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La relazione fra frequenza dei rapporti sessuali e benessere psicologico

Chi fa più sesso è più felice? L’opinione comune e i media affermano che sia così e non mancano in letteratura i dati a sostegno di questa tesi. Un recentissimo studio dell’Università di Toronto, tuttavia, sembra delineare una realtà almeno in parte diversa.

Analizzando un campione di oltre trenta mila soggetti, i ricercatori hanno esaminato la correlazione tra frequenza dei rapporti sessuali e benessere psicologico. I risultati smentiscono il luogo comune che vede i rapporti sessuali come inesauribile fonte di benessere: così come accade per la maggior parte delle attività piacevoli, oltre una certa soglia all’incremento dell’attività non corrisponde un incremento del benessere. Un po’ come avviene, per esempio, con le attività di socializzazione: uscire qualche sera alla settimana è considerata un’attività piacevole dalla maggior parte delle persone, ma molti concorderebbero nell’affermare che vedere gli amici tutte le sere rischia di stressare più che divertire.

In particolare, lo studio rileva un’associazione curvilinea tra le due variabili, affermando che a rapporti più frequenti corrisponde maggiore benessere, ma la correlazione scompare quando si supera la frequenza di una volta a settimana. Con una precisazione: il quadro delineato riguarda gli individui coinvolti in relazioni affettive stabili e i rapporti sessuali che hanno luogo all’interno di queste relazioni, mentre per i single non è stata registrata alcuna correlazione significativa. A fare la differenza tra le due categorie, forse, ci sarebbe il legame tra frequenza sessuale e soddisfazione per la relazione, a sua volta significativamente correlata al benessere psicologico degli individui coinvolti in legami affettivi.

Ma come spiegare l’assenza di benefici ulteriori quando la frequenza è superiore ad una volta a settimana?
Nel cercare una risposta al quesito, si tenga a mente che la maggior parte delle coppie ha rapporti proprio con cadenza settimanale. È possibile che le persone coinvolte in relazioni affettive stabili abbiano rapporti una volta a settimana perché hanno riscontrato, sulla base della propria esperienza, che in questo modo traggono il massimo beneficio dall’intimità di coppia. È tuttavia possibile anche l’opposto: il benessere psicologico potrebbe essere associato alla frequenza settimanale dei rapporti con il partner perché è ciò che fa la maggior parte delle coppie e, dunque, si esce indenni dal confronto sociale. Ulteriori studi permetteranno un approfondimento della questione, ma resta un dato interessante: al contrario di quanto si tenda a pensare, nella gestione quotidiana di un lavoro, di una famiglia e di una casa, preservare uno spazio per l’intimità di coppia è fondamentale, ma l’equilibrio e il rispetto delle proprie esigenze è parimenti indispensabile. Perché, come dicono gli autori, more is not always better.

Applicazioni cliniche della Teoria polivagale di Porges – Report dal convegno

Lo scorso 28 novembre l’istituto Feel Safe ha organizzato una giornata di approfondimento in cui la dott.ssa Gabriella Giovannozzi ha esaminato le ricadute, nella pratica clinica, della Teoria polivagale elaborata da Stephen Porges.

Tale teoria offre una chiave di lettura per comprendere il malessere dei pazienti in un’ottica relazionale, mettendo l’accento sui meccanismi fisiologici implicati nel processi di adattamento all’ambiente. In questo quadro, un intervento clinico efficace deve essere in grado di favorire, nel paziente, la percezione dell’ambiente come sicuro, in modo da determinare una condizione di benessere fisico e mentale che si traduce nella capacità di saper regolare il proprio stato psicofisiologico.

La sicurezza rappresenta, infatti, una condizione essenziale affinché una persona possa stare bene e guarire: senza sicurezza non ci può essere né relazione, né regolazione, perché senza sicurezza la nostra energia, il nostro metabolismo e il nostro battito cardiaco sono impegnati nella difesa. Come ci possono essere, quindi, benessere, crescita e guarigione se non c’è sicurezza? Tradotto in termini clinici ciò significa che quando lavoriamo con un paziente la nostra prima preoccupazione, il primo requisito di ogni operazione terapeutica, dovrebbe essere quella di creare una condizione di sicurezza, non solo rispetto a passato, ma anche e soprattutto nel presente del contesto terapeutico (setting e relazione).

La Teoria polivagale ripensa il funzionamento del Sistema Nervoso Autonomo non in termini di antagonismo tra il sistema simpatico e parasimpatico, bensì in termini di gerarchie di risposta; un aspetto molto importante è l’esistenza di un ramo mielinizzato del parasimpatico (detto nervo vago mielinizzato o ventrovagale) che funge da sistema di regolazione e origina in un’area del tronco encefalico denominata nucleo motorio del vago.

Il nervo vago è costituito da una famiglia di nervi (da qui il nome di teoria polivagale): il ramo dorsovagale e il ramo ventrovagale, a sua volta suddiviso in due componenti, una componente viscero motoria, che regola le viscere al di sopra del diaframma (cuore e respiro), e una componente somatomotoria, che regola i muscoli del collo, della faccia e della testa (il sorriso, il contatto oculare, la vocalizzazione, l’ascolto), in altre parole tutto ciò che è implicato nell’interazione sociale verso cui noi mammiferi siamo orientati in condizioni di sicurezza.

Il primo circuito che compare (il più arcaico filogeneticamente) è quello denominato dorsovagale, osservabile nei rettili e nei mammiferi superiori; è collegato con la regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto del diaframma. Si attiva in condizioni di pericolo estremo, creando uno stato di rallentamento che arriva fino all’immobilizzazione (la difesa dei rettili), e determina, quindi, uno stato di immobilità che non nasce da una condizione di sicurezza, bensì da estrema paura. Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione con paura è collegata all’ottundimento mentale e alla perdita del senso di controllo e le emozioni sottostanti sono tristezza, disgusto, imbarazzo e, ovviamente, paura.

Quando il circuito dorsovagale è attivo riscontriamo, nella persona, uno stato di prostrazione: muscoli flaccidi, sguardo perso nel vuoto, cuore bradicardico e movimento del collo all’indietro (il movimento della tartaruga, come a volersi nascondere). Il corpo è stanco e pesante e tende al movimento verso il basso; si verifica un rallentamento delle risposte muscolari e scheletriche con riduzione dell’apporto di ossigeno. Lo stato dorsovagale si associa frequentemente a condizioni depressive.

Uno stadio filogenetico successivo ha portato allo sviluppo del sistema simpatico, che regola la capacità metabolica e il battito cardiaco, ossia tutte quelle reazioni che, a livello fisiologico, sono collegate al meccanismo di attacco-fuga, la reazione di difesa elettiva del mammifero di fronte al pericolo; il sistema simpatico, quando si attiva, inibisce il tratto gastrointestinale, che è molto dispendioso in termini energetici (se devo difendermi da un pericolo la digestione passa in secondo piano…). L’attivazione del sistema simpatico è osservabile attraverso uno stato di mobilizzazione: aumentano le tensione muscolare, l’ossigenazione , la vasocostrizione e la frequenza del battito cardiaco; l’energia fluisce verso l’avanti e verso l’alto, la mandibola si serra. In questo caso, le emozioni sottostanti sono la paura e la rabbia.

Lo stadio filogenetico ancora successivo ha portato allo sviluppo del circuito ventrovagale, che è specifico dei mammiferi superiori e dell’uomo; si tratta di un circuito che ha un effetto calmante e frenante, perché frena l’attività del simpatico; il battito cardiaco decelera, ma, in questo caso, si tratta di un’immobilizzazione senza paura, in assenza di pericolo. Quando la persona è in uno stato ventrovagale il battico cardiaco rallenta (ma non è la bradicardia dovuta alla paura, come avviene nello stato dorsovagale), il respiro diventa più lento e profondo, avviene la modulazione dei muscoli dell’orecchio medio (che migliora la capacità di prestare ascolto e comprendere) e possiamo osservare movimenti armonici del collo e della testa.

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Applicazioni cliniche della Teoria polivagale di Porges – Report dal convegno_testo

Il sistema di autoregolazione parte, quindi, da un sistema primitivo di inibizione (il sistema rettiliano), si affina, nel corso dell’evoluzione, con il sistema di attacco-fuga, e culmina in un sistema sofisticato di ingaggio sociale mediato dalle espressioni facciali e dalla vocalizzazione.

Come conseguenza, un individuo in interazione sociale può stabilizzare la sua condizione neurofisiologica: se l’ambiente viene percepito come sicuro le risposte di difesa vengono inibite e la condizione di sicurezza che deriva dalla relazione si riflette nelle sensazioni viscerali.

Quando un paziente viene da noi terapeuti, che lavoriamo con la relazione, dovremmo sempre domandarci come possiamo strutturare questa relazione terapeutica in modo da offrire un contesto sicuro; in linea di massima, noi facciamo questo dando la nostra disponibilità, con la coerenza del setting che offre contenimento, mettendo a disposizione la nostra conoscenza e le nostre tecniche. Questo discorso diventa ancora più importante quando si lavora con i bambini, intervenendo sulle relazioni d’attaccamento, che rappresentano il luogo in cui si costruisce la sicurezza e quando ci si confronta con le tematiche dell’adozione e dell’affido, che non sono altro che una nuova opportunità, che viene data all’essere umano, di costruirsi sicurezza.

A livello diagnostico è importante fare una mappatura delle reazioni del sistema nervoso autonomo del paziente, ponendole su un continuum, mettendo sulla sinistra la condizione di ipoarousal estremo dovuto all’attivazione del circuito dorsovagale, passando poi per l’iperarousal dovuto all’attivazione del sistema simpatico, per arrivare ad uno stato ventrovagale che riflette sicurezza; torna utile individuare quale sia lo stile abituale di attivazione del paziente.

Di fatto, sia con i bambini che con gli adulti è importante lavorare su quello che accade dopo che la persona ha subito un trauma o una serie di traumi minori che hanno cumulato i loro effetti: la neurocezione, ossia capacità di valutare l’ambiente come sicuro o pericoloso, è compromessa, nel senso che si continua ad avere, a livello corporeo, la percezione di minaccia, di essere in pericolo. In questo quadro, è essenziale restituire al paziente un senso di sicurezza che passi anche attraverso le sensazioni corporee: se è attivo il circuito dorsovagale si cerca di stimolare l’energia riportandola verso l’alto e l’esterno (far alzare in piedi la persona, farla spingere o afferrare qualcosa, stimolare braccia e gambe, assecondare i movimenti, anche molto piccoli, di reazione attiva); se, invece, c’è un’attivazione eccessiva del sistema simpatico si cerca di riportare l’energia verso il basso (ad esempio attraverso il sentire il contatto con il terreno, ossia il grounding) valorizzando le sensazioni di autoregolazione.

Lo stato dorsovagale e lo stato di attivazione del sistema simpatico, nella loro apparente antiteticità, sono accomunati dal fatto che la persona si sente in pericolo e questo non le consente di coinvolgersi in una serena interazione sociale, dato che l’organismo sta fronteggiando una minaccia. Il nostro sistema nervoso autonomo è evoluto per passare rapidamente dalla condizione di coinvolgimento sociale (sicurezza -circuito ventrovagale attivo) ad una di reazione per affrontare un pericolo (minaccia – sistema simpatico attivo); se il pericolo viene meno la persona ritorna ad uno stato di regolazione, se persiste si attiva uno stato dorsovagale, associato a pericoli estremi, in un continuum che va dalla sicurezza all’immobilizzazione.

Possiamo individuare un altro stato ibrido denominato stato di freezing, che si colloca su una linea di confine quando, in presenza di una minaccia costante, la reazione simpatica sta lasciando il posto ad una reazione dorsovagale; è un blocco vigile, caratterizzato da completa cessazione del movimento ad eccezione della respirazione e dei movimenti oculari, frequenza cardiaca sostenuta, muscoli rigidi e tesi, acutezza sensoriale. Si tratta di uno stato di congelamento vigile, in cui si prova forte paura e si comincia a dissociarsi dalle sensazioni corporee, per ridurre la sofferenza emotiva.

Il passaggio opposto, quello da uno stato dorsovagale ad una attivazione del sistema simpatico (dall’immobilizzazione alla mobilizzazione), o da uno stato dorsovagale ad uno ventrovagale presuppongono una risalita più difficile da attuarsi: il sistema nervoso autonomo è configurato per scendere facilmente, non altrettanto facilmente per risalire verso una condizione di autoregolazione correlata ad uno stato di sicurezza. Di conseguenza, accade che il sistema nervoso di una persona che ha subito un trauma sia intrappolato nello stato di allerta dorsovagale o simpatico, come se il pericolo fosse sempre in atto, perdendo la propria flessibilità.

Possiamo aiutare il paziente a riagganciare le sensazioni corporee, conducendo un processo esplorativo volto ad aumentare la consapevolezza delle proprie sensazioni corporee e delle emozioni connesse, per ricreare uno stato di regolazione e permettergli di uscire dallo stato dorsovagale facendo, ad esempio, il confronto tra la situazione traumatica e il presente della situazione terapeutica, procedendo con molta gradualità.

Per, invece, far uscire il paziente dal freezing (in cui il sistema simpatico è attivo, ma in termini di paura) l’attenzione va spostata al dopo (cosa è successo dopo l’evento traumatico?) e dobbiamo fare attenzione, perché se ci limitiamo ad attivare il sistema simpatico rafforziamo lo stato di freezing; vi sono, inoltre, persone che sono in una costante agitazione dovuta ad attivazione del sistema simpatico, perché continuano a percepire un pericolo che non c’è oppure perché si aggrappano a questo stato come estrema difesa per non cadere in una reazione dorsovagale (un’agitazione apparente, in parole povere si difendono dall’abbattimento e dalla tristezza con l’eccitazione eccessiva).

In tutti i casi sopradescritti noi, in qualità di terapeuti, cerchiamo il più possibile di lasciare fuori il contenuto, il racconto dell’esperienza traumatica, concentrandoci sul presente, sul qui e ora, e sulle sensazioni corporee; l’obiettivo finale da porsi è arrivare a riattivare il sistema ventrovagale.

Il circuito ventrovagale ci permette, quando siamo in condizione di sicurezza, di promuovere altra sicurezza; noi intercettiamo questi segnali attraverso l’interazione sociale, decodificando in modo istintivo messaggi che derivano dal contatto oculare e dalla voce, inviando segnali di risposta, entrando in relazione e promuovendo l’autoregolazione delle sensazioni fisiologiche.

Per attivare il circuito ventrovagale abbiamo a disposizione anche alcuni espedienti, che agiscono a livello corporeo e hanno un effetto regolante:

  • Lavorare sul respiro (inspirazione corta, espirazione lunga, senza forzare per non andare in iperventilazione), incluso il canto (perché è un’attività che induce il respiro lungo) e il canto corale, che presuppone anche la necessità di sintonizzarsi con gli altri;
  • Esercizi di coerenza cardiaca (respiri lunghi, immaginando il cuore al centro, respiro che “culla il cuore”)
  • Musica ad alta frequenza (che ha un’influenza regolante sul circuito ventrovagale).

Possiamo utilizzare L’EMDR non solo per andare ad intervenire sulle esperienze traumatiche in senso stretto, ma anche su tutto ciò che è portatore di difficoltà, incluse le persone con cui il paziente ha relazioni problematiche.

L’obiettivo è, in generale, condurre il paziente a sperimentare sensazioni corporee e vissuti positivi, in modo che acquisti confidenza e familiarità con uno stato di regolazione. Si cerca di traghettare il paziente da sensazioni ed emozioni negative e sensazioni corporee ed emozioni positive, insegnandogli a riconoscere le sensazioni piacevoli; si tratta di un lavoro che richiede tempo e gradualità.

Molto importante è anche il contatto oculare, che rappresenta anche la via maestra attraverso cui il bambino apprende dal caregiver i comportamenti di regolazione; un buon contatto oculare presuppone una microregolazione continua (il contatto deve esserci senza essere, però, prolungato ed eccessivo), come, ad esempio, i contatti oculari brevi, non forzati e con una intensa coloritura affettiva osservabili nella relazione madre-bambino quando siamo in presenza di un attaccamento sicuro.

Possiamo spiegare ai nostri pazienti l’importanza del contatto oculare, renderli consapevoli di eventuali disregolazioni nelle loro modalità di contatto oculare, legittimando anche il bisogno di evitare il contatto, quando vissuto come troppo intenso; possiamo scegliere di non adottare un contatto oculare diretto, che può essere vissuto come intrusivo. Tutto ciò aiuta il paziente ad diventare più consapevole dei propri vissuti e influisce positivamente sulle sue capacità di regolazione.

In ultima analisi, è importante procedere lentamente, avendo cura di effettuare una corretta processazione: se partiamo da una cognizione negativa dobbiamo arrivare ad una cognizione positiva e, di conseguenza, alle sensazioni ed emozioni positive correlate; viceversa, se partiamo da una sensazione corporea negativa dobbiamo arrivare ad una sensazione positiva e all’emozione e alla cognizione positiva correlata.

Relazioni pericolose: la violenza domestica ed i meccanismi di mantenimento

Il modello delle Zone Individuali di Funzionamento Ottimale: la prestazione sportiva dal punto di vista dell’atleta

Alessandro Martinelli – OPEN SCHOOL Sudi Cognitivi Modena

Le pressioni esterne, le nostre aspettative, quelle dei compagni o genitori sono aspetti che esercitano un’influenza sulla prestazione sportiva, amatoriale o professionistica che sia. Ma in che modo? Perché, ad esempio, un atleta nelle difficoltà e nella pressione esterna rende di più, mentre un altro di meno?

Le emozioni sono definite da Galimberti (2006, p.358) come una:

Reazione affettiva intensa con insorgenza acuta e di breve durata determinata da uno stimolo ambientale. La sua comparsa provoca una modificazione a livello somatico, vegetativo e psichico.

Queste influenzano la nostra performance, ma in che modo lo fanno? Il pattern di emozioni che contraddistinguono il nostro successo, o il nostro insuccesso, sono strettamente individuali o hanno aspetti uguali per tutti gli individui?

Nell’ambito della psicologia dello sport, a partire dagli anni ’80 in poi, le ricerche di tipo nomotetico hanno lasciato il passo a quelle di tipo idiografico (Manili & Palange, 2013).

Mentre il primo approccio studia i fenomeni secondo regolarità e cercando gli elementi generali, il secondo si propone di delineare i nessi di influenza delle emozioni su un piano individuale e specifico per ogni atleta. Le emozioni infatti rivestono una parte importante nella prestazione sportiva, sia come fattore inibente che come fattore facilitante, e molto dipende dalla valenza che gli viene attribuita dall’individuo.

Questo è alla base del Modello teorico delle Zone Individuali di Funzionamento Ottimale (Individual Zones of Optimal Functioning; IZOF) proposto da Hanin (1995) secondo il quale ogni atleta possiede la sua zona ideale di ansia in cui riesce a realizzare prestazioni ottimali, dove raggiunge il peak performance. L’ansia è definita uno stato di aumentata vigilanza contrassegnata da un’elevata attivazione emotiva (arousal), definita da Hanin (2000) come il grado e l’intensità con cui viene vissuta una determinata emozione. In generale, l’ansia permette all’individuo di anticipare la percezione di un eventuale pericolo prima che questo sopraggiunga, attivando specifiche risposte che spingono da un lato all’identificazione della strategia più adeguata per affrontarlo, dall’altro, all’evitamento e all’eventuale fuga.

L’acronimo IZOF sintetizza i seguenti concetti (Hanin, 1980):

  • Individual: rappresenta la zona di funzionamento ottimale. Questa risulta essere specifica ed individuale per ogni persona. Un determinato livello di ansia può essere funzionale o disfunzionale a seconda della caratteristiche personali dell’atleta, della disciplina praticata e del tipo di gara o competizione in cui si verifica;
  • Zone: si intende un’ area di valori al di fuori della quale la prestazione decade, mentre all’interno di questa si ottiene la prestazione migliore;
  • Optimal Functioning: ogni atleta esprime un livello di attivazione emotiva ottimale che risulta funzionale al raggiungimento della prestazione più elevata.

Il modello IZOF (Hanin, 1997, 2000) si colloca in un framework intra-individuale che ha lo scopo di descrivere, prevedere, spiegare e controllare le esperienze, ottimali e disfunzionali, dell’atleta in relazione alla performance individuali di successo e insuccesso.

Il modello è stato esteso non solo all’ansia, ma le zone di funzionamento ottimale hanno preso in considerazione il vissuto idiosincratico delle emozioni, per esaminarne gli effetti sulla performance sportiva (Hanin, 1997). Tale approccio si rivela così orientato all’azione ed in grado di fornire strumenti per concettualizzare e valutare con precisione le prestazioni in relazione a esperienze soggettive, pattern emozionali relativamente stabili e meta-esperienze per lo sviluppo di programmi individualizzati di autoregolamentazione (Hanin, 2003).

L’approccio indicato da Hanin (1997), consente quindi di analizzare in termini qualitativi e quantitativi l’esperienza emozionale soggettiva, permettendo di valutare quali emozioni caratterizzano le prestazioni migliori e peggiori, qual è la loro intensità e di prevedere quale effetto producono sulla prestazione sportiva le emozioni provate dall’atleta prima della competizione (Manili & Palange, 2013). In questo modello, il contenuto delle emozioni è stato concettualizzato in due fattori, indipendenti ma strettamente collegati: la tonalità edonica (positiva-negativa e piacevole-spiacevole) e l’effetto funzionale delle emozioni sulla prestazione sportiva (facilitante-inibente).

Le emozioni in tale modello sono ritenute unipolari, non variano quindi lungo un continuum che va da piacevole a spiacevole, ma sono ritenute separate. Ogni emozione, piacevole o spiacevole, positiva o negativa che sia, è separata dalla altre e può soggettivamente variare da un minimo ad un massimo.

Dall’interazione dei due fattori, tonalità edonica ed effetto funzionale, si derivano così quattro categorie di emozioni:

  • Piacevoli – facilitanti (positive – funzionali: P+);
  • Spiacevoli – facilitanti (negative – funzionali: N+);
  • Spiacevoli – inibenti (negative – disfunzionali: N-);
  • Piacevoli – inibenti (positive – disfunzionali: P-).

Queste 4 categorie sono di importanza cruciale all’interno del modello IZOF per prevedere l’effetto delle emozioni sulla prestazione e per comprendere e descrivere l’esperienza dell’atleta prima, durante e dopo la prestazione. Le emozioni possono dunque esercitare effetti totalmente diversi, benefici o meno in relazione al significato soggettivo e alla loro intensità.

Per Hanin le emozioni agiscono sulla nostra prestazione attraverso meccanismi di produzione e di utilizzo dell’energia necessaria per seguire il compito: quanta energia ho per questo compito/prestazione e come la utilizzo (Hanin 2000, D’Urso, Petrosso & Robazza, 2002a).

Il termine energia descrive aspetti sia psicologici che fisici, come ad esempio vigore, vitalità, intensità nel funzionamento mentale, persistenza nello sforzo, determinazione nel conseguire obiettivi personali. In questa prospettiva, emozioni piacevoli – facilitanti (P+) aiutano il soggetto a mobilitare e organizzare le funzioni motorie; emozioni spiacevoli e facilitanti (N+) servono soprattutto per la produzione di energia più che per il suo utilizzo. Emozioni piacevoli ma inibenti (P-) causerebbero una perdita di energia o un’inefficace utilizzazione delle risorse a disposizione, mentre quelle spiacevoli ed inibenti (N-) determinano una inadeguata generazione e utilizzazione di energia.

Come anticipato, i metodi idiografici sembrano essere quelli più appropriati a rilevare i patterns individuali delle emozioni ed il loro effetto, inibente o facilitante, sulla prestazione sportiva. Hanin ha sviluppato una procedura nella quale l’atleta viene messo al centro, che utilizza scale di misura formate da items che lui stesso genera, con la certezza quindi di avere descrittori di emozioni strettamente personali. Anche Cei (1998) sottolinea l’importanza di determinare tale zona attraverso un’intervista agli atleti, in cui vengano esplorati quali sono le emozioni piacevoli/spiacevoli che svolgono un’azione facilitante o inibente sulle loro prestazioni, con quale intensità si manifestano e come variano le singole emozioni.

Agli atleti è stato quindi chiesto di identificare items facilitanti (piacevoli e spiacevoli) ed inibenti (positivi e negativi) con l’aiuto di due liste distinte, una di aggettivi piacevoli e una con aggettivi spiacevoli ricavati dal lavoro di Watson e Tellegen (1985). Il Profilo emozionale viene poi delineato attraverso un metodo retrospettivo, chiedendo al soggetto di rievocare le proprie prestazioni ottimali e le condizioni che conducono al successo per poi selezionare dalle liste 4-5 emozioni positive e 4-5 negative tipiche del vissuto precedente la prestazione. La stessa procedura viene ripetuta per prestazioni che sono state fallimentari o di insuccesso e per ogni stato emotivo l’atleta deve infine indicare il livello di intensità provata. Questa valutazione dovrebbe essere ripetuta includendo anche anticipazioni di come l’atleta si sentirà poco prima dell’evento sportivo successivo e sia misurazioni effettuate nel periodo pre-gara.

Il modello IZOF fu poi implementato da Hanin (2000) che incluse anche fattori fisico-motori, aspetti fisiologici, capacità condizionali, tecniche e tattiche. Il modello infatti definisce le prestazioni legate allo stato bio-psico-sociale del soggetto come manifestazione situazionale, multimodale e dinamica. Tale descrizione multi-livello comprende almeno cinque dimensioni interdipendenti (forma, contenuto, intensità, tempo e contesto), ed ognuna di queste comprende diverse componenti.

  • La dimensione della Forma comprende sette componenti fondamentali: cognitiva, affettiva, motivazionale, fisica, motoria-comportamentale, operativa e comunicativa. In altre parole sotto la dimensione della forma vengono elencate le componenti psicologiche, quelle associate ad aspetti biologici o psicofisiologici e quelle che fanno riferimento all’interazione tra persona e ambiente.
  • La dimensione Contenuto è una caratteristica qualitativa dello stato delle prestazioni, che come abbiamo visto distingue le emozioni in piacevoli-facilitanti; spiacevoli-facilitanti; spiacevoli-inibenti; piacevoli-inibenti.
  • La dimensione Intensità che concerne vigore, vitalità e persistenza nello sforzo, può sia inibire che facilitare la prestazione sportiva.
  • La dimensione Tempo comprende componenti come durata, frequenza, cicli di lavoro, fasi. Gli stati emotivi degli atleti posso essere considerati prima della gara, durante e dopo.
  • Infine la dimensione Contesto è una caratteristica ambientale che riflette l’impatto che le variabili situazionali, interpersonali, e intra-gruppo hanno sull’intensità e sul contenuto delle emozioni. Esempi di impatto situazionale sono reazioni emotive innescate da competizioni di diverso livello (locale, nazionale, e internazionale), mentre le risposte emotive interpersonali e intra-gruppo riflettono come un atleta vive le interazioni che ha con un compagno di squadra o con il suo gruppo (Hanin, 2003).

In sintesi, ci dice Hanin (2003) che le prime tre dimensioni (forma, contenuti e intensità) descrivono le esperienze soggettive e le meta- esperienze, mentre le altre due dimensioni (tempo e contesto) caratterizzano le dinamiche delle esperienze soggettive degli atleti.

Anche altri autori hanno utilizzato, prendendo spunto dalla teoria dei costrutti personali di Kelly (1955), approcci idiografici per l’assessment psicologico e la progettazione di procedure di mental training. Butler e Hardy (1992) hanno sottolineato l’importanza di considerare la percezione che l’atleta ha di sé e della sua preparazione generale ed hanno proposto il performance profile, uno strumento che identifica i punti di forza e di debolezza del soggetto partendo dalla premessa che le persone cercano di dare un senso alle loro esperienza elaborando quadri di riferimento personali (D’Urso, Petrosso & Robazza, 2002a). Con questo metodo l’atleta partecipa attivamente alla costruzione del suo profilo di prestazione delineando un quadro completo delle sue caratteristiche psicologiche, tecniche e fisiche. Gli viene chiesto di identificare qualità e caratteristiche fondamentali per il suo sport (costrutti tecnici, fisici e mentali), scegliendo quindi quelli per lui più rilevanti. Per ciascun costrutto dovrà poi dare una valutazione di se stesso da 0 (per nulla) a 10 (moltissimo) dapprima riferito alla sua condizione attuale ed in seguito rispetto alla prestazione ottimale. L’atleta avrà così uno strumento che permetterà di confrontare due profili di prestazioni differenti, uno attuale ed uno ideale, che consentono di predisporre strategie di intervento individualizzate ed adattabili all’evoluzione dell’atleta.

Il modello IZOF e il performance profile si accomunano per l’importanza che viene data all’approccio idiografico per lo studio della relazione tra stati mentali e prestazione atletica. Gli aspetti per i quali si differenziano sono invece da rintracciarsi nel tipo di fattori considerati: se infatti il modello IZOF si concentra principalmente su fattori situazionali, o stati, il profilo di prestazione si concentra su fattori relativamente stabili, o tratti.

In una ricerca di D’Urso, Petrosso e Robazza (2002b) sono stati seguiti atleti esperti di rugby per un’intera stagione al fine di confrontare il modello IZOF con il performance profile. L’ipotesi fu che le emozioni pre-competitive non fossero predittive poiché soggette a fluttuazioni anche ampie durante la gara, a differenza di quelle fisico-motorie e psicologiche che invece sono maggiormente stabili anche nel corso della competizione. Lo strumento utilizzato comprendeva sia items derivati dal modello IZOF, e quindi descrittori emozionali, che items derivati dal performance profile: costrutti fisici, tecnici e mentali soggettivi.

I risultati dimostrarono che in uno sport di squadra come il rugby costrutti psicologici e fisico-motori sono in grado di discriminare gli atleti e differenziare le prestazioni in misura superiore rispetto alle emozioni, confermando l’ipotesi che gli stati emozionali sono soggetti a diverse fluttuazioni determinate dagli eventi che si susseguono in campo mentre i fattori attitudinali, fisici e tecnici rimangono più stabili. Questo conferma come il modello IZOF sia applicabile in modo più appropriato a fattori situazionali piuttosto che a costrutti relativamente stabili (D’Urso, Petrosso & Robazza, 2002b)

I risultati empirici hanno dimostrato come il pattern di emozioni che contraddistinguono il successo o l’insuccesso sia strettamente individuale: nella procedura di Hanin è il soggetto ad attribuire effetti vantaggiosi o svantaggiosi alle emozioni, mentre la caratteristiche positive o negative sono stabilite a priori. Dal concetto di zone di funzionamento ottimale è emersa la possibilità di differenziare prestazioni buone e scadenti e di discriminare il livello di successo degli atleti in base all’intensità delle emozioni pre-gara. L’identificazione di emozioni idiosincratiche funzionali e disfunzionali è una procedura che aiuta a fare prendere coscienza all’atleta delle sue condizioni psicologiche e degli effetti che queste hanno sulla sua performance, al fine anche di migliorarne la consapevolezza e l’abilità di regolare e predire il proprio sistema emotivo prima degli eventi sportivi più importanti (Hanin, 2000b).

Il modello IZOF ha avuto l’intento di spiegare la complessa relazione bidirezionale tra le emozioni degli atleti e le loro prestazioni, poiché non solo le emozioni pre-gara influiscono sulla performance, ma anche il feedback, generato dal risultato della prestazione, andrà ad influire sulla scelta delle emozioni reputate funzionali o disfunzionali per le successive competizioni (Robazza, Pellizzari & Hanin, 2004).

Il concetto di zona se non sembra essere applicabile ai fattori relativamente stabili, può essere però utilizzato ed esteso. Infatti, l’identificazione di zone individuali di funzionamento ottimale facilita l’atleta nella definizione di obiettivi personali a breve, medio e lungo termine e nei metodi per conseguirli; l’elaborazione di un profilo di prestazione (Butler & Hardy, 1992) risulta utile per individuare i punti di forza e debolezza dell’altleta, ottenere una rappresentazione visiva di come si percepisce, identificare i fattori che per il soggetto condizionano la performance, monitorare le condizioni psicologiche momento per momento e focalizzare gli obiettivi in modo chiaro.

La zona di sviluppo prossimale nella teoria di Lev Vygotskij – Introduzione alla Psicologia Nr. 37

La zona di sviluppo prossimale è un concetto introdotto per la prima volta da Vygotskij e indica l’area in cui si può osservare cosa il bambino è in grado di fare da solo e quali sono i potenziali apprendimenti possibili nel momento in cui è sostenuto da un adulto competente.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 37)

Succede che si crea, in questo modo, una interazione tra adulto e bambino che porta allo sviluppo di capacità in ambito di apprendimento e facilita l’acquisizione di competenze.

In sostanza, la zona di sviluppo prossimale è una sorta di ponte tra le capacità di sviluppo attuali del bambino e quelle potenziali, ottenibili attraverso l’iterazione con una persona più esperta.

Piaget considerava l’apprendimento del bambino formato da una serie di stadi: il raggiungimento dello stadio successivo avviene per maturazione cognitiva e superamento di quello precedente.

Vygotskij, al contrario, considerava il bambino come dotato di un potenziale che gli permette di acquisire nuove conoscenze nel momento in cui entra in contatto con soggetti aventi una maturazione cognitiva e una cultura maggiore di quella presentata dal bambino stesso. Questo scambio di competenze avviene nella zona di sviluppo prossimale e l’aiuto e il supporto fornito al bambino da un adulto (genitore o tutor) prende il nome di scaffolding.

 

Scaffolding & zona di sviluppo prossimale

Il termine scaffolding deriva dalla parola inglese scaffold, che, letteralmente, indica “impalcatura” o “ponteggio”, ovvero attrezzi usati dagli operai per svolgere un lavoro di costruzione. Quindi, così come gli operai costruiscono una casa, l’adulto o il tutor aiuta il bambino a costruire le proprie competenze cognitive. In psicologia e pedagogia, insomma, il termine scaffolding è usato per indicare l’aiuto, il sostegno, dato da una persona competente a un’altra, per apprendere nuove nozioni o abilità (Wood, Bruner, & Ross, 1976).

Questo termine fu utilizzato per la prima volta in un articolo scritto da Wood, Bruner e Ross pubblicato dal Journal of Child Psychology and Psychiatry in cui si presentavano i risultati ottenuti da uno studio in cui si osservavano un tutor e un bambino impegnati nella costruzione di una piramide tridimensionale con blocchi di legno. I risultati evidenziarono che quando il bambino era supportato e sostenuto dal tutor era in grado di implementare e arricchire al meglio le sue capacità cognitive.

Questa posizione deriva dall’assunto che ognuno possiede un potenziale cognitivo che può essere arricchito e corredato per mezzo dell’interazione con una persona più competente. Lo spazio dell’interazione, zona di sviluppo prossimale, costituisce una area di apprendimento in cui le capacità cognitive del bambino aumentano e possono essere sviluppate delle nuove forme di conoscenza.

Inoltre, nell’articolo, gli autori evidenziano che il sostegno dato dal tutor al bambino deve essere un processo in divenire perché adattato ai progressi dell’allievo. Quindi, è un supporto costante e sempre in evoluzione che porta il bambino all’attuazione delle competenze acquisite in piena autonomia.

Collins, Brown e Newman (1995) chiamarono il processo di progressiva autonomizzazione del bambino fading.

Lo scaffolding è usato anche attualmente quando uno studente è in difficoltà nell’ambito dell’acquisizione di nuove nozioni in ambito scolastico. In molti, sempre più spesso, chiedono aiuto a persone che svolgono specificamente questo ruolo di tutor nell’apprendimento, il cui scopo finale e far diventare autonomo l’allievo nell’attuazione del metodo acquisito. In questo modo entrano in gioco sia lo scaffolding sia il fading. Alla fine dell’attuazione di queste procedure, lo studente presenterà una maggiore fiducia nelle proprie capacità cognitive e comportamentali, fino a sentirsi più esperto nel sapere in generale. Chiaramente, questa prassi porta a incrementare anche l’autostima e la fiducia in se stessi, ottima medicina per affrontare al meglio gli ostacoli della vita.

Nel XXI secolo con l’avvento della tecnologia e l’uso del computer, si è verificato un cambiamento anche nei processi di apprendimento. Infatti, la relazione tra tutor e bambino è stata mediata dall’interazione tra macchina e bambino.

Grazie a questa nuova tecnologia è possibile apprendere e immagazzinare informazione in memoria attraverso tecniche diverse dalle precedenti. Sicuramente è la nuova era dell’apprendimento e della conoscenza che porta all’acquisizione più immediata e repentina di processi. Questa nuova modalità è stata definita dimensione ‘tecnologica’ dello scaffolding (Pea, 2004). E arriviamo ai nostri giorni, l’era dei nativi digitali.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Anche gli uomini necessitano di un sostegno ostetrico e psicologico durante la gravidanza?

Negli ultimi anni c’è stata una crescente attenzione riguardo l’ansia esperita dalle donne durante il periodo perinatale. Tuttavia, questo periodo, non è solo un momento unico della vita delle madri, ma anche di quella dei padri. Ciò che è stato osservato, è che anche gli uomini possono esperire una forte ansia nel periodo perinatale, conducendo ad un forte impatto negativo su se stessi, sulle loro partner e sul bambino.

Infatti, esperienze specifiche come l’estrema stanchezza, una salute precaria del genitore o del bambino, provate durante l’attesa di un bambino possono condurre a traumi relativi alla nascita e a sentimenti di inadeguatezza come genitore. Inoltre, all’interno di una sua ricerca, Swain suggerisce che esistano specifici processi pro-neurologici e/o cognizioni paterne, che sono uniche per il cervello degli uomini con bambini piccoli, indicando quindi che il periodo perinatale può essere cognitivamente un momento unico. Tuttavia, si sa poco riguardo la prevalenza e il decorso dell’ansia maschile in questo importante periodo.

Con lo scopo di ottenere maggiori informazioni al riguardo, Leach e colleghi hanno analizzato cinque database (PubMed, PsycINFO, Cochrane, SCOPUS, e Web of Science), con lo scopo di identificare i documenti più rilevanti pubblicati prima dell’aprile 2015.
Le informazioni ottenute sottolineano come i tassi di prevalenza di un ‘qualsiasi’ disturbo d’ansia varino tra il 4,1% e il 16,0% durante il periodo prenatale e il 2,4 e il 18,0% nel periodo postnatale. Pertanto i dati esaminati suggerirebbero che il decorso dell’ansia negli uomini sia abbastanza stabile nel periodo perinatale, e che tale momento sia spesso seguito da un potenziale decremento dell’ansia in seguito al parto.

Bisogna tenere conto però, che tale risultato è frutto di un grosso limite. La presenza di ampie variazioni nella metodologia e negli strumenti utilizzati per indagare l’ansia, rendono i risultati ottenuti poco attendibili ed omogenei. Inoltre l’ansia è altamente in comorbilità con la depressione, pertanto gli strumenti che indagano entrambi i disturbi allo stesso tempo, potrebbero aver fornito dei risultati falsati per lo scopo della ricerca.

In conclusione, è possibile confermare la presenza di ansia negli uomini nel periodo perinatale. Pertanto, non solo le madri, ma entrambi i genitori dovrebbero essere tutelati da discussioni ed interventi incentrati su cure ostetriche e di salute mentale durante il periodo perinatale.

Il gioco delle parti. Guida illustrata al tuo mondo interiore (2015) – Recensione

“Il gioco delle parti” è un breve volume illustrato e indirizzato ai pazienti o a “profani” della psicologia che vogliano comprendere meglio quanto e come interagiscono le diverse parti che ci compongono.

In realtà, dal mio punto di vista, il libro offre interessanti spunti anche a professionisti della salute mentale che come nel mio caso non hanno ricevuto una formazione specifica sul modello Internal Family Systems (IFS): si tratta di un approccio sistemico applicato alla terapia individuale, che concettualizza le persone come risultato dell’intreccio di diverse parti interconnesse e a volte in conflitto fra loro.

Il modello IFS è stato proposto da Schwartz e viene in questo caso utilizzato per spiegare con un linguaggio estremamente chiaro e comprensibile e con l’aiuto di materiale illustrativo originale qual è la struttura interiore che tutti condividiamo, fatta di tante componenti. In particolare, nel libro di Tom e Lauri Holmes, il modello IFS viene combinato con diversi concetti che hanno a che fare con la natura della consapevolezza per come la troviamo nella psicologia buddhista. Ma come è fatto questo breve volume? Vediamolo insieme.

I primi due capitoli sono dedicati a un’introduzione dei concetti base del modello, ancora una volta resi estremamente intuitivi dal linguaggio immediato, dai contributi grafici, e dagli esempi concreti tratti da storie di terapie. L’autore ci spiega come ci siano due importanti livelli di consapevolezza nella nostra mente: la consapevolezza quotidiana, quella attiva in un dato momento, che viene chiamata il “soggiorno” della consapevolezza. In sostanza, si tratta della componente di noi attiva in una precisa situazione, come la componente “collega” attiva al lavoro, piuttosto che la componente “mamma” o “moglie” attiva una volta rientrati a casa.

Di fianco a questo livello di consapevolezza, anzi, al di sotto di questa, si collocano quelle che l’autore chiama le consapevolezze “di scorta”: quelle che fanno parte di noi ma che in un dato momento sono silenti, perché non appropriate alla situazione o non utili in quel particolare frangente. Non servirebbe fare “entrare nel soggiorno” della consapevolezza la parte “moglie” quando si è in ufficio, così come attivare la parte “manager” una volta rientrati a casa potrebbe essere controproducente. Ma le diverse componenti non si caratterizzano semplicemente per ambito di competenza, e qui nascono i problemi. Perché se fosse questione di competenze e di tempistiche, sarebbe sufficiente mettere le componenti non utili in stand-by e riattivarle una volta che si creino le condizioni adeguate. Invece, le componenti sono trasversali, e includono per esempio anche la parte critica, la parte interessata o la parte analitica: va da sé che non è così semplice capire quando è utile che si attivi una componente piuttosto che un’altra.

Uno dei concetti che l’autore chiarisce da subito è che [blockquote style=”1″]ognuna delle nostre parti interpreta le percezioni a suo modo. Ognuna ha una propria concezione del mondo e pertanto l’approccio con cui affrontate l’esperienza della vostra vita varia molto a seconda della parte di voi che, di volta in volta, emerge nel soggiorno. [/blockquote] È il motivo per cui se una cosa ci viene detta sul lavoro o quando siamo in una modalità “lavoratrice” ha un peso diverso da una cosa detta in un contesto informale, per esempio in modalità “amica”. L’altra cosa da tenere a mente è che ogni parte di cui siamo composti ha un proprio compito nel nostro sistema. Tutto serve, altrimenti darwinianamente parlando, si sarebbe già estinto; bisogna però capire a cosa serve.

Un’altra informazione che ci aiuta a capire meglio cosa siano queste parti è la loro forma; allora impariamo che ogni parte ha quattro diverse dimensioni: sensoriale, emotiva, verbale e immaginativa. Come facciamo quindi a “funzionare” correttamente con questo stuolo di parti che balla il cancan? Qui entra in gioco il Sé, che è [blockquote style=”1″]la parte centrata di noi stessi, tramite la quale possiamo accedere alle parti appropriate nel momento in cui ci servono. [/blockquote]Diciamo che se le nostre parti fossero dei programmi su un computer, il Sé sarebbe il menu principale, che permette di dare uno sguardo complessivo e al contempo di decidere e attivare una specifica parte in uno specifico momento. Come facciamo a centrarci? Sembra che il primo passo sia prendere consapevolezza delle parti centrali del nostro sistema, cosa che viene sollecitata nel libro anche grazie ad alcune schede di lavoro alla fine di ogni capitolo. Secondo gli autori, [blockquote style=”1″]quando siamo nel Sé, siamo calmi e compassionevoli; siamo animati dalla curiosità, dalla chiarezza, dalla fiducia, dalla creatività, dal coraggio e dalla connessione.[/blockquote] Stare nel Sé ci serve per osservare ogni parte e trattarla con gentilezza e accettazione; inoltre, il dialogo tra le parti e il Sé è il concetto fondamentale della terapia delle parti (che ha come obiettivo riportare il Sé in primo piano): è solo dialogando con il Sé che ogni parte può iniziare a [blockquote style=”1″]accantonare i propri comportamenti estremi e assumere una funzione utile per il sistema.[/blockquote]

Andando avanti con la lettura, l’autore chiarisce meglio da dove nascono le parti che ci compongono, sottolineando come si siano tutte sviluppate per rispondere a delle esigenze fisiche, psicologiche o sociali, e come abbiano tutte un’intenzione fondamentalmente positiva. Abbiamo tutti delle parti fisiche e di sopravvivenza, come la parte di accudimento, la parte spaventata e la parte arrabbiata; inoltre, ci sono parti che ci aiutano ad adattarci e a partecipare alla vita sociale, come le parti di autocontrollo e le parti normative, ma anche le parti ribelli; vi sono poi le parti gestionali, che ci servono per “funzionare” nella vita di tutti i giorni, lavorativa e organizzativa, che ci permettono di essere (chi più e chi meno) multitasking. Attenzione però: se è vero che ci sono diverse parti, tutte tendenzialmente con intenzioni positive, e tutte sotto l’egida del Sé, come interagiscono queste parti tra loro? Perché è probabile che alcune siano in conflitto, e che diverse componenti competano tra loro per ricevere la nostra attenzione e per essere soddisfatte nei loro bisogni. Non solo: spesso alcune parti si coalizzano tra loro, per raggrupparsi nel nome di una missione superiore positiva (come mantenere la persona in salute) o negativa (come mantenere la persona in una condizione di sofferenza che però sembra essere utile a altro: il famoso beneficio secondario del sintomo). Queste coalizioni sono formate da parti che condividono un determinato obiettivo per il sistema, e questo non è per forza un male: tuttavia, le coalizioni divengono problematiche quando sono rigide nella forma e nelle loro intenzioni e azioni.

Come si risolvono i conflitti tra le parti? Con la negoziazione. Penso che questo sia uno dei concetti più interessanti del libro, perché permette di capire molto bene come la soluzione non sia eliminare delle componenti, o non ascoltarle. L’autore fornisce diversi esempi di quanto non ascoltare una parte possa portare solo a farla urlare ancora di più. Il modo per farla stare tranquilla, invece, è ascoltarla, comprendere il suo punto di vista e utilizzarlo per arrivare a un’azione condivisa e negoziata tra tutte le parti interessate e presieduta dal Sé. Questo avviene tramite l’inizio di un dialogo interiore, che apre la strada verso il compromesso in cui i bisogni fondamentali di tutte le parti sono ascoltati: [blockquote style=”1″]Poiché parti differenti hanno ruoli differenti, per rispondere a bisogni differenti del nostro sistema, è naturale che sorgano conflitti quando occorre mediare tra necessità e paure che sono in competizione. Il fatto di portare la consapevolezza del Sé nel processo ci consente di risolvere questi conflitti, poiché essere nel Sé ci consente di ascoltare tutte le parti. Una volta comprese le intenzioni positive di una parte, paziente e terapista possono aiutarla a capire come ciò che sta facendo ora non sia utile, per poi aiutare il sistema a tornare in equilibrio.[/blockquote]

Il modo per ridimensionare una parte che in una determinata situazione sta urlando qualcosa e sta prendendo possesso del salotto è aiutare questa parte protettiva ad avere fiducia nel Sé, riconoscendo il suo valore nella protezione del sistema e insegnandole che ora il sistema non è più in pericolo perché possiede nuove risorse.

Una terza sezione molto interessante del libro riguarda il modo in cui le nostre parti interne entrano in relazione con le parti interne altrui, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche di coppia. Gli autori parlano delle dinamiche ripetitive che spesso compongono i copioni nelle coppie, proponendo una struttura, a “Z”: le raffigurazioni cicliche non sembrano adatte, visto che a ogni risposta di un componente della coppia non entra nuovamente in gioco la parte iniziale dell’altra componente, ma una parte che viene richiamata da quella altrui. In questo modo, si creano delle dinamiche a staffetta in cui ogni parte di un membro della coppia tende a richiamare una specifica parte del partner, che a sua volta ne attiva una nuova del primo, e così via. Inoltre, le coppie spesso si etichettano in modo negativo descrivendo l’altro membro con caratteristiche stabili e negative, come “sei sempre…” o “non sei mai…”. Secondo gli autori “sono le parti protettive di una persona a etichettare l’altra persona normalmente per proteggere le parti vulnerabili del proprio sistema interiore. Quando si riesce a parlare con queste parti, dando loro modo di farsi ascoltare dal Sé, normalmente esse sono in grado di contenere il proprio atteggiamento difensivo. Così, possiamo trovare dei modi sicuri per comunicare agli altri le esigenze di queste parti.

La quarta parte del libro riguarda un altro importante tipo di parti: gli esiliati. Si tratta di quelle componenti che non hanno mai accesso al soggiorno, ma vengono continuamente rinchiuse in un angolo perché ritenute socialmente non accettabili oppure perché causano dolore evocando il ricordo di esperienze traumatiche. Per evitare che ciò succeda, entrano spesso in campo altre parti, chiamate i “vigili del fuoco”, comportamenti autodistruttivi che bloccano temporaneamente il dolore che sarebbe causato dagli esiliati. Rientrano in questa categoria esperienze puramente sensoriali, come le abbuffate che troviamo nelle pazienti bulimiche o i comportamenti autolesivi nelle pazienti borderline. Anche in questo caso, secondo gli autori, il percorso di miglioramento parte dalla centratura nel Sé che consente il riconoscimento prima dei vigili del fuoco e in seguito del loro tentativo di proteggere il sistema dal dolore, per poi consultandosi con lui trovare altre modalità tutelanti che non implichino solo un sollievo a breve termine. A questo punto, il paziente potrà incontrare gli esiliati alla presenza del Sé, con la capacità di stare a sentire le storie di queste parti senza per questo sentirsi sopraffatto dal dolore.

Infine, il libro si conclude con una connessione alla vita interiore e con un’ampia riflessione sul ruolo delle esperienze spirituali nel processo terapeutico, che mira a creare un armonioso dialogo tra le parti, sempre nella prospettiva di un Sé coerente.
Personalmente trovo che questo libro sia molto utile, soprattutto nella chiave divulgativa in cui è stato pensato. In una tendenza generale a teorizzare tutto e con una propensione a trovare parole difficili per spiegare cose semplici, credo invece che un approccio che riporta alla semplicità e che permette al paziente di comprendere meglio come sta funzionando sia molto utile. Raffigurarsi se stessi come un salotto, che ospita di volta in volta personaggi differenti, può essere utile per comprendere sia la molteplicità di caratteristiche che ci contraddistinguono, sia contemporaneamente il file rouge che le unisce, nel tentativo di aumentare la coerenza interna del sistema e la sua flessibilità nelle diverse situazioni. Gli psicologi e i terapeuti lavorano con la parola, che nasce come mezzo per comunicare e per comprendersi. Sono quindi personalmente dell’idea che più le parole (e in questo caso anche i disegni) possiedono questa funzione comunicativa, più sia interessante condividere queste parole con i pazienti e dare modo a loro per primi di comprendere con relativa semplicità la struttura del sistema, potendolo così identificare e gestire in modo più proficuo.

Prestare soccorso per ricevere amore: la sindrome della crocerossina

La crocerossina può esistere solo se vi è qualcuno da curare, non a caso queste persone scelgono e mantengono relazioni affettive con compagni che, per diversi motivi, rivestono il ruolo di bisognosi.

Sicuramente la maggior parte delle persone conoscerà bene la favola di Peter Pan e le sue avventure insieme alla sua amica Wendy. Quest’ultima è una bimba di dieci anni, ma le condizioni di vita l’hanno portata a comportarsi come un’adulta, la quale si prende cura dell’amico Peter conservandogli amorevolmente l’ombra affinché non si sgualcisca. E non solo: accetta di accompagnare il suo Peter, bimbo spensierato e immaturo, nelle sue peripezie prendendosi cura di lui, e al contempo supporta e accudisce anche tutti i bambini sperduti dell’isola che non c’è, insegnando loro le buone maniere ed essendo contenta di far questo. Lei fa di tutto per gli altri e questo la rende felice.

Ed è proprio al personaggio di Wendy Darling, della nota favola di J. M. Barrie, che ci si è ispirati per dare un nome ad una famosa sindrome: la Sindrome di Wendy, o meglio conosciuta come Sindrome della Crocerossina. La Sindrome di Wendy colpisce soprattutto le donne (ma non ne sono immuni gli uomini) le quali mostrano comportamenti particolarmente accudenti, protettivi, orientati al compiacimento, alla soddisfazione e alla gratificazione dell’altro, là dove il focalizzarsi sui bisogni altrui è ad evidente discapito dei propri.

Questi atteggiamenti possono essere attuati verso di chiunque: genitori, figli, fratelli, amici, colleghi, ma soprattutto vengono rivolti nei confronti del proprio partner.

La crocerossina può esistere solo se vi è qualcuno da curare, non a caso queste persone scelgono e mantengono relazioni affettive con compagni che, per diversi motivi, rivestono il ruolo di bisognosi. In tutto ciò il partner diviene oggetto d’amore incondizionato, idealizzato, aiutato e soccorso, tutto questo a discapito del proprio benessere.

È da aggiungere che questi comportamenti risanatori nei confronti dell’altro vengono attuati con piena volontà e consapevolezza. Infatti il prendersi cura del partner, vederlo soddisfatto, appagato, salvo grazie ai propri sacrifici gratifica la crocerossina, la quale si sente indispensabile per il proprio compagno, ma soprattutto questi atteggiamenti vengono percepiti come essenziali affinché la relazione possa andare avanti.

Solitamente i partner ‘soccorsi’ hanno la caratteristica di essere persone un po’ complicate, per qualche motivo inafferrabili o problematiche; con i quali si instaurano relazioni che inizialmente vengono percepite come difficili. Ma è proprio in queste situazioni che la crocerossina da un senso alla sua mission: io ti aiuterò, tu starai meglio, mi sarai riconoscente e mi amerai.

Wendy ha alcune credenze che sostengono il suo comportamento (Quadrio, 1982):

  • Io sono indispensabile;
  • L’amore richiede un certo sacrificio;
  • Gli altri intorno a me non devono arrabbiarsi;
  • Gli altri vanno protetti.

Dietro i soggetti con tale sindrome si nasconde sovente una personalità Dipendente ed una conseguente paura di ritrovarsi soli.

L’idea che non vi sia nessuno da aiutare spaventa, perché viene meno un modo di sentirsi utili e di offrire benessere. Supportare e aiutare l’altro determina infatti una percezione di sé come valorosi e indispensabili, di conseguenza si viene apprezzati. Alle spalle di questi comportamenti vi è una paura di essere abbandonati o rifiutati.

La sindrome di Wendy può dipendere dall’incatenarsi di più variabili, dove sicuramente gioca un ruolo cruciale la personalità del soggetto, ma anche lo stile di vita e l’educazione ricevuta, così come i bisogni e le circostanze della vita attuale.

Si tratta di soggetti che non concepiscono l’amore come qualcosa di gratuito, piuttosto pensano di doverselo in qualche modo meritare, con azioni di cura, sentendosi indispensabili o cercando di esserlo. Come venir fuori da questa sindrome?

Va inizialmente esplorata la storia di vita di questi soggetti, per capire come si è costruita la credenza che l’amore abbia un prezzo e vada in qualche modo guadagnato. Andrebbe quindi fatto un confronto con i personali vissuti abbandonici e la paura del rifiuto; al contempo fare i conti con la consapevolezza che nulla è per sempre, e che le eventuali separazioni non sono poi così terribili.

In seguito andrebbe fatto un lavoro sulla propria autostima, relativamente al fatto che le gratificazioni esistono soprattutto quando facciamo del bene a noi stessi. Inoltre andrebbe spostato il focus di questi soggetti da i bisogni dell’altro ai propri e allo svilupparsi di emozioni positive.

Perché qualsiasi relazione è in realtà un gioco di forze a doppio senso, dove entrambi i soggetti coinvolti devono vincere per stare bene.

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te.

(F. Battiato, “La Cura”)

REBT: l’influsso dello stoicismo sul pensiero di Albert Ellis

Matteo Guidotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

L’assunto di base della REBT è che pensiero ed emotività siano strettamente associati, agendo l’uno sull’altro in un rapporto circolare di causa ed effetto: i pensieri diventano sovente emozioni e le emozioni, in molte circostanze, diventano a loro volta pensieri, tanto da poter affermare che sotto certi aspetti siano essenzialmente la stessa cosa.

[blockquote style=”1″]Sopprimi la tua opinione ed avrai cancellato il “sono stato insultato”. Sopprimi il “sono stato insultato” ed avrai cancellato l’insulto.[/blockquote]
(Marco Aurelio)

Nel suo libro più conosciuto, Ragione ed emozione in psicoterapia (1962), Albert Ellis, fondatore della Terapia Comportamentale Razionale-Emotiva (REBT), indica l’originalità del suo approccio al disagio psichico nella centralità che le cosiddette “verbalizzazioni interiori” o “autoistruzioni” giocano sul mantenimento di stati emotivi spiacevoli e negativi nel paziente. Si tratta di frasi interiori, pensieri, che, ripetuti in modo automatico nella mente, contribuiscono a generare emozioni negative prolungate.

[blockquote style=”1″]L’individuo è raramente colpito da cose ed eventi esterni; piuttosto è afflitto dalle sue percezioni, atteggiamenti o frasi interiorizzate inerenti a cose ed eventi esterni [/blockquote](Ellis 1962, p. 57).

Ellis afferma di aver dedotto questo fondamentale principio da numerose sedute psicoterapeutiche, ma che l’idea fondamentale gli fu suggerita da alcune letture filosofiche, in particolare dagli antichi filosofi stoici.

 

Epitteto e le origini stoiche della REBT

Ora, il movimento stoico è una corrente di pensiero complessa, che si articola in almeno tre grandi periodi storici differenti, ognuno caratterizzato da un peculiare approccio alle domande filosofiche di fondo e influenzato da fonti differenti. Scorrendo le pagine degli scritti di Ellis si può affermare che, per lui, il termine “stoicismo” coincide per lo più con la cosiddetta “Stoa romana”, cioè il tardo stoicismo sviluppatosi nella cultura romana tra il I e il III secolo d.C. Esponenti di spicco di questa corrente sono Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. E’ soprattutto l’assidua lettura del Manuale (Enchiridion) di Epitteto a sollecitare la curiosità di Ellis, il quale pone una citazione dell’antico pensatore come base della sua scoperta in ambito clinico:

[blockquote style=”1″]Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti[/blockquote] (Epitteto, p. 7).

A tal proposito, il filosofo greco porta un esempio che si pone sulla scia della meditatio mortis, quale esercizio (áskesis) per distanziarsi dalle proprie passioni e vedere le cose nella prospettiva dell’universalità e dell’oggettività.

Epitteto, infatti, prende in causa proprio la paura della morte. Già Epicuro vi aveva dedicato una famosa riflessione, volta in primo luogo a dimostrare che a nessuna delle vicende umane va attribuita grande importanza – e che dunque è inutile turbarsi:[blockquote style=”1″] Il male che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi[/blockquote] (Epicuro, p. 125). Epitteto riprende questo argomento per dimostrare quanto ogni nostro timore o turbamento dipenda da una sottostante valutazione di pensiero:

[blockquote style=”1″]Così la morte non è nulla di terribile, ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l’ha intrapresa incolpa se stesso; chi l’ha completata non incolpa né gli altri né se stesso[/blockquote] (Epitteto, p. 7).

 

La REBT come educazione filosofica

Ellis ha dedicato la sua intera vita professionale a promuovere tale “educazione filosofica”, proprio nei termini espressi dallo stoicismo, in quanto disputa razionale sull’irrazionalità di certe nostre convinzioni e la loro ricaduta sullo stato d’animo dell’individuo.
L’assunto di base della REBT è che pensiero ed emotività siano strettamente associati, agendo l’uno sull’altro in un rapporto circolare di causa ed effetto: i pensieri diventano sovente emozioni e le emozioni, in molte circostanze, diventano a loro volta pensieri, tanto da poter affermare che sotto certi aspetti siano essenzialmente la stessa cosa.

A proposito di questo aspetto, in un’altra opera di larga diffusione, L’autoterapia razionale emotiva (1990), Ellis ribadisce la centralità dell’influenza stoica sul suo pensiero:

[blockquote style=”1″]Come sottolineato da Epitteto e Marco Aurelio, antichi filosofi della scuola stoica, negli esseri umani il sentimento coincide per lo più con il pensiero. Non completamente, ma in gran parte. Questo è il messaggio fondamentale che la Terapia Razionale-Emotiva ha cercato di diffondere per più di quarant’anni[/blockquote] (Ellis 1990, p. 24).

 

Il razionalismo nella REBT

Su questo punto è necessaria una breve precisazione, per non cedere all’idea che tanto lo stoicismo quanto la terapia razionale-emotiva siano forme di razionalismo puro. Ellis conia il termine “razionale” ben cosciente del fatto che l’obiettivo primario della terapia è quello di modificare le emozioni, ma poiché queste non esistono come cose in sé, scollegate dall’ideazione, esse possono essere controllate in modo efficace soltanto mediante i processi di pensiero. Questo, del resto, è il grande balzo in avanti rispetto alla pratica psicoanalitica imperante all’epoca, orizzonte culturale in cui il padre della REBT ha mosso i primi passi in ambito clinico.

Il richiamo da parte di Ellis allo stoicismo è pertanto puntuale e affatto casuale. Infatti, la cifra distintiva dell’intera filosofia ellenistica, entro cui ricade a pieno titolo il tardo stoicismo, è l’interpretazione della filosofia come arte di vivere e non pura speculazione, come “esercizio spirituale”. Il fatto è che per Epicuro, come per gli stoici, la filosofia è una terapia:

[blockquote style=”1″]la nostra sola occupazione deve essere la nostra guarigione… l’unico scopo è la tranquillità dell’anima[/blockquote] (Hadot, p. 39).

Razionale è quindi quel modo di pensare che favorisce il conseguimento dello scopo fondamentale, ossia la riduzione delle emozioni negative.

Nell’epoca ellenistica e romana il termine “filosofia” non designa una teoria o una maniera di conoscere, ma una saggezza, una sapienza vissuta, una maniera di vivere secondo ragione (homologouménos). La preminenza nello stoicismo dei processi di pensiero, dell’aspetto razionale, sui moti e gli stati dell’animo, deriva dalla precisa convinzione che la fonte di ogni turbamento interiore risieda nell’“interiore valutazione” o “giudizio” che l’individuo dà degli eventi del mondo.

[blockquote style=”1″]Le cose esteriori non giungono mai a toccare l’animo nostro, ma restano sempre immobili al di fuori, e ogni turbamento dipende dall’interiore valutazione[/blockquote] (Marco Aurelio, p. 3).

E ancora:

[blockquote style=”1″]Le cose per se stesse non riescono a toccare l’anima nemmeno un po’, né vi penetrano né possono mutarla e smuoverla. E’ l’anima che da sola si muta e si muove e gli avvenimenti sono per essa tali, quali i giudizi che essa ne formula[/blockquote] (idem, p. 19).

Secondo la visione stoica, l’uomo non è un essere in preda alle emozioni e alle passioni, ma possiede una specifica capacità intellettiva, la cosiddetta proàiresis, che consiste nel decidere volontariamente se seguire o meno un certo moto o desiderio dell’animo. Non per nulla il Manuale di Epitteto si apre con la seguente enunciazione:

[blockquote style=”1″]Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi: il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche e, in una parola, tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri[/blockquote] (Epitteto, p. 3).

 

REBT: i concetti fondamentali

Per ottenere la felicità occorrerà dunque raggiungere questa sorta di autarchia interiore, ovvero saper identificare – con l’uso della ragione – ciò che serve per raggiungere una condizione felice, saper distinguere quanto, di quello che serve, è in nostro esclusivo potere e quanto non lo è e, infine, impegnarsi concretamente nel tener fede alla decisione presa e resistere a moti contrari o irrazionali. Ecco enunciati alcuni concetti fondamentali della REBT:

(1) la disputa delle convinzioni irrazionali tramite la prova della veridicità e della consistenza logico-empirica dei pensieri disfunzionali;

(2) la ristrutturazione cognitiva, con particolare attenzione all’accettazione di ciò che non possiamo cambiare di noi stessi e del mondo esterno;

(3) la pratica quotidiana di rieducazione per fissare in nuove abitudini quanto è stato appreso.

 

Accettazione nella REBT

Rispetto al tema dell’accettazione, Ellis difende la REBT da facili accuse di superficialità, prendendo in causa ancora una volta la dottrina stoica – e in certo senso distanziandosene, almeno rispetto all’immagine distorta che il senso comune ha del saggio stoico, chiuso nella sua inattaccabile imperturbabilità.

[blockquote style=”1″]Si afferma che la terapia razionale-emotiva adatta fin troppo bene il paziente alla sua infelice situazione e lo induce a sopportare rassegnato condizioni che possono essere decisamente intollerabili. Questa obiezione è un’interpretazione erronea dello stoicismo e presume che la psicoterapia razionale-emotiva aderisca rigidamente agli insegnamenti di tale filosofia, il che non è vero. Epitteto, uno dei maggiori seguaci dello stoicismo, non asserì né lasciò intendere che si dovrebbero accettare serenamente tutti i mali del mondo e adattarsi ad essi con spirito di rassegnazione. Pensava che l’uomo dovrebbe anzitutto cercare di cambiare le situazioni negative e, quando non vi riesce, accettarle senza lamentarsene[/blockquote] (Ellis 1962, p. 201).

Allo stesso modo Ellis mette in guardia dal definire la REBT come una terapia grossolanamente edonistica, volta ad insegnare alle persone a divertirsi a scapito dei loro impegni più profondi e gratificanti. Lo scopo di “cambiare le situazioni negative”, perseguendo il compito di ridurre le emozioni negative e massimizzare quelle positive, è comune a tutte le scuole di psicoterapia. Non per questo si deve parlare di mero edonismo.

[blockquote style=”1″]Uno dei princìpi fondamentali della psicoterapia razionale-emotiva è il principio stoico dell’edonismo a lungo anziché a breve termine[/blockquote] (idem, p. 202).

Secondo la REBT, gli schemi di comportamento disfunzionali derivano da concezioni irriflessive e sono mantenuti da indottrinamenti verbali e radicate abitudini motorie di risposta dell’individuo. Ora, poiché è proprio la consuetudine a rendere imperfetti i nostri schemi comportamentali e le nostre convinzioni irrazionali, soltanto una notevole dose di “contropratica” può eliminare tali inefficienze – non basta un semplice insight. Pertanto, continua Ellis, [blockquote style=”1″]la terapia razionale è una forma di trattamento estremamente attiva e laboriosa, sia per il terapeuta che per il paziente, il quale riceve da quest’ultimo meno gratificazioni immediate, affetto, incoraggiamento a conservare i suoi puerili impulsi edonistici a breve termine di quanto non accada nelle altre psicoterapie [/blockquote](idem, 203).

 

REBT: prospettiva e addestramento

Per concludere, l’influenza dello stoicismo sul pensiero e la pratica psicoterapeutica di Ellis consiste principalmente nell’intendere la terapia da una parte come un esercizio intellettuale culminante nella trasformazione della visione del mondo (epitrophé), dall’altra come un esercizio pratico di educazione di sé culminante nel cambiamento di abitudini apprese e rigide (paideía). Non si tratta di trovare la soluzione più rapida e frettolosa, ma di esercitarsi nella maniera più efficace possibile nell’applicazione concreta di un metodo di pensiero maggiormente funzionale. Allo stesso modo, alla base della pratica filosofica stoica sta

[blockquote style=”1″]il parallelismo tra esercizio fisico ed esercizio spirituale: come, con esercizi fisici ripetuti, l’atleta dà al suo corpo una forma e una forza nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d’animo, trasforma la sua atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine il suo intero essere[/blockquote] (Hadot, p. 59).

Nello stoicismo il filosofare è un atto continuo, permanente, che occorre rinnovare a ogni istante. Marco Aurelio lo declina soprattutto come un orientamento costante dell’attenzione. La prosoké, infatti, è l’atteggiamento spirituale fondamentale del saggio stoico e consiste in una vigilanza e una presenza di spirito continue. Contenuto di questi atti attentivi sono prescrizioni “a se stessi”, meditazioni che assomigliano molto a dei veri e propri homework:

[blockquote style=”1″]Non dire a te stesso più di quel che ti riferiscono le rappresentazioni. Se ti riferiscono che un certo individuo ti diffama, non per questo ti si dice che tu ne sia danneggiato. Vedo mio figlio ammalato: questo vedo, ma non che sia in pericolo di vita. Procura quindi di attenerti sempre alle prime rappresentazioni e non aggiungervi del tuo; in questo modo, non ti succederà nulla[/blockquote] (Marco Aurelio, p. 49).

Su questo “aggiungere del proprio” alla rappresentazione oggettiva di uno stato o evento del mondo, Ellis lavorerà una vita intera, arrivando – attraverso una lunga serie di sedute psicoterapeutiche e la raccolta di molto materiale empirico – ad elencare le diverse categorie fondamentali di pensiero irrazionale sulle quali paziente e terapeuta sono chiamati a lavorare assiduamente in seduta. Da notare che l’attenzione al momento presente è in qualche modo il segreto e la cifra degli esercizi filosofici degli stoici. Essa [blockquote style=”1″]libera dalla passione che è sempre provocata dal passato o dal futuro, da eventi che non dipendono da noi; facilita la vigilanza concentrandola sul minuscolo momento presente, sempre padroneggiabile, sempre sopportabile, nella sua esiguità; infine apre la nostra coscienza alla coscienza cosmica, rendendoci attenti al valore infinito di ogni istante, facendoci accettare ogni momento dell’esistenza nella prospettiva della legge universale del cosmo[/blockquote] (Hadot, p. 35).

Parole che anticipano in modo sorprendente la pratica della mindfulness e meriterebbero un discorso a parte: qui infatti si va ben oltre Ellis.

La donna ed il tatuaggio: un modo per ritrovare se stessa

 

Le correlazioni più significative sono state trovate perlopiù nelle donne con quattro o più tatuaggi, e conducono a risvolti sorprendenti – perfino paradossali: le donne con almeno quattro tatuaggi hanno riportato i più alti livelli di autostima del campione; allo stesso tempo, però, hanno espresso i più alti livelli di depressione e le più alte frequenze di tentati suicidi!

Al giorno d’oggi il tatuaggio ed il gesto del tatuarsi hanno assunto molteplici motivi e scopi e sono dunque di difficile inquadramento per le scienze sociali. Se storicamente il tatuaggio è stato simbolo di una cultura e tradizione legate a diversi comportamenti antisociali come l’uso di droghe, la frequente adozione di condotte violente e più in generale l’indugiare in attività illecite, oggi il gesto del tatuarsi non è più compiuto (solo) dal poco di buono temuto da tutte le madri, ma anche dall’attore di Hollywood, dal calciatore famoso e, in definitiva, da chiunque si rispecchi nella cultura pop di questo inizio di millennio.

Alla ricerca psicologica spetta dunque l’arduo compito di districarsi in mezzo alla multiforme natura del corpo tatuato e di cercare sentieri sicuri che conducano ad una più chiara comprensione del fenomeno. E’ quello che fa, da anni, Jerome Koch, ricercatore della Texas Tech University che ha recentemente prodotto un nuovo studio che verrà pubblicato sul Journal of Social Science nel 2016. Se negli studi precedenti lo stesso Koch aveva rilevato una forte correlazione tra i comportamenti antisociali e le persone con quattro o più tatuaggi, in questo studio ha rovesciato la sua domanda, andando ad indagare la relazione tra il gesto del tatuarsi e il benessere psicofisico: 2394 studenti (tatuati e non) tra i 18 e i 20 anni hanno compilato alcune scale di autovalutazione sulla qualità della propria vita.

Le correlazioni più significative sono state trovate perlopiù nelle donne con quattro o più tatuaggi, e conducono a risvolti sorprendenti – perfino paradossali: le donne con almeno quattro tatuaggi hanno riportato i più alti livelli di autostima del campione; allo stesso tempo, però, hanno espresso i più alti livelli di depressione e le più alte frequenze di tentati suicidi!

Come spiegare questi risultati inaspettati? Si può presumere che la frequente ideazione suicidaria possa esser direttamente causata dall’abuso di sostanze e di condotte illecite e devianti che frequentemente sono correlate con il numero di tatuaggi, ma ci sembra un modo troppo semplicistico di inquadrare il problema. Lo stesso Jerome Koch, infatti, prova a fornirci una spiegazione più ambiziosa, basandosi anche sulle sue precedenti ricerche.
Le donne hanno con il proprio corpo un legame ben più profondo di quello degli uomini, sia per il modo in cui la sessualità le investe fin dalla pubertà, sia per la condizione di maternità in se stessa e sia purtroppo per l’estrema attenzione che la società oggi rivolge al corpo della donna (basti pensare alle mille diete esistenti, alla chirurgia plastica o all’immagine ipersessualizzata della donna nei media). E’ plausibile, dunque, che la donna trasformi – più dell’uomo – questa consapevolezza nei confronti del proprio corpo in un suo punto di forza: spesso le donne che hanno subìto una mastectomia adornano il seno perduto con un disegno tatuato sulla pelle; analogamente, le donne vittime di abusi sessuali ricorrono non di rado al piercing genitale.

E’ un modo, tutto femminile, di riappropriarsi del corpo rubato, del corpo smarrito, strappatogli via. Secondo Koch, infatti, il tatuaggio sta acquisendo sempre più una funzione ricostituente per il corpo della donna: attraverso il tatuaggio la donna può ri-costituire insieme il proprio corpo frammentato, diviso, segnato da un bisturi, da una violenza sessuale o perfino da una perdita che non è più necessariamente fisica, ma può anche essere semplicemente emotiva. E’ interessante, a tal proposito, notare come alcune ricerche precedenti dimostrino che le donne sono molto più inclini degli uomini a farsi togliere un tatuaggio, come gesto di distanziamento, dissociazione da un passato che non vogliono più: stando al presente studio, dunque, sembra che talvolta l’aggiunta di un tatuaggio possa svolgere la stessa funzione della sua cancellazione.

In conclusione, l’intuizione di Koch è senza dubbio acuta e sembra spiegare – seppur in via speculativa – i sorprendenti risultati del presente studio: il tatuaggio diventa il segno di una ri-presa di potere del proprio corpo, in risposta a perdite e violazioni subìte (fisiche o simboliche). La donna con molti tatuaggi può, dunque, aver deciso di utilizzare il proprio corpo come strategia di coping, come strumento per recuperare e rafforzare il senso di Sè – banalmente, la sua autostima. Tale gesto, però, può sopperire alla sofferenza causata dall’oggetto perduto solo parzialmente, come dimostrano i tentativi di suicidio e gli alti livelli di depressione. Il tatuaggio, e così il corpo, infatti, non possono bastare da soli a salvarci dal dolore per la perdita, da quel senso di frammentazione che consegue a qualsiasi trauma o lutto: è necessario innanzitutto cercare, e quindi donare un significato a ciò che abbiamo perduto, un significato in cui sia possibile, per noi stessi, tornare a riconoscerci.

Meditazione: può ridurre i pregiudizi razziali

Gli effetti della meditazione si estendono anche all’ ambito della psicologia sociale. Secondo uno studio appena pubblicato su Motivation and Emotion addirittura la pratica della meditazione, anche per soli sette minuti quotidianamente, sarebbe in grado di ridurre i pregiudizi razziali. E non servirebbe essere dei meditatori professionisti.

La tecnica in questione e’ la Loving-Kindness meditation (LKM) una pratica meditativa afferente al filone buddista che promuove gentilezza incondizionata verso sè e gli altri, mediante la visualizzazione di sè e degli altri.

I ricercatori hanno voluto testare l’ipotesi secondo cui praticare la meditazione Loving-Kindness focalizzandosi su membri di un gruppo etnico diverso dal proprio avrebbe ridotto il bias automatico di preferenza delle persone appartenenti al proprio in-group etnico-culturale.
Nello studio sono stati reclutati 71 adulti, non meditatori, di origine etnica caucasica. Ad ogni soggetto è stata fornita una fotografia di una persona dello stesso genere ma di etnia africana. Successivamente i soggetti hanno seguito le indicazioni per la pratica della meditazione Loving-Kindness focalizzandosi sulla persona ritratta nella fotografia; i soggetti nella condizione di controllo invece hanno osservato percettivamente i dettagli del volto fotografato. Entrambe le condizioni hanno avuto una durata di soli sette minuti.

Utilizzando lo strumento Implicit Association Test i ricercatori hanno misurato i tempi di reazione dei partecipanti durante un compito di associazione di parole positive e negative (ad esempio ‘felicità” o “sbagliato”) a volti appartenenti ai due gruppi etnici, africano e caucasico.
Generalmente in letteratura si riscontra un bias cultural-etnico per cui le persone associano più velocemente parole positive al proprio gruppo etnico rispetto a un gruppo etnico differente (e viceversa per le parole negative). Questo dunque è spesso utilizzato come indicatore implicito del bias a differenza dei questionari self-report massivamente esposti al rischio di elevata desiderabilità sociale.

Dai risultati è stato riscontrato che solo sette minuti di meditazione Loving-Kindness rivolta ad un membro di etnia differente dalla propria è in grado di ridurre il pregiudizio etnico-razziale nei confronti di un gruppo etnico diverso dal proprio.
Gli effetti della meditazione possono andare ben oltre il benessere psico-fisico mentale, potenzialmente impattando in qualche misura anche il benessere della collettività. Implicazioni da non ignorare, che possono indurre nuovi studi e la progettazione di applicazioni nell’ ambito della riduzione dei pregiudizi etnico-culturali.

Ruolo dell’ attaccamento e del temperamento nello sviluppo di dipendenze patologiche – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Ruolo dell’ attaccamento e del temperamento nello sviluppo di dipendenze patologiche

Giada Costantini, Ramona Di Diodoro, Isabella Paoletta, Enzo Panzella, Mariapaola Costantini, Chiara Caruso, Harold Dadomo, Clarice Mezzaluna

L’obiettivo del presente studio è quello di studiare le caratteristiche protettive o favorenti lo sviluppo di dipendenze patologiche. 

Introduzione

In letteratura emergono relazioni tra un attaccamento di tipo insicuro e lo sviluppo di dipendenze (Schindler, e Broning, 2014), oltre che a una forte relazione tra abuso, esposizione alla violenza in età evolutiva e sviluppo di dipendenze (Douglas et al.; 2010; Dube et al.; 2003).

Anche alcune caratteristiche temperamentali, come la novelty seeking e la reward sensitivity, sembrano maggiormente correlate allo sviluppo di una dipendenza patologica (Christie Hartman et al., 2013).

Inoltre, secondo la prospettiva della Schema Therapy, gli schemi con maggior effect size sono gli schemi di sfiducia/abuso, regole e autodisciplina insufficienti (Shorey et al., 2012). Questi schemi sono spesso associati a un comportamento impulsivo, bassa tolleranza alla frustrazione e a difficoltà nel differire la gratificazione (Shorey et al., 2013).

Obiettivo

L’obiettivo del presente studio è quello di studiare le caratteristiche protettive o favorenti lo sviluppo di dipendenze patologiche. Nello specifico, ci si soffermerà sulla dipendenza da sostanze psicoattive e su quella da alcol.

Metodi

Sarà valutato lo stile di attaccamento, la presenza di esperienze di abuso in età evolutiva, gli schemi prevalenti e il tipo di temperamento dei soggetti coinvolti nel disegno di ricerca. A tal fine, sono stati somministrati i test ASQ, TEC, TCI-R, DAST, C.A.G.E., AUDIT, YSQ – L3

Psicologia clinica, psichiatria, psicofarmacologia. Uno spazio di integrazione (2015) – Recensione

Il volume si configura come uno strumento molto utile per gli studenti in formazione così come per i professionisti che svolgono attività clinica e si trovano a interfacciarsi quotidianamente con la necessità di integrare l’intervento psicologico e l’utilizzo di farmaci, in un’imprescindibile visione integrata del paziente.

Nella prima metà di quest’anno è uscito per le Edizioni Franco Angeli il libro ‘Psicologia clinica, psichiatria, psicofarmacologia. Uno spazio di integrazione’ del Prof. Francesco Rovetto.

Il volume si configura come uno strumento molto utile per gli studenti in formazione così come per i professionisti che svolgono attività clinica e si trovano a interfacciarsi quotidianamente con la necessità di integrare l’intervento psicologico e l’utilizzo di farmaci, in un’imprescindibile visione integrata del paziente.

Il primo capitolo si occupa della diagnosi, con un particolare riguardo per le differenze che sono state introdotte con l’uscita della quinta edizione del DSM (DSM-5; APA, 2013). Con lo stile puntuale ma molto concreto che contraddistingue il Prof. Rovetto, si affronta il tema della diagnosi, della sua utilità e delle attenzioni che è opportuno prestare nell’utilizzo di un sistema nosografico descrittivo, in cui un’etichetta viene accoppiata a una costellazione di sintomi, ma che purtroppo poco ci dice rispetto al funzionamento della persona. A questo scopo, di fianco a questo sistema si presenta una modalità più esplicativa e interpretativa del quadro clinico, forse più utile nella fase di pianificazione del trattamento. Proseguendo, si affronta il tema della diagnosi, sottolineando con l’esempio dell’omosessualità come il senso del normale e del patologico sia cambiato e cambi continuamente, figlio delle scoperte scientifiche da una parte e del contesto culturale dall’altra. Questa prima parte si chiude quindi con un’interessante disamina del DSM-5, focalizzandosi particolarmente su quegli aspetti pratici che interessano il clinico nella sua attività professionale, più che sui cambiamenti di etichetta che si trovano su carta.

Nel secondo capitolo si affronta un tema molto caro agli psicologi, che spesso durante il loro percorso di studi si trovano a conoscere solo marginalmente la questione farmacologica, competenza invece richiesta nella pratica clinica. Infatti, se ovviamente uno psicologo non può prescrivere farmaci, è utile che ne conosca gli effetti diretti e quelli collaterali, che sappia cosa significa assumere una determinata pastiglia e che possa in questo modo aiutare al meglio il paziente e capire in che misura e in che modo una determinata sostanza si integra con il percorso di terapia o consulenza che gli compete. Come giustamente puntualizza l’Autore, anche per chi non può né vuole prescrivere farmaci è importante conoscere le potenzialità del trattamento, gli effetti collaterali, i tempi in cui possiamo attendere gli effetti, i modi in cui un farmaco può aiutare e il vissuto del paziente in merito all’annosa questione “prendere delle medicine per la mente”. Interessantissimo un particolare paragrafo che tratta dei non-psicofarmaci, cioè di tutte quelle medicine che vengono abitualmente utilizzate a scopo psicofarmacologico ma che non rientrano in questa categoria. Tra questi, i Beta bloccanti, che bloccando l’effetto dell’adrenalina sui recettori periferici del corpo mantengono basso il numero di battiti cardiaci anche in situazioni in cui questo tenderebbe ad aumentare (perché facciamo una corsa o perché siamo in ansia).

Il capitolo prosegue poi con un’accurata e attenta classificazione dei diversi psicofarmaci, con informazioni circa il loro funzionamento, la loro utilità nei diversi quadri clinici e l’utilizzo canonico nella pratica clinica. Il tutto è ben integrato da tabelle riassuntive, che ne consentono un veloce e facile utilizzo estemporaneo, e prosegue con un breve capitolo su tutti quei fattori psicologici che possono influenzare la prescrizione o il funzionamento dei farmaci, come la compliance (sottolineando l’importanza della condivisione e non della acritica aderenza del paziente alle prescrizioni del medico), gli effetti collaterali o le credenze esplicite e implicite che il paziente porta con sé e che in alcune situazioni possono paradossalmente impedirgli di stare meglio o allungare il tempo della sua sofferenza.

La seconda sezione del libro descrive e approfondisce le terapie integrate per diversi disturbi di competenza dello psicologo, dall’autismo ai disturbi d’ansia, ai disturbi sessuali e alla dipendenza da sostanze e comportamentale. Questa parte, sicuramente la più estesa del testo, dà un’ottima inquadratura dei diversi disturbi e delle pratiche di intervento, ancora una volta mostrando la praticità del testo e la sua fruibilità nei diversi contesti; inoltre, tutte le descrizioni sono aggiornate sia rispetto alle terminologie e alle definizioni dopo l’uscita del DSM-5, sia rispetto ai cambiamenti dei vecchi disturbi (per esempio, con l’arrivo delle dipendenze comportamentali, che hanno messo in crisi tante strutture deputate alla cura delle dipendenze da sostanze e allo stesso tempo hanno permesso di approfondire i meccanismi psicologici che mantengono questo tipo di difficoltà, se dissociati dalle conseguenze chimiche e fisiche dell’assunzione di una specifica molecola).

Infine, l’autore dedica le ultime 10 pagine del testo alla nascita delle terapie integrate precedentemente proposte, con un breve excursus sulla storia della psichiatria in Italia e sui luoghi deputati alla psichiatria oggi, concludendo con un’analisi chiara e pulita rispetto alle diverse professionalità che si interfacciano nel contesto della salute mentale, dall’assistente sociale all’educatore professionale, al tecnico della riabilitazione psichiatrica.

In sintesi, il volume del Prof. Rovetto si propone come utile strumento sia per chi si sta avvicinando allo studio della psicologia clinica, che per chi lavora in questo ambito. I primi troveranno in questo testo uno sguardo pratico e radicato in anni di professione concreta, attraverso cui imparare a conoscere il materiale di studio. I secondi avranno invece modo di aggiornarsi rispetto alle nuove classificazioni e ai nuovi contesti, sempre tenendo a mente l’importanza di integrare diverse professionalità affinché ne esca un intervento organico che possa aiutare il paziente in difficoltà prima come persona a tutto tondo che come caso clinico diagnosticato.

La depressione maggiore e l’importanza della specificità dei ricordi

Rosina Misasi

 

Depressione maggiore: diverse ricerche condotte su pazienti con disturbo depressivo maggiore hanno permesso di riscontrare, come nel processo di recupero di una memoria, tali pazienti presentino una difficoltà a recuperare ricordi specifici. In particolare è stato messo in luce un vero e proprio fenomeno di ipergeneralizzazione dei ricordi autobiografici chiamato overgeneral memory.

Questo fenomeno, considerato un segno caratteristico della depressione maggiore, sembrerebbe manifestarsi perché questi pazienti presentano alcune caratteristiche che attivano peculiari meccanismi. Tra questi si evidenziano: la presenza massiccia e attiva di auto rappresentazioni connesse a sentimenti, la tendenza alla ruminazione, un controllo esecutivo ridotto, l’evitamento funzionale ed errori di cattura. Ma in cosa consistono e come interagiscono tra loro questi fattori?

Proviamo ad immaginare la memoria autobiografica come composta da conoscenze relative al Sé organizzate secondo tre livelli di specificità. Il livello più alto si riferisce a periodi di vita, il livello intermedio a eventi generali e il livello più basso si riferisce alla conoscenza specifica dell’evento. I periodi di vita e gli eventi generali sono sottoforma di riassunti concettuali relativamente astratti di esperienze, mentre gli eventi specifici constano di aspetti sensoriali e percettivi concreti di eventi unici, che spesso includono un’ immagine visiva piuttosto che riassunti concettuali astratti. Oltre alla struttura appena descritta, nel processo di recupero della memoria, entra in gioco un importante sistema di supervisione, il working self, che si occupa dell’immagazzinamento, dell’organizzazione e del recupero dei ricordi. Il recupero di una memoria può essere generato da due differenti processi: da un processo di recupero generativo o da una forma spontanea di recupero. Quest’ultima si presenta quando uno stimolo interno o ambientale produce l’immediata attivazione di eventi specifici. Nel recupero generativo invece lo stimolo attiva rapidamente o un periodo di vita o un livello di conoscenza di un evento generale, che viene valutato dal working self; successivamente l’attivazione si diffonde dalla rappresentazione di un evento generale a quella di un evento specifico. Ma nel paziente con disturbo depressivo maggiore cosa avviene nel processo di recupero dei ricordi?
E’ stato osservato che alcuni individui che hanno subito un trauma, interrompono il processo di ricerca se la conoscenza episodica tende ad evocare sentimenti altamente negativi. In questi casi, non arrivare al recupero episodico è funzionale (Raes e C., 2003) e viene rinforzato negativamente dal fatto che non si verificano conseguenze avversive attese dall’individuo.

Il modello CaR-FA-X (Williams e C., 2007) ha prove coerenti con quanto appena affermato e suggerisce che questa ricerca interrotta da evitamento funzionale è intensificata dalla “cattura” di strutture concettuali relative al Sé. Di fatto, per accedere a un ricordo specifico il primo stadio di ricerca della memoria usa elaborazioni di natura più concettuale (passaggio obbligatorio) e la predominanza di informazioni concettuali relative al Sé presente nei pazienti depressi, determina un errore di “cattura”. Tale errore è dovuto all’attivazione di materiale di compito irrilevante. Invece di continuare a cercare dettagli sensorio-percettivi appropriati (che porterebbero al ricordo dell’evento specifico) questi soggetti recuperano erroneamente conoscenza concettuale relativa al proprio Sé, ottenendo un aumento di risposte categoriali associate alla depressione.

Contribuisce ad aggravare ulteriormente la situazione la ruminazione, che conduce all’attivazione di tali rappresentazioni mentali generalizzate (Nolen-Hoeksema, 1991). Infatti, partendo dalla premessa che l’ipergeneralità si presenta in risposta sia a stimoli positivi che negativi Crane (2007) ha ipotizzato che una parola stimolo positiva potrebbe segnalare, ad una persona depressa, l’assenza di uno stato personalmente significativo e, a sua volta, attivare ulteriore ruminazione. È veramente difficile inibire risposte ruminative abituali quando ci sono rappresentazioni concettuali altamente elaborate del Sé che sono prontamente disponibili e alle quali bisogna accedere come primo stadio del processo di ricerca della memoria. Contestualmente, una ridotta capacità esecutiva e un diminuito controllo cognitivo, peggioreranno la tendenza ad essere “catturati” da queste rappresentazioni del Sé astratte e concettuali. Con quale esito? L’elaborazione strategica orientata a un compito diminuisce e il recupero è “dirottato” da materiali irrilevanti.

Uno dei tanti motivi che porta a considerare con attenzione il fenomeno dell’ipergeneralità dei ricordi è che, modificando in pazienti depressi questa tendenza ad essere ipergenerali, la persistenza del disturbo depressivo si riduce (Serrano, Latorre, Gats e Rodriguez, 2004).
In generale, i dati presi in esame lasciano supporre che ad essere importante per la salute fisica e psicologica non è solo cosa un individuo ricorda ma anche il modo in cui lo ricorda. Anche se si cerca di evitare il ricordo a livello esplicito la memoria implicita rimane ben conservata e di conseguenza fonte di sofferenza per il paziente. In particolare è stato possibile osservare come la specificità della memoria può essere influenzata da numerose variabili psicologiche e può influenzare tali variabili.

Inoltre, è stato messo in luce come l’accesso aumentato a informazioni concettuali relative al Sé e la ruminazione siano centrali nell’ostacolare il recupero di memorie specifiche e nel mantenimento del disturbo depressivo. La ricerca di Crane (2007) è un esempio relativamente forte della relazione fra difficoltà a recuperare ricordi specifici, auto rappresentazioni connesse a sentimenti, ruminazione e mantenimento del disturbo depressivo. Ciò che si evince è che i fenomeni presi in esame, evitamento funzionale, “cattura” e ruminazione, controllo esecutivo, interagiscono tra loro con la conseguenza che un controllo esecutivo ridotto fallisce nell’inibire le informazioni irrilevanti e il recupero del ricordo viene “dirottato” da questo materiale. Tuttavia, grazie al lavoro di Serrano, Latorre, Gats e Rodriguez (2004) oggi abbiamo una prova che la memoria ipergenerale, è un importante fattore causale nel mantenere la depressione e che modificarlo può avere conseguenze benefiche riducendo depressione e disperazione.

So quel che fai: il cervello che agisce e i neuroni specchio di Rizzolatti e Sinigaglia – Recensione

Sophia Nasuf, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il libro di Rizzolatti e Sinigaglia descrive le numerose ricerche compiute presso l’Università di Parma. La straordinaria scoperta dei neuroni specchio ha dato inizio a un nuovo modo di vedere il comportamento umano, l’intelligenza, il pensiero e le emozioni.

La premessa inizia con una citazione di Peter Brook che ha affermato come tale scoperta abbia dato prova scientifica di ciò che il teatro sapeva da tempo, a dimostrare quanto questi studi non siano poi così lontani ma, in fondo, potenzialmente alla portata di molti studiosi di varie discipline. Questi studi hanno infatti catturato l’attenzione di studiosi di psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia ecc. Non tutti però conoscono nei particolari la storia di questa scoperta e questo libro ha il merito di raccontarla e di spiegare come funziona il nostro cervello. Partendo dal semplice gesto di prendere una tazzina da caffè spiega come funziona il sistema motorio e cosa accade quando si decide di compiere un’azione. Infatti, anche se non ne siamo consapevoli, quando stiamo per afferrare un oggetto la nostra mano inizia a prepararsi per poterlo prendere, le dita e il palmo della mano si prefigurano per adattarsi al peso, alla forma e al materiale di cui è fatto l’oggetto. Appena si raggiunge la tazzina la mano riceve le informazioni dai recettori della cute, dai muscoli e dalle articolazioni che le permettono di perfezionare la presa e portare la tazzina alla bocca. Per molto tempo si è pensato che i fenomeni sensoriali, percettivi e motori fossero suddivisi in distinte aree corticali: le aree sensoriali visive nel lobo occipitale, somatosensoriali nella circonvoluzione postcentrale, uditive nella circonvoluzione temporale superiore ecc.. e dall’altro le aree motorie nella parte posteriore del lobo frontale.

Tra queste due aree vi sono le aree associative che hanno la funzione di integrare le informazioni provenienti dalle due aree e per poter mettere in atto l’azione. In seguito si è cominciato a comprendere che “il sistema motorio non è solo connesso alle aree corticali responsabili delle attività cerebrali coinvolte in pensieri e sensazioni, ma possiede molteplici funzioni, le quali non sono riconducibili nel quadro di una mappa unitaria puramente esecutiva” (“So quel che fai, p.11 Rizzolatti, Sinigaglia). Le ricerche compiute negli ultimi anni hanno portato alla conclusione che la suddivisione della corteccia motoria nelle aree MI e SMA è troppo semplicistica. Infatti la corteccia motoria risulta formata da molteplici regioni diverse. L’uso di tecniche elettrofisiologiche sofisticate che prevedono l’inserimento di microelettrodi capaci di stimolare piccoli gruppi di neuroni di proiezione, ossia microstimolazione intracorticale, ha infatti permesso di vedere come la corteccia motoria contenga una grande molteplicità di mappe funzionalmente distinte e localizzate nelle aree anatomiche delle regioni mesiale, dorsale, ventrale.

Il modello dell’Homunculus motorio di Wilder Penfield, per tanto tempo punto fermo della neurologia, appare quindi notevolmente superato. Ritornando ora alla tazzina da caffè, per prendere un oggetto sono necessari due processi correlati, ossia raggiungere ed afferrare. Anche se il pensiero comune è che il raggiungere preceda l’ afferrare non è così, infatti la registrazione dei movimenti della mano e del braccio ha dimostrato che sono due processi paralleli. Afferrare richiede l’attivazione della corteccia motoria primaria F1, infatti lesioni di quest’area causano mancanza di forza, flaccidità e l’incapacità di muovere le dita in modo indipendente. F1 però non avendo accesso diretto all’area visiva, necessita dell’area F5 che contiene rappresentazioni motorie della mano e della bocca, che sono in parte sovrapposte. La maggior parte dei neuroni di quest’area codifica atti motori, ossia movimenti coordinati da un fine specifico (Rizzolatti, Gentilucci, 1988; Rizzolatti et al.,1988). Gran parte dei neuroni F5 si attivano infatti quando la scimmia afferra un pezzo di cibo con la mano o con la bocca, compiendo quindi un atto motorio.

Molti neuroni F5, indipendentemente dalla classe di appartenenza, codifica il tipo di conformazione che deve avere la mano per compiere un’ azione, presa di precisione o afferrare. Un’ulteriore prova che i neuroni F5 si attivano durante gli atti motori è che a prescindere dalla loro specificità per i diversi tipi di presa la loro attivazione varia in relazione alle differenti fasi dell’atto motorio. Vi sono neuroni che si attivano quando la scimmia usa la “presa di precisione” e altri che si attivano quando afferra oggetti di media taglia con tutte le dita. Sin dai primi studi è emerso che una parte di neuroni F5 risponde in modo selettivo a stimoli visivi; nell’esperimento condotto da Akira Murata e colleghi (Murata et al., 1997. Rizzolati et al.,2000; Gallese, 2000) è stato indagata a fondo la funzione visuo-motoria dei neuroni F5, portando quindi ad ipotizzare che le risposte visive sarebbero l’espressione di un ‘intenzione della scimmia di prendere un oggetto. La corteccia ventrale premotoria è formata oltre che dall’area F5 anche dall’area F4, che occupa l’area dorso-caudale ricevendo afferenze dall’area intraparietale ventrale (VIP). Da esperimenti di microstimolazione è stato dimostrato che in F4 sono presenti movimenti del collo, della bocca e del braccio ed è emerso che la maggior parte di questi neuroni si attiva sia durante l’esecuzione di atti motori sia a stimoli sensoriali. In seguito a tale scoperta sono stati distinti due gruppi di neuroni: solo somatosensoriali e somatosensoriali e visivi o neuroni bimodali.

Recentemente sono stati individuati anche neuroni trimodali capaci di rispondere a somatosensoriali visivi e uditivi (Graziano et al., 1999). La maggior parte dei neuroni somatosensoriali di F4 viene attivata da stimoli tattili superficiali e i loro campi recettivi sono abbastanza ampi e localizzati sulla faccia, sul collo, sulle braccia e sulle mani. I neuroni bimodali hanno caratteristiche somatosensoriali simili a quelle dei neuroni somatosensoriali puri, vengono però attivati da stimoli anche visivi in particolare da oggetti tridimensionali e stimoli in movimento.

[blockquote style=”1″]La scoperta più sorprendendente che riguarda l’area F4 è stata che i campi recettivi visivi della maggior parte dei neuroni bimodali restano ancorati ai rispettivi campi recettivi somatosensoriali e risultano pertanto indipendenti dalla direzione dello sguardo [/blockquote](Gentilucci et al.,1983; Fogassi et al., 1996a, b.).

Dall’analisi delle proprietà funzionali dei neuroni F5 è emerso che molti si attivano durante gli atti motori e a causa delle loro caratteristiche inizialmente, negli anni trenta, vennero chiamati neuroni canonici. Nelle prime situazioni sperimentali degli anni novanta le scimmie venivano lasciate agire liberamente e si è visto che nella convessità corticale F5 erano presenti neuroni che si attivavano sia quando la scimmia effettuava un’azione sia quando osservava lo sperimentatore compiere quell’azione. Questi sono stati chiamati neurons mirror, neuroni specchio. Per quanto riguarda le proprietà motorie i neuroni specchio sono indistinguibili dagli altri neuroni F5, la situazione cambia invece per quanto concerne le capacità visive , infatti i neuroni specchio rispondono alla presentazione dello stimolo visivo (es. cibo per la scimmia). La loro attivazione dipende dall’osservazione da parte della scimmia di determinate azioni compiute dallo sperimentatore che comportano un’ interazione effettore mano o bocca-oggetto.

Assumendo come criterio l’atto motorio codificato visivamente si possono suddividere in “neuroni-specchio-afferrare”, “neuroni -specchio-tenere”, “neuroni-specchio-collocare” quando la scimmia guarda lo sperimentatore mettere un oggetto su un supporto, “neuroni-specchio-interagire-con-le-mani” che si attivano alla vista di una mano che si muove verso l’altra e mentre quest’ultima sta tenendo un oggetto. La loro funzione ad un esame superficiale porterebbe ad una preparazione ad agire per poi compiere la stessa azione ma se così fosse sarebbe simile a quei neuroni preparatori ampiamente diffusi nella corteccia premotoria. Un’interpretazione più sofisticata è quella di Marc Jeannerod (Jeannerod, 1994) in un articolo sull’analisi dell’immaginazione di tipo motorio, motor imagery).

Jeannerod porta come esempio un allievo che osserva il maestro eseguire un passaggio complesso al violino. Secondo la sua ipotesi i neuroni responsabili di immagini motorie sarebbero gli stessi che si attivano durante la preparazione e la pianificazione dell’allievo della propria esecuzione. Pur apprezzando la ricerca di Jeannerod secondo Rizzolatti è comunque riduttivo affermare che la funzione primaria dei neuroni specchio sia legata a comportamenti imitativi. La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha suggerito l’ipotesi che anche nell’uomo potesse esistere un’area cerebrale simile. Attraverso gli studi di elettroencefalografia (EEG) già negli anni cinquanta sono state rilevate evidenze indirette di un meccanismo specchio anche nell’uomo. La prova dell’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo si deve agli studi di stimolazione magnetica transcranica (TMS). La TMS è una tecnica non invasiva di stimolazione del sistema nervoso, quando la corteccia motoria viene colpita con un’ intensità appropriata da uno stimolo magnetico è possibile registrare i potenziali motori, motor evoked potential MEP, nei muscoli controlaterali.

Luciano Fadiga e colleghi (Fadiga et al.,1995, Maeda et al.,2002), hanno registrato i MEP, attraverso la stimolazione della corteccia motoria sinistra, nei muscoli della mano e del braccio destro in soggetti che osservavano lo sperimentatore compiere un’azione come afferrare un oggetto. Il risultato è stato che i muscoli del braccio e della mano dei soggetti venivano attivati durante l’osservazione, mentre un altro sorprendente risultato è stato che l’attivazione aumenta notevolmente durante l’osservazione di atti intransitivi, non diretti verso un oggetto. Una differenza nell’uomo, rispetto alla scimmia, è che i neuroni specchio hanno anche la capacità di codificare e attribuire uno scopo all’azione osservata. Sin dalla loro scoperta ci si è chiesti se potessero essere alla base del comportamento imitativo, come è noto l’imitazione è la capacità di riprodurre un’azione nei dettagli dopo averla osservata e aver quindi appreso un pattern d’azione nuovo (Byrne, 1995; Tomasello, Call, 1997; Visalberghi, Fragaszy, 2002).

Secondo il modello che ha preso piede negli ultimi anni, grazie alle ricerche di Wolfang Prinz e collaboratori, l’azione osservata e quella eseguita condividono lo stesso codice neurale. Essi si rifanno al concetto di “azione ideomotoria” di Hermann Lotze, poi ripresa da William James (Lotze, 1852; James, 1890), poi estesa al principio di “compatibilità ideomotoria” dello psicologo Anthony G.Greenwald. Secondo questo principio più un atto percepito assomiglia ad uno presente nel patrimonio motorio dell’osservatore più tende a indurne l’esecuzione: percezione ed esecuzione delle azioni debbono possedere uno schema rappresentazionale comune (“So quel che fai”p.137 Rizzolatti, Sinigaglia).

La scoperta dei neuroni specchio ha dato un notevole apporto allo studio delle emozioni e in particolare al riconoscimento delle espressioni facciali. Prendiamo ad esempio un’emozione primaria come il disgusto, la sua forma primitiva è legata all’ingerire, annusare o assaggiare il cibo, costituita quindi da movimenti delle labbra, della bocca, dall’arricciare il naso e talvolta da nausea e vomito (Rozin et al., 2000). Numerosi studi condotti negli ultimi anni hanno consentito di individuare le aree cerebrali coinvolte nelle reazioni di disgusto. Tra queste un ruolo importante appartiene al lobo dell’insula. Da tempo è noto che non si tratta di un’area omogenea, nella scimmia è divisa in tre zone citoarchitettoniche: insula agranulare, disagranulare e granulare. La regione anteriore è connessa con i centri olfattivi e gustativi e riceve informazioni dalla regione anteriore della parete ventrale del solco temporale superiore (STS), in cui molti neuroni rispondono alla vista delle facce.

Nell’uomo l’insula è più grande che nella scimmia ma è molto simile. Andrew J. Calder e colleghi riportano il caso di un paziente (NK) che in seguito ad un’emorragia cerebrale, presentando gravi danni all’insula sinistra e alle strutture circostanti non era più in grado di riconoscere l’espressione di disgusto. Inoltre il danno cerebrale aveva causato un’incapacità anche a livello uditivo di riconoscere i suoni legati a tale emozione (il vomito), non era quindi in grado di provare e riconoscere il disgusto. Il riconoscimento di tutte le altre emozioni invece non presentava alcun deficit. L’osservazione di un volto che esprime un’emozione va quindi ad attivare i neuroni specchio della corteccia premotoria. Quest’area poi invia alle aree somatosensoriali e all’insula una copia efferente (del loro pattern di attivazione), simile a quello che inviano quando è l’osservatore a provare quell’emozione. Il riconoscimento delle emozioni sui volti degli altri, attraverso il meccanismo dei neuroni specchio, rappresenta il prerequisito indispensabile per la messa in atto del comportamento empatico che è alla base dell’interazione tra gli individui. La spiegazione del meccanismo dei neuroni specchio ha dato una base comune per riprendere ad indagare la natura dei comportamenti e delle relazioni sociali e interpersonali.

E’ tutta colpa tua! La solitudine con induzione di colpa morale nell’altro – Tracce del tradimento Nr. 34

TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXIV. È tutta colpa tua! La solitudine con induzione di colpa morale nell’altro

 

Alcune persone non desiderano prendersi la responsabilità della scelta della separazione e il cercare tracce ha lo scopo principale di mettere l’altro nella situazione di colpa morale. Questo fa sì che l’innocente si senta in colpa e il colpevole innocente.

La persona cercatrice di tracce ha chiaro che il suo rapporto potrebbe essere stabile, il marito fedele, il progetto certo, ma dubita di se stessa. Queste persone tradiscono perché poco conoscono e sanno di relazioni affettive di fiducia condivisa. Esse dubitano sostanzialmente del bene in generale e del bene negli altri. Il timore del sentimento di colpa che proverebbe a lasciare il suo uomo e delle incertezze che dovrebbe affrontare da sola, le fa preferire di gran lunga il ruolo di tradita che permetta un abbandono vittimistico e senza colpa e senza rimproveri. La situazione ideale che si può offrire a questa persona è, da parte dell’amante, un gesto che porti al disvelamento, una lettera, una telefonata. Questi cercatori sono molto meticolosi perché la ricerca di tracce ha lo scopo di liberarsi di una relazione che non si sa e non si vuole in fondo portare avanti. E’ come se si mettessero a collezionare ipotesi di tradimento che, anche se confermate in forma minima, possano consentire un allontanamento, in fondo desiderato da sempre.
In questa variante del cercatore la rabbia non è necessaria, l’unico sentimento necessario è la certezza della propria innocenza e la certezza della colpa altrui. Di fronte a una traccia ci si sente finalmente di fronte a qualcosa di certo, di prevedibile e l’analisi delle conseguenza non prevede mai di chiedersi quale sia stata la nostra parte, la nostra responsabilità, la nostra complicità in quello che sta accadendo.

È interessante la modalità univoca e inflessibile di ragionare. Di fronte al problema esiste sempre una e una sola soluzione che non lascia spazio di solito a una messa in discussione personale e privata ma si cercano sempre e soltanto le colpe dell’altro. Finalmente contenta, trionfante, la persona ferita può aspettare il compagno con in mano l’oggetto, la traccia, il segreto disvelato che le porterà la libertà e chiudere in modo impietoso, non nascondendo una certa soddisfazione a osservare lo sconcerto, il dolore, la paura, i vani combattimenti per restare della persona che ha accanto.
Spesso il coniuge non ha o non aveva nessuna intenzione di chiudere, di lasciare andare, non desiderava che la storia si chiudesse, ma di fronte ad un disvelamento di questa portata, a un tale torto, a una tale colpa, ha vergogna, si sente crudele e indegno, rinuncia a combattere e mesto si allontana.

Lo scopo portato avanti da questi cercatori non è riparare un torto subito, ma di essere di nuovo soli senza addossarsi la responsabilità della scelta. In realtà questi cercatori di tracce con lo scopo di rimanere da soli presentano più di altri aspetti relazionali che sono proprio l’addossare la colpa di un desiderio di separazione, all’altro. L’altro cade ingenuamente in una trappola. Fa realmente un tradimento oppure basta che alluda a un tradimento possibile e il coniuge, con grande soddisfazione ha il permesso di sfilarsi dalla relazione. Ma qual è il beneficio? Perché non dichiarare semplicemente che si vuole chiudere un rapporto?

Il beneficio di non prendere la responsabilità e lasciare all’altro tutte le colpe è uno scopo di controllo. E di autostima. L’altro è del tutto cattivo e colpevole, è stato ingiusto, noi siamo buoni, giusti e di maggior valore. Servono delle credenze sulla cattiveria e sulla bontà, sulla responsabilità e sull’innocenza, delle sofferenze indotte e delle sofferenze subite dall’altro. Non si ha la capacità di accettare la responsabilità di procurare dolore ad un altro per un proprio desiderio, una propria scelta. Non si vuole pagare la propria libertà con la coscienza di averlo scelto e di fare soffrire l’altro.
Questa posizione è illusoria ma queste persone possono vivere e crederci anche per lunghi periodi se non per sempre. L’illusione di essere vittime di una situazione ingiusta ci mette a credito e mette gli altri in debito, ottima posizione per qualsiasi trattativa, e lo scopo cinico, anche se non sempre consapevolmente cinico è avvantaggiarsi nelle trattative presenti e future. Queste persone si vedono spesso scarsamente amabili e hanno poca fiducia nel genere umano. In realtà sono sole e profondamente danneggiate. Ma aggiungono a questo una certa soddisfazione strategica a mettere gli altri in posizione di debolezza, con lo scopo di aumentare la propria posizione di forza. Questi sono i casi più gravi perché si accompagnano a cinismo nelle relazioni affettive e a comportamenti spesso ostili per il partner, definiti perennemente come esclusivamente difensivi.

Brunello era cresciuto in una famiglia molto danneggiata, il padre era alcolista e scarsamente presente, quando era presente spesso ipercritico. La madre una donna malinconica e assente, affettivamente poco competente e emotivamente assente, perennemente preoccupata soltanto di organizzare canaste con le amiche. Brunello era cresciuto solitario e poco capace di intrattenere relazioni ma molto competente professionalmente. Tutto il suo interesse era per il lavoro di matematico in una azienda informatica. Verso i trenta anni aveva incontrato, si potrebbe dire era stato incontrato da una ragazza allegra e molto carina, segretaria del suo capo, che si era innamorata di lui. Lo trovava misterioso e apprezzava certi suoi modi di fare burberi e chiusi e brontoloni, che le sembravano segni di intelligenza e profondità. Il fidanzamento era stato per lui una esperienza abbastanza preoccupante e piena di pensieri ansiosi, non conosceva questa ragazza, non si fidava molto, e poi l’intimità era preoccupante e lo distraeva dalle sue occupazioni preferite.

Ma lei, ostinata si era avvicinata sempre più fino a convincerlo a tentare una convivenza. Questa situazione era stata da lui vissuta in modo orrorifico. Non aveva idea di cosa significasse l’allegria della condivisione e soprattutto aveva cominciato a dubitare in modo ossessivo della fedeltà di lei. I brontolamenti erano diventati rimproveri e poi aperte e continue accuse. Una volta aveva rubato la password di lei e aveva trovato delle mail che lei si scambiava con un collega e che commentavano in modo ironico certe sue abitudini e la sua solitudine, c’era poi una frase “e con te le cose erano diverse” che lo rese certo di un tradimento passato e così potenzialmente ripetibile da lei. Si arrabbiò in modo feroce e gelido e al ritorno di lei dal lavoro, la accusò di tutto e della sua malafede, della sua posizione di donna poco seria, della sua fondamentale disonestà. La picchiò anche, ma smise a un certo punto perché gli sembrò che le botte fossero una comunicazione esageratamente intima. E così smise. E finalmente lei uscì di casa con la certezza della fine della storia ma anche con la percezione di essersi messa in condizioni pericolose e di aver corso dei rischi. Brunello era rimasto in casa rabbioso verso di lei ma felice di avere riconquistato quella tranquilla solitudine che sola gli permetteva di stare a fare i suoi calcoli e con il progetto chiaro in mente di non permettere più a nessuno in questo mondo di traditori di rompergli le scatole e pretendere di avvicinarsi a lui per poi fregarlo.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Le abilità attentive di base e processamento e regolazione delle emozioni

Una delle prime lezioni che si imparano a scuola di psicoterapia è che l’attenzione, uno dei processi cognitivi di psicologia generale per eccellenza, gioca un ruolo rilevante nella paura e nell’ansia. L’attenzione selettiva è uno dei maggiori bias cognitivi che autoalimentano l’ansia.

Uno studio ha voluto verificare se un semplice training mediante computer che richiede ai soggetti di ignorare le informazioni irrilevanti potesse in qualche modo modificare l’attivazione (o meglio l’iper-attivazione) dei circuiti cerebrali a fotografie minacciose, e quindi la reattività emotiva a livello cerebrale. Un gruppo di soggetti è stato sottoposto a un training attentivo di controllo esecutivo in cui veniva loro chiesto di identificare -il più velocemente possibile- la direzione di una freccia posta al centro dello schermo, ignorando la direzione di altre frecce adiacenti ad essa.

Il campione ha eseguito per metà una versione più intensa del training, mentre l’altra metà è stata sottoposta a una versione più “light” e di minore difficoltà. Per tutti i soggetti il training è stato effettuato tre volte al giorno (15 minuti per ciascuna sessione) per un totale di sei giorni.
Per valutare la reattività emotiva è stato utilizzato un test che richiedeva ai partecipanti di riconoscere i colori di un quadrato preceduto da un’immagine neutra o inducente paura. Generalmente il riconoscimento del colore avviene più lentamente quando il quadrato è preceduto da un’immagine emotigena rispetto a un’immagine neutra.

E come pre e post-assessment del training attentivo, i ricercatori hanno sottoposto i soggetti a risonanza magnetica funzionale mentre eseguivano il test per la misurazione della reattività emotiva sopra descritto.
Dunque i partecipanti sottoposti alla versione piu intensa del traning attentivo hanno mostrato una ridotta attivazione dell’amigdala nel post-assessment rispetto al pre-assessment e rispetto al gruppo di controllo (che ha eseguito una versione meno intensa del training). E la minore attivazione dell’amigdala è correlata in questi soggetti alla performance nel task di reattività emotiva, ovvero a minori tempi di reazione di riconoscimento del colore quando seguito da immagini emotigene.

Seppur con i limiti legati a un campione ridotto in numerosità, non patologico, e con assenza di misure degli effetti a lungo termine, questo studio avanza evidenze preliminari per cui esercizi che migliorano in generale le abilità attentive di base – non specificamente legate a stimoli e processi emotivi, come la capacità di ignorare stimoli irrilevanti – possono modificare i circuiti cerebrali coinvolti nel processamento e regolazione delle emozioni.

Il linguaggio universale secondo Noam Chomsky – Introduzione alla Psicologia

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 36) Una rubrica realizzata in collaborazione con la Sigmund Freud University di Milano

 

Noam Chomsky nel 1965 sviluppa una teoria basta sull’ acquisizione e produzione del linguaggio che permette di spiegare quali sono le regole che portano il bambino a produrre linguaggio.

Egli ipotizzò l’esistenza, in ciascun individuo, di un dispositivo innato imputato all’ acquisizione del linguaggio (Language Acquisition Device – LAD). Si tratta di un programma biologico, congenito, utilizzato per apprendere la lingua. Esso è formato da una serie di competenze e abilità comuni a tutte le lingue naturali, che costituiscono le abilità di base, in grado di facilitare l’acquisizione e l’apprendimento del linguaggio. Il LAD, insomma, è l’insieme di una serie di regole grammaticali che inducono la persona a generare infinite frasi attraverso un numero finito di parole acquisite con l’esperienza. Le frasi sono costruite attraverso queste regole innate che facilitano l’apprendimento della lingua utilizzando delle semplici strutture grammaticali che portano, col passare del tempo, a costruire frasi strutturalmente più complesse.

L’ acquisizione del linguaggio, dunque, secondo Chomsky non avviene per imitazione del linguaggio adulto, ma è un processo attivo che parte da un pacchetto di conoscenze innate utilizzate dalla persona per apprendere delle regole grammaticali, verificate successivamente con la pratica.

Quindi, ogni individuo possiede un bagaglio all’interno del quale sono presenti un insieme di regole logiche e grammaticali generali che permettono non solo l’ acquisizione, ma anche la produzione del linguaggio, inteso come frasi e poi come discorsi strutturati.

Succede che con lo sviluppo fisico e cognitivo, il bambino è in grado di riprodurre frasi ascoltate che può sottoporre anche al giudizio della critica, ovvero decidere la correttezza grammaticale delle stesse. Inoltre, è in grado di comprendere discorsi sempre più complessi e di produrne di nuovi con l’ausilio non solo di frase già sentite, ma utilizzando delle nuove prodotte in maniera autonoma.

 

Il linguaggio universale: la competenza

Chomski definisce competenza linguistica l’insieme di strutture e processi mentali che rendono possibile la produzione del linguaggio. Si tratta di regole innate appartenenti alla grammatica universale, in base alle quali si è in grado di distinguere frasi grammaticalmente corrette da frasi che non lo sono. Questa competenza, inoltre, permette di comprendere frasi mai udite grazie a una serie di regole sintattiche, morfologiche e semantiche già presenti in noi dalla nascita.

 

La struttura superficiale e la struttura profonda del linguaggio

Chomski, nella sua teoria sull’ acquisizione del linguaggio, distingue una struttura superficiale della lingua, la quale è costituita dal segnale fisico, il suono della parola emessa o udita, e una struttura profonda, la quale è in grado di riprodurre la struttura superficiale grazie a una serie di trasformazioni applicate, quali la combinazioni, la cancellazioni, la fonologia, e la pronuncia.

La struttura profonda può contenere elementi grammaticali assenti in quella superficiale. Per esempio il suono della parola ‘compri’ rappresenta la struttura superficiale, mentre le procedure che portano alla riproduzione vocale della stessa rappresentano la struttura profonda. Nel caso dell’esempio la parola può essere corredata dall’elemento ‘tu’ che definisce e completa la parola stessa.

Negli anni successivi, Chomsky abbandona questa distinzione tra superficiale e profonda, poiché li considerava dei termini che potevano trarre in inganno e si addicevano poco a dei processi di acquisizione linguistica, perché troppo superficiali e metafisici. In realtà, pensare alla presenza di due strutture aiuta e facilita l’apprendimento sintattico che regola la produzione delle frasi.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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