità di ricevere la medesima coppia dominante e manifestare fenotipicamente il carattere. L’epistasi è invece un’interazione non additiva tra geni in loci differenti.

Fonti di variazione: contributo ambientale

L’altra fonte di variazione tra individui è data da fattori di tipo ambientale. Come già detto, la parola ambiente assume un significato molto ampio, tale da essa includere tutti i tipi di influenza eccetto l’ereditarietà. Sono considerate influenze ambientali anche eventi antecedenti alla nascita, eventi biologici come la nutrizione, le malattie e le modificazioni del DNA non ereditate.

Paradossalmente è proprio la ricerca genetica che ha fornito le maggiori prove riguardo l’importanza dell’ambiente nell’influenzare il comportamento umano: i fattori genetici sono così importanti che talvolta contribuiscono a spiegare fino al 50% della varianza, ma tutto quello che rimane è di appannaggio o dell’ambiente, che raramente scende sotto il 50%.

Possiamo distinguere due tipologie di fattori ambientali: quelli comuni (C ) e quelli unici (E). I fattori ambientali comuni includono quei fattori che sono condivisi all’interno della famiglia, come la classe sociale, il divorzio dei genitori, la morte di un familiare, le componenti omogenee del trattamento parentale (Battaglia, 2002), e contribuiscono (insieme ai geni) alle somiglianze tra soggetti imparentati. L’ambiente familiare condiviso sembra giocare, in molti casi, un ruolo trascurabile nello sviluppo della personalità e per alcuni aspetti psicopatologici (Plomin et al., 2001).

I fattori ambientali unici, al contrario, fanno riferimento alle esperienze non condivise all’interno dei soggetti della stessa famiglia e sono responsabili (oltre ai geni) delle differenze tra individui imparentati. Esempi di eventi ambientali unici sono le amicizie, il contesto lavorativo, le componenti non omogenee del trattamento parentale e gli eventi di vita che colpiscono, individualmente, ciascun familiare.

Studi sulle adozioni e studi sui gemelli

Benché molti comportamenti siano ricorrenti nelle famiglie, questa osservazione non è sufficiente sostenere che i fattori genetici abbiano un ruolo significativo. Tra familiari, infatti, le somiglianze possono essere dovuti sia alla condivisione di geni sia a quella dell’ambiente. Gli studi sugli adottivi e gli studi sui gemelli si pongono dunque come strumenti essenziali per riuscire a scindere l’influenza dei geni da quella dell’ambiente su un particolare fenotipo.

Gli studi sulle adozioni creano coppie di soggetti geneticamente imparentati che non condividono lo stesso ambiente familiare (genitori biologici e figli dati in adozione) e altre che condividono l’ambiente familiare ma che non sono geneticamente imparentati (genitori adottivi e figli adottati). Se un figlio risulterà più simile per un determinato carattere al genitore biologico rispetto che al genitore adottivo, allora per quel carattere si suppone siano importanti i geni; al contrario, se il figlio risulterà più simile per quel carattere al genitore adottivo, si supporrà che per quel carattere sarà più importante l’ambiente.

L’altro principale metodo utilizzato per separare le fonti di somiglianza tra parenti di origine genetica da quelle ambientali coinvolge lo studio dei gemelli.

I gemelli identici o monozigoti (MZ) sono geneticamente identici, condividono cioè il 100% dei geni. Questi gemelli sono solitamente confrontati con i gemelli fraterni o dizigoti (DZ) che condividono il 50% del patrimonio genetico come i fratelli normali. Se i fattori genetici sono importanti per un determinato carattere, i gemelli monozigoti saranno più simili dei gemelli fraterni. La contrario, se I gemelli monozigoti sono sono più simili per quel carattere dei gemelli dizigoti, sarà l’influenza dell’ambiente ad essere più significativa.

In Italia circa una gravidanza su novantaquattro è gemellare e solo un terzo è di tipo monozigote (dati ISTAT 1991-1996).

Un metodo per stabilire se i gemelli sono monozigoti o dizigoti è quello dei marcatori del DNA: se una coppia di gemelli differisce anche solo per uno dei marcatori del DNA, questi gemelli devono essere considerati fratelli in quanto i monozigoti sono identici geneticamente. Può anche essere usata la somiglianza fisica, infatti tratti come il colore e il tipo di capelli sono altamente ereditabili e sono influenzati da molti geni. Questo metodo ha un’accuratezza di circa il 90%. È possibile attribuire la maggiore di somiglianza tra i monozigoti rispetto ai dizigoti a fattori genetici solo se si assume che i gemelli identici condividano le esperienze ambientali comuni nella stessa misura dei gemelli fraterni ).

Secondo l’EEA (Equal Environment Assumption, EEA, un assunzione fondamentale all’interno del metodo gemellare, i gemelli, indipendentemente dalla zigosità, sono ugualmente correlati per il loro grado di esposizione agli eventi ambientali di rilievo per il tratto osservato (Kendler, 1993). Se questa ipotesi fosse violata, ossia se i gemelli identici condividessero un ambiente molto più simile dei gemelli fraterni, l’influenza genetica verrebbe sovrastimata.

Un’altra assunzione che sta alla base degli studi di genetica del comportamento riguarda l’accoppiamento casuale. Se si verifica un accoppiamento assortativo (non casuale), i loci per un determinato carattere saranno correlati fra i coniugi. Questa correlazione determinerà la nascita di gemelli dizigoti che condividono più di metà della propria variabilità genetica con una inevitabile alterazione delle stime (Purcell, 2001): in particolare l’ereditabilità verrà sottostimata.

Un altro aspetto fondamentale dello studio sui gemelli è essere sicuri che rappresentino la popolazione generale: i gemelli, in realtà, presentano alcune peculiarità specifiche ma, sebbene nascano spesso prematuri, condividano lo stesso utero durante la gravidanza (Philips, 1993) e siano più piccoli dei neonati singoli, non sembrano essere diversi dagli altri soggetti per quanto riguarda la personalità e la psicopatologia (Christensen et al., 1995).

Tecniche di model fitting

Mentre in passato gli studi gemellari erano fondati sulla semplice osservazione della discordanza/concordanza fra gemelli, oggi esistono strumenti computazionali e specifici software progettati ad hoc.

Esse permettono di quantificare in modo preciso e automatizzato le stime delle componenti di varianza e di confrontare una quantità enorme di modelli differenti nei quali i vari determinanti (A, C, E) hanno pesi diversi, per arrivare a quello in grado di spiegare in modo più accurato l’eziologia di un determinato carattere.

Modelli Gemellari: analisi univariate e multivariate

Nell’ambito della ricerca gemellari, possono essere performati diversi modelli che permettono di rispondere a quesiti differenti.

Il modello gemellare univariato permette di quantificare il contributo di geni e ambiente alla varianza di un particolare carattere, rispondendo alla domanda: Quanto le differenze tra individui per un determinato fenotipo in esame sono dovuti ai geni (ereditabilità), quanto ad esperienze di ambiente condiviso e quanto ad esperienze di ambiente unico?

I modelli gemellari permettono anche di studiare più caratteri contemporaneamente. Una volta rilevato che più caratteri covariano in un determinato individuo (ossia si presentano insieme in una percentuale superiore a quella prevista in base al caso), ed escluso che tra di loro esista un rapporto di causalità, è probabile che vi sia una condivisione di fattori eziologici latenti. Gli studi sui gemelli, definiti in questo caso bivariati (due fenotipi) o multivariati (più di due fenotipi) permettono di chiarire e quantificare le cause di questa co-occorrenza (Neale et al., 2003). La domanda a cui permettono di rispondere è dunque la seguente: Per quale motivo diversi caratteri co-occorrono nello stesso individuo? Perchè sono influenzati dagli stessi geni (pleiotropismo)? Oppure perchè vi sono eventi di ambiente condiviso o non condiviso che predispongono allo sviluppo di entrambi?

Dalla teoria alla pratica

Dopo questa introduzione ci focalizzeremo sull’ articolo ‘The structure of genetic and environmental risk factors for dimensional representations of DSM-5 Obsessive-Compulsive Spectrum Disorders’ (Monzani et al., 2014), pubblicato sulla rivista JAMA, che prende in considerazione il disturbo ossessivo e I disturbi ad esso correlati secondo il DSM 5, ossia il disturbo da dismorfismo corporeo, il disturbo da accumulo, la tricoltillomania e il disturbo da escoriazione.

L’obiettivo dell’articolo è quello di analizzare sia la natura eziologica dei singoli fenotipi sia l’eventuale condivisione di fattori eziologici in un campione gemellare di 5409 di sesso femminile (3042 monozigoti, 2367 dizigoti).Le analisi univariate di questo studio hanno concluso che le differenze tra individui sono riconducibili a fattori genetici per tutti i fenotipi indagati (in particolare: 30,6% per la tricoltillomania, 51,1% per il disturbo di accumulo, 48% per disturbo ossessivo compulsivo, 43% per il disturbo da dismorfismo corporeo e 47% per il disturbo da escoriazione);la restante parte di varianza è risultata spiegata da fattori ambientali unici, mentre il ruolo dei fattori ambientali condivisi sembra essere trascurabile.

Le analisi multivariate hanno invece mostrato che la co-occorrenza tra disturbo ossessivo compulsivo e disturbi correlati è spiegata da due fattori latenti comuni.

Il primo fattore latente ha un impatto notevole su tutti i disturbi analizzati. Questo fattore, in gran parte influenzato dai geni, potrebbe essere concettualizzato come una vulnerabilità genetica non specifica che agisce come fattore di rischio per tutti i disturbi considerati. Tale fattore latente avrebbe un impatto minore sul disturbo da escoriazione e sulla tricotillomania e forse questa differenza potrebbe essere dovuta al minor coinvolgimento di componenti cognitive in questi due disturbi rispetto agli altri.

Il secondo fattore latente è risultato fortemente influenzato geneticamente esclusivamente per tricotillomania e disturbo da escoriazione, suggerendo una serie di influenze genetiche esclusive per queste due patologie. Questi disturbi potrebbero dunque rappresentare espressioni fenotipiche alternative della stessa condizione, dove le differenze fenotipiche potrebbero essere attribuite a fattori di rischio ambientali unici.

La resilienza

La resilienza consente l’adattamento alle avversità ed è un termine preso in prestito dalla scienza dei materiali, dove indica la proprietà che hanno alcuni elementi di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia, invece, la resilienza definisce la capacità delle persone di riuscire ad affrontare gli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà.

Generalmente, col il trascorrere del tempo, le persone trovano il modo di adattarsi bene a situazioni oggettivamente drammatiche come incidenti, lutti, calamità naturali ed eventi traumatici in generale.

 

Caratteristiche della resilienza

Coloro che possiedono un alto livello di resilienza riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. Si tratta, sostanzialmente, di persone ottimiste, flessibili e creative, che sono in grado di lavorare in gruppo e attingono spesso alle proprie e altrui esperienze.

La resilienza è, dunque, una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto all’esperienza, ai vissuti e, soprattutto, al cambiamento dei meccanismi mentali che la sottendono.

Le persone che riescono meglio a fronteggiare le contrarietà della vita, presentano:

  1. impegno ovvero la tendenza a lasciarsi coinvolgere nelle attività:
  2. controllo, la convinzione di poter dominare gli eventi che si verificano al punto da non sentirsi in balia degli stessi;
  3. gusto per le sfide, ossia predisposizione ad accettare i cambiamenti.

Impegno, controllo e gusto per le sfide sono caratteristiche della persona di cui si può avere consapevolezza e perciò possono essere coltivati e incoraggiati. Per questo, la resilienza non è una caratteristica che è presente o assente in un individuo; essa presuppone comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque.

Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita, significa avere le risorse per riuscire ad affrontarli senza farsi sopraffare dagli eventi stessi. Avere un alto livello di resilienza non significa essere infallibili ma disposti al cambiamento quando necessario; disposti a pensare di poter sbagliare, ma anche di poter correggere la rotta.

 

I fattori costitutivi di alti livelli di resilienza

A determinare un alto livello di resilienza contribuiscono diversi fattori, primo fra tutti la presenza di relazioni con persone premurose e unite, che possano creare un clima di fiducia e di sicurezza, favorendo, così, l’accrescimento del livello di resilienza. Gli altri fattori coinvolti sono:

  • una visione positiva di sé ed una buona consapevolezza sia delle abilità possedute che dei punti di forza del proprio carattere;
  • la capacità di porsi traguardi realistici e di pianificare passi graduali per il loro raggiungimento;
  • adeguate capacità comunicative e di “problem solving”;
  • una buona capacità di controllo degli impulsi e delle emozioni.

Nella ricerca della strategia più idonea per migliorare il proprio livello di resilienza può essere d’aiuto focalizzare l’attenzione sulle esperienze del passato cercando di individuare le risorse che rappresentano i punti di forza personali.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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L’altruismo nei bambini di buona famiglia

Secondo un recente studio, i bambini in età prescolare, provenienti da famiglie benestanti, si comportano in modo meno caritatevole, rispetto a quelli provenienti da contesti economici meno agiati e la mancanza di altruismo potrebbe influenzare la salute fisica e mentale dei bambini più ricchi.

La ricerca, pubblicata recentemente su Psychological Science, esamina le radici e i benefici dell’altruismo in età prescolare.
Gli autori dello studio sostengono che le loro scoperte sottolineino l’importanza dell’ambiente primario del bambino nello sviluppo della tendenza alla beneficenza e al compiere gesti generosi e caritatevoli.
Jonas Miller, studente laureato nel dipartimento di Psicologia presso l’Università della California dichiara: [blockquote style=”1″]Quando si hanno più risorse non c’è bisogno di essere tanto sensibili all’ambiente circostante, d’altra parte, se non si hanno molte risorse, si è più dipendenti dagli altri e diventa più importante sviluppare abitudini prosociali come il dare.[/blockquote] I risultati dello studio indicano che ciò potrebbe estendersi, come per i giovani, anche per i bambini in età prescolare.

Nello specifico Miller e i suoi colleghi hanno analizzato come 74 bambini in età prescolare, provenienti da varie fasce di reddito, rispondevano a richieste di donazioni.

Durante una sessione di gioco della durata di alcuni minuti con un’esaminatrice, i bambini erano progressivamente in grado di guadagnare 20 gettoni, che, come a loro era detto fin dall’inizio, potevano essere scambiati, alla fine dell’attività, con un premio. Al termine della sessione di gioco, l’esaminatrice spiegava ai bambini che lei lavorava anche in ospedale, con alcuni loro coetanei più sfortunati e malati, che, pertanto, non potevano guadagnare da soli i premi. Spiegava loro che, se avessero voluto, avrebbero potuto donare alcuni dei loro gettoni a questi bambini, così che, anche per loro, sarebbe stato possibile guadagnare premi, nonostante fossero impossibilitati a venire in laboratorio. I bambini venivano poi lasciati da soli a prendere le loro decisioni.

Lo studio dimostra l’esistenza di un rapporto inversamente proporzionale tra reddito familiare e quantità di gettoni che i bimbi si impegnavano a dare: nello specifico per ogni aumento di 15000$ nel reddito familiare, la quantità che il bambino si impegnava a donare diminuiva di due gettoni.

I ricercatori esaminarono anche le reazioni biologiche dei bambini al dare.
Dopo la fase di donazione, quando i bambini erano a riposo, quelli che davano di più mostravano una maggiore attività del nervo vago, che, tra le varie funzioni, aiuta a regolare il battito cardiaco. Da ricordare anche il fatto che, una più alta attività vagale a riposo è stata collegata alla diminuzione del rischio di patologie cardiache, ipertensione e diabete, nonché a meno ansia e depressione.

[blockquote style=”1″]Ciò che lo studio mostra è che sembriamo essere cablati fin dalla giovane età per ottenere benefici dall’aiutare gli altri, e dovremmo verosimilmente incoraggiare queste azioni nei bambini piccoli[/blockquote] dice Miller.

Felix Warneken, professore associato nel Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard, che ha condotto una vasta ricerca sui comportamenti sociali dei bambini, ha elogiato lo studio in quanto, rispetto alle ricerche precedenti, è andato più in profondità, esaminando ampiamente sia gli aspetti fisiologici sia quelli sociali dell’altruismo.
Warneken ha trovato le scoperte dello studio sul reddito “provocatorie” e collegate ad altre recenti ricerche sugli adulti, che mostrano come il reddito e il potere influenzino l’altruismo.
Tuttavia, criticamente, ha messo in guardia dall’effettuare qualsiasi tipo di generalizzazione sulla base dello studio, dicendo che non dovremmo mai ricadere nel pensare sulla base di categorie.

Il matrimonio: un passo indispensabile per il benessere emotivo nella coppia?

I dati rivelano un quadro in mutamento: rispetto a vent’anni fa, i benefici in termini di benessere emotivo che un tempo erano associati al matrimonio sembrano attenuarsi e percorsi di vita alternativi danno prova di simili potenzialità.

C’è chi dice che sia una trappola e chi ne è affascinato, chi lo valuta obsoleto e chi, al contrario, lo considera un passo imprescindibile in un percorso di vita: che lo si sostenga o lo si avversi, il matrimonio resta un tema con cui confrontarsi e, in molti casi, uno specchio di una società in continua evoluzione.

Un recente studio della Ohio State University ha indagato il tema del matrimonio per cercare di capire il legame tra questa istituzione e il benessere individuale: sposarsi ci rende più felici? Per indagare la questione, i ricercatori hanno confrontato l’andamento del benessere emotivo di chi sceglie di iniziare la vita con il partner con un matrimonio con quello di chi opta per la convivenza: quando si inizia a vivere insieme e a condividere una casa, aver detto ‘lo voglio’ cambia le carte in tavola?

All’inizio degli anni Novanta le ricerche registravano nelle giovani coppie un incremento del benessere emotivo a seguito del matrimonio con una differenza significativa rispetto alla convivenza. Sposarsi, in altre parole, giovava alle giovani coppie molto più che andare a vivere insieme. Oggi invece, secondo le ricerche condotte da Sarah Mernitz e Claire Kamp Dush, le cose sono cambiate. I ricercatori hanno esaminato i dati del National Longitudinal Survey, relativi ad un campione di 8700 soggetti nati tra il 1980 e il 1984, che sono stati intervistati ad anni alterni dal 2000 al 2010. Per l’intero periodo i partecipanti sono stati monitorati relativamente alla propria situazione sentimentale e ai livelli di stress emotivo, per valutare come queste variabili interagiscano tra loro.

I dati rivelano un quadro in mutamento: rispetto a vent’anni fa, i benefici in termini di benessere emotivo che un tempo erano associati al matrimonio sembrano attenuarsi e percorsi di vita alternativi danno prova di simili potenzialità. Lo studio sottolinea che, soprattutto tra le giovani donne, l’inizio della convivenza con il partner offre lo stesso emotional boost che si osserva quando si saltano le prove generali del vivere insieme e si opta direttamente per il matrimonio. Per gli uomini, invece, i dati rivelano che l’abbassamento del livello di stress emotivo è correlato al matrimonio in modo più significativo di quanto avvenga per la convivenza. Differenza che scompare se il partner con cui si convive non è il primo: qualora una precedente relazione affettiva si concluda, infatti, uomini e donne traggono i medesimi benefici dal matrimonio e dalla convivenza.

I fattori alla base del quadro descritto potrebbero essere di varia natura, a partire dalla progressiva diminuzione dello stigma nei confronti di chi sceglie di convivere e posticipare o evitare il matrimonio, che peraltro è una scelta sempre più comune. Al di là di quali siano le cause, lo studio di Mernitz e Kamp Dush rivela un dato interessante e ci suggerisce che, forse, per essere felici l’abito bianco non è poi così importante.

Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: ipotesi eziologiche e questioni ancora irrisolte

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, la cui definizione è ancora molto incerta, nella quale vi è un’incongruenza tra l’immagine corporea mentale ed il corpo fisico. I soggetti che soffrono di questa condizione hanno un intenso desiderio di amputare un arto primario del proprio corpo, o di ledere il midollo spinale, al fine di divenire paraplegici. 

Federico Lorenzo Gabellotti, Maddalena Ischia, Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: introduzione

Il riconoscimento, l’autoconsapevolezza e l’accettazione del proprio corpo è un aspetto apparentemente banale del sé ma che è comunque essenziale per avere successo nell’interazione con il mondo esterno e le persone (Giummarra et al., 2008).

L’esperienza corporea è un’esperienza complessa, per lo più inconscia e che dipende dall’integrazione di informazioni multisensoriali relative al corpo nello spazio. Questa complessa integrazione avviene tra i processi automatici, sensoriali e bottom-up (legati allo schema corporeo) con quelli di ordine superiore, percettivi e top-down (legati all’immagine corporea) (Gurfinkel e Levick, 1991; Kammers et al., 2006 ).

L’importante distinzione a livello concettuale tra schema corporeo e immagine corporea non dovrebbe implicare a livello comportamentale una separazione tra i due aspetti, in quanto questi possono interagire e influenzarsi a vicenda: ad esempio, strumenti come le protesi possono essere incorporati sia nell’immagine corporea (a livello del movimento e di una sua proiezione cosciente) che nello schema corporeo (a livello di approccio automatico con il mondo esterno) (Gallagher e Cole, 1995).

Lo schema corporeo è una rappresentazione plastica e dinamica delle proprietà spaziali e biomeccaniche del corpo che deriva da input sensoriali multipli che interagiscono con i sistemi motori (Kammers et al., 2006; Schwoebel e Coslett, 2005). Lo schema corporeo comprende uno schema motorio e posturale automatico su cui si basano i nostri movimenti non consapevoli, anche se può influenzare e sostenere l’attività intenzionale (Gallagher, 1986; Gallagher e Cole, 1995; Paillard,1991). Inoltre, questo schema può incorporare al suo interno anche parti significative dell’ambiente esterno (come possono essere le protesi per i soggetti amputati) (Gallagher, 1986). Quindi, lo schema corporeo è formato da rappresentazioni innate del corpo che forniscono un repertorio di funzioni motorie necessarie per la sopravvivenza e una piattaforma neurale attraverso la quale comprendiamo e interagiamo con gli altri nel corso della nostra vita (Brugger et al., 2000).

L’immagine corporea, invece, è una rappresentazione cosciente del corpo che è definita da aspetti lessicali e semantici, all’interno dei quali troviamo i nomi e le funzioni delle parti del corpo e le relazioni tra parti del corpo e gli oggetti esterni (Schwoebel e Coslett, 2005). Gallagher e Cole (1995) individuano tre aspetti importanti all’interno dell’immagine corporea:

  • L’esperienza percettiva del soggetto del proprio corpo (cioè il rendersi conto del proprio corpo, in termini di presa di coscienza della posizione degli arti, del movimento o della postura);
  • La conoscenza concettuale (compresi i miti o le nozioni scientifiche) che il soggetto ha circa il corpo in generale;
  • L’atteggiamento emotivo del soggetto verso il proprio corpo.

Nei casi in cui lo schema corporeo risulti essere compromesso, ad esempio a seguito di deafferentazione corticale, l’immagine corporea e quindi l’attivazione consapevole di rappresentazioni alternative del corpo, permettono di compensare la perdita del controllo innato sulla postura e sui movimenti (Gallagher e Cole, 1995).

Esistono molti disturbi legati ad una percezione erronea del proprio corpo e della sua rappresentazione, che il più delle volte sono associati a danni a livello della corteccia premotoria, parietale o dei sistemi che coinvolgono queste aree. Tra questi disturbi troviamo il disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Body Integrity Identity Disorder, BIID).

Che cos’è il disturbo dell’identità dell’Integrità corporea

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, la cui definizione è ancora molto incerta, nella quale vi è un’incongruenza tra l’immagine corporea mentale ed il corpo fisico. Sebbene venga studiata raramente, è possibile affermare che i soggetti che soffrono di questa condizione hanno un intenso desiderio di amputare un arto primario del proprio corpo, o di ledere il midollo spinale, al fine di divenire paraplegici (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Risulta importante sottolineare che, in questi individui, l’arto bersaglio o target dell’amputazione non è affetto da handicap sensoriali, come ad esempio un grave dolore (McGeoch et al, 2011). Tutti questi soggetti, infatti, condividono la necessità di danneggiare definitivamente un corpo apparentemente integro (Sedda, 2011). I pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea esperiscono, quindi, una disparità tra il proprio corpo e quello che immaginano giusto o adeguato per loro (First, 2005; Ramachandran e McGeoch, 2007).

Questi soggetti, infatti, percepiscono un arto del proprio corpo come estraneo. Esplicative, in questo senso, sono le parole riportate da un paziente: “Non sento i miei arti come se appartenessero a me, e non dovrebbero essere lì” (cfr. Blom, Hennekam e Denys, 2012).

La sofferenza e la preoccupazione per l’arto bersaglio è così forte che interferisce con il funzionamento nella vita quotidiana, e in alcun casi l’ossessione per l’amputazione occupa gran parte della giornata di questi pazienti (si vedano, ad es., Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Per potersi avvicinare al sentirsi come una persona disabile, molto spesso questi soggetti simulano una menomazione con l’uso di stampelle o di una sedia a rotelle. Inoltre, dal momento che i medici il più delle volte si rifiutano di amputare arti sani, e poiché in questi soggetti è forte bisogno di eliminare questa parte del corpo, possono mettere in atto (in maniera autonoma) soluzioni drastiche e pericolose per raggiungere lo stato fisico desiderato, attraverso delle automutilazioni, ad esempio sparandosi nelle gambe, attraverso ghigliottine create da sé, tramite l’uso di motoseghe o il congelamento dell’arto. Questi atti non sempre portano alla sopravvivenza del paziente (Bayne e Leavy, 2005; Bensler e Paauw, 2003; Berger et al., 2005; Patrone, 2009).

Il primo report scientifico di questo disturbo risale al 1977, quando Money et al. descrissero due casi di pazienti che manifestavano il desiderio di amputare un arto sano. Alcuni anni più tardi, Michael First (2005), in uno studio condotto su 52 volontari, descrisse gli individui che desideravano l’amputazione di un arto sano, identificando così alcune caratteristiche del disturbo, quali: la prevalenza di genere (la maggior parte dei soggetti erano uomini), la predilezione per l’amputazione di un particolare lato del corpo (il sinistro), e la preferenza per l’amputazione della gamba, piuttosto che del braccio.

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea ad oggi non è spesso riconosciuto da neurologi, chirurghi e psichiatri, nonostante sia descritto in letteratura (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Attualmente il disturbo dell’identità dell’integrità corporea non è incluso nella Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie 11 o nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 5 (DSM-5).

disturbo dell’identità dell’integrità corporea: Ipotesi Eziologiche

Sino ad ora, la spiegazione principale dell’eziologia di questo disturbo è stata psicologica/psichiatrica. Si riteneva, infatti, che il desiderio di amputazione fosse motivato da un impulso sessuale (De Preester, 2013). Tuttavia, studi più recenti hanno cercato di identificare (attraverso tecniche elettrofisiologiche o di neuroimaging), i correlati neurali di questa condizione. Secondo questi studi, il desiderio di amputazione originerebbe da un deficit nella rappresentazione corporea, piuttosto che da un impulso sessuale (Ramachandran e McGeoch, 2007).

Al momento, il dibattito è ancora aperto e di grande rilevanza per il trattamento di questi disturbo. Infatti, comprendere se il desiderio di amputare un arto sano abbia un origine psicologica/psichiatrica o neurologica è fondamentale per lo sviluppo di possibili trattamenti, specialmente in ragione del fatto che la maggior parte degli approcci che sono stati tentati sino ad oggi si sono dimostrati inefficaci (First, 2005).

disturbo dell’identità dell’integrità corporea: Ipotesi Psicologica e Psichiatrica

La prima spiegazione psicologica/psichiatrica di questo disturbo è stata fornita da Money et al. nel 1977. Questi autori, descrivendo il desiderio di amputare un arto sano in due pazienti, definirono questa condizione apotemnofilia, dalla parola greca apo (lontano da), temno (tagliare un pezzo), e philia (amore), riferendosi ad un significato generale di amore per l’amputazione.

Prima della sua ridenominazione, l’apotemnofilia era chiaramente situata nel campo della vita sessuale ed erotica. L’apotemnofilia inizialmente comprendeva sia il desiderio di amputazione da eseguire sulla propria persona, sia la preferenza per un partner che presenta amputazione. L’apotemnofilia è stata considerata come una parafilia, cioè un disturbo di eccitazione sessuale.

Secondo il DSM-5, le parafilie sono impulsi sessuali intensi e ricorrenti, fantasie o comportamenti che coinvolgono oggetti insoliti, attività o situazioni che causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Più precisamente, l’apotemnofilia era principalmente intesa come una sorta di feticismo caratterizzato dall’uso di un arto amputato per l’eccitazione sessuale fisica o mentale.

Un feticista è definito come un soggetto che ricerca e ottiene gratificazione sessuale da diverse parti del corpo, o in situazioni in cui gli oggetti inanimati sono utilizzati come metodo esclusivo o costantemente preferito di stimolazione per l’eccitazione sessuale (cfr Lowenstein 2002, p. 135).

È importante sottolineare che i soggetti affetti da apotemnofilia non sono psicotici e non soffrono di allucinazioni. Il desiderio di amputazione non proviene da una illusione o allucinazione, ed è riconosciuto come insolito e bizzarro da chi lo possiede.

Tornando alla descrizione dei pazienti fornita da Money et al. (1977), uno di questi affermava:

(…) l’immagine di me stesso come un amputato ha una fantasia erotica (ognuna diversa) che accompagna ogni esperienza sessuale della mia vita (…). ” (Money et al. 1977, pag. 117).

Per il secondo paziente, le fantasie di amputazione erano spesso presenti, ma non erano una premessa fondamentale per la sua eccitazione sessuale.

Il desiderio di amputazione riguardava un arto del lato sinistro del corpo nel primo individuo e del lato destro nel secondo. Entrambi i pazienti riportavano l’insorgere di questo desiderio intorno agli 11-13 anni. Il primo individuo, inoltre, era sottoposto a trattamento psicoterapeutico per le preoccupazioni circa la propria omosessualità ed una profonda paura della disapprovazione sociale. In aggiunta, questi individui riportavano di non volere fare del male a se stessi (sebbene fosse necessario per soddisfare il loro desiderio), e di essere attratti dall’asimmetria. Gli autori diagnosticarono questi soggetti come parafilici, escludendo la possibilità che soffrissero di disturbi paranoidei e associando il desiderio ad una disfunzione sessuale.

Secondo First (2004), in questi casi, il disturbo dell’identità dell’integrità corporea sarebbe un modo compensativo per rifiutare la propria omosessualità: l’amputazione di un arto potrebbe prevenire e sostituire l’amputazione del pene in un transessuale. In questo caso il desiderio di amputazione e l’amputazione feticista sembrerebbero essere correlati. Ma nonostante questo, gli impulsi sessuali non spiegherebbero pienamente il disturbo in quanto non sono stati trovati in tutti i soggetti disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Money e Simcoe 1986; vedi anche Lowenstein 2002).

Alcuni anni dopo, un altro report sulla medesima condizione suggeriva una possibilità alternativa di spiegazione dell’apotemnofilia (Everaerd, 1983). Il paziente descritto da questo autore era un uomo che desiderava l’amputazione di una delle sue gambe. L’autore riporta alcuni episodi nella vita del paziente che si pensava fossero all’origine di questo desiderio: la vista di un ragazzo con una gamba di legno durante l’infanzia, l’attrazione verso questo ragazzo e l’idea che rappresentasse la felicità piena, lo sviluppo di preferenze omosessuali, ed infine, l’uso fasullo delle stampelle. Per l’autore, la motivazione che era alla base del desiderio di amputazione di questo paziente era l’ottenere il benessere fisico e mentale. L’amputazione, in questo caso, perdeva il suo significato sessuale, in quanto era l’unico modo per il paziente per sentirsi completo: assumeva, cioè, rilevanza dal punto di vista dell’identità personale. L’autore, infatti, sottolineava che il suo paziente non aveva problemi di identità sessuale (come sentimenti di colpa per l’omosessualità o un orientamento bisessuale).

Nei primi anni ottanta troviamo così un’indicazione piuttosto suggestiva per la futura distinzione tra apotemnofilia e disturbo dell’identità dell’integrità corporea, basata sulla possibilità che il desiderio di amputazione non sia necessariamente legato ad una motivazione sessuale. Per la prima volta, l’apotemnofilia sembra venire liberata dal suo carattere prominente feticista e quindi sessuale, e viene associata all’ immagine ed identità corporea.

Nel 2005, Michael First pubblicò il primo studio sistematico di un campione di 52 individui che desideravano l’amputazione di un arto sano. Nessuno di questi soggetti (di cui 4 erano donne) presentava deliri, e tutti eccetto uno riferivano che il desiderio era comparso nell’infanzia. Per quanto concerne la comorbidità psichiatrica, 41 soggetti non hanno riferito sintomi psichiatrici, mentre gli altri hanno descritto sintomi di media entità, come ansia e depressione. Lo stesso numero di soggetti, tuttavia, riportava almeno un episodio di origine psichiatrica durante la propria vita. 15 soggetti riportavano anche almeno un altro interesse parafilico, come ad esempio il travestimento o il masochismo. Inoltre, è importante sottolineare che questo studio descriveva anche 6 soggetti che avevano subìto l’amputazione, intervento che, secondo l’autore, aveva estinto permanentemente il loro desiderio.

In particolare, First (2005) suggeriva che l’attivazione sessuale fosse la motivazione secondaria per la maggior parte dei soggetti e che pertanto la ricerca di amputazione non potesse essere considerata una parafilia. Propose inoltre che questo disturbo non fosse incluso nel disturbo da dismorfismo corporeo (BDD, Body Dysmorphic Disorder): tra i due disturbi ci sono infatti delle importanti differenze. Primo, il soggetto con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non percepisce l’arto interessato come brutto, ma ha solo la sensazione che questo non appartenga veramente al suo corpo; nei soggetti con BDD, invece, la parte del corpo interessata è vista come antiestetica e disgustosa e ricorrono perciò alla chirurgia plastica per modificare tale situazione (Noll e Kasten, 2014). In secondo luogo, i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non sono interessati all’intervento per migliorare esteticamente come succede nei pazienti BDD, ma hanno il desiderio di diventare disabili in modo da sentirsi più autentici.

Partendo da questi presupposti, viene quindi disegnato un parallelo tra il desiderio di amputare un arto ed il disturbo dell’identità di genere (First, 2005).

In quest’ultimo le persone hanno la convinzione che i loro organi sessuali esterni non siano contemplati nella loro identità mentale e quindi, come accade nel disturbo dell’identità dell’integrità corporea, una parte della loro anatomia non viene considerata nel proprio sé (Noll e Kasten, 2014). First (2004) sostiene, inoltre, che sia il disturbo dell’identità dell’integrità corporea che il Disturbo d’Identità di Genere (Gender Identity Disorder, GID) si originano prevalentemente durante l’infanzia e si esprimono spesso attraverso l’imitazione dell’identità desiderata (fingendosi disabili o travestendosi) e vengono trattati con successo attraverso l’intervento. Quindi, l’autore concludeva che il termine Apotemnophilia non fosse appropriato per questo disturbo e propose il termine Body Integrity Identity Disorder, considerando questa condizione il risultato di uno sviluppo insolito della propria identità, dove la componente sessuale non aveva un ruolo primario.

Lo studio di First (2005) è stato però criticato da Helen De Preester (2013), la quale suggerì che fosse impossibile escludere la componente sessuale nello studio dell’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea. Essa rianalizzò i dati di First, cercando i casi puri, ovvero quei casi nei quali la motivazione sessuale (o la motivazione identitaria) fosse completamente assente. La percentuale degli apotemnophilici puri e degli identità puri è risultata essere molto bassa (intorno al 10%). La motivazione sessuale era presente solo nel 42% degli individui studiati da First. Secondo la De Preester, il fatto che l’impulso sessuale fosse secondario non voleva indicare che fosse di minore rilevanza.

Il dibattito sul ruolo delle componenti sessuali nell’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea è ancora aperto, ed è più di tipo teorico che sperimentale. In sintesi, le spiegazioni psicologiche / psichiatriche per il desiderio di amputare un arto sano includono due ipotesi principali: una compulsione sessuale, appartenente al nucleo parafilico, e un disturbo di identità, parallelo al disturbo dell’identità di genere (Sedda e Bottini, 2014).

Allo stato attuale, non sono state proposte nuove spiegazioni psicologiche / psichiatriche: perlopiù, questa condizione non è stata inclusa nelle classificazioni del DSM-5.

disturbo dell’identità dell’integrità corporea: ipotesi neurologiche

Recentemente, l’emergere di prove neuroscientifiche ha favorito un’eziologia alternativa a quella psichiatrica / psicologica.

A partire dal lavoro di Ramachandran e McGeoch (2007), sei studi sperimentali hanno esplorato i correlati fisiologici e cerebrali di questa condizione, evidenziando un’attività corticale alterata, soprattutto nel lobo parietale, ed i comportamenti atipici controllati da queste stesse aree (Brang et al, 2008; McGeoch et al., 2011; Aoyama et al., 2012; Hilti et al., 2013; van Dijk et al., 2013; Lenggenhager, 2014; Bottini et al., 2015). Questi dati sollevano la questione se l’apotemnophilia / disturbo dell’identità dell’integrità corporea possa essere dovuto ad una disfunzione delle strutture anatomiche dedicate alla rappresentazione del corpo ed alla consapevolezza corporea.

Come precedentemente accennato, il primo studio che ha riportato questa ipotesi neurologica è quello di Ramachandran e McGeoch (2007). Gli autori affermavano che il desiderio di amputare un arto aveva aspetti in comune con la somatoparafrenia, in quanto gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea mostrano una preferenza per il lato sinistro di amputazione. La Somatoparafrenia è infatti un sintomo neuropsicologico che emerge soprattutto dopo un danno all’emisfero cerebrale destro (Bottini et al., 2009; Gandola et al., 2012). In questi casi, i pazienti negano la proprietà di un arto, di solito il braccio paraplegico sinistro, sostenendo che il braccio non è loro e che il loro vero arto si trova da qualche parte nelle vicinanze. I pazienti somatoparafrenici hanno mostrato una riduzione delle loro menomazioni se gli viene somministrata una stimolazione calorica vestibolare fredda (CVS), a causa degli effetti di questa tecnica sul lobo parietale destro (Bottini et al., 2013). Di conseguenza, è stato suggerito di esplorare l’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea attraverso la risonanza magnetica funzionale e le risposte di conduttanza cutanea (Ramachandran e McGeoch, 2007).

Ramachandran e McGeoch (2007) hanno quindi sostenuto che se i sintomi scompaiono dopo la somministrazione di CVS, questa condizione può essere considerata di origine neurologica e, di conseguenza, i trattamenti per estinguere il desiderio devono rifarsi a manipolazioni fisiologiche di specifiche aree cerebrali.

Nel 2008, Brang et al. hanno presentato uno studio preliminare che ha esplorato la risposta di conduttanza cutanea (SCR) nei soggetti con il desiderio di amputare un arto sano. Gli autori hanno adottato un paradigma del dolore, applicando una puntura di spillo al di sopra e al di sotto della linea di amputazione desiderata su ogni gamba di questi individui. È stata rilevata un’aumentata SCR con stimoli che hanno toccato l’arto al di sotto della linea di amputazione. Siccome questo è stato il primo studio sperimentale a concentrarsi su misure più neurologiche, si trattava ancora di un report descrittivo, che includeva solo due soggetti con caratteristiche cliniche molto diverse: il primo desiderava una amputazione sotto il ginocchio destro, mentre il secondo amputazioni sia sotto il ginocchio sinistro che sotto la coscia destra.

Un secondo studio sperimentale, con un gruppo leggermente più consistente di individui (4 soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea ed un gruppo di controllo), fu eseguito nel 2011 da McGeoch et al. Gli autori utilizzarono la magnetoencefalografia (MEG), in combinazione con un compito di stimolazione tattile, per esplorare l’attività delle aree parietali. I potenziali somatosensoriali evocati sono stati registrati per mezzo della magnetoencefalografia. I partecipanti venivano toccati: a) sul dorso di ogni piede, b) su ogni parte anteriore della coscia sopra la linea di amputazione desiderata, e c) durante la stimolazione elettrica del nervo mediano sulla faccia volare di ogni polso (condizione di controllo).

McGeoch e colleghi (2011) hanno trovato una riduzione significativa dell’attività del lobo superiore parietale destro (SPL) quando venivano confrontate le risposte somatosensoriali dei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea per la gamba bersaglio con quelle per la gamba non bersaglio e quelle dei soggetti di controllo. Nessun’altra riduzione significativa dell’attività è stata trovata in aree che si sanno essere coinvolte nella rappresentazione del corpo, come l’insula (Berlucchi e Aglioti 2010).

McGeoch e colleghi suggerirono che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea fossero in grado di percepire l’arto interessato perché le cortecce visive e somatosensoriali risultavano intatte, ma non riuscivano ad incorporarle nella loro immagine del corpo a causa di disfunzioni del lobo parietale. L’ipotesi implicita è che l’immagine del corpo, ma non lo schema corporeo, sia danneggiata nel disturbo dell’identità dell’integrità corporea.

Tuttavia, lo studio di McGeoch e colleghi indaga solo la percezione tattile, che di solito è attribuita allo schema corporeo piuttosto che all’immagine del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010). L’assenza di altri compiti che affrontano diverse componenti della rappresentazione del corpo può spiegare perché altre zone note che contribuiscono al senso di appartenenza, come la corteccia insulare (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010), non abbiano mostrato un’attività differenziale.

L’immagine corporea e lo schema corporeo dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea devono essere valutati con batterie neuropsicologiche più estese, contenenti tra l’altro compiti di denominazione e localizzazione di parti del corpo e di imaging motorio, che permettano di valutare tutte le forme di rappresentazione del corpo (de Vignemont 2010), prima di trarre conclusioni affrettate in favore di un disturbo dell’immagine corporea.

Inoltre, la dicotomia tra immagine corporea e schema corporeo è stata più volte posta in questione, a causa della sua vaghezza nello spiegare la grande varietà di disturbi neurologici che possono affliggere la rappresentazione del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010).

Le teorie secondo cui il riconoscimento di sé e la consapevolezza siano mappate in una zona unica e che schema corporeo e rappresentazione del corpo siano moduli indipendenti sono troppo semplicistiche alla luce delle recenti scoperte sulla rappresentazione del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010).

In maniera analoga può risultare semplicistico considerare il disturbo dell’identità dell’integrità corporea come un deficit di proprietà che emerge solo da una disfunzione della SPL. I risultati di McGeoch e colleghi sono promettenti, ma la ricerca sul disturbo dell’identità dell’integrità corporea come fenomeno neurologico che colpisce la rappresentazione del corpo è appena iniziata, e dovranno essere chiarite diverse questioni prima di accettare questa categorizzazione.

In ogni caso, McGeoch e colleghi (2011) hanno concluso che l’apotemnophilia / disturbo dell’identità dell’integrità corporea dovrebbe essere definita xenomelia e dovrebbe essere inclusa tra le sindromi del lobo parietale destro legate alla rappresentazione del corpo. Questo nuovo termine comprende il parallelo con la somatoparafrenia e significa straniero (xeno) arto (melia) in greco antico. Questa è la terza etichetta data alla condizione in un arco temporale di 34 anni.

Sebbene questi autori effettuino un parallelismo tra le due sindromi, Bottini et al. (2009) ci mettono in guardia sul fatto che si possano rilevare molte differenze tra il disturbo dell’identità dell’integrità corporea e i disturbi della rappresentazione del corpo classici, come la somatoparafrenia.

Gli individui affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea possono presentare desideri di amputazione dell’arto destro, sinistro, o entrambi (First 2005; McGeoch et al. 2011). Al contrario, i pazienti somatoparafrenici presentano un senso di rifiuto diretto solo verso un lato del corpo e mai con sintomi bilaterali (Vallar e Ronchi 2009; Bottini et al. 2009).

Un altro elemento cruciale del disturbo dell’identità dell’integrità corporea, che lo differenzia dalla somatoparafrenia, è la possibilità di recupero/guarigione spontanea. In contrasto con i pazienti somatoparafrenici (Vallar e Ronchi del 2009; Bottini et al., 2009), i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non guariscono spontaneamente, ma piuttosto sperimentano un desiderio di amputazione per tutta la vita (First 2005). Uno dei pazienti nello studio di McGeoch et al. (2011) inizialmente desiderava un’amputazione bilaterale, mentre al momento dello studio ha riferito un minor desiderio di amputazione per la gamba destra, che dopo un anno scomparve completamente (McGeoch et al. 2011). Anche se gli autori ritengono questo fatto indicativo di plasticità cerebrale e recupero, e indice di una condizione reversibile (McGeoch et al., 2011), non è chiaro che cosa possa mediare il recupero, in quanto studi precedenti riportano che nessuno degli individui affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea sia guarito spontaneamente in seguito a trattamento farmacologico o psicoterapeutico, ma solo dopo l’amputazione dell’arto desiderato (First 2005).

E’ stato comunque riportato in tempi recenti un trattamento di successo del disturbo dell’identità dell’integrità corporea con la psicoterapia (Thiel et al. 2011), anche se questo è l’unico caso conosciuto. È interessante notare che il paziente di Thiel e colleghi desiderava l’amputazione di entrambe le gambe, in maniera simile all’individuo nello studio di McGeoch et al., che era guarito dal desiderio di amputazione solo per la gamba destra, corroborando quindi l’importanza di comprendere il ruolo della lateralità.

Seguendo l’ipotesi di una sindrome del lobo parietale, Aoyama et al. (2012) hanno studiato i giudizi di ordine temporale negli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea. Il loro esperimento era basato sull’idea che l’integrità dell’immagine del corpo e della corteccia parietale (in altre parole, il preservato senso di proprietà) fossero necessari per valutare correttamente quale dei due stimoli consecutivamente applicati a una parte del corpo venisse somministrato per primo (Moseley, Olthof, Venema A, et al, 2008). I risultati di questo studio hanno rilevato che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea percepivano gli stimoli più distali (cioè quelli applicati all’arto che voleva essere amputato) come quelli somministrati per primi, mentre gli stimoli percepiti per primi avrebbero dovuto normalmente essere quelli somministrati a parti del corpo più prossimali, in ragione di tempi di trasmissione neurale più rapidi. Per gli autori, questi risultati confermavano la teoria secondo cui il desiderio di amputare un arto sano fosse una sindrome del lobo parietale, in quanto i pazienti dello studio non avevano disturbi sensoriali che potevano spiegare diversamente i risultati.

Hilti et al. (2013), hanno riportato, in accordo seppur solo in parte con gli studi precedenti, differenze strutturali tra soggetti di controllo e le persone che desideravano amputare un arto sano, evidenziandone differenze nel lobo parietale destro superiore (SPL), nella corteccia somatosensoriale primaria e secondaria, e nell’insula anteriore. Questo studio non prevedeva nessun compito attivo, in quanto l’obiettivo era solo quello di esplorare l’architettura corticale in questi pazienti.

Nello stesso anno è stato condotto un esperimento di risonanza magnetica funzionale (fMRI) (van Dijk et al., 2013), per confrontare l’attività cerebrale tra gli arti percepiti ‘di proprietà’ e quelli percepiti ‘da amputare’ nel corso di una stimolazione tattile e nell’ esecuzione di un compito motorio. In primo luogo i risultati del compito di stimolazione tattile, analizzati in termini generali (attività relative a entrambe le gambe degli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea rispetto ai controlli), hanno evidenziato una diversa responsività nella rete somatosensoriale, che comprende principalmente: la rete frontoparietale (corteccia premotoria dorsale [PMd]; il giro precentrale e postcentrale (tra cui la corteccia somatosensoriale); l’ SPL su entrambi i lati; la corteccia premotoria ventrale destra (PMV); la corteccia insulare; il giro sopramarginale e la corteccia occipito-temporale (la corteccia occipitale laterale; la precuneus; la corteccia temporale inferiore; il giro fusiforme; il cervelletto su entrambi i lati). È importante sottolineare che nessuna regione del cervello ha mostrato una responsività significativamente ridotta.

In secondo luogo, gli autori hanno preso in considerazione l’attività neurale come una funzione della gamba (quella che ‘vuole essere amputata’ contro la ‘propria’ gamba, in confronto con la gamba corrispondente nei soggetti di controllo). Questi contrasti hanno rivelato una attivazione ridotta nei PMV e PMd controlaterali, rispetto al gruppo di controllo. Non è stato misurato nessun significativo aumento dell’attività cerebrale in ciascuna area. Questi risultati suggeriscono che la sensazione di rifiuto di questa condizione è associata ad un’elaborazione somatosensoriale alterata. D’altro canto, i risultati del compito di esecuzione motoria non hanno mostrato differenze significative, sia considerando un confronto generale tra i controlli e gli individui con apotemnophilia / BIID / xenomelia, che prendendo in esame il senso di appartenenza verso la gamba.

In aggiunta, Ramachandran (2012) ha notato come i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea siano all’opposto dei pazienti con amputazioni dovute ad incidenti reali. Questi ultimi hanno spesso la sensazione dell’ arto fantasma nell’arto amputato (phantom limb), mentre nei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea l’arto esiste ma non sembra attivare nessuna struttura cerebrale superiore in cui vengano rappresentati i confini del nostro corpo (Brugger, 2011). L’arto quindi pare non sarebbe incluso nel loro schema corporeo.

Se le osservazioni e la teoria di questi autori fosse giusta, i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non dovrebbero avere sensazioni di arto fantasma. Dallo studio di Noll e Kasten (2014) è emerso che molti soggetti in seguito ad amputazione riportavano sensazioni dell’arto fantasma (anche se la comparsa avveniva in tempi diversi nei vari pazienti) e dolori a livello della zona amputata. Queste sensazioni erano riportate sotto forma di prurito, pressione, sensazione di avere degli aghi all’interno, sensazione di avere l’arto più piccolo del normale, più corto o più lungo, più caldo o più freddo a seconda dei soggetti. Questo quindi smentisce la teoria degli autori precedenti. Ma si potrebbe assumere che queste sensazioni all’arto fantasma dipendano da un’area somato-sensoriale chiaramente intatta presente nel lobo parietale. Se questa area non fosse stata intatta i soggetti non sarebbero stati in grado di svolgere le normali attività sportive prima dell’intervento. Quindi, Noll e Kasten (2014), hanno concluso che lo schema corporeo del paziente è presente in un’altra area del lobo parietale, che non è responsabile della sensazione dell’arto fantasma.

Sacks (1984) trova una corrispondenza tra disturbo dell’identità dell’integrità corporea e sindrome di Potzl. Molto spesso le distorsioni dell’immagine corporea derivano da tumori o ictus al lobo parietale, così come accade nei pazienti che soffrono della sindrome di Potzl, i quali ignorano parti del proprio corpo o le percepiscono come aliene, irreali o come parti di un altro corpo.

Anche la sindrome della mano aliena mostra una somiglianza con il disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Biran and Chatterjee 2004; Pappalardo et al 2004; Scepkowsky and Cronin-Golomb 2003). Questa sindrome solitamente appare dopo ictus, emorragie o tumori al corpo calloso o nella corteccia frontale mediale. I pazienti che ne soffrono percepiscono la loro mano sinistra come aliena e spesso non la identificano come loro stessa mano. Diversi studi hanno dimostrato come una riabilitazione neuropsicologica possa supportare il processo di guarigione di questi pazienti (Pappalardo et al, 2004).

Tuttavia, contrariamente a quanto accade nella sindrome di Potzl o nella sindrome della mano aliena, molti dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea mostrano una sofferenza verso l’arto alieno già a partire dall’infanzia. Questo dato potrebbe suggerire una malformazione congenita nel cervello (ad es. un’anomalia ai vasi sanguigni), un trauma cerebrale precoce (ad es. sindrome del bambino scosso) o un incompleto sviluppo dei nervi nella corteccia sensomotoria o nel corpo calloso.
Per questo molti autori hanno considerato l’ipotesi che alcuni casi di disturbo dell’identità dell’integrità corporea potrebbero derivare da aberrazioni congenite nei correlati neuronali, dove lesioni o fattori ambientali giocano un ruolo secondario.

Tra questi, Smith e Fisher (2003) teorizzano che in pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea l’arto fisico si sia sviluppato senza una coscienza sensoriale di esso, a causa di una mancata corrispondenza congenita tra il corpo fisico e l’immagine corporea generata a livello della corteccia somatosensoriale.

Infine, un recente studio (Bottini, Bruger, e Sedda, 2015) ha esplorato l’ipotesi neurologica, partendo da una prospettiva differente. In questo lavoro, gli autori hanno somministrato una serie di test a 7 persone affette da disturbo dell’identità dell’integrità corporea, che avevano lo scopo di esplorare l’espressione facciale: il riconoscimento e le risposte di disgusto. La premessa di base era che l’insula, indicata negli studi precedenti come possibile area disfunzionale, è coinvolta nella rappresentazione corporea (Berlucchi e Aglioti, 2010) e nell’elaborazione delle emozioni (Jabbi, Bastiaansen, Keysers, 2008).

Un secondo punto di partenza, che ha convinto gli autori a seguire questa strada, è che i disturbi psichiatrici si trovano di solito in comorbidità con deficit nel riconoscimento delle emozioni (Kohler et al., 2011). A differenza degli studi precedenti che si sono concentrati sulla rappresentazione del corpo di per sé e hanno trascurato le componenti sessuali e psichiatriche, questo studio ha adottato una metodologia neuropsicologica ed ha esplorato entrambe le eziologie (neurologica e psichiatrica). Gli autori hanno trattato i dati come casi singoli, evitando il problema di raggruppare insieme individui con differenti caratteristiche cliniche. I risultati di questo studio hanno mostrato assenza di riconoscimento delle emozioni e anche deficit di espressione, in tutti gli individui.

Comunque, i soggetti che hanno cercato un’amputazione unilaterale hanno mostrato un modello diverso per quanto riguarda la valutazione delle immagini raffiguranti gli arti amputati (non persone amputate, ma arti amputati, ad esclusione di qualsiasi componente sessuale di attrazione verso un amputato). Questi individui valutato queste immagini come non disgustose – un comportamento contrario a quello che si può aspettare da modelli noti di disgusto verso le violazioni dell’involucro del corpo (Rozin, Haidt, e Fincher, 2009; Rozin e Fallon, 1987). Tali modelli affermano che il disgusto è una reazione difensiva verso il pericolo; di conseguenza, le violazioni della raffigurazione del corpo suscitano questa emozione (Rozin, Haidt, e Fincher, 2009; Rozin e Fallon, 1987). Sembra che il disturbo dell’identità dell’integrità corporea sia caratterizzato da una compromissione dell’emozione, selettivamente legata al corpo, ma solo in alcuni individui che condividono specifiche caratteristiche cliniche.

Trattamento del disturbo dell’identità dell’integrità corporea e qualità della vita di questi pazienti

Molti studi hanno dimostrato come le psicoterapie tradizionali abbiano pochi effetti sul desiderio di amputazione (Bayne e Levy, 2005; Bensler e Paauw, 2003; Braam et al. 2006; First, 2004; Storm e Weiss, 2003): esse possono talvolta aiutare i pazienti a diminuire o tollerare i loro pensieri, ma non li eliminano del tutto (Braam et al., 2006; Wise e Kalyanam, 2000).

Nello studio di Noll e Kasten (2014), la maggior parte dei soggetti sottoposti ad operazione aveva cercato di resistere al proprio desiderio per molti anni, evitando l’operazione con differenti tipi di terapia e trattamenti. La decisione di ricorrere ad un intervento era infatti legata ai mancati effetti delle diverse terapie provate. Tra quelle citate troviamo trattamenti farmacologici, psicoanalisi, terapia comportamentale, counseling prima dell’intervento, e psicodramma. Solo due dei 18 soggetti presi in esame hanno riferito di aver avuto un profitto dalla terapia, in particolar modo dalle terapie di counseling. Per gli altri, invece, il desiderio di un’amputazione era aumentato durante la terapia stessa.

Questo può essere dovuto al fatto che parlare di disturbo dell’identità dell’integrità corporea in terapia porta maggiormente l’attenzione del paziente su questo suo desiderio.

Alcuni pazienti avevano provato anche tecniche di rilassamento, il training autogeno, meditazione e rilassamento muscolare progressivo, ma nessuno di questi aveva avuto esiti positivi. Anzi, proprio queste tecniche avevano portato a focalizzare maggiormente l’attenzione dei pazienti sul corpo, incrementando il loro desiderio.

Sacks (1984) ha segnalato un possibile metodo per aiutare questi pazienti, che consiste nell’uso della terapia del movimento, spesso associata a musicoterapia. Lo scopo di questa terapia è quello di reintegrare la parte estranea del proprio corpo con la sua rappresentazione a livello cerebrale. Queste semplici cure possono essere usate per rinvigorire connessioni neurali tra corpo e mente atrofizzate, ma non sempre sono efficaci, soprattutto se la parte estranea del proprio corpo è stata effettivamente eliminata dalla mappa corporea presente nel cervello.

Il metodo proposto da Ramachandran e McGeoch (2007), che consiste nell’introdurre nel canale uditivo acqua fredda e poi calda per stimolare il lobo parietale opposto all’orecchio trattato, è stato in grado di trattare temporaneamente pazienti con somatoparafrenia e quindi potrebbe alleviare anche le sofferenze dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea.

Se questo metodo si mostrasse efficace, i medici potrebbero provare ad utilizzare la stimolazione magnetica ripetitiva (rTMS), che potrebbe migliorare le prestazioni di discriminazione tattile ed ampliare le corrispondenti mappe corticali somatosensoriali (Tegenthoff et al. 2005). Un’altra possibilità potrebbe essere l’impianto di elettrodi di stimolazione nell’area corticale interessata. Nel caso in cui si osservasse che la causa del disturbo dell’identità dell’integrità corporea fosse un tumore benigno o una malformazione artero-venosa, la microchirurgia o la radiochirurgia potrebbero essere terapie efficaci.

Alcuni autori, come ad esempio Muller (2008), hanno sottolineato l’importanza di incrementare gli studi sulle terapie da adottare con questa tipologia di pazienti, soprattutto per evitare che si ricorra all’amputazione quale forma terapeutica, quando ve ne potrebbero essere altre ugualmente efficaci.

Nel 2012 Blom, Hennekam e Denys hanno condotto uno studio su 54 soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea il cui obiettivo era quello di fornire dettagliate caratteristiche somatiche, psichiatriche, e sociali del BIID e confrontare l’interruzione nel lavoro, nella vita sociale e familiare legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea in soggetti sottoposti ad amputazione vs. soggetti che non avevano subìto l’amputazione.

Ai soggetti che si erano identificati come affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono stati somministrati i seguenti questionari:

  • BIID Phenomenology Questionnaire: questionario costruito dagli autori contenente domande relative a aspetti epidemiologici, medici, e specifici del disturbo
  • Sheehan Disability Scale (SDS): scala che misura il danno funzionale dovuto alla malattia nel lavoro, famiglia e vita sociale (Leon et al., 1997)
  • Adattamento della Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS) (Goodman et al. 1989, entrambi gli articoli in bibliografia). In questa scala gli individui devono indicare il controllo che hanno sui pensieri e le attività legate al BIID; il tempo che spendono; l’interferenza che esperiscono; lo stress che gli viene causato.
  • La Mini-International Neuropsychiatric Interview Screen (MINI screen): scala di screening per i disturbi psichiatrici più comuni (Sheehan et al., 1998).
  • La Beck Anxiety Inventory (BAI) che misura la severità dei sintomi ansiosi (Beck, Epstein, Brown, Steer, 1988).
  • La Beck Depression Inventory (BDI), che misura la severità dei sintomi depressivi (Beck, Ward, Mendelson, Mock, e Erbaugh, 1961).

In accordo con la letteratura precedente, gli autori hanno rilevato che il livello di sofferenza nei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea è alto (First, 2005).

Le ossessioni legate al disturbo dell’identità dell’integrità corporea erano infatti presenti nei pazienti tutti i giorni, talvolta anche di notte. Esplicative in questo senso le parole di un paziente che ha preso parte allo studio:

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea occupa ogni momento della mia vita, e mi tiene sveglio anche la notte. L’insonnia è grave quasi tutte le sere”.

L’impatto sociale di essere affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea è risultato essere enorme, e determinava una notevole compromissione della vita sociale, lavorativa e familiare di questi pazienti. Inoltre, molti di questi hanno riportato di trascorrere molto tempo fingendosi disabili, utilizzando ad esempio stampelle, bendando gli arti o attraverso l’uso di una sedia a rotelle (“Sto usando una sedia a rotelle a tempo pieno quando sono in pubblico. Cammino a casa. Questo è l’unico modo per rimanere in qualche modo funzionale”).

In aggiunta, questi pazienti hanno riferito sintomi depressivi e di ansia in misura più elevata rispetto alla popolazione generale; secondo gli autori, tali sintomi sono probabilmente secondari all’enorme angoscia che il disturbo dell’identità dell’integrità corporea induce su una persona.

Gli individui affetti da BIID rivelano inoltre il loro disturbo alla famiglia e agli amici nella metà dei casi.
Per quanto concerne gli aspetti del trattamento, i pazienti hanno riferito che quello psicoterapico era spesso di supporto, sebbene non di aiuto nel diminuire i sintomi legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea:

Mentre la psicoterapia non mi ha aiutato direttamente a superare il mio disturbo, essa è servita a capire il mio rapporto con il disturbo dell’identità dell’integrità corporea”.

Dal punto di vista del trattamento farmacologico, gli antidepressivi sono stati percepiti come utili per ridurre i sintomi depressivi legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea, a differenza degli antipsicotici.

E’ interessante notare che l’amputazione effettiva dell’arto è stata efficace in tutti i 7 casi che hanno avuto un trattamento chirurgico

Mi chiedo se ho diritto a partecipare a questo studio, perché da quando ho subìto l’amputazione non ho più avuto sentimenti di disturbo dell’identità dell’integrità corporea

I soggetti che avevano subìto un’amputazione, infatti, hanno ottenuto punteggi significativamente più bassi sulla Sheehan Disability Scale rispetto a quelli che non l’avevano subìta. Ciò sembra suggerire che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea preferiscano sentirsi in armonia con la propria identità, anche se questo comporta una disabilità fisica.

La chirurgia sembra quindi risultare in una remissione permanente del disturbo dell’identità dell’integrità corporea e in un impressionante miglioramento della qualità della vita, ma contrasta con le norme etiche dei medici che sostengono di non amputare arti sani (Craimer, 2009; Muller, 2009).

Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: aspetti etici legati all’amputazione

Attualmente vi è un’accesa discussione etica rispetto al riconoscere le amputazioni nei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea come legali e da eseguire sotto condizioni molto restrittive (Bayne e Levy, 2005; Bridy, 2004; Beckford-Ball, 2000; Levy, 2007; Manok, 2012; Nitschmann, 2007).

Non c’è accordo sul fatto che i medici soddisfino il desiderio di amputazione di questi pazienti in qualsiasi circostanza. Legato a ciò, uno degli argomenti riportati contro la legalizzazione dell’amputazione nelle persone affette da disturbo dell’identità dell’integrità corporea è legato al fatto che spesso questi soggetti mostrano il desiderio di più operazioni, dopo che la prima è stata eseguita.

Secondo altri autori, dal momento che non esiste una terapia che promette una guarigione dal disturbo dell’identità dell’integrità corporea, l’amputazione dovrebbe essere considerata come una possibilità di aiuto per queste persone.

Levy (2007) è a favore alla legalizzazione dell’amputazione in quanto appare ovvio che la malattia è difficile da trattare in altro modo: egli ritiene che l’unico metodo efficace al momento per aiutare questi pazienti sia proprio l’intervento chirurgico.

Per Bayne e Levy (2005), i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non sono psicotici e sono ben consapevoli dei rischi e delle conseguenze a cui vanno incontro (e di cui ovviamente devono essere ben informati prima dell’operazione), perciò la chirurgia è eticamente possibile in quanto potrebbe prevenire la possibilità che molti pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea si feriscano o si uccidano. Questo come conseguenza del fatto che molti medici, come è stato già detto, non sono disposti ad eseguire questo tipo di amputazioni sui loro pazienti ed è così che la maggior parte dei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea si recano nei paesi stranieri, poco sviluppati, ed eseguono operazioni rischiose pagando in contanti e rischiando la vita per le scarse condizioni di sicurezza e igiene.

Gli aspetti etici vengono presi in considerazione riferendosi a questioni legate ai quattro principi della bioetica (autonomia, non-maleficenza, beneficenza di giustizia).

Il principio dell’autonomia sostiene che gli esseri umani agiscono autonomamente quando l’atto è compiuto: con intenzione; con comprensione della situazione; senza controlli o influenze coercitive esterne (Muller, 2009).

Il principio dell’autonomia sottolinea l’indipendenza dei pazienti contro le autorità (anche mediche) ed esige che i medici rispettino i desideri dei pazienti e portino avanti le loro volontà. I pazienti hanno il diritto di scegliere tra differenti tipi di terapie mediche quella che ritengono più opportuna dopo aver valutato rischi e opportunità, in accordo alla loro situazione personale e ai loro valori individuali. Una volta soddisfatti questi criteri, il paziente con disturbo dell’identità dell’integrità corporea potrebbe fornire il proprio consenso informato all’operazione. Se l’amputazione diventasse una terapia accreditata per i pazienti disturbo dell’identità dell’integrità corporea, i pazienti potrebbero scegliere tra la terapia psicologica, psicofarmacologica, neuroriabilitazione, amputazione o, eventualmente, stimolazione magnetica transcranica o stimolazione cerebrale elettrica.

Bridy (2004) ritiene che l’amputazione potrebbe essere accettata come legittima in vista della ricerca del paziente della sua felicità e autenticità.

Secondo il principio di non-maleficenza, i medici non dovrebbero eseguire l’amputazione senza indicazioni mediche ben precise, in quanto l’operazione comporta grandi rischi e spesso ha conseguenze importanti che vanno oltre la disabilità, come per esempio infezioni, trombosi, paralisi o necrosi (Beckford-Ball, 2000; Dotinga, 2000; Johnston e Elliott, 2002). L’amputazione potrebbe causare un danno irreversibile che non può essere guarito.

Secondo il principio di beneficenza, l’amputazione potrebbe essere giustificata nel caso in cui i benefici che ne derivano al paziente permettono di annullare il possibile danno. Quindi, affinché l’amputazione possa essere considerata legale devono essere soddisfatte tre condizioni: l’efficacia, la sostenibilità degli effetti e la non esistenza di una terapia meno nociva (Muller, 2009). Per Bayne e Levy (2005), First (2004), Fisher e Smith (2000) e Furth e Smith (2000) tali condizioni possono considerarsi soddisfatte. Ma nonostante questo, essi non sono stati in grado di presentare prove scientifiche sulla reale efficacia dell’amputazione come terapia per pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea, e si riferiscono approssimativamente all’osservazione di soli 10 casi per arrivare alle loro conclusioni. In più, la sostenibilità degli effetti può essere messa in dubbio: in alcuni casi, infatti, si verifica uno spostamento del sintomo che porta a successive amputazioni di più arti (Berger et al., 2005; Skatessoon, 2005; Sorene et al., 2006).

Il fatto che la psicoterapia e le sostanze psicotrope non siano molto efficaci per curare il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è stato dimostrato solo da pochi studi di casi, mentre in altri gli SSRI e la terapia comportamentale sono stati in grado di diminuire il desiderio di amputazione (Berger et al. 2005). Quindi, i prerequisiti che potrebbero giustificare l’amputazione secondo il principio di beneficenza non sono né soddisfatti né dimostrati sufficientemente.

Tuttavia, il principio di beneficenza potrebbe giustificare le amputazioni nel caso in cui vengano fatte per prevenire conseguenze peggiori (Beauchamp e Childress, 2001). Questo dato è portato a sostegno dal fatto che alcuni pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono così ossessionati dal desiderio di aver un arto amputato che cercano di procurarselo autonomamente, schiacciandosi una gamba con dei pesi o con altri metodi “fai da te” (Dyer, 2000; First 2004; Furth e Smith 2000; Skatessoon 2005). Alcuni di questi casi hanno portato alla morte (Bayne e Levy, 2005). La possibilità di amputazioni eseguite correttamente e da persone professionali potrebbe impedire queste pericolose automutilazioni.

Il principio di giustizia prende in considerazione anche l’impatto sociale ed economico del disturbo. Un’amputazione porta ad un handicap: oltre a delle reazioni psicosociali nelle persone circostanti, questo ha delle conseguenze finanziarie. Mentre non vi sono problemi legati al finanziamento pubblico offerto dal sistema sanitario quando l’amputazione è eseguita a causa di incidenti o malattie, ci sono invece problemi giuridici quando l’amputazione è auto-inflitta o eseguita per cause estetiche, erotiche o finanziarie. Questo perché i costi sono elevati: le assicurazioni devono pagare le cure, i trattamenti medici e la riabilitazione dopo l’intervento; le abilità lavorative dei pazienti possono essere più limitate dopo l’intervento e quindi si crea la necessità di fornirgli una nuova formazione per un altro lavoro, mentre in altri casi i pazienti non sono proprio più in grado di poter lavorare e si arriva ad un pensionamento anticipato (Noll e Kasten, 2014).

Anche il contesto sociale circostante gioca un ruolo importante. Un ambiente sociale accondiscendente è molto importante per la soddisfazione a lungo termine dei pazienti, in quanto avere qualcuno con cui parlare migliora la loro situazione. Le persone a cui solitamente vengono riferite le vere motivazioni dell’amputazione sono i famigliari e gli amici, mentre raramente i colleghi (Noll e Kasten, 2014).

Conclusioni

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, studiata di rado, in cui vi è una mancata corrispondenza tra l’immagine mentale del corpo ed il corpo fisico che influenza la vita delle persone colpite in modo estremo (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea si traduce in un intenso desiderio di amputare un arto o di danneggiare il midollo spinale, al fine di diventare paraplegici e può portare gli individui a mutazioni auto-inflitte. Per gli individui affetti da questa condizione, i desideri connessi al disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono fondamentali per la vita e non sono il risultato di un disturbo psichiatrico primario o somatico.

Ulteriori ricerche sono necessarie per rivelare l’eziologia di questa condizione, e quindi comprendere quale sia il trattamento più efficace.

Se infatti il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una condizione derivante da una disfunzione cerebrale, similmente ad altre malattie neurologiche come la depressione (Davidson 2010), una combinazione di trattamenti farmacologici e di psicoterapia dovrebbero essere attentamente pianificati.

Se invece il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è un disturbo neurologico legato ad una disfunzione del lobo parietale (McGeoch et al.2011; Aoyama et al. 2012) o a sindromi di rinnegamento (Berlucchi e Aglioti 2010), vi è un’ulteriore prova che un trattamento chirurgico non dovrebbe essere suggerito, e dovrebbero essere testati prima i risultati di tecniche meno invasive, come la stimolazione vestibolare calorica (Ramachandran e McGeoch, 2007).

Accanto alla chirurgia al momento non vi è alcuna strategia di gestione efficace del disturbo, ma
il riconoscimento e il rispetto per i desideri di questi pazienti possono ridurre l’enorme carico che questo ha sulla loro vita (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Anche la questione sulla legalizzazione delle amputazioni deve essere risolta. Come visto precedentemente, diversi autori (Bayne e Levy, 2005; First, 2004; Fisher e Smith, 2000; e Furth Smith, 2000) hanno sostenuto che l’amputazione ha spesso aiutato questi pazienti e quindi renderla legale a tutti gli effetti potrebbe permettere una riduzione di operazioni rischiose compiute in altri paesi o le auto-mutilazioni, oltre a garantire il benessere dei pazienti a lungo termine (Muller, 2009). Per risolvere questo problema, il punto cruciale da chiarire consiste nel comprendere se il desiderio di amputazione derivi da una scelta autonoma o da un’ossessione.

Fino ad ora la maggior parte degli studi ha sostenuto che alla base di questo desiderio ci sia un impulso sessuale o un disturbo dell’identità (Sedda, Bottini, 2014); inoltre, gli studi neurologici supportano l’ipotesi di un disturbo a livello celebrale. Tutto questo porta a considerare le amputazioni come lesioni gravi provocate da persone con sostanziale perdita di autonomia e quindi non propriamente in grado di scegliere con consapevolezza.

In conclusione, i 37 anni di studio di questo desiderio di essere disabili, hanno portato alla luce una condizione ancora segreta (ma forse non così rara, considerando il crescente numero di individui inclusi negli studi), che sembra difficile da capire, anche utilizzando le attuali tecnologie.

È necessario molto sforzo per trovare una soluzione e, infine, un trattamento per il disagio di questi individui. Questa condizione ancora oscura ha bisogno di un approccio multidisciplinare per andare oltre la semplice cornice sperimentale/clinica, e richiede un modello molto più complesso che comprende anche aspetti sociali ed etici (Patrone, 2009).

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