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La pratica della Mindfulness migliora la qualità di vita delle donne in gravidanza

Mindfulness in Gravidanza: la letteratura internazionale, negli ultimi anni, si è interessata notevolmente a trovare delle soluzioni per migliorare la qualità di vita delle donne in gravidanza e dei loro futuri bambini. La crescita esponenziale e i numerosi benefici tratti dall’utilizzo della Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) hanno portato il mondo della ricerca a sperimentare il protocollo Mindfulness anche per le future mamme.

 

Stress in Gravidanza e tono dell’umore

Durante la gravidanza, lo stress e un basso tono dell’umore possono interferire nella relazione madre-neonato e nello sviluppo del bambino stesso, aumentando in modo considerevole il rischio di disturbi dell’umore post-natali.

Da alcuni studi (Gavin et al., 2005; Vieten & Astin, 2008) emerge che il 18% delle mamme sperimentano degli episodi depressivi nel corso della gravidanza, accompagnati da scarso appetito, sintomi psicosomatici e insonnia. Questi episodi per altro, tendono ad aumentare dal primo trimestre al terzo e ultimo trimestre quando il parto è ormai imminente. I sintomi depressivi potrebbero essere poi responsabili di successive conseguenze quali ridotto periodo di gestazione e nascita pretermine, parto cesareo non programmato, basso peso alla nascita del bambino, depressione post-partum.

La gravidanza è causa inoltre di alcune oscillazioni ormonali; il cortisolo, ad esempio, definito anche “ormone dello stress” può raggiungere dei livelli superiori alla soglia di produzione funzionale, innescando degli effetti indesiderati per l’organismo. Anche in questo caso l’aumento del cortisolo è direttamente proporzionale al trascorrere della gravidanza, con incremento di sintomi di carattere ansioso, dolori acuti e cronici e conseguente infiammazione della zona pelvica, sperimentati soprattutto negli ultimi mesi di gestazione.

 

Mindfulness in gravidanza

La letteratura internazionale, negli ultimi anni, si è interessata notevolmente agli aspetti sopra indicati, cercando di trovare delle soluzioni per migliorare la qualità di vita delle donne in gravidanza e dei loro futuri bambini. La crescita esponenziale e i numerosi benefici tratti dall’utilizzo della Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) hanno portato il mondo della ricerca a sperimentare il protocollo Mindfulness anche per le future mamme.

Per Jon Kabat-Zinn, pioniere della Mindfulness, la migliore definizione di questa disciplina è [blockquote style=”1″]porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante[/blockquote] (1994).

Si tratta cioè di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento per momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza, e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.

Mindfulness Based Stress Reduction

Il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction prevede solitamente 8-10 incontri con cadenza settimanale in cui è previsto l’apprendimento di alcune discipline come la meditazione seduta (sitting meditation) e camminata (walking meditation), il body scan e lo yoga. Gli effetti positivi della Mindfulness Based Stress Reduction sono ampiamente dimostrati su di una vasta gamma di patologie e disturbi quali insonnia, dolore cronico, stress, disturbi dell’alimentazione, ipertensione, disturbi d’ansia e dell’umore, difficoltà di memoria e di concentrazione.

Vieten e Astin (2008) mostrano che le mamme che avevano seguito un protocollo Mindfulness Based Stress Reduction standard nel corso della gravidanza, riscontravano dei risultati positivi considerevoli. Il gruppo sperimentale mostrava, infatti, un miglioramento del proprio umore superiore del 20-25% rispetto al gruppo di controllo composto da mamme che non avevano praticato Mindfulness Based Stress Reduction; il miglioramento era riscontrabile soprattutto in una riduzione dell’ansia, riduzione dei sintomi depressivi e un minore stress sperimentato nel periodo post-partum.

Mindfulness in gravidanza e diminuzione del dolore pelvico

Ancora, Beddoe e il suo gruppo di ricerca (2009) hanno dimostrato che la Mindfulness portava a una consistente diminuzione del dolore pelvico che, le donne incinte sperimentano di frequente nei mesi finali della gravidanza. Il dato interessante è che le future mamme che avevano iniziato, nel secondo trimestre di gravidanza il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction, avevano poi nell’ultimo trimestre una netta riduzione dei dolori acuti e cronici nella zona pelvica. Questa riduzione non si rilevava nel gruppo di controllo (composta da donne incinte che non avevano iniziato la MBSR) e nel gruppo composto da mamme che invece avevano praticato la MBSR solo all’inizio del terzo e ultimo trimestre di gravidanza.

 

Mindfulness in gravidanza per i disturbi d’ansia

Infine, dei lavori (Glover, 2014; Van de Heuvel et al., 2015) suggeriscono che i figli di mamme che hanno manifestato dei disturbi d’ansia nel periodo pre-natale, possono incorrere più facilmente in un ritardo nello sviluppo emotivo. Si stima che il 10-15% di questi neonati avranno poi, nella primissima infanzia, deficit emotivi e comportamentali. Un gruppo di ricerca dell’università olandese di Tilburg in uno studio recente (Van de Heuvel et al., 2015) ha mostrato i benefici della pratica Mindfulness in questa condizione.

I ricercatori hanno utilizzato per il loro esperimento delle mamme in stato interessante che, soffrivano di disturbi d’ansia non specifici ma legati probabilmente alla loro condizione materna. Un gruppo di queste mamme è stato sottoposto a un protocollo Mindfulness Based Stress Reduction standard, mentre il gruppo di controllo era composto da mamme che non praticavano Mindfulness. I risultati hanno dimostrato che i bambini al decimo mese di vita, figli di mamme che avevano praticato MBSR, mostravano una maggiore facilità di regolazione emotiva e affettiva rispetto al gruppo di bambini coetanei che invece erano figli di mamme appartenenti al gruppo di controllo.

 

Questi studi enfatizzano ulteriormente l’efficacia della Mindfulness in gravidanza e tutti i benefici che ne derivano, è necessario però che la ricerca prosegua in questo senso avendo come principale obiettivo quello di migliorare la qualità di vita della mamma e del suo bambino.

Correlati EEG dell’attività proiettiva spontanea su stimoli visivi non strutturati

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Correlati EEG dell’attività proiettiva spontanea su stimoli visivi non strutturati

Autrice: Susanna Bonanni (Università Sapienza di Roma)

Abstract

La proiezione è un meccanismo di difesa in cui l’individuo attribuisce all’altro vissuti emotivi o impulsi di tipo spiacevole che egli rifiuta in se stesso. Dati recenti suggeriscono l’implicazione di un pattern neurale fronto-parietale durante la proiezione di stati mentali interni su stimoli visivi non strutturati (Luciani et al., 2013). Ad oggi, nella comunità scientifica, non è ancora chiaro se la proiezione sia un meccanismo indotto dalla specificità della consegna assegnata durante la somministrazione di test proiettivi, quali il test di Rorschach, oppure sia un fenomeno spontaneo elicitato dalla natura ambigua dello stimolo. L’obiettivo del presente studio è quello di esplorare il ruolo della consegna valutando l’attività neuronale di un campione di soggetti durante la presentazione di stimoli visivi strutturati e non strutturati (ambigui).

A tal fine, sono stati confrontati due gruppi di partecipanti: ad un gruppo veniva assegnata una consegna specifica, viceversa, l’altro gruppo non riceveva istruzioni specifiche. I dati EEG sono stati registrati in modo continuo a 250 Hz utilizzando NetStation 4.5.1 HydroCel Geodesic Sensor Net a 256 canali. Successivamente, è stata svolta un’analisi dei potenziali evento correlati (ERP) ed una tomografia elettromagnetica a bassa risoluzione (sLoreta). Dai risultati ottenuti è stato riscontrato un pattern di attivazione fronto-parietale nel campione di soggetti con consegna specifica, in accordo con lo studio di Luciani e collaboratori (2013). Inoltre, le analisi comparative tra i due gruppi mostrano un’attivazione significativa della corteccia entorinale (BA28-sinistra) e peririnale (BA25-sinistra; BA36-sinistra) nel gruppo di soggetti senza consegna specifica. Tali risultati mostrano che la specificità della consegna gioca un ruolo cruciale nel determinare la qualità della proiezione e dell’attività neuronale ad essa sottostante. In particolare, in assenza di una consegna specifica ciò che viene messo in atto dai soggetti, posti di fronte alle figure non strutturate, potrebbe non essere un fenomeno proiettivo, bensì una strategia di disambiguazione percettiva dello stimolo supportata da un pattern temporo-mesiale.

Projection is a defence mechanism in which a person refuses his own unpleasant impulses by attributing them to others. Recent data suggest the involvement of a fronto-parietal neural pattern during projection of internal mental states on non-structural visual stimuli (Luciani et al., 2013). Nowadays, in the scientific community, is still not clear if projection is a mechanism induced by specific instructions given during projective tests, like Rorschach test, or it is a spontaneous phenomenon elicited by the ambiguity of stimuli. The aim of the present study was to explore the role of instructions by assessing neural activity of a sample of subjects during the presentation of structural and non-structural (ambiguous) visual stimuli.

In order to achieve this aim two groups were compared: one group received specific instructions and the other one didn’t. EEG data were recorded continuously at 250 Hz using NetStation 4.5.1 with 256-channels HydroCel Geodesic Sensor Net. Event related potential (ERP) components and low-resolution electromagnetic tomography (sLoreta) were analyzed. The relevance of a fronto-parietal pattern regarding the group with specific instructions was found, supporting the results of Luciani et al. (2013). Moreover, comparative analysis between the two groups show a greater activation of the entorhinal cortex (left-BA28) and the perirhinal cortex (left-BA35, left-BA36) in the group without specific instructions. Findings show that specificity of instructions plays a crucial role in determining the quality of projection and the neural activity below. In particular, subjects without specific instructions may respond to the non-structural stimulus with a perceptive disambiguation strategy supported by a middle-temporal pattern, rather than a projective phenomenon.

Parole chiave: Test di Rorschach, Proiezione, Correlati neurali, EEG, aree tempo-mesiali

Il Disturbo dell’apprendimento non verbale: un nuovo disturbo tra i DSA

Stefania Pedroni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

Disturbo dell’apprendimento non verbale: nell’area dei disturbi dell’apprendimento e dello sviluppo, vi è un sottogruppo di bambini competenti nella sfera verbale, ma meno capaci nei domini non verbali, in particolare nelle abilità visuo-spaziali. Questi individui incontrano una serie difficoltà di apprendimento e di adattamento.

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale: un DSA non ancora classificato

Nell’area dei disturbi dell’apprendimento e dello sviluppo, vi è un sottogruppo di bambini competenti nella sfera verbale (con un alto Quoziente Intellettivo Verbale), ma meno capaci nei domini non verbali e in particolare nelle abilità visuo-spaziali (Mammarella e Cornoldi, 2014). Questi individui incontrano serie difficoltà di apprendimento e di adattamento, per le quali richiedono valutazioni cliniche e supporto psicologico. Tuttavia gli attuali sistemi di classificazione (DSM-5 e ICD-10) non riportano una specifica categoria diagnostica in grado di descrivere il loro funzionamento.

Johnson e Myklebust (1967) hanno coniato il termine Disturbo dell’apprendimento non verbale, cercando di identificare le caratteristiche e le difficoltà dei bambini che ne soffrono. Tuttavia al momento attuale, sebbene la maggior parte dei ricercatori e dei clinici siano concordi sul fatto che esista chiaramente il profilo del bambino con Disturbo dell’apprendimento non verbale (ad eccezione di Spreen, 2011), gli stessi non sono d’accordo sulla necessità di una specifica categoria clinica e sui criteri per una sua identificazione (Fine, Semrud-Clikeman, Bledsoe e Musielak, 2013).

 

Il profilo dei bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale

Per fare chiarezza su questo aspetto, Mammarella e Cornoldi (2014) hanno condotto un’analisi della letteratura, selezionando 35 articoli scientifici, pubblicati tra gennaio 1980 e febbraio 2012, che hanno descritto il funzionamento di bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD – Non verbal Learning Disorder). Tale rassegna aveva lo scopo di portare alla luce i criteri maggiormente usati per identificare i bambini con NLD e differenziarli da coloro che non presentavano NLD.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno proposto 5 criteri diagnostici utili a identificare i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale:

  • Un basso profilo di intelligenza visuo-spaziale e un livello relativamente buono del Quoziente di Intelligenza verbale;
  • Difficoltà visivo-costruttive e della motricità fine;
  • Scarsi risultati scolastici in matematica rispetto a una buona abilità di lettura;
  • Deficit nella memoria di lavoro spaziale;
  • Difficoltà emotive e sociali.

Secondo gli autori (Mammarella e Cornoldi, 2014), per poter fare diagnosi devono essere presenti necessariamente il primo criterio e almeno due dei criteri dal 2 al 4, mentre il quinto potrebbe essere considerato come una possibile caratteristica associata. Infatti i problemi emotivi e sociali sono stati tra gli aspetti salienti per la selezione dei bambini inseriti nel gruppo con Disturbo dell’apprendimento non verbale in molte ricerche analizzate, ma nessuno studio ha riportato misure oggettive del funzionamento sociale, di cui solo alcuni aspetti sono stati indagati scrupolosamente, ovvero la comprensione delle emozioni, la percezione sociale e le abilità relazionali.

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale e i problemi di adattamento sociale

L’importanza di possedere adeguate abilità sociali per potersi relazionare agli altri in modo efficace, ha condotto i ricercatori a studiare questo ambito con interesse. Una possibile spiegazione della relazione tra problemi di adattamento sociale e Disturbo dell’apprendimento non verbale è stata proposta da Galway e Metsala (2011): le difficoltà nelle abilità visuo-spaziali interferiscono con la percezione dei segnali non verbali negli scambi relazionali (Petti et al., 2003). E’ teoricamente significativo il fatto che i bambini che hanno deficit nei compiti di organizzazione visuo-percettiva, abbiano difficoltà anche nell’interpretazione di segnali sociali non verbali, spesso lievi e passeggeri, come espressioni facciali e vari segni paralinguistici fonti di informazioni importanti (per esempio gesti e umorismo), (Petti et al., 2003). Una quantità significativa di comunicazione avviene tramite il linguaggio non verbale (Nowicki e Duke, 1992), per questo in letteratura si è ragionato sul fatto che i bambini con deficit nell’interpretazione di segnali non verbali possano avere problemi nelle interazioni ed essere a rischio di problemi emotivi e sociali, come è stato evidenziato nella rilevazione di un aumento della psicopatologia in persone con Disturbo dell’apprendimento non verbale (Petti et al., 2003).

Galway e Metsala (2011) nella loro ricerca sperimentale hanno esaminato le relazioni tra le abilità nella risoluzione di problemi interpersonali, le abilità visuo-spaziali e l’adattamento psicosociale (descritto da genitori e insegnanti). Il loro studio ha evidenziato come i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale mostrino difficoltà in molti aspetti nella risoluzione dei problemi interpersonali, paragonati ai bambini della stessa età con sviluppo tipico: in particolare codificano meno segnali sociali e sono più scarsi nell’interpretare emozioni basate su questi indicatori. La percezione sociale non verbale è stata misurata utilizzando scenari video-registrati di situazioni di vita reale, ecologicamente più validi rispetto a immagini statiche.

Le difficoltà a livello non verbale nella percezione sociale che vengono documentate, forniscono supporto empirico allo studio di Rourke (1995), secondo cui i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale hanno problemi a identificare e riconoscere alcune espressioni di emozioni e altri sottili indicatori non verbali nelle interazioni sociali.

 

Un aspetto interessante dello studio riguarda il fatto che, quando venivano presentati oralmente aneddoti sociali, non emergevano differenze tra i gruppi relativamente all’identificazione di elementi interpersonali della storia, di riconoscimento delle emozioni dei personaggi o di formazione di opinioni sugli aspetti relazionali.

 

Il contributo dello studio di Galway e Metsala (2011) è stato quello di scoprire correlazioni significative tra le abilità visuo-spaziali e le abilità di percezione e interpretazione dei segnali non verbali. Questi risultati suggeriscono che deficit nelle abilità visuo-spaziali conducono a deficit di percezione sociale, anche se un rapporto di causa-effetto non è ancora stato confermato empiricamente (Petti et al., 2003). Un aspetto interessante dello studio riguarda il fatto che, quando venivano presentati oralmente aneddoti sociali, non emergevano differenze tra i gruppi (bambini con e senza Disturbo dell’apprendimento non verbale) relativamente all’identificazione di elementi interpersonali (e non interpersonali) della storia, di riconoscimento delle emozioni dei personaggi o di formazione di opinioni sugli aspetti relazionali. Le difficoltà che emergevano quando i bambini dovevano interpretare le emozioni basandosi su video-registrazioni (scenari non verbali), non venivano riscontrate in queste storie verbali. Secondo gli autori questo poteva essere spiegato col fatto che le abilità verbali, ben sviluppate nei bambini di entrambi i gruppi, permettevano rappresentazioni adeguate del problema a partire da aneddoti verbali. Questo potrebbe essere considerato come un possibile e importante punto di forza nella risoluzione di problemi interpersonali nei bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale (Galway e Metsala, 2011).

Entrando nello specifico dello studio, gli autori hanno rilevato che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale possiedono lo stesso repertorio di comportamenti assertivi dei loro pari a sviluppo tipico, ma non credono che queste risposte condurranno a risultati di successo. Quindi scelgono meno spesso una di queste loro condotte competenti come la migliore soluzione a un problema. Una possibile spiegazione per gli stessi ricercatori riguarda il fatto che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale possono avere difficoltà a generalizzare a partire da casi singoli in cui hanno ottenuto risultati positivi. Quindi potrebbero avere difficoltà a costruire un concetto corrispondente a ‘comportamenti che portano a risultati positivi’. Questo potrebbe confermare l’indicazione di Rourke (1995), che ha suggerito che la formazione di un concetto generale è un’area di difficoltà nei bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale e lo studio di Schiff, et al. (2009), che ha verificato che questi bambini hanno difficoltà con il ragionamento analogico. Lo studio rappresenta un passo iniziale verso un’analisi più esauriente dei processi cognitivi in bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale.

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale, Sindrome di Asperger & ADHD

Alla luce di queste prime evidenze, Galway e Metsala (2011) suggeriscono che gli interventi e gli approcci terapeutici potrebbero includere strategie che mirano a favorire interpretazioni più positive del comportamento degli altri, elaborare risposte a un problema che abbiano più probabilità di essere efficaci e lavorare verso la messa in atto di tali risposte. In contesto educativo, il lavoro di gruppo e un training su queste abilità potrebbe dare beneficio ai bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale. Per esempio gli insegnanti potrebbero aiutarli a individuare i comportamenti (in situazioni sociali) che più probabilmente hanno un esito favorevole e di conseguenza lavorare su come eseguire il comportamento in modo competente. Potrebbe essere praticato un training preventivo in aggiunta a un supporto fornito durante il corso dell’interazione sociale.

Nell’esperienza clinica degli autori (Galway e Metsala, 2011), essi hanno osservato che adulti e pari potrebbero attribuire motivazioni negative ai comportamenti problematici dei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale. Un importante passo verso il miglioramento delle esperienze scolastiche di questi individui, potrebbe essere l’aiutare il personale scolastico a comprendere meglio il disturbo dell’apprendimento non verbale in generale, oltre alle specifiche aree di difficoltà di ogni determinato bambino con disturbo dell’apprendimento non verbale.

Comprendere le interazioni sociali è cruciale per lo sviluppo della competenza sociale, secondo lo studio di Semrud-Clikeman et al. (2010), uno dei primi a utilizzare misure dirette e indirette della percezione sociale per esplorare possibili differenze tra bambini con differenti disturbi: disturbo dell’apprendimento non verbale, sindrome di Asperger, ADHD misto, ADHD con predominanza di disattenzione e un gruppo di controllo a sviluppo tipico.

Lo scopo di questo studio era quello di valutare la percezione e il funzionamento sociale in bambini con sindrome di Asperger e disturbo dell’apprendimento non verbale, usando misurazioni dirette e indirette. Una caratteristica che definisce la sindrome di Asperger (AS) è la difficoltà nelle relazioni sociali (America Psychiatric Association, 2000). Gli individui con tale sindrome hanno problemi con gli altri, hanno difficoltà nella comunicazione reciproca e sono pedanti nelle loro abilità linguistiche (Klin, Volkmar, Sparrow et al., 2000). Inoltre la presenza di interessi stereotipati e ristretti, la difficoltà a condividere il piacere per le attività o gli oggetti e un’aderenza inflessibile alle routine o ai rituali sono stati riconosciuti come aspetti importanti nella diagnosi della sindrome di Asperger (American Psychiatric Association, 2000). Sottolineare frequentemente le difficoltà sociali in questi individui porta a vissuti di incomprensione e successivo ritiro, in particolare nelle interazioni sociali nuove e inaspettate (Adolphs et al., 2001).

Difficoltà nella percezione sociale è stata anche associata a Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD) (Myklebust, 1975). I bambini con NLD hanno deficit specifici nell’identificare espressioni facciali e gesti (Petti et al., 2002), a usare il contenuto emotivo per fare inferenze sociali (Worling et al., 1999) ed elaborare segnali sociali (Woods et al., 2000). Alcuni studi hanno trovato che anche bambini con NLD diventano ritirati e tristi in seguito ad esperienze negative coi loro pari (Rourke e Tsatsanis, 2000). Tuttavia oltre alle somiglianze nell’area delle difficoltà di socializzazione tra individui con NLD e AS (Klin, Volkmar e Sparrow, 2000), ci sono molte differenze che possono fare ipotizzare che questi disturbi abbiano diversi substrati neurologici sottostanti (Semrud-Clikeman et al., 2010). Per esempio, al contrario dei bambini con sindrome di Asperger, quelli con NLD hanno spesso difficoltà nei calcoli e nel ragionamento matematico così come nella comprensione del testo. Inoltre i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale hanno più probabilità di avere difficoltà nelle abilità visuo-spaziali, come per esempio nel comprendere destra e sinistra (Forrest, 2007).

I bambini con sindrome di Asperger si distinguono da quelli con NLD nel fatto che generalmente hanno bisogno di attaccarsi a routine rigide, hanno interessi stereotipati e spesso hanno buoni risultati scolastici (Ozonoff e Rogers, 2003). Secondo Semrud-Clikeman et al. (2010), l’uso di una metodologia complessa, come per esempio quella di Lecavalier et al. (2009) o Gadow et al. (2008), per determinare quali sintomi sono simili o differenti tra bambini con AS o NLD, è necessario per comprendere come questi disturbi si intersechino. Inoltre è necessaria un’ampia mole di studi che possa definire criteri diagnostici appropriati per NLD simili a quelli che sono stati fatti per AS.

Lo scopo dello studio (Semrud-Clikeman et al., 2010) era determinare possibili differenze tra i bambini diagnosticati con sindrome di Asperger, NLD e sottotipi di ADHD su misure dirette e indirette di funzionamento sociale ed emotivo. La principale scoperta riguarda il fatto che i bambini con sindrome di Asperger e quelli con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno più difficoltà a valutare indicatori emotivi e non verbali, paragonati ai bambini dei gruppi di controllo e a quelli con ADHD. Non è stata confermata invece l’ipotesi secondo cui i bambini con sindrome di Asperger hanno più difficoltà di quelli con NLD (Semrud-Clikeman et al., 2010). In accordo con studi precedenti (Lecavalier et al. 2009), che usavano scale di valutazione neuropsicologica e di comportamento, lo studio attuale trova più somiglianze nella percezione sociale tra gruppi con NLD e AS che differenze, usando una misura diretta di valutazione della percezione sociale.

Tali risultati suggeriscono che sia NLD sia AS sono associati a disturbi sociali. Le scale sui comportamenti compilate da genitori e insegnanti mostrano differenze significative tra i gruppi: come aspettato, il gruppo di controllo mostra un migliore funzionamento comportamentale in tutte le aree paragonato al gruppo clinico. Quando vengono confrontati i gruppi clinici, i bambini con AS mostravano più problemi esternalizzanti rispetto al gruppo di controllo e al gruppo ADHD con predominanza di disattenzione; una scoperta in accordo con precedenti ricerche (Lecavalier et al. 2009). All’interno della scala internalizzante, i sintomi di tristezza erano particolarmente evidenti per bambini con AS, NLD e ADHD misto, con il gruppo AS che mostrava la maggiore tendenza ad avere queste difficoltà. I genitori osservavano più ritiro in casa per i gruppi AS e NLD, gli insegnanti indicavano ritiro sociale in relazione soprattutto al gruppo AS. La tendenza al ritiro dalle relazioni sociali può essere associata a una più alta consapevolezza delle difficoltà sociali come evidenziato dai punteggi nelle scale auto-riferite dal gruppo con AS. I risultati dell’attuale studio mostrano che i bambini con problemi di competenza sociale, indipendentemente dalla diagnosi, sperimentano vissuti di rifiuto sociale, con difficoltà secondarie relativamente all’umore e al ritiro sociale.

Clinicamente queste scoperte sono importanti poiché pongono in evidenza il fatto che gli interventi non devono avere come obiettivo solo il miglioramento nelle abilità sociali, ma anche aumentare nei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbalel’abilità di far fronte al rifiuto sociale e di gestire meglio la tendenza al ritiro da tali interazioni (Semrud-Clikeman et al., 2010).

Mentre le difficoltà comportamentali erano aspettate per i bambini con una diagnosi di ADHD misto, l’entità degli aspetti internalizzanti no. I bambini con ADHD misto erano considerati dai loro genitori e insegnanti avere più sintomi di depressione, rispetto a quelli con ADHD con predominanza di disattenzione (i loro punteggi erano nella fascia a rischio). Questa scoperta potrebbe far pensare che i bambini con una diagnosi di ADHD con predominanza di disattenzione, senza problemi di apprendimento, abbiano un maggiore adattamento paragonati a quelli con ADHD misto. Questo conferma precedenti studi, che avevano trovato risultati simili (Gadow et al. 2004).

Uno dei limiti di questa ricerca, tuttavia, è proprio la difficoltà nella diagnosi di disturbo dell’apprendimento non verbale. Non è chiaro come le scoperte siano rappresentative per le persone con disturbo dell’apprendimento non verbale nella letteratura, poiché i criteri diagnostici variano largamente tra i ricercatori (Forrest, 2007). Ecco perché è importante individuare criteri diagnostici chiari, definiti e condivisi dalla comunità scientifica. Ma occorre ancora tanto lavoro in questa direzione e stimolarlo diventa utile.

Pur tenendo in considerazione questo limite, dai risultati si evince che i bambini con sindrome di Asperger e NLD mostrano difficoltà nella comprensione delle emozioni e dei segnali non verbali presenti nelle interazioni sociali. I bambini con ADHD agiscono invece in modo socialmente più funzionale rispetto a questi ultimi. Quindi le difficoltà percettive possono influenzare la comprensione delle interazioni sociali più dell’attenzione (Semrud-Clikeman et al., 2010). Inoltre i bambini con sindrome di Asperger, NLD e ADHD-misto mostrano i maggiori sentimenti di sconforto e ritiro sociale, in base ai punteggi ottenuti dalle valutazioni fornite da genitori e insegnanti.

Tuttavia è importante non solo esaminare i punteggi dei comportamenti dei bambini risultanti dalle valutazioni di genitori e insegnanti, ma anche utilizzare misure dirette di comprensione delle interazioni sociali, quando si analizzano i comportamenti dei bambini con problemi nella competenza sociale. I dati autoriferiti da parte di bambini con sindrome di Asperger, NLD e ADHD-misto possono essere problematici (Semrud-Clikeman et al., 2010): nello studio i bambini con queste diagnosi non avvallano item che indichino problemi nel funzionamento sociale. Secondo gli autori può essere che siano inconsapevoli o non disposti a rivelare ciò che li riguarda su una scala di auto-valutazione. Valutazioni cliniche qualitative di bambini con sindrome di Asperger e NLD hanno messo in evidenza che questi bambini provano sentimenti significativi di solitudine e isolamento sociale che sono dolorosi per loro (Gadow et al. 2008). Interviste con bambini con questi disturbi così come osservazioni comportamentali possono essere un metodo più appropriato per valutare queste aree di forza e fragilità nel funzionamento sociale (Semrud-Clikeman et al., 2010).

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale e disagio emotivo

Il disagio emotivo provato da bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale è stato approfondito nella ricerca di Mammarella, Ghisi et al. (2014), in cui l’obiettivo principale era quello di fare luce sulle caratteristiche psicologiche di bambini con diversi profili di Disturbi dell’apprendimento (8-11 anni): bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD), Disturbo della lettura (RD) e bambini a sviluppo tipico (TD). Sono stati somministrati loro Questionari per valutare sintomi ansiosi e depressivi. Lo scopo era quello di identificare diversi profili di difficoltà internalizzanti (come ansia e depressione) in bambini con NLD, paragonati a bambini con RD e TD, dal momento che, secondo gli autori, sono stati pubblicati troppo pochi risultati sui problemi internalizzanti di bambini con NLD (e RD). Sono state inoltre esplorate le differenze in termini di ansia (generalizzata, sociale, da separazione e scolastica).

I risultati della ricerca evidenziano che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale e RD manifestano maggiori sintomi ansiosi dei bambini a sviluppo tipico. In particolare manifestano maggiori sintomi di ansia generalizzata e ansia sociale. Alti livelli di ansia generalizzata potrebbero essere dovuti alla sensazione che le situazioni siano fuori dal loro controllo, impressione che viene provata frequentemente anche dai bambini con Disturbo del linguaggio (Margalit e Zak, 1984). I sintomi di ansia sociale in bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbero essere legati alle loro difficoltà nel riconoscimento dei segnali emotivi non verbali, come le espressioni facciali e i gesti (Petti et al., 2003) e perciò potrebbero essere ragionevolmente attribuiti alle loro scarse abilità sociali (Woods et al., 2000).

D’altro canto è abbastanza comune aspettarsi che i bambini con RD leggano male e per questo siano preoccupati di leggere ad alta voce in classe e questo potrebbe far sviluppare sintomi di ansia sociale. Così le preoccupazioni potrebbero essere indotte da commenti negativi da parte di insegnanti, genitori e compagni di classe. Gli esiti suggeriscono anche che differenti tipi di Disturbi del linguaggio si associano a diversi quadri di ansia.

Inoltre i bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale presentano maggiori livelli di ansia scolastica e ansia da separazione dei bambini a sviluppo tipico. Secondo gli autori questo potrebbe essere dovuto al fatto che il loro disturbo è molto meno conosciuto del Disturbo della lettura e di conseguenza verrebbe gestito in modo meno appropriato a scuola (per esempio potrebbe essere poco noto e gli insegnanti potrebbero non essere in grado di riconoscerlo prontamente). Un approccio inappropriato a questi bambini potrebbe farli sentire inadeguati e ansiosi sulle loro prestazioni scolastiche.

Una scarsa comprensione generale dei sintomi tipici dei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbe anche essere responsabile di stili educativi genitoriali disfunzionali che contribuirebbero ad aumentare nei bambini l’ansia per il loro rendimento scolastico, come evidenziato dalla ricerca di Antshel e Joseph (2006). Stili educativi genitoriali disfunzionali potrebbero essere associati all’ansia da separazione provata da questi bambini: precedenti ricerche hanno rilevato che lo stress provato nell’allevare un bambino con Disturbo del linguaggio può colpire i bambini in molti modi, incluso lo sviluppo di un attaccamento insicuro ai genitori (Mammarella, Ghisi et al., 2014). Molti autori hanno sottolineato una correlazione positiva tra stile di attaccamento insicuro e ansia da separazione nei bambini (Dallaire e Weinraub, 2005). Tuttavia la ricerca di Mammarella, Ghisi et al. (2014) non ha raccolto valide informazioni sullo stile educativo genitoriale dei partecipanti allo studio. Indagini future potrebbero indagare più approfonditamente la relazione tra lo stress percepito dei genitori, il loro stile educativo e l’ansia da separazione dei loro figli.

Un’altra possibile spiegazione per gli alti livelli di ansia da separazione nei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbe essere legata alle loro caratteristiche di asocialità e ritiro sociale (Rourke, 1995): la loro inclinazione a ritirarsi in se stessi potrebbe implicare una mancanza di altra rete sociale oltre ai genitori, che potrebbe dare luogo a una più elevata ansia da separazione rispetto ai fanciulli a sviluppo tipico.

 

I sintomi di depressione in bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbero di conseguenza venire sottostimati a causa della loro compromessa comprensione delle emozioni

 

Per quanto riguarda la depressione, i bambini con RD presentano una maggiore quantità di sintomi depressivi rispetto agli altri due gruppi, come riconosciuto anche da ricerche precedenti (Maughan et al., 2003). In letteratura (Forrest, 2004), i bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno mostrato anche forme internalizzanti di psicopatologia come la depressione, ma tali osservazioni erano rivolte a bambini di età maggiore rispetto a quelli dello studio di Mammarella, Ghisi et al. (2014), che avevano dagli 8 agli 11 anni. Come riportato in precedenti ricerche (Woods et al., 2000), i bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale sono anche caratterizzati da specifici deficit nell’uso di contenuti emotivi e nell’elaborare segnali sociali; i sintomi di depressione in bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbero di conseguenza venire sottostimati a causa della loro compromessa comprensione delle emozioni. La ricerca futura potrebbe paragonare bambini più e meno giovani con NLD e RD, per analizzare ulteriormente come si sviluppino i vari sintomi internalizzanti.

Alla luce di queste riflessioni si può concludere che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale sono riconoscibili clinicamente e necessitano di sostegno psicologico, nonostante né DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) né ICD-10 (World Health Organization, 1992) menzionino una specifica categoria diagnostica in grado di definirli. Le ricerche sperimentali condotte fino ad oggi hanno permesso di individuare, con un certo grado di consenso tra i diversi autori, un insieme preliminare di criteri per diagnosticare il Disturbo dell’apprendimento non verbale, tuttavia è necessaria altra ricerca per identificare chiari criteri diagnostici (Mammarella e Cornoldi, 2014). Questo primo passo è fondamentale per poter successivamente sviluppare un intervento clinico adeguato.

Le forme della Gelosia

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Sabato 21 Novembre 2015

Dandi e Scialoja in ‘Romanzo Criminale’, Julius Klug in ‘Delirio e gelosia‘, Edvard Munch nel Munchmuseet e anche Medea…La scena del crimine si ripete: il triangolo amoroso. L’innesco dell’esplosione è lo stesso: gelosia.

Inizia il giorno in cui compilo l’elenco dei gelosi. Dandi e Scialoja, il ladro e la guardia, uno dei capi della Banda della Magliana e il commissario che ossessivamente gli dà la caccia in Romanzo Criminale, se si guardassero con attenzione allo specchio vedrebbero riflesso il volto dell’altro. Due destini, la stessa persona. Julius Klug, orologiaio di fede ultramontana internato ad Heidelberg nel 1895, apparirebbe nella stessa immagine. Nel Munchmuseet di Oslo è rinchiuso un altro caso di somiglianza: Edvard Munch. Manca la gelosia femminile. L’esempio perfetto: Medea. Ho dati sufficienti. La scena del crimine si ripete: il triangolo amoroso. L’innesco dell’esplosione è lo stesso: gelosia.

La gelosia del Dandi e Scialoja in Romanzo Criminale

Dandi, nella sua arroganza, vuole per sé ‘la mejo mignotta de Roma’. Quindi cerca la donna che tradisce, per definizione. Scialoja, quando la interroga, sa che Patrizia è la donna del Dandi. E se ne innamora. Per tutta la serie si rincorreranno in un gioco a sconfiggere il rivale, a rubargli la femmina. Lei sfugge con sistematica freddezza, tradisce uno e inganna l’altro. Nella ricerca di salvezza andrà a rifarsi una vita in provincia, da fioraia. Dandi la scoverà, giusto per ricordarle che è sua, e che prostituta resta. Pochi giorni dopo Patrizia gli intima di sposarla, pena rivelazioni a Scialoja. Niente di più eccitante per Dandi. Non la sicurezza del possesso gli interessa, ma umiliare il rivale. Pagherà cara la sua passione triangolare: Patrizia lo tradirà un’ultima volta, indirizzandolo all’agguato mortale.

La gelosia delirante di Julius Klug

Julius Klug, K nel testo di Karl Jaspers ‘Delirio di Gelosia, inizia a credere che la moglie lo tradisca sedici anni dopo avere iniziato a costruire un orologio astronomico. Quella meticolosità nell’inutile che la ritrovi nei personaggi di Baricco. Comincia credendo che la moglie treschi con l’orologiaio di una città vicina. Quale rivale peggiore? La picchia, le dà della puttana. Sente rumori nella notte: uomini che insidiano la sua donna. Minaccia con la pistola chi crede esserne amante, denuncia chi lo considera pazzo e vuole internarlo, ma il sanatorio sarà il suo destino.

Leggo il resoconto di Jaspers: ‘Quando incontrava uno degli uomini di cui sospettava scappava‘. Si sente in pericolo, schiacciato, incompreso, deriso e alla fine mandato in miseria. Ricorda che la moglie era stata definita una composizione floreale che ornava il suo signor negozio. Nell’autobiografia scritta durante il suo soggiorno in manicomio la definisce: ‘Il serpente tra i fiori‘. Una composizione floreale a disposizione di tutti. Formo connessioni: Dandi. Lui avrebbe sottoscritto.

Gelosia: dalla vulnerabilità all’aggressione

Altre connessioni. Un anno fa passeggiavo nel Giardino della Minerva della scuola medica salernitana con il mio collega Giampaolo Salvatore. Mi diceva: ‘La base della gelosia è il senso di vulnerabilità, di inferiorità. Pensa a Sabato, Domenica e Lunedì di Eduardo. Peppino Priore che si sfoga a tavola, si sente fesso a fronte della tresca di sua moglie. La sua fragilità minacciata è diventata rabbia‘.

Ritorna tutto. Dandi, Scialoja, nessuno vuole soccombere, la misura del loro valore è il possesso dell’oggetto d’amore. Ma nell’animo ognuno di loro si sente inferiore e reagisce attaccando o ricercando il senso di grandiosità. Superiorità morale nel caso di K e Scialoja. Un attico nel centro di Roma è il tempio che Dandi erige a se stesso.

Poi c’è Munch, il Munchmuseet. Gelosia del 1895, l’anno in cui K fu internato. Inizio oggi a stabilire nessi paranoici Se volete conoscere la faccia della gelosia, è ritratta lì in primo piano. Ed è la faccia dello spavento e della sconfitta. Perplessità, occhi sgranati, smarrimento. Alle spalle la coppia di amanti che esclude il pittore.

Il viso è abbattuto, apparirà identico in Gelosia II (non lo cercate al museo, non è lì). Passeggio per le sale, il mio ospite mi fa notare un altro quadro, non ricordo oggi il titolo, dipinto decadi dopo. In primo piano lo stesso viso, ma alle spalle c’è una casa in fiamme. Gli amanti non li vediamo, ma sono chiusi là dentro. Di nuovo torna tutto, prima la vulnerabilità e solo dopo l’aggressione, tentativo fallimentare di restaurare la dignità smarrita.

Gelosia - un articolo di Giancarlo Dimaggio_Edvard Munch
Edvard Munch, Sjalusi (Gelosia, 1895 – olio su tela)

Infine Medea che annichilita dal tradimento di Giasone si vendica uccidendo i propri figli per colpire meglio l’infedele. La rievoca Giulia Sissa nel suo ‘La gelosia‘: ‘Furibonda e astuta, viscida e giubilante, la Medea di Seneca è pura crudeltà’.

Le forme della gelosia

Gli attori sono in scena, i fatti sulla scrivania, ora le deduzioni. La gelosia è il timore che l’oggetto amato sparisca per mano di un rivale. Ha varie gradazioni: quel senso di minaccia e sospetto che almeno una volta ha preso tutti i veri innamorati: perché non ha risposto al telefono? Con chi stava parlando? Che ci va a fare in palestra? Sospetti utili entro un certo grado, un minimo di controllo serve e l’altro si sente amato.

Poi la gelosia della personalità paranoide. La sospettosità è sistematica, fondata o meno che sia, la convinzione non muta: l’altro inganna, umilia, deruba. Stai in guardia, erigi un bunker. Se messo al muro, attacca. Infine la gelosia delirante. Più ferma e invincibile della personalità paranoide, crea fatti che non esistono. K sentiva carezze al piede nella notte, gli amanti della moglie si erano intrufolati nel suo letto.

Genesi della gelosia

La radice della gelosia? Ne identifico due. La prima è il senso di vulnerabilità, inferiorità. Come sangue che si ghiaccia, gambe che si sciolgono come cera. Le azioni del geloso, controllo, investigazioni, aggressioni e vendette nascono da lì, tentativi maldestri di proteggere la lumaca quando il guscio si crepa. Costruire grandi case in mura di orgoglio e intonare inni al proprio valore servono ad allontanare la vulnerabilità. Se c’è qualcuno da accusare, il geloso scaccia l’idea strisciante di appartenere ad una genia di reietti. Gode del vigore che dà il combattere il nemico invece di sentirsi una nullità.

La seconda: una forma di relazione oggettuale, il modo in cui nella mente prevedete andranno i rapporti. Immaginatela così: bramate l’amato ma temete che non siate alla sua altezza e qualcuno più potente di voi lo conquisterà. L’angoscia è insostenibile. La vita affettiva si plasma intorno al bisogno di controllare la perdita temuta. Scegliete una persona che vi fa tremare la terra sotto i piedi e passate la vita a prevenirne la fuga. La scelta di Dandi e Scialoja. L’amore per l’inaffidabile e inafferrabile.

La storia finisce sempre allo stesso modo: l’oggetto d’amore si rivela un serpente tra i fiori.

Il film “Thank you for smoking”: e se Reitman avesse parlato di carne rossa invece che di sigarette?

In un momento di piena psicosi mediatica da carne cancerogena, mi sovviene alla mente una brillante pellicola di circa un decennio fa, tratta dall’omonimo romanzo di Christopher Buckley, dal titolo “Thank you for smoking” di J.Reitman.

Nick Naylor è un lobbista per l’industria del tabacco, quel tipo di persona in grado di influenzare a proprio vantaggio l’opinione pubblica, grazie al magico potere della persuasione.
Più precisamente è il Vicepresidente dell’Accademia di Studi sul Tabacco, totalmente consapevole di quello che fa, conosce perfettamente il numero delle malattie e delle morti dovute al fumo di sigaretta, ma come ripete spesso durante il film:

[blockquote style=”1″]ha un mutuo da pagare come tutti.[/blockquote]

Nick è divorziato e ha un figlio con cui vorrebbe passare più tempo, ma gli impegni di lavoro e una ex moglie, preoccupata dell’influenza negativa che il mestiere del padre potrebbe avere sul bambino, glielo impediscono.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

https://www.youtube.com/watch?v=uC9dS-7pEXE

Non voglio sottolineare nulla riguardo l’aspetto discutibile del sistema capitalistico, delle multinazionali o delle logiche di mercato, non sarebbe mia competenza, non sarei in grado; possiamo però provare ad immaginare lo stesso film, magari sostituendo le sigarette con la famigerata carne rossa.

Ovviamente la carne rossa non crea assuefazione o dipendenza come la nicotina, ma è chiaro a tutti che un consumo eccessivo di essa può provocare diversi disturbi nell’organismo. Al di là degli ultimi rapporti dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sulla probabilità che la carne rossa sia in grado di favorire l’insorgenza del cancro, esistono altre patologie dovute al consumo eccessivo di carne, ad esempio un elevato rischio di malattie cardiache o la semplice obesità.

Nessuno si preoccupa della dentatura e delle unghie giallastre dovute al fumo di sigaretta, o del rischio di impotenza maschile, ma c’è una parola che se usata mobilita tutti; quella parola è ‘cancro’, che al giorno d’oggi non solo indica un’enorme sofferenza fisica e psicologica dovuta alle terapie, ma indica un’alta probabilità di morte nonostante l’enorme ricerca in medicina degli ultimi anni.

Ed è ormai una patologia talmente comune, che tutti noi abbiamo avuto vicino nel corso della nostra esistenza, una persona malata di cancro; familiari, amici o addirittura noi stessi.

E’ un tema straziante per tutti, nessuno rimane emotivamente distante da un argomento del genere.
A chi ancora non ha visto il film da cui sto prendendo ispirazione, consiglio di fermare qui la lettura perché sto per svelarne il finale: Nick viene rapito e intossicato di nicotina, si salverà per miracolo qualche ora dopo in ospedale; il Capitano, l’ultimo grande magnate del tabacco, nonché ispirazione del nostro lobbista, muore per un attacco cardiaco e Nick, improvvisamente, sviluppa un senso di protezione e di esempio paterno nei confronti del suo piccolo Joey, i quali lo portano a rifiutare una nuova offerta di assunzione nella sua azienda.

Sono tutte situazioni che colpiscono il nostro protagonista sul personale, sono per lui emotivamente toccanti: il rischio della propria morte, quella di un persona vicina, la vita di un figlio… improvvisamente Nick diventa sensibile all’argomento con cui per anni si è sudato lo stipendio.

Questo film offre a tutti coloro che lo guardano un interessante spunto di riflessione sulla psiche umana: perché la nostra sofferenza e il nostro disagio, in egual misura, sono sempre maggiori di quelli degli altri? Perché se è un problema non ci riguarda direttamente non ci interessa?
Reitman quindi, grazie all’uso di una satira tagliente e intelligente, rappresenta tematiche ancora molto attuali sul ruolo della società, sulla verità e sulla libertà di scelta.

Il concetto di parenting nella storia della psicologia: funzioni genitoriali, competenze e stili genitoriali

Il tema del parenting ha iniziato a svilupparsi agli inizi del ‘900 come riflessione sociologica sulle diverse rappresentazioni del ruolo genitoriale, pedagogica sui modelli relativi all’educazione del bambino e psicologica sulla centralità del ruolo genitoriale nello sviluppo del bambino e sui processi di formazione dell’identità e benessere psicologico.

In psicologia Winnicott, Bowlby, Stern hanno osservato la relazione madre-bambino nei processi di base della formazione del sistema psichico (Bowlby 1989; Stern 1985, 2004; Winnicott 1968) e quindi dell’importanza della qualità delle cure genitoriali nei processi di formazione dell’identità. Nel corso degli studi sul parenting si sono alternate definizioni che hanno privilegiato il concetto di funzione, stile e competenze genitoriali, alcune volte utilizzate come sinonimi, altre volte come termini distinti e altre ancora come concetti integrati tra loro.

 

Parenting come funzione

Rispetto al concetto di funzione genitoriale uno dei principali modelli che descrive il ruolo dei genitori è quello di Bornstein (2002) che osserva le attività svolte dai genitori nella relazione con i figli all’interno dei diversi ambiti di sviluppo come l’autonomia, l’apprendimento, le relazioni sociali.
Anche Visentini (2006) propone un modello di parenting orientato a definire il ruolo genitoriale in termini di finalità psico-sociali dell’accudimento sulla base della meta-analisi delle principali teorie psicologiche sullo sviluppo del bambino e sulle relazioni famigliari.

Visentini (2006) definisce otto funzioni genitoriali: la funzione protettiva, la funzione affettiva, la funzione emotiva, la funzione normativa, la funzione predittiva, la funzione rappresentativa, la funzione significante, la funzione triadica.

 

Parenting: gli stili genitoriali

Nell’ambito dello studio del parenting un altro tema analizzato è quello dello stile genitoriale: mentre le funzioni genitoriali rappresentano [blockquote style=”1″]l’insieme delle attività portate avanti, realizzate, compiute dal genitore nell’accudimento del figlio[/blockquote] (Paradiso, 2015), lo stile genitoriale descrive la modalità relazione con cui il genitore entra in relazione con il figlio. Benedetto e Ingrassia (2010) descrivono i diversi stili genitoriali attraverso una riflessione storica che ha il merito di riprendere le principali categorie che hanno determinato lo sviluppo di questo concetto.

La panoramica si sofferma sui diversi termini utilizzati dai diversi autori che rendono conto delle caratteristiche degli stili genitoriali: i primi concetti hanno descritto stili genitoriali di accettazione-rifiuto e dominanza-sottomissione (Symonds,1939), oppure di calorosità-ostilità; di rigidità-permissività, coinvolgimento ansioso-distacco tranquillo ( Becker, 1964), di controllo fermo e controllo debole o autonomia psicologica e controllo psicologico (Schaefer,1959), di controllo e supporto ( Baumrind, 1991).

 

Parenting: competenze genitoriali

Un altro concetto determinante nello studio del parenting è quello di competenze genitoriali (Benedetto, Ingrassia, 2010) frequentemente confuso con quello di funzione genitoriale, ma a volte anche di stile o di capacità genitoriali, rappresenta, invece, la performance del genitore nel qui ed ora, l’elemento visibile della relazione genitori-figli (Paradiso, 2015).
Alla luce di queste riflessioni è possibile affermare che il concetto di parenting descrive una realtà articolata che in molti casi è stata riassunta con termini di funzione, competenze e stili genitoriali che non possono non essere collegate con la rappresentazione sociale del ruolo genitoriale, ma anche dell’immagine di famiglia e di bambino.

In questo momento storico, infatti, a fianco del processo definitorio del parenting, si sta aprendo la strada all’osservazione delle caratteristiche distintive in ogni tipologia famigliare. In un certo senso si sta avviando un processo di valutazione della fenomenologia del parenting nell’ambito delle diverse esperienze famigliari, ma anche nelle fasi critiche del ciclo di vita della famiglia e nelle esperienze di crisi e disgregazione famigliare.

Questo presuppone uno sforzo definitorio rispetto al concetto di parenting non solo nelle diverse discipline, ma anche all’interno della stessa area di sapere (Benedetto, Ingrassia, 2010). Naturalmente la definizione terminologica è fondamentale non solo sul piano teorico, ma anche su quello clinico, giuridico e di servizio sociale proprio per le implicazioni pragmatiche che hanno sugli interventi psico-sociali di natura clinica, ma anche giuridica nella tutela dei minori.

 

Verso una defizione di parenting

In questo senso è possibile affermare che il parenting è un processo multideterminato da aspetti anche sociali e culturali che richiamano le rappresentazioni sociali sul ruolo del genitore, del bambino e della famiglia nella società.
Quindi è un costrutto che necessita di un collegamento con la dimensione culturale della genitorialità in particolare in un momento storico in cui sono presenti forti trasformazioni nelle tipologie famigliari. Per questo il concetto di parenting può essere definito come un processo relazionale co-determinato dal bambino e dall’adulto identificato come figura di riferimento che determina lo sviluppo fisico e psico-socio-culturale ed educativo del bambino, in una dimensione spazio-temporale e socio-culturale.

Tracce di salute mentale su Radio Fragola

Tracce di Salute Mentale, serie radiofonica in onda da questa settimana, firmata da Alvise Sforza Tarabochia, lecturer in Italian Studies nel dipartimento di lingue moderne dell’Università del Kent, mette in questione la percezione della salute mentale.

Ogni nuovo episodio di Tracce di Salute Mentale va in onda il martedì alle 19.50, con repliche il giovedì alle 13.45 e il sabato alle 11.00, su Radio Fragola ( http://www.radiofragola.com/Stream/fragolaplayer.html ). La serie si compone di 17 episodi.

Tracce di Salute Mentale esplora la storia e la filosofia della salute e della salute mentale dall’alba della medicina occidentale ad oggi. Il percorso che vuole percorrere è decostruttivo: i concetti di salute e salute mentale che abbiamo oggi forse non sempre sono i più adatti a promuovere la nostra salute.

Discuterne storicamente e criticamente dunque significa riuscire a capirne gli effetti collaterali negativi (come la mercificazione delle terapie e la medicalizzazione di stati mentali normali per esempio), allo stesso tempo riconoscendone gli effetti estremamente positivi (come per esempio l’estinzione di numerose malattie mortali, la riduzione dei tassi di mortalità, ecc.)

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Costruire l’adolescenza all’interno di una comunità terapeutica

Giulia Pellegrinuzzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le comunità terapeutiche per adolescenti dovrebbero offrire all’ adolescente nuove esperienze all’ interno delle quali riprendere il proprio percorso evolutivo momentaneamente minacciato, basandosi anche sul rafforzamento delle capacità di contenimento e di guida presenti, anche se in modo carente, nel contesto familiare e sociale.

[blockquote style=”1″]L’immagine che la madre ha della figlia è di una ragazza “posseduta dal demonio”. La ragazza sembra aver aderito a questa identità negativa mettendo continuamente in atto comportamenti provocatori e pericolosi per sé e per gli altri.[/blockquote]

Queste parole, estrapolate dalla relazione scritta dalla neuropsichiatra, continuavano a balenarmi in testa mentre mi dirigevo verso l’ospedale per conoscere quella ragazzina di 13 anni (che chiameremo Margherita) della quale sarei diventata l’operatrice di riferimento.
Appena entrai nel reparto di Neuropsichiatria Infantile mi trovai davanti una ragazzina piccolina, magra, dalle sopracciglia disegnate con due evidenti piercing uno tra le narici del naso e l’altro sotto al labbro. La riconobbi subito. Sotto i capelli le facevano da cornice al viso due grandi dilatatori posizionati sulle orecchie che la rendevano particolarmente buffa. Due occhietti vispi, verdi, bellissimi, comparivano sotto la frangia. [blockquote style=”1″]Era davvero quello il mostro che mi era stato descritto?[/blockquote] pensai.

Facemmo un colloquio in cui inizialmente parlai soltanto io, le descrissi l’organizzazione della comunità, gli orari, le regole, le attività. Erano cose di cui però non sembrava essere particolarmente interessata, era taciturna e il suo sguardo e la sua mente erano palesemente altrove. L’unica cosa che mi chiese prima di andare fu: [blockquote style=”1″]Ma in comunità ci sono ragazzi con piercing e tatuaggi?[/blockquote]

Cosa ricercava Margherita con quella domanda? Forse un gruppo a cui appartenere, dei punti di contatto e di somiglianza per potersi definire, per potersi riconoscere.
Personalmente avevo molti dubbi e perplessità rispetto al progetto educativo che avrei dovuto organizzarle, ma ciò che mi preoccupava maggiormente era come sarei potuta entrare nel suo mondo, creare uno spazio neutro in cui potesse sentirsi libera di parlare e di far traballare la sfiducia e la diffidenza nei confronti degli adulti che evidentemente la contraddistinguevano.

E’ risaputo che l’adolescenza rappresenti di per sé un momento transitorio, di passaggio.
Ci si trova in un periodo critico della propria crescita psicologica, quasi intrappolati in una costante ambivalenza: da un lato il desiderio di raggiungere un’agognata e temuta posizione “adulta”, dall’altro il timore di perdere i benefici della passata situazione infantile cui si è spinti, clinicamente, a ritornare tramite la regressione. Il compito dell’adolescente è particolarmente difficile: raggiungere e consolidare una propria individualità, un sentimento di sé come persona distinta dalle altre, senza perdere il legame infantile, la costanza oggettuale e l’investimento sulle prime figure di attaccamento. (Goisis, 2014).

La questione diviene ancora più problematica se l’adolescente deve affrontare un distacco da tutto ciò che ha costituito fino a quel momento un mondo di certezze ed una conoscenza di sé ed entrare in un percorso di cura all’interno di una comunità.
Essere all’interno di una struttura residenziale viene letto come una punizione per un adolescente per il quale di norma la nuova autonomia conquistata rispetto al contesto familiare costituisce forse lo strumento principale per la costruzione di un rinnovato senso di sé, come persona separata, pensante, libera.

La costruzione della propria identità attraverso il vaglio delle scelte identificative, la ricerca di valori etici e la possibilità di proiettarsi nel futuro, costituisce il principale compito evolutivo di ogni adolescente ed è proprio in un dosato equilibrio di libertà e di contenimento da parte dei genitori e del contesto sociale che tale compito si può svolgere.
Eppure, quasi paradossalmente, tra gli adolescenti che si incontrano in comunità, ce ne sono diversi che sembrano trovare aiuto nella ricerca della loro identità proprio dall’essere momentaneamente fermati e privati della libertà in senso stretto, in quanto in essa hanno incontrato difficoltà così grandi e pericoli così minacciosi per la loro integrità psichica, da doverne venire protetti (Ferruta et al., 2000). Per questi adolescenti, l’essere temporaneamente inseriti in una struttura comunitaria può diventare, qualora abbiano contemporaneamente la possibilità di essere aiutati a ripensare e a ridare significato a quanto è loro successo, un aiuto nella costruzione della propria identità.

Le comunità terapeutiche per minori hanno come finalità la costruzione di una “cornice”, di uno spazio protetto dove gli operatori (medici, psicologi, infermieri, educatori) sono impegnati in vari modi ad aiutare i ragazzi a riprendere un contatto con la realtà, ripristinando, per quanto possibile, i compiti evolutivi e svolgendo una funzione di collegamento e mediazione con il mondo esterno (Carratelli,1998).

L’equipe curante dovrebbe mantenere una certa flessibilità rispetto alla cura dei pazienti, ma nel contempo mantenere una certa coerenza, sia nel rispondere ai bisogni fisici ed emotivi del giovane paziente, sia nello svolgimento delle funzioni educative. (Ferrigno et al., 2005).
Le comunità terapeutiche per adolescenti dovrebbero offrire all’adolescente nuove esperienze all’interno delle quali riprendere il proprio percorso evolutivo momentaneamente minacciato, basandosi anche sul rafforzamento delle capacità di contenimento e di guida presenti, anche se in modo carente, nel contesto familiare e sociale. Lavorare con i ragazzi non prendendo in considerazione l’intero sistema da cui gli stessi provengono rappresenterebbe difatti una grave mancanza.

I ragazzi che fanno ingresso in comunità spesso hanno una lunga storia di segnalazioni ai Servizi Sociali fin dall’infanzia, sono quindi già conosciuti e, benché spesso siano anche stati seguiti, sono ugualmente in gravissima difficoltà in quanto privi o troppo poveri di quegli strumenti necessari per affrontare il compito adolescenziale di separarsi dalla nicchia familiare e di costruire la propria identità personale e sociale.
Anche la comunità e gli operatori si trovano nella necessità di interrogarsi nuovamente circa la propria identità, tale quesito é collegato alla estrema difficoltà del compito che sono chiamati a svolgere e che ha spesso le caratteristiche del compito impossibile.

L’adolescente che entra in comunità oggi sembra difatti approdare all’ultima spiaggia, in una totale solitudine affettiva, privo di strumenti con i quali poter affrontare il futuro e, soprattutto, incapace di pensare per sé un futuro possibile. Spesso riferisce di aver avvertito all’inizio dell’adolescenza un repentino e radicale cambiamento dell’atmosfera familiare, diventata all’improvviso nel suo vissuto del tutto irrespirabile, o perché troppo satura di elementi da lui avvertiti come tossici ed inquinanti, quali un controllo ritenuto eccessivo, o al contrario, perché troppo rarefatta, come se i genitori ormai rassegnati a perderlo, non lo seguissero più per niente (Ferruta et al. 2000).

Il vissuto claustrofobico in famiglia è caratteristico di una certa fase di molte adolescenze e può costituire una forte spinta, che si aggiunge alle altre, verso l’emancipazione. Lo stretto rapporto con i genitori amati e ammiranti durante l’infanzia si rivela infatti a un tratto troppo angusto, carico com’è di affetti e delusioni, e diventa necessario e fisiologico allentarlo. Ciò spesso determina una crisi, dolorosa ma necessaria, nei genitori stessi e nella famiglia intera, che si trova costretta a ripensarsi e a darsi nuovi equilibri.
Pare che questo delicato momento di crisi e di passaggio abbia avuto nel vissuto dei ragazzi che arrivano in comunità le caratteristiche del terremoto che scuote alle fondamenta e fa crollare rovinosamente la famiglia della loro infanzia, lasciandoli soli in mezzo alle macerie, esposti a una perdita irreparabile, anche perché sentita in parte come causata da loro stessi.

Spesso il ragazzo che arriva in comunità si trova invischiato in un senso di cupa impotenza. Spesso ha cercato rimedio alla propria sofferenza nell’immersione fusionale nel gruppo dei pari, all’interno del quale ha cercato risposte immediate alla sua inquietudine, nell’illusione forse di poter godere di un eterno presente spensierato, all’insegna dell’eccitazione e del piacere esagerato, dell’agire immediato e irriflessivo, visto che non riesce a pensarsi nel futuro. Stessa funzione eccitante e favorente il senso di appartenenza al gruppo viene svolta dalle droghe, di cui fa di solito largo uso, nel tentativo di curare il senso di vuoto, di noia, di sfiducia e spesso di disperazione rispetto all’assenza di qualsiasi tipo di progettualità nel presente e nel futuro. Questo adolescente dichiara di vivere esclusivamente nell’attimo presente, unica cosa di cui è sicuro, e di volere vivere “alla grande”, senza risparmio alcuno, seguace di una dottrina edonistica molto spinta, di un carpe diem esasperato. In realtà non è l’attimo che cerca di afferrare, ma una fuggevole sensazione che gli dia l’illusione di sentire e afferrare se stesso (Ferruta et al., 2000).
Sembra quindi si possa affermare che il ragazzo che oggi ritroviamo in comunità nasconde sempre più spesso una realtà di confusione e di grande sofferenza. Ha un’identità molto incerta, è disorientato circa se stesso e gli altri, circa ciò che è e ciò che vuole, ciò che può essere e diventare.

Margherita al momento dell’ingresso in comunità era molto spaventata, disillusa, le persone per lei più significative avevano di fatto abdicato al proprio ruolo affettivo e di cura e l’avevano consegnata a dei professionisti, che in realtà per lei non rappresentavano altro che meri estranei.
Le parole e i comportamenti che Margherita metteva in atto durante il momento dell’accoglienza in struttura la facevano apparire come un soggetto inavvicinabile, sofferente, non meritevole di cure, di attenzioni e di affetto. Indipendentemente dal nome della patologia scritta in cartella (Disturbo della Condotta in tal caso), mi trovavo davanti una giovane ragazza che sperimentava in se stessa un grande disagio che si ascriveva nel male di vivere, nella difficoltà di trovare una giusta collocazione in un mondo che non l’aveva compresa, non l’aveva gestita, e non era stato in grado di accompagnarla in un momento di estrema difficoltà.

L’adolescente spaventa perché è spaventato, allontana perché si sente allontanato, evita l’incontro con il medico, sbatte la porta in faccia all’educatore, lo caccia dalla propria stanza nella intima speranza che gli adulti riaprano quella porta, che entrino in comunicazione con lui, che non temano quanto di negativo sta mostrando. L’educatore raccoglie quanto di distruttivo il minore esprime senza mostrarsi ferito, impotente o semplicemente spiazzato. Nel sentirsi accolto anche nelle sue parti più negative e cattive, l’adolescente percepisce interesse nei propri confronti, sente quel luogo meno anonimo ed indifferente, inizia a porre le basi per poter realizzare un progetto, inizia a percepire una relazione di fiducia (Erba, Gavarini 2014).

Indipendentemente dalle modalità organizzative di ogni singola comunità terapeutica, l’obiettivo principale è quello di inserire l’adolescente in un ambiente più disciplinato e meno caotico di quello familiare (Carratelli, 1998). Attraverso la creazione di nuovi rapporti significativi e la realizzazione di interventi contenitivi, è anche possibile, infatti, sottrarre i genitori all’aggressività dei figli, interrompendo il circolo vizioso di rabbia che si ripercuote anche su quest’ultimi (Ferrigno et al., 2005).
L’esperienza terapeutica con un adolescente può essere rappresentata metaforicamente dal palo di sostegno che permette a una pianta di mettere radici, crescere, rinforzarsi e svilupparsi, ma senza forzarla, condizionarla o obbligarla, come spesso accade, attorno al tronco che la lega (Pietro Roberto Goisis, 2014). Cosicché Margherita possa trovare un modo per crescere.

Disturbo da ipersessualità: il ruolo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene

Il Disturbo da Ipersessualità è una patologia caratterizzata da un desiderio sessuale non parafiliaco e da una forte impulsività. Questo disturbo integra diversi aspetti fisiopatologici come la disregolazione del desiderio sessuale, la dipendenza sessuale, l’impulsività e la compulsività con i Disturbi d’Ansia e dell’Umore.

Attualmente è ben noto come il comportamento sessuale sia sotto il controllo di una serie di meccanismi centrali riguardanti la regolazione neuroendocrina, il sistema limbico e l’attività inibitoria del lobo frontale. Tuttavia non sono ancora conosciute le origini delle alterazioni neurobiologiche nei pazienti con Disturbo da Ipersessualità.

Recentemente è stato dimostrato che la maggior parte dei disturbi psichiatrici è caratterizzata da una disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA). Sulla base di questa informazione, Jussi Jokinen e colleghi hanno cercato di comprendere quanto l’HPA potesse giocare un ruolo importane anche nel Disturbo da Ipersessualità.

Nel corso dello studio sono stati confrontati 67 pazienti maschi in possesso di una diagnosi di Disturbo da Ipersessualità con 39 volontari sani dello stesso genere. Inizialmente è stata somministrata ad entrambi i gruppi una batteria di test per valutare il livello di Ipersessualità, di Depressione, e di precocità con cui si sono manifestate le avversità della vita. Successivamente sono stati valutati i livelli basali plasmatici del cortisolo e dell’ACTH al mattino, seguiti da un test di soppressione in cui veniva somministrato il Desametasone con un basso dosaggio (0.5 mg), in seguito al quale venivano rimisurati i livelli di cortisolo e ACTH.

Quanto è emerso risulta molto interessante, in quanto i pazienti con Disturbo da Ipersessualità hanno manifestato una disregolazione dell’HPA maggiore nella fase di non soppressione, manifestando livelli significativamente più elevati di ATCH rispetto al gruppo di soggetti sani.

Per quanto riguarda i traumi infantili e il livello di depressione, i pazienti hanno riferito un numero maggiormente significativo di episodi e sintomi rispetto ai volontari sani. É stato però dimostrato che i risultati ottenuti non possono essere spiegati dalla presenza concomitante di queste due problematiche, sottolineando nuovamente quanto sia importante il ruolo dell’HPA nel Disturbo da Ipersessualità.

Per tanto è possibile concludere affermando l’ipotesi di partenza di Jussi Jokinen e colleghi secondo cui la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene giochi un ruolo fondamentale anche nel Disturbo da Ipersessualità in soggetti di genere maschile.

 

Stress, burnout e relative conseguenze: una ricerca nelle fabbriche – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Stress, burnout e relative conseguenze:

una ricerca nelle fabbriche

Carlucci Chiara

L’obiettivo dello studio presentato è verificare se i lavoratori delle fabbriche sono esposti ad alti tassi di stress con possibile rischio burnout, ansia e depressione.

Circa un lavoratore su quattro dell’Unione Europea soffre di stress legato all’attività lavorativa (Eurostats Statistics). Per Stress Lavoro Correlato si intende una difficoltà di adattamento reciproco, tra l’individuo e l’organizzazione, che comporta uno squilibrio tra le richieste organizzative e le risorse personali del soggetto di affrontarle. Alti tassi di stress portano delle conseguenze sui lavoratori, quali potrebbero essere burnout, ansia e sintomi depressivi.

In letteratura sono presenti vari studi che hanno analizzato le correlazioni tra stress e burnout, considerando anche le possibili conseguenze psicologiche a cui può condurre lo stress lavorativo. Ma le ricerche sono state prevalentemente condotte su personale sanitario e professioni d’aiuto (medici, infermieri, dentisti, psicologi, assistenti sociali), oppure insegnanti, poliziotti, impiegati.

È stata poco analizzata la realtà aziendale. Le fabbriche sono ambiente lavorativo le cui mansioni per vari motivi sono ripetitive, frenetiche, usuranti. Perciò i tassi di stress potrebbero apparire elevati, così come le eventuali conseguenze negative dello stesso.

L’obiettivo dello studio presentato è verificare se i lavoratori delle fabbriche sono esposti ad alti tassi di stress con possibile rischio burnout, ansia e depressione. Si ipotizza che forti livelli di stress correlino positivamente con burnout, e che quest’ultimo correli in positivo con ansia e umore basso (depressione).

I dati sono stati racconti su un campione di 45 soggetti. I partecipanti sono i lavoratori di due piccole fabbriche. Due ruoli a confronti: ufficio (sfera commerciale) e lavoro manuale (operai, magazzinieri). Gli strumenti utilizzati sono: l’SBI (Stress Burnout Inventory), lo STAI (State Trait Anxiety Inventory – Ansia di Stato) e il BDI (Beck Depression Inventory).

Dai risultati emergono correlazioni significative tra stress e burnout (r=,487; p<,01**). Inoltre il burnout risulta correlare in positivo significativamente sia con ansia di stato (r=,456; p<,01**) che con depressione (r=,336; p<,05*).

È possibile per cui asserire che le fabbriche sono un ambiente lavorativo in cui i tassi di stress sono elevati, con possibile rischio burnout, il quale potrebbe a sua volta generare nei lavoratori disturbi d’ansia o dell’umore. Tutto ciò inevitabilmente potrebbe influire sulla motivazione dei lavoratori e di conseguenza sulla loro performance lavorativa.

Dai sintomi al gene responsabile: 22 anni dopo il team di Neurologia del Meyer trova la causa della sindrome perisilviana congenita – La scoperta sulla copertina di Lancet Neurology

Ospedale Pediatrico Meyer – COMUNICATO STAMPA

Sindrome perisilviana congenita: finalmente note le cause della patologia che colpisce i bambini e si manifesta con epilessia, deficit cognitivo e disturbi motori. PIK3R2, è il nome del gene responsabile della malformazione cerebrale all’origine della sindrome.

Firenze (21 novembre 2015) – Nel 1995 ne hanno descritto la manifestazioni cliniche e ora, ventidue anni dopo, sono riusciti a trovare le cause della sindrome che colpisce i bambini e si manifesta con epilessia, deficit cognitivo e disturbi motori, guadagnandosi la copertina di Lancet Neurology. PIK3R2, è il nome del gene responsabile della malformazione cerebrale all’origine della sindrome perisilviana congenita, così chiamata perché è caratterizzata da una malformazione che coinvolge le regioni perisilviane, le circonvolluzioni localizzate intorno al principale solco negli emisferi cerebrali, la scissura di Silvio (una delle principali strutture del cervello umano).

A scoprirlo è stato il gruppo di ricerca di Neurologia diretto e coordinato dal professore Renzo Guerrini, nell’ambito di una ricerca collaborativa tra il Dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Pediatrico Meyer e il Center for Integrative Brain Research del Seattle Children’s Research Institute, di recente pubblicazione su Lancet Neurology, l’autorevole pubblicazione internazionale, come prosecuzione dello studio che fu pubblicato sulla stessa rivista nel 1993. Allora, alla risonanza magnetica videro le alterazioni del cervello e ne realizzarono un primo studio.

I risultati della ricerca, che rappresentano l’evoluzione di un impegno scientifico svolto ad alti livelli, sono destinati ad avere un’immediata ricaduta diagnostica. L’identificazione di questo gene come causa della sindrome consente infatti agli specialisti di poter indicare alle famiglie dei pazienti il rischio di ricorrenza della patologia nelle generazioni successive, così da offrire un’adeguata consulenza genetica. Lo studio apre anche prospettive terapeutiche nell’ambito della medicina personalizzata, resa cioè individuale in funzione delle specifiche cause.

PIK3R2 – prosegue il professor Guerrini – appartiene a una famiglia di geni già correlati a una serie di anomalie dello sviluppo del cervello che sono causa di epilessia e di altre manifestazioni cliniche precoci. Questi geni, se alterati, generano proteine che perdendo la loro funzione consentono un’attivazione eccessiva di processi di proliferazione delle cellule nelle fasi precoci dello sviluppo cerebrale. La conseguenza è che un numero eccessivo di cellule compete per acquisire la propria corretta posizione e funzione nella corteccia cerebrale, dando origine a una corteccia disorganizzata. Su alcuni modelli animali si è notato che farmaci già noti possono inibire questi processi di iperattivazione. Ovviamente una cura ancora non c’è ma si tratta di prospettive interessanti.

La ricerca pubblicata con risalto su Lancet Neurology si colloca in un filone di studi molto attivo – quello del mosaicismo – che approfondisce le cause genetiche delle anomalie dello sviluppo cerebrale che causano epilessia, ritardo mentale, disturbi motori e autismo e che possono essere dovute a mutazioni genetiche presenti a volte solo in una percentuale ridotta di cellule dell’organismo, talvolta solo in quelle cerebrali. Ricerche condotte da vari gruppi nel mondo, compreso il team del prof Guerrini, stanno dimostrando in modo sempre più concreto come l’epilessia e varie malformazioni cerebrali siano spesso determinate da alterazioni genetiche presenti solo in alcune cellule cerebrali.

Il gruppo di studio del Dipartimento di Neuroscienze del Meyer, in questa fase, sta quindi orientando le sue ricerche nell’ambito delle cause genetiche dell’epilessia proprio grazie al progetto scientifico europeo Desire (Development and Epilepsy – Strategies for Innovative Research to improve diagnosis, prevention and treatment in children with difficult to treat Epilepsy) di cui ha il coordinamento e darà ulteriore impulso a questo ambito di studi grazie al progetto recentemente approvato dal Ministero della Salute e da Regione Toscana dal titolo ‘An integrated approach to unravel the genetic causes and molecular pathogenesis of epileptogenic focal cortical dysplasia‘.

Il pediatrico fiorentino e la sua vocazione per le neuroscienze

L’ospedale pediatrico Meyer ha due laboratori dedicati allo studio di queste patologie, quello di Neurogenetica e quello di Neurobiologia.

La nostra filosofia di lavoro – prosegue il prof Renzo Guerrini – è quella di fare ricerca scientifica in ambiti che abbiano una ricaduta clinica molto forte e diretta. Tutto con l’obiettivo di offrire un’assistenza capace di dare una effettiva risposta a malattie individualmente rare ma che collettivamente rappresentano una quota significativa della patologia neurologica del bambino.

Studi come quello pubblicato su Lancet Neurology sono resi possibili dalle collaborazioni multidisciplinari interne al Meyer – in particolare con la Neurochirurgia e la Diagnostica per Immagini – ed esterne, quali ad esempio quella con la Fondazione Imago 7 di Pisa, consorzio di cui il Meyer fa parte. Proprio la ricerca effettuata con il magnete ad altissimo campo ha dato un contributo importante alla ricerca.

Sì le immagini acquisite con la Risonanza Magnetica 7 Tesla – conclude il professore – ci ha fatto comprendere le caratteristiche anatomiche specifiche della malformazione e quindi ricercare in soggetti con quadri simili una causa genetica specifica, consentendoci di orientare meglio lo studio.

Importante è state anche la collaborazione internazionale con Seattle per trovare conferma della alterazione genetica in un numero più ampio di soggetti con la stessa malformazione e le stesse manifestazioni cliniche.

La perla e la tartaruga. Il caso di Sandro: la metodologia dell’incontro in psicoterapia (2014) – Recensione

Dobbiamo diventare protagonisti della nostra vita che sta accadendo in questo preciso momento, senza aspettare che qualcosa o qualcuno venga a salvarci da una prigione da cui nessuno, se non noi stessi, può liberarci.

Sandro ha una trentina d’anni e lavora come medico anatomopatologo. Per trovare sollievo ad un malessere a cui non sa dare un nome né un perché, un vissuto dilagante di vuoto e di inutilità, decide di intraprendere un percorso psicoterapeutico.
Il suo terapeuta è Renzo, che lavora in base all’approccio psicanalitico e si serve di procedure immaginative. Renzo ci racconta passo per passo questo cammino sin dal giorno del primo incontro. Le due voci, quella di Sandro e quella del suo terapeuta, si intrecciano nella narrazione percorrendo, come da tradizione analitica, le vie del sogno, dell’immaginazione e del ricordo, che si accompagnano ai vissuti quotidiani.
Conosciamo così meglio Sandro, che non capisce cosa gli stia succedendo e cerca di dare un nome al suo male di vivere, struggendosi per dare alla sua vita un senso che sente di aver smarrito e che fatica a ritrovare o forse a trovare per la prima volta, un senso che sia solo il suo, non mediato dalle aspettative e dalle immagini degli altri. Non sa bene chi è e cosa vuole, si avverte incompiuto, perso in un uno stallo esistenziale da cui non sa come venir fuori.
Si guarda dentro alla ricerca di spiegazioni, si tormenta, vorrebbe cambiare, ma non sa cosa e come e, più di tutto, ha paura. Perché gli sembra di essere senza via d’uscita.

Di fronte ad un malessere così grande, la risposta più immediata è la fuga: dire no alla vita. Un no declinato in vari modi a seconda dei momenti, sia immaginato nell’accezione estrema di vedere il suicidio come modo per evadere dalla prigione in cui si sente rinchiuso, che agito come adattamento, contemporaneamente rassegnato e rabbioso, alla propria condizione. Per usare le parole di Sandro [blockquote style=”1″]Non voglio andarmene da questo labirinto… cosa serve mettere in campo dei progetti… […] La depressione è una pianta carnivora… facile entrare… difficile uscire… questo viaggio mi fa sentire dentro una rabbia che sale al punto che vorrei sbattere anche lei contro un muro.[/blockquote]

Renzo, il terapeuta, è di altro avviso. Accoglie la rabbia e la sofferenza, ma per lui il vissuto, riportato da Sandro, di andare in pezzi suggerisce [blockquote style=”1″]la metafora del ciclo di vita della rosa. Il suo percorso va dal bocciolo alla fioritura. […]Prima di morire, essa lascia cadere i semi sulla pianta per aiutarla a sviluppare una nuova crescita. È disposto a espandere la coscienza per facilitare una svolta decisiva ai cambiamenti in se stesso? [/blockquote]

La terapia prosegue, gli incontri si susseguono e Sandro appare come un uomo che, nel tentativo di attraversare un fiume, si ferma nel mezzo della corrente e non sa né andare avanti né tornare indietro; è sospeso, la sua paura lo blocca.
Il terapeuta, sempre presente, non può, per rimanere nella metafora, nuotare al suo posto: si tratta della sua vita, delle sue scelte, del suo essere al mondo. Nessuno può, materialmente, respirare a posto di qualcun altro. Può, però, continuare a incoraggiare Sandro a vivere perché «lo scopo della vita è non aver paura di vivere».

A questo punto del percorso Sandro, pone al suo terapeuta una domanda precisa. Vuole sapere se anche lui è stato in analisi. In altre parole, se ha vissuto sulla sua pelle ciò di cui parla. Non solo, vuole sapere quale insegnamento il terapeuta ha tratto dall’esperienza dell’analisi, a cosa gli è servito fare tutto questo.
E Renzo risponde che, al di sopra di ogni altra cosa, la terapia personale gli ha insegnato a [blockquote style=”1″]non sognare un’altra vita perché è una realtà unica […] Quindi, in accordo con me stesso in ciò che voglio divenire, cerco di mantenermi vivo e vitale affinché in parte sia nelle mie mani l’accadere del buon fine quale completamento dell’essenza umana. [/blockquote]

Renzo sta dicendo che attraverso il percorso psicoterapeutico ha capito una cosa essenziale: bisogna vivere pienamente la vita che abbiamo, ossia la nostra; non sarà perfetta, tutt’altro, molte volte la vorremmo diversa, ma è la nostra. Attenzione, ciò non vuol dire rassegnarsi a ciò che non ci piace, anzi, è esattamente il contrario. Solo calandoci appieno nella nostra vita possiamo provare a cambiarla, cosa ben diversa dal continuare ad aspirare ad una vita alternativa come se quella che abbiamo sottomano fosse una “vita di prova”, una sorta di prova generale di uno spettacolo che andrà in scena in un secondo momento.

Dobbiamo diventare protagonisti della nostra vita che sta accadendo in questo preciso momento, senza aspettare che qualcosa o qualcuno venga a salvarci da una prigione da cui nessuno, se non noi stessi, può liberarci.
Sandro accoglie lo svelamento del suo terapeuta e porta poi, in risposta, un sogno, lo stesso sogno che da’ il titolo al libro. Ha sognato di [blockquote style=”1″]avere in mano una collana di perle di vetro colorato bianco e nero… non l’apprezzavo… chi l’ha comperata aveva fatto una cavolata… a poca distanza sul terreno dove batteva il sole con sorpresa c’era una perla preziosa per la sua lucentezza… a destra… vicino a me vedevo una tartaruga… aspettavo che si muovesse…[/blockquote]

In altre parole, proprio quando credevo che tutto, la mia vita stessa, non avesse alcun valore mi accorgo che, invece, posseggo qualcosa di prezioso, una perla rara. E la tartaruga? La tartaruga è il lavoro lento, paziente e inarrestabile. Sandro coglie questo messaggio e lo restituisce al terapeuta dicendo [blockquote style=”1″]La cosa mi è chiara… una trasformazione del reale secondo il mio ideale di perfezione (perla) con la forza d’animo (tartaruga)… troverò l’uscita dalla depressione?[/blockquote]

La risposta è sì, troverà l’uscita, proprio nel momento in cui realizza di essere libero di scegliere e si autorizza di agire e ad essere chi desidera…se stesso.

L’indegno rabbioso – Tracce del Tradimento Nr. 33

TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXIII: L’indegno rabbioso

 

Vi sono poi i cercatori di tracce del tradimento che accusano il mondo con rabbia, con lo scopo di riversare colpa rabbiosa sull’altro e di essere vittime. Questo vasto gruppo di cercatori rappresenta uno sviluppo più organizzato della non amata, pur avendo alcuni tratti in comune.

Queste persone si ritengono non abbastanza degne di amore. Spesso hanno avuto un passato doloroso o isolato in famiglie fredde o sfidanti, ma di questa esperienza invece di fare un bilancio depressivo fatalista costruiscono una filosofia di ininterrotta accusa al mondo. Si rimprovera la crudeltà del mondo, si è irosi, sfiduciati. In queste persone la rabbia attiva è dominante e copre la tristezza.

La rabbia è un’ emozione interessante perché deriva da una percezione di aver subito un’ ingiustizia, spesso il primo appraisal è effettivamente di tristezza: “Non è giusto che tu mi faccia questo”. La tristezza non è assorbita e affrontata e la rabbia “è tutta colpa tua” sembra la soluzione migliore. Essa serve a vari scopi tra i quali alzare l’autostima e recuperare l’innocenza. La rabbia non permette di analizzare le proprie responsabilità ed è un’emozione che “guarda agli altri” più che essere concentrata su se stessi.

Chi incontra il rabbioso, ad esempio il partner, vede la rabbia e la sfida, invece di riuscire a intravedere il pessimismo e la sfiducia nelle relazioni del caso precedente. La soluzione rabbiosa della propria rappresentazione di non amato e non amata è molto nociva alle relazioni. Sfocia in accuse, rimproveri e peggiora grandemente la situazione di coppia. Mentre può essere accettabile un compagno melanconico e sfiduciato e depresso, un partner rabbioso accusante è vivibile soltanto da un certo tipo di persone. Persone che sono state a loro volta accusate e rimproverate, pessimiste e vittime. Il clima però, anche nel caso in cui il partner accetti questa situazione, è caotico, confondente, di emozioni dolorose e senza speranza. Insomma in questi casi, chi rimprovera e chi si fa rimproverare vive molto male.

Il criticismo, l’attitudine a rimproverare l’altro per cambiarlo è un atteggiamento molto descritto nella psicopatologia, ad esempio del disturbo ossessivo o dei disturbi alimentari. Consiste nel collocarsi in una posizione di superiorità morale sull’altro trattandolo male per educarlo ad adottare i nostri scopi, ad assomigliare maggiormente a come noi lo vorremmo. Lui cambia perché lo faccio soffrire.

Il fenomeno è normale qualora si presenti occasionalmente, e anche accettabile entro certi limiti per educare un bambino a evitare comportamenti pericolosi, ma diviene molto patologico qualora diventi, in forma di rimprovero rabbioso, la modalità emotiva e relazionale principale. Nelle coppie il rimprovero continuo è tipico quando uno dei due o entrambi sono molto sofferenti psicologicamente, e ha l’effetto spesso grave di deteriorare il clima familiare, il che è nocivo specialmente se queste coppie siano abitate da prole.

Questa rabbia può assumere un aspetto sessuale e violento nella quale la sottomissione dell’altro dovrebbe avere lo scopo di rassicurazione contro la teoria del mondo dipendente dalla propria indegnità e dalla malevolenza degli altri, ma in realtà non riesce allo scopo. Oppure si diventa traditori a si sottovalutano i propri tradimenti senza rendersi conto della drammaticità con la quale si cercano quelli del proprio partner. Nella mente di questi soggetti un alto livello di incoerenza è accettabile. Quando si cercano tracce in modo attivo e costante, lo si fa perché la storia è andata in crisi, perché si pensa ad una crisi possibile e ci si sente sfiduciati, e la scoperta del tradimento dell’altro può diventare una ragione per accollare a lui la colpa di una separazione di cui non ci si vuole prendere la responsabilità. Alla fine è molto impegnativo rimanere in un rapporto con questa rabbia, questa sfiducia, non si godono i momenti buoni, non ci si sente mai in una reale intimità e fiducia con l’altro.

Giacomo e Silvana avevano da lungo tempo una relazione in crisi. Spesso violenta. Entrambi giovani e molto disturbati avevano famiglie d’origine molto simili nella difficoltà di insegnare gli affetti e i sentimenti. La nascita del primo figlio aveva consentito a lui di rendersi conto dell’esistenza di una possibilità di amare in modo reciproco e dolce. Questo lo aveva reso molto critico verso le modalità affettive che si svolgevano nel matrimonio, costituite da rimproveri, accuse, poca dolcezza e scarsa condivisione. Egli aveva avvisato la moglie della situazione che cambiava chiedendole di ragionare con lui su questo e cambiare insieme modalità affettive. Lei aveva interpretato questa richiesta come l’ennesima prova della inaffidabilità di lui e della propria solitudine e aveva accelerato il processo di distacco, cercando tracce dei vecchi amori in modo insistente e sfidandolo apertamente alla separazione, come se fosse stata la scelta unica che avevano davanti. A questa sfida lui rispose andandosene. L’abbandono di lui fu per lei una esperienza tragica, perché del tutto incapace di mettersi a discutere con lui e capire le ragioni dell’accaduto. Incapace di vedere le proprie responsabilità e incapace di ragionare su un possibile cambiamento personale, la sua unica reazione fu di aumentare nella separazione i comportamenti aggressivi e sfidanti, rendendo le cose dolorose lunghe e difficili per entrambi.

Spesso queste persone quando chiedono aiuto lo fanno in modo poco convinto. Lo scopo non è tanto quello di riuscire ad affrontare i propri problemi, ma quello di dimostrare le colpe dell’altro e la propria innocenza. Il colloquio con queste persone è spesso difficile e poco fruttuoso. Sembra che vi sia una domanda di riconciliazione ma in realtà si assiste a un comportamento spesso vendicativo e freddo.

Sofia e Eugenio vengono in studio per una consultazione. Lei è una donna bella e irosa e lui è nell’atteggiamento di chiedere scusa adottando comportamenti di grande prudenza. La storia è molto qualunque, lui grande avvocato ha lavorato troppo e troppo fuori casa mentre lei faceva tre figli e si dedicava a loro perdendo il proprio lavoro che aveva amato molto. Una volta lei aveva trovato tracce del tradimento che lui aveva giustificato come dovuto ad un momento di sbandamento. Lei trovò preservativi in macchina e lui confessò che andava ogni tanto con prostitute ma che non avrebbe voluto mai separarsi ed era disposto a rinunciare a questa pratica della quale poi si vergognava anche. Ma lei era divenuta inflessibile, da quando aveva scoperto -ormai quattro anni prima- il fatto, lo aveva ininterrottamente perseguitato, accusato e rimproverato parlando di lui in un modo colmo di disprezzo da farsì che intervenissi in seduta chiedendole perché con la quantità di disprezzo che aveva per lui rimaneva con lui e non lo lasciava. La risposta di lei era stata: [blockquote style=”1″]Lui deve pagare, non gli permetto di andarsene, sarebbe troppo comodo, lui mi ha fatto un torto e deve pagare.[/blockquote] Soltanto quando lui mi raccontò che era rimasto orfano di entrambi i genitori e che era cresciuto in collegio sentendosi solo si capì perché era impensabile per lui stare solo: [blockquote style=”1″]Se lei mi lascia e non ho i figli e lei io sono un uomo morto, non riesco neanche a pensarci, passerò la vita a chiederle scusa.[/blockquote]

Non dobbiamo omettere di sottolineare che l’espressione della rabbia una volta che si sospettino abbandoni o tradimenti è una delle cause di morte più frequenti in giovani donne. Quando la rabbia è nella testa e nelle mani di un uomo infelice e incapace di accettare che le cose non sino andate o non possano andare nella direzione preferita, le spinte, i pugni e l’espressione rabbiosa corporale possono mettere a rischio la salute e la stessa sopravvivenza delle donne. Non va che gli uomini hanno una muscolatura molto più sviluppata delle donne e questo può metterle in grave pericolo. In questo senso la fiducia e il sentimento di autonomia che le donne stanno esplorando nelle società occidentali sta creando una grande quantità di omicidi ”imprevedibili”. La libertà di dire di no, di tradire, di lasciare è stata da poco raggiunta insieme all’autonomia economica e può accadere in partner squilibrati e rabbiosi che questa libertà venga interpretata come un attacco intollerabile alla propria autostima.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Adozione, disturbi di personalità e fallimento adottivo

Silvia Pomi, Giorgia Righi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Adozione: avere un figlio adottivo è aprire nella propria famiglia uno spazio non solo fisico, ma soprattutto mentale per l’accoglienza di un bambino, generato da altri, con una sua storia, e che ha bisogno di continuarla con dei nuovi genitori, con cui formerà una vera famiglia, come una sua seconda possibilità di vita.

 

Adozione e attaccamento

Bowlby (1989) nella teoria dell’attaccamento sottolinea l’importanza di garantire al bambino, nel corso della prima infanzia, la sensazione di sicurezza e fiducia nei confronti del genitore che rappresenterà una base sicura cui far riferimento per affrontare gli obiettivi di crescita. Ciò richiede al genitore caratteristiche di accessibilità, sensibilità e responsività. Un genitore accessibile fisicamente ed emotivamente, dovrà anche essere in grado di percepire e valutare i segnali di pericolo e di disagio, e di poter rispondere a tali bisogni in maniera amorevole, pronta, costante e adeguata. Ciò produrrà nel bambino un sentimento di sicurezza e un migliore adattamento al mondo sociale. Il soddisfacimento di questi bisogni fondamentali è centrale anche all’interno di un percorso di adozione con genitori non naturali.

Avere un figlio adottivo è aprire nella propria famiglia uno spazio non solo fisico, ma soprattutto mentale per l’accoglienza di un bambino o di una bambina, generato da altri, con una sua storia, e che ha bisogno di continuarla con dei nuovi genitori, con cui formerà una vera famiglia, come una sua seconda possibilità di vita.

 

Adozione e criteri di adottabilità

Secondo la legge 4 maggio 1983 n. 184, perché un minore venga dichiarato in stato di adottabilità deve trovarsi ‘in una situazione di abbandono perché privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio’ (art. 8).

Con la dichiarazione di adottabilità il bambino deve affrontare l’esperienza della separazione definitiva dalle figure genitoriali che non sono state in grado di tutelarlo a sufficienza. Il bambino risulta come sospeso tra il conflitto di voler tornare indietro da quella mamma o quel papà che se pur inadeguati, gli consentiva di appartenere a qualcuno e la paura di nuovi attaccamenti affettivi alternativi ai propri genitori naturali, con tutto il carico di conflittualità e ambivalenza ad essi collegato. (Monaco, Niro, 1999).

 

Il fallimento dell’adozione

Accanto ad adozioni che riescono ad affrontare le situazioni di crisi evolutive, trovando nuove soluzioni che permettono di conservare i legami affettivi instauratisi, ci sono altre esperienze nelle quali purtroppo prevalgono sofferenza e disagio, tanto nei genitori quanto nei figli, che si concludono con il fallimento e nei casi estremi, con la restituzione del bambino.

Riflettere sui meccanismi che possono concorrere al fallimento è un compito fondamentale per tutti gli operatori sociali e gli psicologi che si impegnano in questo lavoro, consapevoli che l’adozione è l’unica possibilità per un bambino abbandonato dai genitori biologici di poter crescere all’interno di una famiglia.

L’esperienza clinica ci segnala che i percorsi dell’adozione risultano essere complessi e il lavoro degli operatori e di tutti coloro che sono coinvolti, necessita di qualificazione, aggiornamento e responsabilità. A oggi il lavoro di prevenzione non sembra aver raggiunto l’efficacia sperata, considerata la percentuale di fallimenti adottivi.

Fallimento adottivo significa per una famiglia, non essere stata in grado di accogliere ed instaurare con un bambino una relazione significativa dal punto di vista affettivo, non attraversando con lui le fasi evolutive, fino al raggiungimento della sua autonomia nell’età adulta. (Galli, Viero, 2001).

Tra 2002 e 2013 sono stati 73 i casi di fallimento adottivo segnalati dai servizi in Emilia-Romagna. Fino al 2005 la definizione applicata era quella di gravi crisi verificatesi all’interno della famiglia adottiva, tali da comportare l’allontanamento del bambino-ragazzo entro il primo anno 
di inserimento in famiglia (o durante l’anno di affidamento pre-adottivo in caso di adozione nazionale), fenomeno noto in letteratura come restituzione. Tra 2006 e 2010 emerge una proporzione di 3 restituzioni entro il primo anno di adozione su 52 fallimenti adottivi più generalmente intesi, con una netta prevalenza (95% circa) di situazioni in cui i problemi adottivi si sono acutizzati (fino alla rottura o interruzione dei legami e al conseguente allontanamento), dopo il primo anno dall’inserimento del bambino in famiglia. Tra 2010 e 2013 emerge una proporzione di 2 restituzioni entro il primo anno di adozione su 38 fallimenti adottivi con la prevalenza degli allontanamenti avvenuti dopo il primo anno di adozione (95%). Nel 92% dei casi i fallimenti hanno riguardato le adozioni internazionali. Gli allontanamenti hanno avuto un andamento crescente ed hanno coinvolto bambini residenti in tutti le province. Il tasso medio di fallimenti adottivi registrati in Emilia-Romagna su tutto il periodo può essere stimato al 2,46%, con oscillazioni variabili di anno in anno. (portale ER /adozioni)

Il fallimento adottivo porta il bambino, già segnato dall’esperienza dell’abbandono, a subire un ulteriore abbandono, il cui effetto costituisce un trauma estremamente grave, che comporta conseguenze sul suo sviluppo psichico.

Il successo dell’esperienza adottiva può dipendere dalla presenza di fattori di rischio che, generalmente, per i genitori sono strettamente connessi alle motivazioni che li hanno spinti all’adozione. Tali elementi di rischio possono essere già presenti nella storia individuale dei protagonisti dell’adozione ma si manifestano palesemente nel momento in cui condizionano l’esito dell’adozione, conducendo al fallimento della relazione adottiva.

 

Adozione: gli indicatori di rischio

Galli (2001) ha analizzato e descritto alcuni indicatori di rischio che possono assumere un peso fondamentale nel definire l’esito dell’adozione; nell’individuare tali indicatori ha tenuto conto non solo delle caratteristiche delle coppie aspiranti all’adozione e dei bambini che vengono adottati, ma anche delle difficoltà e degli eventuali errori di valutazione dei professionisti che operano nel campo. Le peculiarità della coppia che di per sé non costituiscono fattori di rischio, possono invece rivelarsi determinanti di fronte a particolari caratteristiche del minore.

Gli indicatori individuati sono:

  • L’infertilità, la sterilità, i trattamenti medici: necessario che la coppia abbia elaborato e superato il lutto derivante dalla sterilità/infertilità, e abbia avuto il tempo di creare quello spazio interno, psichico e mentale necessario per accogliere un figlio adottivo;
  • I disturbi e funzionamento psicosomatico della coppia: è nota la frequenza con la quale alcune coppie che richiedono di adottare un bambino, dopo anni di ricerca e trattamento dell’infertilità, inizino una gravidanza subito dopo avere presentato la domanda di adozione, al principio o alla conclusione dello studio psicologico e sociale per l’ottenimento dell’idoneità, al momento dell’abbinamento o subito dopo l’arrivo del bambino; altrettanto frequente è il fatto che negli stessi momenti del percorso adottivo, altre coppie manifestino sintomi o malattie psicosomatiche (ad esempio ulcere gastrointestinali, asma bronchiale) più o meno gravi, che incidono sia durante il percorso che in seguito, sulle dinamiche relazionali con il bambino.
  • Le malattie organiche e disabilità: le richieste da parte di coppie nelle quali uno dei partner è affetto da malattie croniche progressive vengono, in alcuni casi, definite adulto-centriche, ovvero domande in cui il bambino adottivo viene a svolgere un ruolo terapeutico nei confronti dell’adulto malato;
  • L’adozione dopo la morte di un figlio: la richiesta di adozione fatta da queste coppie pone necessariamente di fronte al problema dell’elaborazione del lutto, nonché al rischio che il figlio adottivo si trovi a dover svolgere l’impossibile compito di sostituire il bambino deceduto;
  • Il rifiuto di procreare e motivazioni filantropiche: se la richiesta di adozione viene fatta da coppie che, senza problemi di infertilità, sono spinte apparentemente solo da motivazioni filantropiche e ideologiche è possibile che dietro queste motivazioni si celino ansietà riguardanti la gravidanza e/o il parto, oppure timori di trasmettere malattie genetiche, o profonde problematiche riguardanti la sessualità di coppia.

Adozione e psicopatologia

Poche sono le ricerche sulla psicopatologia genitoriale nel tema dell’adozione, tante invece quelle sui disturbi del bambino adottivo, soprattutto legati al periodo adolescenziale. L’attaccamento ai genitori adottivi e ad altre figure familiari si può verificare a ogni età. Sicuramente il periodo adolescenziale, caratterizzato da profondi mutamenti biologici e psicologici e di ricerca della propria identità, presenta per il bambino adottato difficoltà peculiari, ma ciò è indipendente dall’età di inserimento all’interno del nucleo adottivo. Secondo Kestemberg (1962):

Se è vero che tutto si prepara nell’infanzia tutto si gioca nell’adolescenza”.

Come emerge dalla letteratura scientifica sull’adozione, anche in Emilia-Romagna l’età pre-adolescenziale e adolescenziale si conferma essere una fase evolutiva sfidante per le relazioni familiari adottive.

Dalla ricerca di Miller et al. (2000) emergono risultati contrastanti sul fatto che i bambini adottati abbiano più problemi psicologici e comportamentali che i non adottati. Differenze medie standardizzate mostrano che gli adolescenti adottati sono più a rischio in tutti i settori presi in esame, tra cui riuscita scolastica e problemi a scuola, uso di sostanze, benessere psicologico, salute fisica, menzogne e litigi con i genitori. I risultati mostrano che le differenze tra gli adolescenti adottati e non adottati erano maggiori se si consideravano come variabili il sesso maschile, gli adolescenti più giovani o più anziani, ispanici o asiatici e gli adolescenti che vivono in case famiglia o con i genitori di basso livello di istruzione. In maggior misura quindi gli adolescenti adottati hanno più problemi di vario genere rispetto ai loro coetanei non adottati.

Nella ricerca di Cederblad et al. (1993) condotta in Svezia dove 152 famiglie con figli adottivi sono state invitate a prendere parte a uno studio del livello di salute mentale e dello sviluppo dell’identità dei figli adottivi; sia dalle interviste con i genitori che dagli strumenti di auto-valutazione somministrati ai giovani, è emerso che la loro salute mentale era buona e intatta.

Dallo studio effettuato in Spagna su adozioni internazionali da Barcons-Castel et al. (2011) indica che, anche se hanno uno sviluppo adeguato, i bambini adottati mostrano più problemi emotivi e comportamentali rispetto ai bambini non adottati. I risultati indicano differenze tra i bambini adottati e non, legati alla somatizzazione; i minori adottati sono quelli che ottengono i punteggi più bassi in generale e nello specifico nella scala che valuta la capacità di adattamento i minori non adottati ottengono punteggi più alti. Differenze significative sono state trovate nelle abilità adattive: i ragazzi non adottati mostrano abilità migliori di quelli adottati, differenze che non sono state riscontrate invece tra le ragazze.

In generale, i ragazzi presentano punteggi più alti in esternalizzazione della sintomatologia e depressione rispetto alle ragazze. Tra i bambini adottati, il tempo trascorso in un istituto è una variabile che ha un impatto negativo sull’insorgenza di esternalizzazione e internalizzazione dei problemi. I minori provenienti dall’Europa dell’Est mostrano maggiori problemi di attenzione, abilità adattive minori e le relazioni interpersonali più povere rispetto agli altri minori. Inoltre problemi di attenzione appaiano più frequentemente in minori adottati dopo l’età di 3 anni.

L’indicazione metodologica che possiamo trarre dalla lettura dei 
dati delle ricerche sopra riportate sui fallimenti adottivi e sul benessere psicologico dei bambini-adolescenti è la necessità di accompagnare da subito la creazione di legami familiari adottivi (affiliazione-genitorialità adottiva), promuovendo interventi di sostegno e aiuto precoci, in grado di leggere in tempo i segnali di disagio per poter intervenire con successo fin dal loro esordio.

 

Adozione e disturbi di personalità

Per quanto riguarda i disturbi di personalità o altre patologie più gravi, non vi sono in letteratura molti studi legati all’adozione; alcuni di questi mostrano una maggiore probabilità di sviluppare disturbi di personalità e comportamento a rischio in adulti adottati.

In uno studio Westermeyer et al. (2015) hanno indagato la storia di vita e la presenza di disturbi di personalità in adulti adottati e non adottati mediante l’impiego di un campione rappresentativo a livello nazionale. I dati sono stati confrontati in adulti adottati rispetto ad adulti non adottati, per stimare le probabilità della presenza di disturbi di personalità. I sette disturbi di personalità considerati erano istrionico, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, ossessivo-compulsivo e disturbo di personalità dipendente.

Per coloro che erano stati adottati è stato registrato un aumento nella probabilità di sviluppare qualsiasi disturbo di personalità rispetto ai non adottati; in particolare gli adulti adottati mostravano una probabilità maggiore di possedere un disturbo di personalità istrionica, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, e ossessivo-compulsivo rispetto ai non adottati. Questi risultati supportano i più alti tassi di disturbi di personalità tra gli adottati rispetto ai non adottati.

 

Adozione e incidenza di comportamenti suicidari

Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota dal 1998 al 2008, da Keyes et al., si è proposta di indagare se lo stato di adozione rappresentava un rischio di tentativo di suicidio per i figli adottati e non adottati che vivono negli Stati Uniti. Gli autori hanno poi esaminato i report dei genitori e i fattori noti per essere associati a comportamenti suicidari tra cui sintomi di disordine psichiatrico, tratti di personalità, ambiente familiare e disimpegno accademico. Dallo studio è emerso che la probabilità di tentativo di suicidio erano quasi 4 volte superiore in adulti adottati rispetto a non adottati. La relazione tra stato di adozione e tentativo di suicidio è parzialmente mediata da fattori noti per essere associati a comportamento suicidario.

 

Conclusioni: auspicabilità della prevenzione del disagio psicologico nell’adozione

Come suggeriscono gli studi sarebbe interessante ampliare la ricerca sull’argomento, soprattutto in una fase preliminare nel percorso adottivo, sia dal punto di vista genitoriale che del bambino adottato, per poter prevenire il disagio psicologico e ridurre la probabilità di fallimento adottivo.

Anche il viaggio più lungo comincia con un solo passo.

(Laozi)

L’utilizzo dell’EMDR nel trattamento di sintomi depressivi e da PTSD in un campione di profughi siriani

 

Gli eventi che di sovente si accompagnano allo status di profugo predispongono la persona ad un rischio più elevato di sviluppare dei traumi. Inoltre, l’effetto combinato degli eventi stressanti e delle preoccupazioni rivolte al futuro, si sostanzia in un maggiore rischio di sviluppare depressione.

Secondo la United Nations High Commission for Refugees (UNHCR) nel 2012 si registravano a livello mondiale oltre 15.4 milioni di profughi. Negli ultimi due anni il conflitto in Siria ha costretto molte persone a lasciare le proprie abitazioni per fuggire alla ricerca di un luogo sicuro. Così, secondo le stime della UNHCR, nel 2013 si contavano oltre 2 milioni e 800 mila profughi siriani.

Gli eventi che di sovente si accompagnano allo status di profugo (i.e: rischio di morire, tortura, fame, scomparsa dei propri familiari ed amici, etc.) predispongono la persona ad un rischio più elevato di sviluppare dei traumi. Inoltre, l’effetto combinato degli eventi stressanti protratti nel tempo e delle preoccupazioni rivolte al futuro, si sostanzia in un maggiore rischio di sviluppare depressione, disturbi d’ansia ed in particolare disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

A sostegno di tale tesi, uno studio svolto su un campione di profughi cambogiani reclutati tra Thailandia e Cambogia, riscontrò un’incidenza superiore al 55% di depressione del 15% di PTSD. Una delle priorità all’interno del campo della psicologia delle emergenze, è salvaguardare la salute mentale e migliorare la qualità di vita dei profughi.

Tra le tecniche per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress, in accordo con le linee guida NICE (2005), l’EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) ha prodotto ottimi risultati. Tale tecnica prevede la rievocazione da parte del paziente di ricordi traumatici contemporaneamente al movimento orizzontale degli occhi, che seguono uno stimolo in movimento (i.e: le dita del terapeuta) (Shapiro, 2001).

Sulla base di tali premesse, il team di Acarturk e colleghi (2015) ha indagato l’efficacia clinica dell’EMDR su di un campione di profughi siriani adulti (età compresa tra 19-63 anni), che al momento della valutazione non avevano mostrato ritardo mentale e che non stavano assumendo psicofarmaci. Così, 29 partecipanti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale (trattamento EMDR) o al gruppo di controllo. Il gruppo sperimentale riceveva una media di 4.13 sedute EMDR della durata di circa 90min l’una, dove inizialmente il partecipante raccontava la propria esperienza di fuga dalla Siria ed in seguito era invitato a selezionare un ricordo traumatico target su cui svolgere, appunto, l’EMDR. Nello specifico, il ricordo era rievocato per circa 30 secondi e, durante tale intervallo, il paziente seguiva il movimento delle dita del terapeuta che si spostavano da destra a sinistra all’interno del campo visivo del paziente stesso; tale procedura era svolta fino a che il soggetto riportava uno stato di distress associato al ricordo target minimo.

Al termine dello studio, il gruppo sperimentale evidenziò una riduzione significativa di sintomi del PTSD (p <0.001), risultato che si manteneva a distanza di un mese dalla conclusione della ricerca. Anche i sintomi depressivi evidenziarono una riduzione significativa (p = 0.004) esclusivamente nel gruppo sperimentale.

In conclusione, quindi, tale ricerca conferma l’efficacia del trattamento EMDR dei sintomi del PTSD e depressivi in un campione di profughi siriani adulti. Tuttavia, sebbene condotto come randomized controlled trial (RCT) e quindi decisamente valevole sul piano sperimentale, tale studio non è esente da limiti, ad esempio la ridotta numerosità del campione. Le ricerche future, quindi, avranno l’onere di indagare in nuovi e più estesi campioni l’efficacia clinica dell’EMDR.

Comprese quindi le condizioni critiche alle quali i profughi sono esposti e il derivante incremento del rischio di patologie psichiatriche, risulta necessario individuare le tecniche psicoterapeutiche più adatte ad intervenire a livello clinico su questo tipo di pazienti. E’ tuttavia bene sottolineare che permangono delle difficoltà insite nel sapere culturale del popolo siriano che rendono difficile il trattamento clinico dei profughi. Un esempio potrebbe essere la sfiducia nutrita per la psicologia clinica e il conseguente timore di incorrere con più probabilità nel disturbo mentale qualora si prenda parte a delle sedute con un terapeuta (Acarturk et al., 2015).

Un braccialetto ci salverà dalla depressione: la ricerca della Fondazione BRF ONLUS

Fondazione BRF – Comunicato Stampa

Un semplice braccialetto per il monitoraggio dell’attività fisica potrà difenderci dalla depressione, annunciandola in anticipo e consentendoci di ricorrere a una terapia precauzionale.

Un po’come accade per le previsioni del tempo, potremo accorgerci del nostro imminente cambio di umore ed evitare la perturbazione.

È questo lo scopo della sperimentazione che sta per essere avviata dalla Fondazione BRF Onlus -Istituto per la ricerca scientifica in psichiatria e neuroscienze nata da pochi mesi che sarà presentata a Lucca, a Palazzo Bernardini, il prossimo 28 novembre dalle 15.30.

La Fondazione BRF Onlus, presieduta da Armando Piccinni, psichiatra e docente dell’Università di Pisa, ha messo a punto lo studio e si appresta a iniziare la sperimentazione che durerà sei mesi. Dai risultati potranno emergere i dati necessari a prevenire gli episodi di malattia. Si potrà così anticipare l’insorgenza della depressione ed evitare che i pazienti possano essere colpiti dalle conseguenze della patologia.

Il disturbo che verrà studiato sarà quello bipolare. Ne soffre ogni anno una fetta di popolazione che varia dall’1 al 2 per cento. Per quattro individui su cinque, il disturbo è destinato a ripetersi periodicamente. L’identikit del paziente affetto da disturbo bipolare è ricco di sfumature, ma nella maggior parte dei casi la patologia si caratterizza per l’alternanza ciclica di episodi depressivi e maniacali, ovvero fasi di eccitamento.

L’idea della Fondazione BRF Onlus – spiega il presidente, il prof. Armando Piccinni – è quella di identificare i marcatori biologici di questi up and down del tono dell’umore. Attraverso dei braccialetti elettronici, come quelli che usano gli sportivi, i pazienti saranno monitorati 24 ore al giorno per sei mesi. Terremo traccia delle variazioni dei battiti cardiaci, dell’alternanza sonno-veglia, dell’attività fisica e, in parte minore, delle abitudini alimentari dei pazienti. I dati saranno analizzati statisticamente per stabilire il rapporto causa-effetto tra le condizioni fisiche e il momento in cui si presenta la fase acuta del disturbo bipolare.

Il fine della ricerca è trasformare il braccialetto, dopo la sperimentazione, in un mezzo in grado di analizzare con un fine ben specifico il nostro stato fisico. In questo modo per gli specialisti, ma anche per i pazienti stessi, sarà più facile interpretare le variazioni che coincidono con le prime avvisaglie di malessere e agire con rapidità per evitare episodi depressivi o maniacali.

La Fondazione BRF ONLUS, infatti, rilascerà un’app per smartphone in grado di dialogare con il braccialetto elettronico. In questo modo una semplice notifica potrà bastare per comprendere il proprio stato di salute e gli elementi da considerare.

Si tratta del primo passo del nostro Istituto Onlus – commenta il prof. Armando Piccinni – La ricerca nell’ambito della psichiatria e delle neuroscienze ha sempre bisogno di nuove energie, umane ed economiche. Con la Fondazione BRF Onlus abbiamo deciso di metterci in gioco perché siamo certi di poter apportare contenuti innovativi per contribuire a combattere i mali del nostro tempo.

 

NELLA PROSSIMA PAGINA:

Nasce la Fondazione BRF Onlus Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze (COMUNICATO STAMPA)

Nasce la Fondazione BRF Onlus Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze 

Rendere meno soli i pazienti psichiatrici e le persone a loro vicine. E’questa la missione della neonata Fondazione BRF Onlus – Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze che verrà presentata il 28 novembre 2015 a Lucca (Palazzo Bernardini, dalle 15.30) in un pomeriggio di scienza.

Nata dall’iniziativa di alcuni clinici e ricercatori dell’Università di Pisa, la Fondazione BRF Onlus è un ente privato e senza fini di lucro, che ha come Presidente il Prof. Armando Piccinni (Università di Pisa) e come responsabile ricerche la Prof.ssa Donatella Marazziti (Università di Pisa) e annovera nel suo comitato scientifico personalità internazionali come Marc Potenza (Yale University), Dan J. Stein (University of Cape Town), ma anche Stephen W. Porges (University of Carolina) e Sue Carter (Indiana University). Fra gli italiani spiccano il Prof. Umberto Galimberti e il Prof. Eugenio Picano (CNR).

Vogliamo creare un polo scientifico – spiega il Presidente Armando Piccinni – che punti a sviluppare e finanziare nuovi progetti di ricerca, affinare le conoscenze di tutti i professionisti del settore medico, ma anche dare un risvolto applicativo alle ricerche per il miglioramento delle condizioni di vita dei malati psichiatrici e in generale dell’uomo. Spesso il paziente psichiatrico soffre per una doppia condizione: quella che gli viene consegnata dalla sua malattia, e quella che invece gli impone con l’isolamento e l’incomprensione la società. Il nostro desiderio è quello di tendere una mano, anche attraverso la divulgazione scientifica, a queste persone e alle loro famiglie.

Il pomeriggio di scienza del 28 novembre vedrà la presenza di tre luminari di chiara fama, che si avvicenderanno con altrettante lezioni. A cominciare sarà il Prof. Enrico Alleva con ‘Ruolo delle neurotrofine nel controllo dello stress e delle emozioni nell’animale e nell’uomo‘, a seguire il Prof. Patrick Pageat con ‘La comunicazione chimica dall’animale all’uomo: l’affascinante storia dei feromoni‘, l’incontro terminerà con il Prof. Fortunato Tito Arecchi e la sua lezione ‘Dal caos al linguaggio: la creatività cognitiva‘.

L’occasione sarà utile anche per illustrare le future ricerche della Fondazione BRF Onlus.

Attualmente – spiega Donatella Marazziti, responsabile ricerche – stiamo portando avanti numerosi studi. Il più importante è forse quello sui pazienti bipolari che sarà condotto in un modo innovativo: per monitorare il disturbo utilizzeremo un braccialetto elettronico che verrà presentato proprio nel corso dell’incontro del 28 novembre e che ci aiuterà nello studiare il comportamento dei pazienti e, attraverso una app, ad anticiparne le crisi.

Importanti sono anche gli studi sulle dipendenze comportamentali, nello specifico sulla food addiction e sulla dipendenza dalle nuove tecnologie supportato anche dall’accordo recentemente siglato con ENPAB (Ente Nazionale di previdenza e di assistenza a favore dei biologi), che ha portato alla nascita di una rete che mira a promuovere indagini sul comportamento alimentare e a favorire l’aggiornamento professionale rispetto alle dipendenze alimentari.

Ulteriori studi in corso – continua il Presidente Armando Piccinni – hanno come focus il temperamento e un approccio teorico ad un nuovo modello di struttura temperamentale, l’utilizzo di nuovi trattamenti nei disturbi d’ansia di sostanze naturali in collaborazione con l’istituto internazionale di ricerca IRSEA –France, lo studio sull’influenza della radiazione luminosa nella cronobiologia dei disturbi dell’umore.

In corso è anche una collaborazione con un’azienda leader mondiale di videogiochi per il riconoscimento precoce dei giocatori patologici; l’incidenza della patologia depressiva nel mondo dello sport agonistico; l’incidenza della food addiction in popolazioni giovanili; la dipendenza da Internet all’interno di popolazioni scolastiche.

Gli interventi in programma il 28 novembre:

  • Ruolo delle neurotrofine nel controllo dello stress e delle emozioni nell’animale e nell’uomo

Prof. Enrico Alleva, Director, Section of Behavioural Neurosciences – Dipartimento di Biologia cellulare e Neuroscienze. Istituto Superiore di Sanità. Presidente, Federazione Italiana di Scienze della Natura e dell’Ambiente –FISNA

  • La comunicazione chimica dall’animale all’uomo: l’affascinante storia dei feromoni

Patrick Pageat, DMV, MSc, PhD, Dipl ECVBM-CA, HDR, Professeur Associéd’Ethologie Appliquée etBien-Etre Animal àl’EI Purpan –INP Toulouse (France). Doyen de la Direction Recherche et En-seignement IRSEA – Institut de Recherche en Semiochimie et Ethologie Appliquée

  • Dal caos al linguaggio: la creatività cognitiva

Fortunato Tito Arecchi. Professor Emeritus of Physics. University of Florence – INO. (Istituto Nazionale di Ottica) – CNR

Comitato Scientifico

  • Presidente della Fondazione BRF è Armando Piccinni.
  • Responsabile delle ricerche è Donatella Marazziti.
  • Fanno parte del Comitato Scientifico illustri scienziati ed esperti di livello nazionale e internazionale. Fra questi Joseph Zohar (Sackler Faculty of Medicine, Tel Aviv, Israel), Marc Potenza (University of Yale, USA), Eric Hollander (Montefiore Medical Center, New York, USA), Stephen Stahl (University of California, San Diego, USA), Stephen W. Porges (Kinsey Institute, Indiana, USA), Sue Carter (Kinsey Institute, Indiana, USA), Konstantin Loganovsky (National Academy of Medicine Sciences of Ukraine), Hans-Jürgen Möller (Ludwig-Maximilians University, Monaco), Dan J. Stein (Universy of Cape Town, South Africa), Patrick Pageat (IRSEA, Apt, France), Siegfried Kasper (Università di Vienna, Austria), Alessandro Cozzi (IRSEA, Apt, France), Umberto Galimberti (Università Ca Foscari, Venezia), Eugenio Picano (NR), Filippo Muratori (IRCSS Stella Maris, Università di Pisa), Luciano Domenici (Università di L’Aquila), Tiziana Stallone (Comitato direttivo ENPAB), Enzo Pasquale Scilingo (Facoltà di Ingegneria, Università di Pisa), Leonardo Romei (ISIA, Urbino), Ilse Melotte (La Quercia, Italy), Laura Bazzichi (Università di Pisa), Antonio Latanà (Università di Pisa), Antonello Veltri (Università di Pisa), Rosa Scaramuzzo (Università di Pisa), Mario Campanella (Giornalista scientifico, Italy).

La depressione post-partum: cos’è e come riconoscerla?

Depressione Post-partum – Il periodo della gravidanza e del post-partum è un momento di grande vulnerabilità per la donna. Fin dal concepimento infatti si verificano una serie di cambiamenti non solo esterni, ma soprattutto interni. Per questo motivo la gravidanza viene considerata un’esperienza di “crisi”, in cui la donna acquisirà una nuova organizzazione psichica.

La gravidanza e il parto

I nove mesi di gestazione da un lato permettono alla futura madre di preparare al neonato un suo spazio fisico nel mondo reale, dall’altro le consente di riorganizzare i propri spazi interiori, di creare nella sua mente uno spazio adatto a contenere l’idea di un bambino e di sé come genitore.

Alcune donne hanno difficoltà ad accettare lo stato di gravidanza, provando sentimenti contrastanti, di felicità, di paura, di preoccupazione per ciò che le attende. Queste reazioni sono in realtà condivise da molte donne, ma non sempre vengono espresse, nel timore di sentirsi “diverse” e giudicate come inadeguate. È molto importante saper “leggere” i propri stati interni, perché tristezza, sconforto e ansia possono trasformarsi in veri e propri sintomi di depressione.

Quando il bambino nasce le cose possono complicarsi ulteriormente, poiché i due neogenitori si trovano spesso impreparati nello svolgimento del loro nuovo ruolo. Inoltre, sappiamo che per la donna il post partum è caratterizzato da un rapido cambiamento ormonale, che può favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. Solo il 10-15% della popolazione generale arriva a manifestare sintomi clinicamente significativi per una depressione post-partum. Questi sintomi non sono transitori e possono persistere anche per diversi anni.

L’interesse riscontrato per la depressione post-partum è legato al forte impatto che ha non solo sulla donna, ma anche sul padre e sul bambino. Ma quali sono i sintomi e come si può riconoscere?

 

Sintomi della Depressione post-partum

Per fare diagnosi di depressione post-partum è necessario individuare almeno cinque sintomi tra i seguenti per un arco di tempo di almeno due settimane:

  • umore depresso
  • anedonia (perdita di piacere)
  • modificazione del peso e/o dell’appetito
  • alterazione del sonno
  • astenia (perdita di energie)
  • isolamento
  • sentimenti di colpa e di inutilità bassa autostima, impotenza e disvalore
  • ansia e relativi connotati somatici
  • perdita della libido
  • riduzione della concentrazione
  • pensieri ricorrenti di morte e/o progettualità di suicidio
  • agitazione o rallentamento psicomotorio.

I sintomi nel linguaggio delle mamme si possono tradurre così:
– Umore depresso, labilità emotiva, tristezza e perdita di piacere:

“Ogni cosa ha perso il suo colore”
“Piangerei sempre”
“Non voglio vedere nessuno”
“Per un attimo mi sento benissimo e un attimo dopo sono di nuovo a terra”

– Mancanza di energia, confusione mentale e difficoltà di concentrazione:

“Sono così stanca…”
“Tutto quello che faccio è una fatica”
“Non riesco a prendere decisioni”
“Sono confusa e ho la mante annebbiata”

– Senso di disperazione, inadeguatezza e pensieri pessimisti, a volte pensieri di morte. Sentirsi prive di valore, senso di colpa e biasimo:

“Non sono capace di fare niente”
“Agli altri interessa solo il mio bambino, non come mi sento io”
“Perché sto così male adesso che ho questo bellissimo bambino?”
“Mi sono appena seduta e il bambino ricomincia a piangere”
“A volte penso che tutti starebbero molto meglio se io non ci fossi più”

– Sintomi ansiosi, irritazione:

“Mi sento in allarme”
“Sento che sto per esplodere”
“Ho le palpitazioni, il respiro corto”
“Mi sento un nodo alla gola”

– Alterazione funzioni neurovegetative (sonno, appetito, libido):
“Non sopporto di essere toccata”
“Mi sveglio presto”
“Non ho appetito”
“Mangio senza un freno”

Alcune donne possono presentare solo alcuni di questi sintomi senza soddisfare i criteri per la diagnosi di depressione post-partum. Si può trattare infatti di altri disturbi come il disturbo dell’adattamento con umore depresso.

Quando lo stress che la donna vive nel periodo immediatamente dopo la nascita del bambino è una reazione momentanea alle richieste del neonato o di altri membri della famiglia, non viene fatta alcuna diagnosi. In questi casi fornire informazioni, rassicurazioni e ascolto possono bastare.
Altre volte le difficoltà a concentrarsi, a prendere decisioni e a prendere sonno possono derivare da ansia grave. A meno che non sia presente anche un umore depresso, non si parla di depressione post-partum, ma di un disturbo d’ansia che necessita comunque di un trattamento specifico. È bene però ricordare che la presenza di un certo grado di ansia in un quadro depressivo è una caratterista comune della depressione post-partum.

 

Quando si manifesta la depressione post-partum?

I primi sintomi possono cominciare a manifestarsi già nella 3-4 settimana successiva al parto, manifestandosi clinicamente tra il quarto e il sesto mese, con segnalazioni di casi anche fino ai nove mesi. Questi sintomi non vanno però confusi con la maternity blues, un lieve disturbo emozionale transitorio di cui soffrono più della metà delle donne nei primi giorni dopo il parto e che si risolve spontaneamente entro una settimana senza particolari conseguenze sulla mamma e sul neonato.

Quando la mamma o le persone che le stanno vicine riconoscono i sintomi della depressione post-partum o notano che il malessere persiste per più di due settimane è bene rivolgersi a uno psicologo, che attraverso un colloquio, specifici test e l’osservazione clinica potrà consigliare il percorso di trattamento migliore. Uno tra i trattamenti più efficaci è quello cognitivo-comportamentale (CBT). Prima si interviene, migliore è la prognosi.

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Sviluppi nei paradigmi psicopatologici

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 3

E’ oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva.

LEGGI ANCHE: Tra analisi scientifica e stigma sociale – (Parte 1/4)

LEGGI ANCHE: I nuovi approcci di matrice sociologica – (Parte 2/4)

A lungo, la ricerca e gli studi criminologici hanno operato una serie di semplificazioni e di riduzionismi riguardo al rapporto tra devianza e disagio psicologico; il comportamento deviante e criminale è stato spesso tout court ricondotto a problematiche di natura psicopatologica, che determinerebbero la condotta deviante disinibendo il comportamento e affievolendo le capacità cognitive della persona.

Nonostante questa concezione sia notevolmente radicata nel senso comune e, anche se in maniera minore, in quello psicologico e giuridico, si tratta di un’idea riduzionistica, stereotipata, in quanto è oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva (De Leo, 1998).

Storicamente, le tipologie psichiatriche più frequentemente ritenute predittive della condotta criminale adulta sono state la psicosi, la nevrosi e la personalità psicopatica; per quanto riguarda l’età evolutiva e l’adolescenza l’adozione di queste categorie è stata più limitata, e si è fatto più spesso riferimento ad altre categorie diagnostiche, quali il Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (ADHD), il Disturbo della condotta e il Disturbo oppositivo provocatorio.

In tutti questi casi, la presenza di una etichetta diagnostica non rappresenta di per sé un fattore prognostico per una condotta antisociale o criminale, né ne fornisce una spiegazione univoca e inequivocabile. Ad esempio, l’iperattività diagnosticata durante l’infanzia potrebbe in adolescenza scomparire oppure attenuarsi, confinandosi solo a specifici contesti; allo stesso modo, la cattiva condotta può variare notevolmente in base al contesto e all’età in cui insorge (De Leo, 1998). Per quanto concerne poi l’atteggiamento oppositivo e provocatorio, attualmente si è concordi nel considerarlo parte integrante dell’adolescenza, senza che per questo sia considerato un sintomo, ma piuttosto come un’espressione di bisogni di individuazione e affermazione (Bonino, Cattelino, Ciairano, 2003; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Sono stati dunque messi progressivamente in crisi i modelli nosografici classici e la loro applicazione diretta ad una fase della vita così particolare e delicata come l’adolescenza; tali modelli sembrano ancorati a un’analisi del comportamento umano in termini fortemente positivistici e guidati da criteri ordinativi e descrittivi del fenomeno, inappropriati a cogliere il senso in cui gli adolescenti costruiscono percorsi anomali o devianti (De Leo, 1998). Manca, in sostanza, la considerazione del rapporto tra contesti (affettivi, normativi e sociali) e processi di sviluppo, al cui interno la condotta si verifica e acquista significato.

Le diverse espressioni comportamentali problematiche in adolescenza, come l’aggressività, l’opposizione, le provocazioni, dovrebbero quindi essere intese non come sintomi da ricondurre a una categoria diagnostica, ma come effetti che emergono e assumono significato nell’interazione con diversi contesti produttori di norme e significati. Lo stesso concetto di normalità deve essere sottoposto a valutazioni critiche quando si parla di adolescenza. Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) sostengono che in adolescenza difficilmente la normalità si configura come assenza di sintomi e deve quindi essere valutata in funzione dei compiti che questa fase propone. Gli autori, confermando la scarsa utilità dei sistemi nosografici classici nella valutazione clinica in adolescenza, propongono di considerare il funzionamento psichico formulando la valutazione in termini di bilancio evolutivo; in questa prospettiva, le diverse aree di sviluppo possono essere considerate come sistemi in fase di riorganizzazione e che non hanno ancora trovato un assetto definitivo sufficiente a consentire la valutazione della personalità nel suo complesso, così come avviene per gli adulti.

Al bisogno di modelli e strategie di valutazione clinica che tengano conto della specifica fase evolutiva in cui si trova l’adolescente, con tutte le conseguenze sul piano affettivo, cognitivo, relazionale e sociale, tenta di rispondere l’approccio della psicopatologia evolutiva o developmental psychopathology; tale approccio si basa su concetti e metodologie utili alla comprensione dello sviluppo mentale e patologico durante l’età evolutiva (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004). Secondo questa impostazione teorica, il soggetto si confronta, nella fase di sviluppo in cui si trova, con diversi compiti adattivi, in una relazione dinamica con l’ambiente; la psicopatologia viene dunque considerata un fallimento nella risoluzione dei compiti evolutivi, da cui derivano distorsioni e disadattamenti. Il processo evolutivo è considerato un’interazione dinamica tra organismo e ambiente, in cui si succedono fasi d’adattamento e di crisi che obbligano l’individuo ad elaborare nuove strategie.

Hudziak, Achenbach e colleghi (2007) affermano che la psicopatologia in età evolutiva differisce da quella adulta sotto diversi aspetti. Prima di tutto, l’espressione della psicopatologia nei bambini si modifica sia nella sue manifestazioni che nella sua gravità nel corso dello sviluppo; inoltre, è necessario tenere conto dei cambiamenti riguardo a cosa deve essere considerato normale e adattivo, in quanto alcuni comportamenti considerati patologici ad una certa età possono essere considerati normali ad un’altra età. Infine, l’assessment della psicopatologia in bambini e adolescenti necessita di una molteplicità di fonti di informazioni, tra cui i genitori, gli insegnanti e i ragazzi stessi. Gli autori propongono di affiancare alla diagnosi categoriale proposta dal DSM, una diagnosi di tipo dimensionale, maggiormente adeguata a cogliere gli aspetti peculiari delle manifestazioni psicopatologiche in infanzia e adolescenza, la loro plasticità e il loro cambiamento nel tempo; dal momento che l’uso combinato ed integrato dei due sistemi diagnostici è sensibile alle differenze di età, di genere e della fonte di informazione, è possibile valutare i miglioramenti o peggioramenti del soggetto anche in relazione ai diversi contesti di sviluppo.

La psicopatologia evolutiva propone quindi un approccio evidence-based alle manifestazioni patologiche in infanzia e adolescenza, di grande utilità anche per quanto riguarda la cura e la presa in carico del minore autore di reato (Rossi, 2004). La psicopatologia evolutiva si basa sull’analisi attenta in maniera congiunta, sinergica e interattiva di due tipologie di fattori: quelli di rischio, che aumentano la probabilità di condotte o manifestazioni disadattive, e quelli di protezione, che agiscono in direzione opposta favorendo l’adattamento dell’individuo e modulando l’effetto dei primi (Connor, 2002).

In letteratura vengono elencate diverse tipologie di fattori protettivi e di rischio in rapporto allo sviluppo delle condotte devianti in adolescenza. Ingrascì e Picozzi (2002) elencano a questo proposito cinque specifici fattori di predizione della violenza giovanile: fattori individuali, fattori familiari, fattori contestuali. I fattori individuali comprendono la presenza di caratteristiche psicopatologiche (iperattività, irrequietezza, deficit di attenzione, disturbo della condotta) e la comparsa precoce di comportamenti aggressivi e antisociali, ma non possono essere considerati se non in costante interazione con i tre più importanti e rilevanti contesti relazionali in cui l’adolescente cresce, ovvero la famiglia, la scuola e il gruppo dei coetanei.

Connor (2002) sottolinea inoltre che gli effetti delle relazioni con i genitori e con gli amici non si escludono a vicenda ma, al contrario, sono compresenti e si potenziano reciprocamente; Cattelino e Bonino (1999) confermano questo dato sostenendo che il rischio risiederebbe dunque nell’interazione tra un atteggiamento di scarso controllo da parte dei genitori, uno scarso investimento di tempo trascorso con la famiglia e molto tempo passato con amici che non impongono divieti sufficienti verso comportamenti trasgressivi. Infine Ingrascì e Picozzi annoverano tra i fattori di predizione anche quelli attinenti la sfera socio- culturale, tra i quali la disponibilità di droghe e armi, coinvolgimento nella criminalità di adulti vicini, esposizione alla violenza e al pregiudizio razziale.

Dodge e Zelli (2000) non parlano di fattori di rischio e protezione, ma propongono un modello multidimensionale ed ecologico in cui fattori distali (biologici e socioculturali) sono mediati da fattori prossimali, ovvero esperienze vissute dall’adolescente nei vari contesti di sviluppo:

Nel corso dello sviluppo il funzionamento neuro e psicofisiologico, il contesto socio-culturale e le esperienze vissute con i genitori e con gli altri si influenzano reciprocamente e in modi diversi, che possono favorire od ostacolare il manifestarsi di comportamenti antisociali.

I fattori distali, che rappresentano dunque il bagaglio biologico, genetico e socio-culturale dell’individuo, possono esporre l’adolescente a particolari esperienze a scuola, in famiglia o con i pari; queste esperienze, in maniera interattiva e ricorsiva, interagiscono con i fattori distali, modulandone e mediandone l’impatto in direzione protettiva oppure deviante. L’interazione costante tra i due tipi di fattori riveste dunque un ruolo cruciale nello sviluppo delle condotte devianti o, al contrario, nella loro prevenzione, e nel favorire o ostacolare l’adattamento dell’adolescente ai suoi contesti di vita.

Per quanto riguarda invece i fattori di protezione, Connor (2002) li definisce i fattori come risorse che modificano e migliorano la risposta dell’individuo ad alcuni pericoli ambientali che altrimenti lo predisporrebbero a conseguenze disadattive; i fattori protettivi modulano l’impatto degli agenti stressanti, aumentando le abilità di coping, migliorando l’adattamento e costruendo nuove competenze. L’autore elenca, per esempio, tra i fattori protettivi quelli individuali (buona autostima, competenze sociali, successo scolastico), quelli familiari (attaccamento sicuro con il caregiver, relazioni positive) e quelli extrafamiliari (supporto sociale esterno, relazioni amicali positive).

Connor aggiunge inoltre che la semplice analisi dei fattori di rischio e protezione non è sufficiente per spiegare la reale comparsa del comportamento violento e propone quindi un modello multidimensionale e integrato che prevede la necessaria presenza di altre condizioni, quali la concreta possibilità di compiere il reato, la mancanza di supervisione e di controllo parentale, l’associazione a gruppi delinquenziali e la possibilità di ottenere rinforzi diretti e indiretti alla propria condotta; i vantaggi ottenuti da un crimine non sono solamente di natura materiale, ma riguardano anche il rispetto, l’acquisizione di un certo status all’interno del gruppo dei pari, la paura o l’ammirazione suscitata negli altri (e ciò è particolarmente vero per gli adolescenti), l’esercizio del potere, il piacere della trasgressione (De Leo, 1998; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004).

Secondo questo modello, quindi, il comportamento criminale è preceduto da alcuni fattori di rischio che devono però necessariamente associarsi a fattori precipitanti e di mantenimento della condotta violenta, che portano nel tempo all’assunzione di un ruolo deviante e alla cristallizzazione di un’identità in questo senso. Anche Ingrascì e Picozzi (2002) sottolineano l’importanza di tenere conto, all’interno della dinamica criminogenetica, della catena multicausale che sfocia nell’atto antigiuridico; occorre considerare, dal punto di vista dell’autore, i rapporti tra costi e benefici che l’azione criminale produce e la complessità dei fattori non solo contestuali, situazionali, sociali ma anche psicologici e psicopatologici che circondano l’atto criminale.

L’ottica adottata è quindi multifattoriale, multidimensionale e probabilistica. I comportamenti devianti possono essere letti e interpretati, adottando quest’ottica, come modalità di risposta a costellazioni di fattori cointeressati, superando alcuni limiti storici appartenenti alla criminologia minorile: si pensi ad esempio alle problematiche dell’etichettamento che discendono da una valutazione moralistica della condotta minorile, o alle facili letture dell’agito criminale come esito di una causa precisa e identificabile (Rossi, 2004).

Il contributo che la psicopatologia evolutiva può offrire nella valutazione e nella presa in carico dell’adolescente a rischio di condotte criminali è rilevante, in quanto consente di tenere conto della complessità delle diverse istanze di sviluppo e della loro costante interazione tra loro, fornisce concetti teorici e metodologie qualitativamente adeguate alla fase evolutiva in esame e sostituisce definitivamente la logica universalisitica-determinsitica con una logica probabilistica, dinamica e temporale.

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