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La CBT-E per la cura dei disturbi dell’alimentazione nel sistema sanitario inglese

Il Chief Medical Officer del National Health Service Inglese raccomanda la CBT-E per la cura dei disturbi dell’alimentazione

I pazienti che soffrono di disturbi dell’alimentazione – ovunque essi vivano e indipendentemente dalla loro età o diagnosi specifica – dovrebbero avere rapido accesso a un trattamento presso il National Health Service (NHS) inglese, secondo il resoconto annuale “Health of the 51%: Women” del Chief Medical Officer Dame Sally Davies, che si propone di affrontare il crescente problema dei disturbi dell’alimentazione, come l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa.

Il trattamento, chiamato terapia cognitivo-comportamentale migliorata o ‘CBT-E‘, è stato sviluppato con un finanziamento a lungo termine del Wellcome Trust presso il Centre for Research on Eating Disorders del’Università di Oxford Centre. La CBT-E è il primo trattamento per i disturbi dell’alimentazione a mostrare risultati positivi per i pazienti di tutte le età e diagnosi.

Oggi, nelle sue raccomandazioni chiave per il NHS, che accompagnano la relazione annuale del 2015 dal titolo “Health of the 51%: Women” il Chief Medical Officer ha detto che l’NHS inglese dovrebbe commissionare servizi per fornire la CBT-E ai pazienti.

Nel Regno Unito si stima che almeno 725.000 persone soffrano di disturbi dell’alimentazione, di cui circa il 10% sono maschi e il 90% sono di sesso femminile. Le cifre pubblicate nel 2014 dall’Health and Care Information Centre hanno mostrato che c’è stato un costante aumento dei ricoveri ospedalieri a causa dei disturbi dell’alimentazione dal 2005-6, con un incremento di circa il 7% ogni anno.

La CBT-E è il prodotto di un programma esteso di ricerca clinica finanziata dal Wellcome Trust. Negli ultimi 15 anni, una serie di studi randomizzati controllati per valutare il suo potenziale uso come trattamento sono stati effettuati nel Regno Unito, Australia, Danimarca, Germania, Italia e Stati Uniti.

La Wellcome Trust ha anche supportato una nuova forma di formazione on-line sulla CBT-E per i terapeuti in modo che il trattamento possa essere implementato rapidamente. In passato la lenta formazione dei terapeuti è stata uno dei principali ostacoli all’implementazione di nuovi trattamenti psicologici. Usando questo nuovo metodo, più di 700 terapeuti in tutto il mondo hanno ricevuto una formazione centrata sul web nella CBT-E negli ultimi 18 mesi.

Il professor Christopher Fairburn, che ha sviluppato il trattamento presso il Centre for Research on Eating Disorders delll’Università di Oxford, e che ha lavorato in questo campo da oltre 30 anni, ha dichiarato:

“Per la prima volta c’è un unico trattamento efficace che funziona in tutti i disturbi del’lalimentazione – tra cui l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating – e in tutti i gruppi di età. Il trattamento semplificherà il lavoro dei medici e porterà al miglioramento della salute dei pazienti”.

Il Dr John Isaac, capo del Neuroscience and Mental Health al Wellcome Trust, ha dichiarato:

“I disturbi dell’alimentazione possono essere devastanti e preoccupanti, stiamo assistendo a un costante aumento del numero di pazienti che ne sono affetti. La CBT-E è una potente dimostrazione di come un attento sviluppo di nuove terapie psicologiche, supportate da studi clinici su larga scala, sia in grado di portare il trattamento a un  ampio numero di pazienti. Mi auguro che l’introduzione di questo nuovo servizio potrà fare la differenza per la vita dei pazienti”.

Lorna Garner, Chief Operating Officer di Beat, un gruppo caritatevole che sostiene le persone affette da disturbi dell’alimentazione, ha detto:

“Beat da tempo sta facendo una campagna per i pazienti con disturbi alimentari affinché abbiano accesso tempestivo alle terapie che hanno evidenza di efficacia. Siamo molto incoraggiati da questa raccomandazione del Chief Medical Officer che, se attuata avrà un impatto drammatico e positivo su una percentuale molto elevata di persone affette da disturbi dell’alimentazione. I dati a disposizione dimostrano che l’intervento precoce ha non solo il miglior risultato per i pazienti, ma ha anche un impatto molto positivo sull’economia e sulla società nel suo complesso”.

Opinioni che ognuno potrebbe avere, di Michele Serra (2015) – Recensione

Gli episodi che si susseguono sembrano rappresentare i tasselli di una società in crisi in cui il lontano, l’evanescente, l’astratto stanno rubando il posto al vicino, al tangibile, alla realtà materiale; in cui le nostre autocelebrazioni venate di narcisismo ingombrano paradossalmente una realtà sempre più inconsistente e virtuale; in cui tutto è in corso, ma non qui e quindi finisce per attraversarci senza riguardarci davvero.

Il protagonista del romanzo è Giulio, 35 anni, sociologo ricercatore non meglio definito che studia e categorizza – insieme al suo amico antagonista, nonché inguaribile ottimista Ricky – l’esultanza dei calciatori dopo il gol; ha una compagna, Agnese, egofono-dipendente e sta cercando di vendere il capannone del padre ebanista ancora pieno di legni pregiati, ma ormai fermo da tempo. Giulio vive in una pianura indefinita, chiamata Capannonia, dove il nostro eroe sconsolato si sente fuori posto e in cui perdersi[blockquote style=”1″] sarebbe al tempo una vertiginosa certezza e un’entusiasmante liberazione[/blockquote], ma invece sono le strade che percorre da una vita, ma che non riconosce più.

Gli episodi che si susseguono sembrano rappresentare i tasselli di una società in crisi in cui il lontano, l’evanescente, l’astratto stanno rubando il posto al vicino, al tangibile, alla realtà materiale; in cui le nostre autocelebrazioni venate di narcisismo ingombrano paradossalmente una realtà sempre più inconsistente e virtuale; in cui tutto è in corso, ma non qui e quindi finisce per attraversarci senza riguardarci davvero.

Ognuno è un pronome indefinito che sembra voler sgonfiare l’enorme bolla narcisistica che ingombra il nostro tempo e che sembra spogliare ciascuno del proprio ‘Io’ rendendolo anonimo e silenzioso.

E così vediamo il nostro eroe assistere ad un immobile avanzare di opinioni foriere di sterili polemiche riguardo la morte di un cinghiale; recuperare Agnese al pronto soccorso perché investita da un ciclista che non ha visto, perché anche lei affetta dalla sindrome dello sguardo basso; fare un lavoro tanto precario quanto inutile, emblema di quanto il narcisismo possa essere ospite indiscusso del nostro presente; soffrire allo stesso tempo la distanza degli altri esseri umani oscurati dalla tecnologia e la costante presenza dei loro ‘Io’ decantati senza misura attraverso parole e immagini.

Fortunatamente, vediamo Giulio anche disgustarsi dell’autismo digitale che pervade il nostro oggi, perdersi e interrogarsi; e alla fine non accontentarsi di una realtà piena di continue interferenze, con cui non si è più davvero in contatto. Sembra necessario, tanto al protagonista quanto al lettore, spegnere le luci, abbassare i volumi e ingannare il tempo per recuperare un ritmo interiore che ci permetta di disegnare la strada da percorrere, quella più autentica.

Giunto alla fine saprà rispondere al suo interrogativo sul perché continuano a costruire le rotonde:

perché il nostro destino è sbagliare strada[/blockquote], il nostro destino è perdersi e ri-orientarsi, ma senza l’aiuto di una voce artificiale, che renderebbe la strada intrapresa un illusorio autoinganno.

Ognuno potrebbe: ‘ognuno’ è un pronome indefinito che sembra voler sgonfiare l’enorme bolla narcisistica che ingombra il nostro tempo e che sembra spogliare ciascuno del proprio ‘Io’ rendendolo anonimo e silenzioso. ‘Potrebbe’ è una forma verbale che entra in punta di piedi, che lascia sospesa un’occasione, quella di poter fare qualcosa per migliorare, qualsiasi cosa. Certo, anche questa rimane un’opinione.

D’altronde oggi chi non ne ha una?!

Della separazione e della riconnessione. Elementi di psicopatologia e di psicoterapia sistemico-relazionale in chiave di Ecologia della Mente – Intervista agli autori

Il nuovo libro di Giovanni Madonna e Francesca Nasti sul processo dell’ammalarsi e del guarire/curare: intervista doppia agli autori.

Intervista doppia a Giovanni Madonna e Francesca Nasti, autori per FrancoAngeli, di un nuovo testo, di chiara matrice epistemologica batesoniana, che invita a un’esplorazione del territorio clinico presentando stralci di conversazione estratti da alcune psicoterapie per offrire una descrizione ostensiva della pratica clinica che non perde mai di vista la connessione con il territorio teorico/epistemologico sistemico-relazionale da cui ha avuto inizio l’esplorazione.

Intervistatore (I): Dottor Madonna da dove nasce l’idea di questo nuovo libro?

Dottor G. Madonna (GM): Dalla voglia di sottolineare che una buona teoria non è un arzigogolo mentale separato dalla pratica; e dalla voglia di proporre una descrizione ostensiva delle implicazioni cliniche derivanti dall’adozione dell’Ecologia della Mente come matrice epistemologica di riferimento. Considero significativo, a questo proposito, che alcuni fra gli interventi clinici presentati possano essere considerati anche come enunciazioni teoriche: l’epistemologia è intimamente connessa con la clinica, non è altro rispetto alla clinica; e la clinica non è altro rispetto all’epistemologia.

I: L’allenamento alla riconnessione, che richiede costantemente allo psicoterapeuta di mettere insieme parti differenti, una accanto all’altra, non crede che rischi di destabilizzare? In tutta questa complessità non c’è il rischio di perdersi?

GM: Allenare il proprio paziente alla riconnessione – non è altro, in fondo, che dare diritto di cittadinanza alla complessità che noi siamo, noi pazienti e noi psicoterapeuti. Proporre connessioni, inoltre, non è intervento unilaterale, non è interpretare o ridefinire; è proporre nuove possibilità di senso che, affidate al processo stocastico potranno o no, per vie imprevedibili, generare salute e benessere. Le proposte di senso non armoniche rispetto all’ecologia delle idee dello psicoterapeuta semplicemente non saranno proposte; e le proposte di senso non armoniche rispetto all’ecologia delle idee del paziente semplicemente non vi attecchiranno. E questo sarà rispettato dallo psicoterapeuta, che non considererà quel non attecchimento come una resistenza, ma come un aiuto a correggere il suo modo di aiutare il paziente. E da questa dinamica tutti e due – paziente e psicoterapeuta – non risulteranno destabilizzati: potranno invece conservarsi – come tutto ciò che vive finché vive – dinamicamente stabili, e godere di una stabilità aperta al cambiamento.

I: A leggere il testo sembra che lei non consideri separate patologia e normalità…

GM: Certo, è così, non sono separate. Sia un sano che un malato possono preoccuparsi, essere tristi, esaltarsi… possono abbuffarsi o saltare il pasto… la differenza consiste nel fatto che i malati si specializzano rigidamente… se non si specializzassero non sarebbero malati… tutte le malattie insieme si contempererebbero fra loro generando salute… Dobbiamo allenarci a non pensare in termini dicotomici… a considerare le tradizionali dicotomie – compresa quella salute/malattia in termini di processi distinti, ma non separati.

I: A un certo punto del testo, in un breve frammento di un caso clinico, lei, rivolgendosi a un paziente, afferma “questa è una battaglia che può vincere solo se accetta di perderla”; crede che lo stesso si possa dire anche a uno psicoterapeuta in riferimento agli obiettivi che si pone nello svolgere la professione?

GM: Sì, credo di sì; e mi piace questo isomorfismo che proponi. Lo psicoterapeuta non dovrebbe accanirsi – sia pure a fin di bene – nel perseguire obiettivi volti al cambiamento dell’altra parte della più ampia ecologia che lo comprende, ovvero dell’altra parte del cosiddetto sistema terapeutico: il paziente. Proprio come una parte del paziente non dovrebbe accanirsi nel tentativo di cambiare un’altra parte della più ampia ecologia che il paziente tutto intero è.

I: Dottoressa Nasti cosa ha significato per una giovane professionista avere la possibilità di essere coautrice di un libro con Giovanni Madonna?

Dottoressa F. Nasti (FN): Ha significato avere coraggio e allo stesso tempo lasciarsi infondere dalla fiducia di essere all’altezza del compito. Fiducia che ho potuto coltivare a partire da quella stessa dimostratami da Giovanni Madonna, mio formatore all’IIPR di Napoli (dove sono attualmente allieva didatta), nell’affidarmi i commenti ai suoi stralci di psicoterapia. Ha significato avere cura di studiare il processo dell’ammalarsi, del curare e del guarire come se fossi dietro lo specchio di un laboratorio epistemologico. Ha significato sperimentare ancora una volta l’importanza assieme alla bellezza del pensiero sulla metodologia, a sostegno della convinzione consolidata che le teorie hanno bisogno di essere abitate nell’esercizio della pratica clinica, così da porre in essere un modus operandi nel quale i concetti e le premesse dei modelli teorici orientano l’azione psicoterapeutica. Ha significato quindi pensare alla teoria attraverso la pratica e la pratica attraverso la teoria col paradigma della complessità scevra tuttavia da complicatezze e col modello psicoterapeutico batesoniano sviluppato appunto da Giovanni Madonna.

I: Dottoressa a fine testo, commenta quanto teorizzato da Madonna con altre sue riflessioni e lo fa avvalendosi di alcuni casi clinici. C’è qualcuno dei casi presentati che l’ha maggiormente colpita e perché?

FN: Credo che la psicoterapia abbia tra i massimi obiettivi la possibilità di creare chance. Per questo cito il caso di Petra. Ci auguriamo che i pazienti facciano un viaggio, esperienza di bellezza del lavoro epistemologico e siano capaci di valutare la riuscita della psicoterapia apprezzando l’insorgenza e/o il recupero della capacità di concepire la propria vita, sé e gli altri anche diversamente da quel modo che aveva generato sofferenza, dolore o malattia. Cito Petra per l’esemplificazione del processo di re-integrazione che secondo me si rende visibile negli stralci che la riguardano e non ultimo per la sintonia tra psicoterapeuta e paziente da cui nascono passaggi dialettici delicati, sensibili e poetici.

Occuparsi di chi soffre di demenza: il carico soggettivo del caregiver

Giulia Montanari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive, la sfera comportamentale ed emotiva e comporta una perdita progressiva di autonomia. Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene anche definita una malattia familiare.

 

La demenza è una patologia progressiva e cronica che colpisce le funzioni cognitive (memoria, capacità di ragionamento, di pianificazione, di giudizio…), la sfera del comportamento e delle emozioni e comporta una perdita progressiva di autonomia (van der Lee, 2014). Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene anche definita una malattia familiare.

Il ruolo di cura del familiare (carer), che si assume più o meno consapevolmente il compito dell’assistenza al paziente demente, è importante e muta nel corso dell’intero periodo di assistenza, dall’esordio delle responsabilità fino all’istituzionalizzazione e al decesso del paziente.

La percezione di un carico di cura eccessivo rivolto al malato viene definito ‘burden‘ ed è costituito dall’insieme dei problemi fisici, psicologici o emozionali, sociali e finanziari che devono affrontare i familiari di anziani con deficit fisici o cognitivi. Pertanto Il burden provoca un forte stress e la sensazione di non riuscire a far fronte alle richieste di cura. (Zarit, 1986).

E’ possibile distinguere tra aspetti oggettivi del carico che sono legati all’impegno fisico, assistenziale e alla gestione dei disturbi comportamentali del malato, e aspetti soggettivi riguardanti tematiche di perdita di identità del malato, di intimità e reciprocità nella relazione, isolamento e ritiro sociale del caregiver. La letteratura ha evidenziato come questi ultimi aspetti siano strettamente correlati con il benessere fisico e psicologico del caregiver (Zarit et al, 1986).

In questo articolo si andranno ad individuare quali siano le caratteristiche del paziente con demenza e del caregiver che sono significativamente determinanti del carico soggettivo del familiare, inteso appunto come salute mentale. Gli studi presi in esame hanno utilizzato diversi modelli di riferimento relativi allo stress per indagare i diversi fattori (Lazarus e Folkman, 1984; Poulshock e Deimling, 1984; Haley, 1987; Pearlin et al., 1990).

Caratteristiche del paziente affetto da demenza

Tutti questi modelli individuano come fattori determinanti nel paziente demente la presenza di problemi comportamentali o sintomi psichiatrici della demenza e la mancanza di cura di sé e bisogno di supporto. I problemi comportamentali, i disturbi dell’umore o i sintomi psichiatrici risultano essere molto frequenti nei pazienti con demenza e sono considerati fattori determinanti di burden del caregiver (van de Wijingaart et al., 2007). In particolare, essi sono correlati positivamente con il disagio psicologico o emotivo del caregiver (Pot et al, 1998; Meiland et al, 2005; Lee et al , 2006).

Inoltre, la presenza di sintomi depressivi (Goode et al , 1998; Alspaugh et al, 1999; Rabinowitz et al, 2009) e di sintomi ansiosi nel paziente (Mahoney et al , 2005 . Pioli , 2010) hanno un impatto negativo sulla salute mentale del caregiver ( Hooker e Bowman, 2002) o sono associati ad un effetto negativo sul carico assistenziale (Rapp e Chao, 2000).

Diversi studi (Meiland et al., 2005; Pot et al., 1998) hanno evidenziato come un elevato grado di assistenza o di supporto richiesto nelle attività della vita quotidiana (ADL) dai pazienti con demenza sia un fattore determinante del distress del caregiver. In particolare, la disabilità nelle attività della vita quotidiana e la mancanza di cura di sé del malato, rappresentano un fattore determinante la salute mentale (Braithwaite, 1996), il benessere del caregiver (Lawton et al., 1991) e più nello specifico nell’insorgenza di sintomi depressivi nello stesso.

Un dato interessante emerso in questi studi, è che la presenza di disturbi delle funzioni cognitive nei pazienti, non rappresenti un fattore determinante il burden del caregiver e non abbia un impatto sulla salute mentale dello stesso. Ciò non toglie che essi non possano essere rilevanti con il progredire della malattia e quando il paziente sarà totalmente a carico della famiglia e non in regime ambulatoriale.

Caratteristiche del caregiver di pazienti con demenza

Per quanto riguarda i fattori determinanti nel caregiver, essi possono essere suddivisi in: fattori sociali legati al caregiving (funzionamento sociale, rete e supporto sociale) (Pearlin et al, 1990.); salute fisica e mentale del caregiver; senso di competenza, autoefficacia e adeguatezza del caregiver (Pearlin et al, 1990.); tratti di personalità e strategie di coping del caregiver.

Diversi studi hanno mostrato come interazioni sociali negative e una rete sociale limitata siano fattori determinanti di depressione nel caregiver (Haley et al. , 2003), mentre la disponibilità di sostegno sociale e la valutazione personale di supporto siano associate sia ad una diminuzione del burden (Gold et al., 1995; Coen et al. , 1997) che ad una diminuzione dei sintomi depressivi (Au et al., 2009).

Per quanto riguarda il funzionamento sociale, maggiore è l’insoddisfazione da parte del caregiver rispetto al supporto dato e maggiore sarà il suo burden (Reis et al., 1994), mentre la percezione di un sostegno positivo lo diminuisce (Shurgot e Knight, 2005). Allo stesso modo, un buon rapporto con il paziente diminuisce il burden, mentre la tensione legata al ruolo di caregiver predice un burden maggiore (Campbell et al., 2008; Braithwaite, 2000). Inoltre, la preoccupazione e le difficoltà legate all’accudimento del paziente sono predittori della sintomatologia psicologica (Crispi et al., 1997).

Cattive condizioni di salute fisica del caregiver, rappresentano un fattore determinante nella comparsa di problemi di salute mentale nello stesso (Wu et al., 2009), e in particolare di depressione (Lawton et al, 1991; Haley et al, 2003; O’Rourke e Tuokko, 2004; Mahoney et al, 2005). Inoltre anche la preoccupazione e la tensione nel caregiver sono positivamente correlate alla depressione (Edwards et al., 2002).

Una cattiva salute fisica associata ad una prospettiva negativa sulla vita (Vitaliano et al., 1991), una bassa salute autoriferita e meno gioia (Reis et al. 1994), una bassa valutazione della salute collegata alla qualità di vita (Andrén e Elmstahl, 2007), una bassa auto-valutazione della salute (Baker et al., 2010) e una scarsa salute fisica e mentale (Conde-Sala et al., 2010) rappresentano tutti fattori determinanti il burden del caregiver. Tuttavia, il benessere soggettivo risulta essere significativamente determinante nella diminuzione del burden (Aminzadeh et al., 2006).

Il senso di competenza è risultato essere uno dei più importanti fattori determinanti i sintomi psicologici e psicosomatici nei caregivers (Droes et al., 1996). In particolare, per i caregivers con un basso senso di competenza, i sintomi psichiatrici del paziente rappresentano un importante fattore predittivo di stress emotivo (Meiland et al., 2005). Un aumento di competenza e una diminuzione del sovraccarico del caregiver determinano una riduzione della depressione (Mausbach et al., 2007) e al tempo stesso un elevato senso di autoefficacia e di autostima diminuiscono sensibilmente il burden (Chou et al., 1999; Chappell e Reid, 2002; Gonyea et al., 2005).

In uno studio, Cooper et al., hanno individuato come l’utilizzo, da parte dei caregivers, di strategie focalizzate sulle emozioni produrrebbero meno ansia rispetto all’utilizzo di strategie focalizzate sul problema, che invece tenderebbero ad aumentarla (Cooper et al. , 2008).

Tuttavia, non emergono le stesse conclusioni anche per il burden. Infatti, diversi studi hanno mostrato come l’utilizzo di strategie focalizzate sul problema siano associate a più bassi livelli di burden, mentre strategie focalizzate sulle emozioni a livelli più elevati (Chou et al, 1999; Riedijk et al, 2009). In ulteriori studi, si è osservato come la maggior parte dei caregivers tendesse ad utilizzare strategie focalizzate sulle emozioni, strategie che pertanto aumenterebbero maggiormente il burden (Vitaliano et al., 1991; Kim et al., 2012).

Per quanto riguarda i tratti di personalità, in particolare è emerso come il nevroticismo sia collegato ad una salute mentale peggiore (Hooker et al., 1998) e a un maggior burden (Reis et al, 1994;. Shurgot e Cavaliere, 2005; Choi e Kim, 2008) del caregiver.

Si può concludere da questa review che i problemi comportamentali del paziente o i disturbi dell’umore sono costantemente riportati come importanti fattori determinanti il carico del caregiver, la depressione e la salute mentale. Soprattutto per il burden, la maggior parte degli studi mostrano come i problemi comportamentali siano più significativamente determinanti rispetto ai disturbi cognitivi o della mancanza di cura di sè.

Le risorse del caregiver, per esempio i tratti di personalità, gli stili di coping, le competenze, sono fattori determinanti forti e possono essere considerati mediatori tra l’impatto dei problemi comportamentali del paziente e il carico del caregiver, la depressione e la salute mentale.

Di tutti i tratti di personalità misurati nel caregiver, il nevroticismo ha il maggiore impatto sul caregiver. Per quanto riguarda le competenze del caregiver, sentirsi competente o un maggior senso di autoefficacia generale diminuiscono il carico del caregiver e promuovono la salute mentale del caregiver.

Questi studi forniscono interessanti spunti per la pratica clinica con lo scopo di abbassare il burden del caregiver. In particolare, è possibile lavorare sia sulla gestione dei disturbi comportamentali del malato, fornendo al familiare strategie pratiche applicabili nella vita quotidiana, che sulle strategie utilizzate dai familiari stessi nella gestione del malato.

In generale, il carico del caregiver e i suoi fattori determinanti restano un tema importante e risultano sicuramente necessarie ulteriori ricerche, anche per quanto riguarda le variabili del caregiver, quali il genere e le strategie di coping.

Alaska, di Claudio Cupellini: l’insostenibile fragilità del legame – Cinema & Psicologia

In Alaska di Claudio Cupellini, la relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura.

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) si incontrano sul tetto di un lussuoso albergo di Parigi: lui fuma una sigaretta per concedersi una pausa dal lavoro, lei in bikini e piumino blu cerca un accendino per una sigaretta che la aiuti a riflettere. Guardano lontano verso una città fredda e inospitale. Il mondo fuori è complesso e genera dispersione e isolamento, per entrambi difficile da sopportare.

Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo

Fausto è un giovane italiano emigrato a Parigi, lavora come cameriere e sogna di diventare maître per non dover più stare sotto padrone. Nadine è parigina, si trova lì per un provino come indossatrice, ma fugge non riuscendo a tollerare il rischio di un giudizio negativo sul suo corpo e su se stessa. Delle loro vite precedenti non sappiamo nulla, solo l’intuizione di una storia di abbandono che li rende oggi soli al mondo. Su quel tetto i loro sguardi si incontrano e in un attimo si accende la speranza. Questa l’apertura dell’ultimo lavoro di Claudio Cupellini, Alaska (2015), in cui tragicità e grottesco muovono i primi e veloci passi, gettando subito il pubblico nel vivo della storia, anzi di una storia d’amore.

Il film si snoda seguendo il legame di Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Berges-Frisbey) tra situazioni estreme e vita quotidiana, in un ritmo vorticoso e caotico che tiene incollati allo schermo fino all’ultimo respiro. Nei due protagonisti vive un desiderio pulsante di emergere nel mondo, di provare emozioni forti e di lasciare spazio all’ingenuità che ancora li accende nel gioco e nella leggerezza della loro età. Ma nei loro sguardi incerti traspare una grande paura del futuro, del fallimento e del deserto che porta con sé la solitudine. Reagiscono insieme, aggredendo la vita, ma l’alternanza di queste emozioni vive nel loro legame e ne determina in ogni attimo l’andamento: ognuno cerca nell’altro complicità, identificazione e sicurezza per allontanare, finché possibile, i rischi di un temutissimo confronto con la realtà.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Nei caratteri di Fausto e Nadine emergono alcuni dei nuclei più dolorosi del Disturbo Borderline di Personalità, espressi quasi unicamente – e forse non a caso – nelle loro azioni, veloci imprevedibili e violente, e nei fatti che li vedono protagonisti. Corrono insieme sul filo della vita e della morte cercando un equilibrio, mai davvero possibile. La protezione che riescono a offrire l’un l’altro alimenterà la paura dell’abbandono, lasciandoli sospesi in un paradosso che li farà oscillare tra amore e paura, tra dipendenza e bisogno di fuga.
Uno dei nuclei centrali del DBP è proprio questa percezione fragile del legame, tra iper-idealizzazione e svalutazione, nell’impossibilità di trovare una giusta distanza e un confine stabili.

La relazione è sentita come solida e forte solo in presenza di grandi emozioni, in cui intimità e complicità sono totali e totalizzanti, escludendo completamente il mondo fuori, gli altri. Nella stabilità della vita quotidiana però, quando le emozioni non riescono più a restare sulla cresta dell’onda e il legame d’amore non è più il centro intorno cui tutto ruota, si insinuano nella mente il dubbio e la paura: se l’altro non è più disponibile in ogni momento, se la soddisfazione personale distrae dalla relazione, se non c’è tempo per giocare, allora quella routine calda e stabile diventa improvvisamente fonte di insoddisfazione e minaccia, un segnale di imminente abbandono.

Se la costanza e l’intensità del contatto fisico riescono a mantenere vivo il legame, nella distanza tutto diventa rarefatto, incerto, pauroso. L’impossibilità di fidarsi dell’altro in assenza delle sue attenzioni e del suo sguardo desiderante, rende necessaria un’azione forte che tolga ogni dubbio: un tradimento che giustifichi l’abbandono, un pericolo che gli faccia temere il vuoto della perdita, una richiesta disperata e rabbiosa di aiuto che generi sentimenti di colpa e garantisca di nuovo l’accudimento sperato. La dipendenza vive di idealizzazione, la paura di cieca svalutazione.

Ma come costruire se stessi nell’impossibilità di esplorare il mondo? Questo paradosso ben descrive il secondo nucleo di sofferenza nel DBP: il vuoto identitario. L’immagine di sé diventa positiva nella relazione e lì trova la forza per emergere e la sicurezza necessaria per cercare un’identità propria, una realizzazione personale. Fuori dalla simbiosi idealizzata però, torna il pericolo del vuoto e della non-protezione. L’immagine positiva di sé si perde e si trasforma in un bluff. Se Nadine ha successo, è Fausto a sentire la sua vita insufficiente, ad aver bisogno di riscatto e di conferme personali fuori dalla relazione. Se Fausto vive il suo successo, è Nadine a crollare nel vuoto, a sentire l’inferiorità, a temere la solitudine, il degrado. Nella continua alternanza di successi dell’uno e fallimenti dell’altro, la rottura sembra essere l’unico modo per spezzare il circolo vizioso e ripartire da soli.

Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia.

Liberarsi del legame che li unisce, li aiuta a trovare risorse nuove e inaspettate, un’inossidabile capacità di sopravvivere e restare resilienti di fronte ad esperienze negative senza lasciarsi sopraffare. E le conferme arrivano: ce la fanno anche da soli, come sempre. Tuttavia le identità costruite nelle brevi esplorazioni solitarie non riescono a sopravvivere alla colpa generata dalla rottura della relazione, mai completamente superata. Le loro nuove identità risultano presto posticce e fragili, non reggono il confronto con la realtà e il senso di sé perde lentamente coerenza. L’instabilità emotiva che emerge, riaccende il conflitto doloroso tra desiderio di dipendenza e spinta all’autonomia, tra rinuncia all’altro e riscatto personale.
Bisogna scegliere, rischiando di perdere l’amore o di lasciare andare tutto quello che si è costruito. Ma quando la frammentazione diventa intollerabile, il legame offre la soluzione all’angoscia. Ritrovarsi nello sguardo dell’altro è l’unico modo per approdare in un porto sicuro, per cedere di nuovo al calore della dipendenza e riprendere finalmente fiato. Il dolore è spento, per ora.
C’est fini.

Vuoi fare qualcosa di buono per la tua salute? Prova ad essere generoso!

Ricerche scientifiche suggeriscono che spendere soldi per gli altri può incrementare il livello di felicità, ma può anche avere benefici sulla salute fisica.

Ogni giorno ci troviamo di fronte a scelte che riguardano il modo in cui spendere i nostri soldi, se comportarci o meno in modo generoso, che si tratti di pensare a come dividere il conto di un pranzo in compagnia o di fare o meno una donazione all’ente di beneficenza che ci ha appena chiamato telefonicamente o alla persona che ci ha fermato per strada.

Ricerche scientifiche suggeriscono che spendere soldi per gli altri può incrementare il livello di felicità, ma può anche avere benefici sulla salute fisica.
Esiste qualche evidenza in merito a una relazione diretta tra “donare il proprio tempo” e “salute fisica”, ma nessuno ha mai esaminato se ci sia lo stesso effetto se ad essere donati siano i soldi.

Così Ashley Whillans, PhD student in Psicologia Sociale e della Salute presso la University of British Columbia, e i suoi colleghi hanno deciso di condurre un esperimento per scoprire se spendere soldi per gli altri potrebbe abbassare la pressione sanguigna (prossimamente pubblicato su Journal of Health Psychology). Questo lavoro fornisce la prima evidenza empirica che tale decisione potrebbe anche avere implicazioni clinicamente rilevanti per la salute fisica.

L’esperimento consisteva nel dare 40 dollari a settimana, per tre settimane, a 128 adulti (età 65-85). Alla metà dei partecipanti, selezionati in modo casuale, veniva detto di spendere i soldi per se stessi, all’altra metà di spenderli per gli altri. Inoltre venivano invitati a consumare i loro 40 dollari tutti in un giorno e tenere le ricevute dei loro acquisti.

La misurazione della pressione sanguigna dei partecipanti avveniva prima, durante e dopo l’effettuazione dei loro pagamenti. Si è scelto di esaminare questo valore in questo studio perché si può misurare in modo affidabile in laboratorio e perché un’alta pressione sanguigna è un indice significativo per la salute – avere cronicamente un’elevata pressione arteriosa (ipertensione) è responsabile di 7,5 milioni di morti premature ogni anno.
Ecco cosa è stato trovato: nei partecipanti precedentemente diagnosticati con alta pressione sanguigna, spendere soldi per gli altri ha ridotto significativamente il loro livello di ipertensione nel corso dello studio. L’entità di questi effetti si può ritenere paragonabile ai benefici di interventi farmacologici (farmaci anti-ipertensivi) e dell’esercizio fisico. I partecipanti a cui era stata diagnosticata un’elevata pressione arteriosa e che erano stati invitati a spendere i soldi per se stessi, invece, non mostrarono cambiamenti a livello di pressione sanguigna durante lo studio.
Inoltre, come previsto, per le persone senza ipertensione, non si sono riscontrati benefici dallo spendere soldi per gli altri.

 

Nei partecipanti precedentemente diagnosticati con alta pressione sanguigna, spendere soldi per gli altri ha ridotto significativamente il loro livello di ipertensione nel corso dello studio

 

L’importanza della ricerca di Whillans e colleghi sta nell’aver trovato la prova sperimentale del fatto che il modo in cui la gente spende i propri soldi ha un significato, andando ad avvalorare la tesi di una promozione dei benefici della generosità finanziaria.
Si è constatato, poi, che le persone sembrano avere maggiore giovamento dallo spendere soldi per coloro a cui si sentono più vicini, come amici intimi e familiari. Per esempio, un partecipante allo studio era un veterano di guerra: egli donò la sua somma di denaro ad una scuola, costruita in onore di un amico che aveva servito con lui nella guerra del Vietnam. Un altro partecipante, invece, donò i suoi soldi ad un ente di beneficenza, che aveva aiutato sua nipote a sopravvivere all’anoressia.

Sicuramente c’è ancora molto da scoprire su quando e per chi si rivelano i benefici, in termini di salute, della generosità finanziaria. Per esempio noi non sappiamo molto su come o quanto la gente dovrebbe spendere per gli altri per godere di benefici di lunga durata per la salute. Di certo, la ricerca suggerisce che gli effetti positivi delle nuove circostanze possono scomparire velocemente. Così, per mantenere più a lungo termine i benefici per la salute della generosità finanziaria, potrebbe essere necessario impegnarsi in nuovi atti generosi, prioritariamente verso persone a cui ci si sente vicini.

Eppure la generosità finanziaria non porterebbe sempre vantaggi alla salute.
Attingendo a ricerche sul caregiving, la generosità finanziaria potrebbe fornire benefici solo quando non comporta costi personali schiaccianti.
La lettura di questo articolo ci invita quindi a pensarci due volte prima di donare i risparmi di un’intera vita in beneficenza: lo stress correlato a un aiuto così esteso potrebbe minare i benefici potenziali.

Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per replicare questi risultati, le scoperte di Whillans e collaboratori forniscono alcune delle prove più forti, fino ad oggi, sul fatto che le decisioni quotidiane, relative all’impegnarsi in atti finanziariamente generosi, possano portare, causalmente, a benefici per la salute fisica.
Fare un passo verso una salute migliore (e verso la felicità) potrebbe essere semplice come spendere i vostri prossimi 20 euro con generosità!

Mobbing al Lavoro: l’impatto sul benessere psico-sociale

Elena Fiabane, Martina Pigionatti, Gloria Tosi, Elisa Zugno – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca

 

Negli ultimi decenni si è osservata una crescente attenzione verso il ruolo che gli eventi stressanti possono acquisire nella patogenesi dei disturbi psichiatrici. Le condizioni lavorative stressanti, tra cui il Mobbing, possono essere considerate tra le principali variabili connesse alla salute mentale.

LEGGI ANCHE: Mobbing al Lavoro: inquadramento psicologico del fenomeno

L’esistenza di ogni individuo è in continua evoluzione e richiede la capacità di rispondere ai cambiamenti al fine di ristabilire un equilibrio quando qualcosa non è più come prima; non tutti gli individui però reagiscono allo stesso modo e, soprattutto, non tutti reagiscono positivamente a tali cambiamenti.

Qualunque cambiamento infatti porta con sé la capacità dirompente di turbare profondamente l’equilibrio di chi lo vive o subisce, anche al di là di quelle che possono essere le legittime e razionali attese e aspettative. Ne consegue che anche di fronte ad un evento gioioso come il matrimonio, la nascita di un figlio, la promozione ad una migliore posizione lavorativa in alcune persone prevalga il disagio per il cambiamento rispetto alle emozioni positive che questo evento potrebbe portare con sé e porta effettivamente con sé quando avviene nella vita di altre persone.

In generale si può affermare che nessun cambiamento è totalmente privo di aspetti negativi (o positivi), ma a volte la reazione difensiva del precedente status quo non nasce da una valutazione razionale della nuova condizione, ma rappresenta una risposta percepita come inevitabile, automatica e inspiegabile da chi la sperimenta in prima persona. Per questo motivo la Psicologia Sociale considera qualsiasi life event una potenziale fonte di stress, perché ognuno di essi richiede il riadattamento del soggetto a nuove condizioni emotive e materiali che, a loro volta, gli richiedono risposte differenti da quelle che emetteva in partenza, comportando un costo cognitivo ed emotivo non indifferente.

Mobbing e disturbi mentali

Negli ultimi decenni si è osservata una crescente attenzione verso il ruolo che gli eventi stressanti possono acquisire nella patogenesi dei disturbi psichiatrici. Numerosi studi hanno più recentemente evidenziato come le condizioni lavorative possano essere considerate tra le principali variabili connesse alla salute mentale (Wall T.D. et al. 1997; Stansfeld et al. 1999; Paternitti et al., 2002; Stansfeld e Candy, 2006; Sanderson e Andrews, 2006; Sun et al., 2011 ), confermando l’importanza del rapporto tra lavoro e disagio psichico.

In un recente studio longitudinale condotto da Nielsen et al. (2012) per valutare le correlazioni fra mobbing e alterazioni psicologiche delle vittime, è emerso che vi è una mutua relazione tra mobbing e disturbi mentali, un circolo vizioso in cui ciascuno rinforza gli effetti negativi dell’altro. Le condizioni di stress lavorativo, il demansionamento, gli squilibri e l’ingiustizia organizzativa sono state descritte da diversi autori come rilevanti fattori di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche, sia di tipo depressivo che di tipo ansioso (Sanderson K. et al. 2006, Virtanen M. et al. 2007). In assenza di categorie diagnostiche specifiche mobbing-correlate nelle classificazioni ufficiali internazionali e sulla base di una vasta analisi dei sintomi riportati dai soggetti osservati, si è arrivati a stabilire che i disturbi di cui generalmente soffrono i lavoratori-vittime possono rientrare nella categoria dei disturbi post-traumatici da stress (PTSD). Non mancano, però, pareri discordanti: alcuni inquadrano il mobbing come disturbo dell’adattamento, e altri ancora ritengono che una delle sindromi che più colpisce i lavoratori a seguito di mobbing sia il disturbo di attacchi di panico (Timpa et al., 2005).

Le prime ricadute delle situazioni di mobbing interessano la sfera neuropsichica i cui segnali precoci sono di natura psicosomatica (cefalea, disturbi gastrointestinali, dolori osteoarticolari, mialgie), del sottosoglia ansioso-depressivo (ansia, tensione, disturbi del sonno), comportamentale (ipofagia, iperfagia, potus, abuso di farmaci). Tuttavia se lo stimolo avverso è duraturo si possono configurare i due quadri psichiatrici sopra menzionati ad espressività piena, correlati a situazioni esogene: il Disturbo dell’Adattamento (DA) e il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS).

Tra le sindromi che colpisce la vittima di mobbing vi è anche la sindrome di ‘attacco di panico’: essa determina improvvise paure immotivate, con attacchi di panico violentissimi, con sensazione di morte imminente e contemporanea perdita del controllo di se stessi. La conseguenza disastrosa di tale sindrome è che il lavoratore perde totalmente la sua autonomia cosicché la sindrome risulta fortemente invalidante. Il motivo per cui il soggetto mobbizzato viene colpito dalle crisi di panico si spiega con il fatto che, per effetto delle iniziative persecutorie ed emarginanti poste in atto nella sede di lavoro, il mobbizzato inizia a macerarsi, pensa a cosa può aver fatto di male per meritarsi l’emarginazione e pertanto perde il senso dell’autostima e diventa vulnerabile, incapace di sostenere il confronto o addirittura il colloquio con un proprio simile.

Dagli studi presenti in Letteratura, emerge che i disturbi maggiormente diagnosticati nei casi di mobbing sono il DA che è diagnosticato con percentuali che oscillano dal 51,5% all’88,1% dei casi, e i Disturbi dell’Umore variano dal 5,3% al 25,7% mentre il DPTS è un evento meno frequente (Tonini et al., 2011; Balducci et al., 2009; Nolfe et al., 2007; Punzi et al., 2007; Girardi et al., 2007; Buselli et al., 2006; Hansen AM. et al., 2006; Monaco et al., 2004; Mausner-Dorsch H. et al, 2000).

 

L’impatto individuale, sociale ed organizzativo del Mobbing

La reiterazione ed il protrarsi nel tempo della molestia morale e psicologica comportano, nella maggioranza dei casi, la riduzione dello stato di salute e del benessere complessivo della persona vessata.

Concentrandosi sulle conseguenze del mobbing a livello individuale, emerge che fattori come la sicurezza dei lavoratori, la soddisfazione sul lavoro, sentimenti di umiliazione e paura contribuiscono a diminuire la coesione di gruppo e ad aumentare la perdita di posti di lavoro e una riduzione della produttività e delle prestazioni (Ayoko et al, 2003; Craig e Chong 2004; Parkins, Fishbein e Ritchey, 2006; Thompson, 2003). Precedenti studi hanno inoltre suggerito che il mobbing rappresenta una grave fonte di stress psicosociale in ambito lavorativo (Einarsen, 1996; Hoel et al., 1999) e proprio come fattore di stress psicosociale può essere potenzialmente dannoso per la salute e il benessere del singolo.

Gli impatti del mobbing sui risultati lavorativi del singolo sono ampiamente descritti in letteratura e includono: un aumento dell’assenteismo, il burnout e il licenziamento (Gardner e Johnson, 2001; Kivimaki et al, 2000; Maclntosh, 2005; Namie, 2003,2007; Yildiz, 2007). Esempi di prestazioni peggiori includono un aumento degli errori di lavoro, una diminuzione della concentrazione e una perdita eccessiva di tempo a causa di preoccupazioni legate alla situazione di Mobbing (Gardner e Johnson, 2001; Paice e Smith, 2009; Namie, 2003; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007). Da un punto di vista gestionale, la gestione e la valutazione di un dipendente che è stato vittima di mobbing può risultare difficile a causa della sua diminuita soddisfazione sul lavoro e della sua sviluppata intolleranza alle critiche (Quine, 1999, 2001; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007) portando cosi a valutazioni scorrette che potrebbero avere poi ripercussioni anche a livello legale. Impatti individuali all’interno del dominio affettivo includono sentimenti, atteggiamenti ed emozioni.

Esperienze di mobbing portano generalmente ad ansia, paura, tristezza e rabbia (Ayoko et al., 2003; Namie, 2003; Quine, 1999, 2001; Simpson e Cohen, 2004; Yildiz, 2007), perdita di concentrazione, diminuzione della motivazione, abbassamento dell’autostima e senso di impotenza (Baillien et al., 2009; Gardner & Johnson, 2001; MacIntosh, 2005; Moayed et al., 2006; Simpson e Cohen, 2004; Vartia, 2001; Yildirim, 2009; Yildiz, 2007). Yildirim (2009) inoltre sostiene che gli individui vittime di Mobbing riportano un impatto negativo anche sulle interazioni sociali al di fuori del contesto lavorativo. Altra grave conseguenza del mobbing è l’aggravarsi della situazione familiare e delle relazioni personali con amici e parenti (separazioni, divorzi, allontanamento degli amici). Alcune ricerche hanno ipotizzato che i figli dei mobbizzati possano avere dei comportamenti di imitazione del genitore e di conseguenza accusare problemi di somatizzazione (neurodermiti, ecc.). Nei casi più gravi la vittima, non trovando altra via d’uscita ai suoi problemi, medita il suicidio o, all’opposto, l’omicidio. La sovraesposizione di una persona al mobbing può portare la vittima a commettere reati per collera, per infrazioni, per reazioni violente o per aggressività o eccessi di difesa. Negli Stati Uniti circa 1.000 omicidi ogni anno avvengono nel posto di lavoro (Ascenzi e Bergagio, 2000).

In riferimento alla sfera organizzativa, invece, il mobbing può comportare il peggioramento del clima organizzativo, l’aumento degli errori e degli incidenti sul lavoro, la diminuzione degli standard di efficacia-efficienza, e un consistente calo della produttività dovuto all’aumentare dell’assenteismo e del turnover. Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori che le subiscono, ma hanno ricadute in termini di costi anche per le aziende. Il mobbing provoca una inutile dispersione di risorse (tempo, intelligenza, informazione). I danni del mobbing sono concreti e oggettivi, e più i metodi utilizzati sono subdoli, più aumentano i danni, poiché richiedono dispendio di tempo e risorse (Monateri et al., 2000).

In una situazione di mobbing, il gruppo di lavoro accusa una riduzione della capacità produttiva e dell’efficienza, le critiche verso il datore di lavoro si fanno più marcate, e il tasso di assenteismo per malattia cresce. Il gruppo va alla continua ricerca di capri espiatori e aumenta la tendenza ad ingigantire i piccoli problemi. Le spese per l’azienda aumentano a causa dei sabotaggi messi in atto dal/dalla mobber, i quali provocano la perdita di grandi investimenti e di anni di ricerca. Un ulteriore aumento dei costi deriva dalla necessità di sostituire il lavoratore mobbizzato durante la sua assenza per malattia o incaricare qualcuno di portare a termine il lavoro incompiuto o errato della vittima. Se il mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre nuova formazione. Quindi la sostituzione del lavoratore licenziato ha un costo per l’azienda in termini di know-how, per non parlare del prepensionamento forzoso e dei risarcimenti per cause civili dovuti ai lavoratori mobbizzati.

Per quanto riguarda i costi umani si verifica un netto calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che del/della mobber, una perdita di personale specialistico, il crollo del clima sociale dell’organizzazione e una limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti. Dovrebbero essere considerati anche quei costi non quantificabili, come la delusione dei clienti e l’influenza che essi possono avere su molte altre persone in riferimento ad un calo dell’immagine aziendale. Un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche sul posto di lavoro ha un tasso di produttività ed efficienza inferiore del 60%. Egli, in oltre, graverà sul datore di lavoro del 180% in più (Ascenzi e Bergagio, 2000). È evidente che le aziende dovrebbero prestare più attenzione alla gestione delle risorse umane e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro.

Mobbing in Italia

L’Italia, secondo le statistiche europee si trova all’ultimo posto nella classifica dei casi di mobbing, con il 4,2%. Se si leggessero superficialmente questi dati, si potrebbe dedurre che il terrorismo psicologico nei posti di lavoro è praticamente assente dagli scenari italiani. Purtroppo la realtà è ben diversa e il risultato appare buono solo perchè nel nostro Paese non si riesce ancora a stimare il fenomeno in termini quantitativi. Il mobbing in Italia è un fenomeno che assume connotazioni e caratteristiche molto profonde e talvolta mai riscontrate negli altri Paesi. Per questo Ege (1997) parlava di ‘mobbing culturale’, sostenendo che stereotipi, aspettative e valori propri di una società condizionano fortemente questo fenomeno.

Quindi il mobbing risulta strettamente legato all’ambiente culturale in cui ha luogo. Questa peculiarità tutta italiana in tema di mobbing può derivare dal fatto che lo studio della violenza psicologica sul posto di lavoro è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare diffusamente di mobbing solo dal 1999, anno dei due primi convegni nazionali sul tema (uno a Milano organizzato dalla Clinica del Lavoro e uno a Roma a cura dell’ISPEL, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro). Non meraviglia che da noi la ricerca sul mobbing sia ancora ben lontana dagli sviluppi raggiunti da altri paesi, e i lavoratori spesso non abbiano né la conoscenza né sensibilità per capire questa forma di disagio psicologico. Inoltre, le vittime italiane difficilmente accettano di essere oggetto di mobbing, e tendono ad addossare la colpa della situazione interamente su se stesse, interrogandosi in modo quasi morboso e doloroso, con un attento esame di coscienza.

Ege sostiene che una possibile spiegazione sta nel fatto che l’italiano è per natura individualista e non è portato per la cultura di gruppo. A differenza dei paesi nordici, in Italia non c’è ancora una cultura in grado di identificare in maniera chiara questo fenomeno. Cattiverie, pettegolezzi, vere e proprie malvagità di capi e colleghi sono ritenute molte volte regole del gioco e sdrammatizzati da parenti e amici a cui vengono raccontati. L’individuo, in questo modo, si ribella quando ormai è troppo tardi e il danno è fatto. In Italia il mobbing spesso non è conosciuto come problema a se stante e in genere viene vissuto come routine. Il lavoratore è convinto che le persecuzioni sul posto di lavoro siano la norma e così il problema non viene neanche percepito, trascinando la situazione per anni, fino a diventare pericolosa e spesso irreparabile.

Infatti il lavoratore italiano si accorge dell’esistenza del problema solo dopo la fase del conflitto, nel momento in cui avverte i primi sintomi psicosomatici e comincia la lunga trafila delle assenze per malattia e delle visite mediche. In pratica, nel mobbizzato italiano l’allarme, che dovrebbe scattare al semplice conflitto, risulta tarato ad una soglia più alta, quella della malattia e quindi si trova a combattere un processo già iniziato e che ha già prodotto serie conseguenze. Per quanto riguarda le azioni messe in atto dal/dalla mobber italiano, esse si concentrano principalmente sull’isolamento, il pettegolezzo e il sabotaggio. Quest’ultimo è favorito dal fatto che in Italia il/la mobber è principalmente un superiore della vittima (solo raramente un sottoposto).

Un dato interessante emerso dalle ricerche di Ege in Italia e non riscontrato in altre culture è il ricorso da parte del/della mobber a strumenti esterni attraverso cui creare fastidio e problemi alla vittima. Il/la mobber italiano/a cerca di evitare i rischi insiti nell’attacco diretto attraverso una strategia più articolata e complessa, utilizzando mezzi esterni in modo da non scoprirsi del tutto e risultare estraneo alla vicenda.

La vittima spesso crede che il problema non esista poiché potrebbe essere un evento casuale. La vittima scarica la sua rabbia inizialmente su tale mezzo esterno e il/la mobber riesce a guadagnare tempo, tanto che nel momento in cui la vittima si rende conto di chi sia il vero colpevole è troppo tardi per cercare alleati e per difendersi. Gli strumenti esterni che vengono maggiormente utilizzati dal/dalla mobber come ‘arma’ sono il fumo (fumare in presenza di non fumatori), l’impianto stereo (alzare il volume con lo scopo di isolare la vittima e deconcentrarla) e l’aria condizionata (rendere il clima dell’ufficio insostenibile). In tutti questi casi la strategia mobbizzante è altamente subdola e praticamente infallibile e mira a rendere le condizioni di lavoro fastidiose o insopportabili per la vittima designata.

In Italia pochi dirigenti considerano il pericolo mobbing: esso viene vissuto come un fastidio o un problema scomodo che riguarda il personale e non l’azienda. Ancora la realtà italiana sembra ben lontana dal capire che i problemi del lavoratore sono anche problemi dell’azienda.

Il tempo ha un ruolo fondamentale all’interno del fenomeno mobbing. Si è visto come le prime definizioni utilizzavano tale variabile per decretare se un conflitto fosse quotidiano oppure degenerasse in mobbing (durata di almeno sei mesi con frequenza settimanale). Oggi si ritiene che non si possa accettare un limite minimo di durata del mobbing, così si cercano criteri temporali più flessibili che tengano conto di altre variabili come l’intensità degli attacchi, il numero e la posizione del mobber, ecc.. Ege sostiene che ogni conflitto quotidiano abbia una durata standard dipendente dal carattere delle persone che vi prendono parte, dal tipo di ambiente di lavoro in cui conoscere, comprendere e reagire al fenomeno del mobbing si verifica e dall’azione combinata di questi due fattori.

Partendo da questa considerazione, quindi, si può parlare di mobbing se il conflitto sul lavoro supera il limite di durata di un conflitto tipico e abituale di quello specifico ambiente di lavoro. Pertanto risulta fondamentale acquisire il maggior numero di informazioni sull’ambiente di lavoro e sui colleghi della vittima per stabilire con precisione la durata del conflitto medio in quel determinato ambiente.

Ege, in una ricerca effettuata tra il 1999 e il 2000, si propose di verificare se esistesse o meno un gruppo maggiormente a rischio di mobbing in base a fattori temporali, così studiò un campione di lavoratori provenienti da tutta Italia utilizzando cinque parametri temporali mai utilizzati in precedenza (Ege, 2001): l’età delle vittime, cercando di capire se esisteva una fascia di età più a rischio delle altre; la durata del mobbing, utile per la determinazione del danno da mobbing; la data di assunzione della vittima, per capire se il mobbing ha più a che fare con i neoassunti o con gli impiegati anziani; il periodo di tempo intercorrente tra l’assunzione della vittima in quel posto di lavoro e l’inizio del mobbing; il sesso della vittima, unico parametro non temporale.

I risultati a cui l’autore pervenne sono molto interessanti. Innanzi tutto trovò che, sebbene non esistesse una età immune dal mobbing, gli uomini compresi tra i 30 e i 40 anni e le donne comprese tra i 40 e i 50 anni risultavano maggiormente esposti e su di essi necessitava iniziare un’opera di prevenzione e formazione. Trovò che gli uomini soffrivano per più tempo il mobbing delle donne, probabilmente per paura di perdere il posto di lavoro e per una minore propensione a riconoscere sintomi e segnali di malessere. Anche se le donne sembravano più esposte al mobbing (57%) bisogna considerare che i dati si riferiscono alle vittime che cercano aiuto per il loro disagio, e non alla percentuale effettiva dei mobbizzati. Pertanto è errato supporre che gli uomini siano meno a rischio. Risultano più esposti a vessazioni lavorative i lavoratori più anziani perché meno propensi al cambiamento, mentre i neoassunti sono più disposti a lasciare un posto di lavoro altamente conflittuale. Inoltre i giovani, non avendo ancora grandi responsabilità familiari, sono più flessibili e disposti a trasferimenti o comunque sanno di poter trovare con più facilità un impiego alternativo. Un altro risultato interessante è che se il mobbing non emerge immediatamente dopo l’assunzione, non si verificherà per almeno due anni, in quanto in questo lasso di tempo i colleghi metteranno alla prova il nuovo arrivato per saggiarne le capacità.

In funzione di quanto detto, il fenomeno mobbing deve essere affrontato con la massima attenzione da parte del management, che dovrà cercare anzitutto di conoscere il clima interno all’organizzazione, in modo da poter mettere in atto specifiche azioni di prevenzione e di intervento, ricorrendo, ad esempio, a strategie di ricomposizione delle mansioni (job redesign, job rotation, job enlargement), a stili di leadership partecipativi e a pratiche di social empowerment nei confronti del lavoratore. Altrettanto importante sarà fornire il supporto necessario alle vittime di mobbing, in modo da non farle sentire isolate e impotenti dinanzi a un conflitto che, è bene ricordare, nasce sempre da uno squilibrio di potere tra le parti.

Il ritorno al lavoro

Assenze prolungate per malattia costituiscono un notevole problema che ha ripercussioni sia a livello individuale che aziendale, coprendo più di un terzo del totale dei giorni persi e fino al 75% dei costi aziendali. Da un punto di vista individuale i problemi più evidenti riguardano aspetti sociali e psicologici quali l’insorgenza di disturbi mentali come la depressione, disturbi somatoformi, disturbi d’ansia e crisi di panico, con un incremento del contributo dei disturbi psichiatrici sulle assenze per malattia soprattutto negli ultimi anni (FeltzCornelis et al, 2010).

E’emerso inoltre che, se da una parte le assenze per malattia possono costituire un’opportunità per il lavoratore di impegnarsi in attività che potrebbero contribuire al recupero (es. psicoterapia), dall’altra assenze prolungate possono aumentare il rischio di isolamento, di sviluppare sintomi ansiosi correlati al ritorno al lavoro legati a preoccupazioni eccessive riguardanti le proprie competenze e le potenziali reazioni dei colleghi, aumentando di conseguenza anche il rischio di prolungare il periodo di assenza dal posto di lavoro. Valutando invece le conseguenze legate all’azienda i problemi principali sono relativi ai risarcimenti destinati ai lavoratori, alle spese mediche e alla perdita di produttività.

Gli studiosi concordano sul fatto che l’assenza prolungata dal posto di lavoro per malattia deve essere interpretata come un fenomeno multifattoriale, influenzato da fattori personali, psicosociali, economici e medici. È fondamentale quindi, al fine di evitare che il congedo prolungato dal lavoro per malattia arrivi a delinearsi come una condizione di disabilità permanente, che gli operatori sanitari riescano a riconoscere i fattori che possono favorire o sostenere questo processo. L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) descrive domini correlati alla salute che possono essere influenzati da fattori legati al lavoro e da fattori personali quali atteggiamenti, credenze, stile di vita e comportamento, che possono svolgere un ruolo importante nel mantenimento della disabilità lavorativa.

Emerge quindi che variabili personali e variabili ambientali sono fattori fondamentali altamente correlati al prolungamento delle assenze lavorative per malattia.

Dekkers-Sanchez et al. (2007) hanno individuato 16 fattori significativi legati al prolungamento delle assenze per malattia che possono essere divisi in due grandi gruppi:

  • Fattori individuali. I più significativi risultano essere: il sesso (correlazione positiva per il sesso femminile), l’ età avanzata, un reddito basso, la presenza di disturbi mentali;
  • Fattori lavoro-correlati. I più significativi risultano essere: la presenza di uno stato di disoccupazione nell’anno precedente (maggiore per le donne rispetto agli uomini), l’ impiego in società no-profit, un basso livello di soddisfazione lavorativa.

Pertanto, partendo dall’idea che lunghe assenze dal posto di lavoro non sono determinate unicamente da uno stato di cattiva salute ma dipendono, come detto, anche da fattori individuali e lavoro-correlati, un miglioramento dei sintomi e dello stato generale di salute non è necessariamente correlato con il ritorno al lavoro. Tuttavia poco si sa del ruolo di determinanti non medici come fattori d’influenza del ritorno al lavoro. Certo è che le assenze dal lavoro dovute a disturbi mentali, in media, hanno una durata più lunga delle assenze causate da malattia fisica (FeltzCornelis et al, 2010)

Uno studio condotto da Verbeek et al (2004) ha cercato di valutare l’importanza e l’influenza del supporto sociale da parte del Medico del Lavoro nel determinare un precoce ritorno al lavoro. In particolare gli autori hanno evidenziato, per quanto riguarda il ruolo del Medico del Lavoro nel ridurre le assenze per malattia, che l’intervento può dimostrarsi più efficace se somministrato da una figura vicina al posto di lavoro; tuttavia, spesso i Medici del Lavoro non hanno una conoscenza approfondita delle diagnosi e dei trattamenti dei disturbi mentali, mentre i professionisti della salute mentale non sono istruiti per accogliere i lavoratori che hanno bisogno di un intervento finalizzato ad un ottimale ritorno al lavoro. Pertanto per il miglioramento della riabilitazione professionale dei dipendenti in congedo per malattia mentale può rivelarsi necessario un approccio multidisciplinare, in cui i domini e le competenze del Medico del Lavoro e degli esperti della salute mentale sono combinati (FeltzCornelis et al, 2010).

Studi precedenti avevano dimostrato che un supporto sociale positivo era associato con un minor numero di giorni lavorativi persi e un positivo rientro al lavoro, soprattutto nel caso di assenteismo legato a malattia fisica. Tuttavia, l’effetto di tale supporto sociale e delle sue componenti sul ritorno al lavoro di dipendenti con problemi di salute mentale non è ancora stata approfondito ma è stato indicato come potenziale fattore predittivo. Verbeek et al (2004) hanno osservato che tale supporto sociale può essere fortemente influenzato da aspetti quali la politica e l’organizzazione aziendale, la qualità del lavoro e dei rapporti sociali all’interno dell’azienda.

In particolare gli autori dello studio hanno osservato che un migliore supporto sociale è favorevole per un completo ritorno al lavoro in dipendenti non depressi, con disturbi dell’adattamento o sopravvissuti al cancro, mentre per dipendenti con un alto livello di sintomi depressivi questa associazione non poteva essere stabilita.

 

Valutazione del Mobbing e possibili interventi

L’esigenza di valutare il fenomeno mobbing è presente sia in contesti clinici che organizzativi. Innanzitutto, si segnala che non esiste un’unica modalità valida per ogni contesto. In ambito clinico la valutazione viene fatta, di norma, attraverso colloqui, somministrazione di strumenti psicodiagnostici, accertamenti di carattere psichiatrico e una particolareggiata indagine anamnestica occupazionale al fine di valutare il quadro psicofisico della vittima e di ricostruire il legame causale tra molestie subite e danni riportati (Gilioli, et al., 2001).

Dal punto di vista diagnostico la “sindrome da mobbing” non è chiaramente identificata, sebbene per quanto riguarda l’inquadramento diagnostico, sia l’International Classification of Diseases (ICD-10) che il Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV) individuano solo il Disturbo dell’Adattamento (DA) e il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) quali condizioni psichiatriche che si possono verificare come risposta ad un evento stressante. Le “malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni nell’organizzazione del lavoro” sono incluse nell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia (Decreto 10 giugno 2014 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: lista II, gruppo 7); in tale elenco sono compresi il “disturbo dell’adattamento cronico” e il “disturbo post-traumatico da stress”, a cui occorre fare esclusivo riferimento per la diagnosi medico-legale di disturbo psichico da costrittività organizzativa sul lavoro. Ne deriva l’importanza di un accurato inquadramento diagnostico, non solo ai fini clinici ma anche per l’eventuale dimostrazione del nesso di causa tra le vessazioni subite in ambito lavorativo e il danno patito (Candura et al., 2014).

L’indagine anamnestica occupazionale, nel caso del mobbing, riveste un’importanza del fondamentale e richiede l’intervento e la collaborazione interdisciplinare del medico del lavoro, dello psichiatra e dello psicologo. L’anamnesi occupazionale comprende una raccolta di dati tramite colloquio diretto con il paziente e prende in considerazione una serie di importanti elementi che riguardano:

  • Curriculum lavorativo pregresso, con particolare riferimento ai cambiamenti del posto di lavoro, loro frequenza e motivazione, nonché al grado di soddisfazione lavorativa;
  • Raccolta di informazioni riguardanti il livello di integrazione nell’ambiente di lavoro e puntualizzazione del momento in cui si sono sviluppate situazioni lavorative meno favorevoli o negative;
  • Valutazione delle modalità con cui le azioni negative sono esercitate e da chi provengono;
  • Reazioni e/o tentativi di risposta del soggetto.

Oltre all’anamnesi occupazionale, vengono effettuati colloqui con lo psichiatra e con lo psicologo ed è prevista la somministrazione di una batteria di test psicodiagnostica (che di solito include il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2) al fine di verificare l’attendibilità della persona e ottenere un quadro complessivo del funzionamento del paziente; la complessità della valutazione è infatti essenzialmente legata alla difficoltà di verifica dei dati anamnestici riportati dal soggetto.

In ambito organizzativo la valutazione viene fatta attraverso questionari self-report che indagano la percezione del soggetto relativamente all’esposizione a specifici atti ostili che qualificano il fenomeno. L’obiettivo, in questo caso, e quello di ottenere una stima dell’estensione del rischio mobbing e di individuare i possibili antecedenti organizzativi al fine di impostare, cosi come richiesto dal su menzionato Testo Unico, interventi preventivi mirati che vadano a contrastare il rischio alla fonte.

La maggior parte della ricerche presenti in letteratura sul tema del mobbing hanno usato questionari self-report. Tra questi, i più diffusi sono: il Leymann Inventory of Psychological Terror (LIPT; Leymann, 1990; adattamento italiano di Ege, 1998), costituito nella versione originale da 45 item, il primo strumento nel quale e stata proposta una definizione psicometrica del costrutto mobbing; il Questionario Clinica del Lavoro 2.0 (CDL 2.0; Gilioli, Cassitto, Campanini, Punzi, Consonni et al., 2005), costituito da 39 item che indagano altrettanti comportamenti di mobbing; il Questionario di Autopercezione di Mobbing (QAM 1.6; Argentero e Bonfiglio, 2008), il quale invece e composto da 54 item dei quali 24 indagano in modo specifico l’esposizione a comportamenti di mobbing mentre i restanti valutano la presenza e la consistenza delle associate reazioni da stress. Il questionario self-report cha ha trovato la piu ampia applicazione a livello internazionale è il Negative Acts Questionnaire (NAQ; Einarsen e Raknes, 1997) che attualmente esiste anche nella versione ridotta (NAQ-R; Einarsen e Hoel, 2006; adattamento italiano di Balducci, 2010) composta da 22 item che indagano gli atti ostili orientati sulla persona, gli atti ostili orientati sul lavoro svolto e l’isolamento sociale.

La misurazione della percezione di mobbing risulta tuttavia non del tutto affidabile in quanto, la rilevazione di un’esperienza soggettiva cui potrebbe non corrispondere ad un’effettiva presenza, nel contesto di lavoro, del mobbing stesso; le risposte potrebbero infatti anche essere intenzionalmente distorte o influenzate da tratti personologici dell’individuo.

Formazione a tutti i livelli è la parola chiave per risolvere o limitare il problema Mobbing: essa vuol dire innanzitutto corretta informazione, quindi prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari livelli: a livello aziendale, con specifiche modalità di gestione del conflitto e del Mobbing e con la diffusione di un codice etico aziendale che condanna e punisce qualsiasi tipo di comportamento ostile e prevaricatore nel luogo di lavoro; a livello individuale è possibile creare uno sportello di ascolto gestito da professionisti (medici, psicologi, avvocati, etc) a cui si può rivolge una persona con problemi sul lavoro per essere ascoltata e orientata.

 

La terapia cognitivo comportamentale multistep per i disturbi dell’alimentazione: teoria, trattamenti e casi clinici (2015) – Recensione

Il libro si propone di descrivere l’applicazione della “CBT-E multistep” a tre livelli di cura: ambulatoriale, ambulatoriale intensivo e ricovero, attraverso una descrizione della terapia e di tre casi clinici trattati.

L’evoluzione più recente della CBT-E di Fairburn è nata in Italia dal lavoro di Dalle Grave e dei suoi colleghi, e riguarda l’adattamento della teoria e della terapia a diverse categorie diagnostiche e a diversi livelli di cura, come il trattamento ambulatoriale intensivo e il trattamento ospedaliero per i disturbi dell’alimentazione, mantenendo integra la teoria e la procedura che la caratterizzano e sviluppando quella che è stata denominata la “CBT-E multistep”.

I curatori del volume sottolinenano come l’idea sia nata dalla necessità clinica di offrire un’alternativa a quei pazienti che non rispondono al trattamento ambulatoriale o le cui condizioni fisiche non ne permettono la gestione in setting ambulatoriali.

Studi clinici su pazienti adulti e adolescenti affetti da anoressia nervosa, sia in setting ambulatoriali che ospedalieri hanno permesso di studiare l’efficacia della “CBT-E multistep”. Il libro si propone di descrivere l’applicazione della “CBT-E multistep” a tre livelli di cura: ambulatoriale, ambulatoriale intensivo e ricovero, attraverso una descrizione della terapia e di tre casi clinici trattati.

La “CBT-E multistep” offre quindi un unico trattamento in grado di curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione in setting di cura multipli, l’unica differenza tra i vari passi è l’intensità del trattamento, minore nei pazienti trattati con la CBT-E ambulatoriale, maggiore in quelli gestiti con la CBT-E ospedaliera.

Dalle Grave ha suddiviso il libro in due parti per descrivere l’applicazione pratica della terapia a tre diversi livelli di cura.
La prima parte del libro offre una panoramica dei principali disturbi dell’alimentazione sottolineandone l’unità transdiagnostica. Propone la teoria e la CBT-E transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione e le peculiarità che distinguono la CBT-E dalla CBT-e multistep. Seguono poi i passi che servono per preparare i pazienti per la CBT-E multistep e l’organizzazione, le strategie e le procedure dei tre passi: ambulatoriale, ambulatoriale intensiva e ricovero. La prima parte termina poi con un capitolo che illustra come adattare agli adolescenti la CBT-E ambulatoriale, la CBT-E ambulatoriale intensiva e la CBT-E ospedaliera.

La seconda parte del libro riporta tre casi clinici trattati con la CBT-E multistep. Nell’appendice A è possibile trovare la versione 2.1 dell’Eating Problem Checklist, un questionario autosomministrato per aiutare i pazienti a monitorare nel corso del trattamento lo stato del proprio disturbo dell’alimentazione.
Il volume è un valido strumento per tutti i professionisti che lavorano con pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione in particolare per tutti coloro che lavorano in una équipe multidisciplinare.

Interpretazione catastrofica dei sintomi astinenziali nei fumatori

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Interpretazione catastrofica dei sintomi astinenziali nei fumatori

Autrice: Serena Giacomelli

Introduzione

Numerose evidenze empiriche suggeriscono che fumatori con alta sensibilità all’ansia hanno la tendenza ad interpretare in maniera catastrofica le sensazioni fisiche esperite durante l’astinenza da nicotina, andando incontro ad un’aumentata vulnerabilità al panico. Tuttavia, in letteratura il ruolo dell’interpretazione catastrofica in questo ambito non è stato ancora valutato. Pertanto, l’obiettivo di questo lavoro è stato studiare gli effetti della sensibilità all’ansia e dell’amplificazione somatosensoriale, utilizzata come proxy dell’interpretazione catastrofica, sulla risposta ad un test di induzione del panico (challenge) in fumatori astinenti e sottoposti ad un trattamento sostitutivo alla nicotina.

Materiali e metodi

Sono stati arruolati 60 fumatori di età compresa tra i 18 ed i 65 anni che consumavano almeno 10 sigarette al giorno da almeno 1 anno. È stato utilizzato un disegno placebo-controllo in doppio cieco. Ai fumatori è stato chiesto di astenersi dal fumo di sigaretta per 12 ore prima del challenge e sottoporsi ad un placebo oppure ad un trattamento sostitutivo con nicotina. Successivamente, è stato chiesto ai soggetti di completare un test biologico per indurre una risposta panico simile in condizione di laboratorio, con l’anidride carbonica (CO2) al 35%. Sono state valutate l’astinenza da nicotina, la sensibilità all’ansia, l’amplificazione somatosensoriale, alcune variabili fisiologiche ( i.e., frequenza cardiaca, pressione arteriosa) e psicologiche (i.e., ansia soggettiva e oggettiva, paura, disagio) immediatamente prima e dopo il challenge.

Risultati

La sinergia tra alti livelli di sintomi astinenziali (NWS) ed elevata sensibilità all’ansia (AS), sembra moderare la risposta di paura al challenge (Alta NWS e alta AS> basso NWS e basso AS, p = 0,02; alta NWS e alta AS> basso NWS e alta AS, p = 0,020; alta NRW e alto AS> alta NWS e bassa AS, p = 0,014). Al contrario non è stato verificato un effetto moderatore dei sintomi astinenziali e dell’amplificazione somatosensoriale sulla risposta al test.

Conclusioni

Alti livelli di sensibilità all’ansia, accompagnati da intensi sintomi astinenziali, possono aumentare il rischio di panico nei fumatori.

Parole chiave: fumo di sigaretta, panico, astinenza da nicotina, sensibilità all’ansia, amplificazione somatosensoriale.

Objectives

We evaluated the effects of anxiety sensitivity and somatosensory amplification on a panic-like response to a biological challenge in smokers under nicotine abstinence and in smokers under nicotine replacement treatment conditions.

Methods

Sixty smokers consuming at least 10 cigarettes per day in the previous year and having 18-65 years of age were enrolled. A placebo-controlled, double-blind design was used. Smokers were asked to refrain from smoking for 12 hours before the challenge and wear a placebo or a nicotine patch. Thereafter, they underwent the 35% carbon dioxide (CO2) challenge, that is a biological test inducing a panic-like response under controlled laboratory conditions. Nicotine withdrawal symptoms, anxiety sensitivity, and somatosensory amplification, as well as physiological (i.e., heart rate, blood pressure) and psychological (i.e., subjective and objective anxiety, fear, discomfort) variables were measured at baseline, immediately before and after the challenge.

Results

Nicotine withdrawal symptoms (NWS) and anxiety sensitivity (AS) seems to moderate the fear response to the challenge (High NRW and High AS > low NWS and low AS, p= 0.02; High NRW and High AS > low NWS and high AS, p= 0.020; High NRW and High AS > high NWS e low AS, p= 0.014) while a moderation between nicotine withdrawal and somatosensory amplification was not verified.

Conclusions

High levels of anxiety sensitivity, together with intense withdrawal symptoms, can increase the risk of panic in abstinent smokers.

Keywords: cigarette smoking, panic, nicotine withdrawal, anxiety sensitivity, somatosensory amplification

Medico e Paziente: ecco perché non essere amici sui Social!

Anche se i social media sono ormai radicati in quasi ogni ambito della nostra vita, diventare amici su Facebook con il proprio dottore può alterare la tradizionale relazione medico-paziente, sia in positivo sia in negativo.

In un recente articolo pubblicato su AMA Journal of Ethics, due professori della Scuola di Medicina della Loyola University Chicago hanno esaminato la questione e le considerazioni etiche relative che dovrebbero essere prese in considerazione da pazienti e professionisti.

Nell’articolo, Kayhan Parsi, J.D., Ph.D., e Nanette Elster, J.D., M.P.H., membri dell’Istituto Neiswanger per la Bioetica della Loyola University, analizzano tutto ciò che c’è di buono, brutto e cattivo sulla relazione tra social e assistenza sanitaria.
Parsi e Elster affermano che “il mantenimento della privacy e della riservatezza sono parte integrante del rapporto professionale tra medico e paziente”, in quanto, è fondamentale, per un trattamento clinico competente, preservare la fiducia del paziente.
I due ricercatori proseguono sottolineando che [blockquote style=”1″]l’uso dei social media nel settore sanitario solleva una serie di questioni circa i confini professionali e personali, e l’integrità, la responsabilità e l’affidabilità degli operatori sanitari.[/blockquote]

L’articolo descrive poi cinque casi-studio per sottolineare quali questioni etiche e legali possono sollevarsi con l’uso dei social nella sanità.
I casi riguardano tematiche come per esempio il postare su Facebook foto correlate al lavoro, il twittare opinioni personali o politiche e il googlare pazienti e possibili candidati per una posizione lavorativa. L’articolo, inoltre, analizza questioni come l’appropriatezza, per un professionista della salute, di essere amico con un paziente su Facebook, o anche di connettersi con lui attraverso LinkedIn.

[blockquote style=”1″]Quando si parla di social media è importante per gli operatori sanitari essere a conoscenza dei confini personali e professionali. Quando qualcuno legge un post, questo viene visto come la dichiarazione di un professionista, o di un individuo qualsiasi? Queste linee di confine si offuscano facilmente sui social [/blockquote]dichiara Parsi.

Nonostante le potenziali insidie dei social media, i due autori hanno anche evidenziato quali benefici essi possono apportare all’assistenza sanitaria. Per esempio una risposta più rapida alle emergenze di salute pubblica e una migliore comunicazione su farmaci e simili.
Elster afferma di vedere come i social media rendano le istituzioni sanitarie più personali e umane.[blockquote style=”1″] I pazienti sentono di poter entrare in contatto con l’ospedale o l’ufficio del loro medico e vogliono raccontare le loro storie.[/blockquote]

In conclusione, i ricercatori ritengono che la revisione fatta sarà utile per la creazione di linee guida per le organizzazioni sanitarie e per trovare alcune modalità di utilizzo di questi social al fine di promuovere buoni risultati.

Il controllo come scopo ultimo? Ossessività e anima moderna

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 21/11/2015

Le ossessioni del mondo moderno. Cosa sono? Ossessione è soprattutto il modo moderno di controllare il tempo.  Il controllo particellato del tempo, la suddivisione della giornata non in labili ore ma in precisi minuti e secondi introduce all’ossessività, al controllo.

Le ossessioni del mondo moderno. Cosa sono? Ossessione è soprattutto il modo moderno di controllare il tempo. Gli antichi non avevano il nostro controllo minuzioso del tempo. Ci vediamo domani mattina! E ci si vedeva il mattino dopo, da qualche parte dopo l’alba, in un tempo mal definito. Il controllo particellato del tempo, la suddivisione della giornata non in labili ore ma in precisi minuti e secondi introduce all’ossessività, al controllo. Il contenuto viene dopo, che sia ossessività per la forma fisica o per lo sport, per la tecnologia o per il lavoro o perfino per i piaceri, come il cibo o il sesso. Quel che conta è il controllo di noi stessi e del mondo, della nostra mente e dello spazio esterno. E soprattutto del tempo.

È il controllo del tempo che ci introduce nell’età moderna, che consente l’organizzazione della giornata in segmenti dedicati a scopi, a progetti, a obiettivi. E perfino al tempo libero, che non è più l’otium degli antichi, ma una pausa programmata e quindi anch’essa controllata.

Tutto è controllato perché tutto ha uno scopo, un utile. Questo è vero per la psicologia moderna, ma è vero anche per l’economia. Sfogliamo i primi capitoli di ‘L’azione umana’ del grande economista Ludwig von Mises (1966). von Mises sostiene che gli individui scelgono sempre consapevolmente le azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi voluti. L’azione è sempre quindi razionale, o meglio umanamente razionale (e non assolutamente razionale). Razionale nel senso che l’individuo sceglie sempre i mezzi da lui ritenuti più idonei in base a quel che sa nel momento della scelta.

In questa definizione di razionalità troviamo alcuni principi dello spirito moderno: la negazione di ogni razionalità assoluta e la valorizzazione di una razionalità individuale e strumentale. Non esiste un sommo bene, ma solo scopi individuali. E non esistono mezzi da considerarsi assolutamente razionali, ma solo ipotesi plausibili su quali mezzi siano più idonei per ottenere quanto desiderato, ipotesi costruite in base a quel che si sa e a quanto si è appreso nel proprio ambiente.

In tale modo, l’agire umano è concepito come inevitabilmente utilitaristico. Von Mises propone che le singole azioni umane siano spiegabili in termini di scopi e mezzi individuali. Attraverso la lente scientifica della metodologia utilitaristica ogni comportamento umano finisce con l’essere bollato con l’etichetta di comportamento acquisitivo. Ogni altra motivazione è rigettata come favola per educande. Per von Mises, anche il nobile distacco o la rinuncia ascetica si possono e si devono spiegare in termini di scopi e di mezzi. Scopi non grettamente materialistici, è vero, ma comunque scopi: desiderio di gloria, soccorso dei deboli, distacco dal mondo. Tutti questi scopi sono in realtà beni da acquisire, e non vi è gerarchia morale tra loro.

Scopi da perseguire ossessivamente, in una girandola acquisitiva e controllante in cui tutto è sottoposto al regno della quantità. Ogni cosa è misurabile, quantificabile, traducibile in una barra che rappresenta il livello di controllo che abbiamo raggiunto. Se non ci fosse questa quantificabilità, non potremmo avere un ossessivo che controlla tutto quantitativamente.

Perché noi moderni vogliamo controllare tutto? Forse perché ci consideriamo responsabili di tutto. Qui ci aiuta la psicologia clinica. La forma patologica dell’ossessività è il disturbo ossessivo-compulsivo. E qual è l’idea che muove gli individui ossessivo-compulsivi patologici? Essi si considerano responsabili di qualsiasi evento negativo sul quale abbiano anche un remotissimo potere d’influenza, non solo nel determinarlo ma anche –anzi, soprattutto- nel prevenirlo (Salkovskis, 1985). Per gli ossessivi è sempre possibile incolparsi di una qualche responsabilità, scoprire una spiegazione anche remotissima, a volte anche bizzarra, tra la propria responsabilità e ogni possibile disgrazia.

Nell’ossessività così l’utilitarismo moderno diventa responsabilità e perfino colpa. Gli scopi non sono più obiettivi da raggiungere ma prescrizioni a cui obbedire compulsivamente, pena un singolare nuovo senso del peccato.

Si dirà: ma in fondo gli uomini sono sempre stati utilitaristi. Sempre hanno perseguito scopi. Vero, ma non nel modo ossessivo e controllante moderno. Nella modernità si è scivolati nell’utilitarismo ideologico, l’utilitarismo che non si limita a essere un lato dell’azione umana ma che diventa l’aspetto dominante e l’unico veramente significativo: una disincantata e ruvida ammissione che non vi è altro che l’utile a questo mondo, e tutto ciò che si fregia di un’etichetta più elevata è inganno, velo.

Quando nei valori culturali condivisi si passa dalla serena consapevolezza che in ogni nostra azione vi sia una soddisfazione allo scopo esplicito di massimizzarla, avviene anche che il contenuto di questa utilità diventi sempre meno spirituale e più immediatamente materiale. E quindi quantificabile e misurabile. E ossessivo.

Psicoterapia: lavorare con i rifugiati siriani in Giordania

Cristina Angelini, Edoardo Pera

Una donna racconta che ha un figlio che ha perso entrambe le gambe e in più suo marito la picchia. Un’altra ha un cancro al seno: chiede ad Allah che la aiuti. Un’altra ha lasciato la figlia di 16 anni, appena sposata, in Siria. Piange per lei tutti i giorni. La mamma di Siam non dice nulla, ha solo l’angoscia scolpita nel bel volto. La psicologa inizia il protocollo EMDR ma è in grande difficoltà: il protocollo standard qui non risulta molto utile, il livello di traumatizzazione è troppo alto. 

Siam ha gli occhi grandi e 3 anni. Viene con la mamma, molto giovane e molto bella, in un gruppo di donne rifugiate siriane in Giordania. Siam è nata a Damasco, Sham in arabo, ma è scappata con la famiglia. Ora vive a Salt, ai genitori non è permesso lavorare, come a tutti i circa 2 milioni di siriani che vivono in Giordania: più della metà dentro campi di accoglienza, spesso enormi e sovraffollati, gli altri sparsi nel paese. Quelli che sono nei campi con un pasto e una tenda garantiti, quelli fuori senza niente di certo, ma liberi di muoversi.

L’UNHCR dovrebbe prendersi cura di loro ma è al collasso, senza più i grossi finanziamenti dei singoli paesi, e così molti dei rifugiati che stazionano in Giordania sperando di rientrare presto in Siria alla fine se ne vanno. Tentano di entrare illegalmente in Europa, la terra promessa.

Siam ha gli occhi sbarrati. La giovane mamma viene a un incontro organizzato dalla clinica di Salt, una delle tre aperte da un progetto di AIDOS-Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo- sul modello dei nostri consultori, finanziato dall’Unione Europea. Oggi sarà una di noi (C. A.), insieme a una collega psicoterapeuta italiana, Paola Castelli Gattinara supervisore EMDR, a condurre il gruppo con la collega giordana che ci traduce. La mamma di Siam viene con le due cognate. Sono tristi gli occhi della mamma di Siam, e anche quelli delle altre donne.

Quando ci presentiamo dico che ho lavorato a Damasco (ma la chiamo Sham come la chiamano loro) per 5 anni, in un altro consultorio di AIDOS, subito fuori del suq Al-Hamidie. Gli occhi della mamma di Siam s’illuminano a sentirlo nominare. E Siam si gira a guardarla. Alcune donne vengono da Damasco, molte da Homs e Hama. Faremo degli esercizi che hanno lo scopo di aiutarle a trovare un loro luogo interno sicuro, di pace, un luogo cui riconnettersi in questa difficile fase della loro vita.

Siam è immobile, le porgo un dolcetto, lei lo guarda e poi getta uno sguardo alla mamma, come in cerca di un cenno di assenso, ma la mamma sembra così lontana e Siam si gira rassegnata, e rimane immobile e seria col dolcetto in mano.

Una donna racconta che ha un figlio che ha perso entrambe le gambe, preferirebbe fosse morto, e in più suo marito la picchia. Un’altra ha un cancro al seno: chiede ad Allah che la aiuti. Un’altra ha lasciato la figlia di 16 anni, appena sposata, in Siria, non è riuscita ad entrare in Giordania. Piange per lei tutti i giorni e prega perché sopravviva. La mamma di Siam non dice nulla, ha solo l’angoscia scolpita nel bel volto.

La psicologa giordana aveva iniziato già il protocollo EMDR di gruppo con loro ma è in grande difficoltà. Gli operatori hanno fatto il primo livello EMDR ma il protocollo standard qui non è risultato molto utile, il livello di traumatizzazione è troppo alto e durante il protocollo le persone spesso dissociavano o non riuscivano ad accedere alle memorie traumatiche. Inoltre non è possibile lavorare sulle esperienze traumatiche con persone che si trovano tuttora in una condizione di forte insicurezza. Il rischio è quello di ritraumatizzarle. Bisogna aiutarle a mantenere i loro stati d’animo entro la cosiddetta finestra di tolleranza attraverso strumenti cognitivi, immaginativi e corporei che permettano loro di regolare ciò che provano.

Per questo in precedenti missioni un altro di noi (E.P.), psicoterapeuta corporeo didatta della SIAR- Società Italiana di Analisi Reichiana, e istruttore di Mindfulness, ha fatto dei training su alcune tecniche di regolazione: il grounding, per radicarsi e sentire le proprie radici e il proprio corpo, alcune tecniche di Mindfulness per essere connessi al presente e sviluppare la capacità di ritornare al qui ed ora. L’elaborazione dei traumi con l’EMDR è l’ultima cosa e verrà valutata caso per caso, eventualmente utilizzando il protocollo sugli eventi recenti e intercettando frammenti dell’esperienza da rielaborare.

Intanto ci occupiamo del posto sicuro, che molte, quasi tutte le donne, vorrebbero fosse in Siria, a casa loro. Ma la Siria non è più un posto sicuro, facciamo notare. Troppi dolori e brutte esperienze sono avvenute lì. Chiediamo loro di pensare a un’esperienza buona. Una donna dice che questo gruppo per lei è un luogo sicuro. Qui può parlare, essere ascoltata, anche piangere, e sente il calore delle altre donne, disperate come lei ma vicine. Anche le altre annuiscono.

La donna che ha il figlio senza gambe dice che lei aspetta solo di morire. Il suo posto sicuro è in paradiso. Noi rispondiamo che questo accadrà di sicuro, è solo un fatto di tempo per noi tutte (e indichiamo l’orologio), vediamo come possiamo impiegare bene il tempo che abbiamo nel frattempo. A questo punto ridono tutte e la tensione si spezza.

Dopo l’esercizio dei quattro elementi (esercizio di stabilizzazione emozionale) e quello del posto sicuro chiediamo loro di intercettare un pezzetto buono di esperienza, una loro risorsa a cui riconnettersi: una situazione vissuta di efficacia personale (risorsa di mastery) oppure una persona che conoscono che ha la capacità di fronteggiare bene la loro difficoltà (risorsa relazionale) da immaginare accanto a loro, oppure un simbolo, religioso o altro, che dia energia e a cui accedere (risorsa simbolica). Alla fine condividiamo: il grounding è andato bene per tutte, sentirsi connesse alla terra aiuta sempre.

La respirazione è sempre un po’ più complicata: aiuta alcune persone, ma ad altre muove emozioni potenti. Il blocco del diaframma è una delle prime reazioni difensive e la respirazione profonda, che può sbloccarlo, porta anche l’emersione delle emozioni connesse. Nel programma corporeo che abbiamo elaborato negli ultimi anni di lavoro in situazioni di emergenza (Gaza, Siria, Kurdistan Iracheno, Giordania e Nepal) la proponiamo più tardi e con cautela rispetto ad altre tecniche corporee: prima introduciamo un lavoro sulla presenza oculare, per ridare alla persona il controllo sulla sua realtà, poi esercizi di presenza corporea, di consapevolezza dei propri confini, sulla giusta distanza sé-altro etc. Abbiamo imparato che per chi è stato soggetto a violenze e ha sperimentato la perdita di controllo, come molte donne che sono state violentate durante il conflitto in Siria (e si vergognano tantissimo a parlarne) rilassarsi e respirare è la cosa che funziona meno e che fa più paura.

Siam alla fine del gruppo ha iniziato finalmente a sbocconcellare il dolcetto. Ha intercettato il momento in cui la madre ha sorriso. Non a lei ma era pur sempre un sorriso. E poi la mamma sembrava più rilassata, più presente, ascoltava e annuiva, anche se non ha mai parlato.

Con le altre donne la salutiamo, e diciamo che forse ci rincontreremo un’altra volta tra qualche mese, intanto loro andranno avanti con la collega giordana e decidiamo che il gruppo andrà oltre gli otto incontri decisi all’inizio. Poi la mamma di Siam dice: “E magari prima o poi ci potremo rincontrare nel suq Al-Hamidie, alla gelateria che faceva il gelato coi pistacchi”. La speranza si è riattivata.

Mobbing al Lavoro: inquadramento psicologico del fenomeno

Elena Fiabane, Martina Pigionatti, Gloria Tosi, Elisa Zugno – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca

 

Le mutate condizioni lavorative hanno determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie ad eziologia psicologica, tra cui il mobbing. Questi nuovi rischi emergenti sono quindi legati al modo in cui il lavoro è organizzato e gestito e al contesto economico e sociale odierno.

I profondi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, tra cui in particolare, l’avanzare delle moderne tecnologie, nuove forme di contratto e job insecurity, l’innalzamento dell’età pensionabile e il progressivo invecchiamento della forza lavoro, l’intensificazione del lavoro, lo squilibrio tra lavoro e vita privata, hanno determinato l’emergere di nuovi rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, tra cui in particolare i rischi psicosociali (Tabella 1). Le mutate condizioni lavorative hanno infatti determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie ad eziologia psicologica. Questi nuovi rischi emergenti sono quindi legati al modo in cui il lavoro è organizzato e gestito e al contesto economico e sociale odierno.

Trasversalmente ai settori lavorativi si è verificata una crescente consapevolezza che l’esperienza dello stress sul lavoro può comportare delle conseguenze negative per la salute degli individui, nonché per la salute delle organizzazioni (ISPESL, 2002). A questo proposito, anche il Testo Unico sulla salute e sulla sicurezza lavorativa (D.Lgs. 81 del 9 aprile 2008) ha reso obbligatoria anche la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Tra i rischi psicosociali, quelli maggiormente studiati e conosciuti nella letteratura scientifica sono lo stress, il burnout e il mobbing, che verrà preso in esame nel presente articolo.

La violenza psicologica sul lavoro è un fenomeno presente in molti ambienti di lavoro, che ha ricevuto un interesse crescente negli ultimi anni soprattutto nell’ambito della medicina occupazionale e della psicologia del lavoro. La crescente insicurezza che caratterizza l’attuale mondo del lavoro determina in alcuni un atteggiamento di maggiore aggressività a difesa di posizioni consolidate, mentre in altri una maggiore vulnerabilità nei confronti di veri o presunti attacchi a situazioni socioeconomiche costruite nel tempo.

Secondo i dati riportati dalla recente indagine dell’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2013), il 6% dei lavoratori europei riferisce di aver subito un’esperienza di violenza, di tipo fisico o psicologico, sul posto di lavoro negli ultimi 12 mesi. In particolare, il 12% dei lavoratori intervistati riferisce di aver subito forme di violenza di tipo non fisico (ad esempio, attacchi verbali, minacce di violenza fisica o attenzioni di tipo sessuale) nel corso degli ultimi mesi. Questa ricerca ha evidenziato anche che la violenza psicologica è più frequente di quella fisica, e che i settori più colpiti sono quello sanitario, sociale e dell’amministrazione pubblica. Per quanto riguarda le differenze tra Paesi europei, sembra che il fenomeno sia maggiormente diffuso in Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, mentre bassi livelli si riscontrano nei Paesi del sud e dell’est Europa; queste differenze a livello europeo potrebbero riflettere maggiormente la consapevolezza del fenomeno piuttosto che la sua reale incidenza. Inoltre, un recente studio ha mostrato che la violenza sul lavoro in Europa è notevolmente aumentata nel corso degli ultimi anni (Van den Bossche et al., 2013).

Il mobbing: cenni storici e definizione

Il termine Mobbing (dall’inglese to mob: assalire in massa, aggredire, malmenare) viene utilizzato per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz (1963) per indicare il comportamento di animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo e lo attaccano per escluderlo dal branco. Tale termine fu poi ripreso negli anni Ottanta dallo psicologo svedese Heinz Leymann, il quale lo applicò al mondo del lavoro per designare l’insieme di quei comportamenti assimilabili per violenza e squilibrio di forza a quanto studiato precedentemente dagli etologi (Leymann 1990, 1993, 1996).

Leymann (1996) definisce il Mobbing come:

una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone, nei confronti di un solo individuo, il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa ed è fatto oggetto di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una determinata frequenza (almeno una volta a settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (almeno sei mesi di durata).

A partire dagli anni Novanta, molti autori si sono interessati al fenomeno e hanno cercato di definirne le fasi di insorgenza, di sviluppo e i suoi elementi distintivi; sembrerebbe comunque che il Mobbing presenti peculiarità diverse a seconda delle diverse culture e realtà lavorative (Zapf et al., 2001; Keashly, 200; Richman et al., 2001; Rospenda, 2004), ma allo stesso tempo mantenga delle caratteristiche comuni.

Secondo l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (2002) “il mobbing sul posto di lavoro consiste in un comportamento ripetuto, irragionevole, rivolto contro un dipendente o un gruppo di dipendenti, tale da creare un rischio per la salute e la sicurezza”. La definizione che invece rispecchia maggiormente la realtà italiana proviene dall’Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro (ISPESL, 2001): il mobbing è “una forma di violenza psicologica intenzionale, sistematica e duratura, perpetrata in ambiente di lavoro, volta all’estromissione fisica e/o morale del soggetto (o dei soggetti) dal processo lavorativo o dall’impresa”.

 

Classificazione del Mobbing

Diversi autori hanno cercato di dare una classificazione del Mobbing; Giglioli et al. (2001) ne propongono una che si adatta maggiormente alla realtà italiana e che utilizza come criteri di distinzione i meccanismi patogenetici:

  • Mobbing strategico (o Bossing o Mobbing Verticale/Gerarchico/Trasversale), il quale corrisponde ad un preciso disegno di esclusione di un lavoratore da parte della stessa azienda e/o del management aziendale, che, con tale azione premeditata e programmata, intende realizzare un ridimensionamento delle attività di un determinato lavoratore o il suo allontanamento dal lavoro. Di questa categoria fa parte anche il Mobbing Ambientale o Orizzontale, proveniente dai colleghi di lavoro o da soggetti subordinati alla vittima.
  • Mobbing emozionale o relazionale, il quale deriva da un’alterazione delle relazioni interpersonali, sia di tipo gerarchico che tra colleghi: esaltazione o esasperazione dei comuni sentimenti di gelosia, rivalità, antipatia ecc.
  • Mobbing senza intenzionalità dichiarata, il quale non è dovuto ad una precisa volontà di eliminare o condizionare negativamente un lavoratore; in questi casi un collega di pari grado o un superiore, sentendo minacciata la propria posizione lavorativa, attua molestie morali per tutelarsi. In questo caso l’azienda è responsabile in quanto non in grado sia di individuare tempestivamente tale condizione, che di arginarla e sanarla efficacemente.

 

Fasi del Mobbing

Il Mobbing è un processo complesso, caratterizzato da dinamismo, e in continua evoluzione; secondo Leymann tale fenomeno si snoda attraverso quattro fasi:

  • Segnali premonitori;
  • Mobbing e stigmatizzazione;
  • Ufficializzazione del caso;
  • Allontanamento.

Questo modello è il più conosciuto, tuttavia riflette una realtà diversa da quella italiana, in quanto proveniente dagli studi svolti da Leymann in Svezia. L’adattamento alla situazione italiana proviene da Harald Ege, il quale ha proposto un modello a sei fasi più una pre-fase denominata ‘condizione zero’:

  • Condizione zero. Non è ancora possibile parlare di Mobbing, ma questa situazione, caratterizzata da conflittualità generalizzata, ne rappresenta il presupposto. Non è ancora evidente la volontà di distruggere un particolare lavoratore, quanto piuttosto quella di emergere sopra gli altri.
  • Fase 1: Conflitto mirato. La conflittualità generalizzata viene incanalata verso un obiettivo specifico, emerge dunque la volontà di distruggere qualcuno. Il conflitto non riguarda più solamente il lavoro, ma si dirige anche verso il privato.
  • Fase 2: Inizio del Mobbing. Il conflitto matura e diventa duraturo: le relazioni con i colleghi si inaspriscono e gli attacchi del mobber, che ancora non causano sintomi o malattie psicosomatiche sulla vittima, generano fastidio e disagio.
  • Fase 3: Primi sintomi psico-somatici. La vittima inizia a manifestare un senso di insicurezza e problemi di salute; questa situazione può protrarsi per lungo tempo.
  • Fase 4: Errori e abusi dell’amministrazione del personale. Il Mobbing diventa i dominio pubblico e il caso diviene oggetto di valutazione da parte dell’ufficio del personale .
  • Fase 5: Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. La salute psico-fisica della vittima subisce un notevole peggioramento. Possono manifestarsi forme depressive più o meno gravi che vengono curate con psicofarmaci o terapie dall’effetto palliativo, in quanto il problema persiste e viene ulteriormente aggravato dalle azioni disciplinari attuate dall’azienda.
  • Fase 6: Esclusione dal mondo del lavoro. La vittima esce dal mondo del lavoro tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al prepensionamento o, nei casi più gravi, suicidio, omicidio o azioni vendicative nei confronti del mobber.

I protagonisti del Mobbing

I protagonisti del Mobbing sono essenzialmente due: il mobber e la vittima. In alcuni casi, poi, gli spettatori ricoprono un ruolo cruciale per lo sviluppo e il mantenimento del fenomeno.

Il Mobber è colui che inizia e continua le azioni vessatorie, esercitando violenza morale sulla vittima designata. Egli ha diverse motivazioni per attivare il Mobbing: paura di perdere il lavoro o la posizione guadagnata, paura di essere surclassato ingiustamente da qualcuno più giovane o più qualificato, antipatia o intolleranza nei confronti di qualcuno in particolare. Secondo Cassitto (2001) il mobber è totalmente privo di capacità empatiche e stabilisce rapporti del tutto utilitaristici; qualsiasi cosa accada sul lavoro non è mai colpa sua ma dell’altro e crede di trarre vantaggio dalla distruzione della vittima. Secondo Monaco et al. (2004) esistono diverse tipologie di mobber: il collerico, il frustrato, l’invidioso, il criticone, il sadico, l’istigatore, il tiranno.

Walter (1993) ha compilato una lista di caratteristiche che appartengono al mobber; secondo l’autore sono persone che:

  • Tra due alternative di comportamento scelgono la più aggressiva.
  • Si impegnano attivamente affinchè il conflitto continui e si intensifichi.
  • Accettano, attivamente o passivamente, le conseguenze negative che il Mobbing ha per la vittima.
  • Possono non essere consapevoli delle negative conseguenze del Mobbing per la vittima.
  • Non mostrano sensi di colpa, ma tendono a darla all’esterno.
  • Credono di essere nel giusto.

La vittima è la persona in difficoltà che necessita di aiuto immediato e concreto. Sono persone solitamente sensibili a riconoscimenti e critiche, che investono molto nel loro lavoro, desiderano essere impeccabili, manifestano un presenzialismo patologico sul lavoro, sono molto responsabili e motivate (Hirigoyen, 1998). Quando il Mobbing è in atto, la caratteristica tipica del mobbizzato è l’isolamento: la vittima si sente incompresa e sola di fronte agli attacchi del nemico; spesso mette in dubbio per prima cosa la bontà del suo operato e si sforza maggiormente per soddisfare il suo persecutore (Cassitto, 2001), sforzi che generalmente danno nuovi pretesti ai mobber per continuare il loro operato. Walter (1993) definisce la vittima come una persona che:

  • Mostra sintomi di malattia, si assenta dal lavoro, si licenzia.
  • È colpita da stress psichico o fenomeni psicosomatici; attraversa fasi di depressione o manie suicide.
  • Definisce il suo ruolo in termini di passività.
  • Da un lato crede di non avere colpa, ma dall’altro crede di sbagliare sempre tutto.
  • Mostra mancanza di fiducia in sé, indecisione e senso di disorientamento generale.
  • Rifiuta ogni responsabilità per la situazione o accusa distruttivamente se stessa.

Gli spettatori sono tutte quelle persone (colleghi, superiori, addetti alla gestione del personale…) che non prendono esplicitamente parte al Mobbing, ma che vi partecipano indirettamente, lo percepiscono o lo vivono di riflesso. Gli spettatori possono essere divisi in due categorie: spettatori attivi, che aiutano il mobber compiendo a loro volta piccole azioni mobbizzanti, e spettatori passivi, che non compiono vessazioni ma non intervengono neanche in difesa della vittima.  Secondo Walter (1993) i tratti caratteristici degli spettatori sono i seguenti:

  • Sembrano non avere un ruolo nel Mobbing ma sono in contatto con il/i mobber.
  • Rifiutano ogni responsabilità per la situazione che si è creata, però si vedono come mediatori tra i protagonisti del conflitto.
  • Dimostrano grande fiducia in loro stessi; esprimono le loro simpatie per una parte o per l’altra oppure non vogliono assolutamente avere a che fare con nessuna delle due.
  • Ricoprono spesso un ruolo chiave nel conflitto.

 

Le azioni del Mobbing

Vi sono pareri discordanti per quanto riguarda le caratteristiche che definiscono un’azione mobbizzante. Prima di tutto non esiste un parametro universalmente accettato sull’intervallo di tempo in cui debbano ripetersi le ostilità: secondo Leymann (1996) e Monaco et al. (2004) tali azioni devono ripetersi per un periodo non inferiore ai sei mesi; Hegeney (2003) abbassa tale durata a tre mesi; Agervold (2004) considera sufficiente un lasso di tempo nettamente inferiore, un mese. Questa variabilità dipende, secondo gli autori, dalla tipologia di azione mobbizzante, dalla loro modalità di attuazione e, infine, dalle caratteristiche personologiche dei soggetti coinvolti.

Altre divergenze riguardano la tipologia delle azioni del Mobbing. In Italia si è giunti però a un parere unificato che suddivide tali azioni in quattro categorie (Gilioli et al. 2001; Cassitto, 2001; Bernabei et al., 2005):

  • Attacchi contro la persona (umiliazioni, offese, ridicolizzazioni inerenti la vita privata).
  • Attacchi contro il lavoro svolto (critiche e sabotaggi con i quali il soggetto viene privato o, viceversa, sovraccaricato di lavoro).
  • Attacchi contro la funzione lavorativa ricoperta (declassamento, non attribuzione di incarichi…).
  • Attacchi contro lo status del lavoratore (sanzioni fiscali, controlli di idoneità, trasferimenti improbabili, rifiuto di permessi/ferie…).

Secondo l’ISPESL (2003) le azioni mobbizzanti si possono raggruppare in due categorie: attacchi alla persona e minacce alla carriera professionale (Tabella 2 e Tabella 3).

Infine, ulteriore oggetto di discussione è il carattere di intenzionalità che sta alla base di tali azioni. Sebbene sia difficoltoso stabilire se le condotte mobbizzanti siano programmate, per Monaco et al. (2004) questo aspetto costituisce un elemento chiave per determinare un episodio di Mobbing, insieme anche alla presenza di una relazione asimmetrica fra aggressore e vittima.

Secondo Harald Ege (2002), le peculiarità necessarie a definire un’azione mobbizzante sono le seguenti:

  • Il conflitto deve avvenire in ambiente lavorativo.
  • La frequenza delle ostilità deve essere di ‘alcune volte al mese’ con diverse eccezioni (vd. Ege, 2002).
  • La durata delle vessazioni deve essere di almeno sei mesi, tre se gli attacchi hanno cadenza quotidiana o se le azioni appartengono a tre categorie differenti.
  • Devono essere presenti azioni tipiche del processo di Mobbing.
  • Deve esistere un dislivello di potere fra mobber e mobbizzato e quest’ultimo è sempre in una posizione di svantaggio.
  • Il Mobbing deve evolvere nel tempo passando attraverso tappe determinate.
  • Deve esserci da parte dell’aggressore un intento negativo specifico (politico, conflittuale o emotivo).

Antecedenti del Mobbing

 

Antecedenti personologici del Mobbing

In letteratura sono ancora pochi e controversi gli studi che hanno esaminato l’impatto delle caratteristiche personologiche della vittima di mobbing su questo fenomeno. Risulta molto complesso, infatti, stabilire un rapporto di causalità lineare tra personalità, vulnerabilità verso le situazioni conflittuali e sviluppo di sintomi come conseguenza delle vessazioni subite nell’ambiente lavorativo. Secondo Leymann (1996) i fattori di personalità non sono determinanti nel favorire la vittimizzazione, hanno un peso maggiore invece i fattori sociali e organizzativi. Altri autori, al contrario, sostengono che il profilo di personalità abbia un ruolo decisivo nella genesi del mobbing (Coyne et al., 2000).

Brodsky (1976) afferma che le vittime di mobbing spesso presentano una tendenza a voler raggiungere obiettivi lavorativi poco realistici, determinata anche da una valutazione irrealistica delle proprie capacità personali. Inoltre, spesso sono persone coscienziose, paranoiche, rigide e compulsive. Il più delle volte hanno una percezione negativa di Sé, si auto-svalutano e mostrano ansia nelle relazioni sociali, con capacità di gestione dei conflitti più basse rispetto alle altre persone e livelli di timidezza più alti nelle relazioni sociali (Einarsen et al., 1994). Infatti, è stato riscontrato che gli stili di coping prevalenti in situazioni di conflittualità sono l’evitamento (Coyne et al., 2000) o le reazioni aggressive.

Nello specifico, alcuni autori hanno provato a individuare il profilo di personalità tipico delle vittime di mobbing. Varita (1996) ha utilizzato il 16PF di Cattell e ha riscontrato che questi soggetti avevano ottenuto punteggi più bassi nei fattori stabilità emotiva e dominanza, mentre punteggi più alti nell’ansia, apprensione e sensibilità rispetto alle persone non vittimizzate. Gandolfo (1995) ha riscontrato un’equivalenza di profilo nei soggetti che avevano subito vessazioni e in quelli che non le avevano subite ma che avevano comunque problemi nell’ambiente lavorativo, con una presenza significativa di componenti depressive, forte sospettosità e vulnerabilità.

Altri autori hanno confermato questo risultato (Matthiesen et al., 2001), rilevando gravi disturbi psicologici ed emotivi; in aggiunta, questi autori sostengono che ci sia una relazione tra profilo di personalità e tipologia di vessazione subita e che alcune vittime siano più vulnerabili o reagiscano con modalità volte alla drammatizzazione rispetto ad altri soggetti. Utilizzando l’MMPI-2, Girardi e coll. (2007) hanno osservato, senza differenza tra i sessi, elevazione significative nelle seguenti scale: Ipocondria (Hs), Depressione (D), Isteria (Hy) e Paranoia (Pa). I soggetti vittime di mobbing, quindi, si caratterizzano per la presenza di due cluster principali di sintomi: depressivi (difficoltà nel prendere decisioni, ansia per i cambiamenti, atteggiamenti passivo-aggressivi) e psicosomatici, associati a un forte bisogno di attenzione e considerazione da parte delle altre persone. Anche Fenga e coll. (2012) hanno riscontrato punteggi superiori al cut-off nelle stesse scale dell’MMPI-2; inoltre, hanno analizzato anche le scale di contenuto rilevando punteggi alti in quelle relative all’Ansia (ANX) e alle Preoccupazioni per la salute (HEA), sia nel gruppo degli uomini che in quello delle donne. A differenza degli uomini, però, le donne ottengono punteggi significativamente più alti nella scala di validità Menzogna (L).

In sintesi, il profilo medio di personalità delle vittime di mobbing, a prescindere dal sesso, è caratterizzato da deflessione del tono dell’umore, ansia, somatizzazioni e ideazione persecutoria (la cosiddetta ‘triade nevrotica’ dell’MMPI-2, costituita dall’elevazione delle scale Hs, D, Hy). Queste persone, quindi, tendono a manifestare forme sintomatiche di depressione e a reagire alle situazioni stressanti convertendo i sintomi psicologici in sintomi fisici; a questo si associa una tendenza a reprimere e negare i propri bisogni ed emozioni che determina una riduzione della capacità di introspezione. Per quanto riguarda l’ideazione persecutoria, essa si esprime con atteggiamenti rigidi e ostili nei confronti degli altri, alta sensitività interpersonale e tendenza a fraintendere le intenzioni degli altri che elicitano nell’altro risposte di disconferma o aggressive (Raho et al., 2008; Fenga et al., 2012). Inoltre, queste caratteristiche non sono modulate dal genere e sono simili in entrambi i sessi.

Le vittime e i loro portavoce di solito affermano che il mobbing sia causato principalmente dalla personalità psicopatica del mobber. D’altra parte, sia i mobber che gli altri colleghi spesso riferiscono che la personalità della vittima e il suo comportamento giochino un ruolo importante nel determinare la vittimizzazione (Einarsen et al., 1994). La maggior parte degli studi concorda sul fatto che persone diverse reagiscono e risentono in modo diverso a condotte di mobbing simili (Davenport et al., 2000). Le vittime possono essere selezionate dal mobber proprio per la loro personalità, in quanto vengono osservate la mancanza di abilità sociali, la tendenza a evitare il conflitto o l’incapacità di farvi fronte. Oltre a questo, la vittima può provocare il mobber con comportamenti aggressivi (Coyne et al., 2000).

Anche se la personalità del soggetto mobbizzato non può spiegare in toto la vittimizzazione, è certo che essa determina il modo in cui la persona sperimenta e interpreta gli episodi di mobbing e le sue capacità di padroneggiare i problemi che si presentano nell’ambiente lavorativo.

 

Antecedenti organizzativi del Mobbing

Il mobbing è un fenomeno con un’eziologia multifattoriale; tra le diverse cause, in tutti i casi studiati sono stati riscontrati problemi relativi all’organizzazione del lavoro, alla qualità del management e allo stile di gestione dei conflitti. Le persone coinvolte in questo fenomeno sperimentano carenze nel posto di lavoro e nel clima organizzativo: nei luoghi di lavoro in cui si l’atmosfera generale viene descritta dalle vittime come opprimente, competitiva, dove ognuno persegue i propri scopi. Le vittime denunciano la mancanza di possibilità di influenzare questioni che le riguardano e la scarsità di informazioni e di scambi verbali attinenti a compiti e scopi.

Risulta difficile capire dove finisce una gestione manageriale rigida e dove inizia il mobbing. Infatti in alcune aziende con elevata competizione interna e forte pressione per raggiungere i risultati, in cui predominano modalità relazionali basate sull’aggressività, alcuni tipi di comportamento assimilabili al mobbing vengono accettati dai membri del gruppo lavorativo. Inoltre, in altre aziende vengono tollerati comportamenti normalmente inaccettabili se questi vengono messi in atto da persone che occupano una certa posizione gerarchica al suo interno. Infine, il mobbing può essere intenzionalmente perseguito dall’azienda come strategia specifica di gestione del personale (in questo caso si parla di ‘bossing’). Tuttavia, nella maggior parte dei casi, viene agito da colleghi, capi o sottoposti per svariate ragioni (dall’ambizione, alla gelosia, alla semplice antipatia personale); in questi casi, il fenomeno si sviluppa completamente all’insaputa della direzione aziendale.

Secondo Walter, all’interno di un ambiente lavorativo si riscontrano una serie di stressors che possono costituire dei fattori di rischio per l’instaurarsi di fenomeni di mobbing:

  • Carico psichico del lavoratore: paura di fallire, di essere criticato o di subire delle conseguenze negative per i propri comportamenti o errori; insicurezza dovuta alla precarietà del posto di lavoro; problemi relativi alla vita privata; assenza di riconoscimento; mancanza di autonomia; clima aziendale ostile; conflitti con il superiore e/o con i colleghi; affaticamento cognitivo; pressione alla competizione; pressione dei limiti di tempo; pressione della responsabilità; ordini non chiari e carenza di informazioni; sotto-impiego;
  • Carico sociale: lavoro individuale o di gruppo; densità sociale/sovra-occupazione; isolamento sociale/sotto-occupazione;
  • Carico oggettivo: luce; temperatura; ergonomia; rumore; inquinamento; equipaggiamento tecnico;
  • Carico fisico: relativo allo sforzo e affaticamento fisico;
  • Carico organizzativo: difficoltà del lavoro; velocità del lavoro; spazio a disposizione sul posto di lavoro; norme di prestazione; distribuzione del lavoro quotidiano e settimanale.

È possibile effettuare un’ulteriore classificazione degli stressors organizzativi e psicosociali (Tabella 4).

Un intervento web-based CBT per la prevenzione del suicidio tra i giovani medici

Prevenzione del suicidio: nel tentativo di prevenire i suicidi e fornire un sostegno alla sintomatologia depressiva, il team guidato dagli psichiatri dell’Università del Michigan e della Medical University of South Carolina ha sviluppato un interessante strumento web-based per il supporto psicologico dei medici basato sui principi della psicoterapia cognitivo-comportamentale (wCBT).

Ogni giorno negli Stati Uniti d’America un medico si toglie la vita. I giovani medici, durante il primo anno in ospedale successivo alla laurea, riferiscono un aumento della prevalenza dei sintomi depressivi dal 4% al 26% e sono esposti ad un rischio quadruplo di ideazione suicidaria rispetto alla popolazione generale. Ciò sembra dovuto ai lunghi turni in ospedale, alla costante paura di commettere errori ed ai periodi di riposo sempre più brevi.

Nel tentativo di prevenire il suicidio e fornire un sostegno alla sintomatologia depressiva, il team guidato dagli psichiatri dell’Università del Michigan e della Medical University of South Carolina ha sviluppato un interessante strumento web-based per il supporto psicologico dei medici basato sui principi della psicoterapia cognitivo-comportamentale (wCBT). Lo strumento si chiama MoodGYM e propone una forma di talk therapy a cui i medici possono rivolgersi comodamente dal loro ufficio.

Secondo gli autori, uno dei pregi di questa modalità di erogazione della terapia cognitivo-comportamentale è che perfettamente si adatta alla popolazione dei giovani medici. Essi, infatti, evidenziano sin dall’inizio del tirocinio in ospedale un significativo aumento dei livelli di stress e di pressione, pattern che emerge in maniera così definita in poche altre popolazioni. Inoltre, i giovani medici sembrano restii ad approcciarsi ai trattamenti psicoterapici tradizionali, sia per mancanza di tempo e denaro, ma anche a causa di preoccupazioni connesse alla confidenzialità di ciò che viene detto al terapeuta durante la seduta.

MoodyGYM, tuttavia, permette di riconoscere i primi sintomi della depressione, di trattarli e si configura come un ottimo strumento per ridurre l’ideazione suicidaria nei giovani dottori. Il programma è costituito da quattro moduli: il primo viene completato una settimana prima l’inizio del tirocinio, mentre i restanti tre sono svolti rispettivamente 3, 6 e 12 mesi dopo. I singoli moduli sono concepiti per informare i soggetti riguardo gli assunti fondamentali della terapia cognitiva comportamentale e i suoi strumenti di intervento per la prevenzione della depressione.
I ricercatori, quindi, hanno indagato l’efficacia dello strumento su 199 medici tirocinanti provenienti da due diversi ospedali universitari americani, destinando la metà di questi al trattamento tramite MoodGYM e l’altra metà ad un gruppo di controllo dove venivano solo fornite informazioni riguardo la depressione, il suicidio e le strutture locali di salute mentale.

I risultati hanno mostrato che i tirocinanti assegnati al gruppo di controllo pensavano in percentuale maggiore al suicidio (21,2%) rispetto al gruppo di MoodGYM (12%). Al termine del primo anno di tirocinio, infatti, coloro che avevano usufruito del programma web-based di CBT erano meno propensi all’ideazione suicidaria. Sembra quindi necessario inserire programmi di prevenzione al suicidio all’interno del percorso formativo dei medici, in modo tale da fornire agli studenti le migliori strategie cognitivo-comportamentali per ridurre lo stress al quale saranno esposti durante il tirocinio.

We-self e autostima collettiva – The Chinese Mind, cronache psicologiche dalla Cina

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

Dai libri universitari ricordo chiaramente che la Cina è tra le culture collettiviste, in cui il sè è quello che viene definito sè interdipendente o we-self poichè il soggetto non si sente distinto dagli altri e dall’ambiente circostante, ma si sente parte di esso.

In tal senso il sè è concepito come legato agli altri, interconnesso alle relazioni sociali di riferimento. Basti pensare che la parola cinese rén vuol dire sia “uomo, individuo” che “insieme di persone”. I confini tra sè e altro divengono estremamente labili e mutevoli.

Sarà dunque per questo motivo che a molti Cinesi piace ammassarsi, ritrovarsi nella folla, organizzarsi in chiassosissimi bus turistici, non mostrando il minimo segno di cedimento in coda ad attendere ascensori che impiegano come minimo dieci minuti ad arrivare?

Qualcuno, cinese, mi dice che no, c’è un’altro motivo: per i cinesi è buona sorte ritrovarsi insieme in moltissimi nello stesso posto. Porta fortuna, e quindi è vissuto positivamente.

Silenziosamente basita, ritorno a pensare alla questione dell’autostima.

 

Autostima e identità sociale

Secondo la Teoria dell’Identità Sociale (Tajfel & Turner, 1979) le persone derivano la loro autostima dal proprio successo personale, dalle relazioni interpersonali e dall’appartenenza a un gruppo o a una collettività.

Secondo la teoria dell’identità sociale la motivazione degli individui a derivare un’autostima positiva dalle appartenenze di gruppo sarebbe una delle forze che inducono ai bias in favore del proprio ingroup.

Dunque è plausibile pensare che due dei fattori enucleati da Tajfel e Turner siano particolarmente rilevanti quando si considera il concetto di autostima in Cina: le relazioni interpersonali e l’appartenenza al gruppo o collettività (Lu & Gilmour, 2007). Sostanzialmente l’autostima collettiva descrive quell’aspetto di valutazione di sè stessi che origina da come l’individuo si percepisce interagire con gli altri e con i gruppi di cui fa parte.

Questi due fattori peserebbero in misura maggiore rispetto al fattore del successo personale, valore tipicamente individualista e che crea non pochi problemi a livello interpersonale nelle culture collettivistiche.

Forse si puo’ parlare di autostima collettiva anche considerando il nazionalismo di molti cinesi: Xiaomin va fiero del proprio popolo, va fiero della piu grande parata militare svoltasi a Pechino lo scorso ottobre, va fiero del fatto che i Zhōng-guó rén (la gente cinese) sono la popolazione piu estesa del pianeta .

Alcuni studi supportano l’ipotesi che l’autostima collettiva abbia un ruolo più influente nel predire il benessere degli individui di cultura cinese, mentre l’autostima individuale sarebbe meno predittiva di benessere in Cina rispetto agli USA (Kang et at., 2003; L. Zhang, 2005). E’ probabile che su questa scia, si muoveranno le future ricerche sull’autostima nell’ambito cross-culturale.

Sembra quasi che il semplice fatto di essere Zhōng-guó rén sia rassicurante di per sè, parte del tutto, della grande Cina.

Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani (2015) – Recensione

Guido Veronese

‘Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani’ è un libro attento alle differenze e alle esigenze pratiche, grounded, che un operatore arabo immerso in un contesto occidentale si trova quotidianamente ad affrontare nel trattamento di individui, gruppi e famiglie di etnia arabo-palestinese in Israele.

Israele è crocevia di culture, di lingue, di etnie che non si fondono, enclave altamente segregate ove le minoranze, spesso discriminate, faticano ad armonizzare con il contesto maggioritario di matrice europea, moderno ed efficiente, certamente eurocentrico. In questo sfondo si delinea il lavoro terapeutico di Marwan Dairy, terapista operante sulla popolazione di lingua araba residente in Galilea, Nazareth e di origine palestinese.

‘Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani’, la cui traduzione italiana è curata da Alfredo Ancora, tradotta da Ala Yassin, psicologo e mediatore interculturale di origine israelo-palestinese, laureato e residente a Padova ed edito da Franco Angeli, è un libro attento alle differenze e alle esigenze pratiche, grounded , che un operatore arabo immerso in un contesto occidentale si trova quotidianamente ad affrontare nel trattamento di individui, gruppi e famiglie di etnia arabo-palestinese in Israele. Il risultato è un libro piacevole, di facile lettura anche ai non addetti ai lavori e di utilità pratica per chi si spende nella relazione di aiuto in ambito interculturale.

Diversità e barriere culturali, differenze religiose costituiscono vincolo, ma possono diventare risorsa. L’autore racconta la propria esperienza multiculturale alle prese con pazienti ebrei, musulmani, cristiani e appartenenti alla minoranza etnico-religiosa drusa. Il concetto di positioning, di posizionamento e di ri-posizionamento del terapeuta in continua interazione con la diversità, costituisce una chiave di lettura efficace per entrare nel mondo di significati peculiare di clienti appartenenti a diverse culture.

Collettivismo versus individualismo, religione versus laicità, sistemi di cura tradizionali e modernità sono poli semantici entro cui chiunque si trovi a lavorare in ambito interculturale deve continuamente e interattivamente comporsi per garantire efficacia al proprio intervento, tanto in chiave psicoterapeutica quanto formativa. Vengono dettagliatamente analizzati stereotipi e pregiudizi con i quali i terapeuti occidentali debbono inevitabilmente confrontarsi nell’incontro con il paziente musulmano e strumenti idonei alla diagnosi e cura di un tale paziente. Il libro potrebbe essere erroneamente tacciato di ecclettismo, se nonché a modellizzare la serie di tecniche mostrate viene in aiuto un approccio di matrice narrativa capace di attribuire coerenza e originalità all’intervento proposto. Anche derive di tipo orientalista sono controllate da un’attenzione evidence based che conferisce rigore e serietà agli interventi.

Si tratta della sintesi di 25 anni di lavoro dell’autore in ambito clinico e in psicologia dell’educazione e medica. Termini come Sè, attualizzazione, ego appaiono del tutto estranei al senso comune arabo, e incomprensibili nel lavoro terapeutico dove trovano maggiore spazio le aspettative e l’approvazione altrui, desiderabilità sociale e approvazione familiare. Nella conversazione con il cliente arabo, il compito di distinguere tra esigenze personali del cliente, le sue opinioni, i suoi atteggiamenti e quelli della famiglia è compito arduo se non impossibile. La rideclinazione collettivista di pratiche occidentali orientate all’individuo costituisce lo sforzo più genuino ed interessante dell’autore, a volte un po’ forzata nel nobile sforzo di adattamento dei modelli psicologici dominanti. Il lettore più esperto potrebbe, infatti, chiedersi se proprio sia sempre necessario e dovuto questo sforzo di integrazione. Probabilmente, in un contesto occidentalizzato come quello israeliano questo sforzo è dovuto, ma sorgono dubbi che sempre sia possibile. L’autore volutamente, e onestamente, dichiara di non voler entrare nei sistemi di cura tradizionale e dichiara tutto il suo credo verso l’efficacia dei modelli psicologici dominanti in Occidente.

Nella prima parte del testo l’autore incornicia alcuni aspetti storico-culturali e demografici della presenza musulmana in Occidente, aiutando a contestualizzare. La seconda parte si occupa di una revisione culturalmente sensibile delle teorie dello sviluppo e della personalità, dei processi di valutazione psicologica e della psicopatologia, nonché del counseling e della psicoterapia nel mondo arabo musulmano. Khawla Abu Baker, terapeuta familiare e coniuge dell’autore ha contribuito alla stesura di questi capitoli, portando la sua esperienza in Israele e Palestina. Il libro descrive alcune caratteristiche psico-culturali di base di Arabi e Musulmani mettendo in guardia da possibili errori e banalizzazioni generalizzanti.

Nello specifico due errori che Hare-Mustin e Marecek (1988) delineano nel dibattito sulle differenze di genere vengono discussi: i cosidetti errori alfa beta. L’errore alfa, trasferito alle discussioni sull’interculturalità, descrive un’ipervalutazione delle differenze esistenti fra le culture. Differenze psico-culturali rilevabili in alcune caratteristiche emotivo, cognitivo e comportamentali di gruppi diversi non escludono, d’altro canto, la presenza di queste stesse caratteristiche in altre culture, né l’esistenza di alcune caratteristiche umane condivisibili universalmente. Le caratteristiche culturali sono sempre relative, mai assolute, se aspetti di autoritarismo-collettivismo sono rintracciabili in culture di matrice arabo-musulmana, ciò non toglie che questi stessi aspetti possano essere presenti in altre culture.

L’errore di tipo beta è di tipo implogenetico, annulla e elimina le differenze, negandole. Una sorta di color blindness fra culture, in nome di un’universale e poco realistica eguaglianza. Un terzo errore, più facilmente percorribile, è quello che vede prevalere il pregiudizio e le generalizzazioni, per evitare tale bias è bene che peculiarità e ridondanze tra culture vengano pensate come caratteristiche ineludibili embricate le une nelle altre. A partire dal 2001 fino ai più recenti fatti di Parigi, la strage a Charlie Hebdo e Bataclan, l’immagine di Islam e arabi è stata profondamente distorta, un libro come quello di Marwan Dairy, ci aiuta a rileggere pregiudizi e stereotipi, a promuovere la salute mentale globale al di là delle differenze, affinando le sensibilità di quegli operatori che si trovino a lavorare con la popolazione araba nello specifico, con le diversità più in generale.

Il libro si compone di tre scorrevoli sezioni, scritte con un linguaggio semplice e fruibile anche ai lettori non esperti. La prima parte ci parla di eredità Psico-culturale, con un’introduzione storico culturale del mondo musulmano per i nostri operatori, l’autore pone l’accento sulle caratteristiche collettiviste e autoritarie delle norme comportamentali e sociali delle società arabo/musulmane. La lettura della sezione può aiutare il professionista ad aumentare la propria consapevolezza del mondo musulmano per una migliore comprensione del cliente, nelle sue forme comportamentali ed emotive.

Nel capitolo tre si entra nel dettaglio della descrizione del migrante musulmano in costante confronto tra tradizionalismo arabo e individualismo delle società moderne occidentali, orientato verso l’uno o l’altro polo a seconda del livello di acculturazione e assimilazione del cliente al mondo occidentale. L’azione terapeutica richiede un attento assessment del grado di occidentalizzazione del cliente arabo musulmano.

Nella seconda parte si tratta di sviluppo psico-sociale e personalità nelle società collettiviste, e di come essi siano influenzati ancora una volta da processi globali occidentalizzanti. Il lettore è accompagnato nella rilettura di alcuni pregiudizi teoretici di matrice occidentale che rischierebbero di patologizzare erroneamente alcune delle reazioni emozionali, attitudinali e comportamentali del cliente musulmano. Spinte all’autonomia, distinzione mente corpo e tra individuo e famiglia sono costrutti che devono essere decostruiti e ricostruiti in un contesto arabo-musulmano. L’autore si sofferma sulla necessità di costruire nuovi strumenti, non solo adattando quelli a noi noti, per isolare dimensioni culturalmente sensibili, come potrebbe essere il livello di individuazione, capaci di orientare il benessere della persona sia essa patologica o non patologica.

La terza parte descrive il lavoro terapeutico con musulmani in US e in Occidente. Interessante come l’autore, muovendo dalle considerazioni emerse nei capitoli precedenti, delinei un paradigma costruttivista e strutturale di terapia familiare, in cui rieccheggiano, purtroppo senza citarle, le voci dei pionieri delle TF e sistemiche in contrapposizione allo strapotere dell’inconscio, che l’autore definisce pericoloso nel gestire la sofferenza di un paziente arabo a rischio di giudizio sociale qualora i desideri inconsci emergano alla coscienza.

La parte conclusiva ribadisce i rischi dell’indossare lenti occidentali nel lavoro terapeutico con il paziente arabo, rischi di incomprensione da parte del terapeuta e di disinvestimento nel paziente arabo. Il paziente musulmano è diviso tra tradizione e modernità, l’intervento, dunque, vieppiù si delinea case sensitive. Il lavoro sui tratti individuali deve essere ricondotto a un controllo esterno sociale e familiare. In un’epoca globalizzante, l’attenzione alla cultura in campo terapeutico ci aiuta a ripensare al locale e alla violenta spinta colonizzante di molti dei nostri modelli di cura. Approcciare con mente aperta la salute mentale del cliente musulmano, aiuta l’operatore a promuovere culture della reciproca conoscenza, dell’empatia, dei diritti umani e dell’universalizzazione del genere umano, in un epoca di contrapposizioni, di scontro e guerra tra religioni e civiltà. Da leggere.

Infedeltà coniugale: traditori si nasce o si diventa?

Maria Pia Totaro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi 

Ragionare sul fenomeno dell’infedeltà è qualcosa di particolarmente delicato. Certamente sono svariati gli ambiti in cui essa si manifesta, ma la presente rassegna si focalizzerà prettamente sull’infedeltà coniugale e al ruolo del patrimonio genetico nel determinarla.

Essa rappresenta uno dei maggiori motivi di sofferenza della coppia, a cui frequentemente segue la separazione o il divorzio. L’infedeltà è riconducibile ad un rapporto sessuale o emotivo con una persona che non è il proprio partner abituale, in quelle coppie in cui la relazione è caratterizzata dalla prospettiva dell’esclusività (Glass et al, 1992).

Infedeltà nelle specie animali

Uno degli interrogativi che più assiduamente si pone chi è vittima di un tradimento è ‘Perché?‘. Si è tentato di rispondere a tale domanda attraverso un’indagine rivolta al ruolo del patrimonio genetico nell’eziologia del comportamento abnorme in oggetto. A tale riguardo uno studio svolto da Forstmeier et al (2011) su esemplari di diamante mandarino, un piccolo uccello australiano monogamo, si è proposto di esaminare l’evoluzione dell’accoppiamento extra coppia e l’eventuale contributo della componente genetica ereditaria nell’attuazione di tale comportamento.

I risultati hanno dimostrato che, le differenze individuali nell’accoppiamento extra coppia relativamente alla specie in esame hanno una componente genetica ereditaria. In particolare è emerso che, nonostante entrambi i partner della coppia tendono a tradire, mentre per i maschi la promiscuità è legata al proprio successo riproduttivo, per le femmine la questione è riconducibile a dei geni trasmessi da un progenitore maschio. Il tradimento femminile quindi sembra determinato da alcuni alleli, selezionati positivamente nei maschi e trasmessi alla prole, la quale, a sua volta, sarà indotta ad assumere un pattern di comportamento analogo.

Questa scoperta è in linea con la teoria del conflitto parentale secondo la quale nel bambino, i geni ereditati per via paterna tendono ad estrarre dalla madre quante più risorse possibili, mentre i geni ereditati per via materna tendono a conservare le risorse in modo che siano disponibili per una eventuale prole futura. Tutto ciò, alla luce dello studio di Forstmeier, tende a evidenziare la tendenza della femmina all’acquisizione di un atteggiamento più mascolinizzato, nonostante si tratti di un comportamento per lei disadattivo.

 

Infedeltà negli esseri umani

Tale coinvolgimento del corredo genetico nell’evoluzione dell’infedeltà sembra essere stato riscontrato anche negli esseri umani. Lo studio di Cherkas et al (2004) effettuato sui gemelli di sesso femminile ha riscontrato come, il tasso di concordanza casewise per l’infedeltà sia significativamente maggiore per i gemelli monozigoti, rispetto a quelli dizigoti. Tale prevalenza sta ad indicare un effetto genetico. I risultati dimostrano che l’infedeltà e il numero di partner sessuali sono entrambi sotto moderata influenza genetica, più precisamente con una ereditabilità rispettivamente del 41% e del 38%. Per l’infedeltà, l’influenza dell’ambiente condiviso ha mostrato di non avere effetti significativi, per il numero di partner sessuali ha spiegato solo il 13% di variazione. Contrariamente, i geni non sembrano influenzare significativamente l’atteggiamento nei confronti dell’infedeltà. Tali risultati sull’ereditabilità femminile dell’infedeltà e del numero di partner sessuali forniscono un supporto per alcune teorie evolutive sul comportamento sessuale umano secondo le quali se tali comportamenti persistono è perché sono stati evolutivamente vantaggiosi per le donne (Bailey et al, 2000). Quindi, i risultati ottenuti supportano l’ipotesi che la varianza genetica di base può servire a mantenere una vantaggiosa varianza fenotipica (Cherkas et al, 2004).

Infedeltà e geni

Relativamente agli studi che si sono occupati dell’implicazione di specifici loci genetici nello sviluppo dell’infedeltà, lo studio di Cherkas et al (2004) ha fallito nell’avvalorare l’ipotesi che il gene della vasopressina (AVPR1A), implicato nel comportamento sessuale dei roditori, potrebbe spiegare la variazione osservata nel comportamento sessuale umano.

In seguito H.Walum et al (2008) hanno ripreso lo studio riscontrando un’associazione tra un polimorfismo AVPR1A e il comportamento nel legame di coppia umano, forse analogo a quello riportato per le arvicole (Hammock et al, 2002). In particolare, l’allele 334 del polimorfismo RS3 spiega il modo in cui gli uomini si legano alle loro partner. I dati emersi hanno dimostrato come la presenza di più copie dell’allele 334 negli uomini, sia correlato a una più scarsa qualità nel legame di coppia. Inoltre, essere omozigoti per l’allele 334 raddoppia il rischio di crisi coniugale rispetto al non avere l’allele 334. Relativamente allo stato civile è emerso che la frequenza di uomini non sposati è stata più alta tra gli omozigoti con allele 334 rispetto agli uomini senza tale allele. Oltre all’associazione di questo allele con il legame di coppia, questo studio fa notare come esso possa essere implicato anche nello sviluppo dell’autismo e di altri deficit sociali.

Kristina M. Durante e Norman P. Li (2009) nel tentativo di indagare l’associazione tra estradiolo e accoppiamento opportunistico nelle donne hanno riscontrato che, donne con una elevata concentrazione dell’ormone, e quindi altamente fertili, tendono ad essere meno soddisfatte dei loro partner a lungo termine e sono particolarmente motivate a conoscere altri uomini, presumibilmente più desiderabili. I risultati suggeriscono che, sebbene le donne con alti livelli di estradiolo non sembrano avere preferenze verso relazioni di lunga o di breve durata, adottano la strategia di una monogamia seriale. Senza essere necessariamente coscienti, donne molto attraenti sono probabilmente in grado di orientare la loro desiderabilità verso la ricerca di un compagno di elevato status sociale con il quale instaurare una relazione duratura, e che andrà a sostituire quello precedente.

Tornando al coinvolgimento di specifici geni nell’evoluzione del fenomeno, Justin Garcia et al (2010) hanno evidenziato come candidato il genotipo VNTR del recettore per la dopamina DRD4, e in particolare la variante 7R+. Questo sottolinea come la variazione genetica nel percorso delle ricompense dopaminergiche del cervello appare essere un fattore influente nella differente motivazione individuale ad impegnarsi in un comportamento sessuale rischioso e libero. Questo risultato spiegherebbe come mai il fenomeno dell’infedeltà può verificarsi anche in presenza di sentimenti di affetto verso il partner. Inoltre è stato notato come il genotipo VNTR del recettore per la dopamina DRD4 può essere associato a diversi comportamenti compulsivi come l’associazione della variante 7R+ con il fumo, l’alcolismo e la correlazione di questa con tendenze patologiche come l’ADHD.

Lo studio di Jonathan Graff-Radford et al (2010) ha fornito un supporto all’ipotesi dell’implicazione della dopamina nell’infedeltà. Nel dettaglio esso ha rilevato come soggetti affetti dal morbo di Parkinson, non dementi, sviluppino una sorta di delirio di infedeltà definita Sindrome di Otello, in conseguenza al trattamento con agonisti della dopamina in una patologia caratterizzata appunto da una perdita progressiva del numero e dell’attività dei neuroni dopaminergici della via nigrostriatale.

Queste ricerche tengono a precisare come non tutti coloro che hanno un certo tipo di genotipo si concedono ad un’attività sessuale promiscua, come è possibile anche che questo comportamento sia adottato ugualmente da coloro che non presentano determinate caratteristiche genotipiche. Allo stesso modo tali ricerche puntualizzano come il patrimonio genetico sia in grado di influenzare un certo comportamento genetico, ma senza mai escludere il ruolo dei fattori esogeni.

Il cercatore perfezionista – Tracce del tradimento Nr. 35

TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXV. Il cercatore perfezionista

 

Esistono cercatori la cui spinta verso tracce di tradimento costituisce soltanto una faccia di un desiderio di controllo sulla vita del partner. Le tracce rappresentano un’imperfezione del controllo ferreo e totale che si vorrebbe avere sull’esistenza in generale, sul proprio mondo e su chi si ha vicino per sentirsi tranquilli.

Questi cercatori sostengono con forza il diritto a un controllo soffocante della vita del partner. Esiste in queste persone un’ideologia fusionale del vivere in coppia. È evidente che alla base ci sia ansia, queste persone sostengono e appoggiano questa spinta ansiosa ad un dogma etico o lo presentano come una sana abitudine nelle coppie. Non permettono che sfugga un pensiero, una telefonata, un gesto, perché potrebbe rappresentare una piccola breccia che indica una voragine disastrosa nella quale, una volta perso il controllo si può cadere.

Il prototipo è l’atteggiamento ossessivo e perfezionista di una nostra paziente, la quale ha avuto una relazione piena, soddisfacente con un uomo generoso, presente disponibile, ma che è divenuto negli anni sessualmente più pigro, più assente. Anche lei vede calare il suo desiderio, ma questo è l’unico neo di una relazione altrimenti felice. Sono felici di trovarsi a chiacchierare la sera, vanno al cinema e amano stare con un piccolo gruppo di amici che vivono vicino a loro. Insieme hanno comprato una casa, hanno molto amato e molto solidalmente accudito i genitori malati di lei prima e poi di lui. Ma improvvisamente dopo un periodo difficile passato insieme e in completa solidarietà, arriva nella testa di lei il pensiero in forma di ossessione della perfezione mancante del quadro e essa comincia a cercare tracce che giustifichino lo scarso interesse sessuale di lui, comincia ad addolorarlo, a perseguitarlo, a piangere. Lui nega tutto, non ha amanti, a volte è stanco ma le vuole bene, vuole stare con lei, del sesso poco gli importa.

Conosce il valore del rapporto, sta vicino e rassicura ma la bestia ormai è scattata e alla fine si trova una labile traccia di nessun conto, un paio di orecchini sconosciuti nella macchina di lui, di cui lui non sa nulla, ma la donna non si rassegna perché questa piccola ombra basta a intaccare il mito della perfezione, della perfetta condivisione. E da lì arriva in consultazione chiedendo se sia il caso di rompere la relazione perché forse non vale la pena di continuare convivendo con sospetti e con un uomo che non ha adeguato rispetto per l’armonia perfetta che si desiderava e che si sperava di avere impostato. È solo grazie alla infinita pazienza, affetto disponibilità del marito che il matrimonio si è salvato. Egli si è preso per mesi l’incarico di rincuorare, consolare, scusarsi e difendere la storia senza mai stancarsi e convincendo alla fine la moglie del fatto che non avrebbe accettato tanto di buon cuore che lei se ne andasse.

Mariti così sono rari, è facile che le coppie di fronte ad attacchi così determinati si rompano.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

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