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Il “contagio emotivo” nei social media: come avviene?

 

In tutti gli utenti, indipendentemente dal grado di sensibilità, le emozioni positive sono risultate essere più contagiose rispetto a quelle negative.

I social media sono usati come principale canale di discussione da milioni di persone ogni giorno.
Gli individui producono, quotidianamente, sui social media, micro-comunicazioni e le emozioni espresse in esse possono avere un impatto sugli stati emotivi degli altri.

Un nuovo studio rivela che le emozioni sono spesso condivise in modo virtuale su Twitter e che quelle positive sono di gran lunga più “contagiose” rispetto a quelle negative.
Alcuni ricercatori dell’Università della California (USC) hanno analizzato 3800 soggetti, scelti random tra gli utenti di Twitter, e hanno scoperto che taluni sono anche più sensibili all’influenza emotiva rispetto ad altri.

Emilio Ferrara, principale autore dello studio e informatico dell’USC, afferma che spesso quello che viene twittato e condiviso sui social-media non ha solo la funzione di essere espressione di sè, ma anche quella di influenzare gli altri.
Le scoperte, frutto della collaborazione di Ferrara e Zeyao Yang (Università dell’Indiana), sono state pubblicate sul giornale PLOS One.
I due studiosi hanno utilizzato un algoritmo che misura la valenza emotiva dei tweet classificandoli in positivi, negativi o neutri. Essi comparano il sentimento del tweet dell’utente, rispetto ai sentimenti di tutti i tweet che appaiono nei feed di tale utente durante l’ora prima.
Numeri superiori alla media di tweet positivi presenti nel feed erano associati alla produzione successiva di tweet positivi, mentre numeri superiori alla media di tweet negativi erano associati alla futura produzione di tweet negativi.

Circa il 20% degli utenti di Twitter erano ritenuti altamente sensibili a quello che i ricercatori chiamano “contagio emotivo”, essendo oltre la metà dei loro tweet identificabili come “influenzati”. Tali utenti erano condizionati circa quattro volte in più da tweet positivi rispetto ai tweet negativi.
Quelli meno sensibili al contagio emotivo, risultavano comunque sempre essere influenzabili, circa due volte in più, da tweet positivi rispetto a quelli negativi.

In tutti gli utenti, indipendentemente dal grado di sensibilità, le emozioni positive sono risultate essere più contagiose rispetto a quelle negative.
[blockquote style=”1″]Questo può essere rilevante per pianificare interventi sugli utenti che soffrono di depressione o di altre forme di disturbi dell’umore[/blockquote] sottolinea Ferrara.

Lo studio si basa su decenni di ricerche che dimostrano, in primo luogo, che le emozioni possono essere diffuse attraverso contatti personali, scoprendo ora che esse possono diffondersi altrettanto bene attraverso le interazioni on-line.

Tuttavia, l’analisi dei messaggi sui social media può essere impegnativa: Facebook lo scorso anno è stato criticato per aver modificato il News Feed di circa 700000 utenti, tentando di dimostrare un effetto simile a quello descritto nell’ articolo. Differentemente, Ferrara e Yang non vanno a manipolare ciò che gli utenti di Twitter stanno vivendo ed esprimendo, ma più semplicemente si limitano ad osservare ciò che è già stato espresso e ad analizzarlo.

La proteina prionica è protettiva contro l’epilessia: confermato con accuratezza senza precedenti il ruolo neuroprotettivo di PrPC

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) – COMUNICATO STAMPA

Un nuovo studio, il più sistematico e rigoroso finora compiuto in questo campo, stabilisce chiaramente uno dei ruoli benigni della proteina prionica (PrPC): la sua presenza nel cervello ha un ruolo nel prevenire l’insorgenza delle crisi epilettiche.

PrPC è forse più nota nella sua forma degenerata, il prione, l’agente infettivo alla base di alcune pericolose malattie neurodegenerative come per esempio il morbo della mucca pazza. Allo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports (gruppo Nature) ha collaborato anche la SISSA.

Da tempo gli scienziati si interrogano su quale sia il ruolo fisiologico di PrPC nel suo stato fisiologico normale. Studi precedenti avevano suggerito che fra queste funzioni vi fosse anche quella di evitare l’insorgenza di scariche epilettiche nel cervello (modulando probabilmente l’azione di canali sinaptici specifici), ma c’è chi aveva messo in dubbio la validità di queste ricerche.

L’idea era che, in passato, i modelli animali non fossero sufficientemente specifici e che le osservazioni fossero il prodotto di un errore, sistematico, sperimentale

spiega Giuseppe Legname professore della Scuola internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. Legname è fra gli autori della nuova ricerca.

Con il nostro lavoro abbiamo voluto fugare ogni dubbio. Abbiamo utilizzato ben 4 modelli animali, proprio per mettere alla prova l’ipotesi neuroprotettiva di PrPC rispetto all’epilessia

Risultato?

PrPC ha sicuramente un ruolo nell’evitare le scariche epilettiche, quando manca infatti queste sono molto più frequenti.

Questo studio si pone ora come un riferimento importante nel suo campo:

Nessun altro finora ha utilizzato questa precisione e quest’ampia casistica. Lo studio è di spessore anche dal punto di vista della collaborazione fra istituti internazionali: la SISSA, ma anche l’Università di Barcellona, il Centro Tedesco per le Malattie Neurodegenerative di Gottinga, e altri istituti spagnoli

conclude Legname:

Naturalmente non ci fermeremo qui: stiamo infatti già continuando a migliorare i nostri risultati con un nuovo modello sviluppato utilizzando nuove tecniche genetiche avanzate e molto più precise che riesce a spegnere selettivamente solo la proteina prionica.

 

Per l’articolo originale clicca qui. 

Immagini:

Crediti: G.Giachin & G.Legname (SISSA)

Contatti Ufficio  stampa:

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Tel:  (+39)  040  3787644  |  (+39)  366-­‐3677586    

via Bonomea, 265, 34136 Trieste    

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Cannabis: può essere terapeutica per la prevenzione dell’epilessia

Inside Out sorprende ancora: il primo appuntamento di Riley

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out e di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni. Successivamente ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Abbiamo inoltre analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia- psicoeducazione. E’ stato pubblicato, infine, un articolo su come, grazie al film Disney, l’educazione emotiva abbia raggiunto il grande schermo (NdR).

Inside Out ci sorprende ancora: i creatori Disney hanno ideato un nuovo cortometraggio in vista dell’uscita di DVD e Blu-Ray del film (nei quali sarà inserito come contenuto speciale).

Il cortometraggio racconta del primo appuntamento di Riley con un ragazzo: cosa succederà nella mente dei vari protagonisti? Quali emozioni si attiveranno nei genitori che, inaspettatamente, fanno i conti con questo momento? E la giovane Riley si lascerà guidare da Gioia, Tristezza o dalle altre emozioni?

Non ci resta che aspettare, nel frattempo un’anteprima del cortometraggio:

 

I poco amati, o indegni dell’amore – Tracce del Tradimento Nr. 32

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXII: Il/La poco amato/a 

 

Alcuni cercatori di tracce di tradimento hanno lo scopo di ritornare a stare soli. Alcuni cercatori hanno la convinzione di essere tradibili, che sia pensabile al suo uomo o alla sua donna di preferire qualcun altro. Ha un dubbio sull’amore dell’altro perché ha un dubbio sulla sua dignità di essere amato e amabile.

Luigi era cresciuto in una famiglia spezzata dove il padre aveva precocemente abbandonato la casa e i figli senza da allora ricordarsi quasi mai di cercarli: questa mancanza precoce e il disinteresse che ne era seguito erano stati molto dolorosi per lui. Il padre di Luigi aveva poi avuto altre due mogli e altri figli e più si complicava la sua situazione, più era distaccato, lontano, squalificante quando riceveva da Luigi richieste di presenza o di affetto. Per tutti un esempio, una pasqua tra un matrimonio e l’altro aveva trascorso la festa con i figli di primo letto rendendo Luigi felice e incredulo. Egli aveva già 35 anni ma i suoi occhi e il suo interesse erano orientati con forza a ottenere dal padre rassicurazioni emotive e affetto. L’anno dopo Luigi aveva chiamato il padre per chiedergli se sarebbe stato presente e distrattamente egli aveva detto di sì. Ma la sua situazione matrimoniale era nel frattempo cambiata e la nuova moglie non voleva incontrare Luigi. Il padre non venne, e lo fece senza avvisare né spiegare nulla. Per Luigi questa fu la prova della sua posizione di povero uomo senza valore. Essere trascurato senza spiegazioni lo faceva pensare a un essere isolato, indegno, destinato a solitudine. Ebbe una depressione e in questa depressione cominciò a cercare le prove del tradimento di sua moglie. L’emozione dominante non era l’ansia o la paura ma la tristezza, cercava tracce con la convinzione ferma e indistruttibile che il tradimento fosse l’ineluttabile coronamento della sua storia affettiva. Come poteva un uomo come lui essere amato e stimato nel tempo con fedeltà? Rispondeva quasi con rabbia alle rassicurazioni affettuose della moglie.

Il cercatore depresso ha un problema di fiducia che deriva proprio da questo, da una visione di se stesso come scarsamente degno di amore, di passione e di rispetto. Egli pensa del suo uomo o della sua donna che sono affascinanti e desiderati. E costruisce così lo scopo di cercare tracce. Cercare tracce è un’attività dolorosa che viene vista come una sorta di giusta modalità di rimettere le cose a posto e vissuta come ineluttabile. Molte volte alla fine può accadere che le tracce di qualche presente o passato tradimento vengano alla fine trovate, oppure che a qualche segno neutro si dia una interpretazione nefasta. La sensazione soggettiva sarà allora, quasi di gioia. Di soddisfazione, di giusta soddisfazione. Egli sarà rassicurato nelle sue credenze sul disamore e sulla dolorosa superiorità del fascino dell’altro insieme al suo proprio personale disvalore. Le tracce vengono in questo caso a rappresentare una filosofia generale sul mondo. Non vi è gioia e non vi è giustizia e la sfortuna si accanisce in modo arbitrario su alcuni privandoli di un destino felice anche soltanto immaginabile. La certezza del disamore è per questa persona preferibile alla navigazione nei terreni incerti dell’amore dubbioso, tormentato. Non sempre in questi casi si decide, si è in grado di decidere di separarsi, ma quando alla fine ci si ritrova soli si è almeno certi del torto subito e della propria filosofia. A volte invece si abbandona con uno scontro aperto e un abbandono impulsivo, rabbioso dimostrativo. All’altro non viene lasciata nessuna possibilità di recupero e dialogo, ci si ritrova soli, vittime, pieni di amaro. Il fatto che il tradimento soltanto immaginato sia stato accertato o fortemente sospettato crea uno stato di dolorosa certezza.

Allora è vero, effettivamente io sono uno di quelli destinati a stare soli, per sfortuna, per destino, per il volere degli dei nefasti. Le cose dopo il disordine e le paure del rapporto sono a posto, sono di nuovo in ordine, è vero sono destinato a stare solo. Paradossalmente da questa nuova e dolente prospettiva il mondo è divenuto più prevedibile, maggiormente rassicurante, è avvenuto ciò che è giusto e che mi aspettavo, sono dolente ma più calmo.

Ma a volte realmente non esiste tradimento e si è costretti a fare i conti amaramente con la fedeltà dell’altro. Se non riesce a trovare tracce non si placa perché il tormento dell’incertezza fa sentire come preferibile l’abbandono, la lotta a questo vuoto, a questo rimuginare. Ma anche quando si è capaci di rassegnarci al miracolo di una relazione profonda e solida da parte del partner questo è difficile che basti a costruire, a recuperare una visione del mondo meno dura e dolorosa, e spesso verso il proprio compagno si diventa sfidanti, distanzianti, e non capaci di dialogo affettuoso e piacevole. A volte il compagno affettuoso viene svalutato proprio per questa sua affettuosità per un uomo o una donna così indegni. Forse anche lui è un poveretto o un essere squallido e senza alternative.

Una paziente di mezza età non capiva perché la situazione familiare, nonostante i figli fossero pieni di risorse e energia e nonostante la situazione economica fosse abbastanza florida, fosse rovinata dall’ atteggiamento negativo sfiduciato e sfidante del marito che tornando a casa non ripeteva altro che osservazioni amare sul mondo e sull’ inutilità di tutto. Lo faceva quasi a sfidarla, con rabbia e lei non riusciva a rassicurarlo in nessun modo. Questa situazione la stava facendo diventare realmente preoccupata e depressa, perché [blockquote style=”1″]come faccio dottoressa a pensare di invecchiare con uno che mi accusa sempre che tanto lo lascerò perché così va il mondo, io non vorrei lasciarlo, so come è fatto, so come è pessimista ma alla fine ho 60 anni, stiamo insieme da trentacinque anni e gli sono affezionata e dove crede che io voglia andare, ma insomma se continua così tra un po’ finisce che vado a Bergamo a vivere vicina a mia figlia che me lo chiede sempre, e lo lascio solo, anche se mi fa pena…[/blockquote]

Dal punto di vista di lui nulla può servire a stare bene, se la moglie rimane in casa egli è sospettoso e tormentato da timori e ossessioni, se alla fine, stanca va a vivere dalla figlia, egli ha la conferma che non gli voleva bene e che egli era nel giusto con i suoi comportamenti sospettosi e timorosi. Come emerge con chiarezza da questo esempio l’unica cosa certa è la ripetitività dei comportamenti di lui e la ricorsività delle emozioni negative e la impossibilità a uscire dal circolo vizioso della sofferenza subita e indotta nell’ altro.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Intelligenti si nasce? Verso una visione incrementale delle capacità cognitive

Corinne Oppedisano

 

L’intelligenza è una capacità complessa di cui la definizione e l’ operazionalizzazione risultano complesse e dunque molteplici. Per Piaget l’intelligenza è una forma di adattamento dell’organismo all’ambiente fisico e sociale circostante, secondo una reciproca influenza che riguarda non solo la capacità dell’ambiente di modificare l’organismo ma anche la possibilità per l’organismo di agire attivamente sull’ambiente a proprio vantaggio.

Secondo Dweck, le teorie dell’intelligenza possono essere suddivise in due macrocategorie: le teorie entitarie e quelle incrementali. Il primo gruppo di teorie concepisce l’intelligenza come una forma fissa e data, un’entità stabile e immodificabile, un patrimonio che ogni individuo riceve alla nascita e sul quale non ha nessuna possibilità di accrescimento. Secondo le teorie incrementali, invece, le abilità cognitive sarebbero il risultato delle stimolazioni ambientali e delle esperienze di apprendimento che, a partire dal patrimonio di risorse individuali, permettono un ampliamento, non tanto della conoscenza, quanto degli strumenti di analisi e comprensione del reale che consentono un arricchimento dei mezzi verso la conoscenza.

Ognuno di noi ha la propria teoria implicita dell’intelligenza, una concezione sulle abilità cognitive che è in grado di determinare atteggiamenti diversi di fronte alle sfide da affrontare e differenti reazioni al fallimento. Coloro che possiedono una visione entitaria dell’intelligenza preferiscono affrontare compiti in cui sanno di riuscire, questo perché il fallimento è vissuto come una conseguenza della propria immodificabile incapacità di affrontare il compito. Ciò induce a evitare situazioni incerte che potrebbero in realtà rappresentare delle preziose opportunità di apprendimento.

Il ritenere di poter accrescere le proprie potenzialità cognitive induce invece a cercare attività sfidanti che rappresentano delle occasioni per acquisire nuove capacità. Anche il fallimento dunque non rappresenta la reificazione di uno status quo di immodificabile mancanza, quanto piuttosto l’opportunità di capire che bisogna cambiar strategia e adottare nuove soluzioni, più adatte alla richiesta dell’ambiente. Ne consegue che la teoria dell’intelligenza determina un atteggiamento verso l’apprendimento che risulta centrale in tutti i contesti formativi e lavorativi, primo fra tutti la scuola. Incoraggiare la discussione sulle teorie implicite dell’intelligenza che guidano un alunno può rappresentare una preziosa occasione per accompagnare verso una modificazione dell’atteggiamento nei confronti dello studio ma anche più in generale nei confronti delle situazioni extra-scolastiche.

Le potenzialità della discussione sulle teorie dell’intelligenza sono molteplici perché da un lato agiscono sulla propensione ad affrontare compiti sempre più difficili, dall’altro permettono di risignificare l’errore, il quale non è più un segno della propria mancanza ma un’opportunità di rimettersi in discussione e fare meglio. Bisogna evidenziare altresì come sia importante favorire una visione incrementale dell’intelligenza prima di tutto nei formatori coinvolti nelle sfide educative, come gli insegnanti. Un docente che ha un modello entitario dell’intelligenza favorirà l’interiorizzazione dello stesso tipo di teoria anche negli alunni a cui insegna. Un insegnante che crede nella modificabilità cognitiva strutturale dell’alunno, al contrario, può incoraggiare il cambiamento, favorire la crescita e determinare nuovi stili di apprendimento. Anche i genitori hanno un ruolo centrale nel determinare l’adozione di un modello di intelligenza incrementale. In particolare la lode in seguito al successo, così come la critica di fronte all’insuccesso, favoriscono una visione incrementale dell’intelligenza quando sono rivolte alle strategie e all’impegno che il bambino ha posto nel compito. Al contrario lodare o criticare la persona induce a ritenere che la prestazione sia centrale nel definire il valore di sé e questo instilla la paura del fallimento che rappresenta un forte ostacolo alla crescita personale.

L’adozione di un modello incrementale dell’intelligenza ha dato vita negli ultimi decenni a numerosi programmi di educazione cognitiva la cui finalità è accompagnare la persona verso un cambiamento che sperimenterà attivamente in prima persona. Fra questi ricordiamo il metodo Feurestein che, facendo della modificabilità cognitiva strutturale il presupposto imprescindibile dell’intervento, attraverso un’esperienza di apprendimento mediato, si propone di accompagnare la persona verso una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità e del proprio stile cognitivo e verso una sperimentazione di nuove modalità di pensiero, il tutto nel contesto di una relazione con il mediatore- formatore che restituisce importanza anche agli aspetti emotivi delle situazioni di apprendimento. Una buona relazione fra formatore e discente appare dunque come il presupposto irrinunciabile sul quale si fonda la discussione e la ridefinizione dell’ intelligenza che rendono possibile l’inizio di un percorso verso una maggiore consapevolezza del proprio funzionamento mentale e una maggiore autonomia.

L’utilizzo della mindfulness nel trattamento delle dipendenze patologiche

Francesca Mazzocco, Claudia Soldi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Questo lavoro mira ad integrare i due costrutti “Mindfulness” e “Addiction”, come chiave per comprendere i modelli neuropsicologici che si basano sull’addiction e gli interventi psicoterapeutici che derivano da essi.

 

A tal proposito l’apporto dei processi di mindfulness è cruciale sia da un punto di vista teorico e sia da un punto di vista applicativo in alcuni recenti approcci psicoterapeutici, tra cui ad esempio la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Functional Analytic Psychotherapy (FAP).

Tutti i modelli terapeutici che includono i processi di mindfulness, hanno come scopo principale quello di portare la persona a modificare alla radice il rapporto con le proprie esperienze interne ed in generale.
L’obiettivo è quello di sviluppare l’abilità di ognuno di noi, di osservare la propria esperienza mentre accade e non solo quella di esserne il soggetto, il protagonista e l’attore.

Questa capacità del sé di osservarsi in azione in modo non giudicante e non orientato a modificare in alcun modo ciò che si sta osservando, crea quello spazio, quel decentramento necessari a perseverare nelle proprie scelte e nei propri comportamenti anche in presenza di esperienze di vita dolorose e spaventose. Da qui l’emergere di modelli psicologici che si fondano sulla constatazione dell’ubiquità della sofferenza umana e della conseguente impossibilità di liberarsene o di risolverla, stimolando lo sviluppo e l’applicazione in ambito terapeutico di principi e metodi profondamente radicati nella psicologia orientale, con l’esigenza di integrare diversi approcci valorizzando quelle componenti innate della natura umana, decisive nell’influenzare la lettura degli eventi, i comportamenti e gli stati emotivi dell’individuo.

Tali componenti possono essere individuate nell’accettazione dell’esperienza (Hann, 1998; Hayes, Strosahl, Wilson 1999), nell’atteggiamento compassionevole verso la propria e altrui sofferenza (Gilbert, 2005), nella capacità di auto-osservazione non giudicante (Kabat-Zinn, 1990), nell’idea che la mente può osservare se stessa e comprendere la propria natura (Dalai Lama, Benson, Thurman, Goleman e Gardner, 1991).
La capacità peculiare di tali componenti è quella di dirigere l’attenzione verso la sfera emotiva e verso il rapporto di interdipendenza e reciproca influenza tra mente e corpo (Goleman, 1991), e più in generale in un atteggiamento capace di armonizzare e normalizzare le variabili intra e interpersonali.

Tutte queste componenti possono essere riassunte nel concetto di mindfulness.
La mindfulness consiste quindi nella capacità di sviluppare e mantenere un’attenzione consapevole, non è una tecnica di rilassamento, bensì una pratica per sviluppare l’attenzione volontaria.
Secondo la definizione di Joan Kabat-Zinn (1990), mindfulness significa [blockquote style=”1″]Porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante.[/blockquote] Si tratta quindi di stato mentale correlato a particolari qualità dell’attenzione e della consapevolezza, in cui la persona ascolta e osserva le proprie emozioni, le proprie sensazioni fisiche e i propri pensieri, accettandoli così come sono, senza giudicarli, senza cercare di modificarli, né bloccarli.
La pratica della mindfulness si propone quindi, di aiutare a sostituire nella vita quotidiana comportamenti reattivi, automatici e distruttivi con scelte consapevoli e appropriate al contesto.
La mindfulness, nella concezione più generale del termine, propone un modo di essere consapevoli, che può servire come via d’accesso a un modo più vitale di essere nel mondo; in pratica, imparando ad essere mindful, riusciremo a sintonizzarci con noi stessi: [blockquote style=”1″]Essere consapevoli della pienezza della nostra esperienza ci rende consapevoli del mondo interno della nostra mente e ci immerge completamente nella nostra vita[/blockquote] (Siegel, 2009).

La mindfulness non cambia i contenuti della nostra mente (pensieri) ma le nostre relazioni con essi e si presenta come uno strumento che può essere integrato ad una terapia.
Come afferma Kabat-Zinn (1990), infatti i pensieri sono solamente pensieri, non rappresentano la realtà; la consapevolezza che noi non siamo i nostri pensieri porta al distanziamento da essi e alla possibilità di entrarci in relazione per quello che in realtà sono: semplici eventi mentali, indipendentemente dal loro contenuto o dalla loro carica emotiva.

In ambito clinico, la mindfulness rientra negli orientamenti terapeutici della cosiddetta terza onda della terapia cognitivo-comportamentale ed è stata sviluppata in una serie di protocolli molto efficaci per affrontare e superare il dolore cronico e lo stress, le recidive depressive, le ricadute nella dipendenza da alcool e sostanze (in cui focalizzeremo l’attenzione), e nei disturbi alimentari (MBSR- MindfulnessBased Stress Reduction; MBCT- MindfulnessBased Cognitive Therapy: MBRP- MindfulnessBased Relapse Preention; MB-EAT- MinfulnessBasedEatingAwareness Training).

Le dipendenze (Addictions)

La dipendenza comporta l’uso di sostanze, che a loro volta creano uno stato alterato di coscienza, con una modalità compulsiva e distruttiva che induce a ricercare il piacere ed evitare il dolore (il paradigma della fuga).

Quindi, se la dipendenza implica mancanza di consapevolezza e fuga, di conseguenza l’essenza della cura è un approccio che mira ad aiutare la persona a ricordare, ad aumentare la consapevolezza e la capacità di sperimentare la vita con lucidità senza evadere. La mindfulness è proprio questo genere di pratica, è l’essere aperti all’esperienza momento per momento in modo non giudicante, e il ruolo del terapeuta è proprio quello di favorire un cambiamento nella consapevolezza e di rendere più evidenti le conseguenze negative dell’uso di sostanze. Il tipo di consapevolezza richiesta varia a seconda delle fasi di cambiamento.

Prochaska e Di Clemente (1986) hanno svolto un’analisi dei fattori riguardanti le fasi attraverso le quali si passa per cambiare un comportamento che crea dipendenza e successive ricerche hanno scoperto che è possibile tracciare queste fasi non solo nelle dipendenze, ma in ogni genere di cambiamento nel comportamento umano. Nel modello completo a sei fattori le fasi sono: pre-contemplazione (significa non-consapevolezza, in questa fase la persona semplicemente non sa che c’è un problema, non si tratta di negazione, poiché quest’ultima indica che il problema esiste ma che l’individuo si rifiuta di riconoscerlo); contemplazione (la persona è impegnata in un dialogo interiore per scoprire se il problema è reale o meno); determinazione (in questa fase la persona è pronta per il cambiamento, e per passare alla fase successiva, deve percepire che ci sono possibilità che rendono possibile il cambiamento); azione (in cui la persona compie i passi concreti richiesti dal cambiamento); mantenimento (rappresenta la fase più difficile e significativa, prevedere situazioni difficili che possono emergere, es. una festa di nozze in cui si possono trovare alcolici); ricaduta (quando le persone non riescono a modificare al primo tentativo i comportamenti che creano dipendenza). Per questo è importante che il terapeuta conosca bene le fasi in cui il paziente si trova in modo da offrirgli le terapie appropriate.

Volkow, (2007) definisce la tossicodipendenza una malattia complessa ma curabile, che colpisce le funzioni cerebrali e modifica il comportamento. L’uso di droghe altera la struttura e le funzioni cerebrali provocando cambiamenti che persistono nel tempo, anche dopo l’interruzione dell’uso, oltre ad esporre le persone al rischio di sviluppare numerosi altri disturbi fisici e mentali legati agli effetti tossici della droga stessa.
Proprio perché la tossicodipendenza coinvolge così tanti aspetti della vita personale di un individuo, non esiste un unico trattamento efficace in assoluto. Le nuove scoperte scientifiche nel campo del neuroimaging ci mostrano l’efficacia di nuove terapie farmacologiche e comportamentali, per la dipendenza.

I pazienti che abusano di sostanze ricevono generalmente un trattamento psicoterapico al fine di:
• ottenere una modifica comportamentale nei confronti dell’uso di sostanze;
• affrontare le patologie correlate all’uso di sostanze, come depressione, ansia, disturbi post-traumatici da stress (PTSD) e disturbi di personalità.
Sebbene, ad oggi, molte ricerche si siano focalizzate sul trattamento farmacologico (Koob GF, 2000), recenti studi hanno scoperto che mirare a specifiche disfunzioni neurobiologiche, utilizzando tecniche di trattamento cognitive e comportamentali, può rivelarsi importante anche nella prevenzione delle ricadute (DeVito EE et al., 2012; FeldsteinEwing SW et al., 2011; Goldstein RZ et al., 2009; Naqvi NH &Bechara A, 2010; Potenza MN et al., 2011; Volkow ND et al., 2010).

Potenza e colleghi (2011), nella loro revisione dei meccanismi neurali che potrebbero essere alla base dei trattamenti per la dipendenza, suggeriscono che i trattamenti comportamentali potrebbero essere più efficaci nel cambiamento della corteccia prefrontale e del funzionamento esecutivo (ad esempio, i processi top-down), mentre gli interventi farmacologici sembrano essere più efficaci nel cambiamento dei circuiti striatali della ricompensa (ad esempio, i processi bottom-up). Coerentemente con queste ipotesi, Volkow e colleghi (2010) hanno addestrato delle persone con dipendenza da cocaina ad inibire intenzionalmente le risposte al craving per la cocaina, e utilizzando la PET, hanno trovato che l’inibizione cognitiva attiva del craving per la droga era associato con diminuita attività metabolica nel nucleo accumbens e nella corteccia orbitofrontale mediale destra, rispetto ad un gruppo che non doveva cercare di inibire il craving per la sostanza.

Secondo questi autori, interventi cognitivi progettati per rafforzare il controllo inibitorio e diminuire l’impulsiva ricerca della droga in risposta a stimoli correlati ad essa, possono essere utili nel trattamento della dipendenza.
In un altro studio, Janes e colleghi (2010) hanno utilizzato la fMRI per esaminare le risposte di 21 donne fumatrici ad immagini legate al fumo rispetto a immagini neutre. Successivamente hanno condotto sondaggi di follow-up durante 8 settimane di un intervento comportamentale e farmacologico per smettere di fumare. Coloro che hanno continuato a fumare sigarette durante le 8 settimane di trattamento, hanno mostrato un aumento della risposta BOLD (Blood Oxygen Level Dependent) agli stimoli legati al fumo, al momento della valutazione iniziale, nell’insula, nell’amigdala, nell’ACC, nella corteccia prefrontale e in numerose altre aree. Le analisi della connettività funzionale inoltre, hanno rivelato una diminuita connettività funzionale tra le regioni della corteccia prefrontale e l’ACC e l’insula, suggerendo che chi fumava una sigaretta avrebbe potuto mostrare un minor controllo top-down ed una maggior consapevolezza enterocettiva bottom-up degli stimoli fumo-correlati.

Questo pensiero si allinea con quello di Goldstein e colleghi (2009), i quali hanno proposto che un training cognitivo per migliorare la consapevolezza di sé e ridurre i bias attenzionali verso gli stimoli della droga possa aiutare a prevenire le ricadute. Witkiewitz e colleghi (2012) ipotizzano che un trattamento basato sulla mindfulness, una nuova tecnica cognitivo-comportamentale basata sulla consapevolezza, possa essere ideale per mirare a ciascuna di queste aree. La Mindfulness-based Relapse Prevention (MBRP) è una tecnica cognitivo-comportamentale per la prevenzione delle ricadute nei pazienti tossicodipendenti (Witkiewitz K et al., 2012).

Un gruppo di ricercatori della Washington State University ha da poco pubblicato una revisione della letteratura sugli studi che hanno utilizzato questa tecnica nella fase post-terapeutica del percorso di disintossicazione, per indagarne i possibili meccanismi neurobiologici sottostanti. I più forti predittori di recidiva nei pazienti tossicodipendenti sono il craving e l’affettività negativa. Il primo è definito come spinta e desiderio soggettivo di consumare sostanze stupefacenti, la seconda rappresenta la disposizione individuale a sperimentare stati emotivi avversi, che si accentua nei periodi particolarmente stressanti. È per questo che la maggior parte dei trattamenti contro la dipendenza da sostanze stupefacenti si concentra sulla riduzione del desiderio di assumere sostanze e sulla gestione dello stress. Si ritiene che il motivo delle ricadute possa essere collegato ad un deficit funzionale nel sistema prefrontale di controllo esecutivo (top-down), nel circuito della gratificazione striatale ventrale (bottom-up) oppure nel circuito di apprendimento delle abitudini dello striato dorsale.

Secondo gli autori, le evidenze che emergono dalla metanalisi suggeriscono che la MBRP influenza e modifica in maniera efficace i processi automatici (bottom-up): il sistema di risposta allo stress, il sistema di reattività emozionale (compresi l’insula, la corteccia cingolata anteriore e l’amigdala) ed il comportamento di ricerca automatica della droga (che coinvolge lo striato). In sinergia con interventi comportamentali mirati, la pratica della mindfulness è associata anche al potenziamento dei processi top-down (funzionamento esecutivo, controllo cognitivo, regolazione dell’attenzione e delle emozioni, controllo inibitorio, motivazione e decision-making) attraverso cambiamenti nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ventromediale, nella corteccia orbitofrontale, nell’ippocampo e nell’insula. Sebbene, ad oggi molte ricerche si siano focalizzate sul trattamento farmacologico (Koob GF, 2000), tali studi hanno mostrato che mirare a specifiche disfunzioni neurobiologiche, utilizzando tecniche di trattamento cognitive e comportamentali, può rivelarsi importante anche nella prevenzione delle ricadute (De Vito EE et al.,2012; Feldstein Ewing SW et al., 2011; Goldstein RZ et al., 2009; Naqvi NH & Bechara A, 2010; Potenza MN et al., 2011; Volkow ND et al., 2010).

Mindfulness & Dipendenze, la prevenzione delle ricadute: Mindfulness Based Relapse Prevention

Il programma MBPRP (Mindfulness Based Relapse Prevention) basato sulla mindfulness si sviluppa per la prevenzione delle ricadute nella tossicodipendenza. I Disturbi da uso di sostanze sono condizioni croniche recidivanti dove quindi la ricaduta ne caratterizza il decorso. In particolare si manifesta il craving cioè un desiderio intenso di assumere una sostanza psicotropa i cui effetti sono già stati sperimentati in precedenza, dove generalmente si intrecciano ricerca del piacere ed evitamento del dolore. In tutti i differenti interventi la ricaduta rimane un problema cruciale presente in più della metà dei soggetti. La prevenzione alla ricaduta è quindi la sfida più importante nei trattamenti per le tossicodipendenze.
La peculiarità di questo programma terapeutico risulta quindi essere la combinazione fra pratica meditativa e modello RP (Relapse Prevention) cioè un intervento cognitivo-comportamentale volto a prevenire e gestire le ricadute.

Come riportato precedentemente i modelli di trattamento basati sulla mindfulness condividono l’obiettivo principale di modificare alla radice il rapporto con la propria esperienza, in particolare con quella interna, sviluppando le abilità di osservarla proprio mentre accade. Questo dovrebbe aiutare a trovare uno spazio per mentalizzare i propri bisogni e stati di sofferenza. La mindfulness vuole aiutare a sviluppare la possibilità di non reagire automaticamente o inconsapevolmente, essa può essere considerata la via d’uscita dal nostro stato di trance quotidiano dove siamo in balia di condizionamenti consci ed inconsci, abituali ed automatici.

Il programma MBRP si svolge in gruppo ed è mirato sull’esperienza diretta al fine di riflettere lo scopo centrale della mindfulness: osservare quello che sta succedendo nel momento invece che perdersi in interpretazioni e storie raccontate. Nelle diverse sessioni viene dato rilievo alle sensazioni corporee, ai pensieri ed alle emozioni e per questo i partecipanti vengono spesso spronati a tornare all’esperienza immediata. Con la mindfulness si tenta di gestire craving ed impulsi osservandoli e senza farsi travolgere dentro. La mindfulness, infatti, vuole aiutare questi pazienti a vedere le cose per come sono: riconoscere, sentire e accettare il disagio quando si manifesta e cercare di comprenderlo invece che rifuggirlo. Si mira inoltre a fornire strumenti su come far fronte alle ricadute: se l’individuo acquisisce nuove strategie di coping nelle situazioni stressanti, il senso di autoefficacia viene potenziato e le probabilità di ricaduta si riducono.

Nel programma i partecipanti si mettono in gioco in prima persona riportando situazioni di potenziale difficoltà e rischio, da questi racconti si identificano quindi stimoli e situazioni che rendono particolarmente vulnerabili i partecipanti e si identificano successivamente insieme abilità concrete da usare in queste occasioni.
La mindfulness aiuta in quanto favorisce un più ampio senso di scelta, compassione e libertà. L’obiettivo di queste pratiche è incrementare la consapevolezza dei segnali e delle reazioni automatiche, sviluppare una nuova relazione con queste esperienze e favorire l’apprendimento di strategie pratiche da utilizzare in situazioni ad alto rischio. Riprendendo una metafora del programma si mira ad imparare a “cavalcare l’onda del craving senza esserne travolti”. Qui è quindi utile accettare craving e desideri in modo da poterli esplorare, osservare e successivamente gestire in modo da incrementare il senso di autoefficacia.

La ricaduta viene quindi vista come un evento comune e considerata come un’opportunità di apprendimento piuttosto che un fallimento. Il fallimento viene infatti visto come autoaccusa e senso di colpa esponendo il soggetto ad un rischio maggiore di ricaduta.
Tramite gli esercizi di mindfulness si vuole aiutare il paziente affetto da dipendenza da sostanze a prendere coscienza del ventaglio di scelte a sua disposizione uscendo quindi dalla “trappola mentale” della dipendenza. Questo permette di uscire dagli schemi mentali e dalle reazioni automatiche.
Il programma è rivolto a soggetti già in astinenza dalle sostanze, in particolare si tratta di un programma ambulatoriale di aftercar per consolidare i risultati ottenuti. Prima del gruppo si svolgono brevi colloqui individuali coi partecipanti per conoscenza e per sviluppare l’alleanza terapeutica, viene spiegato il protocollo ed indagata la motivazione.

Il programma viene svolto in gruppi di circa 6-12 partecipanti e consiste in un gruppo chiuso. Esso consiste in otto sessioni a cadenza settimanale della durata di circa due ore l’una. Il setting ideale deve avere tappetini, cuscini e pouff in modo da permettere di sedersi sul pavimento comodamente.
Il clinico che conduce il protocollo deve avere esperienze di mindfulness, questo perché la propria esperienza personale rende maggiormente in grado di supportare le altre persone nella pratica.
Ogni incontro inizia con un momento di meditazione per promuovere maggiore consapevolezza e presenza e termina distribuendo le schede dei compiti. Ogni settimana vengono infatti dati dei compiti da svolgere a casa i quali vengono poi usati come materiale nelle sessioni successive. Durante le sessioni è molto importante rivedere i compiti svolti a casa e chiarire eventuali dubbi e difficoltà. Spesso capita infatti che aver vissuto sentimenti di malessere durante la pratica venga letto come un aver svolto male la pratica perché in automatico viene vista come qualcosa che deve essere piacevole e rilassante. La mindfulness invece vuole creare consapevolezza ed uno spazio per ogni esperienza incluso malessere e stress e spesso la fatica è più nel tentativo di controllare questi aspetti che viverli.

Le otto sessioni sono così suddivise:
Nelle prime tre sessioni si lavora sulla pratica della consapevolezza e sulla sua integrazione nella quotidianità.
Nelle tre sessioni centrali si mira all’accettazione dell’esperienza presente e all’applicazione nella prevenzione della ricaduta.
Nelle ultime due sessioni si estende la pratica a questioni legate alla cura del sé, alla rete di supporto ed a uno stile di vita equilibrato.
Dal punto di vista della ricerca l’approccio è di tipo evidence-based. Studi sottolineano che soggetti che svolgono questo programma hanno livelli inferiori di craving o abuso di sostanze in risposta a stati affettivi negativi (Witkiewitz, lustyk, Bowen 2012). Risultati di uno studio indicano una significativa diminuzione del craving, incremento dell’accettazione e tendenza ad agire con consapevolezza (Bowen, Chawla, Collins, 2009).

Le sessioni del programma Mindfulness Based Relapse Prevention

SESSIONE 1 – PILOTA AUTOMATICO E RICADUTA

Nella prima sessione si affronta il tema del “pilota automatico”: l’azione senza consapevolezza. Si vuole infatti introdurre ai soggetti il concetto che quotidianamente agiamo con il “pilota automatico”, tuttavia è possibile imparare a discriminare fra modalità automatica e consapevolezza per giungere ad osservare cosa accade nella mente e nel corpo senza reagire in modo automatico. Successivamente si discute il nesso tra pilota automatico e ricaduta in quanto davanti a craving ed impulsi la reazione è spesso da “pilota automatico”. Il primo esercizio viene quindi definito “esercizio dell’uvetta” e consiste nell’osservare e poi mangiare consapevolmente un singolo acino d’uva al fine di introdurre il coinvolgimento consapevole ed osservarne tutti i pensieri e sensazioni che spesso trascuriamo. Il conduttore deve mostrarsi abile nel riportare costantemente l’attenzione sull’esperienza presente in quanto frequentemente vi saranno deviazioni su altri pensieri o reazioni. Questo continuo riportare all’esperienza diretta deve anche essere utilizzato per favorire l’attenzione sulla tendenza della mente a vagare altrove e sulla necessità di riportarla al momento presente. Dopo questo esercizio si invitano i partecipanti a presentare altre situazioni della loro vita in cui hanno agito con il pilota automatico.
Successivamente il conduttore porta l’esercizio nel contesto della ricaduta: “Perché stiamo facendo questo esercizio nell’ambito di un programma di prevenzione alla ricaduta?”. Qui uno degli strumenti proposti per lavorare nel gruppo e a casa è il Body-scan tramite il quale si prende consapevolezza di tutte le sensazioni che proviamo nel corpo. Fondamentale risulta quindi poi il concetto che il craving e gli impulsi spesso si manifestano anche attraverso correlati fisici.
Alla fine della prima sessione bisogna rimandare l’importanza della pratica a casa in quanto il cuore della pratica è l’esercizio quotidiano. Dopo questa prima sessione un compito a casa può essere applicare la stessa attenzione e consapevolezza che abbiamo applicato all’esercizio dell’uvetta su un’altra azione che generalmente svolgiamo in modo automatico e praticare con costanza il body scan. Può essere utile suggerire la compilazione di un diario.

 

SESSIONE 2 – CONSAPEVOLEZZA DEGLI EVENTI SCATENANTI E DEL CRAVING

In questa sessione si lavora sul riconoscimento degli eventi scatenanti. Gli eventi scatenanti spesso portano infatti ad una concatenazione automatica di pensieri ed azioni dove la mindfulness dovrebbe creare uno spazio di pausa in questa concatenazione automatica. A tal fine viene proposto l’”Esercizio della passeggiata in strada” dove lo scopo è permettere ai partecipanti di osservare la risposta iniziale della mente ad uno stimolo ambiguo e riconoscere la cascata di pensieri, emozioni e sensazioni fisiche prodotte da questo. Nello scenario si rivive una situazione di una persona in lontananza che ci sembra di conoscere e vorremmo salutare ma la persona non ricambia il saluto. In seguito a questo scenario presentato con poche parole ed in modo vago i partecipanti descrivono ogni pensiero o emozione che attraversi la loro mente. Facendo l’esercizio i partecipanti diventano consapevoli delle proprie reazioni e delle diverse reazioni di ognuno, di come gli eventi siano spesso interpretati e della concatenazione di reazioni che scatenano. Da questo esercizio dovrebbero apprendere come le interpretazioni non sempre coincidono con la verità e come possono causare un comportamento reattivo dovuto a pensieri ed emozioni.

Come secondo esercizio viene proposto “l’Esercizio del surf dell’impulso”: vivere il craving non più con timore ma con curiosità e gentilezza. A fronte di un episodio di forte craving del soggetto nel raccontarlo lo si invita a rivedere la concatenazione scatenata. Nel ripercorrere questo episodio di craving i partecipanti vengono invitati ad usare la stessa attenzione usata nell’esercizio dell’uvetta o in quello del body scan.
Questo è un esercizio cruciale del protocollo, riuscire a fermarsi senza farsi travolgere dal craving ed osservare cosa accade. “Cavalcare il craving” viene proposto in questo esercizio come un modo per restare presenti all’intensità del craving senza rimanerne sopraffatti o comportarsi reattivamente. Ai partecipanti viene chiesto di immaginare l’impulso come un’onda dell’oceano e se stessi mentre praticano il surf, usando il respiro come una tavola da surf per cavalcare l’onda. Vengono successivamente discusse sensazioni fisiche spesso descritte come intollerabili ed intenso desiderio di mascherare uno stato emotivo. Viene poi spiegato che il craving non è una linea che sale sempre di più di intensità ma come un’onda raggiunge l’apice per poi scendere.

 

SESSIONE 3 – MINDFULNESS NELLA VITA QUOTIDIANA

Durante la sessione, a seguito di una fase di apertura, viene svolto un compito di consapevolezza dell’ascolto: imparare ad uscire dal pilota automatico per focalizzarsi con attenzione sull’attività che stiamo svolgendo. Il compito viene svolto prevalentemente da seduti, bisogna stare nel momento presente anche se la mente tenderà a divagare, accettare ed osservare la cosa per poi riportare con gentilezza al momento presente.
La vera pratica tuttavia consiste nel riuscire a portare questa conoscenza nella vita quotidiana e per questo nell’esercizio successivo viene proposta la tecnica della respirazione SOBER (Stop, Observe, Breath, Expand, Respond). È una delle pratiche quotidiane più utili in situazioni di alto rischio o stressanti. In queste situazioni tendiamo ad adottare il pilota automatico e comportarci in modo contrario al nostro interesse, serve quindi maggiore consapevolezza delle nostre reazioni.

La tecnica SOBER si sviluppa in questo modo:
Stop: fermarsi e sganciare il pilota automatico
Observe: osservare mente e corpo in questo momento
Breath: spostare l’attenzione concentrandosi sul respiro
Expand: espandere quello che viviamo con il respiro alle sensazioni di tutto il corpo
Respond: rispondere con consapevolezza

 

SESSIONE 4 – MINDFULNESS NELLE SITUAZIONI AD ALTO RISCHIO

Nei precedenti esercizi ci si è preparati a portare la mindfulness nella vita di tutti giorni e questo diventa l’aspetto centrale di questa sessione: in particolare si vuole inserire la mindfulness all’interno delle aree o delle situazioni più difficili che tendono a elicitare comportamenti reattivi.Il passaggio che caratterizza la quarta sessione è riuscire a gestire con consapevolezza situazioni che in passato sono state associate all’uso di sostanze o altre componenti reattive. Per fare ciò i partecipanti lavorano sul riconoscere e stare con emozioni di disagio che possono nascere invece che evitarle. In questa fase si usano esercizi della consapevolezza integrati con lo spazio di respiro Sober. Con la tecnica SOBER i partecipanti possono poi passare all’esperienza diretta non per cambiarla ma per porvi maggior attenzione e scegliere con più consapevolezza.
In questa sessione l’esplorazione di aree soggettivamente mette anche in rilievo schemi di reazione più comuni alle persone. Per elicitare i rischi di ricaduta ogni partecipante viene invitato a condividere un tipico evento scatenante o situazione di rischio, può essere utile riportare questo su una lavagna in quanto in un secondo momento potrà essere utile far notare come spesso vi siano categorie comuni e riferirsi agli studi degli stimoli comuni che scatenano la ricaduta (stati emotivi negativi, pressioni sociali, conflitti interpersonali). Risulta utile dopo la pratica in gruppo parlare di quelle che potrebbero essere ulteriori difficoltà nella vita reale.

 

SESSIONE 5 – ACCETTAZIONE E AZIONE EFFICACE

Fra gli obiettivi di questa sessione vi è introdurre e coltivare una diversa relazione nei confronti delle esperienze sfidanti, quali sensazioni, emozioni o situazioni spiacevoli. In particolare si riporta il tema di non poter avere il controllo su alcuni aspetti della nostra vita e delle conseguenti frustrazione e rabbia che possono derivarne e portare all’uso di sostanze. Il messaggio che viene trasmesso è che cominciando a smettere di lottare con il momento presente, andandogli piuttosto incontro con compassione ed accettazione, smettiamo di opporci alla realtà diventando quindi più liberi di rispondere invece che reagire.
La sessione si svolge utilizzando la tecnica SOBER con la peculiarità di applicarla in coppie. Le coppie vengono invitate a riportare una situazione problematica di quelle comuni e mentre parlano il conduttore suona la campana e le invita a fermarsi ed applicare il SOBER. Questo esercizio aiuta a simulare la tecnica in situazioni quotidiane.
Il problema di lavorare con la rabbia spesso si presenta in questa fase. Si lavora quindi sul concetto di portare consapevolezza e curiosità sull’esperienza della rabbia piuttosto che reagire ad essa immediatamente e cercare di sopprimerla.
In questa fase viene anche introdotto il movimento consapevole cioè portare attenzione alle sensazioni del corpo durante il movimento o stretching.

 

SESSIONE 6 – VEDERE I PENSIERI COME PENSIERI

In questa sessione si lavora sui pensieri considerati come parole o immagini della mente ai quali possiamo scegliere di credere o meno. In particolare viene trattato il ruolo che hanno i pensieri e il credere ai pensieri nel ciclo della ricaduta.
Tramite meditazione in seduta i partecipanti vengono invitati a considerare i pensieri osservandone la natura stessa. Possiamo imparare a osservare i pensieri così come si presentano e come poi scompaiono, restando in contatto con il momento presente. Vengono presentate delle metafore per rendere l’idea di come un pensiero arriva e poi scompare (es. il pensiero è come nuvole che si muovono nel cielo limpido), inoltre può essere utile esortare a classificare i pensieri (ricordo, valutazione, fantasia..) per favorire il riconoscimento dei pensieri quali oggetti passeggeri.

La discussione poi sfocia sul ruolo dei pensieri nella ricaduta. Per mostrare la relazione fra pensieri e ricaduta, si sceglie in gruppo un esempio di una situazione che potrebbe portare a ricaduta. L’esempio viene illustrato usando lo schema base del ciclo di ricaduta. Si identificano quindi i pensieri iniziali e tutte le reazioni emotive. Si segue tutta la catena fino alla ricaduta cercando di identificare il punto in cui sarebbe stato possibile fare un passo indietro. La discussione vuole mostrare che anche nel ciclo che conduce alla ricaduta c’è ancora la possibilità di scegliere.

 

SESSIONE 7 – CURA DI SE’ E STILE DI VITA EQUILIBRATO

In questa sessione viene fornito uno sguardo più ampio alla nostra vita identificando aspetti che sostengono un’esistenza sana e vitale e quelli che portano a maggior rischio.
Viene proposta poi una meditazione seduta di amorevole gentilezza dove si utilizzano per esempio pensieri di buon augurio.
Viene poi proposta la scheda di annotazione delle attività quotidiane per portare la consapevolezza su attività quotidiane ordinarie e su come queste tendono a condizionare complessivamente umore, equilibrio e salute. In particolare si analizza se le attività che svolgiamo sono positive (Nourishing) o negative (Depleting) per noi. Questo esercizio ci mostra quindi come trascorriamo le nostre giornate e come per esempio aggiungere attività positive.

In questo capitolo si approfondiscono quindi le scelte dello stile di vita che predispongono maggiormente alla ricaduta. Spesso si usa l’acronimo HALT (Hungry, Angry, Lonely, Tired) come esempio di fattori che influenzano la vulnerabilità e che si saranno sempre nella nostra vita ma possiamo imparare a prendercene cura in modo nuovo.

 

SESSIONE 8 – SUPPORTO SOCIALE E PROSEGUIMENTO DELLA PRATICA

L’obiettivo è sottolineare l’importanza delle reti di sostegno come modo per ridurre il rischio e supportare recupero, continuare a praticare la mindfulness. Parlare dell’importanza di una rete di supporto e di cosa li potrebbe portare a sentirsi in difficoltà nel chiedere aiuto.
Durante questa sessione risulta utile inoltre discutere dei vari strumenti a disposizione, concentrandosi su quelli che i partecipanti ritengono per loro più o meno utili da utilizzare nella vita quotidiana.

Discussione

I risultati della maggior parte degli studi precedentemente riportati, concordano sul fatto che alcuni interventi psicoterapeutici modulano l’attività cerebrale soprattutto a livello di aree specifiche, quali la corteccia prefrontale, il cingolo anteriore e l’amigdala, e sul fatto che le modificazioni a carico di queste aree corrispondono al miglioramento clinico (Frewen PA et al., 2008).
Purtroppo, gli studi pubblicati ad oggi sono stati condotti quasi tutti su pazienti con patologie psichiatriche specifiche e selezionati mediante valutazioni diagnostiche che si riferiscono a categorie descrittive che trascurano alcuni aspetti importanti del quadro clinico, quali per esempio, il funzionamento cognitivo o le caratteristiche personologiche e psicodinamiche. Questi aspetti, sui quali ci si attende che un intervento psicoterapico abbia un effetto specifico e diverso da quello indotto da una terapia farmacologica, spesso non vengono considerati nella selezione dei campioni per gli studi clinici con­trollati.

Il programma MBSR utilizza la pratica di mindfulness come elemento centrale del programma di intervento e si differenzia da altri programmi clinici, in quanto questi ultimi si focalizzano su componenti specifiche di insegnamento della mindfulness come un insieme di abilità, come un modo per affrontare la sofferenza che affianca l’utilizzo di terapie occidentali. La MBSR offre invece un’esplorazione sistematica degli effetti dello stress, esplorazione che si rivela una componente importante per la guarigione e la salute.

L’implicazione psicoterapeutica più importante della mindfulness, non consiste tanto in tecniche, seppur preziose, da insegnare ai clienti, quanto piuttosto nella capacità del terapeuta di essere davvero presente (Bien, 2006). A tal proposito Segal, Williams e Teasdale (2002), contrariamente alle aspettative iniziali, hanno scoperto che non è davvero possibile insegnare la mindfulness ai clienti senza praticarla. Lambert e Simon (2008), ad esempio, riferiscono che il 30% della variazione negli esiti della terapia è attribuibile a fattori comuni, quali la relazione terapeutica, mentre solo il 15% è attribuibile a specifiche tecniche terapeutiche. Miller, Taylor e West (1980) hanno scoperto che uno dei fattori più importanti nella relazione terapeutica, è rappresentato dai livelli di empatia del terapeuta, ed è strettamente correlata con i risultati terapeutici, migliorando anche la qualità dell’alleanza terapeutica (Wexler, 2006), anche se sono necessarie ulteriori ricerche in questo campo.

Questo dato, può rivelarsi particolarmente importante nei confronti di un disturbo stigmatizzato come la dipendenza, nel quale la qualità della relazione interpersonale con il terapeuta può determinare la reazione del cliente rispetto a ogni ipotetico tratto di negazione da parte del cliente (Miller e Rollnick, 1991). Proprio per questi motivi, risulta importante che un terapeuta che pratica mindfulness, possa essere in grado di seguire meglio le tracce dei cambiamenti dello stato emotivo del cliente momento per momento, di essere consapevole della fase di cambiamento nella quale si trova il cliente e di accettare qualsiasi cosa il cliente presenti come naturale e comprensibile, compresa la tendenza umana di resistere al cambiamento.

Dunque la mindfulness, non è da considerarsi come un’alternativa alla psicoterapia, ma come una sua possibile e utile integrazione di cui possono beneficiare sia il paziente che il terapeuta, in quanto, la mindfulness è un lavoro prettamente di osservazione, mentre la psicoterapia lavora prevalentemente sui contenuti.
Inoltre è di grande importanza sottolineare come nei casi di intensa sofferenza sia opportuno iniziare per primo un percorso psicoterapeutico che permetta di ristabilire il disequilibrio emotivo e solo successivamente può essere più appropriato invitare il paziente a praticare la mindfulness.

Un intervento CBT-based per migliorare la sintomatologia depressiva e prevenire l’obesità in un campione di adolescenti americani

 

E’ ormai noto come gli adolescenti in sovrappeso evidenzino una maggiore predisposizione a sviluppare disturbi mentali accompagnati da problematiche legate alla performance scolastica.

In aggiunta, oltre il 37% delle ragazze e il 20% dei ragazzi in questa fascia d’età riporta sintomi depressivi gravi, indipendentemente dai problemi di peso. Per tale motivo, risulta imperativo sviluppare ed applicare interventi mirati alla riduzione dei sintomi depressivi e del peso corporeo nelle scuole.

Sulla base di questi presupposti, un innovativo protocollo CBT definito COPE (Creating Opportunities for Personal Empowerment) Healthy Lifestyles TEEN (Thinking, Emotions, Exercise, Nutrition) è stato impiegato in un campione di 779 adolescenti americani con età compresa tra 14 e 16 anni, mostrando effetti significativi e a lungo termine nella riduzione della sintomatologia depressiva e del peso corporeo.

Nel dettaglio, il team guidato da Bernadette Melnyk (2015) ha voluto confrontare l’effetto del COPE sugli outcomes sovracitati con l’effetto di un programma mirato ad incrementare le capacità attentive dei soggetti (Healthy Teens). Il programma COPE è costituito da 15 incontri (uno a settimana) a carattere educativo, tesi ad illustrare la relazione esistente tra pensieri ed emozioni, per insegnare come reagire agli eventi quotidiani in maniera adattiva. In particolare, agli studenti viene insegnato come le modalità di pensiero influenzino direttamente le emozioni e i comportamenti che conseguono ad un evento, fornendo i necessari esempi, solitamente avvalendosi del modello ABC.

Inoltre, il programma include importanti nozioni sulle migliori abitudini alimentari e 20 minuti di attività fisica per ogni incontro, finalizzati a migliorare la salute dei partecipanti. 

Dopo un’ intensa giornata di formazione rispettivamente per il COPE o il Healthy Teens, gli insegnanti hanno proceduto a trasmettere di volta in volta le informazioni dei diversi protocolli agli adolescenti, assegnati casualmente ai due gruppi (cluster RCT). Inoltre, ogni adolescente riceveva un piccolo manuale contenente gli insegnamenti proposti dal protocollo a loro assegnato, comprendente dei compiti da svolgere a casa durante l’arco dello studio. Dai risultati è emersa una significativa riduzione del peso corporeo e del BMI (indice di massa corporea) solo nel “gruppo COPE”.

Inoltre, tali risultati permanevano a distanza di 12 mesi e gli studenti di questo gruppo tendevano a rimanere fisicamente attivi a differenza di quelli assegnati al gruppo Healthy Teens. Per quanto riguarda la sintomatologia depressiva, i due gruppi ottenevano i medesimi benefici. Tuttavia, i partecipanti che all’inizio dello studio presentavano una elevata sintomatologia depressiva, riuscivano a migliorare e a rientrare nel range di normalità solo se assegnati al gruppo COPE; quelli assegnati al gruppo Healthy Teens, invece, non evidenziavano alcun miglioramento.

Come riportato dagli studenti stessi nel follow-up, il protocollo COPE risulta efficace nella gestione dello stress e permette ai partecipanti di sentirsi meglio con se stessi (69,6% del campione), inoltre risulta in grado di suggerire e sostenere i comportamenti più adattivi dal punto di vista delle abitudini alimentari e dell’esercizio fisico per lo studente (48%) e la sua famiglia (22,6%).

I punti di forza del protocollo COPE sono molti: l’effetto positivo sulle abitudini alimentari, sul BMI, sugli outcomes psicosociali, sulla performance scolastica e la possibilità di essere erogato dagli insegnanti precedentemente formati dal/i clinico/i. Sebbene i risultati sostengano il valore aggiunto del COPE rispetto al Healthy Teens, un limite dello studio sta nel non aver controllato l’effetto dei 20 minuti di attività fisica prevista per ogni incontro COPE, invece assenti nel Healthy Teens.

Cionondimeno, appare chiaro come un programma incentrato sullo sviluppo delle competenze cognitivo-comportamentali degli studenti, sia in grado di ridurre il rischio di obesità e di disturbi dello spettro depressivo all’interno della popolazione di adolescenti americani. Le ricerche future avranno il compito di rintracciare tale effetto positivo in nuove popolazioni e stabilire quale sia l’effettivo contributo della componente psico-educativa e dell’attività fisica.

Modalità Competitive e Relazioni Interpersonali: Ipercompetitività e Bullismo – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Modalità Competitive e Relazioni Interpersonali: Ipercompetitività e Bullismo

Maria Elena Maisano, Fulvio Tassi, Sara Mori

Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni

Olweus, 1996

Nello studio  si é tentato di verificare l’esistenza di una correlazione positiva tra ipercompetitività e bullismo.

Traendo spunto dall’esistenza di diverse analogie tra le caratteristiche di personalità e comportamentali degli individui ipercompetitivi (con stile competitivo volto a vincere sull’avversario a tutti i costi) e quelle dei cosiddetti bulli, si é tentato di verificare l’esistenza di una correlazione positiva tra ipercompetitività e bullismo, ipotizzando che una forte carica competitiva possa contribuire all’acquisizione ed al rafforzamento di caratteristiche di personalità che scatenino condotte di tipo disadattivo.

Gli strumenti utilizzati sono l’adattamento italiano delle due scale Hypercompetitive Attitude Scale (HCA) e Personal Development Competitive Attitude Scale (PDCA ) ideate da Ryckman et al. I dati sono stati raccolti da un campione di 1011 studenti (583 maschi e 428 femmine) frequentanti i primi tre anni di scuole superiori della provincia di Lucca.

I risultati hanno confermato l’esistenza e la significatività della correlazione tra bullismo e ipercompetizione. La correlazione tra bullismo e competizione evolutiva (stile competitivo centrato sul miglioramento della performance) è risultata non significativa, sebbene non totalmente negativa. Probabilmente, perché anche laddove si compete per cercare di migliorare se stessi e la propria performance, non si é del tutto immuni dall’istinto a prevalere sull’avversario.

L’esistenza di una correlazione positiva tra ipercompetizione e bullismo indicherebbe una forma di influenza tra di essi che sarebbe interessante approfondire con ulteriori ricerche. Se le caratteristiche di tale influenza venissero meglio definite, sarebbe possibile ipotizzare che interventi, ad es. di tipo psicoeducativo, mirati all’acquisizione di uno stile competitivo positivo, potrebbero costituire un fattore di prevenzione o di diminuzione del rischio di porre in essere atti di bullismo nei confronti dei pari.

Il condizionamento operante: il paradigma sperimentale di Skinner

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 34)

 

 

La scorsa settimana su questa rubrica abbiamo parlato del condizionamento classico (ndr). Oggi, invece, vi presenteremo il condizionamento operante.

 

Skinner inventò il paradigma sperimentale del condizionamento operante. Lo strumento sperimentale usato in questo paradigma era la Skinner box: una gabbia in cui la cavia poteva esplorare liberamente l’ambiente e compiere comportamenti come pigiare una leva o premere un tasto.

Skinner inventò il paradigma sperimentale del condizionamento operante, che poteva essere di due tipi:

  • Quello rispondente, in cui la risposta messa in atto da una cavia in gabbia avviene come reazione a uno stimolo,
  • Quello operante, in cui la risposta è emessa spontaneamente.

Lo strumento sperimentale usato in questo paradigma era la Skinner box: una gabbia in cui la cavia poteva esplorare liberamente l’ambiente e compiere comportamenti come pigiare una leva o premere un tasto.

Alcuni comportamenti messi in atto dalla cavia erano però rinforzati, il che rendeva più probabile la ripresentazione, in futuro, del comportamento stesso. Ad esempio, se un piccione cavia scopriva che il pigiare un tasto portava all’erogazione del cibo (rinforzo), allora lo ripeteva più e più volte.

Quindi, in generale il condizionamento operante consiste nella messa in atto di un comportamento, che se rinforzato positivamente si ripresenta con una maggiore frequenza. Prendiamo un bambino che è libero di fare diverse cose in una stanza, ma è rinforzato positivamente solo quando mette a posto i suoi giochi. Successivamente, apprende che mettere in ordine è un comportamento giusto da eseguire.

La messa in atto di un determinato rinforzo può indebolire o incrementare la probabilità di comparsa di un certo comportamento. I rinforzi possono essere di molti tipi:

  • Rinforzi che funzionano automaticamente (ad es., il cibo), senza l’intervento dell’uomo.
  • Rinforzi che acquisiscono una funzione atta a implementare la ricomparsa del comportamento che richiede l’intervento dell’uomo.
  • Rinforzi generalizzati che derivano dall’esplorazione e dall’interazione col mondo fisico. Ogni individuo che riceve dei feedback positivi nell’interazione con l’ambiente, aumentano la sua probabilità di acquisire nuovi comportamenti. Gli stimoli positivi che rinforzano il comportamento sono sia di origine fisica sia di natura psicologica, come ricevere consenso, approvazione, affetto.
  • Rinforzo positivo derivante dalla sottomissione degli altri attraverso l’esercizio del potere
  • Rinforzi simbolici, come l’uso della moneta.
  • Rinforzi dinamici che sono caratterizzati non da stimoli ambientali ma dai nostri stessi comportamenti.

Il Rinforzo del comportamento, in sintesi, si può suddividere in due grosse macro categorie: positivo e negativo. Il rinforzo positivo è quello che determina una conseguenza gradita. Il rinforzo negativo, invece, porta all’allontanamento o alla cessazione di uno stimolo o comportamento spiacevole.

Nel condizionamento operante, inoltre, si possono distinguere 3 fasi:

  • Preapprendimento: serve a determinare il comportamento operante, ovvero la frequenza della messa in atto della risposta da parte della cavia (ad esempio premere la leva) senza che vi sia alcun rinforzo positivo o negativo;
  • Condizionamento: il ricercatore stabilisce quando deve avvenire il rinforzo.
  • Estinzione: la risposta condizionata decade dopo un certo numero di comportamenti messi in atto perché non rinforzata mai.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Solo gli psicologi possono agire sul disagio psichico

CNOP – Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi – COMUNICATO STAMPA

 

Il Tar del Lazio riconosce al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi l’unicità della Professione: “il disagio psichico presuppone una competenza professionale non riconosciuta ai counselors. Il presidente Giardina: “Grande successo per la psicologia italiana e ottimo risultato a favore della salute dei cittadini”.

ROMA 18 novembre 2015Grande risultato giuridico per il Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi. Il Tar del Lazio, infatti, con sentenza 13020/2015, accoglie il ricorso del Cnop contro il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero della Salute e riconosce l’unicità della Professione dello psicologo, disponendo la cancellazione dell’Assocounseling (Associazione di categoria) dall’elenco delle attività non regolamentate dalla legge 4/2013. In sostanza, i counselors non hanno alcuna competenza per gestire il rischio psichico che attiene alla sfera della salute.

“Non può non convenirsi – si legge nelle motivazioni della sentenza – che la gradazione del disagio psichico presuppone una competenza diagnostica pacificamente non riconosciuta ai counselors e che il disagio psichico, anche fuori dai contesti clinici, rientra nelle competenze della professione dello psicologo”.

A tal proposito il Tar del Lazio fa riferimento alla normativa nazionale che inquadra il disagio psichico nell’ambito dell’attività sanitaria, come confermato anche dai pareri del Consiglio Superiore della Sanità, dall’inquadramento degli psicologi nelle piante organiche delle unità locali, nonché alla vigilanza del Ministero della Salute sull’Ordine nazionale degli Psicologi.

Nessuna figura professionale distinta dallo psicologo può quindi intervenire per affrontare casi delicati come quello del disagio psicologico.

“La sentenza del tar Lazio – afferma il presidente Cnop, Fulvio Giardina – conferma l’unicità della professione di psicologo. È un grande successo per la psicologia italiana perché viene ribadito e confermato che l’ambito della tutela della salute non può essere consentito a chi non ha i requisiti. I counselors non svolgono attività regolamentata e non offrono alcuna garanzia per la tutela della salute dei cittadini”.

Un riconoscimento importante, dunque, non solo per la categoria ma anche a sostegno della salute di tutti i cittadini: ogni persona che presenta delle problematiche psicologiche deve trovarsi sempre di fronte ad un professionista iscritto all’ordine che abbia titoli e competenze autorizzate.

 

Angela Corica

Ufficio stampa Cnop

 

ESTRATTO DELLA SENTENZA:

 

SENTENZA ASSOCOUNSELING:

 

ISIS, terroristi e vittime: un profilo psicologico

Articolo di Corrado de Rosa, pubblicato su L’Espresso

Strage Parigi, la psicologia di terroristi e vittime

Su cosa fa leva lo Stato Islamico per reclutare i suoi militanti? I kamikaze sono mentalmente disturbati? Quali sono le conseguenze a breve e lungo termine sulla psiche dei sopravvissuti alle bombe? Le risposte di uno psichiatra

Psicologia dello Stato Islamico
Lo Stato Islamico offre risposte e ricompense inestimabili a chi ha bisogno di certezze: il significato di una vita, il grado di eroi e martiri nella Storia della lotta agli infedeli. L’Is si legittima con la religione, ma le ragioni profonde della sua forza sono psicologiche. Fa leva sulla disperazione di chi vive in territori degradati, crea opportunità basate sul sogno di rivalsa, fa welfare alternativo per la soddisfazione del qui e ora: porta l’elettricità nei villaggi, apre mense e aggiusta strade, vaccina i bambini, paga le famiglie dei kamikaze. I capi lavorano per sottrazione: al-Baghdadi appare pochissimo sui media, nessuno sa con precisione chi siano i suoi luogotenenti. Questo accresce il loro alone di mistero, l’immagine di guerrieri e santi che sfidano il male, la paranoia dei militanti. Col risultato di facilitare reclutamento e radicalizzazione.

L’Is offre le donne ai combattenti, sfrutta i social network per fare propaganda, usa la musica per creare identità e rafforzamento nell’immaginario collettivo, affina la manipolazione psicologica per reclutare foreign fighters. Mette in rete immagini virali che provocano eccitazione e indignazione (soprattutto in chi è suggestionabile), stuzzica i sentimenti d’ingiustizia, umiliazione e riscatto, eccita il bisogno di appartenenza, trasforma il profano nel sacro.

 

Strage Parigi, la psicologia di terroristi e vittimeConsigliato dalla Redazione

Su cosa fa leva lo Stato Islamico per reclutare i suoi militanti? I kamikaze sono mentalmente disturbati? Quali sono le consguenze a breve e lungo termine sulla psiche dei sopravvissuti alle bombe? Le risposte di uno psichiatra (…)

Tratto da: l'Espresso

 

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Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – I nuovi approcci di matrice sociologica

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 2/4

Nell’ambito della ricerca sociologica emergono nuove formulazioni teoriche che modificano irreversibilmente il modo di spiegare la criminalità, vista come un fenomeno complesso e pluricomposto.

LEGGI ANCHE: Tra analisi scientifica e stigma sociale – (Parte 1/4)

Si passa da una visione eziologica, deterministica, a una visione invece più processuale, interattiva, legata agli effetti della devianza e del controllo sociale, piuttosto che alle cause lineari e semplici; le nuove impostazioni teoriche prendono cioè in considerazione la complessa interazione che si instaura tra il soggetto deviante, le norme e la reazione sociale.

Lemert è una figura centrale in questo cambiamento di prospettiva, in quanto propone una sociologia della devianza antitetica agli studi dell’eziologia del crimine e attenta alle conseguenze del controllo sociale. L’autore fu il primo a distinguere tra due tipi di devianza. Per devianza primaria si intende una condotta deviante ‘senza che si mettano in moto reazioni sociali e psicologiche che modifichino il ruolo e il sentimento della propria identità del soggetto agente’ (Ponti, 1999, p. 164); la devianza primaria riguarda quindi tutti quei comportamenti che, se anche infrangono le leggi, vengono riassorbiti dalla società senza ricevere un’etichetta deviante o una reazione stigmatizzante. In caso di devianza primaria, le ricadute sul senso di sé del soggetto agente sono solo marginali, in quanto non portano ad una riorganizzazione della struttura psichica ed identitaria del soggetto stesso; il ruolo deviante non viene attribuito al soggetto né da sé stesso né da parte della comunità socio-istituzionale (De Leo, 1998).

La devianza secondaria, al contrario, suscita forti reazioni sociali di tipo sanzionatorio e accusatorio e comporta peculiari effetti psicologici sull’individuo; egli tenderà a percepirsi come deviante, sviluppando tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il suo ruolo comporta, con conseguente fissazione in tale ruolo deviante (Ponti, 1999, p. 164). Il soggetto deve dunque riorganizzare e ricostruire la propria identità in base al ruolo deviante che gli è stato attribuito e in cui, ora, egli si riconosce. Anche se Lemert non ha mai dedicato il suo lavoro alla devianza minorile, secondo De Leo (1998) questi concetti hanno notevole rilevanza per lo studio di tale fenomeno:

La devianza primaria è importante perché mette in evidenza tutte le strategie di normalizzazione che vengono adottate, in campo minorile, quando si vuole evitare che la devianza diventi di dominio istituzionale […]. Per quanto riguarda la devianza secondaria il problema non semplice è di rimanere fedeli al modello di Lemert, senza cadere in qualche rischio deterministico talvolta presente nella sua teoria.

Ciò significa considerare sempre il rapporto interattivo e circolare esistente tra società e individuo, in quanto, la prima reagisce all’atto antigiuridico con sanzioni e giudizi, il secondo attiva a sua volta nuove strategie cognitive e comportamentali; la ristrutturazione del sé infatti non avviene semplicemente per effetto di una reazione sociale, ma avviene all’interno dell’interazione fra il soggetto e la reazione sociale stessa. È evidente ora la ricaduta sul piano della tutela del minore criminale: se si concepisce l’adolescenza come la fase evolutiva in cui la costruzione dell’identità raggiunge il suo culmine, non senza crisi o difficoltà (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) e si assume che, nel caso di una condotta deviante o criminale, la reazione sociale e istituzionale abbia forti ricadute sul piano psichico e identitario dell’adolescente, allora è possibile ipotizzare che la scelta di quale misura applicare avrà un impatto molto differenziato sulla struttura del sé dell’adolescente stesso (De Leo, 1998; De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

Concordemente, anche Becker (1963) mette in evidenza che l’individuo può diventare deviante attraverso un percorso complesso, fatto di tappe successive, durante le quali costruisce le premesse per i passi da compiere in seguito. Secondo Becker infatti il primo passo all’interno del percorso deviante è rappresentato dalla commissione di un atto che infrange la norma; il secondo passo riguarda l’essere riconosciuto come deviante da parte della società, il che ha delle conseguenze sul soggetto che dovrà ricostruire e ridefinire la propria identità sulla base del nuovo ruolo acquisito. Infine, il terzo passo consisterebbe nell’ingresso in un gruppo deviante organizzato e nella stabilizzazione non solo della condotta deviante, ma anche del concetto di sé in quel senso.

Si anticipano così i concetti di ‘interazione sociale’ e ‘significato sociale dell’esperienza‘ che saranno le matrici dell’impostazione interazionista simbolica e dei modelli processuali e sequenziali che vedono la devianza come una carriera, attualmente adottati nell’analisi dell’azione deviante commessa da minori (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986; De Leo, 1998; De Leo e Patrizi, 1999).

Dal punto di vista dell’evoluzione degli apporti della sociologia allo studio della devianza, un contributo fondamentale risulta quello di Matza (1976). La sua impostazione teorica prende le mosse dalla critica a tutti gli assunti delle teorie delle subculture delinquenziali e delle bande giovanili. Prima di tutto egli ritiene semplicistico considerare il deviante come colui che si oppone alla morale tradizionale e largamente condivisa per seguire un proprio sistema di valori. Inoltre, ritenere che le culture delinquenziali siano radicate solo in certi contesti sociali o urbani è espressione di un pregiudizio classista; la cultura deviante, così come la concreta possibilità di delinquere, è infatti diffusa e presente in tutte le classi sociali, come ben dimostrato da Sutherland. L’aspetto specifico del deviante consiste dunque nella neutralizzazione della norma, cioè nel modificare il significato della norma attraverso la neutralizzazione del vincolo normativo.

Sykes e Matza (1957) definiscono le tecniche di neutralizzazione come modi di aderire alla scelta deviante risolvendo, contemporaneamente, il conflitto psicologico rispetto al sistema di valori interiorizzati; tali tecniche consisterebbero in forme di razionalizzazione del comportamento deviante risolvendo la distanza socialmente definita fra questo e i valori condivisi:

Il processo di razionalizzazione consente al soggetto di esprimersi in senso deviante e giungere all’infrazione normativa neutralizzando, attraverso il ricorso a particolari tecniche, il conflitto con la morale da lui almeno parzialmente accettata. Queste razionalizzazioni, non intervengono ex post facto, ma precedono l’atto deviante e servono ad escludere la responsabilità individuale e a negare la sua illeicità attraverso la ridefinizione del proprio operato

Ponti, 1999, pp. 167-168

L’adozione delle tecniche di neutralizzazione consentirebbe al soggetto deviante di giustificare cognitivamente la propria devianza e di disattivare il controllo sociale, salvaguardando così la positività della propria immagine. Le tecniche di neutralizzazione individuate da Matza (1976) sono cinque e sono state così descritte dall’autore:

  • La negazione della propria responsabilità consente all’individuo di spostare la responsabilità dell’azione da lui commessa all’esterno; l’autore sostiene che l’azione non era realmente voluta, oppure che ci sono forze più importanti di lui a costringerlo, oppure lamenta di autopercepirsi come una palla da biliardo trascinata nelle diverse situazioni;
  • La minimizzazione del danno provocato si verifica quando il soggetto sostiene che le sue azioni sono reprensibili solo perché vietate dalla legge, non perché immorali in sé (classica distinzione tra mala in se e mala quia prohibita); in questo modo viene completamente ridefinito il significato e la forma dell’atto deviante;
  • La negazione della vittima permette di neutralizzare la responsabilità sostenendo che la vittima meritava il trattamento ricevuto a causa di alcune sue caratteristiche, come il sesso, la razza, il gruppo di appartenenza; questa tecnica viene spesso utilizzata nel caso delle aggressioni agite verso minoranze etniche, omosessuali, disabili;
  • La condanna di coloro che condannano viene messa in atto quando il soggetto descrive la società e le istituzioni come ipocriti e corrotti ritenendo quindi il loro giudizio come compromesso e parziale;
  • Con il richiamo a ideali più alti il soggetto sostiene di aver sacrificato i valori più generali della società a vantaggio di ideali particolari ma considerati eticamente superiori, quali la fedeltà al gruppo, la solidarietà tra amici.

De Leo (1998) evidenzia la centralità all’interno della teoria di Matza, del soggetto che agisce, che sceglie e che costruisce attivamente la propria realtà, elaborando cognitivamente i condizionamenti esterni senza subirli; secondo l’autore, il pensiero di Matza, con i concetti di significazione e soggettività, si inserisce perfettamente nella corrente teorica dell’interazionismo simbolico.

L’influenza del pensiero di Matza sullo studio della devianza minorile è fondamentale; il grande merito di questa teoria è quello di aver spostato l’attenzione sui processi sociocognitivi di giustificazione e legittimazione della condotta deviante allo scopo salvaguardare la propria immagine di sé e il proprio sistema valoriale e morale. La rilevanza di questi processi saranno al centro della teoria socialcognitiva di Bandura e del concetto di disimpegno morale.

Crisi della maschilità e ruolo del corpo: uno sguardo sociologico sulla vigoressia

Milvia Spinetta e Andrea Passoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

La vigoressia, ovvero l’ossessione nei confronti del proprio corpo e dei muscoli, porta la persona a trascorrere gran parte della propria giornata in palestra per costruire e accumulare i muscoli, avendo così l’idea di meglio definire la propria maschilità. In quest’ottica patologica, vi è l’implicita e ferma convinzione che si è tanto maschili, quanti muscoli si possiedono.

La storia e le società passate ci insegnano che due sono le polarità del genere umano: l’uomo e la donna. Questi possono essere analizzati prendendo in considerazione tre elementi: il sesso, ovvero gli attributi strettamente legati al corpo fisico e alla biologia della persona; l’identità, ovvero la percezione che la persona ha di sé e che lo porta a dire ‘io sono uomo’ oppure ‘io sono donna’, e il ruolo sociale attribuito alla persona, che viene percepita da altri con l’etichetta di ‘uomo’ o ‘donna’.

Due principali teorie sul genere lo concettualizzano in maniera differente. L’essenzialismo ci parla di maschilità o femminilità come biologicamente determinate: in sostanza, uomini e donne si nasce. In quest’ottica, il genere è un attributo oggettivo, naturale, universale e immutabile; esso si basa principalmente sulle differenze ormonali, di dimensioni, di organizzazione del cervello e capacità riproduttiva (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 2004). Il costruzionismo sociale supporterebbe invece l’idea che il genere umano sia indirizzato da alcune caratteristiche fisiche, psicologiche e comportamentali prototipiche che in sé sarebbero fittizie, non propriamente oggettive ma culturalmente prodotte. Dal punto di vista della ricerca scientifica, le differenze di genere non sarebbero quindi confermate; laddove trovino riscontro, questo non sarebbe significativo (Connel, 2011).

In effetti, al di là dei prototipi di genere più comuni, se si pensa alla grande variabilità delle caratteristiche maschili in sé o femminili in sé, c’è da riflettere su quanto il concetto di genere sia variegato sia dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, che psicologiche e comportamentali. Per fare un esempio, si potrebbe pensare al prototipo di uomo alto, forte, robusto, indubbiamente più aggressivo e propenso a dominare rispetto alla donna, competitivo e con una spiccata propensione verso abilità come la logico-matematica e gli ambiti scientifici in generale. Tutte le caratteristiche elencate sono significatamente a discrezione dell’universo maschile o fanno ampiamente parte anche del mondo femminile? Ma soprattutto, che influenza ha la cultura nella definizione del concetto di maschilità/femminilità?

Secondo quest’ultima teoria, le differenze biologiche tra uomo e donna ci sono ma gli atteggiamenti variano culturalmente e si possono considerare di origine sociale, quindi uomini e donne si diventa (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 2004). In particolare, prendendo in considerazione il concetto di maschilità, essa verrebbe concettualizzata come costruzione attiva, che si produce attraverso interazioni sociali, per cui il comportamento umano lo si apprenderebbe, non sarebbe biologicamente determinato, né è già insito nella natura umana. L’uomo parteciperebbe alla vita sociale in quanto uomo, come soggetto dotato di un genere ben definito nei diversi contesti sociali, ambientali e storici. Maschilità come prodotto sociale attivo.

L’uomo o la donna verrebbero quindi definiti tali in base a cosa fanno, piuttosto che a chi sono, secondo un decalogo di regole, una serie di comportamenti riconosciuti come maschili (Boni, 2004). Questo interessante punto di vista si distacca nettamente dal concetto tradizione di maschilità come concetto patriarcale ed egemone, dell’uomo amante del famoso connubio donne-motori, virile e dominante rispetto alla femminilità in molti campi: familiare, lavorativo, sessuale, politico, religioso, etc,. In effetti, dando un ampio sguardo sul mondo odierno e sulla nostra società, sorgerebbe l’esigenza di approfondire il concetto di maschilità, in quanto esso si è nettamente trasformato in pochi decenni. Sentendo parlare di uomini-casalinghi, transgender, prodotti e pratiche per la bellezza maschile, lotte per la rivendicazione dei diritti omosessuali e mode maschili inusuali e molto fashion, viene da chiedersi: ma il maschio oggi chi è? Come si comporta, come si veste, a cosa si interessa e come appare?

Dal punto di vista sociologico, dagli anni Ottanta è emersa la figura del new man, ovvero l’uomo che si è saputo trasformare o farsi trasformare in qualcosa di maggiormente femminizzato, senza che ciò implichi necessariamente omosessuale. E’ colui che mostra una maggiore sensibilità e interessamento all’amore, più che al sesso, senza vergognarsene, colui che cura il proprio aspetto fisico, che si prende cura della famiglia anche da altri punti di vista oltre che a quello finanziario. Il new man ha saputo risvegliare il proprio lato emotivo, è anti-sessista, crede nella parità di genere e permette alla donna di ‘portare i pantaloni’ al posto suo. Egli segue mode create appositamente per lui, nonché pratiche di bellezza che fino a qualche tempo prima appartenevano esclusivamente all’universo femminile, come la depilazione, l’uso di prodotti antirughe, la chirurgia estetica, etc. I mass media sembrerebbero giocare un ruolo fondamentale nella costruzione di questo tipo di maschilità: essi plasmano il concetto odierno di maschio, se non altro lo promuovono, lasciando ampio spazio a prodotti dedicati al maschio come diete dimagranti, creme ringiovanenti, e profumi sponsorizzati da modelli molto magri, che appaiono sessualmente ambigui e più consoni a esprimere un aspetto candido più che il tradizionale concetto di virilità. Questa è una sfaccettatura della maschilità, che per certi punti di vista appare quindi in crisi rispetto a ciò che si poteva pensare in una società patriarcale.

In contrapposizione al new man, rimane però l’ uomo tradizionale, che la sociologia chiama new lad, di cui si potrebbe dare un quadro prototipico come di colui che porta avanti valori sessisti, ama difendere il proprio lato virile, apparire coraggioso, tutto d’un pezzo, aggressivo e talvolta brutale, indipendente e mascalzone. E’ colui che osa sempre e non chiede mai, il classico macho. Egli tratta la figura femminile subordinandola, relegandola talvolta a oggetto di desiderio sessuale, spesso abbinata al mondo dei motori.

Sia il primo che il secondo modello di maschilità si possono considerare mediati, ovvero promossi dai mass media stessi, che nel rappresentarli, ne darebbero uno svelamento al solo scopo commerciale attraverso internet, cartelloni e spot pubblicitari, radio, televisione, cinema, stampa periodica e quotidiana. Un interessante esempio di questa mediazione del concetto di maschilità viene teorizzato dal sociologo Federico Boni in ‘Men’s help’, un libro che prende in considerazione i periodici dedicati al mondo maschile che dagli anni Novanta iniziano ad essere pubblicati in Inghilterra, dove raggiungono un successo strepitoso, venendo successivamente divulgati anche in altri paesi (2004). Si parla di ‘Arena’, ‘GQ’, ‘The face’, periodici dedicati proprio al new man e al suo interessamento allo stile e moda, alla cura di sé, del corpo e del proprio tempo, nonché alla casa, famiglia, cucina e giardinaggio.

Successivamente, in risposta a questi, vengono pensati e divulgati periodici maschili più inclini invece agli interessi del new lad come ‘Loaded’, ‘Maxim’ e le edizioni rivisitate di ‘Arena’ e ‘GQ’, che decidendo di cambiare rotta, si dedicano maggiormente al new ladderism. La costruzione identitaria del maschio, che abbiamo visto essere mediata soprattutto dai mezzi di comunicazione, si manifesterebbe soprattutto attraverso un oggetto tangibile, esplicito, che non si può nascondere né negare, proprio di ogni essere vivente e veicolo di espressione del sé identitario: il corpo.

Connel afferma che nel senso comune si ritiene che vi sia una maschilità vera, che sottosta alle teorie e tendenze dell’uomo, una maschilità fissa, strettamente legata alla naturalità e si incarna nel corpo maschile (1995). Ruspini aggiunge inoltre che il corpo è fluido e in scena nella società attuale, affermando che ‘la società in cui oggi viviamo offre ai singoli individui molteplici e inedite opportunità di dialogo con il proprio corpo, sempre più risorsa fluida, in divenire, che non può essere data per scontata. Il tema dei corpi “liquidi” è oggi di grande attualità’ (2009).

Il corpo esprimerebbe quindi la maschilità attraverso il comportamento, il suo apparire, la sua forma e le modalità con cui esso si muove. Molte pratiche sarebbero mezzo d’espressione del corpo, basti pensare a tatuaggi, piercing, chirurgia estetica, depilazione, abbronzatura artificiale, diete, palestra e assunzione di sostanze anabolizzanti, per non parlare di tagli, scarnificazioni, abrasioni, bruciature e graffi, gesti autolesionistici che trovano nell’atto l’espressione di un dolore interno, che diviene subito dolore fisico, nonché rituale (Stagi, 2008). Ma il corpo non è solo oggetto da segnare o agghindare a festa, esso presuppone un’esperienza corporea, una dimensione che va al di là della pura fisicità. Infatti, dal punto di vista clinico osserviamo come il corpo divenga veicolo di manifestazione del proprio dolore ad esempio nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare, in cui il corpo pretende di poter somigliare all’anima, che tende a un ideale ben preciso: di perfezione e annullamento di ogni marchio femminile (nelle anoressiche), del volersi nascondere (paradossalmente, nei pazienti obesi), della bellezza, discontrollando (nelle pazienti bulimiche), della purezza (nei pazienti ortoressici) e della costruzione della propria virilità e maschilità (nel pazienti vigoressici). Il mezzo principale di questa ricerca del proprio ideale è il cibo ma nel caso del paziente vigoressico, che ora approfondiremo, lo sono anche la pratica sportiva nelle palestre e l’uso di sostanze anabolizzanti.

Sul ‘Corriere della sera’ datato venerdì 28 gennaio 2005, Rosella Redaelli e Marco Mologni pubblicano un articolo intitolato: ‘Tanta palestra e poco cibo: allarme sindrome di Adone – Duemila ragazzi lombardi colpiti da anoressia. Fenomeno in crescita’.

L’articolo parla di un fenomeno in crescita, ragazzi anoressici che trascorrono la maggior parte del proprio tempo in palestra e durante i pasti seguono una dieta povera e ripetitiva. Essi hanno lo scopo di bruciare i grassi e avere un corpo scolpito. L’articolo espone inoltre qualche statistica e spiega le peculiarità dell’anoressia maschile. In allegato, si trova inoltre la sezione testimonianza, che riporta la voce del campione ginnasta Igor Cassina, che incita i ragazzi ad amare lo sport e viverlo senza trasformarlo in un’ossessione o in un idolo, punendosi poi nel momento in cui non si raggiungono i risultati attesi. Sotto la storia viene invece riportato il decorso della malattia di Davide, un ragazzo di Monza che racconta la propria anoressia nervosa.

In realtà, nel 2005 era già edito da qualche anno il testo ‘The adonis complex‘ di Pope, Philips e Olivardia che negli Stati Uniti avevano già parlato di vigoressia, un disturbo differente dall’anoressia maschile nervosa, anche se rientrano entrambi nei disturbi dell’alimentazione, abbinati al dismorfismo corporeo.

La vigoressia o sindrome di Adone o bigoressia (dall’aggettivo inglese big), alternativamente chiamata anoressia al contrario, porta la persona, solitamente maschio, a percepirsi troppo magro e smilzo anche laddove la persona sia muscolosa e allenata, ed è abbinata a un forte desiderio di ingigantire il proprio corpo, fino a raggiungere il modello di Adone, di fatto inesistente nella realtà (Dalla Ragione, Scopetta, 2009). L’ossessione nei confronti del proprio corpo e dei muscoli porta la persona a trascorrere gran parte della propria giornata in palestra, senza badare troppo a giorni di riposo, giorni di festa e vacanze, per costruire e accumulare i propri muscoli, avendo così l’idea di meglio definire la propria maschilità. In quest’ottica patologica, vi è l’implicita e ferma convinzione che si è tanto maschili, quanti muscoli si possiedono.

La dieta alimentare del vigoressico è compromessa dall’intento di perfezionare il proprio corpo, è dunque limitata ed ossessiva, danneggiata talvolta da uno strappo alla regola, considerato un’ eccezione e accompagnato da un gran senso di colpa, che la persona combatterà facendo ore e ore di esercizio fisico.

Ma, nonostante il bigoressico rincorra una dieta e uno stile di vita estremamente salutistici, egli spesso giustifica l’assunzione di ormoni androgeni, sostanze anabolizzanti e sostanze ergogeniche illecite, che accompagnano gli estenuanti allenamenti a cui si sottopongono e che lo aiutano a raggiungere una forma fisica altrimenti impossibile per il corpo umano.

Coloro che soffrono della sindrome di Adone non sono mai soddisfatti della propria figura corporea in quanto essi non la percepiscono normalmente, si parla infatti di dismorfismo corporeo perché, visti da fuori, i vigoressici presentano in tutto e per tutto il prototipo dell’uomo muscoloso. Eppure, come ricorda Stagi, la persona che è immersa nelle pratiche vigoressiche da lungo tempo si vergogna a mostrare il proprio corpo in spiaggia o comunque tende a nascondere le proprie forme fisiche, perché considerate non abbastanza muscolose secondo il suo canone di bellezza maschile (2008). Alcune situazioni come spiaggia o vita sessuale costituiscono per il vigoressico una fonte di ansia e disagi, pur essendo situazioni sociali largamente diffuse e in generale poco compromettenti per la persona.

Secondo Pope e i suoi collaboratori, la costruzione del proprio corpo, muscolo dopo muscolo, si pone in fretta assonanza con la costruzione identitaria maschile del bigoressico, il quale fa del suo corpo un progetto di vita che lo distoglie dalle problematiche reali e dalle relazioni sociali che fanno parte della sua vita. Legata a questa caratteristica, vi è anche un’autostima generalmente medio-bassa, che incrementa o diminuisce a seconda che il corpo venga percepito bello, muscoloso e prestante oppure brutto, magro, flaccido. Vi sono inoltre delle complicanze mediche a cui il vigoressico può andare incontro: Il sovrallenamento può portare a problemi nell’apparato cardiovascolare e muscolare, nonché problemi psicologici; l’abuso delle sostanze precedentemente citate può portare a danni endocrinologici anche gravi. Inoltre, come ogni disturbo di entità ossessiva, la vigoressia può portare la persona a manifestare comportamenti compulsivi, a vivere periodi di depressione anche gravi, che possono implicare il suicidio (Dalla Ragione, Scopetta, 2009).

Per concludere, le autrici appena citate ammettono che, essendo questo una patologia studiata da poco, gli strumenti per misurarla sono ancora nuovi, ma vengono riportate alcune importanti aree da indagare, utilissime per individuare una predisposizione vigoressica e un dismorfismo corporeo. A tal proposito, sarebbe importante approfondire:

  • L’evitamento sociale, ovvero con quanta frequenza la persona eviti le attività sociali, scolastiche o lavorative a causa della preoccupazione per l’aspetto esteriore;
  • Il tempo, ovvero quante ore al giorno la persona impiega per prepararsi atleticamente con l’intento di migliorare il proprio aspetto fisico;
  • La dieta e altre pratiche, ovvero se la persona segua una dieta precisa e la abbini a integratori alimentari allo scopo di migliorare l’aspetto fisico oppure quanto la persona spenda al mese per acquistare i cibi giusti, altre sostanze, i vestiti o l’attrezzatura sportiva.

 

Quando il matrimonio è una questione di investimento

C’è stato un tempo in cui il matrimonio costituiva un passaggio obbligato, una tappa scontata nel percorso esistenziale della maggior parte della popolazione. Oggi, invece, sono sempre meno le coppie che scelgono di sposarsi e, anche qualora lo facciano, i processi motivazionali alla base della scelta sembrano essere diversi da quelli di una volta. Che cosa è cambiato?

Un recente studio condotto da Shelly Lundberg e Robert Pollak si è occupato di indagare questo complesso fenomeno esaminando il valore culturale, il significato sociale e la natura economica del matrimonio. Prima degli anni Cinquanta la società occidentale si reggeva su una distinzione dei ruoli sessuali piuttosto rigida che prevedeva che gli uomini si occupassero del sostentamento materiale del nucleo familiare e le donne gestissero la casa e i figli. Nella maggior parte dei casi, in altre parole, le donne erano prima di tutto madri e, se lavoravano, lo facevano per periodi brevi, tra una gravidanza e l’altra, senza un disegno di carriera specifico. Un secondo aspetto, secondo gli autori, permette di comprendere la natura del matrimonio nella sua forma classica: la vulnerabilità della figura femminile all’epoca era in certa misura tutelata dalla rigidità del patto matrimoniale e dalla difficoltà di uscita da tale rapporto in termini economici, giuridici e sociali.

A partire dalla metà del secolo, invece, la società occidentale (e quella americana in particolare) è stata protagonista di cambiamenti profondi che hanno ridisegnato, tra le altre cose, il ruolo del matrimonio. Innanzitutto, a partire dagli anni Cinquanta sempre più donne hanno scelto di proseguire gli studi dopo le superiori e, così facendo, hanno posticipato il matrimonio e si sono aperte la possibilità di intraprendere una carriera lavorativa significativa in termini di prospettive di crescita e di salario.

Una serie di cambiamenti legislativi ha poi reso possibile intraprendere la strada del divorzio con difficoltà decisamente più contenute e, dal punto di vista sociale, l’opzione è stata gradualmente accettata. Infine, le innovazioni tecnologiche e un mercato con un’offerta in forte crescita hanno permesso una gestione della casa molto più semplice e rapida: non serviva più qualcuno a casa che si dedicasse a tempo pieno alle faccende domestiche. In termini economici, si poneva un quesito importante: quale poteva essere il vantaggio del matrimonio ora che non era più così difficile vivere soli e che la specializzazione di genere si attenuava sempre di più?

 

Matrimonio in epoca moderna

I costi in termini di libertà personale non sembravano più secondari rispetto ai vantaggi pratici e, così, si è iniziato a sposarsi meno, a compiere il passo in età più avanzata e a concepire bambini anche al di fuori del matrimonio. Se negli anni Cinquanta circa l’85% degli uomini e delle donne statunitensi erano sposati, nel 2010 la percentuale si è attestata attorno al 65%.

Ma c’è qualcosa di più: se è vero che i matrimoni sono in generale diminuzione, ciò non vale per la popolazione in possesso di titoli di studio elevati. All’interno di questa categoria, infatti, i matrimoni sembrano essere più frequenti, più duraturi e precedenti alla nascita dei figli. Si sposano meno del 40% delle donne statunitensi che non hanno concluso le scuole medie e circa il 70% di quelle con un master, mentre optano per la convivenza circa il 20% delle prime e solo il 5% delle seconde. Gli autori riportano inoltre, in riferimento alla popolazione americana bianca, una percentuale del 53% di prole nata al di fuori del matrimonio per madri con un diploma superiore o licenza media, mentre la percentuale scende al 6% per le donne laureate. I dati registrati per la popolazione afroamericana e ispanica mostrano un andamento simile, anche se i numeri sono più alti in tutte le categorie di titoli di studio.

Come spiegare questo fenomeno? Secondo gli autori, il matrimonio è diventato uno strumento di protezione per un investimento molto specifico, quello sulla cura e sull’educazione dei figli. Un investimento che, sostengono Lundberg e Pollak, ha senso per i ceti più colti e benestanti, che hanno una maggior quantità di risorse -economiche e non – da dedicare alla prole, impegnandosi per garantire un futuro di successo.

Secondo questa lettura le classi medio-basse, non essendo nelle condizioni di mettere a punto e realizzare grandi progetti per i figli, non avrebbero motivo di accettare le limitazioni della propria libertà che il matrimonio comporta. E questo, a sua volta, potrebbe portare ad un’ulteriore riduzione delle risorse e ad un destino segnato in cui le scarse possibilità educative ricevute dai genitori determinano scarse possibilità educative offerte ai figli – una questione sociale che richiede di essere presa in attenta considerazione.

Counseling: si pronuncia il TAR del Lazio

Un articolo di Federico Zanon pubblicato da Altrapsicologia.it

 

 

Il TAR del Lazio ha pubblicato una sentenza destinata a dare sempre più chiarezza sul fronte della tutela delle attività psicologiche.

Insieme ad altre sentenze che in passato hanno fatto storia, anche questa è un nuovo mattone nella giurisprudenza sulla tutela dei confini della professione di psicologo e della salute dei cittadini.

Il lungo iter è tutto consultabile sulla pagina del TAR. Ma vale la pena rintracciare alcuni stralci della sentenza, che è consultabile integralmente qui.

I COUNSELOR NON STANNO NEMMENO NEI CANONI DELLA LEGGE 4/2013

Si inizia ANNULLANDO  tutti i diversi provvedimenti che hanno fondato l’inserimento di Assocounseling nell’elenco delle Associazioni non regolamentate ai sensi della legge 4/2013.

Per chi non lo ricordasse, la Legge 4/2013  ha dato la possibilità di ottenere un ‘bollino’ statale a professioni non regolamentate.

Assocounseling chiese e ottenne di essere iscritta nell’elenco delle Associazioni riconosciute dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Ne seguì il ricorso degli psicologi, di cui Altrapsicologia ha dato notizia in questo articolo.

L’INTERESSE DEGLI PSICOLOGI: SONO AFFARI ANCHE NOSTRI

Un primo elemento di interesse della sentenza è che riconosce agli psicologi l’interesse a ricorrere, e quindi ad occuparsi del counseling:

“La giurisprudenza è pacifica nel ritenere che “gli Ordini professionali, per la loro peculiare posizione esponenziale nell’ambito delle rispettive categorie e per le funzioni di autogoverno delle categorie stesse ad essi attribuite, sono legittimati ad impugnare in sede giurisdizionale gli atti lesivi non solo della propria sfera giuridica come soggetto di diritto, ma anche degli interessi di categoria dei soggetti appartenenti all’Ordine, di cui l’Ente ha la rappresentanza istituzionale” (v. CdS IV 50/2005).”

LA NATURA GENERICA DEL COUNSELING.

Il secondo e più importante argomento riguarda la natura del counseling così come presentato da Assocounseling. L’Associazione ce lo racconta così:

“attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. E’ un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il Counseling può essere erogato in vari ambiti quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale.”

 

LEGGI ANCHE: STORICA SENTENZA COUNSELOR: I PUNTI INTERESSANTI

Un’altra storica sentenza contro i counselorConsigliato dalla Redazione

Il TAR del Lazio ha pubblicato una sentenza destinata a dare sempre più chiarezza sul fronte della tutela delle attività psicologiche. (…)

Tratto da: AltraPsicologia

 

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Procedura per la valutazione delle capacità metacognitive di pazienti con disturbo di personalità

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Procedura  per la valutazione delle capacità metacognitive di pazienti con disturbo di personalità

S. Torniai, T. Ciulli, G. Orsanigo, M. Tafi, C. Ziella, S. Mori, S. Taddei, C. La Mela

Scuola Cognitiva di Firenze

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia

 

Le capacità metacognitive sono definite come le capacità dell’individuo di compiere operazioni cognitive euristiche sui propri e altrui stati mentali e utilizzare tali conoscenze a fini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati di sofferenza soggettiva (Semerari, 1999).

Per la valutazione delle capacità metacognitive nei pazienti affetti da disturbo di personalità sono attualmente usate la SVaM (Scala di Valutazione per la Metacognizione, Carcione et al., 1997) e l’IVaM (Intervista per la Valutazione della Metacognizione, Semerari et al., 2008). Un ulteriore strumento è stato messo a punto per i disturbi dello spettro schizofrenico (Lysaker et al., 2002).

Ad oggi la ricerca non ha ancora stabilito se il funzionamento metacognitivo nei soggetti con disturbo di personalità sia una condizione tratto-dipendente, o se, invece, si possa avere uno scadimento delle capacità metacognitive in contesti relazionali capaci di attivare stati mentali problematici (Dimaggio et al., 2009).

Gli obiettivi del nostro studio sono:

1) Mettere a punto una procedura standardizzata per attivare stati mentali problematici ed esplorare le diverse funzioni metacognitive.

2) Verificare se il funzionamento metacognitivo vari in relazione alla qualità dello stato mentale in pazienti con disturbi di personalità.

L’intervista semi strutturata messa a punto risulta suddivisa in 3 sezioni: nella prima viene chiesto di descrivere un episodio relazionale recente, nella seconda viene esplorato un episodio relazionale recente particolarmente significativo per l’attivazione di intense componenti emotive negative, infine, nella terza sezione tramite delle tecniche immaginative, il soggetto descrive un episodio del passato correlato allo stato emotivo attivato. I trascritti della registrazione dell’intervista sono stati successivamente analizzati tramite la SVAM per valutare le funzioni metacognitive.

I risultati ottenuti sembrerebbero mostrare che la procedura è in grado di attivare stati mentali problematici ed elicitare i diversi domini metacognitivi .

Una prima valutazione dei trascritti del campione mostra inoltre una variazione del funzionamento metacognitivo nelle 3 sezioni dell’intervista, in linea con l’ipotesi di uno scadimento delle funzioni durante l’attivazione di stati mentali problematici.

Sebbene i risultati preliminari supportano l’ipotesi iniziale, l’attuale dimensione ridotta del campione non permette di trarre conclusioni significative e definitive sull’ipotesi di una condizione stato-dipendente delle capacità metacognitive.

 

La Family-based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza – Roma, 2015

Loriana Murciano

 

Durante il corso “Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza” che si è tenuto a Roma dal 3 al 6 novembre scorsi, il Prof. Daniel Le Grange, docente dell’Istituto Benioff di Pediatria dell’Università di San Francisco, California, ha illustrato il razionale clinico ed i principali studi di efficacia del Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family -Based Treatment – FBT), considerato attualmente l’intervento psicoterapeutico di prima scelta nella cura dell’Anoressia Nervosa (AN) in adolescenza (APA, 2005; NICE, 2004; RANZCP, 2014; Quaderni del Ministero della Salute 17/22, 2013; Rapporto ISTISAN 13/6, 2012).

L’ FBT trova le sue radici nel modello di Terapia Familiare sviluppato presso il Maudsley Hospital di Londra negli anni ’80 ed integra diversi aspetti (cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale e di “clinical management”): sono utilizzate infatti strategie ed interventi provenienti da diverse scuole di terapia familiare (Structural Family Therapy di Minuchin, Scuola Milanese Selvini-Palazzoli, Strategic Family Therapy di Haley e Narrative Therapy di White).

L’FBT è un trattamento ambulatoriale intensivo indicato per bambini ed adolescenti che si presentano in condizioni di stabilizzazione clinica e che pone al centro dell’intervento i genitori, considerati la “risorsa chiave” per il recupero clinico del loro figlio.
Il trattamento si struttura in 3 fasi con una durata di circa 12 mesi.
Nella prima fase (1-10 sessioni a cadenza settimanale) i genitori si assumono la responsabilità (con l’assistenza del terapeuta FBT) di supportare l’aumento di peso del proprio figlio e di limitare i comportamenti patologici di compenso. Nella seconda fase (11-16 sessioni) il paziente è supportato nel riprendere il controllo e la responsabilità della propria alimentazione e del peso. La terza fase (17-20 sessioni) è focalizzata sul mantenimento del peso raggiunto e sul percorso verso una ripresa di uno sviluppo adolescenziale fisiologico e più armonico.
L’alleanza terapeutica con l’adolescente all’inizio del trattamento non si è dimostrata una variabile che ne influenza l’esito nel tempo (Forsberg et al. 2013).

Quali sono i presupposti fondamentali per l’FBT?
1. Visione agnostica delle cause della malattia
2. Posizione non autoritaria del terapeuta
3. Genitori “responsabili” del recupero del peso
4. Esternalizzazione (“separazione del paziente dalla patologia”)
5. Focus iniziale sul peso

Rispetto alle questioni teoriche l’FBT assume una posizione “agnostica”; strategicamente è fuorviante per il terapeuta FBT occuparsi degli aspetti causali ed eziopatogenetici (secondo i modelli dinamici, cognitivisti, sistemici, etc.) finché l’adolescente non abbia riacquistato le competenze cognitive, metacognitive ed emotive che solo un adeguato recupero ponderale può garantire.
L’obiettivo dell’FBT è far sì che i genitori arrivino a svolgere il compito e la funzione di guida per portare il loro figlio adolescente a “rimettersi in carreggiata” e poter percorrere il proprio sviluppo. L’FBT agisce come connessione figlio-genitori: il messaggio dell’Anoressia Nervosa è di richiamo verso i genitori (“quanto peso devo ancora perdere perché voi vi accorgiate che sono in crisi?”); il ruolo del terapeuta è quello di comunicare ai genitori “Svegliatevi! Accorgetevene!”, ossia di portare loro a fare quello che i figli non riescono a chiedere.
Il passaggio dalla prospettiva della parentectomia all’empowerment genitoriale implica un cambiamento del modello evolutivo dell’adolescente.
L’FBT è risultata efficace in più del 50% dei casi ed ha mostrato un significativo decremento del tasso di recidiva e di ri-ospedalizzazione nel tempo (Hughes, Le Grange, Court et al., 2013)

Il terapeuta FBT assume una posizione di consulente autorevole, non autoritario né critico, che in un clima di empatia interviene nel sostenere l’autonomia terapeutica dei genitori, ascoltando la famiglia, fornendo suggestioni e informazioni e cercando di stimolarne le risorse positive e modificarne gli atteggiamenti negativi; bisogna aiutare i genitori a comprendere cosa è meglio e più salutare per i propri figli (renderli più “responsabili”) senza fornire prescrizioni ed istruzioni con comunicazioni esplicite: l’obiettivo è di far acquisire loro la capacità di affrontare le sfide proposte dai loro figli.

E’ fondamentale spiegare ai genitori la gravità della malattia e separare l’adolescente dalla patologia (“Esternalizzazione”) per evitare inutili colpevolizzazioni e per avere un atteggiamento collaborativo e presente. [blockquote style=”1″]È il sopravvento della malattia che determina gli aspetti sintomatici ed i comportamenti disfunzionali e patologici dell’adolescente, non una modalità della persona che all’improvviso cambia[/blockquote]. L’anoressia nervosa per il Prof. Le Grange è paragonabile ad un cancro e l’impegno comune dovrà essere la sua completa eradicazione e, quindi, la guarigione del paziente.

Il focus iniziale del trattamento FBT è il recupero ponderale: l’aspetto del peso è l’elemento organizzatore del lavoro iniziale. La terapia inizia facendo salire il paziente sulla bilancia e valutando le curve ponderali e le strategie per limitare l’impatto clinico del disturbo alimentare. L’enfasi deve essere posta sul miglioramento ponderale piuttosto che sui cambiamenti cognitivi ed emotivi finché non si è recuperato un peso ragionevole (il 90% del peso salutare indicato per il paziente).

Prima di iniziare il trattamento FBT viene fatta una valutazione psicodiagnostica e clinica dell’adolescente ed un’intervista con i genitori in cui viene definita l’idoneità al trattamento ambulatoriale. La terapia FBT prevede un approccio di team multidisciplinare che può comprendere, oltre al terapista FBT (che coordina la cura), il pediatra/internista che gestisce la sicurezza clinica del paziente, il neuropsichiatra infantile, il nutrizionista, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere.

Il modello FBT prevede 3 fasi per un totale di 20 sessioni in 12 mesi.
La prima fase, che costituisce il 50 % della cura, consta di 10 sessioni a cadenza settimanale ed ha l’obiettivo di aiutare i genitori a “riassumere il controllo dell’alimentazione”: si tratta di fornire ai genitori gli strumenti per far rialimentare l’adolescente e portarlo nella situazione di procedere verso la sua autonomia. Nell’ adolescente che soffre di anoressia nervosa l’autocontrollo del peso non ha niente a che fare con il controllo della propria vita ma è solo il controllo indotto dalla malattia; bisogna portare i genitori a fare quello che un infermiere farebbe durante il ricovero: nella vita di tutti i giorni il compito iniziale dei genitori deve essere quello di sgretolare la dieta ferrea ed i comportamenti di compenso patologici.

Subito nella prima sessione l’intento del terapeuta FBT deve essere quello di stabilire e sottolineare che si tratta di una situazione grave (a rischio di vita) e di crisi dell’adolescente e di tutta la famiglia ed è importante che tutti siano coinvolti per risolvere la situazione (anche gli eventuali altri figli); bisogna cercare di ridurre il senso di colpa conferendo ai genitori un ruolo attivo nell’aiutare il paziente. I genitori dovrebbero andar via allarmati e con una responsabilità condivisa col terapeuta sulle possibili soluzioni; la famiglia deve essere ingaggiata evitando che l’adolescente si senta responsabile di aver rovinato la sua vita e quella della sua famiglia. Nell’FBT, focalizzandosi sull’aspetto del peso, si va comunque a riorganizzare le relazioni sociali e di attaccamento, pur non intervenendo come nella terapia sistemica secondo Minuchin: i genitori sono esortati con perseveranza a lavorare insieme su questo punto “sintonizzandosi tra di loro e concordando” nelle posizioni assunte verso il proprio figlio. Viene conferito così ai genitori un mandato molto chiaro “d’ora in poi siete voi genitori a dover prendere in mano la situazione alimentare di vostro figlio!”.

Nella seconda sessione si svolge il “pasto familiare”: in precedenza ai genitori viene richiesto di portare un pasto che entrambi decidono insieme. L’osservazione del momento critico del pasto familiare ha due intenti: fornire informazioni sul funzionamento familiare e capire in che modo la famiglia si è adeguata alla malattia (ulteriori comportamenti disfunzionali e di disturbo). L’enfasi in questa fase è posta sullo sforzo congiunto che i genitori devono fare per salvare la vita del loro figlio (parental training con esercizi di perseveranza). È importante costruire un contesto diverso in cui la paziente possa sperimentare due genitori “allineati” contro la malattia pur condividendo e supportando la difficoltà del figlio adolescente.

Il concetto dell’esternalizzazione, ossia la separazione dell’adolescente dalla sua malattia, fornisce all’adolescente stesso la consapevolezza che il terapeuta ha una chiara idea della lotta in cui si dibatte; questo aiuta ad attribuire i giusti significati, riducendo i sensi di colpa ed il criticismo genitoriale. Le prime sessioni, focalizzate sul peso, hanno un taglio comportamentale. Quando il paziente arriva al recupero del 75% del peso corporeo salutare si può passare alla fase 2 che ha l’obiettivo di raggiungere il 90% del recupero ponderale. Prima di ridare il controllo della propria alimentazione all’adolescente bisogna assicurarsi di avere “una rete di sicurezza intorno”: nella fase 2 ogni pasto deve essere ancora sottoposto alla supervisione dei genitori; l’adolescente però inizia ad essere coinvolta nelle decisioni alimentari visto che la “sua parte sana sta riemergendo”.

Durante il corso si sono svolti esercizi di role-playing con alcuni partecipanti e sono stati visionati video e trascritti esemplicativi che hanno didatticamente chiarito le procedure di intervento.
Ad arricchire il valore clinico e scientifico dell’evento svoltosi a Roma l’intervento del Dott. Armando Cotugno, direttore della UOSD Disturbi del Comportamento Alimentare ASL RME, che ha illustrato, in ultima analisi, l’esperienza italiana del protocollo FBT in un contesto istituzionale pubblico.

Le conseguenze del trauma (con e senza disturbo post traumatico da stress) sulle funzioni esecutive

Martina Torresi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Quali sono i fattori, oltre al trauma in sé, che possono rappresentare cause di rischio o di protezione per lo sviluppo ed il mantenimento dei sintomi del DPTS? Molteplici ricerche correlano la presenza di eventi traumatici a deficit cognitivi che interessano l’attenzione, la memoria e le funzioni esecutive.

Il DSM V classifica il disturbo post-traumatico da stress (DPTS) come un disturbo indipendente dai disturbi d’ansia, classificandolo all’interno della sezione ‘Disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti’ che comprende: il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito, il DPTS, il disturbo da stress acuto e i disturbi dell’adattamento (DSM V).

Kessler et al., 1995 hanno stimato che circa il 50-60% di persone, durante il corso della propria vita, potrà essere esposta ad un esperienza traumatica, che può riguardare traumi relativi a combattimenti, aggressioni sessuali, incidenti, o altri orrori di vita. Ma è stato stimato che soltanto il 5-10% delle persone svilupperanno sintomi specifici per una diagnosi di DPTS.

Tale osservazione ha portato i ricercatori a considerare quali sono i fattori, oltre al trauma in sé, che possono rappresentare cause di rischio o di protezione per lo sviluppo ed il mantenimento dei sintomi del DPTS. Molteplici ricerche correlano la presenza di eventi traumatici a deficit cognitivi che interessano l’attenzione, la memoria e le funzioni esecutive (DePrince et al., 2009).

La letteratura ha contribuito ad evidenziare come gli approcci neuropsicologici rappresentino un’importante via che ci permette di individuare i fattori di vulnerabilità e quelli di recupero rispetto allo sviluppo e al mantenimento dei sintomi del DPTS (Aupperle et al., 2011).

De Bellis et al., 2013 mettono in risalto il concetto di sviluppo traumatologico, in riferimento all’impatto psicobiologico che i maltrattamenti e le violenze interpersonali possono avere sullo sviluppo dei bambini. Il modello dello sviluppo traumatologico (De Bellis, 2001) si basa sul modello psicobiologico del DPTS chiamato anche reazione di attacco-fuga. Quest’ultimo afferma che la paura ed i ricordi traumatici associati alle esperienze di maltrattamento infantile, vengono elaborati attraverso il talamo attivando poi l’amigdala, responsabile della rilevazione degli stimoli di paura. L’amigdala trasmette successivamente i segnali di paura ai neuroni della corteccia prefrontale, all’ipotalamo e all’ippocampo, struttura cerebrale coinvolta nella memoria, il quale causa elevate risposte di cortisolo. Vi è inoltre un aumento dell’attività nel locus coeruleus che comporta una maggiore attività del sistema nervoso simpatico, dei neurotrasmettitori legati allo stress (catecolamine), del battito cardiaco, della pressione sanguigna, dell’indice metabolico e una maggiore allerta.

Tali modificazioni preparano il corpo a proteggersi dal pericolo, ma risultano essere dannose quando persistono in determinate relazioni stressanti e disuguali, come nel maltrattamento genitore-bambino. Tale stress chimico compromette la corteccia prefrontale e le funzioni esecutive (Arnsten, 1998). La corteccia prefrontale a sua volta può inibire l’attivazione dell’amigdala, meccanismo responsabile della riduzione dei sintomi del DPTS. Quindi, il modello di sviluppo traumatologico basato su un modello psicobiologico statico del DPTS, predice che i giovani maltrattati potrebbero mostrare deficit rispetto alle funzioni esecutive prefrontali e rispetto alle funzioni mnesiche. Un modello di sviluppo traumatologico dinamico invece, potrebbe predire che il sistema di sviluppo dello stress colpisce funzioni cerebrali multiple che possono essere inizialmente legate ai sintomi acuti del DPTS, ma che poi innescano conseguenze indipendenti ed effetti sfavorevoli. Così un precoce trauma attiva un meccanismo che può causare deficit neuropsicologici globali e multipli in aree e domini che non sono collegati però ai sintomi tipici del DPTS né a psicopatologia.

Deficit delle funzioni esecutive (FE) sono stati riscontrati negli adulti esposti al trauma (El-Hage et al., 2006; Navalta et al., 2006), inclusi quelli con DPTS (Kremen et al., 2007; Parslow & Jorm, 2007) e con sintomi dissociativi (DePrince & Freyd, 1999; Simeon et al., 2006).

Rispetto a ciò, Aupperle et al. (2011) riassumono i risultati di studi che hanno indagato le FE associate al DPTS. In particolar modo, prendono in considerazione deficit riguardanti le capacità di inibizione e di regolazione attentiva, che possono precedere ed essere antecedenti all’esposizione traumatica e quindi rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo del DPTS, ed essere collegati alla gravità dei sintomi.

Sebbene molte ricerche neuropsicologiche nell’ambito del DPTS si siano concentrate sullo studio delle funzioni mnesiche e di apprendimento, altre hanno indagato la possibilità di un eventuale malfunzionamento del lobi frontali e quindi delle FE.

Nel considerare le FE gli autori fanno riferimento alle capacità di mantenimento e di controllo di comportamenti complessi diretti ad uno scopo (Alvarez and Emory, 2006; McCabe et al., 2010). Le FE includono:

  • L’attenzione, focalizzazione della propria mente su un particolare stimolo all’interno dell’ambiente
  • La working memory, mantenimento attivo e manipolazione dell’informazione nella propria mente per un certo periodo di tempo
  • L’attenzione sostenuta, mantenimento dell’attenzione su un insieme di stimoli o su un compito per un periodo di tempo prolungato
  • La capacità inibitoria, inibizione di risposte automatiche e mantenimento del comportamento diretto allo scopo
  • La flessibilità e/o lo switching, abilità di passare da un compito all’altro o da una strategia ad un’altra
  • La pianificazione, abilità di sviluppare ed eseguire comportamenti strategici al fine di raggiungere un obiettivo futuro (McCabe et al., 2010; Repovs and Baddley, 2006).

Aupperle et al. 2011 hanno deciso di focalizzarsi sulle FE e sull’attenzione piuttosto che sull’apprendimento e sulla memoria per due motivi: in primo luogo ci sono state recenti review che hanno discusso la relazione tra memoria, apprendimento e DPTS, in secondo luogo recenti ricerche hanno messo in evidenza che training di modificazione attentiva possono essere vantaggiosi nel trattamento dei disturbi d’ansia (Amir et al., 2009a; Schmidt et al., 2009; Amir et al., 2009b; Najmi and Amir, 2010). Così la ricerca orientata al funzionamento dell’attenzione e della working memory può aumentare la nostra conoscenza rispetto al DPTS e condurci a trattamenti più efficaci per questa tipologia di pazienti.

Dal lavoro di Aupperle et al., 2011 vengono discussi vari risultati. In primo luogo gli autori mettono in evidenza come vi siano alcuni fattori cognitivi di rischio che correlano con sintomi del DPTS; tra questi individuano funzionamento attentivo, esecutivo e mnesico pre-trauma.

Per quanto riguarda l’attenzione e la working memory emerge che persone con DPTS, che avevano subito aggressioni sessuali o avevano avuto esperienze di guerra, quando confrontate con vittime senza DPTS e controlli senza trauma, presentano basse performance in compiti di attenzione uditiva e working memory (Burriss et al., 2008). Per quanto riguarda l’attenzione sostenuta e le funzioni inibitorie gli studi hanno ripetutamente trovato che persone con DPTS mostrano perfomance ridotte in compiti volti a valutare l’attenzione sostenuta uditiva e visiva (Continuous performance test, CPT) riportando un elevato numero di errori di intrusione, indice di difficoltà inibitorie (Wu et al., 2010); anche quando sottoposti a prove volte valutare le capacità di inibizione (prove Go-no-go, Attention network tasks, Stroop test), la performance di persone con DPTS è consistentemente deficitaria e correla con la gravità dei sintomi del DPTS (Lagarde et al., 2010; Wu et al., 2010). Resta difficile determinare la direzionalità di questi effetti visto che tali ricerche si basano su disegni cross-sectional. Infatti l’aumentato arousal e i sintomi intrusivi (l’evento traumatico viene rivissuto) possono determinare maggiore distrazione quando un individuo sta provando a concentrarsi sul compito, così da interferire con la working memory, l’attenzione sostenuta e le funzioni inibitorie. E’ possibile inoltre che le difficoltà di inibizione si manifestino non solo nella diminuzione della performance ma anche compromettendo l’abilità ad inibire memorie emotive e l’arousal fisiologico in risposta ai vari triggers durante il compito.

Rispetto alle capacità di flessibilità, switching attentivo e pianificazione, essenziali per il controllo esecutivo, le conclusioni risultano incongruenti: alcuni studi (Stein et al., 2002; Jenkins et al., 2000) su persone con DPTS evidenziano difficoltà di flessibilità e switching (indagate con il Trail making test, TMT) caratterizzate da un aumento del tempo impiegato a risolvere il compito, mentre altri non riscontrano tali difficoltà (Twamley et al., 2009; Lagarde et al., 2010).

Per quanto riguarda le capacità di pianificazione nel DPTS, valutate con il test della Torre di Londra e il Wisconsin Card-Sorting Test (WCST), non sono emersi deficit importanti (Lagarde et al., 2010) ma affiora solo una difficoltà iniziale di problem solving in quanto nello svolgimento del WCST nelle persone con DPTS emerge un aumento del numero di trials utilizzati per il completamento della prima categoria del compito (Twamley et al., 2009).

E’ possibile affermare come le capacità di pianificazione e le strategie di switching in persone con DPTS risultino essere risparmiate nei compiti che non richiedono limiti di tempo (WCST) a differenza di quelli che lo richiedono (TMT) e che working memory, attenzione sostenuta e capacità inibitorie siano compromesse in casi di DPTS.

Anche studi di neuro-immagine mettono in evidenza differenze nei correlati neurali che vengono ad attivarsi in soggetti sani e in soggetti con DPTS in relazione alle FE. Tali studi mostrano che in soggetti sani, durante compiti che richiedono capacità di inibizione, vi è un’attivazione delle aree della corteccia frontale inferiore, della corteccia orbitofrontale, e della corteccia prefrontale laterale, quest’ultima specificatamente implicata in risposte inibitorie (Aron et al., 2003; Bledowski et al., 2010). In soggetti con DPTS invece si evidenzia una ridotta attivazione della corteccia prefrontale laterale durante lo svolgimento di compiti richiedenti capacità inibitorie (Falconer et al., 2008). Tuttavia un’importante limitazione di questi studi è il riscorso eccessivo a campioni clinici che corrono il rischio di enfatizzare eccessivamente gli effetti specifici della sintomatologia del DPTS sui deficit cognitivi a scapito degli effetti intrinseci del trauma (Navalta et al., 2006).

I deficit cognitivi potrebbero precedere l’inizio del DPTS, svilupparsi insieme all’evento traumatico o insorgere al manifestarsi dei sintomi (Brandes et al., 2002). Per tale motivo studi che utilizzano solo pazienti con DPTS per analizzare gli effetti del trauma sulle FE, non consentono di comprendere le reali conseguenze del trauma sugli aspetti cognitivi.

Navalta et al., (2006) per superare questo problema, hanno indagato gli effetti dell’abuso sessuale in relazione allo sviluppo neurocognitivo in un campione di riferimento non clinico, cioè che non aveva sviluppato una diagnosi di DPTS. Lo studio metteva a confronto 26 donne con storia di abuso sessuale (traumatizzate) con 28 donne senza storia di abuso sessuale (assenza di trauma). I risultati mostrano che l’abuso sessuale è associato a difficoltà cognitive, in particolar modo differenze significative tra i due gruppi sono emerse in compiti volti a valutare le capacità inibitorie, abilità comprese nelle FE.

Così come Navalta et al. (2006), anche De Bellis et al. (2013) indagano il funzionamento cognitivo in bambini e adolescenti mettendo a confronto gruppi clinici con gruppi non clinici. Il campione è formato da tre gruppi: gruppo maltrattati che avevano sviluppato un DPTS; gruppo maltrattati che non avevano sviluppato un DPTS; gruppo di controllo non maltrattati. In accordo con il modello di sviluppo traumatologico sia statico che dinamico (De Bellis, 2001), gli autori ipotizzano che entrambi i gruppi di bambini maltrattati (sia con DPTS che senza) avrebbero riportato performance significativamente peggiori in tutti i domini neuropsicologici rispetto al gruppo di controllo, e che il gruppo di bambini maltrattati con DPTS avrebbe mostrato performance significativamente peggiori in compiti volti a valutare la memoria e le FE rispetto al gruppo dei solo maltrattati e al gruppo di controllo.

E’ stato indagato inoltre se specifiche tipologie di abuso sono associate a specifici domini neuropsicologici, tenendo sotto controllo la gravità del maltrattamento. Per quanto riguarda gli esiti neuropsicologici, non emergono differenze tra i due gruppi di bambini maltrattati: entrambi i gruppi maltrattati (sia con DPTS che senza) eseguono similmente e significativamente peggio prove volte a valutare il QI, il rendimento scolastico, e tutti i domini neuropsicologici eccetto quello fine-motorio, dimostrando come le difficoltà cognitive emergano indipendentemente dalla diagnosi di DPTS.

Non emergono inoltre differenze rispetto alle funzioni esecutive nei due gruppi di bambini maltrattati ma abbiamo differenze tra i due gruppi solo rispetto le abilità visuo-spaziali, che però includono FE di ordine superiore e che quindi supportano l’ipotesi secondo cui il modello di sviluppo traumatologico dinamico predice performance peggiori in compiti volti a valutare le funzioni esecutive nel gruppo maltrattati con DPTS rispetto ai solo maltrattati. I risultati mostrano una relazione tra le variabili di maltrattamento e il funzionamento cognitivo, tale che una durata maggiore della diagnosi di DPTS correla con più basse funzioni visuo-spaziali, i sintomi dissociativi correlano negativamente con il dominio attentivo, e l’esperienza di ripetuti tipi di maltrattamento risulta negativamente associata al dominio dei risultati accademici, mostrando quindi degli effetti cumulativi del trauma che non sono collegati al DPTS. Questo dato supporta il modello di sviluppo traumatologico dinamico secondo il quale un precoce trauma può portare a meccanismi che causano deficit neuropsicologici multipli e globali che non sono collegati ai sintomi dell’attuale DPTS o a psicopatologia.

Solo l’indice di abuso sessuale correla significativamente e negativamente con due principali domini cognitivi: memoria e linguaggio. Ciò suggerisce che bambini abusati sessualmente riportano performance peggiori in compiti che valutano capacità di linguaggio e memoria rispetto a bambini che subiscono altre forme di maltrattamento. In letteratura è stato osservato inoltre che la natura del trauma può influenzare in modo specifico il funzionamento cognitivo nei pazienti traumatizzati. A tal proposito l’obiettivo di DePrince et al., (2009) è stato quello di mostrare che i bambini esposti a trauma familiare (abuso fisico, violenza sessuale ed esposizione alla violenza domestica) avrebbero mostrato deficit delle FE maggiori rispetto a bambini esposti a traumi non familiari. Successivamente alla somministrazione di questionari e una batteria neuropsicologica che andava ad indagare le FE, tra cui working memory, capacità di inibizione, velocità di elaborazione, controllo delle interferenze e attenzione uditiva, un totale di 110 bambini è stato suddiviso in tre gruppi: gruppo con trauma familiare (maltrattamenti fisici e sessuali di tipo famigliare); gruppo con trauma non familiare (calamità naturali, incidenti automobilistici, e/o nella comunità/violenza dei pari); gruppo senza trauma.

Lo studio rivela un effetto della relazione tra condizione di esposizione al trauma familiare e prestazioni nei compiti delle FE, pur tenendo sotto controllo le variabili che contribuiscono ad influenzare la performance sulle FE (condizione familiare di esposizione al trauma, ansia e sintomi dissociativi, presenza di lesioni cerebrali, status socio economico). I bambini esposti a trauma familiare rispetto ai loro pari mostrano prestazioni compromesse nei compiti che valutano le FE rispetto sia al gruppo trauma non familiare che al gruppo di controllo. Tale studio però non è in grado di determinare la direzione causale della relazione tra FE ed esposizione al trauma familiare.

Potrebbe essere che il deficit delle FE aumenti il rischio di esposizione al trauma, piuttosto che l’esposizione al trauma potrebbe comportare deficit nelle FE. Tuttavia non è possibile escludere che il deficit delle FE aumenti il rischio di violenza familiare.

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