expand_lessAPRI WIDGET

Ruolo dell’ attaccamento e del temperamento nello sviluppo di dipendenze patologiche – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Ruolo dell’ attaccamento e del temperamento nello sviluppo di dipendenze patologiche

Giada Costantini, Ramona Di Diodoro, Isabella Paoletta, Enzo Panzella, Mariapaola Costantini, Chiara Caruso, Harold Dadomo, Clarice Mezzaluna

L’obiettivo del presente studio è quello di studiare le caratteristiche protettive o favorenti lo sviluppo di dipendenze patologiche. 

Introduzione

In letteratura emergono relazioni tra un attaccamento di tipo insicuro e lo sviluppo di dipendenze (Schindler, e Broning, 2014), oltre che a una forte relazione tra abuso, esposizione alla violenza in età evolutiva e sviluppo di dipendenze (Douglas et al.; 2010; Dube et al.; 2003).

Anche alcune caratteristiche temperamentali, come la novelty seeking e la reward sensitivity, sembrano maggiormente correlate allo sviluppo di una dipendenza patologica (Christie Hartman et al., 2013).

Inoltre, secondo la prospettiva della Schema Therapy, gli schemi con maggior effect size sono gli schemi di sfiducia/abuso, regole e autodisciplina insufficienti (Shorey et al., 2012). Questi schemi sono spesso associati a un comportamento impulsivo, bassa tolleranza alla frustrazione e a difficoltà nel differire la gratificazione (Shorey et al., 2013).

Obiettivo

L’obiettivo del presente studio è quello di studiare le caratteristiche protettive o favorenti lo sviluppo di dipendenze patologiche. Nello specifico, ci si soffermerà sulla dipendenza da sostanze psicoattive e su quella da alcol.

Metodi

Sarà valutato lo stile di attaccamento, la presenza di esperienze di abuso in età evolutiva, gli schemi prevalenti e il tipo di temperamento dei soggetti coinvolti nel disegno di ricerca. A tal fine, sono stati somministrati i test ASQ, TEC, TCI-R, DAST, C.A.G.E., AUDIT, YSQ – L3

Psicologia clinica, psichiatria, psicofarmacologia. Uno spazio di integrazione (2015) – Recensione

Il volume si configura come uno strumento molto utile per gli studenti in formazione così come per i professionisti che svolgono attività clinica e si trovano a interfacciarsi quotidianamente con la necessità di integrare l’intervento psicologico e l’utilizzo di farmaci, in un’imprescindibile visione integrata del paziente.

Nella prima metà di quest’anno è uscito per le Edizioni Franco Angeli il libro ‘Psicologia clinica, psichiatria, psicofarmacologia. Uno spazio di integrazione’ del Prof. Francesco Rovetto.

Il volume si configura come uno strumento molto utile per gli studenti in formazione così come per i professionisti che svolgono attività clinica e si trovano a interfacciarsi quotidianamente con la necessità di integrare l’intervento psicologico e l’utilizzo di farmaci, in un’imprescindibile visione integrata del paziente.

Il primo capitolo si occupa della diagnosi, con un particolare riguardo per le differenze che sono state introdotte con l’uscita della quinta edizione del DSM (DSM-5; APA, 2013). Con lo stile puntuale ma molto concreto che contraddistingue il Prof. Rovetto, si affronta il tema della diagnosi, della sua utilità e delle attenzioni che è opportuno prestare nell’utilizzo di un sistema nosografico descrittivo, in cui un’etichetta viene accoppiata a una costellazione di sintomi, ma che purtroppo poco ci dice rispetto al funzionamento della persona. A questo scopo, di fianco a questo sistema si presenta una modalità più esplicativa e interpretativa del quadro clinico, forse più utile nella fase di pianificazione del trattamento. Proseguendo, si affronta il tema della diagnosi, sottolineando con l’esempio dell’omosessualità come il senso del normale e del patologico sia cambiato e cambi continuamente, figlio delle scoperte scientifiche da una parte e del contesto culturale dall’altra. Questa prima parte si chiude quindi con un’interessante disamina del DSM-5, focalizzandosi particolarmente su quegli aspetti pratici che interessano il clinico nella sua attività professionale, più che sui cambiamenti di etichetta che si trovano su carta.

Nel secondo capitolo si affronta un tema molto caro agli psicologi, che spesso durante il loro percorso di studi si trovano a conoscere solo marginalmente la questione farmacologica, competenza invece richiesta nella pratica clinica. Infatti, se ovviamente uno psicologo non può prescrivere farmaci, è utile che ne conosca gli effetti diretti e quelli collaterali, che sappia cosa significa assumere una determinata pastiglia e che possa in questo modo aiutare al meglio il paziente e capire in che misura e in che modo una determinata sostanza si integra con il percorso di terapia o consulenza che gli compete. Come giustamente puntualizza l’Autore, anche per chi non può né vuole prescrivere farmaci è importante conoscere le potenzialità del trattamento, gli effetti collaterali, i tempi in cui possiamo attendere gli effetti, i modi in cui un farmaco può aiutare e il vissuto del paziente in merito all’annosa questione “prendere delle medicine per la mente”. Interessantissimo un particolare paragrafo che tratta dei non-psicofarmaci, cioè di tutte quelle medicine che vengono abitualmente utilizzate a scopo psicofarmacologico ma che non rientrano in questa categoria. Tra questi, i Beta bloccanti, che bloccando l’effetto dell’adrenalina sui recettori periferici del corpo mantengono basso il numero di battiti cardiaci anche in situazioni in cui questo tenderebbe ad aumentare (perché facciamo una corsa o perché siamo in ansia).

Il capitolo prosegue poi con un’accurata e attenta classificazione dei diversi psicofarmaci, con informazioni circa il loro funzionamento, la loro utilità nei diversi quadri clinici e l’utilizzo canonico nella pratica clinica. Il tutto è ben integrato da tabelle riassuntive, che ne consentono un veloce e facile utilizzo estemporaneo, e prosegue con un breve capitolo su tutti quei fattori psicologici che possono influenzare la prescrizione o il funzionamento dei farmaci, come la compliance (sottolineando l’importanza della condivisione e non della acritica aderenza del paziente alle prescrizioni del medico), gli effetti collaterali o le credenze esplicite e implicite che il paziente porta con sé e che in alcune situazioni possono paradossalmente impedirgli di stare meglio o allungare il tempo della sua sofferenza.

La seconda sezione del libro descrive e approfondisce le terapie integrate per diversi disturbi di competenza dello psicologo, dall’autismo ai disturbi d’ansia, ai disturbi sessuali e alla dipendenza da sostanze e comportamentale. Questa parte, sicuramente la più estesa del testo, dà un’ottima inquadratura dei diversi disturbi e delle pratiche di intervento, ancora una volta mostrando la praticità del testo e la sua fruibilità nei diversi contesti; inoltre, tutte le descrizioni sono aggiornate sia rispetto alle terminologie e alle definizioni dopo l’uscita del DSM-5, sia rispetto ai cambiamenti dei vecchi disturbi (per esempio, con l’arrivo delle dipendenze comportamentali, che hanno messo in crisi tante strutture deputate alla cura delle dipendenze da sostanze e allo stesso tempo hanno permesso di approfondire i meccanismi psicologici che mantengono questo tipo di difficoltà, se dissociati dalle conseguenze chimiche e fisiche dell’assunzione di una specifica molecola).

Infine, l’autore dedica le ultime 10 pagine del testo alla nascita delle terapie integrate precedentemente proposte, con un breve excursus sulla storia della psichiatria in Italia e sui luoghi deputati alla psichiatria oggi, concludendo con un’analisi chiara e pulita rispetto alle diverse professionalità che si interfacciano nel contesto della salute mentale, dall’assistente sociale all’educatore professionale, al tecnico della riabilitazione psichiatrica.

In sintesi, il volume del Prof. Rovetto si propone come utile strumento sia per chi si sta avvicinando allo studio della psicologia clinica, che per chi lavora in questo ambito. I primi troveranno in questo testo uno sguardo pratico e radicato in anni di professione concreta, attraverso cui imparare a conoscere il materiale di studio. I secondi avranno invece modo di aggiornarsi rispetto alle nuove classificazioni e ai nuovi contesti, sempre tenendo a mente l’importanza di integrare diverse professionalità affinché ne esca un intervento organico che possa aiutare il paziente in difficoltà prima come persona a tutto tondo che come caso clinico diagnosticato.

La depressione maggiore e l’importanza della specificità dei ricordi

Rosina Misasi

 

Depressione maggiore: diverse ricerche condotte su pazienti con disturbo depressivo maggiore hanno permesso di riscontrare, come nel processo di recupero di una memoria, tali pazienti presentino una difficoltà a recuperare ricordi specifici. In particolare è stato messo in luce un vero e proprio fenomeno di ipergeneralizzazione dei ricordi autobiografici chiamato overgeneral memory.

Questo fenomeno, considerato un segno caratteristico della depressione maggiore, sembrerebbe manifestarsi perché questi pazienti presentano alcune caratteristiche che attivano peculiari meccanismi. Tra questi si evidenziano: la presenza massiccia e attiva di auto rappresentazioni connesse a sentimenti, la tendenza alla ruminazione, un controllo esecutivo ridotto, l’evitamento funzionale ed errori di cattura. Ma in cosa consistono e come interagiscono tra loro questi fattori?

Proviamo ad immaginare la memoria autobiografica come composta da conoscenze relative al Sé organizzate secondo tre livelli di specificità. Il livello più alto si riferisce a periodi di vita, il livello intermedio a eventi generali e il livello più basso si riferisce alla conoscenza specifica dell’evento. I periodi di vita e gli eventi generali sono sottoforma di riassunti concettuali relativamente astratti di esperienze, mentre gli eventi specifici constano di aspetti sensoriali e percettivi concreti di eventi unici, che spesso includono un’ immagine visiva piuttosto che riassunti concettuali astratti. Oltre alla struttura appena descritta, nel processo di recupero della memoria, entra in gioco un importante sistema di supervisione, il working self, che si occupa dell’immagazzinamento, dell’organizzazione e del recupero dei ricordi. Il recupero di una memoria può essere generato da due differenti processi: da un processo di recupero generativo o da una forma spontanea di recupero. Quest’ultima si presenta quando uno stimolo interno o ambientale produce l’immediata attivazione di eventi specifici. Nel recupero generativo invece lo stimolo attiva rapidamente o un periodo di vita o un livello di conoscenza di un evento generale, che viene valutato dal working self; successivamente l’attivazione si diffonde dalla rappresentazione di un evento generale a quella di un evento specifico. Ma nel paziente con disturbo depressivo maggiore cosa avviene nel processo di recupero dei ricordi?
E’ stato osservato che alcuni individui che hanno subito un trauma, interrompono il processo di ricerca se la conoscenza episodica tende ad evocare sentimenti altamente negativi. In questi casi, non arrivare al recupero episodico è funzionale (Raes e C., 2003) e viene rinforzato negativamente dal fatto che non si verificano conseguenze avversive attese dall’individuo.

Il modello CaR-FA-X (Williams e C., 2007) ha prove coerenti con quanto appena affermato e suggerisce che questa ricerca interrotta da evitamento funzionale è intensificata dalla “cattura” di strutture concettuali relative al Sé. Di fatto, per accedere a un ricordo specifico il primo stadio di ricerca della memoria usa elaborazioni di natura più concettuale (passaggio obbligatorio) e la predominanza di informazioni concettuali relative al Sé presente nei pazienti depressi, determina un errore di “cattura”. Tale errore è dovuto all’attivazione di materiale di compito irrilevante. Invece di continuare a cercare dettagli sensorio-percettivi appropriati (che porterebbero al ricordo dell’evento specifico) questi soggetti recuperano erroneamente conoscenza concettuale relativa al proprio Sé, ottenendo un aumento di risposte categoriali associate alla depressione.

Contribuisce ad aggravare ulteriormente la situazione la ruminazione, che conduce all’attivazione di tali rappresentazioni mentali generalizzate (Nolen-Hoeksema, 1991). Infatti, partendo dalla premessa che l’ipergeneralità si presenta in risposta sia a stimoli positivi che negativi Crane (2007) ha ipotizzato che una parola stimolo positiva potrebbe segnalare, ad una persona depressa, l’assenza di uno stato personalmente significativo e, a sua volta, attivare ulteriore ruminazione. È veramente difficile inibire risposte ruminative abituali quando ci sono rappresentazioni concettuali altamente elaborate del Sé che sono prontamente disponibili e alle quali bisogna accedere come primo stadio del processo di ricerca della memoria. Contestualmente, una ridotta capacità esecutiva e un diminuito controllo cognitivo, peggioreranno la tendenza ad essere “catturati” da queste rappresentazioni del Sé astratte e concettuali. Con quale esito? L’elaborazione strategica orientata a un compito diminuisce e il recupero è “dirottato” da materiali irrilevanti.

Uno dei tanti motivi che porta a considerare con attenzione il fenomeno dell’ipergeneralità dei ricordi è che, modificando in pazienti depressi questa tendenza ad essere ipergenerali, la persistenza del disturbo depressivo si riduce (Serrano, Latorre, Gats e Rodriguez, 2004).
In generale, i dati presi in esame lasciano supporre che ad essere importante per la salute fisica e psicologica non è solo cosa un individuo ricorda ma anche il modo in cui lo ricorda. Anche se si cerca di evitare il ricordo a livello esplicito la memoria implicita rimane ben conservata e di conseguenza fonte di sofferenza per il paziente. In particolare è stato possibile osservare come la specificità della memoria può essere influenzata da numerose variabili psicologiche e può influenzare tali variabili.

Inoltre, è stato messo in luce come l’accesso aumentato a informazioni concettuali relative al Sé e la ruminazione siano centrali nell’ostacolare il recupero di memorie specifiche e nel mantenimento del disturbo depressivo. La ricerca di Crane (2007) è un esempio relativamente forte della relazione fra difficoltà a recuperare ricordi specifici, auto rappresentazioni connesse a sentimenti, ruminazione e mantenimento del disturbo depressivo. Ciò che si evince è che i fenomeni presi in esame, evitamento funzionale, “cattura” e ruminazione, controllo esecutivo, interagiscono tra loro con la conseguenza che un controllo esecutivo ridotto fallisce nell’inibire le informazioni irrilevanti e il recupero del ricordo viene “dirottato” da questo materiale. Tuttavia, grazie al lavoro di Serrano, Latorre, Gats e Rodriguez (2004) oggi abbiamo una prova che la memoria ipergenerale, è un importante fattore causale nel mantenere la depressione e che modificarlo può avere conseguenze benefiche riducendo depressione e disperazione.

So quel che fai: il cervello che agisce e i neuroni specchio di Rizzolatti e Sinigaglia – Recensione

Sophia Nasuf, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il libro di Rizzolatti e Sinigaglia descrive le numerose ricerche compiute presso l’Università di Parma. La straordinaria scoperta dei neuroni specchio ha dato inizio a un nuovo modo di vedere il comportamento umano, l’intelligenza, il pensiero e le emozioni.

La premessa inizia con una citazione di Peter Brook che ha affermato come tale scoperta abbia dato prova scientifica di ciò che il teatro sapeva da tempo, a dimostrare quanto questi studi non siano poi così lontani ma, in fondo, potenzialmente alla portata di molti studiosi di varie discipline. Questi studi hanno infatti catturato l’attenzione di studiosi di psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia ecc. Non tutti però conoscono nei particolari la storia di questa scoperta e questo libro ha il merito di raccontarla e di spiegare come funziona il nostro cervello. Partendo dal semplice gesto di prendere una tazzina da caffè spiega come funziona il sistema motorio e cosa accade quando si decide di compiere un’azione. Infatti, anche se non ne siamo consapevoli, quando stiamo per afferrare un oggetto la nostra mano inizia a prepararsi per poterlo prendere, le dita e il palmo della mano si prefigurano per adattarsi al peso, alla forma e al materiale di cui è fatto l’oggetto. Appena si raggiunge la tazzina la mano riceve le informazioni dai recettori della cute, dai muscoli e dalle articolazioni che le permettono di perfezionare la presa e portare la tazzina alla bocca. Per molto tempo si è pensato che i fenomeni sensoriali, percettivi e motori fossero suddivisi in distinte aree corticali: le aree sensoriali visive nel lobo occipitale, somatosensoriali nella circonvoluzione postcentrale, uditive nella circonvoluzione temporale superiore ecc.. e dall’altro le aree motorie nella parte posteriore del lobo frontale.

Tra queste due aree vi sono le aree associative che hanno la funzione di integrare le informazioni provenienti dalle due aree e per poter mettere in atto l’azione. In seguito si è cominciato a comprendere che “il sistema motorio non è solo connesso alle aree corticali responsabili delle attività cerebrali coinvolte in pensieri e sensazioni, ma possiede molteplici funzioni, le quali non sono riconducibili nel quadro di una mappa unitaria puramente esecutiva” (“So quel che fai, p.11 Rizzolatti, Sinigaglia). Le ricerche compiute negli ultimi anni hanno portato alla conclusione che la suddivisione della corteccia motoria nelle aree MI e SMA è troppo semplicistica. Infatti la corteccia motoria risulta formata da molteplici regioni diverse. L’uso di tecniche elettrofisiologiche sofisticate che prevedono l’inserimento di microelettrodi capaci di stimolare piccoli gruppi di neuroni di proiezione, ossia microstimolazione intracorticale, ha infatti permesso di vedere come la corteccia motoria contenga una grande molteplicità di mappe funzionalmente distinte e localizzate nelle aree anatomiche delle regioni mesiale, dorsale, ventrale.

Il modello dell’Homunculus motorio di Wilder Penfield, per tanto tempo punto fermo della neurologia, appare quindi notevolmente superato. Ritornando ora alla tazzina da caffè, per prendere un oggetto sono necessari due processi correlati, ossia raggiungere ed afferrare. Anche se il pensiero comune è che il raggiungere preceda l’ afferrare non è così, infatti la registrazione dei movimenti della mano e del braccio ha dimostrato che sono due processi paralleli. Afferrare richiede l’attivazione della corteccia motoria primaria F1, infatti lesioni di quest’area causano mancanza di forza, flaccidità e l’incapacità di muovere le dita in modo indipendente. F1 però non avendo accesso diretto all’area visiva, necessita dell’area F5 che contiene rappresentazioni motorie della mano e della bocca, che sono in parte sovrapposte. La maggior parte dei neuroni di quest’area codifica atti motori, ossia movimenti coordinati da un fine specifico (Rizzolatti, Gentilucci, 1988; Rizzolatti et al.,1988). Gran parte dei neuroni F5 si attivano infatti quando la scimmia afferra un pezzo di cibo con la mano o con la bocca, compiendo quindi un atto motorio.

Molti neuroni F5, indipendentemente dalla classe di appartenenza, codifica il tipo di conformazione che deve avere la mano per compiere un’ azione, presa di precisione o afferrare. Un’ulteriore prova che i neuroni F5 si attivano durante gli atti motori è che a prescindere dalla loro specificità per i diversi tipi di presa la loro attivazione varia in relazione alle differenti fasi dell’atto motorio. Vi sono neuroni che si attivano quando la scimmia usa la “presa di precisione” e altri che si attivano quando afferra oggetti di media taglia con tutte le dita. Sin dai primi studi è emerso che una parte di neuroni F5 risponde in modo selettivo a stimoli visivi; nell’esperimento condotto da Akira Murata e colleghi (Murata et al., 1997. Rizzolati et al.,2000; Gallese, 2000) è stato indagata a fondo la funzione visuo-motoria dei neuroni F5, portando quindi ad ipotizzare che le risposte visive sarebbero l’espressione di un ‘intenzione della scimmia di prendere un oggetto. La corteccia ventrale premotoria è formata oltre che dall’area F5 anche dall’area F4, che occupa l’area dorso-caudale ricevendo afferenze dall’area intraparietale ventrale (VIP). Da esperimenti di microstimolazione è stato dimostrato che in F4 sono presenti movimenti del collo, della bocca e del braccio ed è emerso che la maggior parte di questi neuroni si attiva sia durante l’esecuzione di atti motori sia a stimoli sensoriali. In seguito a tale scoperta sono stati distinti due gruppi di neuroni: solo somatosensoriali e somatosensoriali e visivi o neuroni bimodali.

Recentemente sono stati individuati anche neuroni trimodali capaci di rispondere a somatosensoriali visivi e uditivi (Graziano et al., 1999). La maggior parte dei neuroni somatosensoriali di F4 viene attivata da stimoli tattili superficiali e i loro campi recettivi sono abbastanza ampi e localizzati sulla faccia, sul collo, sulle braccia e sulle mani. I neuroni bimodali hanno caratteristiche somatosensoriali simili a quelle dei neuroni somatosensoriali puri, vengono però attivati da stimoli anche visivi in particolare da oggetti tridimensionali e stimoli in movimento.

[blockquote style=”1″]La scoperta più sorprendendente che riguarda l’area F4 è stata che i campi recettivi visivi della maggior parte dei neuroni bimodali restano ancorati ai rispettivi campi recettivi somatosensoriali e risultano pertanto indipendenti dalla direzione dello sguardo [/blockquote](Gentilucci et al.,1983; Fogassi et al., 1996a, b.).

Dall’analisi delle proprietà funzionali dei neuroni F5 è emerso che molti si attivano durante gli atti motori e a causa delle loro caratteristiche inizialmente, negli anni trenta, vennero chiamati neuroni canonici. Nelle prime situazioni sperimentali degli anni novanta le scimmie venivano lasciate agire liberamente e si è visto che nella convessità corticale F5 erano presenti neuroni che si attivavano sia quando la scimmia effettuava un’azione sia quando osservava lo sperimentatore compiere quell’azione. Questi sono stati chiamati neurons mirror, neuroni specchio. Per quanto riguarda le proprietà motorie i neuroni specchio sono indistinguibili dagli altri neuroni F5, la situazione cambia invece per quanto concerne le capacità visive , infatti i neuroni specchio rispondono alla presentazione dello stimolo visivo (es. cibo per la scimmia). La loro attivazione dipende dall’osservazione da parte della scimmia di determinate azioni compiute dallo sperimentatore che comportano un’ interazione effettore mano o bocca-oggetto.

Assumendo come criterio l’atto motorio codificato visivamente si possono suddividere in “neuroni-specchio-afferrare”, “neuroni -specchio-tenere”, “neuroni-specchio-collocare” quando la scimmia guarda lo sperimentatore mettere un oggetto su un supporto, “neuroni-specchio-interagire-con-le-mani” che si attivano alla vista di una mano che si muove verso l’altra e mentre quest’ultima sta tenendo un oggetto. La loro funzione ad un esame superficiale porterebbe ad una preparazione ad agire per poi compiere la stessa azione ma se così fosse sarebbe simile a quei neuroni preparatori ampiamente diffusi nella corteccia premotoria. Un’interpretazione più sofisticata è quella di Marc Jeannerod (Jeannerod, 1994) in un articolo sull’analisi dell’immaginazione di tipo motorio, motor imagery).

Jeannerod porta come esempio un allievo che osserva il maestro eseguire un passaggio complesso al violino. Secondo la sua ipotesi i neuroni responsabili di immagini motorie sarebbero gli stessi che si attivano durante la preparazione e la pianificazione dell’allievo della propria esecuzione. Pur apprezzando la ricerca di Jeannerod secondo Rizzolatti è comunque riduttivo affermare che la funzione primaria dei neuroni specchio sia legata a comportamenti imitativi. La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha suggerito l’ipotesi che anche nell’uomo potesse esistere un’area cerebrale simile. Attraverso gli studi di elettroencefalografia (EEG) già negli anni cinquanta sono state rilevate evidenze indirette di un meccanismo specchio anche nell’uomo. La prova dell’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo si deve agli studi di stimolazione magnetica transcranica (TMS). La TMS è una tecnica non invasiva di stimolazione del sistema nervoso, quando la corteccia motoria viene colpita con un’ intensità appropriata da uno stimolo magnetico è possibile registrare i potenziali motori, motor evoked potential MEP, nei muscoli controlaterali.

Luciano Fadiga e colleghi (Fadiga et al.,1995, Maeda et al.,2002), hanno registrato i MEP, attraverso la stimolazione della corteccia motoria sinistra, nei muscoli della mano e del braccio destro in soggetti che osservavano lo sperimentatore compiere un’azione come afferrare un oggetto. Il risultato è stato che i muscoli del braccio e della mano dei soggetti venivano attivati durante l’osservazione, mentre un altro sorprendente risultato è stato che l’attivazione aumenta notevolmente durante l’osservazione di atti intransitivi, non diretti verso un oggetto. Una differenza nell’uomo, rispetto alla scimmia, è che i neuroni specchio hanno anche la capacità di codificare e attribuire uno scopo all’azione osservata. Sin dalla loro scoperta ci si è chiesti se potessero essere alla base del comportamento imitativo, come è noto l’imitazione è la capacità di riprodurre un’azione nei dettagli dopo averla osservata e aver quindi appreso un pattern d’azione nuovo (Byrne, 1995; Tomasello, Call, 1997; Visalberghi, Fragaszy, 2002).

Secondo il modello che ha preso piede negli ultimi anni, grazie alle ricerche di Wolfang Prinz e collaboratori, l’azione osservata e quella eseguita condividono lo stesso codice neurale. Essi si rifanno al concetto di “azione ideomotoria” di Hermann Lotze, poi ripresa da William James (Lotze, 1852; James, 1890), poi estesa al principio di “compatibilità ideomotoria” dello psicologo Anthony G.Greenwald. Secondo questo principio più un atto percepito assomiglia ad uno presente nel patrimonio motorio dell’osservatore più tende a indurne l’esecuzione: percezione ed esecuzione delle azioni debbono possedere uno schema rappresentazionale comune (“So quel che fai”p.137 Rizzolatti, Sinigaglia).

La scoperta dei neuroni specchio ha dato un notevole apporto allo studio delle emozioni e in particolare al riconoscimento delle espressioni facciali. Prendiamo ad esempio un’emozione primaria come il disgusto, la sua forma primitiva è legata all’ingerire, annusare o assaggiare il cibo, costituita quindi da movimenti delle labbra, della bocca, dall’arricciare il naso e talvolta da nausea e vomito (Rozin et al., 2000). Numerosi studi condotti negli ultimi anni hanno consentito di individuare le aree cerebrali coinvolte nelle reazioni di disgusto. Tra queste un ruolo importante appartiene al lobo dell’insula. Da tempo è noto che non si tratta di un’area omogenea, nella scimmia è divisa in tre zone citoarchitettoniche: insula agranulare, disagranulare e granulare. La regione anteriore è connessa con i centri olfattivi e gustativi e riceve informazioni dalla regione anteriore della parete ventrale del solco temporale superiore (STS), in cui molti neuroni rispondono alla vista delle facce.

Nell’uomo l’insula è più grande che nella scimmia ma è molto simile. Andrew J. Calder e colleghi riportano il caso di un paziente (NK) che in seguito ad un’emorragia cerebrale, presentando gravi danni all’insula sinistra e alle strutture circostanti non era più in grado di riconoscere l’espressione di disgusto. Inoltre il danno cerebrale aveva causato un’incapacità anche a livello uditivo di riconoscere i suoni legati a tale emozione (il vomito), non era quindi in grado di provare e riconoscere il disgusto. Il riconoscimento di tutte le altre emozioni invece non presentava alcun deficit. L’osservazione di un volto che esprime un’emozione va quindi ad attivare i neuroni specchio della corteccia premotoria. Quest’area poi invia alle aree somatosensoriali e all’insula una copia efferente (del loro pattern di attivazione), simile a quello che inviano quando è l’osservatore a provare quell’emozione. Il riconoscimento delle emozioni sui volti degli altri, attraverso il meccanismo dei neuroni specchio, rappresenta il prerequisito indispensabile per la messa in atto del comportamento empatico che è alla base dell’interazione tra gli individui. La spiegazione del meccanismo dei neuroni specchio ha dato una base comune per riprendere ad indagare la natura dei comportamenti e delle relazioni sociali e interpersonali.

E’ tutta colpa tua! La solitudine con induzione di colpa morale nell’altro – Tracce del tradimento Nr. 34

TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXIV. È tutta colpa tua! La solitudine con induzione di colpa morale nell’altro

 

Alcune persone non desiderano prendersi la responsabilità della scelta della separazione e il cercare tracce ha lo scopo principale di mettere l’altro nella situazione di colpa morale. Questo fa sì che l’innocente si senta in colpa e il colpevole innocente.

La persona cercatrice di tracce ha chiaro che il suo rapporto potrebbe essere stabile, il marito fedele, il progetto certo, ma dubita di se stessa. Queste persone tradiscono perché poco conoscono e sanno di relazioni affettive di fiducia condivisa. Esse dubitano sostanzialmente del bene in generale e del bene negli altri. Il timore del sentimento di colpa che proverebbe a lasciare il suo uomo e delle incertezze che dovrebbe affrontare da sola, le fa preferire di gran lunga il ruolo di tradita che permetta un abbandono vittimistico e senza colpa e senza rimproveri. La situazione ideale che si può offrire a questa persona è, da parte dell’amante, un gesto che porti al disvelamento, una lettera, una telefonata. Questi cercatori sono molto meticolosi perché la ricerca di tracce ha lo scopo di liberarsi di una relazione che non si sa e non si vuole in fondo portare avanti. E’ come se si mettessero a collezionare ipotesi di tradimento che, anche se confermate in forma minima, possano consentire un allontanamento, in fondo desiderato da sempre.
In questa variante del cercatore la rabbia non è necessaria, l’unico sentimento necessario è la certezza della propria innocenza e la certezza della colpa altrui. Di fronte a una traccia ci si sente finalmente di fronte a qualcosa di certo, di prevedibile e l’analisi delle conseguenza non prevede mai di chiedersi quale sia stata la nostra parte, la nostra responsabilità, la nostra complicità in quello che sta accadendo.

È interessante la modalità univoca e inflessibile di ragionare. Di fronte al problema esiste sempre una e una sola soluzione che non lascia spazio di solito a una messa in discussione personale e privata ma si cercano sempre e soltanto le colpe dell’altro. Finalmente contenta, trionfante, la persona ferita può aspettare il compagno con in mano l’oggetto, la traccia, il segreto disvelato che le porterà la libertà e chiudere in modo impietoso, non nascondendo una certa soddisfazione a osservare lo sconcerto, il dolore, la paura, i vani combattimenti per restare della persona che ha accanto.
Spesso il coniuge non ha o non aveva nessuna intenzione di chiudere, di lasciare andare, non desiderava che la storia si chiudesse, ma di fronte ad un disvelamento di questa portata, a un tale torto, a una tale colpa, ha vergogna, si sente crudele e indegno, rinuncia a combattere e mesto si allontana.

Lo scopo portato avanti da questi cercatori non è riparare un torto subito, ma di essere di nuovo soli senza addossarsi la responsabilità della scelta. In realtà questi cercatori di tracce con lo scopo di rimanere da soli presentano più di altri aspetti relazionali che sono proprio l’addossare la colpa di un desiderio di separazione, all’altro. L’altro cade ingenuamente in una trappola. Fa realmente un tradimento oppure basta che alluda a un tradimento possibile e il coniuge, con grande soddisfazione ha il permesso di sfilarsi dalla relazione. Ma qual è il beneficio? Perché non dichiarare semplicemente che si vuole chiudere un rapporto?

Il beneficio di non prendere la responsabilità e lasciare all’altro tutte le colpe è uno scopo di controllo. E di autostima. L’altro è del tutto cattivo e colpevole, è stato ingiusto, noi siamo buoni, giusti e di maggior valore. Servono delle credenze sulla cattiveria e sulla bontà, sulla responsabilità e sull’innocenza, delle sofferenze indotte e delle sofferenze subite dall’altro. Non si ha la capacità di accettare la responsabilità di procurare dolore ad un altro per un proprio desiderio, una propria scelta. Non si vuole pagare la propria libertà con la coscienza di averlo scelto e di fare soffrire l’altro.
Questa posizione è illusoria ma queste persone possono vivere e crederci anche per lunghi periodi se non per sempre. L’illusione di essere vittime di una situazione ingiusta ci mette a credito e mette gli altri in debito, ottima posizione per qualsiasi trattativa, e lo scopo cinico, anche se non sempre consapevolmente cinico è avvantaggiarsi nelle trattative presenti e future. Queste persone si vedono spesso scarsamente amabili e hanno poca fiducia nel genere umano. In realtà sono sole e profondamente danneggiate. Ma aggiungono a questo una certa soddisfazione strategica a mettere gli altri in posizione di debolezza, con lo scopo di aumentare la propria posizione di forza. Questi sono i casi più gravi perché si accompagnano a cinismo nelle relazioni affettive e a comportamenti spesso ostili per il partner, definiti perennemente come esclusivamente difensivi.

Brunello era cresciuto in una famiglia molto danneggiata, il padre era alcolista e scarsamente presente, quando era presente spesso ipercritico. La madre una donna malinconica e assente, affettivamente poco competente e emotivamente assente, perennemente preoccupata soltanto di organizzare canaste con le amiche. Brunello era cresciuto solitario e poco capace di intrattenere relazioni ma molto competente professionalmente. Tutto il suo interesse era per il lavoro di matematico in una azienda informatica. Verso i trenta anni aveva incontrato, si potrebbe dire era stato incontrato da una ragazza allegra e molto carina, segretaria del suo capo, che si era innamorata di lui. Lo trovava misterioso e apprezzava certi suoi modi di fare burberi e chiusi e brontoloni, che le sembravano segni di intelligenza e profondità. Il fidanzamento era stato per lui una esperienza abbastanza preoccupante e piena di pensieri ansiosi, non conosceva questa ragazza, non si fidava molto, e poi l’intimità era preoccupante e lo distraeva dalle sue occupazioni preferite.

Ma lei, ostinata si era avvicinata sempre più fino a convincerlo a tentare una convivenza. Questa situazione era stata da lui vissuta in modo orrorifico. Non aveva idea di cosa significasse l’allegria della condivisione e soprattutto aveva cominciato a dubitare in modo ossessivo della fedeltà di lei. I brontolamenti erano diventati rimproveri e poi aperte e continue accuse. Una volta aveva rubato la password di lei e aveva trovato delle mail che lei si scambiava con un collega e che commentavano in modo ironico certe sue abitudini e la sua solitudine, c’era poi una frase “e con te le cose erano diverse” che lo rese certo di un tradimento passato e così potenzialmente ripetibile da lei. Si arrabbiò in modo feroce e gelido e al ritorno di lei dal lavoro, la accusò di tutto e della sua malafede, della sua posizione di donna poco seria, della sua fondamentale disonestà. La picchiò anche, ma smise a un certo punto perché gli sembrò che le botte fossero una comunicazione esageratamente intima. E così smise. E finalmente lei uscì di casa con la certezza della fine della storia ma anche con la percezione di essersi messa in condizioni pericolose e di aver corso dei rischi. Brunello era rimasto in casa rabbioso verso di lei ma felice di avere riconquistato quella tranquilla solitudine che sola gli permetteva di stare a fare i suoi calcoli e con il progetto chiaro in mente di non permettere più a nessuno in questo mondo di traditori di rompergli le scatole e pretendere di avvicinarsi a lui per poi fregarlo.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Le abilità attentive di base e processamento e regolazione delle emozioni

Una delle prime lezioni che si imparano a scuola di psicoterapia è che l’attenzione, uno dei processi cognitivi di psicologia generale per eccellenza, gioca un ruolo rilevante nella paura e nell’ansia. L’attenzione selettiva è uno dei maggiori bias cognitivi che autoalimentano l’ansia.

Uno studio ha voluto verificare se un semplice training mediante computer che richiede ai soggetti di ignorare le informazioni irrilevanti potesse in qualche modo modificare l’attivazione (o meglio l’iper-attivazione) dei circuiti cerebrali a fotografie minacciose, e quindi la reattività emotiva a livello cerebrale. Un gruppo di soggetti è stato sottoposto a un training attentivo di controllo esecutivo in cui veniva loro chiesto di identificare -il più velocemente possibile- la direzione di una freccia posta al centro dello schermo, ignorando la direzione di altre frecce adiacenti ad essa.

Il campione ha eseguito per metà una versione più intensa del training, mentre l’altra metà è stata sottoposta a una versione più “light” e di minore difficoltà. Per tutti i soggetti il training è stato effettuato tre volte al giorno (15 minuti per ciascuna sessione) per un totale di sei giorni.
Per valutare la reattività emotiva è stato utilizzato un test che richiedeva ai partecipanti di riconoscere i colori di un quadrato preceduto da un’immagine neutra o inducente paura. Generalmente il riconoscimento del colore avviene più lentamente quando il quadrato è preceduto da un’immagine emotigena rispetto a un’immagine neutra.

E come pre e post-assessment del training attentivo, i ricercatori hanno sottoposto i soggetti a risonanza magnetica funzionale mentre eseguivano il test per la misurazione della reattività emotiva sopra descritto.
Dunque i partecipanti sottoposti alla versione piu intensa del traning attentivo hanno mostrato una ridotta attivazione dell’amigdala nel post-assessment rispetto al pre-assessment e rispetto al gruppo di controllo (che ha eseguito una versione meno intensa del training). E la minore attivazione dell’amigdala è correlata in questi soggetti alla performance nel task di reattività emotiva, ovvero a minori tempi di reazione di riconoscimento del colore quando seguito da immagini emotigene.

Seppur con i limiti legati a un campione ridotto in numerosità, non patologico, e con assenza di misure degli effetti a lungo termine, questo studio avanza evidenze preliminari per cui esercizi che migliorano in generale le abilità attentive di base – non specificamente legate a stimoli e processi emotivi, come la capacità di ignorare stimoli irrilevanti – possono modificare i circuiti cerebrali coinvolti nel processamento e regolazione delle emozioni.

Il linguaggio universale secondo Noam Chomsky – Introduzione alla Psicologia

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 36) Una rubrica realizzata in collaborazione con la Sigmund Freud University di Milano

 

Noam Chomsky nel 1965 sviluppa una teoria basta sull’ acquisizione e produzione del linguaggio che permette di spiegare quali sono le regole che portano il bambino a produrre linguaggio.

Egli ipotizzò l’esistenza, in ciascun individuo, di un dispositivo innato imputato all’ acquisizione del linguaggio (Language Acquisition Device – LAD). Si tratta di un programma biologico, congenito, utilizzato per apprendere la lingua. Esso è formato da una serie di competenze e abilità comuni a tutte le lingue naturali, che costituiscono le abilità di base, in grado di facilitare l’acquisizione e l’apprendimento del linguaggio. Il LAD, insomma, è l’insieme di una serie di regole grammaticali che inducono la persona a generare infinite frasi attraverso un numero finito di parole acquisite con l’esperienza. Le frasi sono costruite attraverso queste regole innate che facilitano l’apprendimento della lingua utilizzando delle semplici strutture grammaticali che portano, col passare del tempo, a costruire frasi strutturalmente più complesse.

L’ acquisizione del linguaggio, dunque, secondo Chomsky non avviene per imitazione del linguaggio adulto, ma è un processo attivo che parte da un pacchetto di conoscenze innate utilizzate dalla persona per apprendere delle regole grammaticali, verificate successivamente con la pratica.

Quindi, ogni individuo possiede un bagaglio all’interno del quale sono presenti un insieme di regole logiche e grammaticali generali che permettono non solo l’ acquisizione, ma anche la produzione del linguaggio, inteso come frasi e poi come discorsi strutturati.

Succede che con lo sviluppo fisico e cognitivo, il bambino è in grado di riprodurre frasi ascoltate che può sottoporre anche al giudizio della critica, ovvero decidere la correttezza grammaticale delle stesse. Inoltre, è in grado di comprendere discorsi sempre più complessi e di produrne di nuovi con l’ausilio non solo di frase già sentite, ma utilizzando delle nuove prodotte in maniera autonoma.

 

Il linguaggio universale: la competenza

Chomski definisce competenza linguistica l’insieme di strutture e processi mentali che rendono possibile la produzione del linguaggio. Si tratta di regole innate appartenenti alla grammatica universale, in base alle quali si è in grado di distinguere frasi grammaticalmente corrette da frasi che non lo sono. Questa competenza, inoltre, permette di comprendere frasi mai udite grazie a una serie di regole sintattiche, morfologiche e semantiche già presenti in noi dalla nascita.

 

La struttura superficiale e la struttura profonda del linguaggio

Chomski, nella sua teoria sull’ acquisizione del linguaggio, distingue una struttura superficiale della lingua, la quale è costituita dal segnale fisico, il suono della parola emessa o udita, e una struttura profonda, la quale è in grado di riprodurre la struttura superficiale grazie a una serie di trasformazioni applicate, quali la combinazioni, la cancellazioni, la fonologia, e la pronuncia.

La struttura profonda può contenere elementi grammaticali assenti in quella superficiale. Per esempio il suono della parola ‘compri’ rappresenta la struttura superficiale, mentre le procedure che portano alla riproduzione vocale della stessa rappresentano la struttura profonda. Nel caso dell’esempio la parola può essere corredata dall’elemento ‘tu’ che definisce e completa la parola stessa.

Negli anni successivi, Chomsky abbandona questa distinzione tra superficiale e profonda, poiché li considerava dei termini che potevano trarre in inganno e si addicevano poco a dei processi di acquisizione linguistica, perché troppo superficiali e metafisici. In realtà, pensare alla presenza di due strutture aiuta e facilita l’apprendimento sintattico che regola la produzione delle frasi.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Trauma e alessitimia: studio sperimentale sulla popolazione aquilana – Dal Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Trauma e alessitimia: studio sperimentale sulla popolazione aquilana

Giada Costantini, Giuseppe Curcio

Università degli studi dell’Aquila

 

Con il termine “alessitimia”, che letteralmente significa “non avere le parole per le emozioni”, si indica un insieme di deficit della sensibilità emotiva e emozionale, palesato dall’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri o gli altrui stati emotivi. Per diversi autori, una delle funzioni dell’alessitimia è costituita dell’evitamento degli affetti dovuto ad una difficoltà di elaborazione cognitiva degli stessi (Caretti e La Barbera, 2005).

Krystal (2007) ha suggerito che l’alessitimia può svilupparsi in risposta a traumi estremi per proteggere gli individui dall’esperire affetti estremamente dolorosi: disturbi dell’espressione e delle esperienze emotive sono spesso presenti nei pazienti che hanno sviluppato un disturbo post-traumatico da stress. In breve tempo, infatti, dopo essere stati esposti a un evento traumatico estremo, questi pazienti possono cominciare a sperimentare uno sconvolgimento delle esperienze emotive: se da un lato possono sperimentare stati emotivi intensi correlati al trauma, dall’altro è frequente che i soggetti sviluppino nel tempo una marcata riduzione della capacità di provare emozioni, di entità variabile, fino ad arrivare a una vera e propria “anestesia emozionale” (Stone AM, 1993).

Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato una forte correlazione tra il disturbo depressivo e quello alessitimico (Havilandet al., 1998; Honkalampiet al., 2000; Honkalampiet al., 2005; Lipsanen, Saarijarvi, Lauerma, 2004; Saarijorvi, Salminen, Toikka, 2001) evidenziando una difficoltà-incapacità della persona depressa di identificare ed esprimere i propri sentimenti.

Partendo da queste premesse teoriche, in una ricerca svolta da alcuni studiosi dell’Università De L’Aquila (citata in Costantini, 2012), si sono valutate le reazioni emotive della popolazione aquilana in seguito al terremoto del 6 aprile 2009. Allo studio hanno partecipato 1710 persone e a ciascun partecipante sono state somministrate le scale TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) per la valutazione dell’alessitimia, e BDI (Beck Depression Inventory) per la valutazione del livello di depressione.

Per leggere l’articolo intero

Adolescenza e devianza, tra analisi scientifica e stigma sociale – L’evoluzione dei contributi psicologici

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 4

Superando le visioni causalistiche che vedono un nesso diretto tra determinate caratteristiche psicologiche e psicopatologiche e comportamento criminale, la psicologia recupera l’importanza delle mediazioni cognitive e interattive e dei significati sociali e simbolici che definiscono le azioni umane. In questo senso, si tenta un superamento delle teorie psicologiche classiche che hanno tentato di spiegare il comportamento criminale e deviante, non senza cadute nel determinismo e nel riduzionismo.

In primis si tenta un superamento delle teorie della personalità, che concepivano la personalità come rigida costellazione di tratti in gran parte immutabili nel tempo e resistenti al cambiamento; inoltre, anche le teorie che propongono come assioma quello basato sulla triangolazione frustrazione-aggressività-criminalità, risultano insufficienti e parziali nell’analisi del comportamento criminale che mostra caratteristiche tutt’altro che lineari e sequenziali.

LEGGI ANCHE: Tra analisi scientifica e stigma sociale – (Parte 1/4)

LEGGI ANCHE: I nuovi approcci di matrice sociologica – (Parte 2/4)

LEGGI ANCHE: Sviluppi nei paradigmi psicopatologici – (Parte 3/4)

Alla luce di queste valutazioni critiche e di fronte alla necessità di sviluppare nuove cornici teoriche per affrontare lo studio dei comportamenti devianti e criminali, a partire dagli anni ’80, emergono nuove prospettive psicologiche e nuove cornici interpretative ricche di concetti innovativi e di grande valore epistemologico.

In ambito comportamentista, si deve ad Albert Bandura (1996) il merito di aver superato le rigide visioni stimolo-risposta e di aver proposto una teoria complessa social-cognitiva del comportamento, della personalità e quindi anche della spiegazione della devianza. I concetti di “determinismo triadico reciproco”, “autoefficacia percepita”, “agency” hanno infatti rappresentato una svolta nella lettura dei comportamenti umani, compresi quelli devianti o problematici. Il concetto di uomo che emerge dalla visione di Bandura è quello di un agente attivo, un essere complesso e competente in grado di agire in maniera attiva sul proprio ambiente sociale.

Per quanto riguarda più strettamente l’analisi della condotta deviante, Bandura (1996) introduce il concetto di “disimpegno morale”, intendendo il complesso di strategie socio-cognitive adottate dagli individui per svincolarsi da responsabilità e giudizi, pur salvaguardando il proprio sistema di valori morali (Caprara e Malagoli Togliatti, 1996; De Leo, 1998; De Leo e Patrizi, 1999; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004); secondo Bandura, infatti, è sostanzialmente in virtù dell’azione di meccanismi interni di autoregolazione che può realizzarsi una forma di disimpegno morale per cui diventa ammissibile una condotta precedentemente riprovata (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995). Un forte e costante utilizzo di questi processi cognitivo-sociali, messi in atto individualmente o in gruppo, sembrano correlati positivamente con un orientamento alla devianza (Bandura, 1996; De Leo, 1998).

Più dettagliatamente, si tratta di [blockquote style=”1″]processi di disattenzione, distorsione, misinterpretazione tramite i quali si può venire a creare una frattura nel pensiero morale e tale da giustificare condotte che di norma sono incompatibili con il proprio codice morale e con il mantenimento della stima di sé[/blockquote] (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995, p. 20).

Bandura sottolinea nella descrizione degli otto meccanismi di disimpegno morale come questi permettano di realizzare un modo di pensare [blockquote style=”1″]che porta a una derubricazione morale del danno prodotto e che giustifica condotte che di norma sono condannate sul piano morale. Si creano le condizioni mentali per agire in contraddizione con il proprio codice morale senza dovervi abdicare[/blockquote] (Caprara e Malagoli Togliatti, 1996, p. 14):
– la giustificazione morale è un tipo di pratica per cui il disimpegno morale opera direttamente sull’interpretazione del comportamento stesso; il comportamento reprensibile e dannoso è reso personalmente e socialmente accettabile dipingendola al servizio di scopi sociali e morali più elevati, in modo tale da poter mantenere un giudizio positivo di sé;
– l’etichettamento eufemistico permette di mascherare attività reprensibili o di conferirvi uno status di rispettabilità;
– il confronto vantaggioso, sfruttando il principio del contrasto, permette di far passare un’azione deplorevole per accettabile o giusta, confrontandola con una ancora più riprovevole;
– il dislocamento della responsabilità permette di zittire le sanzioni interne spostando la fonte di responsabilità da se stessi ad altre persone, solitamente più autorevoli cui non era possibile sottrarsi;
– la diffusione della responsabilità permette di indebolire le sanzioni interne diffondendo la responsabilità ad altri specifici o in senso generale; questa strategia è spesso utilizzata dai gruppi o dalle bande criminali in quanto “se tutti sono responsabili, nessuno lo è veramente” (Bandura, 1996, p. 70)
– la distorsione delle conseguenze agisce ignorando o distorcendo gli effetti delle proprie azioni;
– la deumanizzazione della vittima, infine, funziona attribuendo alla vittima dell’azione reprensibile o violenta assenza di sentimenti o caratteristiche umane o spregevoli, conferendole uno status di inferiorità subumana o bestiale.

Bandura sottolinea inoltre che i diversi meccanismi di disimpegno morale possono facilmente combinarsi insieme, producendo un potenziamento reciproco e non una semplice sommatoria di effetti.

In una ricerca di Caprara, Pastorelli e Bandura (1995), gli autori hanno verificato la validità interna e di costrutto di due scale di misurazione dei meccanismi di disimpegno morale in bambini e adolescenti in correlazione ad altre scale di valutazione della condotta aggressiva e impulsiva; i risultati hanno confermato la validità delle due scale per la misura del disimpegno morale in entrambi i campioni, mostrando forti collegamenti tra disimpegno morale e condotte aggressive. In particolare nel gruppo degli adolescenti, i risultati mostrano una elevata correlazione tra disimpegno morale e atteggiamenti come la tolleranza alla violenza,[blockquote style=”1″] a conferma dell’emergenza di una precisa costellazione mentale che giustifica il ricorso all’aggressione e alla violenza[/blockquote] (ibid., p. 27).

I dati confermano quindi l’impianto teorico di Bandura e permettono di concludere che le forme persistenti di devianza, in particolare in adolescenza, risultano correlate significativamente non solo con un alto livello di disimpegno morale (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995; Caprara e Malagoli Togliatti), ma anche con un basso livello di autoefficacia percepita (De Leo, 1998).

De Leo (1998) concepisce la devianza minorile come una funzione comunicativa articolata e complessa, spiegabile attraverso l’analisi dei sistemi di appartenenza del soggetto (famiglia, gruppo dei pari, istituzioni). Il punto di vista dell’autore abbraccia tutte le più recenti acquisizioni epistemologiche provenienti dalla scuola sistemico-relazionale, interazionista, social-cognitiva, superando definitivamente la visione del comportamento umano come determinato da pressioni fisiche, ambientali, familiari o psicopatologiche. Il fuoco dell’attenzione viene centrato sulle funzioni e sugli effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni, per i sistemi e i soggetti coinvolti.

L’autore definisce la devianza come “azione comunicativa” in quanto capace di richiamare inevitabilmente l’attenzione dei sistemi sociali in cui si verifica, sollecitando risposte di controllo, reazione o disapprovazione e, ricorsivamente, la struttura sociale e i sistemi di controllo rimandano al soggetto che ha commesso l’azione deviante informazioni di ritorno che fungono da feedback e da guida nelle scelte che il soggetto metterà in atto in futuro. Parlare di devianza come di una forma di comunicazione complessa e sfaccettata, significa tenere conto della condizione di coevoluzione e di circolarità interattiva in cui sono coinvolti due sistemi simbolici: un microsistema, ovvero il soggetto che agisce e che invia messaggi precisi (anche se spesso difficili da decifrare), e un macrosistema istituzionale, che risponde con altrettanti messaggi in un processo dinamico e retroattivo. La scelta di una teoria della devianza come comunicazione consente di ottenere un’analisi più complessa delle condotte criminali, in particolar modo di quelle messe in atto da minori in quanto, in età evolutiva, la dimensione comunicativa/espressiva della devianza prevale su quella strumentale (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003):

[blockquote style=”1″]I ragazzi vivono meno la funzione strumentale del loro comportamento, mentre esprimono più bisogni legati all’identità, alle relazioni, ecc. Questo conferisce particolare rilievo ad un approccio della devianza come comunicazione per spiegare e comprendere i comportamenti fuori legge dei giovani come complessa espressione di soggettività in evoluzione e in relazione[/blockquote] (De Leo, 1998, p. 145)

Una prospettiva di questo genere può offrire preziose indicazioni su come analizzare e interpretare non solo azioni francamente criminali, di ampia gravità (come i reati contro la persona) ma anche altre azioni devianti, frequenti e diffuse tra gli adolescenti, che, ad una prima e superficiale analisi, rimangono senza spiegazione oppure sono sbrigativamente relegate nell’ambito della patologia mentale o del disagio psicosociale; ne sono un esempio il vandalismo, il consumo di sostanze psicoattive, le prepotenze in ambito scolastico, gli scontri negli stadi di calcio. Tutte queste azioni portano con sé intrinsecamente significati e valori relazionali, culturali e simbolici che le diverse figure professionali devono impegnarsi a decifrare: potrebbero essere un segnale di disadattamento psicologico, sociale o familiare, ma potrebbero anche, ad un’analisi più profonda, esprimere bisogni maturativi, identitari, affettivi (De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

De Leo propone un ulteriore approfondimento nell’analisi degli effetti comunicativi ed espressivi dell’azione deviante in adolescenza, distinguendo:
– effetti legati all’identità: ogni azione comunica all’autore stesso e agli altri segni e significati relativi alla propria identità in chiave situazionale ed evolutiva;
– effetti relazionali: l’azione contiene messaggi di relazione interpersonale che riguardano sia le persone direttamente coinvolte nell’azione sia, simbolicamente, i propri gruppi di appartenenza;
– effetti legati a regole interpretative dell’azione: l’azione è il risultato di processi interpretativi regolati da codici generalizzati;
– effetti di sviluppo: ogni azione è svolta in un’ottica di mantenimento/cambiamento, esprimendo esigenze di sviluppo e cambiamento in relazione alla personalità dell’autore e/o ai contesti in cui l’azione si colloca (scuola, famiglia, coetanei);
– effetti normativi e di controllo: riguardano il rapporto con le sanzioni, le norme penali e le regole informali. Facendo diretto riferimento al concetto sistemico di “ridondanza”, intesa come strutturazione di significati (De Leo e Mazzei, 1989), De Leo ipotizza quindi che in particolare in adolescenza [blockquote style=”1″]ogni azione contenga ridondanze rispetto all’identità[/blockquote] (1998, p. 154), comunicando segni e significati riguardo l’identità in costruzione.

Questa impostazione teorica ha importanti ricadute anche sul piano metodologico; per analizzare l’azione umana nel suo senso di comunicazione di stati mentali e identitari profondi, risultano infatti inadeguati gli strumenti quantitativi come i questionari. Inoltre, il professionista che si occupa di azioni trasgressive e violente in ambito giudiziario si trova di fronte all’impossibilità di osservare direttamente l’azione in questione, in quanto già avvenuta; egli ha a disposizione resoconti, atti giudiziari, ricostruzioni dei fatti e anamnesi psicologiche avvenute dopo l’azione. Al professionista, soprattutto quando è lo psicologo clinico o forense, si prospetta quindi un lavoro di ricostruzione dell’azione e dei suoi legami complessi con l’autore, la vittima e il contesto attuale e pregresso in cui l’azione stessa ha avuto luogo (De Leo e Malagoli Togliatti, 2000). L’indagine psicologica in questo settore aspira quindi alla conoscenza della verità, pur partendo dal presupposto che il sapere scientifico non è mai possessore della verità assoluta ma in continua tensione verso di essa (Rossi e Zappalà, 2004). Infatti, se il giurista ha il compito di ricostruire la realtà fattuale e oggettiva, per avere la certezza di attribuibilità all’imputato, lo psicologo si pone l’obiettivo di [blockquote style=”1″]ascoltare, comprendere, interpretare sia le parole e la comunicazione che il soggetto va ricostruendo sulla sua azione trasgressiva, sia i significati e i segni che l’azione stessa esprime sul soggetto[/blockquote] (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986, p. 267).

Coerentemente con questa concezione della ricostruzione dell’azione, De Leo, Bosi e Curti Gialdino (1986) propongono uno schema categoriale esplorativo per l’analisi delle funzioni psichiche e comunicative dell’azione violenta in adolescenza. Tale schema scompone ulteriormente l’azione in diverse componenti tra loro correlate e in interazione:
– gli scopi e le intenzioni ai quali l’individuo lega l’azione violenta;
– le regole implicite ed esplicite applicate dall’individuo nel corso della propria azione, con  riferimento al contesto normativo e alla percezione dell’antigiuridicità dell’azione violenta;
– i significati di autorappresentazione assegnati alla propria azione, la forma e il messaggio comunicati attraverso l’azione, la funzione di sviluppo o di passaggio che l’azione assume in senso sia psicologico che relazionale.

Questo schema consente di far emergere operazioni mentali, cognitive, comportamentali utili per la conoscenza dell’azione dal punto di vista sia psicologico che giuridico. Nell’analisi delle azioni violente commesse in maniera specifica da adolescenti sono risultate particolarmente feconde le dimensioni del significato di autorappresentazione e della funzione evolutiva dell’azione, con ricadute preziose anche sul piano del lavoro clinico e riabilitativo (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986). Gli autori confermano quindi che l’azione violenta in adolescenza sia portatrice di una capacità propulsiva di rompere condizioni di staticità e rigidità nel sistema psichico e relazionale dell’adolescente, e di una funzione intrinseca e strategica di realizzare uno sblocco evolutivo (ibid.). La concezione sistemica e costruzionista della devianza come azione comunicativa e portatrice di significati personali, relazionali e sociali complessi ha quindi completamente rivoluzionato il quadro teorico e metodologico riguardo le condotte devianti adolescenziali; tuttavia, da sola, essa non spiega come da una singola azione deviante o trasgressiva si passi ad un vero e proprio stile di vita deviante, caratterizzato non solo da comportamenti trasgressivi e/o criminali, ma anche da un complesso sistema di rappresentazioni di sé e degli altri, di aspettative, di valori e significati. Rimangono quindi non chiarite le modalità e le situazioni attraverso cui avviene il passaggio dalla messa in atto di una singola azione deviante all’acquisizione di uno stile cognitivo, comportamentale e relazionale di tipo deviante o criminale. In particolare in adolescenza infatti, è alquanto probabile e altamente frequente la messa in atto di atti devianti o trasgressivi che assumono inizialmente la forma dell’attività ludica, del piacere della trasgressione, soprattutto se agiti in gruppo, tanto che alcuni autori (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) parlano della presenza di una trasgressione “fisiologica” in adolescenza e quindi funzionale al superamento dei difficili compiti di sviluppo fase-specifici; mentire, disobbedire, saltare la scuola, avere comportamenti sessuali precoci, fare uso di tabacco, alcol o altre sostanze, commettere qualche piccolo furto sarebbero quindi espressione di una trasgressività specifica dell’adolescenza, che non necessariamente si trasforma in azioni criminali vere e proprie, anche se di diversa gravità, e in una identità deviante.

Per sopperire a questa lacuna, De Leo e Patrizi (1999) propongono un modello di analisi centrato sul concetto di “carriera deviante”, che per le sue caratteristiche di sequenzialità e processualità appare particolarmente indicato per l’analisi delle condotte devianti reiterate e recidive. La devianza viene quindi intesa come un percorso, un processo, piuttosto che l’effetto o il prodotto di fattori e cause antecedenti; tale processo presenta, secondo gli autori, un carattere attivo, costruttivo, nel senso che si sviluppa producendo e organizzando connessioni fra dimensioni situazionali, relazionali, simboliche.

De Leo (1998) descrive tre fasi del processo di costruzione e stabilizzazione della carriera deviante. La prima fase viene definita dall’autore come la fase degli antecedenti storici della devianza; si tratta di fattori di varia natura ampiamente evidenziati sia dalle ricerche classiche sulla devianza sia da quelle di nuova generazione, tra cui la deprivazione parentale e/o sociale, carenze infantili, relazioni conflittuali in famiglia, caratteristiche psicopatologiche, isolamento o emarginazione sociale. Un riesame critico di questi fattori, permette di assegnare loro il valore di rischi aspecifici, ovvero di precondizioni che, seppur rintracciabili in molte carriere devianti, rimangono in questa fase aperte ad esiti diversi, di tipo non deviante (Ingrascì e Picozzi, 2002).

La seconda fase, in genere di breve durata, è caratterizzata da una crisi che si manifesta attraverso episodi agiti e percepiti come devianti; si tratta di una fase altamente rischiosa in quanto i rischi possono ora strutturarsi verso una specificità più decisamente improntata alla costruzione di un percorso deviante. Si tratta della fase in cui il contesto socio-istituzionale inizia ad attivare reazioni sanzionatorie alla condotta del soggetto attribuendovi significati negativi; tuttavia De Leo sottolinea che questi processi mantengono ancora in questa fase livelli di flessibilità e apertura verso altre forme ed altri percorsi.

La terza fase è rappresentata da una tendenza dell’individuo e dei contesti in cui egli agisce ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni e per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del processo; se infatti [blockquote style=”1″]la storia antecedente fornisce indicatori complessi e aspecifici, e la fase critica costituisce una sfida intensa ad assumere la forma della devianza, la fase della stabilizzazione, che può risultare tormentata e molto lunga nel tempo, sembra caratterizzata dalla tendenza ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni, per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del percorso, rendendo via via meno probabili alternative alla devianza e aperture verso altri percorsi di vita[/blockquote] (De Leo, 1998).

Il grande merito di questo modello, è quello di valorizzare la funzione attiva svolta dal soggetto che, nel processo di costruzione di sé come deviante, svolge un ruolo attivo di continua riconsiderazione e rielaborazione delle auto ed etero-attribuzioni di significato. Inoltre, in quanto modello di matrice processuale e probabilistica, attribuisce ai fattori di rischio una dimensione di aspecificità e non di causalità lineare. Quest’ultimo aspetto è di notevole rilevanza soprattutto quando l’azione deviante o trasgressiva è messa in atto da minori; considerare il processo di formazione della carriera deviante come un processo che si autodefinisce, si plasma e si dota di significato, pone le basi per un approccio qualitativo e dinamico alla devianza minorile.

De Leo e Patrizi (1999) a questo proposito, sintetizzano alcune tappe del percorso di devianza minorile, intendendole come passaggi da cui estrarre significati e rappresentazioni simboliche riguardo al sé, alle proprie azioni e agli altri osservatori.

L’inizio appare caratterizzato dall’occasione favorevole ad agire in maniera deviante, dalla dimensione comunicativa dell’atto, da vantaggi espressivi legati al sé e alle relazioni significative; l’azione deviante nasce quindi “per caso”, nel senso che non è espressione di pianificazione o di anticipazione intenzionale, bensì si costruisce nella contingenza del presente. In questa fase il gruppo assolve un’importante funzione: è contesto privilegiato di rispecchiamenti reciproci (De Leo e Patrizi, 1999), è un contenitore psichico collettivo che consente lo sviluppo di un senso di identità soggettiva e la definizione dei ruoli sociali e di genere (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004), è una nicchia protettiva fitta di identificazioni reciproche e di possibilità di sperimentazione del sé (Saottini, 1999; Ingrascì e Picozzi, 2002). Ed è nel gruppo che l’implicito diventa esplicito, la fantasia diventa azione, quando le aspettative individuali si incontrano con quelle degli altri orientando verso l’azione. Nella fase iniziale, le motivazioni sottostanti l’azione trasgressiva non sono dunque di natura strumentale ma soprattutto espressiva (De Leo e Patrizi, 1999; De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

La prosecuzione comporta invece la scoperta di vantaggi strumentali: il riconoscimento esterno e di gruppo (aspetto di non poca rilevanza in adolescenza, fase in cui il riconsocimento sociale e la popolarità tra i pari assume grande valore di natura affettiva e identitaria; Cattelino e Bonino, 1999; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), la percezione delle proprie competenze nel settore, la fruizione di vantaggi personali (De Leo e Patrizi, 1999).

Giunti a questa fase, il percorso può prendere due strade diverse: la stabilizzazione o l’interruzione della carriera deviante. Nel primo caso, il ragazzo riconosce e utilizza la devianza nell’agire trasgressivo e sente di non saper far altro; spesso, in questa fase, il soggetto vive parallelamente insuccessi in altre aree di attività, come la scuola, il lavoro, la famiglia, e sente che l’area della devianza è forse l’unica in cui sente e percepisce se stesso come competente e abile. A differenza di altri contesti quindi, la devianza rimanda al soggetto un feedback positivo sul piano dell’autoefficacia e del riconoscimento di sé come persona capace. Nel secondo caso, il ragazzo interrompe la propria carriera deviante, spesso non senza vissuti di problematicità, rispetto alla paura di giudizio morale da parte della comunità, di difficoltà a reinserirsi nella comunità stessa, di esclusione dal gruppo dei pari.

Secondo De Leo e Patrizi (1999) sembra mancare ancora un anello perché le corrispondenze tra attribuzione di personalità deviante, provenienti dall’esterno, e il riconoscimento soggettivo di identità, assuma valore costruttivo di una carriera deviante. Il passaggio da una devianza reiterata alla carriera sembra ricondurre alle funzioni che lo stesso agire deviante assume a due livelli:
– funzioni di mantenimento dell’organizzazione soggettiva e relazionale, come tentativo di riequilibrare l’organizzazione del proprio sé e dei contesti di appartenenza;
– funzioni intrinseche all’azione deviante, con i suoi vantaggi, con le relazioni che attiva, al cui interno il soggetto trova conferma di sé e delle proprie competenze soggettive.

Gli autori avanzano quindi l’ipotesi dell’interazione tra funzioni estrinseche ed intrinseche della devianza, dove [blockquote style=”1″]essa rappresenta un canale comunicativo, nelle prime, e uno strumento di autoefficacia, nelle seconde[/blockquote] (De Leo e Patrizi, 1999, p. 42); questa interazione costituirebbe il tracciato della carriera quale esito di [blockquote style=”1″]un impegno individuale a trovare equilibrio fra vissuti, talvolta preponderanti, di disagio ed esigenze di ricavare un senso di efficacia dalle proprie scelte d’azione[/blockquote] (ibid.). L’ipotesi degli autori sembra essere confermata dalle recenti indagini di Bandura sul senso di autoefficacia che dimostrerebbero un legame tra scarsa autoefficacia e comportamenti antisociali e trasgressivi.

Ad esempio, in una ricerca svolta da Bonino, Cattelino e Ciairano (2003) su un campione di adolescenti di età compresa tra i 14 e i 19 anni, le autrici hanno analizzato la relazione esistente tra autoefficacia e tre categorie di comportamenti devianti (aggressione fisica, furto e vandalismo, bugia e disobbedienza); i risultati hanno dimostrato che tutti i comportamenti devianti suddetti aumentano quando l’adolescente presenta una scarsa autoefficacia regolatoria. Specularmente, l’autoefficacia si dimostra come un fattore di protezione quando si associa a:
– uno stile genitoriale improntato al controllo, alla supervisione ma anche al sostegno e all’ascolto – possibilità di discutere apertamente in famiglia dei propri sentimenti, dubbi e bisogni;
– percezione del proprio successo scolastico e attribuzione di importanza ad esso;
– contenimento da parte del gruppo dei pari;
– un uso costruttivo e progettuale del tempo libero, sia soli che in gruppo.

Inoltre, le autrici sottolineano che, in un’ottica multicausale e interazionista, questi fattori protettivi, quando compresenti, si potenziano a vicenda, in quanto fattori che [blockquote style=”1″]operano in maniera sinergica e non indipendenti dai diversi ambiti di sviluppo in cui si manifestano[/blockquote] (p. 187).

I dati confermerebbero quindi le ipotesi di De Leo e Patrizi, secondo cui la possibilità di affermare i propri bisogni di individuazione e autoaffermazione unitamente a un feedback positivo, proveniente dai diversi contesti di sviluppo, della propria immagine e delle proprie competenze socio- relazionali, svolgerebbero una funzione fortemente protettiva rispetto all’inizio e alla stabilizzazione della carriera deviante.
Il modello della carriera deviante è stato applicato da De Leo (1998) allo studio delle relazioni tra devianza e tossicodipendenza e devianza e relazioni familiari; in entrambi i casi il modello si è rivelato prezioso nel mettere in luce la sequenza di periodi diversi nel tempo nei quali si configura la stabilizzazione della carriera deviante. Le indagini sembrano confermare le potenzialità di un approccio sequenziale, proponendo una serie di fasi ma anche di trame, narrazioni, categorie interne, che possono rappresentare una “mappa” di analisi e studio, utile dal punto di vista sia clinico che della ricerca.

L’adozione di un modello di questo tipo, implica indirettamente l’utilizzo di metodologie diverse da quelle classiche e quantitative; allo scopo di estrapolare le componenti simboliche, ridondanti, comunicative dell’azione deviante e di unificarle in una sequenza di fasi tra loro concatenate, risultano particolarmente adatte metodologie come l’autobiografia e la narrazione che mettono direttamente al centro dell’analisi il Sé, le sue componenti, le sue definizioni e le sue proiezioni nel tempo. Queste metodologie sono coerenti con la recente corrente di pensiero che fa riferimento alla psicologia narrativa di Bruner, secondo cui il Sé è un prodotto della narrazione, che, grazie alle sue caratteristiche di riflessività e ricorsività, si volge al passato e modifica il presente alla luce del futuro.

Le implicazioni che questa prospettiva di mentalizzazione e significazione può avere a proposito della giustizia minorile sono notevoli, in quanto consentirebbe al minore deviante o autore di reato [blockquote style=”1″]la possibilità di narrare il contenuto violento della sua condotta e di ritrovare nel contesto del racconto il significato dell’atto stesso, mettendogli a disposizione gli strumenti per cogliere il ruolo del Sé e dell’Altro[/blockquote] (Rossi, 2004, p. 269). La comprensione profonda dei significati sociali e antigiuridici dell’atto criminale, la tensione all’autoresponsabilizzazione dell’autore e il recupero del ruolo attivo dell’Altro, soprattutto quando è vittima, rappresentano infatti le basi teoriche ed epistemologiche del modello conciliativo e riparativo della giustizia.

Il burnout nei caregivers professionali

Sara Nicoli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La sindrome da burnout viene definita da alcuni autori come lo stress lavorativo specifico delle helping profession, ossia professioni di aiuto che comprendono figure come medici, psicologi, infermieri, insegnanti o assistenti sociali.

 

Lo stato di disagio che porta al Burnout

Lo stato di disagio parte dalla visione dell’utente come di un postulante a cui viene elemosinata una prestazione di aiuto (G. Contessa, 1995). Questa ideologia, ancora molto diffusa in Italia, ha condotto gli operatori del sociale a sviluppare un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei riguardi degli utenti che non hanno poteri e sono identificati come “rappresentanti della malattia”, coloro che chiedono aiuto perché sono in uno stato di inferiorità (Lamanna, 2003). Ma, l’incontro dei bisogni dell’utenza porta l’operatore a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni e le proprie motivazioni. Questo atteggiamento si trasforma gradualmente in un senso di impotenza, disagio che rede l’operatore, vittima del disagio stesso.

 

Sindrome da Burnout: definizione e sintomi

Maslach nel 1982 fornisce una definizione della sindrome da burnout che si esplica in stati di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità verso gli altri, differenziandosi però dalle varie tipologie di nevrosi in quanto disturbo riguardante il ruolo lavorativo.

Queste manifestazioni comportamentali e psicologiche possono essere raggruppate, secondo l’autore, in tre categorie:

  • Esaurimento emotivo: sentirsi emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un aridimento emotivo nel rapporto con gli altri;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento di allontanamento e di rifiuto nel confronto di coloro che ricevono o richiedono la prestazione professionale, il servizio o la cura;
  • Ridotta realizzazione professionale: percezione della propria inadeguatezza al lavoro, caduta dell’autostima e sensazione di insuccesso lavorativo.

Il caregiver colpito da burnout può manifestare inoltre sintomi somatici e l’insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari, difficoltà nella sfera sessuale ecc..) o l’abuso di sostanze (alcool, psicofarmaci ecc..).

 

La fasi del burnout

Maslach descrive inoltre stadi progressivi del disagio che si caratterizzano per un progressivo aumento della demotivazione e frustrazione lavorativa.

La prima fase viene definita entusiasmo idealistico, e si risolve nelle motivazioni che hanno portato gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale sia consce che inconsce. Tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato ed immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status.

Nella fase successiva, quella di stagnazione, l’operatore continua a lavorare ma si rende conto che il lavoro non va a soddisfare del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza, determinando nell’operatore una chiusura verso l’ambiente di lavoro e i colleghi.

Nella terza fase il pensiero dominante del caregiver è di non essere più in grado di aiutare nessuno. Questa fase è la più critica, il vissuto dell’operatore è un vissuto di perdita, svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali in quel momento. Come fattori di frustrazione intervengono inoltre lo scarso apprezzamento dei colleghi e degli utenti nonché una convinzione di un’ inadeguata formazione per il tipo di lavoro scelto. Il soggetto in questa fase può assumere atteggiamenti aggressivi o mettere in atto comportamenti di fuga (frequenti assenze per malattia, allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate).

Il graduale disimpegno emozionale conseguente la frustrazione, con il passaggio dall’empatia all’apatia costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a un’uscita dal mondo professionale prescelto.

Nella concretezza quotidiana, quindi, le capacità personali giocano un ruolo importantissimo almeno quanto le capacità tecnico-professionali. D. Goleman definisce l’intelligenza emotiva come la capacità delle persone di affrontare le difficoltà in modo efficace ed ottimale nelle difficoltà della vita, la possibilità di avere accesso alle proprie emozioni consente infatti all’individuo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo. Tutto ciò nel rapporto medico-paziente consentirebbe al primo di essere empatico e sensibile alle esigenze reali del secondo. Nel burnout emerge la difficoltà nel misurarsi con le proprie emozioni e il non riconoscimento del problema con l’insorgenza di un sentimento di rassegnazione. Questa condizione non rappresenta soltanto un problema dell’individuo ma si propaga in maniera altalenante dall’utenza all’èquipe. L’influenza dello “stress” va ad intaccare quindi il servizio.

 

Il burnout colpisce gli aspetti relazionali

Alcuni studi effettuati su gruppi di operatori all’interno di strutture a lunga degenza, mostrano come il burnout vada a colpire maggiormente gli aspetti relazionali che si riducono ai minimi scambi in funzione dei bisogni strumentali dei singoli pazienti (Cronin-Stubbs, 1985). L’attenzione verso i bisogni individuali del singolo e il mantenimento della privacy e della dignità di quest’ultimo risultano essere fortemente minacciati (Norman, 1987). In particolar modo uno studio longitudinale di Amstrong- Esther & Browne affronta il cambiamento relazionale tra operatori ed assistiti concentrandosi sulla tipologia di ospiti. I dati ripotano una maggiore riduzione di interazione con i pazienti affetti da patologie psico-cognitive (5.6%) rispetto agli altri pazienti (15.6%). Inoltre gli autori riportano anche un maggior grado di inattività dei primi (88,5% del tempo) rispetto a quella dei secondi (30,5%).

 

Prevenzione del burnout

Come prevenire quindi l’insorgenza della sindrome da burnout all’interno dei professionisti della salute? Come migliorare la qualità dei servizi erogati?

Bisognerebbe tener conto delle variabili di tipo psicologico, relazionale ed emotivo all’interno delle attività di aiuto. Prevenire i fallimenti nel campo del lavoro sanitario vorrebbe dire pianificare, analizzare in modo realistico le proprie potenzialità in confronto attivo con gli altri. L’aspetto relazionale con i colleghi è un fattore fondamentale per un significativo incremento delle prestazioni lavorative. L’organizzazione del lavoro d’aiuto dovrebbe prevedere la creazione di un clima lavorativo positivo attraverso l’analisi delle motivazioni e delle prestazioni dell’èquipe e contemporaneamente un attento esame che tenga presenti realtà quali i cambiamenti culturali e strutturali dei servizi, le gerarchie e i relativi ruoli, i poteri e la responsabilità e le competenze e la formazione professionale.

Garantire un clima che sia gratificante per l’operatore significa gestire il suo carico emotivo personale a favore della promozione del benessere psicofisico e delle problematiche relative allo stress lavorativo (Lamanna, 2003). A qualsiasi livello agisca l’operatore esistono strategie di intervento per la prevenzione del burnout. Chermiss ne identifica diverse:

  • Sviluppo dello staff: portare l’operatore ad adottare aspettative più realistiche e obiettivi che forniscano alternative di gratificazione; aiutare gli operatori a sviluppare meccanismi di controllo e feed-back sensibili a vantaggi a breve termine; fornire frequenti possibilità di training per incrementare l’efficienza del ruolo; incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse; fornire consulenza centrata sul lavoro o incontri per gli staff che stanno sperimentando elevati livelli di stress lavorativo;
  • Cambiamenti di lavoro e strutture di ruolo: limitare il numero di pazienti di cui lo staff è responsabile; distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti esigendo il lavoro in più di un programma; utilizzare personale ausiliario; garantire periodi di riposo alla necessità; dare la possibilità ad ogni membro di proporre nuovi programmi; costituire varie fasi di carriera per uno staff;
  • Sviluppo della gestione: creare programmi di training e sviluppo per il personale attuale e futuro che si dedica alla supervisione; creare sistemi di controllo per la supervisione (indagini dello staff, feed-back regolari); controllare la tensione di ruolo nei supervisori;
  • Soluzione del problema organizzativo e modello decisionale: creare meccanismi formali di gruppo per la soluzione del problema organizzativo e la risoluzione del conflitto; organizzare training per la risoluzione del conflitto; accettare l’autonomia dello staff e la partecipazione alle decisioni;
  • Obiettivi del centro e modelli di gestione: rendere gli obiettivi chiari e compatibili per quanto possibile; rendere la formazione e la ricerca i maggiori obiettivi del programma; condividere la responsabilità delle cure e della terapia con i pazienti, le loro famiglie e la comunità.

 

In conclusione, al fine di un efficace prevenzione della sindrome da burnout, possiamo sottolineare l’importanza quindi di un intervento multi-sfaccettato che miri a modificare lo stile organizzativo dello staff e i modelli di gestione di quest’ultimo al fine di arrivare ad avere un maggiore supporto tra i vari operatori e un aumento della qualità del lavoro di tipo assistenziale e della vita stessa del caregiver professionale.

Le aspettative positive dei genitori favoriscono un miglior rendimento scolastico nei figli

Quando i genitori hanno aspettative positive e manifestano speranza riguardo le prestazioni scolastiche dei figli, possiamo averne un riscontro positivo in termini di rendimento nello studio.

Tuttavia avere aspettative, molto elevate e irrealistiche -probabilmente perfezioniste- è assolutamente controproducente, non solo per il benessere psichico dei figli (a breve e lungo termine) ma anche in termini di risultati scolastici concreti.

Un recente studio longitudinale pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology ha analizzato dati raccolti su un vasto campione di studenti e loro genitori delle scuole secondarie di secondo grado della Baviera (Germania).
In particolare i ricercatori si sono focalizzati sui risultati scolastici in matematica e su due variabili genitoriali: l’aspirazione dei genitori (cioè il desiderio che il figlio ottenga un voto specifico nella materia in oggetto di studio) e le aspettative nei confronti del figlio (in che misura ritengono che il figlio otterrà una certa votazione).

Dallo studio è stato riscontrato che un’elevata aspirazione genitoriale facilita il raggiungimento di risultati scolastici positivi, ma soltanto dal momento in cui non superano delle aspettative realistiche. Quando invece le aspirazioni sono di gran lunga maggiori rispetto alle aspettative dei genitori, le performances scolastiche dei figli calano in maniera significativa.
Dunque se studi precedenti sembravano veicolare un messaggio univoco tale per cui grandi aspirazioni dei genitori facilitano rendimenti scolastici positivi, oggi la letteratura recente ci mette in guardia da questa logica semplicistica, suggerendo invece che sono le aspettative realistiche a facilitare il successo, quanto meno in matematica.

Meta-emozioni, credenze sulle emozioni e regolazione emotiva nei disturbi di personalità – Dal Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

 

META-EMOZIONI, CREDENZE SULLE EMOZIONI E REGOLAZIONE EMOTIVA NEI DISTURBI DI PERSONALITÀ

R. Bedini, A. Brugnoni, S. Giuri, C. Manfredi, A. Mannarino

 

Il presente studio si pone l’obiettivo di indagare il costrutto di meta-emozione in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità, per poter meglio comprendere come la reazione emotiva alle proprie emozioni sia predittiva di altri costrutti che in letteratura sono stati correlati con gli agiti impulsivi.

Abstract teorico

La letteratura scientifica ha indagato nel tempo il ruolo delle emozioni e della regolazione emotiva nei pazienti con diagnosi di Asse II (e.g., Linehan, 1993). Nel corso degli anni, i vari autori si sono focalizzati sui diversi aspetti delle difficoltà di regolazione emotiva, dalla paura della rabbia (Diogo et al., 2006), al riconoscimento delle espressioni facciali (Renneberg et al., 2005), ai diversi aspetti dell’intelligenza emotiva (Leible et al., 2004) e tolleranza dello stress (Iverson et al., 2012).

Da un punto di vista più globale, diversi autori hanno approfondito il ruolo della paura delle emozioni (Williams et al., 1997), intesa come la paura dell’esperienza emotiva in sé (sia positiva che negativa), legata al timore di perdere il controllo durante tale esperienza, e/o alla paura di una reazione all’emozione, in particolare rispetto alle conseguenze fisiche sperimentate in seguito alla risposta emotiva (Williams et al., 1997; Berg et al., 1998). La paura delle emozioni è stata declinata soprattutto sui disturbi di Asse I, con particolare attenzione allo spettro ansioso (paura della paura, Mennin et al., 2005) e depressivo (paura della tristezza, Nolen-Hoeksema, 2004).

Più recentemente, è stato proposto il costrutto di meta-emozione (Mitmansgruber et al., 2009), come esplicativo di alcuni processi di evitamento, consapevolezza e accettazione emotiva.

Il presente studio si pone l’obiettivo di indagare il costrutto di meta-emozione in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità, per poter meglio comprendere come la reazione emotiva alle proprie emozioni sia predittiva di altri costrutti che in letteratura sono stati correlati con gli agiti impulsivi. Per questo, è stata costruita una batteria di test che esplora le meta-emozioni, i livelli di rabbia percepita, la capacità di controllare le emozioni di rabbia, i pensieri che i pazienti fanno rispetto alle emozioni che si ritrovano a provare e le difficoltà generali di regolazione emotiva, con lo scopo di approfondire come tutti questi costrutti sono correlati tra loro, in che misura le meta-emozioni possono mediare la relazione tra le difficoltà di regolazione emotiva e la sintomatologia borderline. Il campione è composto da soggetti ospiti di due case di cura con esclusione di quelli con concomitante diagnosi di abuso/dipendenza da sostanze.

I dati sono stati sottoposti ad analisi correlazionali e regressioni, per valutare la capacità predittiva dei costrutti indagati sul tipo di diagnosi e il modo in cui tutte le componenti considerate correlano tra loro.

Schizofrenia e terapia cognitivo-comportamentale: introduzione all’argomento ed elementi di efficacia

Erika Aucello, Valentina Pastore – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

Trattamento della Schizofrenia: il contributo dell’approccio cognitivo-comportamentale.

Schizofrenia & CBT: Abstract

La schizofrenia è da sempre definita come una patologia di difficile gestione e trattamento a causa dei molteplici aspetti che la caratterizzano in termini di sintomi positivi e negativi. Questi ultimi causano il più delle volte una serie di ripercussioni molto gravi dal punto di vista del funzionamento generale del soggetto in termini di abilità individuali e sociali. Numerosi sono stati nel corso degli anni i tentativi clinici di affrontare e gestire tale malattia soprattutto ricorrendo alla terapia farmacologica che risultava essere tra le più efficaci per il trattamento dei sintomi positivi. Solo negli ultimi decenni si è valutata l’importanza di affiancare alla terapia farmacologica una di tipo psicosociale; nella sotto citata review viene descritto l’importante contributo dimostrato dall’approccio cognitivo-comportamentale in termini di trattamento della schizofrenia (Beck, 1952), ben esplicato attraverso esperimenti qui descritti.

Nello studio F. Naeem et al. (2014) viene messa a confronto l’efficacia di un intervento classico di trattamento della schizofrenia (TAU) con un TAU associato ad un programma di CBT breve culturalmente adattata (CaCBT), trovando che tale combinazione potesse essere una modalità di trattamento più efficace per pazienti con schizofrenia. In un altro studio di H. Waller et al. (2014) è stato dimostrato come le credenze illusorie a contenuto persecutorio, molto comuni nella schizofrenia, sia possibile trattarle con una modalità di intervento denominata Thinking Well, con sedute focalizzate di terapia cognitivo-comportamentale, dimostrandone altresì un’elevata efficacia. Ancora A. Staring et al. (2012) hanno dimostrato l’efficacia di tecniche di CBT rispetto ai sintomi negativi della schizofrenia, servendosi di circa 50.5 sedute di trattamento comprendenti tecniche di CBT nel corso di 18 mesi con conseguente miglioramento dell’avolizione e del funzionamento globale dei pazienti.

Ad oggi come evidenziato da E.M. Tsapakis et al. in uno studio del 2015, e come emerge da cospicua letteratura scientifica, il trattamento maggiormente efficace della schizofrenia sembra essere quello che combina la terapia farmacologica a psicoeducazione, terapia cognitivo-comportamentale e arte terapia.

La schizofrenia

La schizofrenia viene considerata una tra le più devastanti malattie mentali a causa di numerosi fattori, quali precocità d’esordio, gravità sintomatologica e frequente cronicizzazione. Tali fattori possono determinare un rapido deterioramento dell’autonomia del soggetto in diverse aree funzionali (area affettiva, relazionale e lavorativa) con conseguente tendenza all’isolamento sociale (A. Vita, G.M. Giobbio, 2006).

Benché si parli della schizofrenia come patologia singola, essa comprende disturbi con cause eterogenee e include pazienti nei quali il quadro clinico, il decorso della malattia e la risposta alla terapia sono diversificati tra loro. Proprio per questo motivo non esiste il trattamento della schizofrenia, ma tutti gli interventi terapeutici devono essere messi a punto sulla base dei bisogni specifici di ciascun paziente (G.O.Gabbard, 2007).

I tratti essenziali della schizofrenia secondo i criteri del DSM V sono rappresentati da un insieme di segni e sintomi caratteristici (sia positivi, sia negativi) che devono essere presenti per un certo periodo di tempo.

 

Sintomi della schizofrenia

Numerosi autori (Andreasen et al. 1982; Keith & Matthews, 1984; Munich et al. 1985; Strauss et al. 1974) hanno proposto la suddivisione dei sintomi della schizofrenia in tre principali raggruppamenti: sintomi positivi; sintomi negativi; relazioni interpersonali disturbate.

I sintomi positivi comprendono i disturbi del contenuto del pensiero (come i deliri), i disturbi di percezione (come le allucinazioni) e le manifestazioni comportamentali (come catatonia e agitazione) che si sviluppano in breve tempo e sono spesso associati ad un episodio psicotico acuto. Mentre i sintomi positivi possono essere considerati come un’innegabile ‘presenza’, i sintomi negativi possono essere caratterizzati come assenza di funzioni. Tra i sintomi negativi, di notevole interesse vi sono affettività coartata, povertà di pensiero, anedonia e apatia. Altro tratto distintivo del disturbo risultano essere le relazioni interpersonali disturbate che come i sintomi negativi tendono a svilupparsi in un notevole arco di tempo. Tale categoria di disturbi comprende ritiro sociale, espressione inadeguata dell’aggressività, mancanza di consapevolezza del bisogno altrui e incapacità di avere un contatto significativo con altre persone (G. O. Gabbard, 2005).

L’esordio della patologia avviene generalmente nell’adolescenza o nella prima giovinezza. Analizzando l’andamento della patologia si possono distinguere due fasi: una prima fase, denominata prodromica in cui si possono osservare alcuni segni indicativi del cambiamento in atto. Tale fase presenta un andamento progressivo e può sfociare in tempi più o meno in una successiva. Alla prima fase segue la fase attiva in cui i sintomi, che nella fase precedente indicavano solo un cambiamento della personalità del soggetto, fanno la comparsa eventi psicopatologici rilevanti (A. Vita, G.M. Giobbio, 2006).

Numerose ricerche sull’eziologia della schizofrenia hanno dimostrato l’importanza dei fattori biologici nelle psicosi, ma tali fattori non sono di per sé sufficienti a spiegare l’eziologia del disturbo; per comprendere l’insorgenza e il decorso della patologia è necessario tenere in considerazione anche fattori di natura sociale e psicologica. Il modello che meglio integra questi tre ordini di fattori è il modello stress vulnerabilità (Neuchterlein & Dawson, 1984). Nonostante esistano vari modelli stress vulnerabilità, tutti ipotizzano che l’insorgere della malattia non sia ascrivibile ad un solo fattore, ma derivi dalle interazioni continue tra geni, ambiente e processi intrapsichici. Tale modello ha importanti implicazioni sul piano terapeutico, in quanto ne deriva l’importanza di scegliere approcci integrati, diretti ai tratti disfunzionali del soggetto così come ai fattori socio-ambientali (Moreschi, 2009).

Terapia cognitivo comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) è un approccio evidence-based, sviluppatosi negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck ed è attualmente considerato, a livello internazionale, uno dei più affidabili ed efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento di numerosi disturbi psicopatologici. Tale approccio postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti evidenziando come i problemi emotivi siano in gran parte il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo. Ciò implica che, non sarebbero gli eventi a creare e mantenere i problemi psicologici, emotivi e di comportamento, ma questi verrebbero largamente influenzati dalle strutture cognitive dell’individuo.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) si propone, di conseguenza, di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e d’interpretazione della realtà, al fine di sostituirli e/o integrarli con convinzioni più funzionali. Mettendo in luce le interpretazioni errate della realtà e proponendone delle alternative – ossia, delle spiegazioni più plausibili degli eventi – si produce una diminuzione quasi immediata dei sintomi. Infatti, una valutazione realistica delle situazioni e il cambiamento del modo di pensare producono un corrispondente miglioramento dell’umore e del comportamento.

Tale approccio si distingue dagli altri grazie ad alcune peculiari caratteristiche. La CBT è un approccio scientificamente fondato (evidence based), in quanto l’intervento clinico viene messo a punto sulla base delle conoscenze relative alle strutture e ai processi mentali desunti dalla ricerca psicologica di base. Inoltre numerose ricerche basate su studi scientifici rigorosi hanno dimostrato che tale approccio è efficace nel trattamento e nella cura della maggior parte dei disturbi psicologici quali ad esempio ansia, depressione, attacchi di panico e fobie.

La terapia cognitivo-comportamentale è una forma di psicoterapia direttiva, pianificata e limitata nel tempo, infatti il numero e la frequenza delle sedute vengono concordati da terapeuta e paziente. La durata della terapia varia di solito dai quattro ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale.

A differenza di altri approcci, la CBT è orientata al futuro. Le esperienze, i racconti, le descrizioni di ciò che è accaduto nel passato sono importanti per capire come si sono sviluppati e strutturati nel tempo i problemi attuali, ma non costituiscono l’elemento fondamentale su cui basare l’intervento e il trattamento terapeutico. Le cause del disagio psicologico, dei problemi e delle difficoltà del paziente sono, per la psicoterapia cognitivo-comportamentale, da rintracciare nel qui ed ora, nel presente e nel come l’attualità dei problemi viene rappresentata a livello cognitivo, comportamentale ed emozionale nel futuro. L’obiettivo primario è aiutare il paziente a raggiungere il benessere psicologico liberandolo dai problemi e dal disagio vissuti finora attraverso la sua diretta collaborazione.

Altra caratteristica essenziale di questo approccio risulta essere la stretta collaborazione tra paziente e psicoterapeuta. Fin dal primo momento, paziente e terapeuta lavorano insieme nella definizione dei problemi e degli obiettivi da raggiungere; all’interno della terapia non vi sono obblighi, tutto viene proposto e concordato.

Infine, l’approccio cognitivo-comportamentale è diretto allo scopo. Dopo la prima fase relativa alla valutazione dei problemi e alla formulazione di una diagnosi, vengono individuati in modo collaborativo con il paziente, gli interventi e gli obiettivi più adeguati a risolvere i suoi problemi. Essa è finalizzata a modificare quelli che la teoria di riferimento definisce i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti disadattivi del paziente, con lo scopo di facilitare la riduzione e l’eliminazione del sintomo o del disturbo psicologico, in modo tale da risolvere il problema concreto presentato dal paziente. Periodicamente sono previste sedute di monitoraggio per verificare eventuali miglioramenti ottenuti e il raggiungimento di obiettivi prestabiliti.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale applicata alla schizofrenia

L’utilizzo della psicoterapia cognitivo-comportamentale per il trattamento della schizofrenia è stato descritto per la prima volta da Beck nel 1952. Tale modello ha subito negli ultimi 30 anni numerosi cambiamenti (Beck, 1976). Le prime forme di psicoterapia applicate alla schizofrenia utilizzavano strategie comportamentali, messe in atto con lo scopo principale di produrre cambiamenti in primis nella sfera affettiva e successivamente in quella cognitiva (Tarrier, 1992). Scopo principale del trattamento era il miglioramento delle strategie di coping e l’acquisizione di abilità sociali in modo da garantire l’autonomia del paziente. Grande importanza veniva data anche ai sintomi negativi, che venivano trattati attraverso programmi di attività graduali.

Successivamente le ricerche e la pratica clinica hanno fatto emergere altri importanti fattori da tenere in considerazione in aggiunta allo stile e ai contenuti del pensiero. Tali fattori, quali emozioni, attaccamento, problematiche interpersonali, perdita/traumi, autostima e accettazione potrebbero avere un ruolo fondamentale nell’insorgenza e nel mantenimento della patologia.

Il riconoscimento dell’eterogeneità e della complessità del processo che opera all’interno della schizofrenia ha richiesto un più ampio approccio di trattamento che incorpora al suo interno i vari sviluppi della teoria e della pratica clinica. Fondamentale è stato il cambiamento della concezione secondo la quale i pensieri irrazionali causassero direttamente comportamenti maladattivi e le emozioni negative a favore di una visione costituita da una più ampia e complessa rete di fattori che interagendo tra loro causano i comportamenti maladattivi e le emozioni negative sopra descritte. Tali fattori si costituiscono di relazioni autoregolate, pensieri, comportamenti, sentimenti e sensazioni fisiche (Teasdale, 1993).

Nell’applicazione pratica, questo consisteva nel modificare non solo il contenuto dei pensieri negativi bensì di apportare modifiche anche ai sentimenti e alle relazioni interpersonali. Nel corso degli anni si evidenzia una minore tendenza a focalizzarsi esclusivamente sul pensiero difettoso, bensì di impiegare le tecniche terapeutiche per modificare numerosi fattori quali relazioni interpersonali, regolazione emotiva, modalità di relazionarsi con se stessi, autocontrollo e controllo interpersonale (Mansell, Carey, in press).

Grazie a queste evoluzioni teoriche e pratiche si è assistito, negli ultimi 5-10 anni, all’emergere di nuovi approcci terapeutici che nascono sotto la spinta delle teorie cognitive classiche e tentano di includere al loro interno la teoria e le influenze filosofiche. Tra gli approcci definiti di terza generazione troviamo la mindfulness, la terapia metacognitiva (MCT), il compassionate mind training (CMT) e il metodo dei livelli (MOL).

Nel corso degli anni i modelli cognitivi hanno subito numerosi cambiamenti e sono stati molto utili per la comprensione e il trattamento dei sintomi della schizofrenia. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, basata su tali modelli, si è dimostrata essere efficace e valida nel trattamento dei sintomi sia positivi che negativi del disturbo. Nuovi sviluppi teorici nel trattamento di alcuni disturbi, come ansia e depressione, hanno rivelato il complesso processo transdiagnostico che opera all’interno della schizofrenia. È quindi chiara la necessità di sviluppare un’ampia concettualizzazione dei sintomi psicotici in grado di racchiudere l’eterogenea e multisfaccettata natura di questo disturbo. I recenti sviluppi nelle teorie cognitive, note come approcci di terza generazione sottolineano l’importanza di prendere in considerazione non solo i contenuti del pensiero e le credenze disfunzionali bensì anche le relazioni interpersonali e i sentimenti del soggetto.

Vi è un numero considerevole di ricerche che confermano l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale per il trattamento della schizofrenia. Controlli randomizzati hanno mostrato effetti moderati sia per i sintomi positivi che per quelli negativi, con un mantenimento dei benefici nel tempo (Wykes, Steel, Everit., Tarrier, 2008). Il trattamento è risultato efficace anche per i pazienti che rifiutavano il trattamento farmacologico, con risultato positivo sia per i sintomi positivi sia per quelli negativi del disturbo (Christodoulides, Dudley, Brown, Turkington, Beck, 2008; Sensky, Turkington, Kingdon, et al. 2000).

Nel caso sia presente comorbilità con altri disturbi o abuso di sostanze il trattamento risulta più complesso; in taluni casi gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale risultano meno efficaci (Barrowclough, Haddock, Beardmore, et al., in press).

In uno studio condotto da Zimmermann et al. (2005) è emerso come pazienti trattati durante la fase acuta rispondevano meglio rispetto a pazienti trattati in fase cronica. Il trattamento di psicoterapia cognitivo-comportamentale sembra essere consigliato per la cura di pazienti con sintomi psicotici di media gravità e per quelli ad elevato rischio di conversione o con grave sintomatologia (McGorry, Phillips, Yung, et al 2000; Morrison, French, Walford, et al. 2004).

Dal punto di vista applicativo/pratico le sedute risultano più brevi e maggiormente flessibili, rispetto a sedute per altri tipi di disturbi, inoltre le attività che i pazienti devono svolgere a casa sono semplificate. Il trattamento di psicoterapia cognitivo-comportamentale prevede un miglioramento del funzionamento generale del soggetto, dato che viene ampiamente confermato da studi empirici che sostengono l’efficacia della CBT. Spesso si registra un miglioramento del funzionamento generale del paziente anche quando non vi è miglioramento dei sintomi, questo è il motivo che spinge molti terapeuti ad affiancare un trattamento di psicoterapia ad un trattamento farmacologico. Lieberman et al. (2005) sostengono che l’uso di farmaci antipsicotici atipici migliorano la neurogenesi e solo se combinati con un trattamento di psicoterapia portano all’acquisizione di nuove abilità da parte dei pazienti (Lieberman, Tollefson, Charles, et al. 2005).

Verranno riportati di seguito alcuni studi esemplari che dimostrano l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale nel trattamento di questo disturbo dalla natura complessa e multisfaccettata.

Brief culturally adapted CBT for psychosis (CaCBTp): a randomized controlled trial from a low income country

Naeem et al. (2014) in uno studio hanno messo a confronto l’efficacia di un intervento classico di trattamento della schizofrenia (TAU) con un TAU associato ad un programma di CBT breve culturalmente adattata (CaCBT), trovando che tale combinazione potesse essere una modalità di trattamento efficace per pazienti con schizofrenia.

Metodo

I partecipanti furono reclutati da due ospedali in Karachi (Pakistan) tra i 18 e 65 anni con diagnosi di schizofrenia. L’intero campione dei soggetti partecipanti era di 116 di cui 59 che avrebbero beneficiato dell’intervento TAU associato a CaCBT e 57 del solo intervento TAU. Gli strumenti utilizzati per l’analisi dei soggetti sono stati la Positive and Negative Syndrome Scale of Schizophrenia (PANSS), la Psychotic Symptom Rating Scales (PSYRATS) e la Schedule for Assessment of Insight (SAI). La prima è largamente diffusa e usata, costituita di 30 item caratterizzanti le tre sottoscale di Sintomi Positivi, Sintomi Negativi e Psicopatologia Generale. La seconda si compone di 17 item costituiti dalle sottoscale di Allucinazioni uditive e Illusioni e la terza indaga su tre dimensioni di insight: Aderenza al trattamento, Riconoscimento di malattia e Rietichettamento del sintomo, che consiste nel riconoscimento del sintomo stesso e del fatto che si tratti di un evento patologico.

Il programma di CBT breve culturalmente adattata è stata usata per oltre 4 mesi sul campione selezionato utilizzando dalle 6 alle 10 sedute. Una parte molto importante dell’adattamento culturale della CBT per le psicosi è il coinvolgimento dei familiari. In Pakistan, infatti, la famiglia è molto coinvolta nella cura del paziente e si compone spesso di quelli che sono proprio i caregivers del paziente permettendo agli autori dell’esperimento di comprendere quanto l’aiuto della famiglia accrescesse la possibilità di accettare un intervento di cura. Tale versione consiste di 6 incontri con i partecipanti e 1 con le famiglie e le sedute si concentravano particolarmente su: Formulazione e Psico-Educazione, Normalizzazione e Introduzione al Modello Vulnerabilità Stress, Lavorare sulle Allucinazioni, sulle Illusioni, Lavorare con i Sintomi Negativi, Conclusione Trattamento e Prevenzione delle Ricadute.

Risultati e conclusioni

I partecipanti del gruppo sperimentale mostrarono significativi e più elevati miglioramenti rispetto al gruppo TAU alla fine della terapia, sia in riferimento ai sintomi positivi che a quelli negativi, oltre che alla psicopatologia in senso più generico (PANSS), illusioni e allucinazioni (PSYRATS) e insight (SIA). Questa versione culturalmente adattata di CBT era stata testata precedentemente in un piccolo studio pilota in Lahore (Habib et al., 2014) mentre lo studio in questione veniva condotto in Karachi. Nonostante ciò possiamo concludere che questo esperimento dimostra come sia fattibile offrire una modalità migliore di trattamento della psicosi composta dall’associazione di una TAU e una CaCBTp breve a soggetti che possono frequentare il servizio sanitario locale regolarmente, seppur in un Paese dal reddito basso e quindi con poche risorse economiche. Il coinvolgimento dei curanti e dei familiari sottolinea inoltre una parte essenziale della terapia in questa cultura, che può migliorare l’efficacia del trattamento stesso.
 

Thinking Well: a randomized controlled feasibility study of a new CBT therapy targeting reasoning biases in people with distressing persecutory delusional beliefs

In un altro interessante studio di Waller et al. (2014) è stato dimostrato come le credenze illusorie a contenuto persecutorio, che sono molto comuni in disturbi psicotici come la schizofrenia, sia possibile trattarle con una modalità di intervento denominata Thinking Well, ossia un nuovo approccio terapeutico che combina la recentemente sviluppata Maudsley Review Training Programme (MRTP) con sedute focalizzate di terapia cognitivo-comportamentale. Nonostante la difficoltà di trattamento di tali sintomi tipici dei disturbi psicotici, l’autore dimostra come tale trattamento sia risultato molto efficace.

Metodo

Il campione selezionato si componeva di 31 soggetti tutti con disturbi nello spettro della schizofrenia riferenti illusioni persecutorie e sono stati reclutati in tre grandi strutture di malattie mentali di Londra. Lo studio è stato condotto dividendo i partecipanti in un gruppo sperimentale di 17 soggetti sottoposto al Thinking Well Intervention e un gruppo di controllo di 14 soggetti che continuava ad essere sottoposto ad un intervento comune (TAU). Quest’ultimo gruppo avrebbe continuato a ricevere le cure usuali della comunità di salute mentale a cui apparteneva, il gruppo sperimentale invece sarebbe stato sottoposto al TW Intervention che consisteva nella compilazione del MRTP nell’arco di una o due sedute, seguita da 4 sedute individuali sostenute da uno psicologo clinico specializzato in CBT associata a psicosi.

Tali sedute prevedevano l’esecuzione di compiti che includevano l’apprendimento di abilità di rilassamento e di ricerca di maggiori informazioni attraverso la generazione di più alternative di pensiero meno persecutorie e cariche emotivamente, concentrandosi su quanto l’umore e le esperienze passate incidano in maniera determinante sul modo di pensare e interpretare gli eventi. Questi compiti erano concepiti in modo tale da essere interattivi con il terapeuta ed impegnativi, includendo piccoli puzzles, video registrazioni, brevi videoclip da guardare e compiti a casa. I progressi venivano poi misurati settimanalmente. L’obiettivo di entrambi gli strumenti utilizzati nella TW Intervention era esplorare in che modo le persone prendono decisioni e attribuiscono senso alle esperienze di ogni giorno.

Risultati e conclusioni

I feedback ottenuti da questo studio furono decisamente positivi. Dei 17 partecipanti del gruppo sperimentale sottoposto al TW Intervention due terzi hanno riportato un’esperienza positiva gradendo molto le sedute, comprendendone i contenuti, diventando più riflessivi e apprendendo più attivamente nuove abilità. I soggetti sono stati in grado di applicare quanto appreso anche successivamente alle sedute, migliorandone l’umore e il benessere. Il restante terzo ha riportato un’esperienza non positiva ma nemmeno negativa, semplicemente neutrale. I risultati quindi furono promettenti, in termini di fattibilità e accettabilità di TW Intervention.  Tale esperimento presenta, tuttavia, dei limiti come la mancanza del doppio cieco nella condizione di trattamento e una procedura più opportuna di reclutamento, identificando come idonei soggetti che erano stati precedentemente sottoposti ad uno studio simile. Nonostante ciò lo studio è stato comunque considerato un successo dal punto di vista del grado di soddisfazione dei pazienti e del loro effettivo miglioramento.

Cognitive behavioral therapy for negative symptoms (CBT-n) in psychotic disorders: a pilot study

In un terzo studio qui riportato, Staring et al. (2012) hanno analizzato l’efficacia di tecniche di CBT rispetto ai sintomi negativi della schizofrenia, considerati da sempre la sfida maggiore della cura della salute mentale. In tale esperimento infatti gli studiosi hanno ipotizzato che servendosi di circa 50.5 sedute di trattamento comprendenti tecniche di CBT nel corso di 18 mesi si sarebbero ottenuti miglioramenti rispetto all’avolizione, ottenendo un miglioramento nel funzionamento dei pazienti molto poco performanti. L’obiettivo dello studio era valutare se 20 sedute di CBT per sintomi negativi (CBT-n) li avrebbero ridotti entro 6 mesi. Inoltre i ricercatori volevano valutare il modello cognitivo per sintomi negativi analizzando una riduzione delle credenze disfunzionali mediante gli effetti stessi di sintomi negativi.

Metodo

Il numero dei soggetti scelti per il campione sperimentale era di 21 pazienti adulti con un disturbo dello spettro della schizofrenia con sintomi negativi, sottoposti ad una media di 17.5 sedute settimanali di CBT-n della durata di 45 minuti ciascuna. La CBT-n era basata su un lavoro di Grant et al. (2012) ma leggermente adattato, allo scopo di distinguere tra le varie credenze disfunzionali e renderlo più adatto a valutare l’insight sul self-stigma, discriminazione percepita ed esclusione sociale, esperienze di perdita e lutto e stati di demoralizzazione. La terapia di CBT-n iniziava con la somministrazione della Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS) allo scopo di creare un profilo personale del paziente e deciderne gli obiettivi da raggiungere. Seguiva poi la psicoeducazione verso i deficit neurocognitivi e le attitudini disfunzionali.

Risultati e conclusioni

I limiti dell’esperimento sopra descritto sono caratterizzati dall’assenza del campione di controllo, dall’utilizzo di un campione sperimentale relativamente piccolo e dalla mancanza di analisi di follow-up, tuttavia è stato dimostrato che la CBT-n può essere efficace nella riduzione di sintomi negativi. I pazienti hanno riportato una riduzione delle credenze disfunzionali sulle loro abilità cognitive, di performance, delle esperienze sociali e di esclusione sociale e questa riduzione, oltre ad essere stata clinicamente importante, ha parzialmente mediato gli effetti sui sintomi negativi come dai ricercatori ipotizzato e sperato. I pazienti hanno iniziato a concepire la loro malattia in un modo meno stigmatizzante e sono diventati più speranzosi rispetto al futuro.

Clinical Management of negative symptoms of schizophrenia: an update

Sembra rilevante illustrare uno studio di Tsapakis et al. (2015) in quanto, mettendo in evidenza il fatto che i sintomi negativi della schizofrenia (NSS) interferiscono maggiormente sulla qualità di vita del soggetto rispetto ai sintomi positivi, una precoce ed accurata diagnosi utilizzando scale di valutazione selettive è essenziale per documentare e monitorare l’evoluzione dei NSS parallelamente alla risposta del paziente al trattamento. Antipsicotici tipici e atipici hanno mostrato una modesta efficacia nella gestione di NSS, d’altro canto le terapie non farmacologiche incluse quelle psicologiche spesso falliscono quando indirizzate ai NSS. Al momento sembra che l’approccio migliore per la gestione clinica dei NSS si ottenga attraverso l’utilizzo complementare di una terapia farmacologica con terapie psicosociali. Per quanto riguarda la terapia farmacologica utilizzata oggi per il trattamento dei NSS sono tendenzialmente Antidepressivi, Anticonvulsivanti, Psicostimolanti, Agenti veglia-promotori e gli Antagonisti del recettore della Serotonina e si pensa che con il tempo la ricerca avrà modo di elaborare farmaci di efficacia superiore con maggiore tollerabilità a lungo termine e quindi con conseguente miglioramento del trattamento dei NSS. Per quanto concerne invece le terapie psicologiche, Tsapakis et al. (2015) hanno individuato le seguenti terapie come le più efficaci da integrare alla terapia farmacologica:

  • Psicoeducazione familiare. La diagnosi di schizofrenia ha conseguenze devastanti per la famiglia del paziente, dal punto di vista economico, emotivo e sociale. E’ importante educare le famiglie ed informarle circa la natura del disturbo, la prognosi e il ventaglio dei sintomi tipici della malattia, inclusi i sintomi negativi. Se informati ed educati, infatti, i familiari diventano più supportivi e meno critici verso il paziente quando comprendono che la demotivazione e l’anedonia sono sintomi della malattia stessa invece che comportamenti dettati dalla personalità del soggetto (Velligan & Alphs, 2014). Si sentono inoltre più supportate e comprese da personale qualificato. L’obiettivo quindi della psicoeducazione familiare è persuadere le famiglie dei paziente che il loro modo di comportarsi verso il paziente può facilitare la ripresa dello stesso, compensando molti deficit specifici del disturbo. I dati sperimentali stessi rivelano infatti che la psicoeducazione eleva gli standard di efficacia della cura e il decrescere di sintomi negativi, riducendo anche gli episodi di ricaduta e riospedalizzazione (Xia et al., 2011 ; Giròn et al., 2010) .
  • Terapia cognitivo-comportamentale. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) fu in origine sviluppata per il trattamento della depressione e per i disturbi d’ansia (Beck, 1976). Solo negli anni ’90 quando il trattamento psicologico per condizioni psicotiche iniziò a diffondersi e la CBT fu implementata, si iniziò ad utilizzarla anche per la schizofrenia (Turkington et al., 2006). Usando la CBT il terapeuta mira ad identificare gli obiettivi del paziente e solo successivamente ridurli a sottocategorie di obiettivi da raggiungere uno per volta (Perivoliotis & Cather, 2009). Il proposito della terapia è migliorare l’autoefficacia, accrescere il piacere e ridurre lo stigma e di conseguenza potenziare la riduzione dei sintomi negativi (NSS) e migliorare il funzionamento globale. Quindi il trattamento non mira ad eliminare i sintomi ma ad eliminare gli ostacoli che si frappongono tra il paziente e gli obiettivi da raggiungere, che siano sintomi, deficit di abilità sociali o gestione della rabbia. Quando si applica la CBT vengono utilizzate diverse e ben elaborate tecniche e strategie. Per esempio, combinando l’esame delle cognizioni distorte con l’attivazione comportamentale si può migliorare l’anedonia e la mancanza di interazione sociale (Beck & Rector, 2005).
  • Arte terapia. L’arte terapia, che include l’arte, la musica, la danza, i movimenti corporei e il drama therapy, è una forma di psicoterapia utilizzata allo scopo di gestire i sintomi negativi della schizofrenia come terapia aggiuntiva alla terapia antipsicotica. Con tale tipo di trattamento, si aiutano le persone ad esprimere i loro pensieri e sentimenti in una modalità non distruttiva, offrendo un potenziale miglioramento della qualità di vita del paziente e riducendone anche i sintomi negativi (Crawford et al. 2012 ; Holttum and Huet, 2014).

Conclusioni

I risultati ottenuti dagli studi sopracitati evidenziano che nel complesso esistono buone prove di efficacia che la CBT riduca i sintomi nelle persone affette da schizofrenia. Premesso che tale efficacia è ascrivibile ad un approccio integrato che prevede anche l’utilizzo di altri strumenti, l’utilizzo della CBT può anche migliorare l’insight e l’adesione del soggetto al trattamento farmacologico con conseguente miglioramento del funzionamento sociale. In attesa di ulteriori studi che arricchiscano la letteratura odierna, si può affermare che la terapia cognitivo-comportamentale sia adeguata oltre che utile per il trattamento della schizofrenia.

Vuoi cambiare vita? #VoltaPagina

Se hai un problema emotivo, una disarmonia in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella vita sociale, rivolgiti a uno psicologo.

Non affidarti a chi non ha la giusta competenza per aiutarti. Psicologi e Psicoterapeuti sono i professionisti adeguati e formati appositamente per venirti in aiuto.

 

#VoltaPagina: IL VIDEO

Nella nostra società, e tanto più in questi tempi di crisi, non mancano i motivi per sentirsi stanchi, stressati, inquieti, confusi di fronte ai più diversi problemi che la vita può metterci davanti.

Non sempre questi stati psicofisici vanno considerati come “disturbi”: a volte lo sono, ma a volte sono una risposta “normale” che la mente e l’organismo oppongono a circostanze difficili, dolorose, problematiche. E a volte si ha l’impressione di non farcela ad affrontare da soli i problemi che inquinano le nostre giornate e ci tolgono la serenità; a volte non sapremmo neanche dire perché ci sentiamo arrabbiati, ansiosi o infelici. In questi casi è bene ammettere con sé stessi che le energie non bastano, e cercare aiuto.

Ma l’offerta di aiuto a cui possiamo rivolgerci è spesso inadeguata a recuperare uno stato di benessere: si propongono di aiutarci gli amici o i familiari, ma spesso il loro affetto e il loro sano buon senso non sono sufficienti ad affrontare la complessità dei nostri problemi emotivi; oppure cerchiamo l’intervento del medico, ma farmaci ansiolitici o antidepressivi, anche se possono darci qualche temporaneo giovamento, non modificano il contesto che ha prodotto quei problemi.

Meno che mai possono essere efficaci gli interventi dei ciarlatani o di quei consulenti improvvisati che propongono soluzioni facili e superficiali che non risolvono nulla…

Lo psicologo è un professionista con una laurea specifica, che ha superato un Esame di Stato ed è iscritto a un Albo pubblico che ne certifica la formazione e la preparazione ad affrontare esattamente quei problemi emotivi, psicofisici, ma anche sociali e organizzativi entro cui si genera il tuo stato di malessere.

Lo psicologo non si occupa solo di salute mentale, ma di molte altre cose: visita il sito dell’Ordine Psicologi Lazio ( www.ordinepsicologilazio.it ), ideatore di questa campagna di sensibilizzazione #voltapagina

Condividi questo video con i tuoi amici e conoscenti su Facebook e Twitter, raccontando il cambiamento che vorresti, con l’hashtag #VoltaPagina

 

Ordine Psicologi Lazio è anche su Facebook: https://www.facebook.com/ordinepsicologilazio/

Nightcrawler, lo sciacallo (2014): quando la psicopatia diventa istituzione – Recensione

Alessandra Notaro

Nightcrawler, film scritto e diretto da Dan Gilroy con protagonista Jake Gillenhaal: nella trama l’umano diventa sempre più distante e la linea etica tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si assottiglia sempre più fino ad essere invisibile.

Lou si guadagna da vivere rivendendo fili metallici rubati; Lou sopravvive per espedienti ma ha come obiettivo quello di trovare un vero lavoro. Nessuno assume ladri.

Una sera assiste ad un incidente ed è là che intuisce quale potrebbe essere il suo futuro vedendo una troupe televisiva accorsa per riprendere l’accaduto. Nemmeno in questo caso trova qualcuno che lo assuma, allora decide di procurarsi il materiale e dare inizio alla sua nuova attività. Luo vive di espedienti. E così in una escalation mediatica che lo porterà al successo, l’umano diventa sempre più distante e la linea etica tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si assottiglia sempre più fino ad essere invisibile.

In un interpretazione magistrale Jake Gillenhal ci mostra un personaggio dagli occhi spalancati che fa uso di linguaggi e nozioni appresi da internet, e di un’espressività da manuale: maschere sociali pronte ad essere usate al momento giusto, le maschere da copione di uno sciacallo. Il bisogno di esercitare potere prevale su ogni altro obiettivo, e spesso questo si realizza tramite l’abuso. Questa è la caratteristica saliente di un’organizzazione psicopatica di personalità. Se gli oggetti esterni falliscono, l’unico oggetto su cui poter investire emotivamente è il Sé e il suo potere (McWilliams, 2012). “È letteralmente spudorato” scrive Nancy McWilliams a proposito della personalità psicopatica: l’ Altro per l’individuo antisociale si riduce alla sua utilità, a spettatore passivo del suo potere, l’ Altro serve a riconoscere il potere conquistato attraverso il controllo onnipotente. Lo psicopatico, spesso abusato nell’infanzia, desidera il riconoscimento sociale del suo potere: l’ essere per, ennesimo e drammatico espediente per sopravvivere.

Lou mostra attraverso una telecamera la violenza più terribile e agisce sugli spettatori una seconda violenza, complice l’emittente televisiva, che fa leva sull’attrazione-repulsione di una violenza esibita e messa in vetrina: perché se da un lato la violenza che spaventa entra nelle case degli spettatori e li coinvolge, d’ altra parte lo schermo televisivo fa da specchio riflesso verso la quale ri-proiettare nuovamente e spostare paure e angosce dello spettatore.

Unica presenza a fare da contraltare al protagonista e che sembra ergersi in difesa di un sentire emotivo che vede l’Altro fin quasi ad esserne travolti, è il suo assistente Rik. Non c’è spazio nel mondo organizzato e manipolato di Lou per i sentimenti, come dirà a Nina in un surreale appuntamento e corteggiamento; così, nemmeno Rik e ciò che egli rappresenta possono esistere. Louth, Williamson e coll. (1998) hanno osservato che gli psicopatici presentano anomalie nei circuti cerebrali deputati ai processi affettivi e linguistici, hanno ipotizzato quindi che gli individui estremamente antisociali non hanno appreso i sentimenti nello stesso modo in cui fa la maggior parte degli individui, cioè sulla base di relazioni: gli psicopatici acquisirebbero il linguaggio emotivo come una sorta di seconda lingua.

Il sofisticato fascino di Lou ben si addice ai personaggi descritti da Babiak e Hare, personaggi che si trovano ai livelli più alti delle aziende americane e chiamati dagli stessi autori ‘serpenti in giacca e cravatta’ (2007). Gli autori stimano che in nord America una persona su 100 è psicopatica. È proprio il mondo aziendale moderno, più flessibile, in cui rischi elevati possono portare a profitti altrettanto elevati, che attira una struttura di personalità psicopatica.

Il personaggio di Lou segna proprio il passaggio da una rappresentazione dello psicopatico come criminale, ad una pericolosamente integrata nel contesto sociale e lavorativo ipermoderno. La loro capacità di saper scegliere la maschera giusta al momento giusto come se fosse una seconda lingua permette loro di entrare in un’azienda come nastri nascenti se non addirittura come salvatori abusando della fiducia dei colleghi, manipolando i superiori. Nel momento stesso in cui un’ organizzazione viene così a configurarsi e premia una struttura di personalità psicopatica, la psicopatia stessa diviene istituzione. L’ abuso diviene istituzione.

Cantava Bersani:

Chiedi un autografo all’assassino
guarda il colpevole da vicino
e approfitta finché resta dov’é
toccagli la gamba fagli una domanda
cattiva, spietata
con il foro di entrata, senza visto di uscita

(Samuele Bersani, Cattiva)

L’abuso è nel non riconoscere l’Altro, la sua autonomia psichica. Non c’è spazio per la domanda dell’Altro perché inconciliabile con il desiderio di potere dello psicopatico che istituisce l’abuso. E proprio quando l’abuso diventa l’arma vincente per la scalata al successo allora, in quel momento, la psicopatia diventa istituzione.

La curiosità e l’interesse aumentano le capacità mnestiche nell’età avanzata

Le nostre capacità di memoria iniziano a subire un declino già dai venti anni d’età. Ma non disperiamo poichè un nuovo studio pubblicato su Psychology and Aging sottolinea l’importanza della curiosità e della motivazione nel migliorare le capacità mnestiche in persone di età avanzata, compensando i deficit generalmente riscontrati.

 

Memoria, interesse e capacità mnestiche: l’esperimento

Gli studiosi hanno coinvolto nello studio un gruppo di età avanzata (età media 73 anni) e un gruppo di giovani (età media 20 anni) e hanno chiesto loro di rispondere a una serie di domande (ad esempio, quale fu la prima nazione a dare alle donne il diritto di voto).
Riguardo alle domande cui furono date risposte errate, è stato chiesto ai soggetti di esprimere quanto fossero curiosi di conoscere la risposta e il grado di interesse per quell’argomento. In seguito è stata data loro la risposta alle diverse domande.

Dopo un’ora, sono stati proposti test a sorpresa per i soggetti, i quali sono stati nuovamente sottoposti alla prima metà della batteria di domande; e una settimana dopo, sempre a sorpresa, i soggetti devono rispondere alla seconda metà della batteria di domande.
Per prima cosa il gruppo degli anziani ha ottenuto un risultato simile al gruppo dei giovani in termini di prestazioni mnestiche. Per i giovani è stata riscontrata una media di accuratezza delle risposte del 86.6% dopo un’ora e del 51,8% dopo una settimana; mentre il gruppo di età più avanzata ha ottenuto l’ 89.15% di correttezza dopo un’ora e il 50.1% dopo una settimana.

Si può quindi ipotizzare che il gruppo degli anziani, che effettivamente ha riferito maggiore curiosità e grado di interesse verso le domande proposte, abbia compensato il gap mnestico generazionale attraverso queste variabili squisitamente psicologiche?
In parte sì. Anche se la curiosità iniziale riferita dal soggetto non è risultata correlata alle performance mnestica successive, però è stato dimostrato che maggiore era l’interesse nell’ argomento della domanda migliori erano i risultati nel ricordare la risposta in entrambi i gruppi di soggetti.

E’ interessante però leggere l’interazione tra età, grado di interesse e capacità di ricordo a breve e medio termine: l’effetto migliorativo del grado di interesse sulla performance mnestica va in un crescendo per il gruppo degli anziani con il massimo effetto nel ricordo a medio termine: l’inverso accade invece per i giovani che subiscono un’iniziale spinta nel recupero a breve termine (un’ora) per poi andare incontro a un declino di questo effetto dell’interesse (dopo una settimana).

La contraddizione e l’autostima in Cina

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

Expat nella terra di mezzo, cronache sull’orlo di una crisi di nervi

The Chinese Mind vuole essere una raccolta di riflessioni, storie e ricerche riportatevi da una psicologa wài-guó rén, la straniera, alle prese con la cultura e la gente cinese nella Shanghai contemporanea. Shanghai è un luogo elettrizzante, contradditorio nella sua essenza, costantemente in mutamento, ti lascia con una certezza: tutto, troppo umano per rimanervi indifferente.

Nell’era multiculturale, si spendono sensatissime parole su altrettanto documentati manuali di psicologia riguardo l’appropriazione di quell’insieme di credenze, valori, atteggiamenti, emozioni, reti di significati e di pratiche che caratterizzano una specifica cultura.

Si parla di appropriazione e non di acquisizione perché la complessità di una cultura non si impara studiando sui libri, nè facendo vacanze all’estero, ma si fonda direttamente sull’esperienza, intesa come “l’enciclopedia di conoscenze esplicite e tacite, acquisite mediante il coinvolgimento personale nelle azioni e nelle interazioni con gli altri, accumulate nel corso del tempo” (Anolli, 2011).

Tutto vero, salvo poi renderti conto che la maggior parte degli aneddoti rientrano sotto la nebulosa categoria del “That’s china” – espressione utilizzata dallo straniero smarrito che non ci sta capendo più nulla. Allora le emozioni prevalgono, le teorie dei manuali rimangono in penombra e la sfida che stai vivendo si irradia in tutta la sua complessità.

Buona lettura!

La contraddizione e l’autostima in Cina

In gran parte dei paesi asiatici la realtà non viene concepita come univoca, con confini precisi e coerenti, ma anche semplici e banali domande, ad esempio, “in quale giorno inizierà l’anno scolastico?” lasciano spesso lo straniero, in questo caso la sottoscritta, stupito e accigliato per non ottenere quella che nella prospettiva occidentale è una risposta sicura.

Rimane sempre qualcosa in sospeso, qualcosa in forse, una sorta di Inshallah per cui – e i cognitivisti direbbero che è proprio così – nulla nella vita, neanche negli aspetti più banali e pratici pare essere certo.

Possiamo rilassarci se cerchiamo di comprenderne le ragioni: le credenze e le rappresentazioni cognitive dei paesi dell’Estremo Oriente sono saldamente radicate nel taoismo che implica un presupposto tanto semplice quanto ingerente:

La realtà – o meglio la rappresentazione della realtà – non è univoca ma è contradditoria per natura (definito come “principio di contraddizione”).

Dunque entrambi gli aspetti di una contraddizione (“ciò che è A” e “ciò che è NON-A”) non si autoescludono ma possono convivere in armonia e possono mutare: di fronte a una incoerenza si tende al compromesso in modo che in qualche modo entrambi i lati della medaglia, entrambe le “verità” possano essere conservate (Peng & Nisbett, 1999).

Lo shock occidentale di fronte alle apparenti contraddizioni deriva dal fatto che la nostra conoscenza ha radici nella logica aristotelica in cui il principio di non contraddizione vale eccome: se una cosa è vera non può essere falsa!

Effettivamente sembrerebbe che anche l’autostima, in quanto insieme di credenze su sé stessi non sia esente dal fenomeno.

Prendiamo ad esempio i cinesi: Spencer-Rodgers et al. (2004) hanno riscontrato che i cinesi hanno un autostima significativamente più bassa e profili diversi rispetto agli americani (misurata attraverso il famoso e occidentale questionario Rosenberg Self- Esteem Scale). Infatti accade che i cinesi, per natura più tolleranti alla contraddizione e con un bisogno di coerenza meno stringente rispetto agli americani, si autodescrivono sostenendo sia item positivi che negativi, delineando un profilo di sé appunto molto articolato e includente sia aspetti positivi che negativi. Molto più polarizzate sarebbero invece le autorappresentazioni dei soggetti americani: o sei positivo o sei negativo.

Una maggiore incoerenza e ambivalenza nelle credenze su di sé non sarebbe però un problema per gli orientali. Ad esempio Campbell e colleghi (1996) hanno riscontrato che il grado di coerenza interna e stabilità delle credenze sul sé erano meno correlate all’autostima per i giapponesi che per i canadesi; e la discrepanza tra sé ideale e sé reale era legata alla depressione in misura minore che per il campione occidentale (Heine & Lehman, 1999).

Un limite di questi studi però risiede negli strumenti self-report che sono misure “esplicite” dell’autostima e nella desiderabilità sociale dei soggetti, che negli orientali può tradursi nell’assunzione di un atteggiamento di modestia con una preferenza per risposte moderate e non estreme mentre valutano sé stessi di fronte ad altri (Chen, Lee, & Stevenson, 1995).

Senza contare il fatto che gli strumenti self-report utilizzati in moltissimi studi sono etnocentrici (studiati e messi a punto da individui di cultura non cinese), e -per citare la piu semplice falla – alcuni items possono essere male interpretati.

Comunicazione non verbale: lezione magistrale di Daniel Messinger al NeuroComScience – Report

Nella Lectio magistralis organizzata da NeuroComScience lo scorso 22 novembre il prof. Daniel Messinger ha presentato i risultati di alcune ricerche sull’argomento comunicazione non verbale e manifestazione delle emozioni.

La comunicazione non verbale e il modo in cui le emozioni si manifestano –espressioni del volto, postura corporea- rappresentano temi di ricerca estremamente affascinanti sin dai tempi della pubblicazione del libro caposaldo di Charles Darwin ‘L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali‘ e ancora oggi estremamente attuali. Nella Lectio magistralis organizzata da NeuroComScience lo scorso 22 novembre il prof. Daniel Messinger ha presentato i risultati di alcune ricerche sull’argomento.

Il prof. Messinger, docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università di Miami dove dirige il laboratorio di osservazione comportamentale, indaga, nei suoi lavori, lo sviluppo sociale ed emozionale attraverso l’analisi delle espressioni facciali e motorio-gestuali, con particolare riferimento allo sviluppo infantile. Tali ricerche si avvalgono non solo dell’utilizzo di metodi osservativi, ma anche della realizzazione e utilizzo di appositi software che analizzano le espressioni del volto e la postura corporea; ulteriori ambiti di studio sono le dinamiche comunicative presenti in bambini con diagnosi inerenti lo spettro autistico.

La presentazione viene introdotta da una ricerca (Harker, L. e Keltner, X., 2001) che indaga la significatività, sul piano sociale, dell’espressione di emozioni positive. Gli autori hanno preso in esame le foto scattate ad alcune donne per l’annuario del college; le foto sono state sottoposte ad un campione di osservatori. Gli osservatori hanno espresso preferenza per le foto di donne che mostravano nell’espressione del volto emozioni positive (sorriso) rispetto alle foto che raffiguravano donne che, invece, non sorridevano, a dimostrazione del fatto che le emozioni positive portano beneficio a livello sociale. Inoltre, è emerso come l’espressione di emozioni positive rappresenti anche un valido predittore di benessere personale e del conseguimento di traguardi di vita desiderabili (life outcomes).

Il secondo studio presentato (Rosenberg et al, 2015) si concentra sui benefici apportati dalla meditazione; nello specifico, gli autori vogliono verificare l’influenza che la meditazione esercita sulle risposte emozionali alla sofferenza. Partendo dalla premessa che la meditazione aiuta le persone a coltivare sentimenti di empatia e a rafforzare la motivazione ad aiutare gli altri, viene analizzato l’impatto che tre mesi di training di meditazione intensiva hanno esercitato sulle risposte emozionali a scene di sofferenza. I sessanta partecipanti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo che ha effettuato il training meditativo o al gruppo di controllo; dopo l’esposizione a scene di film che mostravano scene di sofferenza veniva effettuata la misurazione delle risposte emozionali attraverso l’osservazione delle espressioni facciali. Come risultato, è emerso che gli appartenenti al gruppo che aveva effettuato il training erano più inclini, rispetto al gruppo di controllo, a mostrare espressioni facciali che esprimevano tristezza e meno espressioni di rabbia e disgusto.

La ricerca effettuata dallo stesso Messinger (Messinger, D., Fogel, A. e Dickson, K., 2001) compara i vari tipi di sorrisi, giungendo alla conclusione che “tutti i sorrisi sono positivi, ma alcuni sorrisi esprimono maggiore positività di altri”. Un campione composto da 13 bambini viene osservato settimanalmente dal primo fino al sesto mese di età durante le interazioni con la madre, analizzando le modalità con cui compare il sorriso.

Il sorriso non Duchenne (non accompagnato dall’apertura della bocca e dal sollevamento delle guance) è relativamente più frequente rispetto a momenti senza sorriso sia quando le madri stanno sorridendo che quando i bambini stanno guardando i visi delle loro madri. Il sorriso con il sollevamento delle guance, invece, si verifica con maggiori probabilità quando la madre sorride e il bambino la sta guardando. Il sorriso Duchenne (caratterizzato dal sollevamento delle guance, lo strizzare gli occhi e l’apertura della bocca) appare correlato con l’interazione e con la condivisione di affetti positivi. Nello specifico, le dimensioni del sollevamento delle guance e dell’apertura della bocca appaiono essere associate, rispettivamente, con l’amplificazione dei processi di condivisione di affetti positivi e di contatto interattivo tramite gli sguardi, elementi presenti in grado minore nel sorriso non Duchenne.

Ciò vale anche per gli affetti negativi: nei bambini la cry face (faccia da pianto) esprime sentimenti più intensi quando la bocca si apre e gli occhi si contraggono. Attraverso l’interazione, i bambini arrivano a comprendere se stessi come esseri sociali che influenzano e sono influenzati dagli altri; l’essere immersi in interazioni diadiche di sincronia contribuisce a sensibilizzare i bambini alla risonanza emotiva e all’empatia che sottende alle relazioni umane nell’arco della vita.

Gli occhi socchiusi e la bocca aperta rappresentano delle valide variabili discriminanti dell’intensità delle emozioni, perché gli stati emozionali (sia positivi che negativi) sono più intensi, anche negli adulti, quando sono accompagnati dalla costrizione degli occhi e dall’apertura della bocca.

Una differenza significativa tra l’espressione facciale delle emozioni nei bambini e negli adulti è che gli stati emozionali negativi sono associati a più movimento ed espressività del viso, rispetto agli stati positivi, nei bambini; negli adulti si verifica l’esatto contrario, l’espressività associata agli stati negativi è minore, essi mascherano le emozioni negative nel volto; la postura corporea rappresenta un indicatore più affidabile del reale stato emotivo della persona.

Se prendiamo in esame gli stati depressivi, vediamo come minore è l’espressività, a livello facciale, delle emozioni di tristezza, minore è la risposta al trattamento e maggiore è la gravità dello stato depressivo. Coloro che rispondono ai trattamenti hanno anche maggiore variabilità nel tono della voce, fanno meno pause mentre parlano e hanno un eloquio più rapido.

Nei bambini con diagnosi inerenti lo spettro autistico si verifica un minore livello di accordo tra le sensazioni sperimentate dal bambino e la conseguente risposta comportamentale: le reazioni sia a livello di espressione facciale che a livello verbale risultano più incoerenti e, inoltre, compare un modo caratteristico di ruotare la testa. A tempo stesso, la capacità di espressività a livello vocale tende a non modificarsi con l’avanzare dell’età e il bambino, nelle interazioni, appare più attratto dagli oggetti che dalle persone.

Per quanto riguarda la diagnosi precoce, il fatto che il bambino sia in grado di prestare attenzione all’adulto con cui è in interazione, attuando un’attenzione condivisa anche in assenza di altri stimoli, è un buon predittore dell’assenza di difficoltà legate allo spettro autistico.

In ultima analisi, l’osservazione e l’analisi delle espressioni facciali e della postura corporea rappresentano una valida fonte di informazioni, sia per quanto riguarda lo studio e la comprensione dei comportamenti umani, che per le applicazioni in ambito clinico e diagnostico.

cancel