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Questione di sincerità o di punto esclamativo? Come la punteggiatura degli sms influenza la loro credibilità

Un team di ricercatori della Harpur College Binghamton University, ha studiato come la punteggiatura contenuta nei messaggi di testo influenza il significato che attribuiamo al messaggio ricevuto.

I 126 studenti reclutati per l’esperimento hanno dovuto leggere una serie di conversazioni sotto forma di messaggi di testo o di appunti scritti a mano. Nelle 16 conversazioni, il messaggio del mittente conteneva una dichiarazione seguita da un invito formulato come una domanda (per esempio, Anna mi ha regalato i suoi biglietti per il teatro. Vuoi venire?). La risposta del ricevente era una sola parola affermativa (va bene, certo, ok).

C’erano due versioni di ogni scambio: una in cui la risposta terminava con un punto e un’altra in cui non aveva alcuna punteggiatura. Sulla base delle risposte dei partecipanti, i messaggi di testo che si concludevano con un punto sono stati valutati come meno sinceri di quelli senza. I testi scritti a mano, al contrario, non risentivano di questa differenza.

In alcuni follow-up più recenti, la squadra ha anche scoperto che una risposta di testo con un punto esclamativo viene, invece, interpretata come più sincera. Anche se la maggior parte dei segnali sociali e contestuali mancavano, la sincerità dei messaggi brevi è stata valutata in modo diverso a seconda della presenza o dell’assenza di punteggiatura.

Secondo i ricercatori, questi risultati indicano che la punteggiatura influenza il significato percepito dei messaggi di testo, e viene utilizzata da chi si scambia messaggi per trasmettere emozioni e altre informazioni pragmatiche e sociali.

L’abilità umana a comunicare informazioni complesse e utilizzare sfumature nelle conversazioni, non si è arresa di fronte al formato asettico dei messaggi di testo, ma anzi, ha cercato modi alternativi, seppur ancora imprecisi e spesso ambigui, per trasmettere gli stessi tipi di informazioni.

Il DSM 5 e la diagnosi di Depressione Maggiore: dove è finito il diritto di soffrire?

La diagnosi di depressione maggiore in concomitanza al lutto era fatta, nel DSM-IV, con sintomi aggiuntivi elencati nel criterio E. Cosa è cambiato nel DSM 5?

Barbara Valenti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Modena

Considerate il seguente esempio:

Il signor Mario Rossi si presenta al colloquio lamentando umore depresso, perdita di interesse e piacere, riduzione dell’appetito, insonnia e problemi di concentrazione, difficoltà nel portare a termine i compiti richiesti al lavoro e ridotti contatti interpersonali. Questa situazione è iniziata circa un mese fa, dopo la morte della compagna alla quale era legato da molti anni.

Sulla base delle informazioni fornite, come valutereste la situazione del signor Mario Rossi?

Un clinico nella sua valutazione farebbe riferimento al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), un sistema di classificazione ampiamente diffuso in ambito clinico, basato su un modello ateorico e categoriale che classifica i disturbi ricorrendo a precisi criteri diagnostici.

Ritornando all’esempio, se confrontassimo le difficoltà indicate dal signor Mario Rossi con le indicazioni del DSM arriveremmo a conclusioni profondamente diverse a seconda della versione. Nel 2013 è infatti uscita l’ultima edizione del manuale, il DSM 5, che rispetto a quella precedente, il DSM IV-Tr, presenta importanti differenze.

Il DSM IV-Tr nella definizione di Depressione Maggiore indicava:

dopo la perdita di una persona amata, anche se i sintomi depressivi sono sufficienti per durata e per numero a soddisfare i criteri per l’Episodio Depressivo Maggiore, essi dovrebbero essere attribuiti al Lutto (DSM IV-Tr, 2000).

La diagnosi di Depressione Maggiore in concomitanza al lutto veniva contemplata solo in presenza di specifici sintomi aggiuntivi elencati nel criterio E:

  • una durata equivalente o maggiore a due mesi
  • una compromissione marcata del funzionamento
  • ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio (DSM IV-TR, 2000).

Il razionale di queste indicazioni è quello di differenziare una reazione considerata normale – il lutto – da una condizione psicopatologica – la Depressione Maggiore.

Il DSM 5 ha eliminato questa discriminazione e al suo interno non c’è traccia del criterio E, sostituito da una nota che suggerisce al clinico di valutare con attenzione se in caso di eventi legati alla perdita (come lutto, gravi problemi economici, disastri naturali, grave malattia o disabilità) il soggetto presenta i sintomi di un Episodio Depressivo Maggiore (EDM) in aggiunta alla reazione naturale – senza specificare cosa si intenda per ‘naturale’. Il paragrafo introduttivo sui disturbi depressivi ricorda inoltre che la compresenza di lutto e sintomi depressivi si associa a prognosi peggiore, e che in questi casi il trattamento con antidepressivi può facilitare ricovero (DSM 5, 2013).

In sostanza, per il DSM IV-Tr il signor Rossi sarebbe in lutto mentre per il DSM 5 si tratterebbe di un caso di Depressione Maggiore.

Questo rilevante cambiamento di prospettive è stato accompagnato da un acceso dibattito in letteratura. Secondo gli autori favorevoli all’eliminazione del criterio E tale scelta si basa su evidenze scientifiche e già nel 2001 Zisook evidenziava l’utilità del bupropione nel trattamento di Episodio Depressivo Maggiore immediatamente successivi alla perdita di una persona cara (es: lutto), sostenendo che la capacità del farmaco di ridurre la sintomatologia depressiva e insieme le manifestazioni lutto correlate sfiderebbe le indicazioni del DSM-IV di non trattare farmacologicamente i casi di lutto (Zisook et al, 2001).

Ricerche successive (Zisook e Kendler, 2007; Zisook, Shear & Kendler, 2007; Lamb et al, 2010) mettono in dubbio la validità del Criterio E sulla base dell’assenza di differenze significative tra Episodio Depressivo Maggiore lutto correlati e Episodio Depressivo Maggiore non lutto-correlati. Anche Corruble et al (2009) sostengono questa posizione, arrivando a concludere che i soggetti del loro campione classificati come ‘lutto’ presentavano sintomi depressivi più gravi rispetto ai soggetti con depressione maggiore, inclusi maggiore ideazione suicidaria e senso di inutilità.

Un ulteriore argomento che depone a favore dell’eliminazione del criterio E sarebbe l’assenza di differenze significative tra condizioni di lutto e sintomi depressivi non severi conseguenti ad altri tipi di eventi stressanti (Kendler, Myers & Zisook, 2008). Infine Kendler (2010), riassume le ragioni a favore dell’eliminazione del criterio E aggiungendo quanto segue:

  • il criterio E, che impedisce la diagnosi di depressione maggiore in caso di lutto recente, è stato inserito nel DSM IV-Tr sulla base dei lavori di un unico autore;
  • l’International Classification of Dieseases (ICD, l’altro principale sistema di classificazione dei disturbi) non prevede nessun criterio E nella diagnosi di Depressione Maggiore;
  • il termine generico ‘depressione’ spesso usato per indicare il lutto non va confuso con il concetto diagnostico di Depressione Maggiore;
  • la diagnosi in psichiatria non implica necessariamente il trattamento, un bravo psichiatra di fronte a un Episodio Depressivo Maggiore lutto correlato parte da un’accurata valutazione diagnostica e, quando i criteri per la depressione maggiore sono soddisfatti, valuta se adottare la tecnica del ‘guardare e aspettare’ oppure se, a causa di ideazione suicidaria, marcata compromissione del funzionamento o un sostanziale peggioramento clinico, i benefici del trattamento sono superiori ai limiti.

Ad un’analisi più attenta, l’evidenza scientifica a sostegno di questo cambiamento si è dimostrata fallace.

Riprendendo nell’ordine gli articoli finora citati: un articolo pubblicato da Whoriskey (2006) sul Washington Post denuncia lo scarso rigore scientifico nella ricerca di Zisook e colleghi (2001), che nonostante un campione di soli 22 soggetti, la loro mancata randomizzazione e l’assenza di un gruppo di controllo pretendeva di sfidare l’indicazione del DSM IV-Tr di non fare ricorso al trattamento farmacologico in caso di lutto (Whoriskey, 2006). Wakefield e First (2012) hanno analizzato nel dettaglio vari articoli favorevoli all’eliminazione del criterio E soffermandosi su un errore di concetto che ricorre sia nella prima ricerca di Zisook e Kendler (2007) che quella successiva (Zisook, Kendler e Shear; 2007): esprimersi a favore dell’eliminazione del criterio E sulla base dell’assenza di differenze significative tra le varie forme di Depressione Maggiore non ha niente a che fare con il criterio E in sé, il cui fine è quello di distinguere tra una condizione patologica e una non patologica (Wakefield & First, 2012).

Va aggiunto che gli stessi Zisook, Kendler e Shear (2007) riconoscono di aver misclassificato la condizione di lutto nella loro ricerca, inserendovi anche casi di Episodio Depressivo Maggiore, ma ignorano questo dettaglio nelle loro conclusioni.

Un simile errore di concetto è stato compiuto da Lamb e colleghi (2010) che hanno incluso nelle loro analisi una ricerca di Kessing et al (2010) dove nella condizione lutto rientravano anche pazienti ricoverati, i 2/3 del gruppo, e pazienti con ideazione suicidaria, il 73% (Wakefield e First, 2012). Allo stesso modo, Corruble e colleghi (2009) hanno considerato lutto anche quelle situazioni in cui i pazienti presentavano ritardo psicomotorio (70.5%), sentimenti di inutilità (66.8%) e ideazione suicidaria (36%), tutti elementi che vengono inclusi nel criterio E come indici di una probabile Depressione Maggiore (Wakefield & First, 2012). Rispetto all’argomento sostenuto da Kendler, Mayers e Zisook (2008), ovvero la somiglianza tra lutto e sintomi depressivi non severi conseguenti ad altri tipi di eventi stressanti, altri autori sulla base di simili dati sono arrivati all’opposta conclusione di mantenere il criterio E ed estenderlo alle altre situazioni di perdita (Wakefield et al, 2007). Infine, anche le ragioni elencate da Kendler (2010) sono opinabili:

  • dichiarare che il criterio E impedisce la diagnosi di Depressione Maggiore in caso di lutto non corrisponde a verità, questa è possibile a patto che vengano soddisfatti specifici sintomi aggiuntivi (DSM IV-Tr, 2000). Con il lavoro di un unico autore Kendler sembra riferirsi alle pubblicazioni di Clayton (Clayton, Desmarais & Winokur, 1968; Clayton, Halikas, & Maurice WL, 1972; Clayton, Herjanic & Murphy, 1974) che ancora oggi forniscono evidenze persuasive circa l’utilità del criterio E (Wakefield e First, 2012).
  • Nelle linee guida dell’ICD-10 il lutto viene riconosciuto come una reazione normale, solitamente non superiore ai 6 mesi, non codificabile come disturbo mentale se appropriata alla cultura di riferimento dell’individuo (WHO, 1992). Inoltre, anche se l’ICD-10 non menziona il lutto nella diagnosi di Depressione Maggiore è probabile che questo venga incluso nella prossima versione, l’ICD-11 (Maj, 2012). Includere l’assenza del criterio E nell’ICD tra le ragioni a favore della sua esclusione nel DSM 5 perde quindi di significato.
  • È proprio la confusione che spesso si crea tra i termini depressione e lutto a rafforzare la necessità di una chiara distinzione tra i due, soprattutto considerando che nel mondo reale, la maggior parte delle prescrizioni saranno fornite da medici di medicina generale che hanno 6 minuti per ogni paziente, non conoscono accuratamente i criteri diagnostici e desiderano la soluzione più veloce (Frances, Pies & Zisook, 2010).
  • Quest’ultimo punto ben evidenzia il rischio di sovradiagnosticare, ora che il criterio E è stato eliminato si suggerisce al clinico di segnare – in ogni caso – la presenza di psicopatologia, e di ricorrere al farmaco solo se i sintomi sono sufficientemente gravi.

In sostanza la validità del criterio E viene negata ricorrendo alla sua stessa indicazione, ovvero quella di trattare farmacologicamente le condizioni patologiche che presentano sintomi molto simili rispetto a quelli suggeriti da Kendler (ideazione suicidaria, marcata compromissione del funzionamento o un sostanziale peggioramento clinico).

In accordo con il sito del DSM 5 le modifiche apportate sarebbero basate su evidenze scientifiche e finalizzate al miglioramento delle pratica clinica (DSM web site, 2014). Ad un’osservazione più accurata dei dati emerge tuttavia che la scelta di eliminare il criterio E è in contraddizione con quanto sostenuto, sia perché le ricerche scientifiche si sono rivelate inconsistenti, sia perché le nuove indicazioni potrebbero rivelarsi controproducenti per la pratica clinica, aumentando il rischio di diagnosticare erroneamente il lutto come patologia – e quindi di trattarlo farmacologicamente (First, 2011).

Ma se alla base di questa scelta non troviamo né evidenza scientifica né evidenza clinica, qual è il razionale che la sostiene? Il dubbio è che l’interesse non sia tanto quello di favorire il benessere dei pazienti bensì quello delle case farmaceutiche, basti pensare che otto degli undici membri della commissione APA (American Psychiatric Association) che hanno votato a favore di questo cambiamento riportano connessioni di ordine economico con le industrie farmaceutiche (Whoriskey, 2012). Sidney Zisook, il consigliere principale della commissione, è stato relatore e consulente per diverse case farmaceutiche oltre che primo autore nella ricerca che sostiene l’impiego del bupropione nel trattamento del lutto – ricerca sponsorizzata dalla Glaxo (Whoriskey, 2012).

Per prevenire ulteriori critiche a partire dal 2007 l’APA ha istituito una politica di divulgazione obbligatoria per i suoi membri, a cui viene richiesto di segnalare la presenza di eventuali conflitti di interesse e limitare ad un massimo di 10.000 dollari il compenso annuo ricevuto dalle industrie (APA, 2007). Nonostante questa richiesta il 69% dei membri appartenenti alla commissione che ha lavorato al DSM V ha dichiarato legami con le case farmaceutiche, e tale percentuale aumenta tra i membri che si sono occupati di disturbi per i quali i farmaci sono indicati come trattamento di prima scelta, nello specifico: l’83% dei membri della commissione dedicata ai Disturbi dell’umore ha dichiarato una qualche forma di legame con le industrie, o le compagnie associate alle industrie, che producono i farmaci segnalati per il trattamento (Cosgrove & Krimsi, 2012).

Ritornando all’esempio iniziale, alla luce di quanto finora citato la miglior conclusione che può essere tratta è quanto sostenuto da Allen Frances (2012), professore presso il Dipartimento di psichiatria della Duke University e a capo della task force che aveva prodotto il DSM IV-Tr:

il lutto diventerà Disturbo Depressivo Maggiore, quindi le nostre prevedibili e necessarie reazioni emotive alla perdita di una persona cara saranno medicalizzate e banalizzate, sostituendo con pillole e rituali medici superficiali le consolazioni profonde derivate dalla famiglia, dagli amici, dalla religione e dalla resilienza che viene con il tempo e con l’accettazione delle limitazioni della vita.

 

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Depressa da morire: è concepibile l’eutanasia per casi di depressione?

Plusdotazione: risorsa o rischio per la famiglia? Uno studio sullo stress genitoriale di famiglie con bambini ad alto potenziale

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Plusdotazione: risorsa o rischio per la famiglia? Uno studio sullo stress genitoriale di famiglie con bambini ad alto potenziale

Autore: Valeria Bertolotti (Università degli Studi di Pavia)

Abstract

La giftedness, lo stress genitoriale ed il parenting sono i temi sui quali il presente scritto si concentra. Nello specifico viene esaminato il contesto di famiglie con bambini ad alto potenziale (gifted) con l’obiettivo principale di indagare i livelli di stress che tali famiglie presentano. La teoria di riferimento della ricerca riguarda il filone sistemico – relazionale, dal quale derivano alcuni principali modelli sulla giftedness focalizzati sui processi di sviluppo dell’individuo, che rappresentano dei riferimenti importanti nell’attuale ricerca in questo ambito.

Successivamente è introdotto e discusso il contesto famiglia, con particolare enfasi all’analisi del parenting, inteso come condotta genitoriale, e dello stress genitoriale. Infine sono riportati i risultati della ricerca sullo stress genitoriale, da cui emerge che le famiglie con bambini ad alto potenziale risultano maggiormente stressate delle altre famiglie con bambini a sviluppo tipico. La causa principale di questo maggiore stress sembra essere la difficile gestione che questi bambini comportano, derivante dal loro temperamento richiestivo e sfidante. Nonostante non venga approfondito nello specifico il parenting, sembra che le relazioni tra genitori e figli e le percezioni circa il ruolo genitoriale di famiglie con bambini gifted siano buone.

 

Abstract (English)

Giftedness, parenting and parental distress are the main subjects of this paper. In particular the context of families with gifted children is examinated, to the purpose of studying the distress levels that such families report. The theoretical introduction, based on the systemic perspective, presents some of the main developmental models of giftedness, focused on the individual developmental process.

Later, the themes of parenting and parental distress are introduced and analyzed. In closing, results of parental distress research are reported: the data show that families with gifted children feel more stressed than other families with typical development children.  The first cause of this situation seems to be the complexity attributed to gifted children, resulting from their demanding and challenging temperament. Although parenting isn’t specifically analyzed, it seems that, among families with gifted children, parents – children interactions and parents’ perceptions about their role are quite positive.

Keywords: plusdotazione, genitorialità, stress genitoriale, bambini difficili, madri

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

Schizofrenia e cellule staminali: verso la creazione di un modello esplicativo “in vitro”

Diego Moriggia, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

L’impiego di queste cellule può rappresentare un punto di svolta nella ricerca sulla schizofrenia (nonché di altre malattie mentali, quali ad esempio l’autismo; Brennand, Gage, 2012), e per più ragioni: una di queste risiede nell’opportunità di poter creare, a partire da differenti tipi di cellule neuronali (quali, ad esempio, oligodendrociti, astrociti, interneuroni), rappresentazioni di diverse aree del cervello, la cui reciproca interazione verrà poi osservata (Filippich et al., 2013).

La schizofrenia è universalmente riconosciuta come una delle più gravi ed invalidanti malattie mentali.
Essa consta di tre principali classi di sintomi: nella cosiddetta sintomatologia positiva, i pazienti affetti da schizofrenia manifestano allucinazioni, delirio e generale disordine del pensiero; i sintomi negativi, invece, sono caratterizzati da appiattimento dell’affettività, impoverimento di linguaggio ed eloquio (alogia), mancanza di volizione (abulia). In aggiunta a ciò, segnaliamo disturbi di carattere cognitivo, quali deficit attentivi, di memoria e pianificazione/organizzazione (APA, 2013).

I tentativi di spiegare l’insorgenza della malattia sono molteplici e assai differenziati per ambito d’intervento; importanti risultati sono arrivati, infatti, dagli studi di neuroimaging e dalle indagini anatomiche post mortem, i quali hanno evidenziato che negli individui affetti da schizofrenia è possibile osservare una sensibile diminuzione del volume encefalico, della dimensione delle singole cellule, nonché un’abnorme distribuzione neuronale nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo (Wong et al., 2003). Un altro versante è rappresentato dagli studi neurofarmacologici, che hanno segnalato anormalità nell’attività di diverse popolazioni di neuroni (specie i dopaminergici, glutammaergici e GABAergici; Sullivan, 2003).

Ciò che, tuttavia, è di grande ostacolo nella ricerca sulle cause della schizofrenia è la difficoltà di ottenere neuroni vivi da pazienti affetti da questo disturbo, per poi poterne studiare efficacemente l’interazione; possiamo citare – a questo proposito – i modelli appresi dagli studi sui topi, nei quali viene sperimentalmente ricreata una condizione fenotipica del tutto simile a quella di uno schizofrenico (seppure con opportune limitazioni proprie del protocollo; Brennand, Gage, 2012).
In quest’ottica, lo studio delle interazioni neurali viene enormemente avvantaggiato da una recente frontiera di ricerca, rappresentata dall’impiego delle cellule staminali.

Negli ultimi anni si è spesso parlato dei molteplici impieghi di questo tipo di cellule, la cui peculiarità sta nella possibilità di svilupparsi in qualsiasi tipo di cellula umana, a partire da uno stato non specifico. La rivoluzionaria scoperta effettuata in tale ambito è figlia delle ricerche di Shinya Yamanaka (Takahashi et al., 2006), che ha rivelato la possibilità di far regredire una cellula somatica proveniente da un topo, fino allo stato “non-differenziato”. Un anno dopo, un gruppo guidato sempre da Yamanaka (Takahashi et al., 2007), più un altro team diretto da James Thompson (Yu et al., 2007) dimostrano per la prima volta che è possibile ottenere il medesimo risultato servendosi di una cellula umana (in questo caso un fibroblasto, ovvero una cellula connettivale del derma e deputata alla sintesi dei componenti della sostanza intercellulare). Le cellule ottenute (del tutto simili a cellule staminali embrionali e che da qui in avanti chiameremo iPSCs, Induced Pluripotent Stem Cells, in italiano Cellule Pluripotenti Indotte) potranno poi essere riconvertite in cellule appartenenti a qualsiasi tessuto umano, mediante apposita procedura (Maherali et al., 2007; Meissner et al., 2007; Takahashi et al., 2007; Wernig et al., 2007; Yu et al., 2007).

L’impiego di queste cellule può rappresentare un punto di svolta nella ricerca sulla schizofrenia (nonché di altre malattie mentali, quali ad esempio l’autismo; Brennand, Gage, 2012), e per più ragioni: una di queste risiede nell’opportunità di poter creare, a partire da differenti tipi di cellule neuronali (quali, ad esempio, oligodendrociti, astrociti, interneuroni), rappresentazioni di diverse aree del cervello, la cui reciproca interazione verrà poi osservata (Filippich et al., 2013).

Non solo, questa strategia garantisce l’opportunità di poter individuare nei neuroni eventuali deficit innati, senza che vi siano interferenze dovute a fattori ambientali (abuso di alcool o sostanze, indigenza, quantità di farmaci assunti a scopo terapeutico).
Ma in quale modo è possibile operare un simile intervento? Più precisamente, come si riesce a controvertire una differenziazione cellulare già terminata?

Come si potrà immaginare, una spiegazione dettagliata finirebbe inevitabilmente per dilungarsi in complesse nozioni di genetica e biologia cellulare; ci limiteremo, perciò, a citare i passi principali.
Le cellule differenziate possono essere riprogrammate nello stato pluripotente mediante l’espressione artificiale di quattro geni: Oct4, Sox2, Klf4 e c-Myc. Complessivamente, questi quattro geni sono naturalmente espressi nelle cellule staminali embrionali mentre rimangono inespressi in una cellula stabilmente differenziata, dal momento che il processo di differenziazione ne prevede la disattivazione progressiva; occorre, pertanto, introdurli artificialmente in una cellula. Il team di Yamanaka, a proposito, si è servito di un vettore retrovirale, cioè un virus modificato appositamente per trasmettere una specifica informazione genetica. Mediante ulteriori protocolli di differenziamento, successivamente, è possibile pilotare la crescita di una iPSC nella direzione desiderata (per maggiori informazioni, si veda: Chambers et al., 2009; Abbas, A. K., Aster, J. C., & Kumar, V., 2013; Bagnara, G. P., 2013; D’Amato, L. C., & di Porzio, U., 2011).

Nonostante questa metodologia di ricerca sia agli albori, i risultati fin qui ottenuti paiono incoraggianti. Il team guidato da Fred Gage (Brennand et al., 2011), ad esempio, ha scoperto che i neuroni “derivati” da pazienti schizofrenici presentano difetti nella connettività, difetti collocati nella maturazione e funzionalità delle sinapsi; è, inoltre, presente un decremento del numero di neuriti, risultato coerente con la diminuzione di arborizzazioni dendritiche osservate in neuroni post-mortem (Selemon et al., 1999) e modelli animali (Jaaro-Peled et al., 2010). Sono stati quindi testati gli effetti di cinque antipsicotici (clozapina, olanzapina, loxapina, risperidone, tioridazina), con l’intento di stimolare la connettività neuronale: solo la loxapina si è rivelata efficace a riguardo (si suppone che una somministrazione controllata per dosaggio e tempo sia comunque efficace).

E’ opportuno sottolineare che, stante la sua giovinezza, questa tecnica di ricerca non è esente da limiti. Uno di questi è rappresentato dalla variabilità all’interno dei neuroni derivati da iPSCs: queste differenze potrebbero essere dovute al modo in cui il vettore impiegato per il trasferimento dei geni si integri nella cellula, ma si potrebbero imputare anche a discrepanze nel nuovo sviluppo epigenetico, a spontanee mutazioni in seguito alle varie riprogrammazioni, alle differenti tecniche di coltura delle iPSCs e persino a diversità fra le cellule d’origine.

Un altro interrogativo è rivolto ai campioni sperimentali usati: ci si chiede, più precisamente, se effettivamente i pazienti studiati siano rappresentativi di una malattia così complessa qual è la schizofrenia. Nonostante i numeri dicano chiaramente che è possibile apprezzare discrepanze significative tra pazienti e controlli, ci si chiede se sia possibile esportare su larga scala le analisi effettuate sui neuroni derivati (Brennand, Gage ,2012).
La strada tracciata, dunque, procede verso una modellizzazione in vitro della malattia (mentale, in questo caso, ma non solo); nonostante la strada sia ancora molto lunga – a detta di molti scienziati coinvolti – giungeranno risultati estremamente utili per comprendere maggiormente l’entità di questa malattia.

Il trattamento della depressione previene la perdita della memoria e la demenza

Se la Depressione non viene trattata, o il soggetto che ne soffre non risponde adeguatamente al trattamento della depressione, la risposta infiammatoria può portare alla produzione di composti neurotossici che possono uccidere le cellule del cervello, con conseguente perdita di memoria e demenza.

 

Il circolo vizioso di stress e depressione

Stress e depressione interagiscono in un circolo vizioso. In soggetti particolarmente sensibili lo stress può portare alla depressione. A sua volta, la depressione, se non trattata, provoca stress. Questo stimola il sistema immunitario del corpo con lo scopo di combattere lo stress e la depressione, come se fossero una malattia o infezione.

L’accelerazione dello stimolo del sistema immunitario, il quale include la risposta infiammatoria, protegge inizialmente contro lo stress.

Ma nel corso del tempo, l’infiammazione cronica può causare una serie di problemi di salute. Infatti, in questo circolo vizioso, la Depressione può innescare una risposta infiammatoria.

Pertanto, Angelos Halaris, professore presso il Dipartimento di Psichiatria e comportamento Neuroscienze di Loyola University Chicago Stritch School of Medicina ha dichiarato:

É importante una precoce diagnosi di depressione, trattarla energicamente con lo scopo di raggiungere la remissione e lavorare per prevenire le ricadute.

 

Trattamento della depressione con Escitalopram

Halaris e colleghi si sono proposti di indagare se il trattamento con Escitalopram (ESC), un antidepressivo appartenente alla classe degli SSRI, potesse sopprimere l’infiammazione spostando i metaboliti della via chinurenina nei pazienti con un Disturbo Maggiore Depressivo (DMD).

A tal scopo sono stati testati 57 soggetti, 27 di controllo e 30 pazienti. I pazienti sono stati trattati con Escitalopram per 12 settimane. In ogni visita sono state effettuate valutazioni cliniche usando la 17-item Hamilton Depression Scale (HAM-D), l’Hamilton Rating Scale for Anxiety (HAM-A), il Clinical Global Impression (CGI) e il Beck Depression Inventory (BDI) così da poter monitorare l’effetto del farmaco.

Per esaminare la risposta infiammatoria, nel corso di ogni valutazione venivano inoltre raccolti campioni di sangue, i quali sono stati successivamente analizzati. Nello specifico i ricercatori hanno misurato i livelli ematici di nove sostanze secrete dal sistema immunitario.

Ciò che emerso è che l’80 % per cento dei 20 pazienti che hanno completato l’intero studio, ha riferito un sollievo completo o parziale dalla loro depressione, confermando le premesse di Halaris e colleghi. È emerso però un ulteriore risultato inaspettato: oltre al trattamento della depressione, l’Escitalopram protegge anche dai composti che possono causare la perdita di memoria e demenza.

 

Effetti sul cervello di una depressione non trattata o resistente al trattamento

Se la depressione non viene trattata, o il soggetto che ne soffre non risponde adeguatamente al trattamento, la risposta infiammatoria può portare alla produzione di composti neurotossici che possono uccidere le cellule del cervello, con conseguente perdita di memoria e demenza.

A dimostrazione di ciò tra i risultati dello studio è stato trovato che tra i pazienti trattati con Escitalopram, i livelli di due composti neurotossici erano scesi in modo significativo. Infatti i livelli di acido 3-idrossiantranilico erano diminuiti di oltre due terzi tra la settimana 8 e la settimana 12, e i livelli di acido quinolinico erano scesi del 50% durante le prime otto settimane risultando inferiori rispetto all’inizio dello studio.

L’Escitalopram appartiene a una classe di antidepressivi chiamati inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI). Per tanto è possibile che altri SSRI, come il Prozac, lo Zoloft e il Paxil, potrebbero proteggere contro le neurotossine, ma il dottor Halaris ha dichiarato che questo dovrebbe essere testato tramite altri studi.

In conclusione, per quanto si tratti di una scoperta eccezionale, bisogna sottolineare che lo studio è purtroppo limitato dal numero ristretto di soggetti partecipanti. La speranza di Halaris e colleghi e però quella che stimoli l’interesse a replicare i risultati con grandi gruppi e per un periodo di tempo più lungo.

Gleeden e le Avventure Extraconiugali

Gleeden: in una società dove il limite e il legame fanno fatica a trovare uno spazio o una ragione d’esistere, il tradimento è forse ormai sdoganato, quasi a rappresentare un diritto egualitario

Gleeden website

Seduta sull’autobus, ferma ad un semaforo, la mia attenzione viene attratta da una locandina viola acceso. Non riesco a leggere di cosa si tratta, intravedo una mela mordicchiata e una mano con le unghie laccate. Penso si tratti di un nuovo telefilm su un gruppo di casalinghe disperate.

Gleeden - avventure extraconiugaliQuando scendo dall’autobus, però, mi imbatto nuovamente nella locandina, appesa a quanto pare a diverse pensiline. Mi fermo a leggere cosa c’è scritto: “Gleeden, Essere fedeli a due uomini significa essere due volte più fedeli”. Rifletto qualche secondo sull’aforisma, e mi rendo conto che la pubblicità è relativa ad un “sito di incontri extraconiugali pensato dalle donne“.

Ho incominciato così a riflettere sul senso del tradimento che, in qualunque forma si manifesti, è sempre un’azione che muta in qualche modo un legame, in seguito alla quale si crea uno spartiacque, originando così un prima e un dopo. Muta anche l’identità delle persone coinvolte, dando loro magari un’etichetta che mai avrebbero pensato o desiderato avere.

I tradimenti, quindi, hanno dei tratti comuni: più che la persona, si tradisce la relazione costruita insieme (che sia d’amore o di amicizia, di lavoro o di collaborazione). E’ un atto per altro asimmetrico: vi è una persona che sceglie, che agisce, e una persona che subisce e che, solo in un secondo momento, può contro-reagire. Il tradimento, inoltre, si inserisce in un discorso culturale e sociale più ampio, mutando il proprio significato così come mutano i tempi.

Oggigiorno, invece, in una società dove il limite e il legame fanno fatica a trovare uno spazio o una ragione d’esistere, il tradimento è forse ormai sdoganato, quasi a rappresentare un diritto egualitario.

Si è sentito molto parlare di “analfabetismo affettivo”, e forse sotto questa etichetta fumosa che vuol dire tutto e niente, possiamo far rientrare il tradimento coniugale. Un rapporto duraturo, fatto di alti e bassi, può generare felicità, ma – questo è indubbio – crea anche frustrazione. Richiede energia, costanza, tempo, e anche una sicurezza interna non indifferente. Innamorarsi e scegliere una persona con la quale condividere un pezzetto della propria vita, i propri interessi, ma anche le proprie ambizioni e paure rappresenta un investimento emotivo e cognitivo non indifferente. E a monte di tutto questo, rimane il fatto che per poter amare qualcuno bisogna forse amare prima se stessi. Per potersi dedicare a qualcuno bisogna essere sicuri di aver dedicato sufficiente energia a se stessi.

Visito la homepage di Gleeden: il layout accattivante (che continua a ricordarmi vagamente le pubblicità di alcuni telefilm americani), una grafica semplice e poco testo scritto. Poche informazioni essenziali:

  • Oltre 2.825.642 iscritti (un numero piuttosto consistente)
  • Discrezione totale;
  • 100% utenti reali;
  • Una comunità mondiale (il sito, infatti, è la versione italiana di un network internazionale).

 

Iscriversi a Gleeden

L’iscrizione a Gleeden (gratuita) è composta da due fasi:

1) la scelta del nickname, il Paese di residenza (è interessante il fumetto che compare accanto alla scelta del paese: “A due passi da te o a chilometri di distanza, tutto è possibile”, un buon rimando alla mancanza e al crollo dei limiti), ciò che si è (donna, uomo, donna impegnata, uomo impegnato) e cosa si cerca (donna, uomo, donna impegnata, uomo impegnato, uomo e donna).

2) il profilo viene completato inserendo una password, la data di nascita, l’email e la propria città.

E’ interessante notare come dopo 30 secondi (di orologio) dalla creazione del profilo (totalmente vuoto, se non per la mia età, il mio nickname e per ciò che cerco) vengo contattata da tre utenti (due tramite chat e uno via messaggio privato), il mio account è aggiunto tra i preferiti di un utente e visitato da altri 6. Il numero aumenterà man mano, così come le richieste di chat, tutte per altro molto educate.

Il regolamento di Gleeden garantisce comunicazioni moderate e controllate, per evitare situazioni spiacevoli. Per completare il proprio profilo è richiesto di segnalare agli altri utenti il genere di relazione ricercata, scegliendo tra: breve, lunga, principalmente virtuale, ogni situazione eccitante, aperto/a a tutto, non ho ancora deciso. Il sito prevede anche un pulsante (stop) che garantisce una rapida uscita di scena, per evitare – forse – di essere rintracciati dal proprio partner o, perché no, dal proprio capo ufficio.

Stando al Corriere della Sera, che ha parlato del social network per incontri extraconiugali già in un articolo risalente al lontano dicembre 2009, l’identikit “del traditore” emersa dallo studio dei profili registrati sul sito era abbastanza chiara: uomo (68% degli aderenti), in media 39 anni, con una buona posizione sociale (il 34% si presentava come quadro). Le donne, invece, all’epoca rappresentavano una minoranza. Sarebbe interessante capire se la “fauna”di questo particolare social network si sia modificata in questi anni, e se sì come.

 

L’evasione condivisa su Gleeden nel vissuto contemporaneo

Rimane valida, a mio avviso, la riflessione fatta in apertura, ossia di come costumi, società, psiche e moralità siano strettamente interrelate tra loro, e come si modellino e modifichino lungo gli anni. In una società ormai quasi priva di tabù (culturali, ma anche psicologici) e soprattutto di regole, in cui l’ambiguo e l’indefinito hanno preso il posto del definito, in cui i ruoli sociali sono pressoché ribaltati o equiparati, un sito che garantisce un’evasione condivisa (anche solo per una sera, anche solo attraverso il canale della chat) va ad intersecarsi perfettamente con il vissuto contemporaneo.

Forse, il sapere di poter incontrare dall’altra parte una persona con lo stesso legame (un matrimonio, o una relazione stabile) potrebbe aiutare a sentirsi meno in colpa, sollevati dalla responsabilità di un gesto simile.

Potremmo anche riflettere sulla “scissione” che un sito del genere può rappresentare per un uomo e/o una donna con un compagno/a. Da un lato, infatti, la persona con cui condividere la quotidianità, magari una famiglia, l’affetto, la tenerezza; dall’altra, una seconda persona con cui sperimentare una configurazione diversa della propria identità, magari quella che vuole evadere dalla routine o da un ruolo che si vive come “troppo stretto”.

Un comportamento simile, che divide in due il sentimento, consente anche di proteggere la relazione “ufficiale” da eventuali pensieri o sentimenti aggressivi, che in ogni rapporto emergono e si manifestano.

In ultima analisi, inoltre, i siti come Gleeden che sponsorizzano incontri extraconiugali favoriscono una trasgressività “comoda”, quasi diciamo pronta, che non richiede nessuno sforzo se non quello di accendere il proprio computer e di – eventualmente – far calare il sipario con un semplice clic.

 

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Amore online: relazioni reali con match virtuali. - Immagine: © Costanza Prinetti 2012.
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Spirito natalizio o spirito del Grinch? Le aree cerebrali implicate nelle emozioni natalizie

I risultati mostrano la presenza di una specifica risposta cerebrale che verrebbe stimolata dalla visione di immagini natalizie, ma che sembra essere diversa per le persone che tradizionalmente celebrano il Natale rispetto alle persone che non sono solite celebrarlo.

Con sempre maggiore preavviso, negli ultimi anni, capita che un giorno andiamo a fare la spesa o a fare un giro in centro e troviamo tutto addobbato. E ci viene da pensare “Ci risiamo, anche quest’anno, è arrivato il Natale”. Davanti a questa evidenza, alcune persone reagiscono come bambini euforici e felici davanti alle lucine colorate e ai monumenti addobbati; altre persone si lamentano dello spreco di energia elettrica, della folla, della mercificazione della santità, della commercializzazione dei sentimenti e così via. Poi ci sono le persone che ci provano a fare finta di niente, ma non funziona. Le persone che “Vabbé, alla fine è come se fosse un lungo weekend”, ma non funziona neanche quello, perché nei weekend la gente che incontri non ti fa gli auguri e non gira con pacchi grandi più di te. Il piano B arriva veloce: provi a confrontarti con gli amici, a spiegare loro perché non hai tutta questa voglia di infilarti alla maratona delle cene aziendali, di vedere i bambini che giocano con la neve a casa da scuola, di ricordarti di quando eri piccolo. Qualche amico capisce, qualcuno interpreta forzatamente un’infanzia difficile, forse triste, che viene rievocata col Natale tuo malgrado, la maggior parte però dice che sei strano, che il Natale è così allegro, che non si capisce come puoi non cogliere la magia. Allora finisce che ti rassegni e aspetti pacatamente che arrivi il 7 gennaio, che si riparta con la routine e senza tutte queste luci.

Allora, amici solitari e rassegnati, c’è una novità. C’è chi ha pensato a voi. E non è Babbo Natale. Quest’anno sotto l’albero troviamo la ricerca di un gruppo di studiosi dell’Università di Copenhagen, che si sono chiesti fondamentalmente quello che i vostri amici vi chiedono da sempre: ma cosa c’è che non va in te? Perché non ti piace il Natale? La risposta, ovviamente è dentro di te. Ma anche dentro ai tuoi amici.

Dall’ articolo pubblicato sul British Medical Journal si legge testualmente che l’obiettivo di questo studio era [blockquote style=”1″]identificare e localizzare lo spirito natalizio nel cervello umano.[/blockquote] E per farlo, questo pool di neurologi ha pescato dalla popolazione non clinica (cioè da persone che NON avevano richiesto alcuna terapia) 10 partecipanti “natalizi” e 10 “non natalizi” (8 uomini e 2 donne in ogni gruppo), selezionandoli sulla base delle risposte fornite a una serie di domande tra cui “hai mai celebrato il Natale?”, “quali sono le tue sensazioni rispetto al Natale?” “che emozione associ al Natale?”. Una volta identificati, questi 20 soggetti sono stati tutti sottoposti a una sessione di Risonanza Magnetica Funzionale, uno strumento di neuroimmagine che consente di identificare quali aree cerebrali si attivano sotto specifiche stimolazioni o durante determinati compiti cognitivi. I ricercatori hanno poi mostrato a ogni soggetto una serie di 84 immagini natalizie intervallate da immagini di contenuto neutro, mentre contemporaneamente il loro cervello veniva scansionato nella risonanza. I partecipanti non erano stati messi al corrente dello scopo della ricerca, quindi non erano stati precedentemente sensibilizzati a notare il fatto che alcune immagini fossero di tema natalizio mentre altre fossero neutre.

I risultati mostrano la presenza di una specifica risposta cerebrale che verrebbe stimolata dalla visione di immagini natalizie, ma che sembra essere diversa per le persone che tradizionalmente celebrano il Natale rispetto alle persone che non sono solite celebrarlo. I ricercatori si sono spinti oltre, identificando una “area natalizia” del cervello, che si attiverebbe in risposta a stimoli a tema solo nelle persone natalizie, e che sembra comprendere i lobi parietali, la corteccia premotoria e quella somatosensoriale.

Questo cosa ci dice? I lobi parietali, intanto, sono stati associati alla trascendenza, il tratto personologico che descrive una certa propensione alla spiritualità. Inoltre, la corteccia frontale premotoria è importante per percepire emozioni di condivisione con le altre persone (è lì infatti che si collocano i famosi neuroni specchio, base neurale dell’empatia). Infine, la corteccia somatosensoriale sembra giocare un ruolo importante nel riconoscimento delle espressioni facciali e nella capacità di dedurre importanti informazioni sociali guardando il volto di chi abbiamo di fronte.

Ovviamente, lo studio mostra diversi punti deboli, tra cui senz’altro il campione molto ristretto, così come la possibilità che l’attivazione neurale riportata sia indicativa di un’attivazione emotiva tout-court e non per forza legata al Natale. È anche vero che sono state rilevate differenze tra persone che celebrano il Natale e quelle che non lo celebrano, il che restringe le possibilità interpretative in questo senso.
Insomma, nonostante questo sia senza dubbio uno studio preliminare, potrebbe aprire la strada a interessanti scoperte sul tema, e nel frattempo ci consente di portare una spiegazione “scientifica” allo spirito del Grinch che pervade alcuni di noi. Non sono io, è la mia corteccia.

Anoressia e Terapia Familiare: i cinque elementi clinici fondamentali

 

In questo articolo vengono presentati e discussi i cinque meccanismi patologici fondamentali di resistenza al cambiamento, propri dell’organizzazione famigliare coinvolta nella problematica dell’anoressia.

Anoressia e famiglia: Introduzione

In questo articolo vengono presentati e discussi i cinque meccanismi patologici fondamentali di resistenza al cambiamento, propri dell’organizzazione famigliare coinvolta nella problematica dell’anoressia. Lo spettro clinico che interessa questa esposizione è l’interazione reciproca di ogni attore presente nella famiglia e gli schemi usualmente attivi all’interno del contesto, come anche verso l’esterno – in questo caso il setting clinico terapeutico – del sistema stesso di relazioni. L’approccio che più di tutti sembra avere avuto sviluppi interessanti è l’approccio della terapia sistemico familiare e dell’analisi clinica, in termini sistemici, della patologia individuale innestata alle resistenze individuali e relazionali della famiglia stessa.

Anoressia: la famiglia come cornice e sfondo evolutivo

Il contesto familiare è il substrato fertile, il contesto nodale come anche il palco elettivo per la manifestazione dell’anoressia (Ugazio, 1998). Inserito nel contesto terapeutico vero e proprio, diviene risorsa ed elemento ristrutturante il sintomo stesso in una prospettiva di diagnosi e cura. Uno dei punti nodali, derivato direttamente dalla psicoanalisi freudiana, è il rapporto madre-bambina in prima istanza e, successivamente, la posizione relazionale/affettiva del padre circa le dinamiche specifiche del disturbo.

L’approccio Sistemico Familiare, e la sua variante in termini cognitivo-comportamentali ovvero la Family-Based Treatment – FBT, sono da considerarsi, tecnicamente e strategicamente, gli approcci più indicati, per due punti nodali:

  • Considerano la famiglia come lo sfondo e al contempo la cornice del paziente designato;
  • La famiglia di origine è la radice profonda che ha nel tempo originato/favorito il sintomo stesso.

Salvador Minuchin (Minuchin, 1980) proprio a tal proposito parla di famiglia anoressica e per estensione possiamo a nostra volta usare la variante famiglia anoressizzante/famiglia anoressizzata, una duplice terminologia che sottolinea ed evidenzia come la famiglia, per il terapeuta, sia al centro dell’attenzione clinica dal principio, e a sua volta la paziente designata sia contemporaneamente la portatrice di un disturbo individuale e l’individuo che manifesta lo stile e le dinamiche di un sistema più complesso, ove tutti i soggetti sono, loro malgrado, comunque partecipanti attivi ed attori di uno psicodramma sistemico familiare.

Accogliere, osservare e valutare le relazioni e le relative azioni che intercorrono nella famiglia è centrale per il lavoro terapeutico con chi soffre di anoressia. A questo devono essere aggiunti dei lavori in nulla secondari quali:

  • Tutto il lavoro di recupero e ricostruzione del panorama trigenerazionale (figlia, genitori, nonni);
  • Le linee generazionali in termini di affettività e/o collusione tra i singoli componenti e le rispettive parentele (s’intendono i conflitti, le alleanze, le rotture, i silenzi, i ricongiungimenti);
  • Le triangolazioni relazionali all’interno della famiglia stessa, quando e come avvengono e se sono stabili;
  • Le mitologie familiari che percorrono la famiglia di chi soffre di anoressia.

La famiglia, essendo matrice e dativa dell’identità, o comunque di una parte sostanziale di essa, è luogo dove viene definito il proprio Sé – nel senso più banale – ma anche ciò che organizza e definisce le grandezze, le intensità e modalità della così detta Popolazione di Sé (Perls, 1950) ovvero: le molteplici varianti interne del Sé che cambiano e modulano la loro natura in stretta relazione con un contesto esterno cognitivo/affettivo.

Comorbidità tra anoressia, disturbo di personalità e matrice familiare

Il tema della Popolazione dei Sé (Population of Self, PoS da qui in poi per brevità) è centrale quando l’anoressia nervosa ha una coincidenza, episodica o cronica, con un disturbo della personalità o con una psiosi , eventualità affatto non banale che il clinico può e deve sondare in termini sia di testistica come anche di osservazione/interazione in vivo col nucleo familiare in terapia. L’interpolazione del disturbo anoressico con uno di disturbo della personalità rende, paradossalmente, il lavoro clinico leggermente più facile – almeno nella fase di diagnosi pura e di diagnosi sistemico relazionale – ma ne innalza la difficoltà tecnica nei termini di gestione propria delle dinamiche intra-familiari e ciò per un motivo che è bene spiegare con un adeguato esempio.

Immaginiamo dei pezzi di vetro, schegge di varia grandezza e forma, che vengono posti su un piano fisso l’uno accanto all’altro, e immaginiamo di far passare della luce su di essi: noteremmo differenti e varie polarizzazioni dell’onda in un effetto caleidoscopico. La PoS della paziente con anoressia si comporta allo stesso modo con gli stimoli cognitivi/affettivi derivanti dal sistema familiare accogliendo e restituendo in modo difforme lo stimolo. Ciò che è interessante, di contro, è che anche la famiglia – i genitori o il genitore – agisce e pone in campo la sua Pos dando come esito un gioco di specchi dinamici ove ogni individuo del sistema famiglia risponde ad incastro agli altri.

Ne risulta un sistema dinamico con un suo specifico equilibrio ove la resistenza individuale al cambiamento coincide con i meccanismi patologici di ciascun componente il sistema famiglia. La stretta circolarità delle interazioni, lo scambio reciproco di comunicazioni ed agiti, sia essi consapevoli che inconsci, struttura un sistema internamente basato su risposte di tipo simettrico/asimmetrico (Bruch, 1983) o di escalation di ciascuno e rispetto gli altri. Struttura di personalità individuale, ruolo – implicito/implicito – e livello di funzionamento sono gli elementi sui quali strutturate un’ipotesi di intervento terapeutico circa l’invischiamento che il sistema, e reciprocamente gli individui, presentano.

La resistenza al cambiamento e i meccanismi patologici si auto-declinano in queste seguenti categorie/meccanismi, che a loro volta sono specifici della famiglia anoressizzante/famiglia anoressizzata.

Sistema chiuso – il ruolo dell’ iperprotettività genitoriale nell’anoressia

Ad oggi è possibile affermare con ampia certezza che l’anoressia nervosa è un disturbo individuale con una forte relazione con la storia e le dinamiche di un sistema familiare; da esso possiamo recuperare elementi di una cultura comune nella famiglia, come anche dinamiche oramai strutturate e sedimentate, passate tra le diverse generazioni, con peculiarità e modalità di funzionamento – individuale e d’insieme – quali:

  • Evitamento a qualsiasi forma di conflitto;
  • Atteggiamento iper-protettivo genitoriale;
  • Assenza di regole definite e contigue;
  • Assenza di confini tra il piano genitoriale e quello della prole.

I genitori, in special modo le madri, delle pazienti con anoressia risultano mettere in atto modalità iperprotettive, disciplinari e dominanti (Manara, 1991). Sembra che in questo tipo di struttura familiare siano sopra ogni cosa incoraggiati, e premiati, la disciplina, l’efficenza, l’ordine e il successo, piuttosto che la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza di giudizio, dell’acquisizione di uno stile personale di vita e di una matura consapevolezza.

Un’apparente, ma fragile, armonia tra i membri della famiglia diventa il modo in cui ci si preserva dal realizzare i problemi (e le loro eventuali implicite collusioni) al fine di mantenere una quiete in realtà sempre molto poco calma. A riprova di questo è bene far notare come ad esempio, sempre nel campo dei disturbi alimentari, lo sviluppo di un comportamento di tipo bulimico sembri essere collegato a caratteristiche familiari molto specifiche (Bruch, 2000), come la presenza di modelli familiari e madri molto protettive, con una reciproca carenza di manifestazioni positive di affettività, sostegno o contatto.

Le giovani donne che hanno una difficoltà nel controllo del proprio peso, vivono costantemente un senso di auto-squalifica e di self-judging poiché ritengono di non possedere una volontà abbastanza forte da cambiare il loro stato e conseguente condizione. Quindi venendo a mancare un sostegno positivo da parte della famiglia il senso di auto-squalifica aumenta.

Le figlie con anoressia possono esprimere una totale aderenza al modello materno con il desiderio di soddisfarla, superarla e riqualificarla agli occhi di una figura paterna.

In ambedue i casi abbiamo una manifestazione emblematica di un disturbo del concetto di sé ove il corpo viene spesso esperito come separato dal Sé, come se appartenesse a qualcun’altro, spesso l’ideazione è riferita direttamente ai genitori (L. Mainardi, G.O. Gabbard, 1995). Queste pazienti mancano di qualunque senso di autonomo riconoscimento positivo, al punto da percepirsi come non capaci di tenere sotto controllo le loro funzioni corporee, con un sottostante profondo sentimento di non valere nulla e reinvestono in modo inconscio la loro ansia ed inadeguatezza nella manipolazione della quantità e della dimensione del cibo assunto, questo come agito psicologico riferito figure significative, giudicanti ed esemplari.

Stallo evolutivo – l’influenza delle polarità manipolatorie nell’anoressia

Le ragazze con anoressia tendono a fornire un quadro, una perenne rilettura della loro famiglia sempre e comunque molto rispettabile, socialmente accettabile e quasi scevra da ogni critica o minimo appunto. Tale rilettura continua è da ascriversi in un legame tra l’anoressica e la famiglia ove quest’ultima è il termine di paragone – sia positivo che negativo – di ogni possibile evoluzione personale e di gruppo. Avendo la famiglia come quasi unico tema esistenziale, ed obiettivo condiviso, un livello estremizzato del suo ideale, per definizione irrealistico e per forza di cose castrante un dialogo diretto e senza rigide difese, la paziente con anoressia arriva ad una negazione diretta dei conflitti, degli eventuali fatti specifici – specialmente frustranti – della sua stessa persona e del suo nucleo familiare (De Pascale, 1991) . Ciò che anoressiche e bulimiche hanno in comune e l’incapacità di estraniarsi dal continuo doppio legame – dipendenza e conflitto con le figure genitoriali – con la madre e padre e di percepire la dimensione genitoriale in modo ulteriormente realistico. Ancora un punto di contatto, tra anoressia e bulimia, è che quello che dicono i genitori è, se non sempre giusto, quanto meno appropriato (anche senza un’ammissione diretta o esplicita).

In molte famiglie così strutturate si pone l’accento su un comportamento educato, su una iper valutazione del riconoscimento sociale e dei risultati conseguiti, sulla fierezza dei genitori verso la loro eterna bambina, da sempre, però, ascritta in un ruolo da piccola donna già adultizzata nelle aspettative. Non a caso la mancata espressione dei sentimenti, specie se negativi, è una regola granitica.

Le famiglie di chi soffre di anoressia sembrano quadri perfettamente dipinti, perfetti da esporre al mondo e sempre in attesa del massimo riconoscimento possibile.

Un clima apparentemente pacifico è, invece, molto suscettibile e condizionato dal possibile giudizio esterno, portando le dinamiche interne su un aspetto quasi sempre performante (Onnis, 2004) tutte volte alla potenziale subitanea altrui disconferma e le squalifiche – giudizi, premi – sono continue, anche se non richieste o volute e potenzialmente in crescendo.

La Selvini Palazzoli (1963, 1998), proprio sulla qualifica/squalifica reciproca nella famiglia, individua proprio in un continuo da Minuchin un altro elemento caratteristico di questo nucleo familiare: la possibilità che esista una polarità semantica di fondo Vincente/Perdente e che questa qualifica/squalifica rappresenterebbe esattamente la necessità di vincere e di uscire vittoriosa (per l’anoressica) da una lotta evolutiva impostata però su termini di potere patologico e labilità dell’Io.

Confusività – l’assenza di confini relazionali definiti nelle pazienti con anoressia

Minuchin (1980) fa notare come l’assenza di piani e ruoli definiti sia il motore primo nel favorire questo disturbo e come, paradossalmente, in un simile meccanismo familiare siano presenti confini molto rigidi tra l’interno e l’esterno della famiglia stessa, mentre dentro il sistema famiglia (tra i congiunti) i confini sono estremamente labili e non vi è quasi nessuna differenziazione tra un membro e l’altro, tra il piano genitoriale e quello dei figli e le rispettive peculiari responsabilità e/o risorse.

Il nascere, crescere, svilupparsi in un tale meccanismo produce uno spiccato, irrealistico, bisogno alla relazione con l’altro e ciò perché l’altro, manipolato o colluso in un sistema di potere ruolistico, definisce il Sé della persona in diretta relazione con essa.

Questo sistema esprime quindi una forte conflittualità che non solo non è affatto celata, ma diviene una dinamica manifesta elementare e continua all’interno della famiglia stessa, ove i giochi di manipolazione – seduttiva o collusiva – sono all’ordine del giorno e il riconoscimento dell’altro può passare solo attraverso una qualifica di giudizio qualificante/squalificante permanendo, quindi, in uno stato di belligeranza continua dove l’attenzione o affetto o approvazione altrui sono la meta ed il premio di ogni possibile dinamica.

Il senso di ultra responsabilizzazione, efficenza, efficacia e rigidità nell’anoressia (Selvini Palazzoli, 1998) è proprio da ascriversi in questo bisogno della paziente di qualificarsi tramite la squalifica altrui, in un gioco di superamento dove il livello massimo possibile è l’anoressica stessa che, come si ritrova nella letteratura clinica, elargisce consigli, trova soluzioni, studia, lavora, prepara da mangiare e gestisce le porzioni il tutto stando e agendo dal suo stesso disturbo in quanto figlia problematica e al contempo giovane genitore adeguato.

Anoressia e squalifica del maschile – perifericità del padre

L’elemento collusivo dell’identità nell’anoressia (Manara,1991) è il confronto e scontro con una madre percepita come ambivalente, potente come anche desiderabile nei suoi attributi sostanziali. Il gioco in campo è tutto al femminile e la figura paterna è quasi sempre in posizione periferica rispetto ad esso, o come osservatore e giudice dei giochi manipolatori o come termine di triangolazione nelle collusioni più violente ove si vuole acquisire un’alleanza.

Di contro, nello stile cognitivo/affettivo anoressico (Gabbard, 1995), si enuclea una progressiva idea del maschile profondamente squalificata, in termini di costruzione interna di un oggetto relazionale reale e realistico.

L’ambivalenza prima vissuta verso la madre è, poi, trasbordata anche sul padre (Gabbard, Selvini Palazzoli; 1995, 1998) ma questa volta nei termini di un padre prigioniero di una moglie affettivamente povera, affidabile ma carente di calore ed attenzioni e ciò è terreno fertile per la paziente con anoressia nel suo profondersi in cure ed attenzioni, ove l’idea sottostante è comunque quella di un maschile inadeguato, soggiogabile, inefficace o, in altre parole, come propagine consequenziale di un femminile potente ma coercitivo, rassicurante ma freddo, efficiente e mai vulnerabile.

Istrionismo identitario – l’inadeguatezza cronica nell’anoressia

Chi soffre di anoressia tende ad focalizzare tutta la vita familiare sulla sua patologia (Gabbard, Selvini Palazzoli; 1995, 1998), letteralmente indossandola, manifestandola ed animandola nei confronti sia dei familiari che di eventuali osservatori esterni. Ciò, sia a livello individuale che familiare, ha due distinti obiettivi:

  • L’accentramento del focus di attenzione sull’anoressia, come disagio – quindi identità anche se patologica comunque definita e raggiunta – e come elemento di prova, di sopportazione, rispetto i giudizi e valutazioni altrui, specie nei confronti della madre e poi del padre (Gabbard, 1995);
  • Manifestazione tangibile ed evidente di cronica inadeguatezza personale ma anche di conflitto – sintomo – non veramente espresso nei confronti della madre (Gabbard, 1995; Manara, 1991) .

Questo istrionismo identitario molto pronunciato, in cui anche l’abbigliamento e le movenze servono ad accentuare la più o meno evidente patologia sul corpo, è un esercizio di narcisismo che il paziente designato – l’anoressica – attua in quel sistema ascritto di perfezione e rispettabilità proprio del sistema familiare anoressizzato (De Pascale, 1991). Molte ragazze si esprimono con modalità assai simili, usando perfino immagini quasi identiche per dire che tutta la loro vita è stata dominata dal desiderio di soddisfare le proprie/altrui aspettative e dal costante timore di essere impari, meno brave di altri e pertanto causa di grosse delusioni. Questa inadeguatezza cronica è letteralmente contenuta e ridefinita nell’anoressia stessa, dove la plateale manifestazione dei segni anoressici – dimagrimento, trucco eccessivo, capelli lunghissimi e gonfi, abbigliamento ora troppo ampio ora violentemente aderente, ecc. – è sia una dichiarazione di sofferenza sia la sfida continua a stabilire, perseguire e conseguire obiettivi sempre più desiderabili e ciò mangiando il poco del pochissimo o addirittura nulla.

Non a caso l’angoscia e lo scontento riferito in terapia da ragazze con anoressia (L. Mainardi, G. O. Gabbard, 1995) contrasta, ad esempio, con non rari e straordinari risultati scolastici, con numerose e complesse attività, col volontariato, competizioni o addirittura vincenti gare sportive. Questa posizione di Istrionismo/Inadeguatezza (Ugazio, 1998) ha numerosi, riconosciuti, effetti e reazioni paradossali sulla famiglia:

  • Confina il malessere solo e solamente sulla ragazza;
  • E’ paradossale motivo di soddisfazione ed orgoglio, nonostante il disturbo;
  • Sminuisce la gravità individuale dell’anoressia procrastinando incontri specialistici tra cui la terapia familiare;
  • Distoglie dai vissuti di impotenza ed inadeguatezza genitoriali;
  • Mistifica e distorce altre triangolazioni in atto, ad esempio verso una sorella o un fratello o altri familiari componenti il nucleo.

 

Conclusioni

I cinque meccanismi patologici fondamentali, di resistenza al cambiamento, propri dell’organizzazione familiare coinvolta nella problematica dell’anoressia, se considerati in un approccio sistemico-relazionale, permettono, come se ne deduce, uno spettro di azione estremamente ampio al clinico dedicato, ponendolo in una prospettiva di efficacia ed efficienza ancor più incisiva perché capace di considerare il Sistema nelle sue cinque Condizioni cliniche fondamentali. L’agire solo sul termine patologicamente designato – il soggetto anoressico attivo – ha dimostrato come l’incisività e la tenuta del lavoro terapeutico sia costantemente a rischio perché parziali e in debito evolutivo con tutto il sistema in esame, mentre attenendosi a questi cinque punti nodali il coinvolgimento della famiglia è non solo la tipologia di terapia certamente più difficile da attuarsi in casi di anoressia, ma anche quella con maggiori probabilità di porre in essere significativi quanto stabili cambiamenti.

La Motor imagery & il suo impiego nella Psicologia dello Sport

Marchesoli Valeria, Mazzucco Luca, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Motor imagery: si tratta di un’esperienza che può risultare estremamente reale, tanto da spingere Conway (2001) a definirla “simil-esperienziale”, grazie alle sue qualità sensoriali, alle emozioni che la accompagnano ed alle credenze metacognitive dei soggetti riguardanti il significato delle immagini elaborate.

1 – DEFINIZIONE DI IMAGERY E MOTOR IMAGERY

[blockquote style=”1″]L’immaginazione è più importante della conoscenza[/blockquote] citava Einstein nel 1929.

Beck (2014) ha dichiarato [blockquote style=”1″]Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni interne, cosa decisamente favorita dall’imagery.[/blockquote] Queste due affermazioni evidenziano il ruolo positivo che l’imagery può ricoprire nell’affrontare la psicopatologia ma anche le sfide quotidiane. L’imagery può essere definita come una [blockquote style=”1″]esperienza quasi-sensoriale e quasi-percettiva che avviene in assenza di condizione stimolo esterna[/blockquote] (Kosslyn, Ganis & Thompson, 2001).

Si tratta di un’esperienza che può risultare estremamente reale, tanto da spingere Conway (2001) a definirla “simil-esperienziale”, grazie alle sue qualità sensoriali, alle emozioni che la accompagnano ed alle credenze metacognitive dei soggetti riguardanti il significato delle immagini elaborate. Esistono diverse tipologie di imagery. Munzert e collaboratori (2009) distinguono tra “visual imagery” (VI), centrata su aspetti esterni, con un’attenzione particolare alla relazione tra corpo e ambiente e motor imagery (MI), focalizzata sugli stati interni e con un’attenzione diretta ai propri movimenti e all’agenticità delle proprie azioni. Gli autori sottolineano come le immagini visive possono coinvolgere tutti i sensi, mentre le immagini dinamiche dell’atto motorio si concentrano principalmente su cinestetica e/o informazioni visive. La Motor Imagery (MI) costituisce uno strumento centrale dell’allenamento sportivo e viene definita da Moran e collaboratori (2012) come una [blockquote style=”1″]capacità cognitiva che permette un’esperienza motoria in assenza di alcuna attivazione muscolare[/blockquote].

Ridderinkhof e Brass (2015), in un importante lavoro di sintesi, mettono in luce alcuni aspetti fondamentali della motor imagery: – la motor imagery si basa sull’attivazione interna di un’immagine anticipatoria degli effetti generati dall’azione specifica: – tale rappresentazione motoria conduce ad un processo di emulazione interna delle azioni motorie pianificate molto simile a ciò che avviene nella realtà; – il confronto tra gli effetti dell’azione anticipata e gli effetti dell’emulazione interna può generare un segnale di errore che costituisce la base per il miglioramento della prestazione motoria, anche senza l’esecuzione del movimento reale; – tale meccanismo evolutivo avverrebbe in regioni cerebrali sovrapponibili a quelle coinvolte nell’azione motoria reale.

2 – MOTOR IMAGERY, EFFETTO CARPENTER, EQUIVALENZA FUNZIONALE E CORRELATI NEURALI

La Teoria Psiconeuromuscolare (Carpenter, 1894) ha cercato di spiegare il funzionamento della motor imagery secondo il principio ideomotorio definito «effetto Carpenter». Tale effetto sostiene che il cervello dell’atleta che esegue la motor imagery, invia configurazioni di impulsi neuromuscolari simili a quelli originati durante l’esecuzione reale del medesimo comportamento motorio, fornendo un feedback neuromuscolare che permette aggiustamenti al programma motorio stesso. Questo processo di “attivazione specifica”, eseguito in assenza di movimento reale, ma rilevabile attraverso misure del potenziale elettrico muscolare (EMG) sui muscoli interessati dall’attività immaginativa, faciliterebbe l’apprendimento di abilità motorie.

Pascual-Leone e collaboratori (1995) hanno rilevato che le modificazioni nella mappa della corteccia sensomotoria dopo un training motor imagery sono simili a quelle ottenute con esercizio fisico. Kosslyn e collaboratori (2001), partendo dai risultati di numerosi studi di brain imaging (fMRI e EEG), hanno proposto la teoria della “equivalenza funzionale” secondo la quale VI e motor imagery reclutano strutture e/o processi neurali simili alla reale attività di percezione visiva e di attività motoria. Tale evidenza sostiene inoltre il ruolo che l’attività di imagery può ricoprire nel controllo delle emozioni associate alle attività coinvolte. Munzert e collaboratori (2009) sottolineano che le aree corticali coinvolte in un compito motorio sono numerose (corteccia motoria primaria (M1), area motoria supplementare (SMA), area motoria presupplementare (pre-SMA), le porzioni ventrali e dorsali della corteccia premotoria (PMC)), che tali aree sono strettamente legate a cervelletto e gangli della base e che altre aree sono importanti per l’esecuzione motoria (corteccia somatosensoriale primaria (S1) e parte del lobo parietale, in particolare la corteccia parietale superiore ed inferiore). Recenti studi hanno rilevato che tali aree sono attivate sia dalla motor imagery sia dall’esecuzione reale del movimento motorio immaginato (Munzert, Loreya & Zentgrafa, 2009). Porro e collaboratori (1996) sottolineano però che la corteccia motoria primaria (M1), durante la motor imagery, presenta un’attivazione con intensità ridotta rispetto all’esecuzione reale, mettendo in luce come la differenza tra l’attività cerebrale durante la motor imagery e durante l’esecuzione della stessa attività motoria sia esclusivamente di tipo quantitativo e non qualitativo.

3 – MOTOR IMAGERY: ESPERTI VS NOVIZI

Esiste però una differenza nell’equivalenza funzionale tra motor imagery e esperienza motoria reale che dipende dalle caratteristiche del soggetto, specificate da Jeannerod (2006) e Milton e collaboratori (2008): – capacità di immaginazione – esperienza relativa al determinato compito motorio – attenzione selettiva (tipicamente il novizio utilizza un livello di attenzione troppo elevato o eccessivamente ridotto) – interazione tra sistema limbico e cognitivo (una maggiore attivazione del sistema limbico è associato ad una ridotta attività nelle aree cerebrali coinvolte nella pianificazione motoria e nel meccanismo di ricompensa). A supporto di tale ipotesi risulta importante il lavoro di Lotze e collaboratori (2001) che hanno rilevato come i pazienti con amputazione dell’arto superiore, durante la MI della mano fantasma, mostrino un’attivazione della corteccia motoria contro laterale, cosa che non avviene in soggetti nati senza il braccio e che quindi non hanno potuto maturare l’esperienza relativa all’uso dell’arto mancante. Anche Wei e Luo (2010), attraverso studi fMRI, hanno rilevato che gli sportivi esperti, rispetto ai novizi, durante la motor imagery relativa al loro sport, presentano una maggiore attivazione del paraippocampo e dell’area prefrontale, aree rilevanti per la rappresentazione ed il controllo motorio. Nessuna differenza emerge invece se la motor imagery riguarda azioni non specifiche di quel determinato sport. In definitiva, maggiore è l’esperienza in una determinata attività motoria, maggiore è il risultato della motor imagery relativa ad essa.

4 – MOTOR IMAGERY: LE DIMENSIONI DELL’ABILITÀ IMMAGINATIVA

L’acquisizione della capacità immaginativa richiede un allenamento sistematico, che deve basarsi sulle caratteristiche fondanti della Imagery, che Conway e Pleydell-Pearce (2000) riassumono in: – vividezza delle immagini (chiarezza, forma e ricchezza sensoriale con cui l’immagine motoria viene costruita) – controllo delle immagini (facilità e accuratezza con cui l’immagine può essere trasformata e manipolata a livello mentale) – immagine negativa (associata alla psicopatologia e ad immagini intrusive) – immagine positiva (usata per simulare ed esercitare modalità più adattive di agire) – immagine creata volontariamente – immagine recuperata involontariamente (tipicamente un ricordo che emerge spontaneamente) – first-person perspective (1PP) (il soggetto immagina di eseguire l’azione osservando tramite i propri occhi e usando tutti i propri sensi, come se avesse una videocamera posizionata sulla propria testa) – third-person perspective (3PP) (il soggetto immagina di osservare l’azione dall’esterno, come se una videocamera riprendesse un film di cui è protagonista). In pratica non si tratta semplicemente di sviluppare la capacità di “vedere”, ma di “sentire” tutta la ricchezza sensoriale dello stimolo e i suoi correlati cognitivi ed emotivi, evitando l’insorgere di immagini involontarie e negative in grado di rendere l’esperienza di imagery iatrogena. Un valido esempio in tale senso è rappresentato dal DPTS, dove l’imagery è negativa, involontaria ed estremamente vivida e angosciante, arrivando anche ad assumere la forma di un vero e proprio flashback dissociativo, in cui il soggetto perde il contatto con la realtà attuale e rivive quanto accaduto nell’evento traumatico (Van der Kolk, 1994). È quindi evidente che un utilizzo errato della motor imagery può avere esiti negativi.

5 – UTILIZZO DELLA MOTOR IMAGERY

Jones e Stuth (1997) evidenziano che la motor imagery è tipicamente utilizzata da: – PAZIENTI per recuperare abilità motorie perse o compromesse da disturbi neurologici. Page e collaboratori (2007) hanno dimostrato che pazienti colpiti da ictus cerebrale trattati con un programma che includeva una pratica motoria sia fisica che mentale, dimostravano una riduzione significativamente maggiore della menomazione dell’arto, rispetto a pazienti che eseguivano esclusivamente una pratica fisica ed esercizi di rilassamento. – ATLETI E ARTISTI, per migliorare la propria prestazione, regolare il proprio stato di attivazione, identificare e/o modificare pensieri e immagini maladattive (noia, scarsa autostima, bassa motivazione, limitata concentrazione), riabilitazione dagli infortuni. Attualmente la prevalenza di utilizzo della motor imagery riguarda l’ambito della Psicologia Positiva e della Psicologia dello Sport.

6 – MOTOR IMAGERY E SPORT

Nello Sport la motor imagery costituisce una componente fondamentale della preparazione mentale degli atleti ed il suo uso è ampiamente diffuso tra gli atleti professionisti come tecnica complementare all’allenamento sul campo. Jones e Stuth (1997) stimano infatti che tra il 70% e il 99% degli atleti di elite utilizzi la motor imagery nei propri allenamenti in sport quali: tennis, tiro con l’arco, golf, ginnastica, sci, motociclismo, calcio e basket. Si tratta di sport molto diversi tra loro, che indicano l’adattabilità della motor imagery alle due capacità fondamentali che uno sportivo deve possedere:
– “closed motor skills” (es. il servizio nel tennis, il tiro a canestro nel basket, il tiro con l’arco), dove l’attività è indipendente dal contesto ambientale

–  “open motor skills” (es. la volèe nel tennis, il calcio di rigore nel calcio), dove il movimento è legato a stimoli ambientali (es. movimento della pallina, linguaggio del corpo dell’avversario).

I motivi di tale successo vanno ricercati nella forte connessione mente-corpo che caratterizza ogni sport e che rende l’uso della motor imagery una pratica spontanea per gli atleti. Infatti: 1. Ogni azione sportiva è un’attività polisensoriale 2. L’atleta è allenato a percepire ogni sensazione che proviene dal corpo (tramite la motor imagery attiva processi che sperimenta quotidianamente, ad esempio, nel tennista l’immagine mentale del tenere una pallina in mano, avvia immediatamente il repertorio di sensazioni associate a questa situazione) 3. Le sensazioni corporee guidano l’atleta in un costante processo di autoregolazione al fine di dominare la fatica, gestire gli errori, distribuire le sue energie 4. L’atleta riconosce molto bene le emozioni, vissute spesso in maniera estrema durante le competizioni. Mal di stomaco, cuore in gola sono esperienze facilmente rievocabili dagli atleti. Di conseguenza, anche a distanza di tempo (come nel DPTS), la rievocazione mentale di queste condizioni psicologiche comporterà l’attivazione di tutte le sensazioni collegate.

7 – SPORT, MOTOR IMAGERY E MODELLO PETTLEP

Il protocollo di motor imagery più utilizzato in ambito sportivo è il modello PETTLEP (fig.1) di Holmes e Collins (2001). Esso si basa sul concetto di “equivalenza funzionale” e definisce gli aspetti fondamentali per l’efficacia della sua applicazione: 1. Physical (l’imagery deve essere di tipo fisico). Sottolinea inoltre che far precedere una motor imagery da una fase di rilassamento potrebbe avere ripercussioni negative sulla prestazione reale. 2. Environment (il contesto immaginato deve essere simile a quello reale) sottolinea la necessità di stimolare, con script opportuni o filmati, la percezione dell’atleta di trovarsi in contesti familiari (di allenamento o competizione) tali da permettergli di vivere l’esecuzione della prestazione come se realmente stesse accadendo     3. Task (il compito immaginato deve essere adattato alle abilità del soggetto) definisce la necessità di una «coerenza fisiologica» fra l’attività immaginativa e competenza reale dell’atleta 4. Timing (I tempi di esecuzione devono essere simili a quelli reali) 5. Learning (il compito deve mirare all’incremento delle capacità del soggetto) sottolinea la necessità di mantenere un’equivalenza funzionale fra l’effettivo apprendimento fisico/tecnico/tattico dell’atleta e il suo processo di imagery 6. Emotion (l’esperienza di imagery deve elicitare le stesse emozioni emergenti nella realtà) evidenzia la rilevanza della componente emozionale dell’imagery, in grado di migliorare le risposte emozionali che l’atleta vive in setting competitivi; 7. Perspective (il punto di vista 1PP è quello più adatto per la maggior parte di sport).

8 – VISUAL IMAGERY, MOTOR IMAGERY E RIABILITATAZIONE SPORTIVA

L’infortunio è un evento comune fra gli atleti e la gravità dell’infortunio può impedire il normale allenamento motorio. VI e motor imagery possono coadiuvare l’atleta ad affrontare il processo riabilitativo intervenendo su diversi aspetti : – GESTIONE DEL DOLORE mediante – immagini dissociative (immagini che distraggono il pensiero dal dolore) aventi l’obiettivo di far sviluppare al soggetto un’immagine mentale multisensoriale di sé, immerso in un ambiente tranquillo e rilassante (soggettivamente significativo), che potrebbe agevolare la riduzione dell’attività del sistema nervoso simpatico, consentendo una graduale diminuzione della tensione muscolare con una riduzione della distribuzione degli impulsi del dolore – immagini associative (immagini focalizzate sul dolore) volte a conferire al dolore delle vere e proprie proprietà fisiche (forma, dimensione, colore, movimento). Identificate le caratteristiche multisensoriali associate alla sensazione di dolore è possibile, modificandone il contenuto, trasformarle in sensazioni in grado di provocare uno stato di sollievo (ad esempio, paragonando delle fitte ad un arto a delle pugnalate inferte con la punta di un coltello acuminato è possibile immaginare che il coltello pian piano diventi spuntato fino a trasformarsi in un coltello di plastica con una conseguente riduzione della sensazione di dolore).
– PROCESSO DI RIABILITAZIONE l’atleta infortunato visualizza, in stato di rilassamento, immagini mentali che prevedono il superamento ottimale delle fasi utili al completo recupero fisico e di ritorno alle competizioni (mastery approach), inserendo anche rappresentazioni mentali delle proprie abilità di coping utili a superare in maniera efficace i possibili problemi reali e/o previsti (coping style of imagery) che si incontrano in fase di riabilitazione. – PRESTAZIONE dei movimenti o azioni complesse che l’atleta infortunato non è in grado di compiere.

9 – IO, L’AZIONE E LA MOTOR IMAGERY

Il successo della motor imagery sulla prestazione sportiva reale dipende dal singolo atleta; per questo motivo è fondamentale sviluppare script personalizzati che contengano informazioni soggettivamente significative per quell’atleta. Ronaldinho, vincitore del Pallone d’oro 2006, dichiara: [blockquote style=”1″]Il mio allenamento prevede anche la creazione di un’immagine mentale di come passare al meglio la palla a un mio compagno. Lo faccio sempre, prima di ogni partita, ogni giorno e ogni notte, immaginare un modo di giocare a cui nessun altro ha pensato, tenendo sempre a mente i miei punti di forza e quelli dei miei compagni.[/blockquote]

Quello che segue è un esempio di script motor imagery (basato sul modello PETTLEP) utilizzato da un atleta professionista dei 100 metri piani durante i giorni precedenti la gara e nella fase di riscaldamento (Lucidi, 2001): Assumo una posizione comoda … chiudo gli occhi … faccio dei respiri profondi … Sento i punti d’appoggio del mio corpo sul lettino … la nuca … le spalle … i glutei … i talloni. Ho ultimato il riscaldamento … entro in pista … mi avvicino alla partenza dei 100 metri … sono dietro ai blocchi di partenza … vedo la corsia di fronte a me … vedo il pubblico … lo sento … vedo lo starter … vedo gli avversari al mio fianco … ho una grande voglia di correre forte … mi concentro solo su me stesso … sento i miei muscoli pieni di energia e di forza. Mi posiziono sui blocchi … sento il battito cardiaco che aumenta … sento l’adrenalina che sale sento il colpo di pistola … esco dai blocchi come un’esplosione … eseguo i primi appoggi lunghi e potenti … eseguo la fase di accelerazione fluida … sento il vento sul viso … le gambe si muovono veloci … il traguardo è sempre più vicino … supero la linea del traguardo … respiro … mi giro verso il tabellone elettronico e leggo il risultato che attendevo … ho ottenuto la prestazione che mi aspettavo … sento dentro di me emozioni positive.

10 – IO, L’ALTRO, L’AZIONE E LA MOTOR IMAGERY

Ridderinkhof e Brass (2015) evidenziano che la motor imagery oltre a permettere di apprendere, migliorare ed affinare una propria determinata capacità motoria, potrebbe anche consentire un percorso inverso: imparare, migliorare ed affinare la nostra capacità di predire le intenzioni motorie altrui, partendo dal riconoscimento delle caratteristiche cinestetiche attuali. In tale compito ricoprirebbe un ruolo centrale il “sistema corticale dei neuroni specchio” (mirror neuron system – MNS). La motor imagery sarebbe quindi al centro di un “doppio processo” che permetterebbe di migliorare le attività motorie in ambito “competitivo-relazionale” come ad esempio nel parare un calcio di rigore.

Non è dai particolari che si vede un giocatore Il calcio di rigore è spesso fondamentale per decidere le sorti di una partita di calcio. Si tratta di un confronto impari tra rigorista e portiere, dato che statisticamente solo il 20% dei rigori viene parato (Dohmen, 2008). Infatti, il portiere ha una sola possibilità: rispondere a ciò che vede nel tempo che intercorre tra il momento in cui la palla è colpita e il momento in cui la palla supera la linea di porta, tempo stimabile in 500-700 ms (Franks & Harvey, 1997). L’unica alternativa per il portiere sarebbe partire prima che la palla sia colpita dal rigorista, ma questo vorrebbe dire indovinare dove andrà a finire la palla, o meglio, sapere dove il tiratore pensa di voler mettere il pallone. Memmert e collaboratori (2013) hanno individuato le caratteristiche insite nel movimento dei rigoristi prima di calciare la palla, che influenzeranno la direzione della palla stessa: – obliquità della rincorsa – orientamento e rotazione del busto, – orientamento e posizionamento del piede che non calcerà la palla. L’orientamento del piede di supporto in particolare, rappresenta l’aspetto maggiormente predittivo della direzione che assumerà la palla, in quanto tende a puntare nella direzione dove la palla si sta dirigendo. Savelsbergh e collaboratori (2010) hanno dimostrato che tramite l’osservazione video dei calci di rigore i portieri possono ottimizzare la loro capacità di riconoscere tali caratteristiche.

Ridderinkhof e Brass (2015) evidenziano però che il portiere non si limita ad osservare le caratteristiche cinematiche di colui che calcia il rigore, ma che collega tali caratteristiche alla propria esperienza cinestetica, esattamente come se fosse lui ad eseguire l’azione.
Il portiere ha quindi bisogno di un ricco modello generativo dell’effetto sensoriale, che può acquisire osservando molti calci di rigore realizzati da altri giocatori, ma anche acquisendo una esperienza diretta nel tiro dei calci di rigore. In definitiva il portiere più abile sarà il portiere – in grado di “leggere” la cinematica del corpo dell’avversario – che possiede il più ricco repertorio di calci di rigore (eseguiti realmente o tramite motor imagery). Previsioni simili possono essere fatte per altri sport quali ad esempio la risposta nel tennis.

In conclusione, il target dell’atleta impegnato in attività di tipo “closed motor skills” è quello di utilizzare la motor imagery al fine di affinare sempre più i propri comportamenti motori. L’atleta impegnato anche in attività di tipo “open motor skills”, dovrà anche essere in grado di osservare i particolari dei movimenti altrui, ma soprattutto di eseguire quei determinati movimenti, diventandone un esperto.

Chi consuma cannabis in adolescenza mostra un deficit nella memoria episodica

Il consumo di cannabis in adolescenza è associato a deficit nella memoria episodica (EM), ossia quel tipo di memoria concernente i nostri ricordi autobiografici. 

Nel 2010 la National Survey on Drug Use and Health ha identificato la cannabis come droga più comunemente consumata negli Stati Uniti. Inoltre, a seguito di una recente politica depenalizzante la sostanza in questione, in Colorado è aumentato l’abuso di cannabis e contemporaneamente tra gli adolescenti si è ridotto il rischio percepito legato al suo consumo.

 

Cannabis e memoria episodica

Il consumo di cannabis è associato a deficit nella memoria episodica (EM), ossia quel tipo di memoria concernente i nostri ricordi autobiografici. Tra le strutture limbiche, l’ippocampo gioca un ruolo fondamentale nell’integrazione dei ricordi ed è caratterizzato da un’alta densità di recettori per i cannabinoidi di tipo 1 (CB1). La cannabis influisce negativamente sulla memoria stimolando l’eccessiva espressione dei recettori CB1 nell’ippocampo, che a sua volta inibisce la trasmissione glutammatergica, GABAergica e sopprime la LTD (Long-term depression) e la LTP (Long-term potentiation).

Nei soggetti che abusano di cannabis, inoltre, il volume e la forma dell’ippocampo appaiono diversi rispetto alla popolazione generale, e tale scarto sembra ampliarsi di concerto alla durata del periodo di consumo della sostanza.

 

Cannabis in adolescenza: lo studio

Sulla base di queste ipotesi, il team guidato da Matthew J. Smith ha indagato gli effetti dell’uso della cannabis in adolescenza sulla memoria episodica e sulla morfologia dell’ippocampo in 97 soggetti che tra i 16 e i 17 anni avevano fatto uso di cannabis per almeno 3 anni, ma che da due non ne facevano più uso. Il campione è stato categorizzato come segue:

– 44 soggetti sani (CON);
– 10 soggetti sani con un passato di abuso di cannabis (CON-CUD; i.e: CUD, Cannabis Use Disorder);
– 28 pazienti schizofrenici (SCZ);
– 15 pazienti schizofrenici con un passato di abuso di cannabis (SCZ-CUD).

Gli sperimentatori hanno voluto includere nell’esperimento anche due gruppi di pazienti schizofrenici in quanto anche questa categoria di pazienti evidenzia un deficit della memoria episodica e quindi, all’ interno di tale esperimento, si caratterizzano come un ottimo termine di paragone per i soggetti senza disturbi psichiatrici.

Dopo la somministrazione dei test tesi a valutare le capacità cognitive, i soggetti si sono volontariamente sottoposti a risonanza magnetica. Dai risultati è emerso come i soggetti CON-CUD mostrino delle differenze nella forma dell’ippocampo rispetto ai soggetti CON, ed in particolare: introflessioni in corrispondenza dell’ippocampo anteriore, medio-dorsale e medio-ventrale ed estroflessioni nelle regioni dorsolaterali e antero-ventrali. Inoltre, nei soggetti CON-CUD il volume dell’ippocampo destro risulta maggiore rispetto al sinistro. I pazienti schizofrenici, invece, mostrano introflessioni nella regione medio-dorsale dell’ippocampo, così come nelle regioni anteriore e posteriore dell’ippocampo ventrale; le estroflessioni sono osservabili nelle regioni dorsolaterale e dorsale anteriore.

In particolare, la differente morfologia dell’ippocampo nei soggetti CON-CUD è associata ad una ridotta performance nei test di memoria episodica, mentre nei SCZ-CUD è associata con la maggiore durata del CUD e con un tempo di remissione del CUD più breve.
Rispetto alle capacità cognitive, invece, nei soggetti sani con un passato di abuso di cannabis sono rilevabili performance di memoria episodica peggiori nel 18% dei casi rispetto a chi non ha mai utilizzato questa droga. Tali deficit risultano più severi tra i pazienti schizofrenici con un passato di abuso di cannabis (SCZ-CUD), arrivando al 26% dei casi quando comparati agli SCZ senza CUD. Infine gli SCZ ottengono punteggi ridotti nei test di memoria episodica rispetto ai soggetti CON-CUD.

All’interno del gruppo CON-CUD, quando confrontato con i soggetti CON, le modificazioni nella forma dell’ippocampo sinistro correlano con l’abuso di cannabis. Rispetto ai pazienti SCZ-CUD, gli sperimentatori riportano modificazioni nella forma dell’ippocampo destro correlate ad una maggiore durata del CUD, quando invece una maggiore durata del periodo di astinenza dalla sostanza è associato a ridotti mutamenti nella forma dell’ippocampo sinistro.

In conclusione, dallo studio in questione emerge come tra i soggetti CON-CUD e SCZ-CUD si riscontri un deficit significativo della memoria. Inoltre, una maggiore durata del CUD e una più breve durata del periodo di astinenza dalla cannabis correlano positivamente con le modificazioni nella forma dell’ippocampo. Sebbene qualitativamente diversa, la forma dell’ippocampo dei soggetti CON-CUD e SCZ risulta alterata, risultato in accordo con la letteratura precedente che stabilisce come gli adolescenti che abusano della cannabis siano esposti ad un rischio maggiore di sviluppare disturbi dello spettro psicotico, forse per via della neurotossicità della sostanza, come riportato da una recente meta-analisi (Rocchetti et al., 2013); una seconda ipotesi sosterrebbe il ruolo interferente della cannabis nel processo di pruning dell’ippocampo durante la maturazione dei neuroni (Lisdahl et al., 2013).

Il rimpianto del passato e dell’amore perduto negli italiani

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  12/12/2015

 

Si dice che gli italiani siano perennemente rivolti a un passato da sognare o da maledire e rimproverare. Rinchiusi in un pensoso ruminare, rivanghiamo un’età dorata ormai sfuggita e preferiamo perderci in essa, invece che goderci il presente.

Alcuni rimpiangono Berlinguer, altri l’Impero Romano, altri ancora –più laici- il Rinascimento. I migliori sono forse quelli che rimpiangono un amore perduto. In questa perdita hanno perso il senno, come un Orlando Furioso senza un Astolfo che si sobbarchi il viaggio sulla luna per recuperarlo.
Eppure anche in questo caso abbiamo nostalgia di noi stessi, di un noi stessi immaginario e migliore che affonda la sua esistenza nel passato.

[blockquote style=”1″]Quello che mi manca di lui sono io quando stavo con lui[/blockquote]

scrive Chiara Gamberale, ed è un buon modo per individuare il nocciolo di ogni nostalgia. Ritorniamo a cercare noi stessi in un’illusione di felicità. Può accadere volontariamente oppure il ricordo può sorgere inaspettato, come nella madeleine di Proust. In quel caso, fu la fisiologia a squadernare la psicologia del ricordo e della nostalgia. Anche se non si trattava di un ricordo d’amore, ma di una memoria infantile, quello delle vacanze estive a Balbec e delle visite alla zia Leonie. Grazie al profumo di un alimento.

O come le poesie d’amore di Vincenzo Cardarelli, intrise dello struggimento autunnale dell’amore perduto per Sibilla Aleramo, troppo spregiudicata e libera per il timido poeta. Il senso desolante della fine si mescola all’amarezza per la delusione:

[blockquote style=”1″]Dovevamo saperlo che l’amore / brucia la vita e fa volare il tempo.[/blockquote]

L’ansia patologica di cui era vittima Cardarelli era il terrore di essere lasciato solo, il timore pervasivo del non sentirsi adatti. Non solo nell’addio definitivo, ma perfino negli arrivederci Cardarelli coglieva i presagi di una separazione:

[blockquote style=”1″]Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo/così, senza speranza./Se tu sapessi com’è già remoto/il ricordo dei baci/che poco fa mi davi,/di quel caro abbandono,/di quel folle tuo amore ov’io non mordo/ se sapore di morte.[/blockquote]

Si tratta di un trauma, e del trauma ha tutte le caratteristiche. Il senso d’irrealtà con i sensi al tempo stesso acutizzati e rallentati, la realtà quotidiana attorno a noi diventata falsa e irrilevante, come se ci trovassimo sotto ad una campana di vetro. Arrivano involontariamente pensieri, ricordi e immagini di quello che è successo e che è stato per sempre perduto. Sono i pensieri intrusivi, sgraditi compagni del dolore. E poi si rimugina infinitamente sull’evento, si rimestano i ricordi, si pensa ripetutamente a quello che è accaduto per cercare di capire le ragioni dell’infelicità; ma non c’è nulla da capire.

È la cosiddetta ruminazione, studiata dalla ricercatrice Nolen-Hoeksema (1991). Una catena di pensieri e quesiti generici e astratti che una persona inizia a porre a se stessa in risposta al suo stato emotivo triste e depressivo.

Perché succede a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo? Perché non riesco a dare un senso a quello che mi succede?

Un altro termine che si usa in psicologia è brooding, la passiva contemplazione di ciò che c’è di sbagliato nella propria vita; è una forma di ragionamento astratto orientato a ripetersi domande sul “perché” degli eventi e dei sintomi senza cercare una soluzione attiva (es: “perché capita sempre a me e non agli altri?”).

Indubbiamente questa situazione riflette una mentalità passiva e una situazione nella quale non vi è possibilità di riscatto e progresso. Può essere la situazione di un amore disperato, o anche il riflesso di una condizione amara e priva di speranze. Questa mentalità dovrebbe essere stata spazzata via dalla nozione moderna di progresso e di fiducia nelle capacità umane di migliorare se stessi e il mondo. Le culture antiche erano invece malate di nostalgia. Il passato era inevitabilmente migliore, anzi perfetto. Un’età dell’oro che non si sarebbe mai più ripetuta. Poi la decadenza, dall’argento al bronzo fino al presente grigio e ferreo, violento e ingiusto. Questa psicologia pessimistica rifletteva le difficili condizioni di vita del passato e così inventava una nostalgia per un’epoca immaginaria e senza tempo dove si può godere di un’abbondanza illimitata, un mondo privo di sofferenza e mortalità, pieno di vitalità e piaceri. È il mito dell’Età dell’Oro.

Fu Jung, ispirandosi all’antropologia di Fraser e Antkinson, a proporre che il mito sia un’espressione narrativa e simbolica, di una realtà psichica umana.

Il mito come una manifestazione collettiva dello spirito umano, di cui rivela e, al tempo stesso, dissimula le tendenze inconsce. La psicologia moderna ridimensiona l’importanza della componente inconscia ma accetta le intuizioni di Jung: la psiche umana nasconde un sogno –per nulla inconscio- di un’utopia, un sogno in cui risuoni l’eco di un passato antico ormai perduto in cui si godeva di un’ideale e perfetta società. Questo sogno è anche la speranza di una rinnovata epoca di pace, giustizia e abbondanza che raggiungeremo in futuro.

La modernità ha segnato una svolta, il passaggio da una mentalità pessimistica e volta al passato a un atteggiamento diretto al futuro, ottimistico e fiducioso nel progresso. Non è detto che la nuova mentalità non condivida qualcosa di quella antica. Il sogno dell’abbondanza forse rivive nella previsione di una futura potenza tecnologica che inaugurerà un’età di abbondanza per l’umanità, stavolta non più nostalgica ma realizzazione pratica dell’esplosione dell’Intelligenza con la I maiuscola, nuova dea della modernità disincantata, e dell’avanzamento esponenziale della sua sposa, la Tecnologia.

Nei popoli mediterranei questa fede nel progresso è meno diffusa e lo sguardo all’indietro sopravvive più strenuamente. Il presente si unisce a un senso d’insufficienza e di delusione, mentre l’antichità, che sia trascorsa da pochi decenni o da secoli e perfino millenni, si colora dell’oro della felicità e dell’amore perduto. E su questo ci piace ruminare, magari leggendo i versi di Vincenzo Cardarelli.

iFeel: diario dell’umore versione 2.0 – Recensione dell’App

L’app si configura come un moderno diario dell’umore, che permette di registrare lo stato emotivo. Inserendo diversi dati e utilizzando i filtri dell’app, l’utente ha la possibilità di visualizzare il grafico dell’andamento del proprio umore.

iFeel è una app ideata e realizzata da Riccardo Chiarini che consente di monitorare alcune informazioni psicologiche di base giorno per giorno.

L’app si configura come un moderno diario dell’umore, che permette di registrare lo stato emotivo (scegliendo tra alcune opzioni, come ‘felice’, ‘pensieroso’, ‘triste’, etc.); inoltre, viene richiesto di assegnare un punteggio a ogni giorno su una scala da 0 a 10. Accanto alla registrazione dello stato emotivo, l’utente può indicare dove si trovava in quel giorno, che tempo faceva e può aggiungere una breve descrizione narrativa. Infine, è possibile corredare ogni giornata con una foto rappresentativa.

Inserendo questi dati e utilizzando i filtri dell’app, l’utente ha la possibilità di visualizzare sia il grafico dell’andamento dell’umore (in base ai punteggi assegnati a ogni giorno) che un’eventuale correlazione tra il meteo e lo stato emotivo. Inoltre, l’app fornisce una mappa che permette di localizzare la frequenza delle presenze nei diversi punti geografici e riassumere tutte le informazioni raccolte sulla base della posizione. Infine, è presente una sezione Aforismi che raccoglie diverse frasi celebri e di possibile incoraggiamento (una al mese), consentendo anche la possibilità di inviare aforismi di propria conoscenza da aggiungere alla pagina.

Alla registrazione, l’utente indica il sesso e il tema che vuole sia applicato alla grafica; inoltre, può impostare un orario in cui ricevere dall’app la notifica che gli ricordi di procedere con la registrazione della giornata trascorsa o in corso; infine, può aggiungere una foto al profilo e può decidere di aumentare il controllo di sicurezza aggiungendo una password.

Infine, il diario è esportabile in pdf, consentendo all’utente di conservare quanto registrato anche una volta che decida di non utilizzare più l’app, oppure di condividerlo con altre persone agilmente via e-mail.

La pubblicità sul sito dell’app promette di aiutare l’utente a conoscersi meglio e essere più felice. In effetti, la prima cosa che mi viene in mente rispetto all’utilizzo di iFeel è il ‘Promemoria‘, che ti ricorda ogni giorno di fare il punto su come stai, come è andata la giornata, eccetera. Hai la sensazione di ritagliarti un momento per te, dare un voto alle esperienze che hai fatto o non hai fatto nel corso del giorno trascorso e stabilire il tuo umore. In qualche modo, prendi consapevolezza della cosa, che di per sé ti aiuta a trovare un attimo e fermarti.

Mi è capitato di dare un voto molto basso a una specifica giornata, e questo mi ha spinta a chiedermi cosa non fosse andato bene, cosa mi avesse buttata giù o fatta innervosire. Allo stesso modo, mi è capitato di avere difficoltà a scegliere un solo stato d’animo tra quelli proposti, e di cambiare idea 5 minuti dopo aver registrato la mia giornata (anche questo ovviamente è possibile, per gli indecisi e i colpi di scena di fine giornata).

Spesso ci troviamo a correre molto, arrivando a sera senza aver capito bene né come ci siamo sentiti né, di conseguenza, cosa possiamo modificare per sentirci meglio nel caso in cui qualcosa non stia funzionando. Pur nella sua estrema semplicità, l’app mi sembra possa essere utile in questo senso a creare un punto di settaggio, in cui ci fermiamo un attimo e facciamo a noi stessi quelle due o tre domande che ci consentono di non rotolare troppo dietro agli eventi e agli appuntamenti, ma di darci una pausa.

Allo stesso modo, riguardando lo storico attraverso il grafico dell’umore oppure le foto caricate giorno per giorno, abbiamo la possibilità di renderci meglio conto di come tutto sia relativo a un momento, a una giornata o a una situazione. Ci si ricorda del perché abbiamo dato 4 a una certa giornata solo una settimana fa, e di aver dato 8 alla giornata di ieri, e questo aiuta a toccare con mano la labilità delle brutte giornate, delle situazioni difficili e dei malumori.

Pensando invece all’utilizzo clinico dell’app, penso che possa essere un buon tramite per tenere d’occhio come sta un paziente tra una seduta e l’altra. La facilità di utilizzo di iFeel e la sua essenzialità permettono di non perdersi in compilazioni troppo lunghe e dispendiose di tempo, mentre il fatto di centrare le considerazioni su 2/3 punti fondamentali assicura chiarezza e semplicità. In questo modo, la notifica non diventa un fastidioso ricordarsi di compilare qualcosa, ma un promemoria che ti fa dire ‘ok, come sono stata oggi?’ e ti porta a fare il punto prima di ripartire con la nuova giornata.

In un futuro lavorativo che promette sempre di più il contatto in remoto con il paziente (pensiamo alle sedute via Skype o anche solo alle telefonate tra una seduta e l’altra) penso che lo sviluppo di strumenti semplici come questo possa essere una buona modalità per tenere sotto controllo quello che succede, aiutare nella sintesi e in una considerazione più riassuntiva e meno sensibile degli avvenimenti singoli di tutti i giorni; in questo modo, il paziente può essere più consapevole della visione d’insieme e il terapeuta può capire meglio cosa succede e quali sono le circostanze più difficili per la persona, suggerendo anche interessanti punti su cui focalizzare gli interventi.

L’app è gratuita e disponibile per iOS e Android.

Tricotillomania: caratteristiche e tipologie di trattamento

Libera Liana Diana – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Il termine tricotillomania (hair pulling disorder) fu introdotto nel 1889 da Francois Henri Hallopeau, con lo scopo di indicare una condizione caratterizzata dal frequente atto di tirare i capelli con conseguente perdita di quest’ultimi.

Tricotillomania: inquadramento diagnostico

Nel DSM IV, la tricotilllomania era classificata come un disturbo del controllo degli impulsi; oggi tale condizione è inserita nel DSM 5, nella categoria Obsessive-compulsive and related disorder. Questa nuova categoria diagnostica è costituita da: il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), il dismorfismo corporeo, l’accumulo patologico (disposofobia/hoarding), l’escorazioni cutanee (skin picking disorder), il DOC provocato da sostanze o in seguito ad una condizione medica e altri specificati/ non specificati DOC e correlati.

I criteri diagnostici per la diagnosi di tricotillomania proposti dal DSM5 sono i seguenti:

  • A. Strapparsi ricorrentemente i propri capelli, con conseguente perdita degli stessi;
  • B. Ripetuti tentativi di ridurre o interrompere tale comportamento;
  • C. Tirarsi i capelli causa disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento;
  • D. Strapparsi i capelli o la perdita dei capelli non è attribuibile ad un’altra condizione medica;
  • E. Strapparsi i capelli non è meglio spiegato da i sintomi di un altro disturbo mentale (APA 2013).

Gli individui con hair pulling disorder (HPD) tipicamente tirano i capelli utilizzando le dita, delle pinzette o altri strumenti. La lunghezza della durata di un episodio di tricotillomania è individuale, ma la durata media è di 45 minuti al giorno. Le aree maggiormente colpite sono il cuoio capelluto (75%), le ciglia (53%), le sopracciglia (42%), la barba (10%) e le aree pubiche (17%) (Duke 2010). Alcuni soggetti con tricotillomania spesso ingeriscono i capelli strappati, dando origine a tricobezoari che portano a complicazioni gastrointestinali e interventi chirurgici.

 

Caratteristiche della tricotillomania e comorbilità

L’HPD è tutt’altro che raro, colpisce l’1% della popolazione di cui la maggior parte sono donne (88% – 94%). Le differenze di genere possono essere dovute al fatto che le donne siano più inclini degli uomini a chiedere aiuto e che molti più uomini presentano tale disturbo in comorbidità con il Disturbo Ossessivo compulsivo. Inoltre vi sono dei veri e propri bias di genere: infatti negli uomini, l’età di insorgenza della tricotillomania è più tardiva rispetto alle donne (Lochner 2010). Esistono tre tipologie di HPD:

  • Esordio precoce: si presenta in bambini con età inferiore agli otto anni;
  • Automatico: l’episodio di pulling ha luogo quando il soggetto è impegnato a fare altro (guardare la televisione, leggere etc). Questa tipologia colpisce il 75% dei pazienti;
  • Focalizzato: i pensieri occupano l’attenzione del soggetto e il pulling avviene in risposta ad un sentimento di urgenza (ad es. ridurre la tensione), ad un impulso o ad uno stato emotivo negativo. (Shoenfeld 2012).

La comorbidità è alta con le diagnosi psichiatriche (82%), con la depressione maggiore (37-65%), con i disturbi d’ansia (55 – 60%) e con l’abuso di alcolici (33%) (Shoenfield 2012). La diagnosi differenziale va fatta rispetto al Disturbo Ossessivo Compulsivo, al dismorfismo corporeo, ai sintomi psicotici e a condizioni che possono essere dovute ad una patologia medica o dermatologica (Snorrason 2015).

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per la tricotillomania

Le teorie cognitivo-comportamentale ritengono che alcuni pensieri (ad esempio ‘Questo capello grigio deve andarsene’) e le sensazioni emotive, come l’agitazione o la noia, possono costituire un trigger per il comportamento di pulling. Molto importanti sono anche i fattori contestuali, ad esempio una specifica stanza può incidere sulla messa in atto del comportamento (Snorrason 2015). La terapia cognitivo comportamentale propone per il trattamento della tricotillomania diversi interventi tra i quali il più diffuso è l’Habit Reversal Training (HRT).

L’HRT comprende diversi aspetti: il trainig sulla consapevolezza, il training sulla risposta compensatoria, il supporto sociale e il controllo degli stimoli.

 

Tricotillomiania: il training sulla consapevolezza

Il training sulla consapevolezza si articola in una serie di interventi, simulazioni ed esercitazioni che hanno lo scopo di incrementare la consapevolezza del paziente rispetto ai comportamenti di tricotillomania. Si procede in primo luogo con un’intervista di assessment, durante la quale si identifica in maniera dettagliata, tutto ciò che accade prima, dopo e durante il comportamento target. L’intervista permette di individuare i Warning Sign, gli indici ambientali e sensoriali che predicono il verificarsi del pulling (es. protendere la mano verso i capelli). All’intervento in seduta, si aggiungono degli homework, caratterizzati da attività di automonitoraggio dei warning sign. Una volta individuati quattro o cinque warning sign, inizia una fase di esercitazione, durante la quale a ruoli alternati, nel contesto conversazionale, il paziente si esercita a discriminare cosa rappresenta un warning sign da comportamenti diversi.

Nel training sulla risposta compensatoria, si concorda insieme un’azione da mettere in atto quando si riconosce un warning sign che potrebbero attivare il comportamento di pulling. La risposta compensatoria ha particolari caratteristiche: deve essere semplice, incompatibile con la tricotillomania e socialmente discreta. Una volta stabilita, tale azione viene svolta per un minuto o finchè la sensazione di urgenza di strappare i capelli decade.

Il supporto sociale si realizza attraverso una persona scelta nel contesto interazionale del paziente. Il soggetto che fa da supporto sociale, ha il compito di rinforzare e lodare il paziente quando usa le strategie apprese in terapia; in caso contrario, senza usare un tono perentorio o di rimprovero, andrà a ricordare l’utilizzo degli esercizi terapeutici.

Infine, il controllo degli stimoli permette di minimizzare l’influenza dei fattori contestuali sul comportamento di pulling. Strategie di questo tipo consistono nel buttare le pinzette, coprire lo specchio del bagno, ridurre il tempo di esposizione a situazioni di rischio, assumere posizioni diverse quando si sta seduti e ridurre l’effetto di alcune emozioni (Snorrason 2015).

Oltre all’ HRT vi sono le strategie di potenziamento che includono la terapia cognitiva, la terapia dialettica comportamentale (DBT) e l’ACT (Acceptance and commitment therapy).

La terapia cognitiva sostiene l’esistenza di diverse tipologie di pensieri disfunzionali; alcuni si basano su caratteristiche particolari del capello (es. capelli grigi), altri sono detti pensieri Slippery Slope (es. ‘Ne tiro solo uno e poi mi fermo’) ed infine le giustificazioni (es. ‘Ho avuto una brutta giornata’). Il terapeuta utilizzando gli homework, la ristrutturazione cognitiva e l’esercizio aiuta il paziente ad individuare questi pensieri disfunzionali, a riconoscere i pro e i contro dei comportamenti di pulling ed infine individuare una valida alternativa alla tricotillomania.

La terapia dialettica comportamentale (DBT), attraverso le tecniche di mindfulness e le strategie di regolazione emotiva, si propone lo scopo di incrementare la consapevolezza di stati affettivi particolari, come la noia e la frustrazione, e di correggere le strategie di regolazione non adattive che rinforzano i comportamenti di tricotillomania.

Infine l’acceptance and commitment therapy (ACT) si basa sul principio che il comportamento di pulling si origini da una tendenza all’evitamento. L’intervento, in breve, si basa sull’identificare degli obiettivi di vita importanti per il paziente e di incrementare la consapevolezza rispetto al negativo effetto della tricotillomania sul raggiungimento di tali scopi.

 

CBT e tricotillomania: uno sguardo ai dati

Alcuni studi hanno dimostrato come le tecniche comportamentali come l’HRT sono maggiormente efficaci nel caso del pulling automatico, invece la DBT e l’ACT sono più indicate per i comportamenti di pulling focalizzato (Franklin 2012).

Evidenze sperimentali evidenziano che il 50% – 60% dei soggetti con tricotillomania ha mostrato miglioramenti significativi successivamente ad una psicoterapia basata su HRT e sul controllo degli stimoli. Nello studio di Van Minnen e colleghi del 2003, 43 soggetti adulti con tricotillomania sono stati divisi in tre gruppi: il primo è stato sottoposto a sei sessioni, a cadenza bisettimanale, di psicoterapia basata su HRT; il secondo gruppo a 12 settimane di trattamento con la fluoxetina e il terzo faceva parte di una lista di attesa. I risultati indicano che il 64% dei soggetti del primo gruppo hanno mostrato cambiamenti positivi significativi. I restanti due gruppi hanno riportato tali modificazioni nella misura del 9% (fluoxetina), e del 30% (lista d’attesa). Tuttavia un successivo follow up a distanza di due anni ha indicato un aumento significativo dei sintomi per molti pazienti.

Nel tentativo di superare questi limiti, si è provato ad affiancare la HRT a delle tecniche terapeutiche che prestino una maggiore attenzione alle esperienze interne, in particolare la CT, la DBT e l’ACT. Tali sperimentazioni hanno come risultato che gli effetti benefici della terapia si estendono da 3 a sei mesi nel follow up; d’altronde non vi sono altre evidenze che hanno analizzato i tassi di recidiva oltre i sei mesi (Snorrason 2015).

Il cercatore pauroso: temo che tu non mi ami perché io non posso stare da solo – Tracce del tradimento Nr. 36

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVI. Il cercatore pauroso: Temo che tu non mi ami perché io non posso stare da solo.

 

La donna impaurita, l’uomo impaurito vivono per l’altro e la percezione della propria inferiorità è costante, l’altro è perfuso di bellezza e forza ed essi vivono nel terrore che egli si stanchi e le lasci sole.

Cercano sperando di non trovare, spesso non trovano, e se trovano, soffrono in silenzio aumentando il desiderio di stare con il compagno e rimandando i conflitti. Così diventano ancora più dipendenti, melanconici.

Serafina, 46 anni, viene in seduta disperata, parla a spizzichi e a bocconi e fa fatica a concentrarsi su ciò che dice. È evidentemente depressa e racconta una storia difficile. Dalla sua prima giovinezza si è fidanzata e poi sposata con un ragazzo che è stato accolto dalla sua famiglia come un figlio. Al punto che i genitori preferivano lui ai numerosi figli che avevano. Il ragazzo è sempre stato irreprensibile e protettivo con lei, non permettendole di lavorare e accondiscendendo a tutte le paure di lei: di viaggiare, di vedere amici, di avere un figlio, di fare qualsiasi cosa nuova e diversa dallo stare in casa a chiacchierare davanti alla televisione. Alcune volte l’uomo aveva cercato di esprimere il desiderio di avere un figlio, ma lei aveva sempre rifiutato sostenendo che stare con lui le bastava e che non avevano bisogno di nient’altro che della loro coppia.

Un giorno aveva trovato un biglietto di amore inequivocabile ed esplicito, di una donna a suo marito e terrorizzata aveva chiesto spiegazioni, aspettandosi le consuete rassicurazioni e la ripresa della consueta routine. L’uomo le aveva comunicato invece che si era stufato, che non la amava più e aveva intenzione di andare a vivere con la sua nuova donna dal giorno dopo. Si possono immaginare le reazioni di lei e della sua famiglia. Ma lui aveva difeso il suo progetto con forza e grande determinazione arrivando a essere anche estremamente ostile con lei quando lei lo seguiva o cercava spiegazioni.

Si era messo a convivere nella nuova famiglia e aveva avuto in pochi anni due figli. La donna era rimasta in casa sola, depressa e molto isolata e, ormai da molti anni prendeva antidepressivi e rimuginava sulla situazione ingiusta da lei subita e sulla propria incapacità a capire le esigenze di lui, incolpando però lui di scarsa chiarezza. Non era più uscita di casa e si era chiusa nella sua famiglia di origine che aveva alimentato il rimuginio sul passato e il senso di un dolore fatale e impossibile da superare.

Questo caso è significativo della situazione in cui si vengono a trovare le persone impaurite della solitudine quando si rifiutano di affrontare le implicazioni delle scelte affettive rassicuranti ma spesso limitate che impongono ai propri partner. È un punto di riflessione il fatto che nelle condizioni di dipendenza e paura in cui ci si muove si vadano a cercare tracce di tradimento. Si potrebbe pensare che un comportamento più coerente sarebbe rappresentato da una rinuncia a qualsiasi tentativo di incrementare informazioni potenzialmente minacciose, ma non è così e per svariati motivi che ora cercheremo di analizzare. Innanzitutto la ricerca delle tracce nell’ansioso ha spesso il movente di cercare rassicurazione e certezza assoluta che le tracce e il tradimento siano assolutamente da escludere. È quindi una procedura di ricerca di certezza assoluta. Infatti, come nel caso sopradescritto la ricerca delle tracce ha in alcuni casi una illusoria funzione di incrementare la sicurezza e la tranquillità.

In altre circostanze lo scopo della ricerca di tracce è invece tutta interna a una riduzione di visioni catastrofiche intollerabili o molto dolorose. Ed è vissuta come un impulso non rimandabile. Una sorta di tranquillante che a volte purtroppo si trasforma in un danno imprevisto. In altri casi la ricerca delle tracce è in situazioni di certezza relazionale e affettiva come una illusione di averne ancora di più sempre di più. Come se ci fosse una sfiducia di fondo in una relazione che procede in binari tranquilli e si volesse che diventino assolutamente del tutto e per sempre tranquilli. Un ‘di più’ che a volte diventa invece un drammatico ‘di meno’. In altri casi si controllano tutti gli aspetti del compagno, le cose che dice, le cose che pensa, le telefonate che fa, e si crede che questo controllo, molto mentale, ferreo e rigidissimo, sia una modalità di rapporto che possa garantire una maggiore tranquillità.

La ricerca delle tracce in queste persone è solo una delle tante procedure di controllo che mettono in atto e che lentamente stringe intorno al collo del compagno o della compagna un cappio potente e strettissimo. Spesso quando poi si trovano le tracce del tradimento il dolore e lo stupore sono altissimi, perché la conoscenza che si possiede di come si conducono i rapporti di amore è del tutto collegata con il controllo e non ci si rende affatto conto di come possa a lungo andare risultare intollerabile a chi lo subisce.

Questo genere di controllo è spesso sostitutivo dell’affetto e degli scambi emotivi e sessuali, e il compagno fugge alla ricerca di una persona meno controllante e più vicina. Perché questo lavoro di controllo non è necessariamente simile a un impegno emotivo comune e attento alla reciprocità. E’ un sintomo di una sofferenza e di una grande paura di stare soli e spesso di una scarsa conoscenza delle relazioni di intimità e di reale scambio.

Sandra era una signora romana, un bella donna alta ed elegante, avvocato in uno studio modesto ma serio e di lunga storia. Aveva sposato un musicista di buon talento che riempiva le sue giornate di buona musica e le sue serate di compagnia solidale. La signora era figlia di una madre tirannica, gravemente ansiosa e controllante che ancora telefonava ai figli ormai di mezza età per chiedere il resoconto delle loro giornate e fornire consigli, controlli e compagnia. La signora aveva dedicato a questa madre molte ore della sua vita togliendole anche al marito, quando si recava dalla madre dava ordini e indicazioni al marito su come passare il tempo. Il marito veniva da una famiglia spezzata, da un padre fuggito via e orfano di madre, aveva sperato di avere compagnia dalla moglie.

Negli anni non avevano avuto figli e la moglie rattristata da questo si era stretta sempre più al marito chiedendo compagnia e legandolo a un ininterrotto filo di discorsi, progetti, opinioni su tutto e decidendo anche che tipo di cravatta o che pantaloni dovesse mettersi al mattino. Prima di uscire preparava a lui i vestiti da mettersi, la colazione e il pranzo e si aspettava di sentirlo al telefono molte volte al giorno per avere notizie del suo lavoro. La casa era pulita come uno specchio e ogni cosa aveva un certo ordine che lei decideva e che non doveva essere interrotto da nessuno.

Il marito per molti anni aveva accettato una situazione che gli stava un poco stretta anche perché questa ininterrotta vicinanza mentale non era accompagnata da una intimità sessuale da lui ritenuta insoddisfacente. La moglie durante i rari rapporti sessuali si dimostrava del tutto disinteressata e passiva e a volte nel bel mezzo di un rapporto cominciava a parlare di lavare le tende o dell’ultimo libro interessante che aveva letto.

La situazione si sarebbe potuta forse sviluppare in modo sereno e non interrompersi se il marito non fosse stato spedito all’estero a fare un periodo di lavoro. L’uscita da casa aveva reso la moglie molto depressa e passiva, mentre lui si sentiva molto galvanizzato da un nuovo ambiente sentendosi per la prima volta più libero. La moglie non si era resa conto di nulla, anche se i ritorni a casa si facevano più radi e la comunicazione telefonica, per questioni di linea, maggiormente difficoltosa e rara. Un giorno, durante un ritorno in cui il marito si faceva scontroso e stanco e poco vicino a lei, aveva cercato nel portafoglio con lo scopo di vedere se trovava lo stesso ordine e gli stessi oggetti così come lei li metteva. Era rimasta senza fiato vedendo una foto del marito abbracciato a una signora alta ed elegante che lo baciava con passione. Alla richiesta di un chiarimento il marito aveva confessato il tradimento ma lo aveva giustificato come una dolorosa necessità dovuta al suo esagerato controllo e alle sue esigenze di vicinanza esagerate. “Non ti amo da almeno 10 anni” così era stata la sua risposta e “non voglio in nessun modo rimanere con te neanche un minuto di più”.

Non esistono strategie che possano con assoluta certezza difendere chiunque dall’arrivo imprevisto e catastrofico di eventi affettivi nuovi, scandalosi e imprevedibili. Il modo sensato di vivere è godersi il buon periodo sapendo che non è detto che sia definitivo ma che saremo in grado di sopravvivere a qualsiasi evento ci troviamo davanti. Questo modo è realistico e legato fortemente ad un idea di sé come persone affettivamente competenti.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Come le tasse sulle sigarette riducono la mortalità infantile

L’aumento delle tasse sul prezzo di un pacchetto di sigarette negli USA è fortemente associato con una minore mortalità infantile.

Questo è ciò che emerge da un recente studio condotto da Stephen Patrick, presso la Vanderbilt University, e appena pubblicato sulla rivista Pediatrics. Tale analisi è stata condotta utilizzando i dati dal 1999 al 2010 del Center for Disease Control americano circa la mortalità infantile (morte nel primo anno di vita), le sue cause e i dati sulla fluttuazione di prezzi e tassazione del tabacco. Effettivamente, il fumo negli Stati Uniti è un problema a priorità assoluta, poiché lo stesso CDC lo ha recentemente identificato come la maggiore causa di morte e disabilità negli USA, calcolando tutti i casi di patologie di natura cardiovascolare causate sia direttamente che indirettamente dal fumo.

Già altre ricerche in passato hanno mostrato come le donne fumatrici durante la gravidanza abbiano molte più probabilità di mettere al mondo neonati sottopeso, nati prematuramente o vittime della Sudden Death Infant Syndrome (SIDS), patologia di origine ancora completamente sconosciuta, che porta nel primo anno di vita alla morte di bambini apparentemente perfettamente sani. Un aumento della tassa sul tabacco si era già rivelato fortemente correlato con una diminuzione del suo consumo durante la gravidanza e con un conseguente decremento di nascite premature e sottopeso, ma fino ad oggi nessuno studio aveva direttamente confrontato la tassazione del tabacco con la frequenza di morti infantili.

Ben oltre ogni aspettativa, la presente ricerca mostra come per ogni singolo dollaro di incremento del prezzo delle sigarette si verifichino due morti infantili in meno al giorno, ovvero 750 morti in meno nell’intero anno (3,2%)! In particolare, tale correlazione si dimostra essere particolarmente forte nel caso dei neonati afroamericani, che normalmente hanno il doppio delle possibilità di morire prima del loro primo compleanno rispetto a tutti gli altri neonati: prevedibilmente, poiché la popolazione afroamericana è distribuita per la maggior parte nei ceti economicamente più bassi, è anche quella che risente di più di un aumento economico di un prodotto di largo consumo come la sigaretta.

In conclusione, questo studio rivela come la tassazione del tabacco sia uno strumento efficace e credibile di decremento del numero di fumatori e conseguente prevenzione di malattie e mortalità del fumatore stesso e del neonato che questi porta in grembo. Nonostante i dati riportati si riferiscano esclusivamente agli Stati Uniti, non sono certo da sottovalutare e ignorare qui in Italia, visto e considerato che il bel paese ha il più alto tasso di mortalità infantile rispetto ai maggiori paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia e Spagna; dati ONU 2012).

Bias ed Euristiche – Introduzione alla Psicologia Nr. 38

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 38)

 

I bias sono particolari euristiche usate per esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentale e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria. 

 

Bias è un termine inglese, che trae origine dal francese provenzale biais, e significa obliquo, inclinato. Questo termine, a sua volta trae origine dal latino e, prima ancora, dal greco epikársios, obliquo. Inizialmente, tale termine era usato nel gioco delle bocce, soprattutto per indicare i tiri storti che portavano a conseguenze negative. Nella seconda metà del 1500, il termine bias, assume un significato più vasto, infatti sarà tradotto come inclinazione, predisposizione, pregiudizio.

Insomma, i bias cognitivi sono automatismi mentali sui quali si generano schemi cognitivi maladattivi utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica. Si tratta, il più delle volte di errori cognitivi (es. ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, Minimizzazione o Massimizzazione, Personalizzazione, etc.) che impattano nella vita di tutti i giorni non solo su decisioni e comportamenti ma anche sui processi di pensiero.

Quindi, i bias non sono altro che costrutti non del tutto corretti perché fondati su percezioni errate o deformate, su pregiudizi, su ideologie, quindi niente da sottoporre al giudizio critico. Questi pregiudizi creano schemi mentali che inducono a valutare situazioni o comportamenti senza giudicarli. In molte situazioni si utilizzano per spiegare comportamenti messi in atto, tipo gesti di razzismo o omofobici.

Succede, spesse volte, senza analizzare, pesare e valutare ogni dettaglio, che utilizziamo strategie note col termine di euristiche. Anche questo nome deriva dal greco: heurískein vuol dire trovare, scoprire.

Le euristiche sono, al contrario dei bias, procedimenti mentali intuitivi, e sbrigativi, scorciatoie mentali, che permettono di avere un’idea generica su un argomento senza effettuare troppo sforzi cognitivi. Sono strategie veloci utilizzate di frequente per giungere presto a delle conclusioni.

Nel 2002 Kahneman e Frederick proposero (o teorizzarono) che l’euristica cognitiva funzionasse per mezzo di un sistema chiamato sostituzione dell’attributo, che avviene senza essere consapevoli. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso da un punto di vista inferenziale, risulta essere sostituito da un euristica che è un concetto affine a quello precedente ma formulato più semplicemente. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo.

Per concludere, i bias sono particolari euristiche usate per creare delle opinioni o esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza. Mentre le euristiche funzionano come una scorciatoia mentali e permettono di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria.

Supponiamo che una pianta piccola con uno stelo e dei petali sia un fiore, anche se non abbiamo mai visto prima quello specifica tipologia sappiamo in ogni caso che si tratta di un fiore. Tutti abbiamo in mente cos’è un fiore, ne abbiamo visto molti e di molti tipi per questo nella nostra testa abbiamo delle immagini relative alle varie caratteristiche presentate da un fiore. Per questo, quando vediamo qualcosa che ha caratteristiche simili, anche se non sappiamo esattamente di che fiore si tratta, possiamo comunque dire con molta probabilità che è un fiore.

Per esprimere questo giudizio abbiamo usato una euristica, caratteristiche del fiore, che ci ha portati in breve tempo a una risposta repentina. Se procedessimo utilizzando un bias, invece, utilizziamo un pregiudizio non criticabile, ad esempio: ‘i fiori sono brutti’, e, dunque, a quel punto non mi fermo neanche a osservarli, giudizio non criticabile.

In sintesi, se le euristiche sono scorciatoie comode e rapide estrapolate dalla realtà che portano a veloci conclusioni, i bias cognitivi sono euristiche inefficaci, pregiudizi astratti che non si generano su dati di realtà, ma si acquisiscono a priori senza critica o giudizio.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Plasticità neuronale e cognitiva nella memoria prospettica di anziani dopo un training con la virtual week

 

Plasticità neuronale e cognitiva nella memoria prospettica di anziani dopo un training con la Virtual Week

Nathan S. Rose, Peter G. Rendell, Alexandra Hering, Matthias Kliegel, Gavin M. Bidelman and Ferguson I. M. Craik

Recentemente è stata descritta la Virtual Week come uno strumento utilizzato per la valutazione della memoria prospettica, gli autori ci illustrano come invece può essere utilizzata anche per stimolare la memoria prospettica.

Introduzione: Memoria Prospettica e terza età

La Memoria Prospettica (MP), abilità di ricordare ed eseguire con successo le proprie intenzioni e le attività pianificate, è importante per condurre una vita indipendente (Einstein and McDaniel, 1990). Il normale processo di invecchiamento ha un effetto negativo sulle abilità di Memoria Prospettica (Henry et al., 2004).

Tenendo in considerazione l’invecchiamento generale nel mondo, è estremamente importante sviluppare modalità per supportare un buon funzionamento di Memoria Prospettica così che gli anziani continuino a vivere indipendentemente, a casa, e senza il bisogno di essere assistiti.

Gli autori del presente studio hanno utilizzato un gioco computerizzato chiamato Virtual Week (Rendell & Craik, 2000) con lo scopo di allenare la Memoria Prospettica di un gruppo di anziani. L’obiettivo è stato quello di indagare se tale stimolazione potesse produrre neuro-plasticità nella Memoria Prospettica e trasferire tale miglioramento nella vita reale e nel funzionamento di vita quotidiano.

Generalmente i programmi di stimolazione cognitiva vengono classificati come ‘Compensatory Approach‘ e ‘Ristorative Approach‘. Il primo ha l’obiettivo di insegnare strategie e tecniche per compensare uno specifico deficit cognitivo; il secondo ha l’obiettivo di riabilitare e rendere migliore il funzionamento dei processi neurocognitivi che sono coinvolti più genericamente in molti domini della cognizione.

Sono scarse però le evidenze che dimostrano cambiamenti o miglioramenti importanti nel funzionamento quotidiano attraverso l’uso di training specifici (McDaniel and Bugg, 2012); ciò porta a pensare che programmi di allenamento cognitivo dovrebbero essere elaborati con lo scopo ultimo di allenare e condurre quindi al cambiamento (Craik and Rose, 2012).

Gli autori di questo studio hanno cercato di rispondere a tre domande: 1) Può un programma di stimolazione migliorare la Memoria Prospettica di un gruppo di anziani? 2) Può un programma di stimolazione indurre plasticità cerebrale in meccanismi sottostanti la Memoria Prospettica? 3) Può un programma di stimolazione portare miglioramenti nell’eseguire altri compiti di Memoria Prospettica?

Materiali e Metodi

Sono stati selezionati 59 anziani, di cui 23 facenti parte del gruppo sperimentale che ha ricevuto un mese di training sulla Memoria Prospettica con la Virtual Week, 14 facenti parte del gruppo di controllo attivo, e 18 facenti parte del gruppo di controllo passivo. L’età media era compresa tra 60 e 79 anni.

Training di Memoria Prospettica con la Virtual Week

Il programma di allenamento Virtual Week (il training) è simile all’originale versione computerizzata (Rendell et al., 2007) ma il contenuto dei compiti varia lungo il corso di 24 giorni virtuali. Inoltre la difficoltà del compito aumenta nel corso dei 24 giorni virtuali e i partecipanti procedono al livello successivo solo dopo aver completato il 70% dei compiti correttamente. Il livello di difficoltà si fa maggiore durante il corso del programma di allenamento, ed aumentano il numero di compiti da eseguire, la complessità dei compiti e la quantità di interferenza.

I partecipanti del gruppo sperimentale che ha eseguito il training di Memoria Prospettica  con la Virtual Week, ha svolto 24 livelli del gioco per circa un mese (tre sessioni alla settimana e due livelli per ogni sessione). Inoltre, al termine di ogni settimana di training ai partecipanti veniva chiesto quali strategie utilizzassero per ricordare di eseguire i compiti di Memoria Prospettica .

Gruppo di controllo attivo

Il gruppo di controllo attivo ha ricevuto un training musicale (Moreno et al., 2011) dove la sessione di allenamento era di 40-60 minuti, e i partecipanti completavano un totale di 20 sessioni durante un periodo di 4 settimane. Il programma includeva una combinazione di compiti cognitivi, percettivi e motori e consisteva nell’insegnare ai partecipanti concetti musicali di base come ritmo, tono, melodia e voce.

Gruppo di controllo passivo

Il gruppo di controllo passivo partecipa solo alle sessioni di pre-test e post test.

Misure

Misure per la Memoria Prospettica

  • Virtual Week computerizzata (Rendell et al., 2007): La Memoria Prospettica veniva valutata attraverso la Virtual Week. La Virtual Week è un gioco computerizzato che rappresenta una settimana virtuale dove ai partecipanti viene chiesto di lanciare un dado e di eseguire specifiche attività di vita quotidiana, in un preciso momento della giornata. Ogni giorno virtuale inizia alle 7.00 a.m. e termina alle 10.15 p.m. Durante ogni giorno virtuale ai partecipanti viene chiesto di eseguire diversi compiti di Memoria Prospettica. Alcuni di questi vengono illustrati all’inizio di ogni giorno virtuale e sono gli stessi per ogni giorno (compiti regolari). Altri sono illustrati durante la giornata e sono diversi per ogni giorno (compiti irregolari). Inoltre, alcuni compiti sono da svolgere durante uno specifico evento, indicato da una carta evento (compiti event-based), altri sono da eseguire in specifici momenti della giornata virtuale e quindi necessitano un controllo costante dell’orologio localizzato al centro del tabellone (compiti time-based). Vi è inoltre un terzo tipo di compito da eseguire (compiti time-check) che richiede al partecipante di monitorare un cronometro al centro dello schermo, che mostra la quantità di tempo reale trascorsa dall’inizio del giorno virtuale. Quando il cronometro segna uno specifico passaggio di tempo (esempio 2 minuti o 4 minuti), il partecipante deve interrompere ed eseguire il compito time-check selezionando l’appropriato compito dalla lista. Tutti i partecipanti eseguivano prima un giorno virtuale di prova, per la sessione pre-test, per imparare ad utilizzare il gioco e ad eseguire i diversi tipi di compiti di Memoria Prospettica, e successivamente completavano tre giorni virtuali della Virtual Week. Tutti i partecipanti eseguivano tre giorni virtuali anche al post-test, per valutare i cambiamenti nella performance prima e dopo l’intervento del training con la Virtual Week.
  • Call back task: Per valutare la naturale performance di Memoria Prospettica nella vita quotidiana, viene utilizzato un nuovo compito di Memoria Prospettica. I partecipanti sceglievano una fascia oraria di 2 ore, durante il quale dovevano essere a casa, chiamare l’istituto di ricerca, e lasciare un messaggio. Durante questa fascia temporale uno sperimentatore chiamava, e dava loro le istruzioni del compito. I partecipanti dovevano richiamare lo sperimentatore in un momento preciso (esempio: 15 e 40 minuti dopo aver ricevuto il messaggio) e lasciare un messaggio. La stessa procedura veniva ripetuta un’ora dopo con nuove istruzioni. Ai partecipanti veniva chiesto di non usare promemoria o timer.
  • N-back + PM cues (West and Bowry, 2005): Per valutare la Memoria Prospettica in un setting di laboratorio standardizzato è stato somministrato un compito 2-back computerizzato (lettere per il compito continuo e colori specifici come cues di MP). I partecipanti vedevano una serie di lettere colorate in maiuscolo, una lettera al secondo. Il compito era di premere un tasto marchiato “yes” quando la lettera sullo schermo coincideva con quella presentata 2 lettere prima, e un tasto “no” quando non era uguale a quella presentata 2 lettere prima. Successivamente i partecipanti venivano informati che vi era un altro compito di Memoria Prospettica da eseguire, dovevano premere la barra spaziatrice quando vedevano una lettera presentata in un determinato colore. Successivamente eseguivano le due procedure insieme.
  • Breakfast task (Craik and Bialystok, 2006): Il compito consiste di una simulazione computerizzata degli elementi coinvolti nella preparazione e nel servire la colazione. Le componenti del compito misurano due funzioni neuropsicologiche: pianificazione e gestione di più compiti. Ai partecipanti veniva chiesto di preparare 5 diversi cibi con differenti tempi di cottura (salsicce = 4,5 minuti; uova = 2 minuti). L’obiettivo era di avere tutte le pietanze pronte allo stesso momento, senza sovra cuocerle o sotto cuocerle..
  • The Prospective-Retrospective Memory Questionnaire (PRMQ; Crawford et al., 2003): Il questionario self-report ha l’obiettivo di valutare la Memoria Prospettica durante la vita quotidiana, e consiste di 16 domande sugli insuccessi di Memoria Prospettica e retrospettiva in situazioni di vita quotidiana.

Competenze di tutti i giorni

Timed instrumental activities of daily living (TIADL; Owsley et al. 2002): Per valutare le abilità di vita quotidiana ai partecipanti veniva chiesto di completare 5 compiti: cercare un numero di telefono su una rubrica; contare una certa quantità di denaro in monetine; leggere gli ingredienti su tre barattoli di cibo; mettere un oggetto su uno scaffale; leggere le indicazioni di due medicinali. Uno sperimentatore leggeva al partecipante le istruzioni per tutti i 5 compiti prima del test.

Misure neuropsicologiche

E’ stata somministrata una batteria di test volta a valutare le funzioni neuropsicologiche: Digit-Symbol (sub test della WAIS III; Wechsler, 1997) con lo scopo di valutare la velocità di elaborazione; Stoop Test (Stroop, 1935) con l’obiettivo di valutare le capacità di inibizione e controllo volontario; Versione computerizzata del paradigma dei cubi di Corsi (Milner, 1971) con l’obiettivo di valutare la memoria di lavoro; Matrici Progressive di Raven (Raven et al., 1996) per valutare l’intelligenza fluida.

Metodi ERP

Un sottogruppo dei partecipanti eseguirono il compito N-back + pm cues mentre veniva registrato il loro elettroencefalogramma (EEG), così da ottenere i markers neuropsicologici della localizzazione dei cue di MP. Gli autori analizzarono i potenziali evento-relati (ERPs) associati alla presentazione dei cue di Memoria Prospettica durante la performance del compito. 13 partecipanti nel gruppo sperimentale e 23 nei gruppi di controllo completarono entrambe le sessioni EEG pre e post – test.

 

Procedura

Dopo aver condotto un’intervista telefonica per valutare lo stato cognitivo generale dei partecipanti, quelli idonei erano invitati alla sessione pre-test della durata di 2-3 ore. Dopo aver firmato il consenso informato, i test venivano somministrati nel seguente ordine: Virtual Week, Breakfast Task, Stroop Test, 2-back task + mp, Corsi, Matrici Progressive di Raven, TIADL. La sessione finiva con il PRMQ e le istruzioni generali per il Call-back task. Iniziava poi il programma di training di Memoria Prospettica con la Virtual Week per il gruppo sperimentale e il training musicale per il gruppo di controllo attivo. Circa 1 mese dopo i partecipanti venivano rivalutati per la sessione post-test.

Risultati

  • Utilità del training: Il numero medio dei compiti di Memoria Prospettica eseguiti correttamente ogni giorno virtuale, durante il programma di training, aumentava regolarmente e le strategie utilizzate dai partecipanti cambiavano: la maggior parte delle strategie utilizzate alla fine della prima settimana del training rappresentavano strategie inefficaci mentre alla fine della quarta settimana rappresentavano strategie buone.
  • Il training induce plasticità?: I risultati mostrano ampi miglioramenti, associati al programma di training, nell’eseguire tutti i tipi di compiti di Memoria Prospettica della Virtual Week nel gruppo sperimentale rispetto ai gruppi di controllo. Inoltre la performance nei compiti Call-back e TIADL risultava migliore dopo il programma di training con la Virtual Week rispetto ai gruppi di controllo: emergeva una riduzione significativa del tempo impiegato per svolgere il compito Call-back e per completare le attività strumentali di vita quotidiana. Ciò è coerente con l’idea di un’importante cambiamento.
  • Plasticità neuronale: Per valutare la possibilità che il programma di training con la Virtual Week potesse produrre plasticità cerebrale, sono stati confrontati i potenziali evento-relati (ERPs), associati con la localizzazione dei cue di Memoria Prospettica, nelle sessioni pre e post-test per il gruppo sperimentale e i gruppi di controllo. I risultati preliminari ERPs mostrano qualche suggerimento circa la neuro-plasticità grazie al training: si osserva una riduzione sulla corteccia occipito-parietale destra associata ad una corretta performance di Memoria Prospettica, in particolare negli stadi successivi durante la selezione della risposta e la messa in atto dei compiti.

 

Discussione e conclusione

I partecipanti del gruppo sperimentale che hanno condotto un mese di training con la Virtual Week ottengono sostanziali miglioramenti nella performance di Memoria Prospettica per i compiti della Virtual Week. Tale plasticità viene trasferita anche ai compiti di Memoria Prospettica (Call-back task) che rappresentano compiti di vita reali e a misure neuropsicologiche legate alla capacità di vita quotidiana (TIADL).

Concludendo quindi, un breve programma di training della Memoria Prospettica con la Virtual Week ha portato ampi miglioramenti della Memoria Prospettica e qualche piccolo cambiamento nei correlati neuronali responsabili dell’elaborazione della Memoria Prospettica. I miglioramenti emergono rispetto all’aumento dell’accuratezza e dell’efficienza nell’esecuzione dei compiti di Memoria Prospettica di vita reale e di attività strumentali di vita quotidiana.

Il programma di training Virtual Week, che incorpora il principio di allenare per il cambiamento, rappresenta quindi una procedura innovativa per training cognitivi e una possibilità per aumentare le abilità funzionali.

La percezione del tempo nel deterioramento cognitivo

Barbara Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Ogni volta che abbiamo a che fare con una lesione o disfunzione cerebrale, ovunque essa sia, abbiamo a che fare con un problema nella percezione del tempo. Questo fenomeno si riscontra in modo evidente nel deterioramento cognitivo.

La complessita’ della percezione del tempo e il suo coinvolgimento nel deterioramento cognitivo

La percezione del tempo è uno degli argomenti più controversi della neuropsicologia. Nonostante decenni di studi non abbiamo ancora un modello che descrive il funzionamento neurocognitivo della percezione temporale con il quale siamo tutti d’accordo. Probabilmente questo accade perché non sappiamo bene come definire il tempo, esattamente come diceva Agostino nelle sue ‘Confessioni’: Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so….

Quando parliamo di percezione del tempo in termini cognitivi cosa intendiamo? Come fa il cervello a codificare o decodificare un intervallo di tempo trascorso? Oppure come fa il cervello a rappresentarsi il tempo di vita trascorso nel passato, formulare un’idea del tempo futuro o, ancora più difficile, orientarsi nel tempo quotidianamente per sapere sempre che giorno, mese e anno è per 365 giorni all’anno per tutta la vita?

La dimensione del tempo e’ troppo poco definibile e troppo complessa per poter essere operazionalizzata e studiata e infatti la letteratura sul tempo è molto dibattuta. Esistono diversi modelli che si contendono il primato (Gibbon et al., 1984; Killeen e Fetterman, 1988). Tuttavia tutti quanti cercano di spiegare unicamente come riusciamo a stimare una durata temporale (quanto tempo è passato tra due stimoli o quanto tempo è durato uno stimolo), funzione che, tra l’altro, nella quotidianità non usiamo mai perché abbiamo sempre un orologio a portata di mano.

Tutti i modelli sono complessissimi e prevedono diversi moduli cognitivi in cui l’informazione temporale viene elaborata. Tali moduli prevedono sempre il coinvolgimento di una componente sensoriale che elabora la modalità con cui viene presentato lo stimolo che deve essere decodificato (ad esempio modalità uditiva), per la quale si attivano le cortecce sensoriali primarie. Inoltre sono previsti moduli attentivi (devo prestare attenzione allo stimolo temporale per decodificarlo), moduli mnesici (devo rievocare durate simili per capire più o meno in che ordine temporale siamo) e moduli esecutivi (devo confrontare la durata corrente con quelle esperite in passato e rievocate dalle componenti mnesiche per decidere quanto è durato quello stimolo), per le quali si attivano le aree parieto-frontali e temporali.

Insomma, indipendentemente dal modello che consideriamo, che dia più peso alle componenti mnesiche o attentive, pare che per decodificare una durata temporale siano indispensabili molteplici aree cerebrali. Se poi consideriamo gli altri aspetti della percezione temporale di cui sopra ci domandavamo, (ordine temporale e rappresentazione dell’arco di vita) per cui occorrono ulteriori funzioni mnesiche ed esecutive, possiamo dire che tutto il cervello interviene nella percezione temporale (Grondin, 2010). Come non esiste concretamente il tempo, non esiste l’area cerebrale del tempo, come esiste invece l’area dello spazio solidamente localizzato nel lobo parietale destro. Pertanto, ogni volta che abbiamo a che fare con una lesione o disfunzione cerebrale, ovunque essa sia, abbiamo a che fare con un problema nella percezione del tempo. Questo fenomeno si riscontra in modo evidente nel deterioramento cognitivo.

Il deterioramento cognitivo: come si manifesta

Per deterioramento cognitivo si intende una patologia in cui le cellule cerebrali vanno incontro a progressiva necrosi. Una volta iniziato il processo di deterioramento cognitivo non lo si può fermare e l’esito finale è sempre lo stesso. I diversi quadri di deterioramento cognitivo, o demenze per meglio intenderci, si distinguono a seconda delle aree inizialmente coinvolte dal processo di degenerazione cellulare. Nella demenza di Alzheimer le prime aree coinvolte sono l’ippocampo e i lobi temporali mesiali. Il risultato e’ una iniziale perdita di memoria. Nella demenza di Parkinson le prime aree coinvolte sono i gangli della base che proiettano ai lobi frontali e parietali. Il risultato e’ una iniziale perdita delle funzioni di controllo dei movimenti e delle funzioni attentive. Nelle demenze vascolari, le quali si sviluppano a causa di encefalopatia multilacunare diffusa, si riscontra una iniziale perdita delle funzioni attentive, esecutive e visuo-spaziali. In ogni caso, indipendentemente dal quadro dementigeno in atto e dall’area inizialmente coinvolta, avremo un deficit nella percezione temporale che è destinato a peggiorare. Questo non è un problema da poco. E’ vero che perdere la memoria impedisce di apprendere nuove informazioni e rievocarne di vecchie, ma perdere la percezione del tempo disconnette dalla realtà con grosse ripercussioni sull’adattamento all’ambiente.

Il decorso del deficit di percezione temporale nel deterioramento cognitivo

Il primo aspetto della percezione temporale che perde di funzionalità quando è in atto un deterioramento cognitivo è l’orientamento temporale ovvero la capacità di individuare il corretto momento della giornata, della settimana, del mese e dell’anno in cui ci troviamo, senza l’ausilio di indizi come la lettura del calendario. Per orientarsi nel tempo occorre avere appreso la ricorsività di giorni, mesi e stagioni, aspetto non banale per chi ha difficoltà di apprendimento e/o memoria. Occorre focalizzare l’attenzione ed elaborare correttamente gli indizi a disposizione come la luce del sole o la temperatura esterna. Occorre inoltre rievocare altri indizi come ad esempio se si tratta di un giorno lavorativo o feriale e infine tradurre tutte queste informazioni in numeri e nomi astratti e convenzionali. A noi tutti potrebbe sembrare facile poiché abbiamo a che fare quotidianamente con agende, telefoni e impegni lavorativi. Ma basta andare in vacanza e dimenticare il telefono a casa per accorgesi quanto sia immediato perdere qualche giorno e confondere la domenica con il martedì.

In altre parole l’orientamento temporale è una funzione che per operare perfettamente necessita di un cervello perfettamente funzionante. Non e’ un caso che l’orientamento temporale sia compromesso in tutti i quadri dementigeni anche in fase iniziale. Anzi, è il primo campanello d’allarme che ci indica che c’è un’alta probabilità che ci sia un deterioramento cognitivo in atto o che si svilupperà, anche nel caso in cui tutte le altre funzioni operano ancora nella norma (Guerrero-Berroa et al., 2009). Tutti i clinici che si occupano di demenze sanno che le prime 4 domande del Mini-Mental State Examination (MMSE – test breve per la valutazione del deterioramento cognitivo) che indagano l’orientamento temporale, sono estremamente significative per formulare la diagnosi. Anche quando l’errore è soltanto uno e le restanti 29 domande del test sono corrette, comunque ci si insospettisce.

Tractenberg e colleghi (2007), nell’intento di inserire 4 items brevi negli studi epidemiologici per poter indagare il funzionamento cognitivo oltre a quello prettamente medico, hanno individuato i 4 items dell’orientamento temporale del MMSE. In altre parole anche una piccola esitazione nell’orientamento nel tempo è un indice di disfunzione cognitiva, anche se lieve, e un forte predittore di futuro deterioramento cognitivo.

Deterioramento cognitivo: cosa provoca il deficit nella stima temporale?

E’ difficile stabilire quale aspetto della percezione temporale sara’ interessato dal deterioramento cognitivo successivamente all’orientamento temporale. Come dicevamo, ciò dipenderà dalle aree interessate dalla degenerazione cellulare. Certamente, la capacità di stimare la durata di un intervallo o di uno stimolo temporale, per la quale occorre una buona funzionalità di attenzione, memoria e funzioni esecutive, viene ben presto interessata dalla demenza.

Il modello che pare meglio spiegare questa funzione è la SET theory di Gibbon e colleghi (1984). Tale modello postula l’esistenza di un orologio interno che si attiva quando un individuo presta attenzione ad una durata temporale. L’orologio invierebbe pulsazioni costanti per tutta la durata dell’intervallo da stimare. Le pulsazioni sarebbero inviate ad un accumulatore, dopodiché contate. Il conteggio del numero delle pulsazioni rappresenterebbe una prima traccia grezza dell’intervallo temporale, la quale viene confrontata con rappresentazioni di intervalli temporali in memoria. Una volta eseguito il confronto l’individuo sarà in grado di fornire una risposta sulla durata dell’intervallo.

Il processo di produzione e invio di pulsazioni sarebbe localizzato nei gangli della base e sotteso dal sistema dopaminergico (Allison et al., 2011). Le funzioni attentive di focus sull’intervallo e le funzioni esecutive di confronto sarebbero sottese dai lobi frontali e parietali mentre le funzioni mnesiche di recupero di tracce temporali immagazzinate sarebbero sottese dai lobi temporali.

La letteratura su quale sia il processo funzionale del modello che determina un deficit nella stima temporale è scarsa e non del tutto chiara. Verrebbe spontaneo pensare che i pazienti con Parkinson potrebbero avere un deficit a livello della produzione e accumulazione di pulsazioni. Infatti un decremento di dopamina sembra produrre una decelerazione dell’orologio interno mentre un aumento di dopamina sembra produrre un’accelerazione (Perbal et al., 2005). Tuttavia pare che i pazienti con Parkinson mostrino deficit di stima temporale che sono attribuibili a difficoltà di memoria più che a variazioni di velocità dell’orologio interno. Infatti tali pazienti tendono a sottostimare gli intervalli più lunghi e sovrastimare intervalli più corti (Mioni et al., 2015) e commettono maggiormente errori quando gli intervalli da stimare vengono presentati nella stessa sessione, indice che la capacità di mantenere in memoria le tracce temporali gioca un ruolo importante nell’indurre i pazienti con deterioramento cognitivo a sbagliare (Koch et al., 2008).

Un altro studio sulla stima temporale nei pazienti con demenza dimostra che i pazienti con deterioramento cognitivo hanno performances simili in questo tipo di prestazione indipendentemente dalla diagnosi specifica (Heinik, 2012). Questi studi considerati globalmente ci dicono che la stima temporale è una funzione che tende ad essere deficitaria quando le funzioni mnesiche si riducono, ma può essere sufficiente una lieve riduzione della funzionalità della memoria affinché la stima temporale ne risenta. Diversamente i pazienti con Alzheimer ne sarebbero maggiormente colpiti rispetto agli altri quadri.

La Mental Time Travel in pazienti con deterioramento cognitivo

Un altro aspetto controverso della percezione del tempo è la capacità di rappresentarsi il proprio arco di vita sia in modo retrospettivo che prospettivo e spostarsi mentalmente su di esso. Tale capacità viene chiamata Mental Time Travel. I pazienti con Alzheimer, anche nelle fasi precoci del disturbo, sono particolarmente in difficoltà nel rievocare in corretto ordine temporale gli eventi passati. Non solo i pazienti con Alzheimer hanno difficoltà nell’ordinare gli eventi secondo una linea temporale, ma mostrano particolari difficoltà a generare immagini ego-centrate e forniscono racconti frammentati e depersonalizzati (Irish et al., 2011). Per contro, i pazienti con demenza frontotemporale sono maggiormente in difficoltà nel rappresentarsi il tempo in modo prospettico (Irish et al., 2013).

In altre parole, per essere in grado di viaggiare sulla propria linea di vita, è necessario compiere numerose operazioni mentali che coinvolgono memoria autobiografica, capacità visuo-immaginative, capacità esecutive e metacognitive per formulare idee future probabili sulla base di idee passate, ma soprattutto è necessario avere la capacità di rappresentarsi il tempo come dimensione unitaria e continua che ha luogo nei ricordi e termina in immagini formulabili ma non ancora avvenute. E’ una funzione eccessivamente complessa che nel deterioramento cognitivo si riduce presto e che ha un drammatico impatto sulla propria consapevolezza e senso di identità.

Conclusioni: l’importanza della ricerca in tema di deterioramento cognitivo e percezione temporale

Per riassumere abbiamo descritto la percezione temporale come funzione estremamente complessa, la quale si struttura di molteplici componenti. Per avere un corretto orientamento temporale, formulare una corretta stima di una durata di tempo o per essere in grado di rappresentarsi il proprio arco di vita e viaggiare su di esso nel passato e nel futuro, occorre un intatto funzionamento di tutte le funzioni cognitive e quindi un intatto funzionamento di tutte le aree cerebrali. Per questo motivo, quando è presente una disfunzione neurologica come un deterioramento cognitivo, indipendentemente dall’area cerebrale coinvolta e dallo stadio del disturbo, la percezione del tempo viene interessata in almeno una delle sue componenti.

Tutti i pazienti con demenza hanno difficoltà col tempo e tale deficit compromette significativamente l’adattamento all’ambiente. Questi presupposti sono di grande importanza sia scientifica che clinica. Da una parte abbiamo bisogno di modelli maggiormente definiti che descrivono la percezione del tempo in ogni suo aspetto e che non si limitino alla descrizione di tale funzione intesa come capacità di stimare una durata temporale. Dall’altra abbiamo bisogno di maggiori studi che descrivano i deficit temporali nei pazienti con deterioramento cognitivo e come essi interferiscano con il decremento della funzionalità delle altre funzioni cognitive.

In questo modo potremmo pensare alla formulazione di interventi specifici per preservare o rallentare la riduzione di questa funzione, così fondamentale in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Quando si parla di demenza e di interventi di stimolazione cognitiva per questi pazienti si pensa sempre all’attenzione e alla memoria. Ma se il tempo è una dimensione che integra tutte le funzioni ed è così determinante per l’adattamento, l’autonomia e il mantenimento di un senso di consapevolezza di Sé, potrebbe essere utile pensare ad interventi focalizzati primariamente a questa funzione.

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