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La teoria della mente – Introduzione alla Psicologia nr. 35

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 35)

 

 

Avere una teoria della mente significa riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di queste presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (Sempio et al., 2005).

Si tratta di un’abilità utilizzata quotidianamente e serve ad avere rappresentazioni del funzionamento della mente altrui che permettono di gestire gli stati interni e le relazioni sociali al meglio. Infatti, proprio grazie alla teoria della mente è possibile spiegare, predire e agire sul comportamento proprio e altrui (More, Frye, 1991).

La teoria della mente fa riferimento a stati mentali inferiti da una serie di comportamenti che costituiscono, unitamente, un sistema esplicativo e unitario di rappresentazioni.

La teoria della mente si sviluppa durante i primi anni di vita grazie a una sana interazione con le figure di riferimento e permette di avere uno specchio sulle proprie e altrui capacità cognitive.

Sono state individuate delle variabili che facilitano la formazione di una teoria della mente nel bambino in interazione con un adulto:

  • Attenzione Condivisa, portare la concentrazione contemporaneamente su una stessa cosa o gioco;
  • Imitazione Facciale, riproduzione di particolari mimiche facciali
  • Gioco di Finzione, simulare finti giochi tra adulto e bambino

 

Teoria della mente: “fredda” e “calda”

La teoria della mente, permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003), e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). Sulla base di queste affermazioni, è possibile fare una distinzione tra una teoria della mente “fredda”, usata spesso con fini manipolatori e antisociali, e una teoria della mente “calda”, avente scopi volti al benessere sociale e comunitari.

Dicevamo, che la teoria della mente può essere usata per perseguire scopi manipolatori come nel caso dell’inganno (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999) o per interpretare sentimenti e emozioni altrui, ottenendo vicinanza psicologica come nel caso dell’empatia (McIlwan, 2003) o della comunicazione degli stati emotivi tra madre e bambino (Riva Crugnola, 1999).

La teoria della mente nello sviluppo della psiche dei bambini

Mostrare una padronanza della teoria della mente risulta essere una funzione altamente adattiva per il bambino (Fonagy, Target, 2001). Infatti, quando il bambino riesce a esplicare questa capacità attribuendo stati mentali agli altri diventa in grado di dare un senso al comportamento e a prevedere le reazioni emotive in relazione a un comportamento proprio e altrui. Questa abilità permette, di conseguenza, la messa in atto di comportamenti adatti a ogni situazione sociale.

Secondo Fonagy (2001) il bambino grazie all’interazione con l’altro-adulto, può produrre modelli di rappresentazione del funzionamento di se stesso e dell’altro. Tali modelli gli permettono di adattarsi in maniera funzionale alle situazioni per raggiungere scopi propri e altrui. La mentalizzazione permette di acquisire due abilità: l’autoconsapevolezza e riflessività (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999). Significa, che il bambino è consapevole delle proprie capacità e di quelle altrui ed è capace di riflettere sui propri processi mentali. In questo modo riesce a gestire e a determinare il suo comportamento, riconoscendo di avere dei limiti in alcune funzioni e di avere una serie di conoscenze a cui attingere.

Fonagy e Target (2001), sostennero che la teoria della mente, offre una funzione protettiva per tutti coloro che mostrano delle difficoltà oggettive dovute a traumi subiti, consentendogli di mantenere una sorta di integrità cognitiva ed esperenziale (Fonagy e Target, 2001).

Per concludere, è possibile dire che tale abilità si sviluppa nel tempo e col tempo, quindi non si nasce con una teoria della mente strutturata, ma essa deriva da una serie di attitudini acquisite e da esperienze verificatesi durante la prima infanzia che portano alla formazione di rappresentazioni mentali proprie e altrui che guidano il comportamento sociale del bambino e del futuro adulto.

 

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

La psicoterapia modifica il nostro cervello: mente e corpo un’unità ritrovata

Valentina Retto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Psicoterapia: la concezione che la mente e il corpo siano entità separate è anacronistica e limitante nel campo della diagnosi e della cura del ventunesimo secolo. Oggi si presenta un’opportunità importante per la convergenza tra la medicina e la psicologia, attraverso le neuroscienze.

Psicoterapia: Il pregiudizio originale

Ancora troppo diffusa è la credenza che in psicoterapia si facciano solo “chiacchiere”.
Questo pregiudizio, ovvero un giudizio anticipato e prematuro, come altri ha delle fondamenta culturali profonde. E’ nato da una visione dualistica della cultura occidentale che separa nettamente il concetto di mente da quello di corpo.
Dicotomia che ha condotto a una disparità, anche nell’importanza comunemente attribuita in maggior misura alla salute fisica, a discapito di quella mentale. (McClanahan et al., 2006).
Tuttavia, le più recenti scoperte hanno permesso di stabilire con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello, producendo un vero e proprio mutamento dei circuiti neuronali. Le tecniche di neuroimaging dimostrano che il lavoro psicoterapeutico produce le stesse modifiche chimiche che sono apportate dalla terapia psicofarmacologica, indebolendo la concezione dualistica che vede come nettamente separati la mente e il corpo (Gabbard G. O., 2000).

 

Le radici del pregiudizio: il dualismo mente-corpo

In origine, la Psicologia è nata con lo scopo di studiare gli aspetti caratteriali e comportamentali dell’uomo. Il termine psicologia è stato coniato nel XVI secolo, da Rodolfo Goclenio, e deriva dalle parole: psiché (respiro, alito, fiato, principio vitale, ma anche carattere personale e modo di agire), e logos (discorso, pensare, ragion d’essere, studio). Tuttavia, le radici della Psicologia affondano ancora più in profondità nella filosofia dell’Antica Grecia, con il pensiero di Platone (400 a.C.). Dalla sua teoria nasce la contrapposizione tra tutto ciò che è considerato immateriale e intangibile, il mondo delle idee, e ciò che invece è materiale, corporeo.

Successivamente, questo pensiero dicotomico viene rinforzato dalla filosofia Cartesiana del XVII secolo, con la res cogitans e la res extensa, e fino ad oggi ha influenzato, insieme alla cultura Cattolica, il pensiero del mondo occidentale (Damasio, 1995). Da tali basi si è istaurata una netta divisione tra mente e corpo, questo dualismo ci ha portato a concepire l’uomo come un insieme di organi con distinte funzioni, perdendone il senso di unicità. Da un lato, stimolando un elevato sviluppo conoscitivo e tecnologico, “le specializzazioni”, dall’altro, però, ostacolando un approccio multidimensionale allo studio e alla cura dei fenomeni umani, normali e patologici (Trombini, G. & Baldoni, F., 1998).

In un recente studio condotto tra Belgio e Regno Unito, sono stati osservati gli atteggiamenti inerenti il rapporto mente-corpo e le variabili che rappresentano le differenze di tali inclinazioni, in un campione di studenti universitari e operatori sanitari. I sondaggi indicano una predominanza dell’ideologia dualistica. I giovani, le donne, e chi ha credenze religiose sono i più propensi a credere che la mente e il cervello siano separati e negano la fisicità della mente. La fede religiosa è risultata essere il miglior predittore per tale atteggiamento. Tra gli operatori sanitari, invece, la maggior parte è contraria alla presenza di una divisione tra la coscienza e il corpo. Tuttavia, anche una parte considerevole di questi professionisti, medici e paramedici, più di un terzo, sostiene la concezione dualistica (Demertzi, A. et al., 2009).

Psicoterapia e dualismo mente-corpo: un diverso punto di vista

Una prospettiva alternativa la ritroviamo nella cultura orientale, caratterizzata per avere una visione più ampia dell’oggetto osservato, che viene sempre posto in relazione agli altri elementi del contesto (Nisbett R.E. & Masuda T., 2003). Corpo e mente sono visti come aspetti inseparabili; in particolare, nella filosofia Buddista per unicità non si intende che corpo e mente siano identici, ma che non siano separati, essi sono considerati entità distinte di uno stesso essere vivente che dialogano e interagiscono profondamente. (Feldenkrais, M., 1991; Frank R., 2005).

Tra gli approcci più moderni in ambito medico, invece, si cerca di colmare questa distanza con la medicina integrativa, l’approccio olistico, o la psicosomatica. Infine, il concetto di Engel di medicina biopsicosociale suppone una matrice triangolare, in cui il corpo e la mente sono posti in una relazione reciproca e nei confronti di un terzo agente, l’ambiente. Ciò che emerge da questi nuovi approcci è la necessità di un lavoro interdisciplinare, nel quale il paziente venga preso in carico nella sua interezza, in un’ ottica di cura alla persona e non della malattia (Brunnhuber S. & Michalsen A., 2012; Herrmann-L Sargent, P.A. et al., 2012; Santagostino, 2005; Scogliamiglio, 2008).

 

Psicoterapia e pregiudizio occidentale: pillole per il corpo e parole per la mente

A causa del “pregiudizio occidentale”, l’ambito di indagine della psiché ha imboccato due percorsi separati: quello biologico (neurologia e psichiatria) e quello psicologico (psicologia e psicoterapia), creando la distinzione tra le “malattie del cervello” e i “disturbi della mente”. Si è strutturata, così, anche una divisione dell’iter diagnostico e dell’approccio terapeutico; secondo questa visione dicotomica i disturbi della mente devono essere trattati con la psicoterapia, mentre per le “malattie del cervello” vengono utilizzati gli psicofarmaci (Andreasen, N.C., 2004).
In sostanza, vige la credenza secondo la quale il cervello si cura con i farmaci, mentre la mente si cura con le parole, perché queste non hanno effetti sul corpo. In relazione a ciò, nel senso comune si è venuta a formare l’idea che dallo psicoterapeuta “si facciano delle chiacchiere”, e che le figure professionali dello psicologo e dello psicoterapeuta siano serenamente intercambiabili, se non addirittura sostituibili con figure professionali non adeguatamente formate come il counselor, il life-coach e il trainer o il migliore amico.

Dualismo mente-corpo: è davvero così?

Sigmund Freud, nel suo Progetto di una psicologia (1895), ha scritto:

[blockquote style=”1″]Un giorno sarà possibile rappresentare il funzionamento psichico negli elementi organici del Sistema Nervoso.[/blockquote] (Kandel, E.R., 1998).

Oggi, gli studi dimostrano che quell’auspicio si sta avverando.
Le ricerche degli ultimi anni stabiliscono con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello, producendo al suo interno modifiche chimiche del tutto simili a quelle apportate dai farmaci (Frewen, P.A. et al., 2008).
Quindi, questa “terapia della parola” non solo cambia il comportamento, ma è anche in grado di rinnovare i processi di pensiero e, dunque, di mutare i circuiti neurobiologici del cervello (Gabbard, G.O., 2000).

Integrazione mente-corpo: come accade?

Le percezioni, la memoria, i pensieri, le emozioni e i comportamenti sono gestiti da determinati circuiti neuronali. Ogni disturbo cognitivo deriva da un’alterazione della struttura o della funzionalità di queste reti. Il cervello è un organo plastico, capace di modificarsi nel momento in cui l’individuo riflette, apprende e memorizza, ed è in grado di generare, regolare o modificare le funzioni indispensabili per la vita, sia da un punto di vista biologico che sociale (Dolan R.J., 2002; Squire, L. & Kandel, E.R. 2003; Straube T. et al.,2006).
La psicoterapia promuove l’apprendimento di modi alternativi di pensare e comportarsi, ovvero altera la forza delle sinapsi tra i neuroni, portando, quindi, a dei veri e propri cambiamenti morfologici nei neuroni stessi.
Alla luce di queste conoscenze, in campo scientifico si sta già da tempo gradualmente correggendo la dicotomia culturale di partenza, che prevede una rigida distinzione tra i disturbi neurologici, psichiatrici e psicologici, accogliendo un approccio integrato e interdisciplinare (Manna V., 2008).

 

Psicoterapia: come agisce?

Lo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale divide la terapia principalmente in due fasi, in un primo momento raccoglie informazioni personali, familiari e sull’evoluzione del disturbo per il quale la persona ha richiesto assistenza, inoltre, osserva gli schemi di pensiero e di comportamento, lo stile relazionale e la modalità in cui esprime le emozioni. In un secondo momento si apre la fase dell’intervento terapeutico vero e proprio, i cui obiettivi sono concordati esplicitamente con il paziente sulla base delle richieste fatte, e vengono perseguiti con un coinvolgimento attivo da parte di entrambi, applicando tecniche specifiche, che il professionista può conoscere e padroneggiare solo in seguito ad anni di studi e praticantato. Il fine di una corretta psicoterapia non è quello di modificare l’intera struttura di personalità dell’individuo, bensì stimolare l’apprendimento di pensieri e comportamenti più funzionali, ovvero che non generino sofferenza e disadattamento sociale.

 

Psicofarmaci: coadiuvanti della psicoterapia, non sostitutivi

La psicoterapia modifica il cervello, quindi non è meno “biologica” rispetto alla terapia farmacologica. Ciò non significa che la terapia con i farmaci, non sia uno strumento necessario nel processo di trattamento dei pazienti con maggiore disagio. Tuttavia, gli psicofarmaci tendono ad essere prescritti anche quando non necessari, oppure vengono utilizzati in modo sostitutivo della psicoterapia. Questo accade anche quando le evidenze ci insegnano che la psicoterapia, o la terapia associata se necessario, hanno risultati superiori rispetto all’utilizzo esclusivo della terapia farmacologica (DeRubeis, R.J. et al., 2008; Hirvonen, J. et al, 2010; Hollon, S.D., et al., 2005; Praško, J. et al., 2004).

Efficacia della Psicoterapia: che prove abbiamo?

La psicoterapia è efficace, in particolare, l’American Psychiatric Association (APA) ha stilato le linee guida internazionali sulla base di rigorose revisioni della letteratura scientifica, indicando la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) come la più indicata per la gran parte dei disturbi psicologici raccolti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), e la definisce più efficace della terapia psicofarmacologica sul lungo periodo (Evidence-Based Mental Health, 2003; Fonagy, P. et al., 2002; Michielin P. & Bettinardi O., 2004).

Più recentemente, i risultati di una ventina di studi hanno riscontrato che la CBT modifica la disfunzione dei circuiti neuronali correlati al disturbo psicopatologico trattato. I percorsi psicoterapici testati riguardano pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (Apostolova, I. et al., 2010; Baxter, L.R. et al., 1992; Lehto, S.M. et al., 2008; Nakao, T. et al., 2005; Schwartz, J.M. et al., 1996), disturbo depressivo maggiore (Brody A.L. et al., 2001; Goldapple, K. et al., 2004; Hirvonen, J. et al., 2010; Hollon, S.D. et al., 2005; Karlsson, H. et al., 2010), fobia sociale (Furmark, T. et al., 2002), fobia specifica (Johanson A. et al., 2006; Paquette V. et al., 2003; Straube, T. et al., 2006), disturbo da attacchi di panico (Sakai, Y. et al. 2006), schizofrenia (Penadés, R. et al., 2002), disturbo post-traumatico da stress (Felmingham K. et al., 2007; Levin, P. et al., 1999; Peres, J.F.P. et al., 2005), sindrome del colon irritabile (Lackner, J.M. et al., 2006) e disturbo borderline di personalità (Schnell, K. & Herpertz, S.C., 2007).

Gli effetti neurobiologici della psicoterapia possono essere misurati utilizzando metodi di neuroimaging funzionale, che sono visti come estremamente rilevanti sia per le neuroscienze sia per la psicologia, dal momento che possono gradualmente raggiungere una più precisa identificazione dei circuiti neurali associati a disturbi mentali specifici. Studi condotti utilizzando metodi come la tomografia a emissione di singolo fotone (SPECT), la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fRMI), forniscono un importante contributo, dal momento che le dinamiche cerebrali possono essere osservate in vivo e in situazioni controllate (Sargent, P.A., 2000).

 

Psicoterapia, mente e corpo: conclusioni

La concezione che la mente e il corpo siano entità separate è anacronistica e limitante nel campo della diagnosi e della cura del ventunesimo secolo. Oggi si presenta un’opportunità importante per la convergenza tra la medicina e la psicologia, attraverso le neuroscienze.
Ogni cambiamento nei nostri processi psicologici e cognitivi si riflette in variazioni strutturali e funzionali del cervello stesso.
Non si tratta di un sostegno al riduzionismo biologico, l’obiettivo non è certo provare che tutto quello che non si può misurare con strumenti di neuroimaging allora non ha valenza scientifica. Piuttosto, si vuole dire che grazie ai suddetti progressi tecnologici e all’incremento delle conoscenze scientifiche, è possibile osservare come i pensieri e i loro correlati biologici si modificano all’unisono.

Inoltre, si è dimostrato come la psicoterapia cognitivo-comportamentale sia in grado di produrre tali cambiamenti, mutando la chimica celebrale al pari o più a lungo della terapia psicofarmacologica. Un numero sempre maggiore di neuroscienziati e di psicoterapeuti sta costruendo collegamenti sperimentali e concettuali tra questi due rami complementari e interdipendenti della conoscenza.
Quanto raccolto, infine, spezza le radici di quel pregiudizio ancora troppo presente nel senso comune, che tuttora continua a fraintendere l’efficacia e la natura stessa della psicoterapia.

Il legame tra carenza di esercizio fisico e abuso di alcol

 

Da una ricerca su larga scala riguardante uomini e donne afro-americani è emerso che coloro i quali non si dedicano mai all’esercizio fisico, o di rado, hanno circa il doppio delle probabilità di abuso di alcol rispetto a quelli che si allenano con maggiore frequenza.

Tale scoperta potrebbe avere implicazioni su tutti i gruppi sociali. In particolare, dall’indagine, condotta su 5002 uomini e donne afro-americani, è emerso che quelli che non si impegnano per niente in attività fisiche, o solo occasionalmente, hanno una probabilità quasi doppia – tra l’84 e l’88 % in più – di abuso di alcol rispetto a coloro che regolarmente sono coinvolti in attività fisiche, tenendo in considerazione fattori demografici, come caratteristiche di reddito e di vicinato.

I partecipanti della ricerca appartengono alla National Survey of American Life (NSAL), uno studio che ha avuto luogo tra il 2001 e il 2003, diretto a identificare differenze razziali ed etniche nei disordini mentali e in altri disagi psicologici, compresi quelli inclusi nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Lo studio si è basato sulla definizione di abuso di alcol fornita dal DSM-IV, che lo descrive come quel:

‘bere’ che ha conseguenze sociali, professionali e/o giuridiche negative.

Le scoperte della ricerca sono state presentate all’incontro dell’American Public Health Association, tenutosi a Chicago il 2 novembre. April Joy Damian, dottorando nel Dipartimento di Salute Mentale della Scuola di Salute Pubblica Johns Hopkins Bloomberg e autore dello studio, ha affermato che sono state svolte ricerche sull’associazione tra uso di sostanze e relative condizioni di salute in comorbilità, come depressione e ansia, ma ci sono stati pochi studi che hanno esaminato la connessione tra esercizio fisico e il decremento della possibilità di sviluppare un disturbo da abuso di alcol.

Infatti – Damian ha detto – la NSAL ci fornisce semplicemente uno spaccato della situazione in un certo momento del tempo, ma non possiamo dire se impegnarsi nell’attività fisica impedisca lo sviluppo di un disturbo da abuso di alcol o se lo stesso disturbo possa essere trattato prescrivendo dell’attività fisica.

Ad ogni modo, considerando l’elevato tasso di co-occorrenza che il disturbo da abuso di alcol ha con depressione e ansia, il ricercatore asserisce l’importanza dello sviluppo di ulteriori studi a riguardo, sia su Afro-Americani sia su tutti gli altri gruppi etnici. Inoltre l’autore aggiunge:

Dovremmo considerare come l’esercizio fisico incida sui comportamenti alcol-relati e disegnare programmi di intervento per le persone a rischio.

Il Congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg, 20-22 novembre 2015 – report parte 2

L’ECED ha sempre avuto un atteggiamento ecumenico, non rimanendo chiusa ai trattamenti non cognitivi per i disturbi alimentari. 

Tra le cose che abbiamo seguito nel secondo giorno del congresso ci ha convinto un lavoro dello svizzero Dagmar Pauli sull’importanza del trattamento domiciliare per i disturbi alimentari gravi, quelli più restii alla cura e più invischiati nell’ambiente familiare o più danneggiati, mentre il norvegese Kjersti Hognes Berg ci ha aggiornato sull’utilità della fisioterapia per queste pazienti, non solo da un punto di vista fisico ma anche psicologico: la fisioterapia possiede anche un aspetto esperienziale e corporeo che incrementa il benessere in queste pazienti, pur non producendo miglioramenti sintomatici.

Barbara Pearlman ha illustrato come lei integra interventi neuroscientifici cognitivi e psicodinamici nella sua pratica clinica, secondo un modello che sembra dovere molto al lavoro di Peter Fonagy. Puramente psicodinamici invece i modelli della francese Florence Askenazy e della danese Susanne Lunn. Non è una sorpresa. L’ECED ha sempre avuto un atteggiamento ecumenico, non rimanendo chiusa ai trattamenti non cognitivi per i disturbi alimentari.

 

È stato anche un congresso dedicato alla trascurata figura del paziente con disturbo alimentare di sesso maschile. Ne hanno parlato sia lo spagnolo Fernandez-Aranda che le norvegesi Lynn Reas e Stedal. Timea Krizbai dalla Romania ha parlato di ortoressia, questo nuovo disturbo alimentare caratterizzato dall’ossessione di mangiare sano. Krizbai ci ha spiegato che le persone con Ortoressia Nervosa, infatti, mettono in atto dei veri e propri rituali ossessivi, che possono essere suddivisi in 4 fasi (Brytek-Matera, 2012):

1 – forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare, con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi (ad es., cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o ‘artificiali’, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale);

2 – impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;

3 – preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (ad es., cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);

4 – sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

 

Molto interessante la tedesca Elisabeth Kohls che ha dimostrato come una buona ed equilibrata alimentazione prevenga non solo l’anoressia ma anche la depressione. L’australiana Charlotte Keating ha esplorato l’attaccamento insicuro nei disturbi alimentari.

Nel dibattito finale, un must dell’ECED, si sono scontrate l’olandese Isis Elzakkers e la finlandese Anna Keski-Rakhonen, la prima difendendo la bontà della necessità di trattamenti evidence based in nome del rigore scientifico, la seconda attaccandoli nel nome della creatività clinica. L’olandese aveva sostenuto che è difficile difendere una posizione anti evidence in un congresso psicologico psichiatrico e psicoterapeutico di questi tempi, ma certo il ridotto successo del protocollo di Fairburn nelle anoressiche restrittive o binge purge, ha provocato un certo scetticismo, una certa tendenza a essere disillusi sull’efficacia, e invece di arricchire e tentare di comprendere meglio il funzionamento di queste pazienti, si è visto qualche tentativo di ricorrere di nuovo alla necessità del simbolico, dell’interpretativo.

A nostro giudizio molto c’è ancora da fare nel mondo della ricerca sui disturbi alimentari per integrare le conoscenze che provengono dai diversi campi e per arrivare a un modello più fine, esaustivo e preciso del funzionamento di queste pazienti. Basti pensare al ruolo dei processi, come il rimuginio e la ruminazione, ancora del tutto trascurati nelle ipotesi di intervento clinico e psicoterapeutico. Solo questa può essere una premessa a una nuova corrente di ricerca di efficacia psicoterapeutica basata su ipotesi nuove.

Il congresso si è concluso nella consueta atmosfera amichevole e familiare che lo connota da sempre. Arrivederci tra due anni.

Il trauma nel racconto dei rifugiati: la terapia dell’esposizione narrativa (NET)

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014).

[blockquote style=”1″]Quando un essere umano infligge un dolore o un danno ad un altro essere umano, ne deriva una lacerazione a livello umano e personale. Il trauma distrugge il nucleo di umanità caratteristico di ogni contesto sociale: la comunicazione, la parola, la memoria autobiografica, la dignità, la pace e la libertà.[/blockquote]

In questi anni stiamo assistendo ad un planetario fenomeno migratorio, fatto di intere popolazioni in fuga dalla propria terra. Guerre, persecuzioni, disastri naturali, estrema povertà, genocidi e discriminazioni politiche e religiose, alimentano flussi migratori di popolazioni di rifugiati che legittimamente cercano un luogo più sicuro in cui vivere, in cui costruire un futuro e proteggere le proprie famiglie. Questa ricerca di libertà e dignità nasce dall’aver vissuto situazioni gravemente traumatiche nella terra d’origine, ma spesso incontra sulla via di fuga situazioni di ulteriore minaccia alla vita: torture e umiliazioni, lutti e violenze che non trovano rapidamente una soluzione di protezione, ma che vengono al contrario reiterati, lasciando poco spazio alla possibilità di difesa delle vittime.

Che caratteristiche ha la violenza organizzata? Questo tipo di fenomeni ha alla base una strategia sistematica messa in atto da membri di gruppi con struttura centralizzata o con orientamento politico (unità di polizia, organizzazioni ribelli, organizzazioni terroristiche, paramilitari e unità militari). E’ indirizzata agli individui e ai gruppi con differenti orientamenti politici o di diversa nazionalità o che provengono da specifici background culturali, etnici e razziali. La violenza organizzata è caratterizzata dalla sistematica violazione dei diritti umani e le conseguenze si estendono, vaste, nel futuro di una società.

Cosa succede nella mente di chi vive questi traumi? Sentirsi impotenti di fronte a gravi minacce alla propria vita o incolumità fisica è una situazione che la mente umana non può tollerare a lungo e che genera l’innesco di strategie di sopravvivenza che rischiano di rimanere attive anche molto tempo dopo il superamento del pericolo: stati di allerta persistenti, flash back, reazioni intense di collera e reazioni sproporzionate anche a stimoli ambientali di lieve pericolo e minaccia. La cronicizzazione di queste reazioni è responsabile dello sviluppo di disturbo da stress post-traumatico e di PTSD complesso, situazioni cliniche che se prolungate nel tempo aumentano la probabilità di compromettere la salute fisica e mentale delle vittime nell’arco di vita: depressione maggiore (48%), fobie specifiche (30%), abuso di alcol (51,9%), abuso di droghe (34,5%), disturbi della condotta (43,3%); a queste si aggiungono sul piano della salute generale una maggiore incidenza di malattie autoimmuni, infezioni croniche e un’alterata sensibilità al dolore che può manifestarsi con sindromi da dolore cronico molto invalidanti nella vita quotidiana.

Questi dati ci pongono di fronte dunque alla necessità di pensare strategie di intervento multilivello sulle situazioni di emergenza generate dai fenomeni migratori, che tengano conto sia delle necessità a breve termine legate all’accoglienza dei bisogni primari e all’offerta di protezione, sia di quelle a più lungo termine rispetto all’emergere di difficoltà di integrazione, sofferenza psicologica e malattie mediche legati agli esiti emotivi degli eventi traumatici affrontati prima, durante e dopo il viaggio migratorio. L’emergere di situazioni psicopatologiche è in molti casi immediato e richiederebbe un intervento psicologico tempestivo, ma più spesso la sofferenza psicologica trova spazio proprio quando il pericolo è passato e la vita potrebbe iniziare a scorrere di nuovo normalmente. Quali interventi sono disponibili?

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014). Questo metodo terapeutico offre un protocollo breve per intervenire sulle situazioni sopra descritte e che utilizza la narrazione degli eventi traumatici come strumento terapeutico per ottenere un duplice risultato clinico: ridurre sintomi trauma-correlati e offrire la possibilità di una ricostruzione coerente della propria storia, che possa essere utile a recuperare dignità personale e consapevolezza della violazione dei diritti umani subita. Il trauma infatti rende la memoria frammentata e questo rischia di alterare i ricordi o la loro precisa collocazione nel tempo, generando inevitabile confusione nella vittima, dubbi sulla veridicità degli eventi e sulle responsabilità degli stessi, elementi che sul piano clinico possono mantenere e peggiorare il malessere psicologico.

Nella NET il paziente parla ripetutamente di ogni evento traumatico in dettaglio, mentre fa di nuovo esperienza delle emozioni, delle cognizioni, delle sensazioni fisiologiche e sensoriali e dei comportamenti associati all’evento. Allo stesso modo il paziente racconta le esperienze positive. Con l’aiuto e la guida del terapeuta, il paziente costruisce una narrazione della sua vita, focalizzandosi sui dettagli del contesto relativi alle esperienze traumatiche, così come sugli elementi importanti delle reti emozionali e su come tutte queste parti siano tra loro connesse. Il processo narrativo permette di riconoscere che la rete della memoria incentrata sulla paura, che nel presente provoca i sintomi allerta, viene da esperienze passate e che la sua riattivazione nel racconto è nient’altro che un ricordo di quelle esperienze. Attraverso la narrazione ripetuta i pazienti perdono la risposta emotiva al ricordo degli eventi traumatici, il che porta alla lenta remissione dei sintomi post-traumatici. Allo stesso tempo guadagnano l’accesso ai ricordi passati e sviluppano un senso di coerenza, controllo e integrazione.

Di seguito gli elementi della NET risultati efficaci nel trattamento del trauma e ben descritti nel libro:
1. Ricostruzione cronologica attiva della memoria autobiografica/episodica;
2. Esposizione prolungata ai “punti caldi” della memoria e piena riattivazione dei ricordi dolorosi per modificare la rete emotiva attraverso il racconto (es. imparare a distinguere memoria traumatica dalla sua risposta emotiva condizionata, separare piani temporali, comprendere che gli stimoli sono solo temporaneamente associati alla sofferenza attuale);
3. Associazione significativa e integrazione delle risposte fisiologiche, sensoriali, cognitive ed emotive all’ interno del proprio contesto di vita spazio-temporale (es. comprensione del contesto originario di acquisizione e del riemergere delle risposte condizionate nel corso della vita);
4. Rivalutazione cognitiva del comportamento (es. distorsioni cognitive, pensieri automatici, credenze, risposte);
5. Rivisitazione delle esperienze di vita positive per un supporto (mentale) e per aggiustare le assunzioni di base su di sé e sulla propria storia;
6. Recupero della dignità personale attraverso la soddisfazione del bisogno di riconoscimento, attraverso l’orientamento sui diritti umani alla “testimonianza”.

Attraverso una disamina delle ricerche epidemiologiche sul tema dei traumi collettivi e un’analisi attenta delle basi culturali, psicologiche e neurofisiologiche che determinano e mantengono situazioni di sofferenza psicologica, il manuale offre una guida semplice e chiara sul protocollo terapeutico della NET. La descrizione della procedura per fasi e la presenza di molti esempi clinici, rende il testo di Schauer e colleghi un validissimo riferimento per gli operatori e i terapeuti che lavorano con rifugiati o con pazienti sopravvissuti a violenze organizzate di diverso tipo.

Fermare il complotto del silenzio che spesso domina le vite dei sopravvissuti a traumi collettivi è l’obiettivo più alto di questo approccio, sopportare il peso e il dolore della verità è invece la sfida che questo metodo impone ai clinici e a tutti coloro che quotidianamente si occupano di storie di violazione dei diritti umani.

The Flow esperience: la prestazione che genera gratificazione e positività

Csikszentmihalyi (1975) ha concettualizzato il termine flow come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che corrisponde alla “completa immersione nel compito”.

[blockquote style=”1″]The best moments in our lives are not the passive, receptive, relaxing times… The best moments usually occur if a person’s body or mind is stretched to its limits in a voluntary effort to accomplish something difficult and worthwhile.[/blockquote]
Mihaly Csikszentmihalyi (1990).

[blockquote style=”1″]I momenti migliori della nostra vita non sono tempi passivi, ricettivi, rilassanti… I momenti migliori di solito si verificano se il corpo e la mente di una persona sono spinti ai loro limiti nello sforzo volontario di realizzare qualcosa di difficile e per cui ne valga la pena.[/blockquote]

Il concetto di flow è stato introdotto per la prima volta da Csikszentmihalyi (1975), uno psicologo americano che, a partire dagli anni ’70, ha svolto una serie di ricerche sul “flusso di coscienza” come fenomeno riscontrabile in determinate condizioni di operatività. L’attenzione per questo fenomeno nasce da uno studio effettuato sulla creatività (Getzels & Csikszentmihalyi, 1976), dove l’autore è rimasto colpito dal fatto che quando l’artista in questione reputava che la creazione del suo quadro stesse andando bene, egli persisteva nel lavoro senza sosta, ignorando fame, fatica e disagio. Da qui l’interesse a capire e spiegare questo aspetto di motivazione intrinseca, o autotelica, dell’attività stessa, dello svolgere lavori che premiano da sé e per sé, a prescindere dal prodotto finale o da eventuali rinforzi estrinseci. In questo studio si sottolineava il godimento quale motivazione principale all’operosità.

the flow experience

Csikszentmihalyi (1975) ha così concettualizzato il termine flow come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che corrisponde alla “completa immersione nel compito”. La situazione che rende possibile entrare a contatto con questo stato di essere è caratterizzata dalla percezione, da parte dell’individuo, di sufficienti e appropriate opportunità per l’azione (sfide) da parte dell’ambiente e, corrispettivamente, di personali adeguate capacità di agirvi (abilità). Entrare nel flusso dipende, quindi, dall’equilibrio tra queste due componenti, valutate soggettivamente.

Nel caso il soggetto consideri le sfide al di là delle proprie capacità, entrerà in uno stato dapprima di vigilanza e poi di ansia; nel caso contrario, passerà dal rilassamento alla noia. Quando invece percepirà armonia tra i livelli di sfide e abilità, allora potrà esperire la flow experience, l’esperienza ottimale (Figura 1), sperimentando il pieno assorbimento in un’esperienza che coinvolge l’individuo globalmente, concentrando nel compito aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali. La totale armonia con quello che si sta facendo non solo porta al godimento puro, ma offre la possibilità di accrescere le proprie capacità, mettendosi in gioco, testando e imparando nuove competenze, e la propria autostima (Csikszentmihalyi e LeFevre, 1989). L’esperienza ottimale attiva il flusso dinamico di energia mentale che attiva risorse e potenzialità dell’individuo.

Sono stati svolti diversi studi che confermano l’occasione di vivere la flow experience in diversi campi, ad esempio nell’arte e nella scienza (Csikszentmihalyi, 1996), nell’esperienza estetica (Csikszentmihalyi e Robinson, 1990), nello sport (Jackson, 1995) o nella scrittura letteraria (Perry, 1999). È comunque possibile ritrovare esperienze ottimali in altri ambiti comuni e quotidiani, essendo questa relativa a valutazioni soggettive e, quindi, a caratteristiche personali di approccio all’ambiente, dipendenti anche dal contesto culturale in cui si trova la persona. A tal proposito, Csikszentmihalyi (2000) ha ipotizzato l’esistenza di un tipo di personalità autotelica, caratterizzata dalla tendenza a “godersi la vita”, ovvero a fare le cose per se stesse, e da alcune capacità metacognitive, quali ad esempio la curiosità e la disposizione a prestare attenzione a ciò che accade nell’immediato, che portano a ricercare e cogliere le occasioni intrinsecamente appaganti.

Sono stati poi delineati i fattori, in stretta correlazione tra loro, che costituiscono la flow experience (Nakamura e Csikszentmihalyi, 2002):
– bilanciamento tra sfida e abilità: senso che l’individuo si sta impegnando in qualcosa di appropriato per le proprie capacità;
– fusione tra azione e consapevolezza;
– senso di controllo, sia delle proprie azioni, sia delle conseguenze di esse;
– obiettivi prossimali chiari e feedback immediato che permettono lo svolgersi continuo del processo, momento per momento;
– attenzione e concentrazione totale sul compito;
– perdita dello stato di autocoscienza ordinario, perdita, cioè, della concezione egocentrica di sé come attore tanto è l’assorbimento nel compito;
– distorsione della normale percezione temporale (tipicamente sembra che il tempo passi più in fretta);
– gratificazione legata all’esperienza stessa e profondo senso di piacere (Deci, 1975), tali che spesso la meta finale è solo una scusa per iniziare il compito (esperienza autotelica).

Quando è nel flusso, l’individuo funziona a pieno delle sue capacità. Imparare a cogliere e sfruttare opportunità di esperienze ottimali porta quindi numerosi vantaggi, quali l’attivazione e lo sviluppo di capacità personali e l’assaporare uno stato di benessere collegato a forti emozioni positive e a un senso positivo di autostima e autoefficacia. Aggiungendo, per ultimo ma non meno importante, il peculiare contributo nel dotare di valore l’esperienza momentanea che si sta vivendo.

Stress genitoriale come fattore di rischio nel maltrattamento fisico dei bambini

Claudia Rizza – Open school Studi Cognitivi Modena 

Il maltrattamento fisico sui bambini è un fenomeno sfaccettato: tra i diversi fattori di rischio, uno dei principali fenomeni direttamente associati alla violenza fisica è il parenting stress inteso come una specifica forma di stress percepito dai genitori in base alle responsabilità del proprio ruolo.

 

Per maltrattamento fisico si intende “un danno (fisico) non accidentale che è il risultato di atti (o omissioni) da parte dei caregivers i quali violano gli standard comuni riguardanti il trattamento dei bambini” (Kempe & Helfer, 1972).

Prendendo in esame la definizione di Kempe et al., (1972) emerge che, per poter parlare di maltrattamento, è necessario che i caregivers di riferimento mettano in atto intenzionalmente agiti aggressivi e violenti tali da procurare ai bambini un danno fisico significativo e in grado di violare le norme comunitarie di trattamento (come, ad esempio, la Convenzione sui diritti del fanciullo – ONU,1989). E’ interessante notare che nel concetto di maltrattamento fisico rientrano non solo gli atti effettivamente commessi, ma anche tutti quei comportamenti che non vengono agiti direttamente dai caregivers (omissioni). Come sottolineato da Di Blasio (2002), anche la mancata prevenzione di comportamenti potenzialmente pericolosi per i figli può essere considerata una forma di maltrattamento fisico e, proprio la propensione di alcuni genitori a maltrattare, ha permesso alle ricerche di non focalizzarsi soltanto sull’accertamento del danno ma anche sulla modalità di prevenzione e sulla comprensione di tutti quei fattori che possono, in qualche modo, determinare l’azione maltrattante (Milner, 1993).

A partire dalla complessità della definizione, si può facilmente comprendere come il maltrattamento fisico sui bambini sia un fenomeno sfaccettato: infatti, malgrado si stiano facendo numerosi sforzi per salvaguardarne il benessere e per proteggere i bambini dai potenziali pericoli, esistono una vasta gamma di fattori di rischio (ambientali, sociali e psicologici) che in maniera sinergica, contribuiscono ad incrementare la propensione dei genitori ed esercitare azioni maltrattanti verso i propri figli (Dopke & Milner, 2000).

Tra i diversi fattori di rischio, uno dei principali fenomeni direttamente associati alla violenza fisica è il parenting stress inteso come una specifica forma di stress che viene percepita dai genitori in base alle responsabilità e all’assunzione del proprio ruolo (Abidin, 1995; Abidin, Jenkins, & McGaughey, 1992 Azar, Robinson, Hekimian, & Twentyman, 1984; Chan, 1994; Milner, 1993; Rodriguez & Green, 1997; Wolfe, 1987). Per poter meglio comprendere questa particolare forma di stress è necessario prestare attenzione alle sue tre componenti (Abidin,1995):

  • Il distress genitoriale, che fa riferimento alla percezione dei genitori di avere scarse capacità parentali, alla mancanza di libertà personale, alla restrizione in alcuni aspetti della vita genitoriale, alla mancanza di sostegno sociale e alla presenza, talvolta, di vissuti depressivi (Abidin, 1995; Abidin, et.al, 1992; Deater-Deckard & Scarr, 1996);
  • La relazione disfunzionale genitore-figlio, che si riferisce alle percezioni e ai sentimenti che il genitore nutre nei confronti dei figli. Essa dipende dal grado di soddisfacimento ottenuto dalla qualità della relazione con il bambino e dalla relativa gratificazione percepita in relazione al ruolo genitoriale (Abidin et al, 1992; Vondra & Belsky, 1993). La percezione dei genitori di avere una relazione deludente con i figli è strettamente associata a sentimenti di angoscia e alla presenza di sintomi d’ansia e di depressione (Vondra & Belsky, 1993).
  • La percezione di avere un bambino difficile da gestire si riferisce alla percezione distorta dei genitori di avere dei figli con caratteristiche temperamentali e comportamentali difficili (Abidin, 1995). Questa tipologia di bambini vengono spesso descritti come molto irritabili, difficili da contenere e poco sensibili al rispetto delle regole (Owens & Shaw, 2003). In linea con quanto affermato, alcune ricerche (Bradley & Peters, 1991; Dadds, Mullins, McAllister, & Atkinson, 2002; Larrance & Twentyman, 1983) hanno evidenziato come le madri fisicamente maltrattanti siano più propense ad attribuire i comportamenti negativi del proprio bambino a caratteristiche interne e, viceversa, a fattori esterni i comportamenti positivi. A sostegno di ciò, uno studio condotto da Chilamkurti e Milner (1993) ha evidenziato come le madri ad alto rischio di maltrattamento valutino più frequentemente il comportamento del bambino come errato e, tale valutazione distorta, incrementa la loro percezione di avere un figlio difficile da gestire (Larrance & Twentyman, 1983; Milner, 2000). Al contrario, le madri non maltrattanti utilizzano attribuzioni esterne per spiegare sia comportamenti negativi sia positivi sia ambigui (Dadds at al., 2002).

Dalla letteratura emerge quindi che, il principale agente psicologico capace sia di incrementare il livello di stress parentale, sia di aumentare l’utilizzo di strategie fisicamente maltrattanti a danno dei bambini, è la combinazione tra relazione disfunzionale presente tra genitori e figli e la percezione di avere un bambino difficile da gestire (Abidin, 1983; Milner, 1986,1993). Spesso accade che le difficoltà all’interno della relazione diadica genitore-figlio siano originate da situazioni valutate come particolarmente stressanti e, proprio i meccanismi cognitivi, sembrerebbero essere determinanti nella comprensione della propensione di alcuni genitori a maltrattare i propri figli (Milner, 1986, 2003).

I genitori fisicamente maltrattanti sembrano essere caratterizzati da specifici deficit dei processi cognitivi e dal modo con cui questi vengono utilizzati per attribuire significato ai comportamenti dei figli. Ciò accade perché i caregivers ritengono che, ogni singolo comportamento dei bambini (percepito come fastidioso o sbagliato) sia agito allo scopo di indebolire il ruolo parentale (Milner, 2003). Questa percezione (distorta) deriva principalmente dalla presenza degli schemi cognitivi pre-esistenti, dai processi cognitivi implicati nella percezione, interpretazione e valutazione del comportamento e, infine, dalla modalità con cui gli individui eseguono la risposta (Milner, 1993, 1995, 2000, 2003).

Gli schemi cognitivi pre-esistenti sono strutture mentali che esistono a priori nel soggetto e che hanno il compito di processare le nuove informazioni. In questo caso, i genitori, in base all’esperienza vissuta nel contesto di crescita, hanno sviluppato una serie di credenze e di valori globali (relativi ai bambini in generale) e specifici (relativi ai propri figli e alle proprie attività di parenting) e essi vengono utilizzati nelle pratiche di accudimento (Milner, 2003). Ciò significa che i genitori maltrattanti utilizzano gli schemi pre-esistenti come se fossero una guida pratica utilizzabile e facilmente accessibile sia durante la funzione educativa, sia nella costruzione di una relazione effettiva con i bambini (Milner, 2003).

Gli schemi cognitivi, inoltre, sono caratterizzati da una componente cognitiva e da una emotiva: la prima dimensione consente all’individuo di comprendere la natura dell’evento, che, percependo, interpretando e organizzando, immagazzina in memoria le informazioni provenienti dall’ambiente esterno; la seconda è rappresentata dall’insieme delle emozioni esperite durante gli eventi precedentemente vissuti e risulta essere associata alla credenze che i genitori possiedono circa l’evento (Milner, 2003).

Secondo Milner (2003), i genitori fisicamente maltrattanti, utilizzano gli schemi pre-esistenti come unica risposta alle richieste del bambino e, in questo modo, hanno la tendenza ad assumere una prospettiva rigida e limitata. In particolare, tali schemi, vengono utilizzati più frequentemente in situazioni in cui i genitori sperimentano alti livelli di stress o quando si trovano in situazioni problematiche o ambigue con i loro bambini. Inoltre, i genitori maltrattanti, rispetto ai non maltrattanti, si mostrano meno attenti e consapevoli dell’effettivo comportamento dei figli e, più specificatamente, non riescono (o falliscono) a decodificare le informazioni relative al loro comportamento. Questi tipologia di genitori utilizzano più frequentemente una sorta di ‘attenzione selettiva’ e considerano soltanto i comportamenti inappropriati dei figli piuttosto che quelli ‘corretti’ perchè i primi risultano più conformi alle loro aspettative e non devono operare alcuno sforzo cognitivo per modificare i propri schemi pre-esistenti (Milner, 2003). La causa di tali distorsioni di interpretazione dei messaggi comunicativi non sembra essere legata alla disattenzione ma, piuttosto, ad una imprecisione nella codifica e nella detenzione degli indizi durante l’interpretazione delle informazioni ambientali (Milner, 2003).

Milner (2003), inoltre, suggerisce che genitori ad alto rischio di maltrattamento falliscano nell’interpretazione e nell’integrazione delle informazioni riguardanti i figli. Più precisamente, nel momento in cui un bambino trasgredisce ad una regola, il genitore ad alto rischio di maltrattamento utilizza meno le informazioni attenuanti capaci di ridurre la responsabilità dei bambini e propende maggiormente per l’accettazione del comportamento negativo, proprio a causa delle difficoltà relative alla selezione e all’integrazione delle informazioni. Se la situazione è influenzata da alti livelli di stress parentale, diminuisce ancora di più la probabilità che i genitori usino le informazioni attenuanti e sono favorite le strategie punitive e maltrattanti.

Il processo con cui i genitori maltrattanti valutano le risposte corrisponde ad una selezione distorta causata in parte dall’utilizzo degli schemi pre-esistenti e variano in base allo stile genitoriale. Questa rigidità nella risposta rende molto difficile l’interpretazione realistica dei comportamenti dei propri figli e ancora più difficile il cambiamento del comportamento parentale già tendente al maltrattamento. I genitori ad alto rischio di maltrattamento fisico soffrono, quindi, di una mancanza nelle abilità di gestione delle pratiche di cura e nella capacità di rispondere in maniera adeguata alle richieste loro rivolte e, in casi come questi, il parenting stress funge da amplificatore e sembra essere determinate negli agiti potenzialmente pericolosi e maltrattanti a danno dei bambini (Milner, 2003).

Stai alla frutta? #VoltaPagina – il 3° Video

11,2 milioni di italiani assumono psicofarmaci.

Chi va dallo psicologo è matto?

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Seguire il cuore o la ragione nella scelta del lavoro? Il ruolo di abilità e vocazione

La vocazione paga più della precisione tecnica e dei riconoscimenti provenienti dall’esterno. E non solo: la vocazione influisce sui processi cognitivi spingendo l’individuo ad attribuire priorità alle proprie valutazioni, mettendo in secondo piano le informazioni provenienti dal mondo esterno.

[blockquote style=”1″]L’unico modo per fare qualcosa di grande è amare ciò che fai[/blockquote] diceva Steve Jobs.

In un momento storico in cui la ricerca di lavoro sembra costituire un momento difficile per la maggior parte dei giovani sorge spontaneo un interrogativo: inseguire i propri sogni può essere una strategia vincente nella ricerca di un’occupazione? O è più saggio mettere in secondo piano la passione e ambire ad una posizione relativamente stabile e ben retribuita? Idealmente, non avremmo dubbi nell’affermare che la soluzione auspicabile sia un incontro tra questi due aspetti, ma in un contesto di precarietà e incertezza lavorativa le possibilità di trovare un impiego che ci appassioni e ci appaghi, garantendo al tempo stesso buone entrate e sicurezza sembrano scarse. Ci si trova a dover fare una scelta: seguire il cuore o la ragione?

I ricercatori dell’Università di Tel Aviv hanno recentemente indagato questi temi, chiedendosi quanto la presenza di una forte motivazione intrinseca nella scelta del percorso formativo e occupazionale influisca, a distanza di anni, sulla probabilità di trovare effettivamente lavoro nel settore desiderato. E lo hanno fatto scegliendo un settore in cui la conciliazione tra motivazioni intrinseche ed estrinseche sembra particolarmente rara: la carriera musicale.

In uno studio longitudinale della durata di undici anni, 450 ragazzi nella fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, tutti musicisti amatoriali al momento della prima valutazione, sono stati contattati cinque volte e monitorati rispetto alla motivazione, alle abilità e ai progressi di carriera. In particolare, la motivazione intrinseca è stata valutata nei termini di vocazione e misurata con un questionario composto da affermazioni del tipo ‘La mia esistenza sarebbe molto meno significativa senza il mio coinvolgimento nella musica’ oppure ‘In qualche modo, ho sempre in mente la musica’. Le abilità musicali dei partecipanti sono state valutate sia nei termini di abilità percepite dagli stessi, sia come competenze valutate da giudici esperti che hanno esaminato abilità di natura tecnica e performance dei singoli ragazzi. I successi di carriera, invece, sono stati valutati in base al titolo di studio ottenuto e all’occupazione nel settore, considerando come professionale sia le esibizioni e le composizioni, sia l’attività di insegnamento. Sono inoltre stati considerati i premi vinti e i risultati ottenuti nel corso delle audizioni: un musicista di successo deve saper stare sul palco ed esibirsi davanti ad un pubblico.

I risultati della ricerca hanno evidenziato alcuni dati interessanti. Innanzitutto, la vocazione che i ragazzi hanno riferito nel corso della prima valutazione, ad un’età media di 17 anni, è risultata connessa al raggiungimento di obiettivi lavorativi in ambito musicale nel corso della fase conclusiva dello studio. Si noti tuttavia che a mediare tra questi due aspetti sembra essere, secondo quanto riportato dagli autori, l’abilità percepita dai partecipanti. In altri termini, i ragazzi con una vocazione più forte per la musica nel corso dell’adolescenza si sono autovalutati in termini più positivi in età giovanile e, nel corso del tempo, hanno effettivamente avuto più successo.

È interessante notare che alla migliore percezione di abilità non corrispondeva una migliore abilità oggettiva. Insomma, la vocazione paga più della precisione tecnica e dei riconoscimenti provenienti dall’esterno. E non solo: la vocazione influisce sui processi cognitivi spingendo l’individuo ad attribuire priorità alle proprie valutazioni, mettendo in secondo piano le informazioni provenienti dal mondo esterno. Questo spiegherebbe almeno in parte come mai, nonostante le scarse possibilità di successo, i musicisti con una forte vocazione continuino per la propria strada. Seguire il cuore, in fin dei conti, potrebbe essere una buona strategia per essere soddisfatti della propria vita lavorativa.

I neuroni specchio e l’area di Allah

La psicologia corre sempre più il rischio di essere ridotta ad ancella della neurologia. Ma i recenti tragici eventi di Parigi offrono lo spunto per un esperimento mentale utile a riconsiderare il ruolo dello psicologo nella società contemporanea.

Sembra di assistere in tempi recenti a una sistematica abdicazione della psicologia nei confronti delle neuroscienze. Ciò avviene sia nell’ambito della ricerca che in quello (strettamente collegato) dell’università. Per realizzare l’aspirazione di essere accolta a pieno titolo tra le scienze hard, la psicologia ha iniziato a dedicarsi sempre più a confrontare i risultati dei propri esperimenti sul piano della condotta o del comportamento con le variazioni di stato dei circuiti cerebrali. Si sta giungendo anche a valutare i risultati di una psicoterapia in funzione della possibilità di verificare mutamenti nel cervello. La psicologia, in altre parole, tende a identificarsi con la neuropsicologia.

I nuovi ricercatori e aspiranti tali sono a loro volta incoraggiati sempre più dal contesto a specializzarsi in temi neurologici, perché più paganti anche in termini di impact factor e h index (vocaboli esoterici che designano la capacità di far citare i propri lavori da altri). La selezione dei futuri docenti, infatti, lungi dal considerare aspetti come capacità di insegnare, conoscenza e/o esperienza di temi clinici, non esamina più nemmeno tanto il contenuto delle pubblicazioni quanto i fattori oggettivi (se la rivista dove hai pubblicato è ‘rankata’ x, vali x). I corsi di laurea tendono a riflettere questa tendenza, aumentando progressivamente il numero degli esami fondati su nozioni anatomiche più che psicologiche.

È lecito pensare che un buon 90% degli studenti di psicologia sarebbe interessato essenzialmente ad argomenti di carattere tecnico-pratico, utili alla futura professione. Viceversa, è probabile che, ovunque si iscriva, l’aspirante psicologo clinico trovi ad aspettarlo sempre più esami orientati verso argomenti di interesse, in ultima analisi, medico e biologico. Lo studente modello finirà per sapere tutto dei neuroni specchio e di come l’empatia sia, per così dire, oggettivamente osservabile nell’attivazione di certe aree corticali; senza ricavarne nulla nella capacità di stabilire un rapporto empatico con un paziente. Saprà tutto sull’amigdala ma non saprà distinguere l’ansia come stato dall’ansia come tratto.

L’invasione del prefisso neuro- è un fenomeno che non investe soltanto le discipline psicologiche. La possibilità di comprendere il mondo umano sulla base del funzionamento del cervello ha generato la neuropsicologia, la neuropsichiatria e persino la neuropsicoanalisi; ma anche una neurofilosofia, una neuroetica, una neuropolitica e così via. Persino chi si interessa di meditazione ha trovato opportuno tentare di identificare i cambiamenti che tale pratica induce sulla neocorteccia, per provarne l’efficacia. Manca all’appello forse solo una neuro-neurologia (cosa accade al cervello dei neuroscienziati mentre lavorano? proviamo a verificarlo con una risonanza magnetica!).

Absit iniuria verbis: nessuno mette in discussione qui che sia giusto e legittimo sviluppare la ricerca sul cervello e finanziare progetti che si fondano su fMRI, PET ed altri apparecchi le cui sigle misteriose evocano la facoltà finalmente acquisita di verificare l’attivazione dei neuroni. Tuttavia altrettanto legittimo sarebbe pretendere che la psicologia (come nel suo ambito la filosofia) torni ad essere utilizzata come strumento di analisi della condotta umana a prescindere dal sostrato cerebrale e recuperi la sua dignità ermeneutica, che sembra sempre più appannata, anche dal punto di vista della visibilità sui mezzi di comunicazione di massa.

Freud stesso, padre della psicoterapia, era un naturalista convinto ed era certo che un giorno si sarebbe potuto spiegare la psiche individuale in termini di sistemi neuronali (egli stesso provò a farlo, ovviamente senza successo, nel 1895). Era altrettanto certo, tuttavia, che la realtà psichica fosse comunque, appunto, un aspetto della realtà e che occuparsene fosse produttivo. Siamo così certi che il progresso delle neuroscienze abbia modificato così tanto il quadro della psicologia da rendere realmente prossimo ad avverarsi ciò che sognavano Freud e i primi psicologi scientifici, cioè che la comprensione della mente sia riducibile al suo funzionamento fisico?

Suggerirei di procedere con un piccolo esperimento mentale. Ci si chieda se oggi, di fronte alla tragedia appena occorsa a Parigi, sia più utile considerare le azioni dei jihadisti come frutto dell’elaborazione di cervelli o come il risultato delle azioni di individui, che abbiano sviluppato le loro motivazioni in particolari contesti sociali che dovremmo conoscere meglio. Sarà produttivo spiegare l’assenza apparente di dubbi da parte dei protagonisti, nel finire a bruciapelo gente già ferita, in termini di funzionamento (o mancato funzionamento) dei neuroni specchio? O sarà più sensato interpretare una simile condotta sulla base di un processo mentale di deumanizzazione del nemico, cercando di comprenderne i fattori? Porterà maggiori risultati chiedersi se esiste un’area di Allah nel cervello che inneschi determinati comportamenti o domandarsi quali siano le distorsioni cognitive del terrorista e come sia possibile disinnescarle (nel senso più letterale del termine, purtroppo)?

La possibilità che persone capaci di comportamenti adattivi siano anche disposti a porre termine alla propria vita facendosi saltare in aria, onde uccidere allo stesso tempo il maggior numero possibile di supposti nemici è qualcosa che sconvolge profondamente il nostro animo di occidentali. Noi siamo abituati a considerare preziosa la nostra esistenza presente, indipendentemente dalla convinzione di alcuni di noi che esista una vita dopo la morte. L’idea che altri siano convinti che il loro sacrificio costituisca un martirio e che doni loro l’accesso a un Paradiso popolato di un certo numero di vergini pronte a soddisfare i loro desideri per l’eternità non può costituire una spiegazione.

Sposta solo la domanda di una casella, facendoci chiedere come essi acquisiscano una tale convinzione (e se tale convinzione, peraltro, vacilli o meno, o venga rinforzata con ulteriori incentivi e di che tipo). Peraltro, si potrebbe affermare reciprocamente: come ci è incomprensibile la decisione di morire in modo violento se non per effetto della follia, altrettanto è lontana dalla nostra esperienza la precedente morte di tutta la nostra famiglia sotto un bombardamento oppure la vita in un contesto culturale che rifiuta integralmente le nostre convinzioni se non addirittura le ripugna. Si tratta invece di esperienze compiute almeno da alcuni dei jihadisti morti suicidi a Parigi o in altre occasioni meno mediatizzate.

Studiare la psicologia di questi uomini potrebbe essere un passo utile alla comprensione anche di una possibile strategia di reazione. Non è facile decidere a priori se sia opportuno tentare un dialogo con persone che apparentemente il dialogo non lo desiderano; né se un’intensificazione di attività militari contro il cosiddetto Califfato non costituisca, piuttosto che un efficace mezzo per dissuadere da nuovi attentati, un incentivo ad impegnarsi nella ‘guerra santa contro i crociati’.

In effetti la Psicologia dimostra spesso di poter offrire degli strumenti che non vengono poi di fatto utilizzati nel loro pieno potenziale euristico. Philip Zimbardo, per esempio, malgrado fosse già un personaggio universalmente riconosciuto per gli studi sul cosiddetto effetto Lucifero (Zimbardo, 2007), ha tentato invano di offrire la propria interpretazione dei fatti di Abu Ghraib. Si ricorderà della condanna inflitta ai soldati americani che infliggevano umiliazioni ai nemici catturati durante la guerra in Iraq. Zimbardo spiegò in modo del tutto convincente come fosse il contesto a guidare il comportamento di tali soldati, ma nessuno volle prendere in considerazione quanto egli sosteneva, trovandosi molto più comodo spiegare gli abusi come iniziativa dei singoli (Un resoconto della testimonianza di Philip Zimbardo è disponibile qui)

Al contrario, ascoltare Zimbardo avrebbe significato capire le azioni dei condannati, estendere la responsabilità alle gerarchie militari e prevenire eventuali successivi problemi consimili. Nel suo piccolo, chi scrive può ricordare di aver invano offerto con Alessandro Rossi, in tempi non sospetti (Innamorati e Rossi, 2004), tanto delle spiegazioni sui meccanismi del terrorismo nell’epoca di Internet (per ricordarne uno: il funzionamento del franchising del terrore di Al-Qaeda); quanto un esame dei meccanismi aggregativi offerti dalla rete a coloro che in passato erano stati lupi solitari; quanto delle indicazioni su siti che lasciavano comprendere collegamenti tra individui pericolosi (sulla base dell’analisi semiotica e psicologica dei testi presenti nei siti stessi). Scoprire in seguito il concreto e reale valore predittivo di molte ipotesi (a suo tempo assai poco considerate) non è stato per noi un motivo di grande soddisfazione.

Gestire la rabbia: “sfogarsi” o restare fermi finché l’emozione passa?

La rabbia è una delle emozioni di base, che ci segnala che qualcosa sta intralciando il nostro percorso verso un obiettivo importante. Davanti a un’esperienza di rabbia possiamo reagire in tanti modi diversi: alcune persone sono più propense a internalizzare, a tenere tutto dentro, altre cercano di non pensarci evitando l’oggetto della rabbia, altre la sfogano con parole o comportamenti, altre ancora continuano a pensare a quello che ha causato la rabbia, mantenendo contemporaneamente attiva l’emozione. 

Una volta che la rabbia si è attivata e noi vediamo rosso, possiamo evitare le persone che ci hanno fatto arrabbiare, possiamo cercare di discutere della cosa con calma o possiamo esprimere la rabbia verso la persona o la situazione che l’ha causata in modo impulsivo e liberatorio. Ci sfoghiamo. Qualcuno ci taglia la strada e noi suoniamo il clacson, il nostro collega fa un guaio e noi gli urliamo contro, il nostro partner dice una cosa di troppo e si becca la sfuriata.

Se da una parte è stato più volte mostrato come rimuginare in modo rabbioso e tenere il muso sia controproducente sia nella relazione che per la regolazione emotiva, siamo certi che sfogare la rabbia sia di aiuto? Il professor Brad Bushman dice a riguardo che [blockquote style=”1″]Non è detto che una cosa sia positiva solo perché ti fa stare bene. [/blockquote]

In sostanza, facciamo attenzione a sostenere l’utilità dello sfogo solo perché immediatamente dopo ci sentiamo meglio. Bushman ha condotto con il suo team di ricerca una serie di studi sul tema, giungendo a interessanti conclusioni. Una di queste ricerche ha coinvolto 600 studenti (metà maschi e metà femmine) suddivisi in 3 gruppi: a tutti gli studenti è stato chiesto di produrre un testo scritto, che in seguito è stato analizzato e criticato da un compagno; un primo gruppo ha poi ricevuto indicazione di colpire un pungiball immaginando che raffigurasse il compagno critico, un secondo gruppo ha dovuto colpire il pungiball pensando a quanto questo migliorasse la propria forma fisica e un terzo gruppo non ha ricevuto nessuna indicazione e non ha colpito il pungiball, rimanendo in attesa.

Tutti i soggetti hanno poi compilato dei questionari che valutavano la rabbia e l’aggressività. Secondo la teoria della catarsi, sfogarsi colpendo un oggetto e contemporaneamente pensando a una situazione o a una persona che ci ha causato rabbia dovrebbe aiutarci ad abbassare il livello di attivazione emotiva e calmarci. In realtà, è emerso il trend opposto: il gruppo di partecipanti che aveva colpito il pungiball ripensando alla persona che li aveva criticati ha mostrato i maggiori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento, seguito dal campione che aveva colpito il pungiball pensando ad altro. Sorprendentemente, il gruppo di controllo che era rimasto in attesa senza fare nulla ha mostrato i minori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento.

In altre parole, non fare nulla si è mostrato più utile che sfogarsi fisicamente per diminuire i livelli di rabbia. Se questi risultati sono in contraddizione con l’idea di catarsi, sono invece molto allineati con la Teoria Metacognitiva (Wells, 2012): se consideriamo la condizione di “sfogo” più da vicino, questa in sostanza prevede di impegnarsi in una forma di ruminazione rabbiosa, colpendo contemporaneamente il pungiball. Coerentemente con gli studi di Wells e colleghi, le forme di pensiero perseverante contribuiscono a mantenere l’attenzione focalizzata sulla situazione che ha attivato l’emozione negativa, mantenendo al contempo l’emozione stessa (in questo caso, la rabbia). Il fatto di rimanere fermi senza fare nulla (condizione di controllo per questo studio) ha invece molto a che fare con quello che Wells chiama “lasciare in pace i pensieri”: permettere cioè che il pensiero (in questo caso arrabbiato) semplicemente se ne vada come è arrivato, senza alimentarlo con ulteriori risorse cognitive e attentive, che lo mantengono attivato e vivido.

È interessante quindi notare come uno studio che comprende così tanti soggetti, pur partendo da un background teorico completamente differente e proponendosi di indagare meglio il ruolo della catarsi nella risoluzione di dinamiche di rabbia, giunga tuttavia alle stesse conclusioni di tanti studi sulle conseguenze negative del pensiero perseverante in termini attentivi ed emotivi. Questo fa pensare che in qualche misura, soprattutto per le cose che ci stressano nel quotidiano, la soluzione possa davvero essere imparare a lasciarsi in pace.

Forse Esther (2014) di Katja Petrowskaja – Recensione

Una donna alla ricerca delle proprie radici tra un presente invaso dalle informazioni e un passato denso di oscurità.

Katja Petrowskaja è un personaggio che sfugge a ogni semplice etichettatura. Nata in Ucraina da una famiglia di origine ebraica, studia a Tartu e a Mosca in due delle università più prestigiose dell’Unione Sovietica ma per molti anni il suo talento letterario rimane muto. Sposatasi con un esponente di spicco di Greenpeace, si trasferisce a Berlino e sembra del tutto a suo agio nel ruolo di moglie e madre fin’oltre il compimento dei quarant’anni. A un tratto, però, decide di intraprendere la carriera giornalistica e nel giro di qualche mese diviene uno dei columnist più seguiti della Germania, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung con la firma Die östliche Diwa, cioè la Diva dell’est (gioco di parole sul West-östlicher Diwan, ovvero il Divano Occidentale-orientale di Goethe). La Diva, tuttavia, non ancora soddisfatta di una carriera pressoché istantanea e fulminante, decide di mettere in atto un progetto a lungo solo vagheggiato: un libro basato sulla storia delle origini della propria famiglia.

Ne nasce ‘Vielleicht Esther’, che viene pubblicato dalla più prestigiosa casa editrice tedesca (Suhrkamp) e vince prima ancora della pubblicazione il Premio Bachmann nel 2013. All’uscita in Germania, nel 2014, il successo è travolgente: acclamato da molti come un capolavoro, il libro viene subito tradotto in sedici lingue, tra le quali l’italiano. In Italia esce come ‘Forse Esther’ per Adelphi (casa editrice alla quale sembra attagliarsi perfettamente il profilo da outsider dell’autrice) e vince subito un premio letterario anche da noi: la prima edizione del Premio Strega per romanzi stranieri.

In Germania suscita stupore anche l’uso della lingua tedesca da parte di una straniera: una prosa talmente sfaccettata da indurre Suhrkamp a invitare i traduttori a un seminario comune per studiare insieme gli interrogativi stilistici posti dalle rispettive traduzioni. Alcuni critici considerano la scrittura della Petrowskaja una delle più brillanti ed efficaci di questo scorcio di secolo. Lei, tuttavia, non si scompone; abituata ad anni di penombra si limita a rispondere nelle interviste, a chi esprime stupore per la sua tecnica, che comunque lei si fa correggere gli eventuali errori dal marito. Divenuta nota in Germania proprio nel periodo del conflitto russo-ucraino, viene naturalmente invitata varie volte in televisione e si segnala anche per una tendenza naturale a evitare la diplomazia. Lo imparano subito i colleghi giornalisti che si sentono chiedere in diretta televisiva, di fronte all’ambasciatore russo, perché lei si trovi seduta allo stesso tavolo con il rappresentante di un paese che ha appena invaso il suo…

‘Forse Esther’ è una storia di contraddizioni e di oscurità. L’Io narrante si muove in un mondo dove «Google regna su di noi come il Padreterno», o piuttosto dove «Dio ci ‘googla’ la strada, affinché non smarriamo il cammino» (p. 18). Eppure la ricerca del passato si muove tra buchi di informazione paradossali. Il titolo stesso annuncia il primo mistero familiare: il padre della protagonista dichiara che il nome della propria nonna è appunto forse Esther. Come forse?, chiede l’io narrante, come è possibile non ricordarsi il nome della nonna? La risposta è disarmante: i figli la chiamavano mamma e i nipoti babuška. Nessuno quindi pronunciava mai il suo nome. La natura del libro è anch’essa difficilmente riconducibile a una definizione univoca. Si muove al confine tra romanzo e ricerca storica; tra memoria e creazione. Il senso del vissuto non offre punti di riferimento stabili: «Eravamo felici, e tutto in me si ribellava al detto di Tolstoj che ci è stato tramandato, secondo il quale, nella loro felicità, le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre uniche nel loro genere sono solo quelle infelici, un detto che, adescandoci nella sua trappola, suscitava in noi la propensione all’infelicità, come se soltanto dell’infelicità valesse la pena parlare, mentre la felicità era vuota» (p. 23). L’ambivalenza è evocata fin dalla surreale scritta che l’io narrante vede lampeggiare dalla volta dello Hauptbanhof, la stazione centrale di Berlino, all’inizio del suo viaggio verso est: «Bombardier willkommen in Berlin». Senza conoscere il contesto si tradurrebbe con un benvenuto di Berlino ai bombardieri che suona veramente grottesco; in realtà la città ospitava un musical francese di grande successo, appunto ‘Bombardier’.

Fantasmi dai cognomi troppo diffusi si affacciano dal passato: Geller e Heller, Levi e Stern. Soprattutto Stern, come ‘stella’. Sono gli infiniti discendenti di ebrei dallo stesso cognome, dalle stelle gialle perché Stern sulle Yellow Pages di un elenco telefonico americano; alle stelle gialle che contraddistinguevano gli ebrei nei campi di concentramento; alle stelle rosse dei combattenti per l’Unione Sovietica. Una delle stelle rosse, lo zio Vil dell’io narrante, è talmente coinvolta nella fede verso il proprio paese da consolidarla viepiù dopo un episodio atroce. Il plotone del quale fa parte viene mandato all’assalto sotto il fuoco incrociato nemico solo per riempire un fosso anticarro sul quale possono infine passare i panzer; ferito gravemente, viene ritrovato ancora vivo sotto tutti gli altri compagni di plotone. Come non disperare della patria del socialismo? «Chi aveva dubitato non era sopravvissuto» è la risposta (p. 38).

Tutti i personaggi si avvicendano in storie dal contenuto traslucido come la Esther (forse) del titolo, che pare fosse stata uccisa dalla rivoltellata noncurante di un ufficiale tedesco, in risposta alla sua innocua domanda su dove fosse Babij Jar (la fossa comune degli ebrei vicino Kiev). «Osservo questa scena» scrive la Petrowskaja «come fossi Dio, dalla finestra della casa dirimpetto. Forse si scrivono così i romanzi. Oppure anche le fiabe. Siedo in alto, e vedo tutto! A volte mi faccio coraggio e mi avvicino e mi metto alle spalle dell’ufficiale, per ascoltare di nascosto la conversazione. Ma perché mi voltano le spalle? Giro loro attorno, e ne vedo solo le spalle. Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, di vedere i loro volti, quello di babuška e quello dell’ufficiale, per quanto allunghi il collo per riuscire a vederli e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione – non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono» (pp. 186-7). La scrittura si ripiega su se stessa e diventa così interrogativo estetico, domanda sul senso del domandare. Chiunque si occupi di psiche troverà in Forse Esther spunti di riflessione, oltre al puro e trasparente piacere della lettura.

Stigma e qualità della vita nell’obesità: traduzione e adattamento di strumenti valutativi

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Stigma e qualità della vita nell’obesità: traduzione e adattamento di strumenti valutativi

Autore: Elisa Martina Pagani (Università Cattolica del Sacro Cuore Milano)

Abstract

L’équipe del dipartimento di psicologia clinica dell’Università Cattolica di Milano, nel 2012 ha sviluppato un progetto di ricerca per l’analisi della qualità della vita e dello stigma nei soggetti con obesità. La ricerca si è svolta tramite la somministrazione di questionari per rilevare differenti variabili nell’ ambito della patologia e della sanità. Sin da subito i ricercatori si sono resi consapevoli delle difficoltà di adattamento e traduzione degli strumenti dalla lingua inglese a quella italiana, ed hanno dunque indagato la variabilità degli approcci per ottenere una guida semplice e chiara al fine di facilitare l’adozione, l’uniformità e l’uso dei questionari.

 

Abstract (English)

In 2012, the team of the department of clinical psychology at the Catholic University of Milan developed a research project to analyze the quality of life and stigma in people with obesity. The research was conducted by administering questionnaires to detect different variables in the context of disease and health. Right now, researchers have become aware of the difficulties of adaptation and translation tools from English to Italian, and they have therefore investigated the variability of approaches to obtain a clear and simple guidance to facilitate the adoption, uniformity and use of questionnaires.

 

Key words: stigma, obesità, QoL, adattamento, traduzione.

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2 

Il fenomeno della semplice esposizione: ciò che conosciamo ci piace di più

Nicole Savino- OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.

La ricerca in psicologia sociale ha spesso sottovalutato l’influenza che variabili non direttamente analizzabili possono avere nell’orientare le credenze, gli atteggiamenti e le tendenze comportamentali spontanee di ogni individuo. Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare almeno in parte come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.

Con il termine ‘semplice esposizione‘ s’intende una condizione in cui uno stimolo viene reso accessibile alla percezione di un individuo. Questo è il presupposto teorico dal quale si sono sviluppati filoni di ricerca orientati ad indagare i diversi aspetti che sono coinvolti in tale fenomeno. Il percorso che ha caratterizzato la ricerca in questo campo parte dal contributo fondamentale di Zajonc. L’ipotesi principale dalla quale parte l’autore si può così riassumere:

Semplici e ripetute esposizioni ad uno stimolo sono una condizione sufficiente per determinare in un soggetto una disposizione positiva verso tale stimolo ( Zajonc 1968).

L’autore è arrivato a formulare tale ipotesi basandosi sia su indagini di tipo correlazionale che su alcune evidenze sperimentali, ossia:

  • La correlazione tra la connotazione affettiva di una parola e la frequenza con la quale tale parola viene utilizzata;
  • L’effetto provocato dalla manipolazione sperimentale della frequenza d’esposizione a stimoli rappresentati da parole senza significato e simboli, ad esempio ideogrammi, sulla connotazione attrubuita da un soggetto a tali stimoli.

In particolare ciò che Zajonc intendeva sottolinare è la relazione lineare esistente tra frequenza dello stimolo ed effetto ottenuto. Sicuramente già nei suoi presupposti teorici la ricerca sulla mere exposure si contrappone decisamente alle celebrate leggi sull’attività cognitivo-attentiva che hanno imperato dalla fine del diciannovesimo secolo sino alla metà circa del secolo scorso.

Dagli studi condotti all’epoca da autori quali Fechner (1876), James (1890), Pepper (1919) e Maslow (1937), emerse la convinzione che nei processi cognitivi tutto ciò che può risultare troppo familiare, troppo noto ad un soggetto, distoglie la sua attenzione da un fenomeno, al contrario, uno stimolo nuovo può rappresentare una forte fonte d’interesse.

In accordo con questa ipotesi l’industria pubblicitaria, ad esempio, pur riconoscendo il grande potenziale attribuito alla semplice esposizione nell’orientare le scelte del consumatore, si è dedicata spesso ad una forma di pubblicità che rispettasse la nota legge secondo la quale la disposizione positiva verso uno stimolo viene incrementata se quest’ultimo viene presentato in associazione con un altro stimolo considerato piacevole, in grado di catturare immediatamente l’attenzione. Il prodotto reclamizzato quindi viene spesso presentato al pubblico in contiguità con un rinforzo positivo quale, ad esempio, il corpo femminile.

Allo stesso tempo l’industria pubblicitaria cerca di non cadere nella trappola della overexposure, in accordo con la teoria sulla familiarità degli stimoli (Ederly, 1940; Wiebe 1940) secondo la quale nel momennto in cui uno stimolo diventa eccessivamente abituale e familiare per un soggetto perde parte del suo potenziale attrattivo.

Ma è davvero possibile ipotizzzare che sia così semplice orientare i gusti e le preferenze di un individuo? Per tentare di rispondere a questa domanda ci affidiamo ad alcuni studi condotti da Zajonc sulla correlazione tra la frequenza di utilizzo di alcune parole e il loro significato.

Da tali ricerche sperimentali è emerso che i termini aventi un significato positivo sono utilizzati molto più frequentemente rispetto ad altri con una connotazione negativa. Nello specifico tale correlazione è, secondo Zajonc, almeno in parte il risultato di un fenomeno di semplice esposizione.

Da una ricerca condotta da Johnson, Thomson e Frincke (1960) emerge che la presentazione ripetuta di termini senza significato tende a far migliorare la loro valutazione stimata su una scala Likert di tipo ‘good-bad’. Come Zajonc ha dimostrato in seguito, il fenomeno analizzato nella suddetta ricerca non è altro che la coseguenza diretta di ciò che viene chiamata ‘semplice espozione’. Infatti le persone utlizzano più frequentemente parole che hanno un significato positivo non tanto per la natura semantica del termine, ma più semplicemente perchè nelle interazioni sociali esse vengono preferite rispetto al corrispettivo negativo. In pratica un soggetto reagisce più positivamente a parole che rimandano ad un significato positivo in quanto vi è comunque esposto con maggior frequenza.

In ‘Attitudinal effect of mere exposure’ (1968) Zajonc presenta i risultati di alcune ricerche volte ad appurare, in modo più rigoroso, l’esistenza di una relazione tra frequenza d’esposizione ad uno stimolo e la conseguente valutazione dello stimolo stesso.

In un esperimento da lui condotto sono state mostrate ai soggetti 12 immagini rappresentanti ideogrammi cinesi, la cui frequenza di presentazione, manipolata dallo sperimentatore, variava da 0 a 23 esposizioni. Il compito richiesto consisteva unicamente nel prestare attenzione alle immagini presentate. Nella seconda fase gli sperimentatori hanno comunicato ai partecipanti che i caratteri visti in precedenza erano in realtà degli aggettivi appartenenti ad una lingua straniera che avevano un significato positivo o negativo. Il compito dei soggetti sperimentali era ipotizzarne il significato sistemandoli su una scala Likert a 7 punti. I risultati di questa ricerca dimostrarono l’esistenza di una relazione positiva tra frequenza di esposizione e valutazione attribuita agli aggettivi. In pratica i soggetti hanno valutato più positivamente gli stimoli ai quali nella prima fase sperimentale sono stati esposti con maggior frequenza.

In uno studio successivo Zajonc ha indagato fino a punto gli effetti della semplice esposizione possono essere riscontrati utilizzando stimoli a rilevanza sociale. In questo esperimento è stata mostrata ai partecipanti una serie di fotografie di studenti. Anche in questo caso la frequenza di presentazione (0 -25) è stata manipolata dallo sperimentatore. La relazione tra semplice esposizione e conseguente valutazione dello stimolo è stata testata attraverso le risposte ad un differenziale semantico a 7 punti (good-bad) compilato dai soggetti in una seconda fase sperimentale. Ancora una volta i risultati dimostrano che frequenza d’esposizione e desiderabilità modello-stimolo sono positivamente correlate e soprattutto che la positività del giudizio cresce in funzione del numero di esposizioni con cui tale stimolo è stato presentato ai soggetti.

Non è però tutto così semplice come sembra. Ci sono altre variabili che intervengono nel condizionare il comportamento umano.

In uno studio pionieristico condotto da Kunst-Wilson e Zajonc (1980) gli autori hanno dimostrato che i soggetti sperimentali non erano in grado di distinguere percettivamente gli stimoli presentati nella fase d’esposizione da altri (distrattori) mostrati solamente nella seconda fase sperimentale. In un primo momento ai soggetti è stata mostrata per brevissimo tempo (1-2msec) una serie di ottagoni regolari presentati con egual frequenza (5 volte). Successivamente i ricercatori hanno presentato ai partecipanti una coppia di stimoli composta da un ottagono presentato nella prima fase e da uno mai visto. Per ogni coppia veniva chiesto ai soggetti di riconoscere quale fosse lo stimolo già presentato in precedenza e quale tra i due considerrasse più piacevole.

I risultati dimostrano che i soggetti non sono riusciti a distinguere percettivamente le figure mostrate nella prima fase dalle altre, ma erano comunque in grado di discriminarli dal punto di vista ‘affettivo’. Infatti la maggioranza dei soggetti ha giudicato come più piacevole l’immagine presentata nella prima fase sperimentale pur non riuscendo a distinguerla percettivamente dal distrattore inserito successivamente. Questo tipo di evidenza sperimentale ha portato gli autori ad ipotizzare che nel fenomeno della semplice esposizione l’informazione affettiva sia elaborata secondo modalità in gran parte indipendenti dall’elaborazione dell’informazione cognitiva.

Nel suo articolo ‘On the Primacy of Affect‘ (1984) Zajonc sostiene il primato e l’indipendenza dei processi affettivi rispetto all’elaborazione cognitiva dell’informazione. In particolare l’autore si oppone all’eccessiva importanza attribuita da Lazarus (1982) ai processi cognitivi considerati come una condizione che precede necessariamente ogni fenomeno di natura affettiva. Secondo Zajonc numerosi fenomeni emotivi possono essere spiegati senza ricorrere a processi cognitivi di nessun genere. Per supportare tale constatazione l’autore fa riferimento al primato e all’indipendenza dal punto di vista sia filogenetico che ontogenetico di alcune reazioni affettive rispetto ad altre di tipo cognitivo. Ossia, se fenomeni di tipo affettivo precedono processi cognitivi ad alcuni livelli dello sviluppo individuale, allora è lecito affermare che esiste una reale indipendenza tra i due sistemi.

Ciò che Zajonc intende sottolineare è che alcuni fenomeni di natura affettiva possono avere luogo senza essere necessariamente mediati o preceduti da processi cognitivi e quindi senza una rielaborazione cosciente di tali fenomeni. Sicuramente la relazione tra processi cognitivi ed emozioni ha rappresentato un tema di grandissimo interesse per il Cognitivismo e ancora oggi è difficile trarne una verità assoluta e condivisa.

Cibo ed emozioni: qual è lo strumento migliore per valutare questa relazione?

Negli ultimi anni si è venuta a creare una crescente convinzione secondo cui, accanto alla valenza edonica, le reazioni emotive al consumo di alimenti o la percezione di profumi svolgono un ruolo importante nell’accettazione dei prodotti esistenti sul mercato.

Tuttavia, non è ancora chiaro come poter misurare questo fenomeno con uno strumento affidabile. A tal proposito Mojet e colleghi hanno effettuato uno studio con lo scopo di verificare la possibile esistenza di strumenti semplici che siano in grado di misurare l’impatto emotivo nell’utilizzo di un prodotto, e che possa prevederne gli effetti positivi e negativi relativi all’ accettazione futura indipendentemente dagli effetti di gradimento del prodotto.

Al fine di verificare questa possibilità, sono stati confrontati 3 gruppi composti da 24 soggetti, i quali sono stati esposti alla presentazione di una coppia di yogurt della stessa marca e commercializzazione, ma composti da aromi o grassi differenti. Sono stati utilizzati quattro strumenti differenti: l’Eye-tracking, la Lettura Facciale durante la fase di consumo del prodotto, un nuovo Test di Proiezione Emotiva (EPT) dopo aver mangiato il prodotto e un nuovo Test di Congruenza Autobiografica.

Dal confronto tra i diversi metodi di misurazione sulla loro efficacia nel misurare gli effetti emotivi delle consumazioni, è emerso che tre di questi (la Lettura Facciale, il test di Congruenza Autobiografica e Eye-tracking), non sono risultati funzionali e non hanno riscosso alcun successo.
L’unico test risultato efficace e promettente è il Test di Proiezione emotiva. Nel commentare il buon risultato, bisogna però tenere conto del fatto che sia stato utilizzato un solo tipo di prodotto, cosa che ha reso la sperimentazione relativamente più facile.

In conclusione, per ottenere risultati più dettagliati, andrebbe ritestata la combinazione degli strumenti utilizzati nello studio (tranne il Test di Proiezione Autobiografica) utilizzando diverse tipologie di prodotti, così da poter ottenere maggiori informazioni.

Lo sviluppo dei social network: fenomeno di socializzazione o alienazione?

Silvia Soderini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

L’avvento dei Social Network ha creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. La facile accessibilità dei new media, però, potrebbe trasformarli in strumenti potenzialmente pericolosi per le illusioni che sono capaci di generare.

Ma tu non sei su Facebook? Ci sono tutti!” Chi di noi non ha mai detto, o almeno sentito dire, da un amico, un parente o un collega questa frase! Ormai i social network sono entrati a far parte, in maniera più o meno diretta, della vita di ognuno di noi. Dallo studente universitario che li usa per rimanere in contatto con i propri compagni, al manager sempre alla ricerca di nuove tendenze, all’azienda che vuole migliorare i rapporti con i propri clienti/fornitori e vuole farsi pubblicità: tutti sono iscritti su qualche social network.

È infatti innegabile che la tecnologia abbia cambiato le nostre vite e le nostre abitudini e la rivoluzione provocata dai social network non può essere ignorata poiché si estende a macchia d’olio ed ha un potenziale interno molto ampio. (Riva, 2010).

L’utilizzo dei social network e delle nuove tecnologie inducono difatti molti cambiamenti: cambia il rapporto con se stessi e soprattutto con gli altri, che diventa più diretto ma molto più mediato. Le nuove tecnologie ci promettono di incontrare molte persone ma tendono a togliere il sapore, la genuinità, l’originalità e la freschezza alla relazione interpersonale vera e propria. Cambia, inoltre, il modo di concepire la quotidianità. È difficile pensare alle nostre giornate senza aprire il computer o usare il cellulare; la nostra esperienza quotidiana subisce dei pesanti condizionamenti poichè può cambiare il modo di partecipare alla vita di società. Le nuove tecnologie inoltre ci danno maggiori possibilità di partecipare alla vita sociale condividendo anche luoghi virtuali, ma non è detto che questa partecipazione sia poi effettiva. (Riva, 2010).

Ma capiamo meglio cosa sono i social network… I social network sono diventati un fenomeno globale e negli ultimi 10 anni si è visto un aumento esponenziale del loro uso: Facebook, Instagram, Twitter, Linkedin, sono solo alcune delle piattaforme social che dal loro avvento ad oggi hanno conquistato in maniera esponenziale il Web. Tutte le applicazioni di social network si basano sulla costruzione, manutenzione, gestione e visibilità di profili e di pagine Web personali.

Un profilo ricco di informazioni e dinamico, una lista di contatti e un numero elevato di relazioni interpersonali instaurato con amici e conoscenti, sono gli elementi che fanno dei nuovi media sociali e delle applicazioni di social networking qualcosa di diverso rispetto alle chat, ai blog e ai forum che hanno caratterizzato il Web 1.0. (Massarotto, 2011).

Le applicazioni di social networking permettono di coltivare relazioni amicali e di allargare le proprie reti sociali coinvolgendo persone mai incontrate e senza bisogno di un incontro precedente dal vivo e faccia a faccia. Come piattaforma tecnologica con le sue funzionalità, applicazioni e risorse, il social network facilita le interazioni e lo sviluppo di connessioni e relazioni attraverso l’utilizzo di contenuti diversi (testuali, video, audio, fotografici), la condivisione sociale su piattaforme e dispositivi eterogenei (PC, smartphone e tablet), il coinvolgimento attivo dei membri della rete e la rapidità con cui si può conversare e disseminare informazioni. (Boyd, 2008).

Si potrebbe affermare che questi nuovi strumenti tecnologici abbiano semplicemente amplificato ciò che, con altri mezzi, gli umani sanno fare da sempre, eliminando le barriere temporali e spaziali e offrendoci nuove opportunità di elaborare nuovi pensieri, di produrre nuovi contenuti e di riflettere su noi stessi. Nel fare questo i nuovi media hanno reso obsoleti gli strumenti e modi di comunicare precedenti come l’incontro di persona e le altre forme di interazione tradizionali. (Riva, 2010).

L’aspetto da considerare però è come l’avvento di queste comunità online abbia creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. Alla corporeità dell’incontro faccia a faccia si sostituisce la virtualità del profilo da cui si elimina il corpo ma soprattutto i suoi significati.

La trasparenza dei nuovi media, ossia la loro facile accessibilità, li trasforma in strumenti potenzialmente pericolosi per le promesse di cui si fanno portatori e le illusioni che sono capaci di generare. (Mazzucchelli, 2014). I nuovi media infatti danno la sensazione di essere sociali per definizione e come tali capaci di incidere sulla solitudine sociale per chi ne soffre ma, a lungo termine, si è visto come non sempre si producano conseguenze del tutto positive.

Una delle prime indagini condotta sui social network e che ha coinvolto un numero elevato di individui è stata eseguita dall’ Australian Psychological Society. Sono state intervistate 2.3 milioni di persone prendendo un campione composto sia da membri coinvolti nell’utilizzo di socia network sia da persone senza alcuna presenza on-line. L’indagine, condotta nel 2010, ha evidenziato quanto segue:

  • Il social network interessa persone di tutte le età (97% degli intervistati)
  • Il 70% degli intervistati spende meno di due ore al giorno on-line
  • Il 28% ha avuto almeno un’esperienza negativa
  • Il 52% afferma che i social network hanno aumentato la possibilità di contatto e interazione con amici e parenti
  • Il 26% ha visto aumentare la sua partecipazione come risultato di una maggiore socialità
  • Il 25% tra i 31-50 anni ha incontrato l’anima gemella o un nuovo partner on-line
  • Il 21% (del 25 %) degli incontri ha dato origine a relazioni intime nella vita reale.

Dati interessanti sono emersi anche dall’analisi della frequenza prolungata dei siti di social network. Il 77% degli intervistati ha indicato di accedere a un social network giornalmente, il 51% più volte al giorno e il 26% una volta al giorno. L’accesso più frequente, 59%, è fatto da persone giovani, a seguire, 36%, dalle persone più adulte (32-50 anni) e da quelle anziane, 23%. (APS, 2010).

Un’ulteriore ricerca (Ferguson e Perse, 2000; Leung, 2001) ha messo in evidenza anche quali siano le motivazioni che spingono all’uso del social network, identificandone principalmente 5:

  • Inclusione sociale, cioè il bisogno di appartenere ad un gruppo.
  • Mantenimento di relazioni, la comunicazione on-line permette di rimanere sempre in contatto con i propri amici anche con quelli non raggiungibili perché lontani.
  • Incontro di nuove persone
  • Compensazione sociale, cioè la tendenza a compensare problemi comunicativi presenti nella comunicazione faccia a faccia con la socializzazione on-line
  • Divertimento

Rivoltella (2006) ha evidenziato pressoché le stesse motivazioni evidenziate dalle ricerche internazionali precedentemente citate anche nel contesto italiano.
Recenti studi hanno fatto emergere anche un altro dato significativo. Mentre le persone estroverse sembrano utilizzare i siti di social network per migliorare ulteriormente la loro posizione sociale, gli introversi sembrano utilizzare questo mezzo di comunicazione per compensare le loro difficoltà relazionali.

Entrambe le motivazioni correlano positivamente con un maggiore utilizzo del social network. (Ross et al. 2009; Correa et al. 2010). Il social network agisce come deterrente e via di fuga per persone che nella vita sociale reale sperimentano difficoltà di socializzazione, A causa di tratti del carattere come la timidezza o situazioni d’isolamento sociale, l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network sembrano diventare una fonte privilegiata di emozioni e sensazioni appaganti e intense, seppure scaturite da dimensioni del tutto virtuali. (Caretti, La Barbera, 2005). Internet può rappresentare così un mezzo per fuggire dalla realtà quotidiana e rifugiarsi in un mondo illusorio e gratificante, in cui l’elemento virtuale permette di superare le difficoltà e le inibizioni che possono caratterizzare le interazioni reali. (Cantelmi et al., 2000).

Come afferma McKenna, il contatto sociale attraverso chat e community, può diventare un utile strumento per superare le difficoltà di comunicazione e di interazione faccia a faccia che si possono presentare nella vita quotidiana. (Amichai-Hamburger, McKenna, 2006). L’indagine condotta dall’associazione degli psicologi australiani evidenzia infatti, tra gli effetti positivi del social network, la presenza di maggiori contatti personali (meno isolamento) e relazioni interpersonali (meno solitudine). Nonostante vi sia anche un alto numero di esperienze negative on-line, la maggioranza degli intervistati non sembra intenzionato ad abbandonare i social network.

Analizzando la letteratura presente emerge come la fascia d’età maggiormente attratta dall’ utilizzo dei social network sia sicuramente quella relativa all’adolescenza. Una ricerca svolta nel 2008 realizzata dall’associazione Save the Children in collaborazione con il CREMIT ha indagato il significato che Internet assume per gli adolescenti e gli atteggiamenti adottati rispetto ai possibili rischi del mondo virtuale. Il risultato evidenzia come tra i ragazzi intervistati prevalga l’idea che Internet sia utile, facilmente gestibile e non particolarmente pericoloso, nonostante molti ammettano di aver assunto almeno una volta comportamenti trasgressivi e provocatori, o aver vissuto situazioni rischiose.

Ma i benefici e i vantaggi percepiti non vengono regalati gratuitamente. L’illusione di connettersi con il mondo attraverso le piattaforme dei social network può spingere le persone a trasformarsi in individui che si isolano dalla vita reale sostituendola con una socialità superficiale ed illusoria. (Marcucci, 2004).

È possibile riferirsi a due ipotesi esplicative per indagare la relazione tra la comunicazione che avviene attraverso i social network e il benessere psicologico che ne consegue, soprattutto riguardo l’età adolescenziale, la teoria del disimpegno e quella della stimolazione (Valkenburg e Peter, 2007), le quali illustrano una visione molto diversa delle conseguenze che l’ uso eccessivo delle nuove tecnologie può produrre.

La teoria del disimpegno sottolinea come la comunicazione on-line incida negativamente sul benessere psicologico, poiché sottrae tempo che potrebbe essere dedicato alle amicizie già esistenti riducendone la qualità. La tendenza dei ragazzi a intrattenere relazioni con sconosciuti, spesso di breve durata, non permetterebbe di impegnarsi in relazioni significative. A sostegno della teoria del disimpegno è possibile menzionare la ricerca internazionale denominata HomeNet (Kraut et al., 1998), che rileva come una maggiore permanenza in rete sia associata ad una diminuzione, modesta ma statisticamente significativa, delle attività sociali nella vita off-line quali la comunicazione all’interno della famiglia, il numero di amici frequentati nel tempo libero e un aumento di sentimenti depressivi e di solitudine. Kraut e colleghi (1998) propongono l’espressione Internet Paradox per evidenziare il fatto che questa tecnologia, anche quando utilizzata come strumento comunicativo, in realtà riduce il coinvolgimento sociale e il benessere psicologico di chi la usa, procurando un’alienazione dalla vita reale.

Ciò potrebbe essere spiegato prendendo in considerazione due aspetti: la permanenza in rete sottrae tempo che potrebbe essere impiegato in attività sociali, inoltre attraverso l’uso di Internet i ragazzi tendono a sostituire relazioni sociali significative con amicizia e deboli, poco impegnative e limitate nel tempo, che sebbene possano essere giudicate soddisfacenti in realtà non forniscono una reale supporto emotivo e tendono a creare isolamento dalla vita reale.

Alcune ricerche infatti (Morgan e Cotten, 2003) sottolineano come i ragazzi tendano a giudicare anche il miglior amico on-line come meno significativo e l’amicizia stessa come meno duratura nel tempo. Le amicizie virtuali tenderebbero a diventare emotivamente intense in un periodo di tempo troppo breve senza che vi sia sufficiente fiducia nel legame. La relativa anonimità dell’interazione on-line favorirebbe infine la tendenza dei soggetti a mentire, ad esprimere apertamente emozioni negative o a interrompere in modo brusco la comunicazione nel momento in cui si verifica un conflitto senza le preoccupazioni che tipicamente caratterizzano la comunicazione faccia a faccia. (Wolak, Smahel e Greenfield, 2003).

La teoria della stimolazione sottolinea, al contrario, come la comunicazione on-line permetta un arricchimento del contesto relazionale del soggetto e favorisca le opportunità di crescita e di adattamento al contesto. Recenti studi effettuati nel contesto italiano da Baiocco (2011) ritengono che in rete si tendano a costruire gli stessi contesti e a rapportarsi in modo simile a quanto si faccia nella vita off line con alcune possibilità in più: l’anonimato, la possibilità di discutere anche di questioni più intime con minor imbarazzo, la mancanza di informazioni relative al proprio aspetto fisico, all’età, al genere, all’appartenenza etnica o allo status sociale.

In rete sembrerebbe più facile svelare le parti più intime di sé: tale processo favorirebbe quindi un accudimento, gradimento e fiducia reciproca che a loro volta migliorerebbero le qualità dell’amicizia stessa. (Valkenburg e Peter, 2007). In Internet le amicizie fra ragazzi di sesso diverso sarebbero più solide e intimamente profonde di quelle nella vita non virtuale forse per il minore imbarazzo che si prova in riferimento alla connotazione sessuale della relazione e alla sua presentazione pubblica. Ricerche hanno anche dimostrato che i ragazzi con problemi di ansia sociale o comunque tendenzialmente soli, ritengono come maggiormente reali e intime le relazioni virtuali e sono in grado di integrare meglio la loro vita on-line con quella off line. (Couyoumdjian, Baiocco, Del Miglio, 2006).

Sono state proposte due ipotesi principali riguardo la relazione tra comportamento amicale nella vita off line e il contenuto e la qualità delle relazioni amicali in Internet. La prima asserisce che le competenze relazionali del soggetto nella vita off line forniscano il prototipo delle successive relazioni in rete, favorendo nel soggetto la conoscenza di sé, buone competenze sociali e una migliore regolazione emotiva. Una visione complementare suggerisce come, nel corso dello sviluppo, le abilità interattive vengano generalizzate alternativamente dalla vita off line a quella in rete. (Cheng, Chan e Tongs, 2006).

In definitiva, la letteratura presente permette di delineare come le nuove tecnologie, in particolar modo i social network, incidano sul nostro modo di pensare, sulle nostre pratiche quotidiane, sui nostri modelli relazionali e sulla nostra comunicazione.

La comunicazione e la socializzazione mediata dalla tecnologia interagiscono infatti in modo sinergico con la vita off line, in particolar modo per i giovani. I dati rilevati da Baiocco ci confermano come alcune volte l’utilizzo di questi mezzi di comunicazione comporti un risvolto positivo, mentre altre volte ciò può rivelarsi molto dannoso. Per questo motivo è opportuno chiedersi e valutare per quali ragazzi e in quali circostanze, Internet possa configurarsi come un contesto poco creativo o addirittura pericoloso e in quali altre circostanze possa configurarsi come un contesto altamente positivo.

La ricerca sembra suggerire che quei ragazzi già competenti a livello relazionale, con buoni livelli di autostima e capacità cognitive, riescano a massimizzare gli aspetti positivi dei social network: la rete interpretata come tecnologia sociale può essere uno strumento che funge da impalcatura per migliorare il modo in cui gestire relazioni, intrattenere discorsi, esprimere aspetti diversi di sé.

Ma, come afferma Kraut nelle sue ricerche, non si può non considerare che per le personalità più fragili questa barriera tra reale e virtuale sia ancora più sottile e confusa. Ultimamente si è dimostrato l’aumento di stati depressivi tra adolescenti utenti di social network. Gli individui che si sentono meno inseriti nella cerchia di coetanei e che vedono nei social un modo per riscattarsi socialmente potrebbero andar incontro ad un fallimento . La creazione di un nuovo profilo idealizzato porterà il soggetto ad una fittizia realizzazione sociale e ad una vera alienazione da quello che è il mondo reale.

Difatti le relazioni si creano velocemente anche con persone che nemmeno si conoscono, se non virtualmente, creando una sorta di socializzazione superficiale e degradante: non si arriva più ad un’intimità amicale raggiunta con il tempo con l’arricchimento d’ esperienze comuni, a meno che non si comunichi con amici che si frequentano nella realtà.

Concludendo, è ormai evidente che i social network siano diventati un elemento fondante e per certi versi irrinunciabile della comunicazione nella società moderna ma, come tutto quello che ci circonda, forse sarebbe il caso di maneggiarli con cura.

La discriminazione omofobica a scuola: caratteristiche e mezzi di contrasto

Posta l’importanza della scuola come supporto alla costruzione dell’identità sessuale e personale, come viene vissuta l’omosessualità a scuola e quali criticità presenta?

La scuola e il gruppo dei pari rivestono un’influenza notevole sulla formazione dell’identità sessuale e dell’autostima di gay e lesbiche: essi costituiscono il luogo privilegiato per sviluppare una positiva immagine di sé, particolarmente instabile nell’età adolescenziale, contrastando eventuali dinamiche rifiutanti presenti nelle famiglie di origine (D’Ippoliti e Schuster, 2011).

L’importanza della fase adolescenziale nel percorso di scoperta ed esplorazione della sessualità è nota da tempo: a fronte di un 64% di giovani che dichiarano di avere i primi rapporti sessuali tra i 13 e i 15 anni, il 59% dichiara di provare attrazioni per persone dello stesso sesso prima dei 14 anni e addirittura il 92% entro i 19 anni (Barbagli e Colombo, 2001).

Posta l’importanza della scuola come supporto alla costruzione dell’identità sessuale e personale (al punto che i coetanei vanno a sostituire la famiglia nelle esigenze di sostegno e sicurezza quando i bisogni di appartenenza in famiglia non vengono soddisfatti), come viene vissuta l’omosessualità a scuola e quali criticità presenta?

Uno dei più grossi limiti è l’adesione incondizionata a modelli eterosessisti, dati per scontato, quale norma, con atteggiamenti omofobici di condanna, generando messaggi del tipo: ‘Puoi appartenere al gruppo solo se ti comporti o fai finta di essere eterosessuale’ (Hardin, 2008).

Ecco che il bisogno di accettazione porta gay e lesbiche a nascondere la propria sessualità per paura del rifiuto in cambio dei benefici che l’appartenenza a un gruppo apporta: sostegno emotivo, sviluppo delle abilità sociali, indipendenza dai valori familiari.

In una cornice omofobica di questa natura, l’omosessualità diviene da denigrare, attraverso varie forme di violenza perpetrate nei confronti delle persone omosessuali: i tipi di comportamento adottato variano dalle aggressioni fisiche (spinte, calci, mozziconi di sigarette spenti sul corpo) fino all’esclusione sociale, che si è dimostrata più efficace di quella fisica (Rivers e Smith, 1994).

Secondo Lingiardi (2007) è possibile individuare le caratteristiche distintive del bullismo omofobico:

  • Le prepotenze chiamano in causa una dimensione specificatamente sessuale, perché l’attacco è rivolto più alla sessualità che alla persona in sé;
  • Una maggiore difficoltà a chiedere aiuto per la propria omosessualità, perché essa richiama intensi vissuti di ansia e vergogna;
  • Il bambino vittima trova con difficoltà figure protettive: infatti “difendere un finocchio comporta il rischio di essere considerati omosessuali

Rispetto alla frequenza degli atti discriminatori, in una ricerca condotta su 7000 bambini di scuola primaria e secondaria in Gran Bretagna, si è rilevato che rispettivamente il 27% e il 10% erano state vittime di bullismo talvolta o più spesso; rispettivamente il 10% e il 4% una volta a settimana o più (Whitney e Smith, 1993). Sembra esservi una differenziazione della discriminazione a seconda degli indirizzi di studio: mentre si evidenziano attitudini più positive nei confronti delle differenze negli indirizzi artistici, gli studenti omosessuali degli istituti tecnici o professionali sarebbero i più discriminati (D’Ippoliti e Schuster, 2011).

Quali sono gli effetti di una tale discriminazione, sia a livello scolastico che personale? In generale, le conseguenze maggiori sono la riduzione delle opportunità individuali, sia in campo scolastico che lavorativo, e la riduzione della dignità (D’Ippoliti e Schuster, 2011).

In altre parole, la discriminazione può portare a vivere la scuola con disagio, aumentando l’insicurezza personale e relazionale, con mancato proseguimento degli studi e maggiore difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro. La discriminazione omofobica portata avanti da scuola e società espone gli omosessuali a un maggior rischio di disturbi dell’umore e consumo di sostanze quali nicotina, alcool e marijuana: ammonta a un terzo il numero dei giovani omosessuali che si tolgono la vita ogni anno, con una frequenza dei tentati suicidi doppia, e la causa è spesso da attribuirsi alla stigmatizzazione sociale (Barbagli e Colombo, 2001).

Come in ogni percorso educativo riuscito, è necessario incoraggiare il bambino a sentirsi bene con se stesso, resistendo alla tentazione di denigrarsi a sua volta (omofobia interiorizzata), valutando negativamente i propri pensieri e sentimenti, solo perché diversi da quelli della maggioranza. In questo senso la scuola dovrebbe essere un luogo privilegiato nel percorso di accettazione della propria sessualità e di socializzazione dei propri vissuti, visto che l’esposizione a omosessuali dichiarati può aiutare gli altri studenti a comprendere la realtà di gay e lesbiche. Lo dimostra una ricerca su 260 studenti di college americani: la percezione degli omosessuali da parte degli altri studenti cambia dopo la frequenza di un dibattito informativo tenuto da gay e lesbiche (Geasler, Croteau, Heineman e Edlund, 1995). Molti partecipanti alla ricerca infatti dichiaravano che l’esposizione personale alla discussione tenuta da persone omosessuali aveva contribuito a rimuovere stereotipi, scoprendo l’infondatezza di molti pregiudizi.

Insieme alle esperienze dirette, poi, il ruolo degli insegnanti è indispensabile per aiutare gli allievi nella ricerca, definizione e accettazione della propria identità: a tal fine sarebbe importante offrire un’educazione sessuale ad ampio spettro e comprensiva di tutti gli orientamenti, già a partire dalla scuola elementare e media.

Report dal Congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg, 20-22 novembre 2015

L’evoluzione della conoscenza psicologica dei disturbi alimentari oscilla da anni indecisa tra neuroscienze e psicologia cognitiva e al tempo stesso stabilmente si focalizza sul concetto di disregolazione emotiva.

Nel congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg (20-22 novembre 2015) queste due traiettorie si sono incrociate, come fanno da tempo. La psicoterapia cognitiva continua a detenere il primato dell’efficacia, anche se uno stallo di circa dieci anni la minaccia: nulla di nuovo è emerso dopo il secondo modello di Fairburn, quello transdiagnostico. Le ipotesi neuroscientifiche che esplorano le disfunzioni regolative delle emozioni e cercano di localizzarle nell’attività dell’amigdala sono audaci ma non hanno prodotto al momento ricadute cliniche paragonabili all’apparizione del protocollo cognitivo di Fairburn.

Nel giorno di apertura abbiamo ascoltato Hubert Lacey, storico anfitrione di questa società scientifica, l’ECED, e del suo congresso. La prima edizione si tenne a Londra negli anni ’80 e fu quasi un incontro informale nell’ufficio di Hubert. Dopo tutti questi anni il congresso dell’ECED mantiene la sua atmosfera di vecchi e pochi amici, un centinaio di professionisti dei disturbi alimentari, di “old dog” come dice Eric van Furth. Pochi ma buoni tuttavia gli happy few dell’ECED, dato che tra loro ci sono grandi studiosi, come gli stessi Lacey e van Furth, o Hans Hoeck –grande epidemiologo- e Martin Fichter, Ulrike Schmidt e la nostra Sandra Sassaroli.

 

Nel discorso di apertura, come dicevo, Hubert Lacey ha messo il dito nella piaga: le anoressiche non responders, questo 20% che assolutamente non migliora e tra le quali si annidano le più sfortunate vittime dell’anoressia, il più mortale tra i disturbi psicologici, quel 10% di pazienti circa che alla fine di terribili digiuni auto-inflitti finisce per soccombere alla morte. Lacey ha lucidamente enumerato le caratteristiche di queste pazienti, al cui centro vi è una modalità così pervasiva di adesione al timore di ingrassare e di smettere la dieta da farne quasi delle psicotiche.

Il giorno dopo abbiamo ascoltato Ulrike Schmidt proporre alcune possibili ricadute cliniche del modello disregolativo indebitato con le neuroscienze. Schmidt propone sia tecniche di espressione emotiva tese a incrementare la consapevolezza del significato esistenziale dei sintomi (consapevolezza che migliora il benessere emotivo ma –purtroppo- non la gravità del retringimento alimentare) sia interventi di feedback regolativo e di stimolazione cerebrale. Fichter ci ha aggiornato sui dati della mortalità delle anoressiche, mostrandoci dati allarmanti su questo triste fenomeno. Nel simposio sulla terapia cognitiva colleghi olandesi e norvegesi hanno parlato delle difficoltà che s’incontrano nell’applicazione piena del protocollo di Fairburn.

Un controllo di supervisione stretto e continuo è necessario per ottenere una buona aderenza degli operatori al protocollo. Ci ha fatto piacere apprendere che la versione del protocollo di Fairburn al trattamento ospedaliero più diffusa e utilizzata al mondo è quella proposta dal collega italiano Riccardo Dalle Grave. Complimenti! Infine i colleghi tedeschi del gruppo di Steffi Bauer e Marcus Moessner di Heidelberg ci hanno aggiornato sull’utilità delle piattaforme online per diffondere prevenzione e consapevolezza tra i giovani.

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