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Trauma e alessitimia: studio sperimentale sulla popolazione aquilana – Dal Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Trauma e alessitimia: studio sperimentale sulla popolazione aquilana

Giada Costantini, Giuseppe Curcio

Università degli studi dell’Aquila

 

Con il termine “alessitimia”, che letteralmente significa “non avere le parole per le emozioni”, si indica un insieme di deficit della sensibilità emotiva e emozionale, palesato dall’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri o gli altrui stati emotivi. Per diversi autori, una delle funzioni dell’alessitimia è costituita dell’evitamento degli affetti dovuto ad una difficoltà di elaborazione cognitiva degli stessi (Caretti e La Barbera, 2005).

Krystal (2007) ha suggerito che l’alessitimia può svilupparsi in risposta a traumi estremi per proteggere gli individui dall’esperire affetti estremamente dolorosi: disturbi dell’espressione e delle esperienze emotive sono spesso presenti nei pazienti che hanno sviluppato un disturbo post-traumatico da stress. In breve tempo, infatti, dopo essere stati esposti a un evento traumatico estremo, questi pazienti possono cominciare a sperimentare uno sconvolgimento delle esperienze emotive: se da un lato possono sperimentare stati emotivi intensi correlati al trauma, dall’altro è frequente che i soggetti sviluppino nel tempo una marcata riduzione della capacità di provare emozioni, di entità variabile, fino ad arrivare a una vera e propria “anestesia emozionale” (Stone AM, 1993).

Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato una forte correlazione tra il disturbo depressivo e quello alessitimico (Havilandet al., 1998; Honkalampiet al., 2000; Honkalampiet al., 2005; Lipsanen, Saarijarvi, Lauerma, 2004; Saarijorvi, Salminen, Toikka, 2001) evidenziando una difficoltà-incapacità della persona depressa di identificare ed esprimere i propri sentimenti.

Partendo da queste premesse teoriche, in una ricerca svolta da alcuni studiosi dell’Università De L’Aquila (citata in Costantini, 2012), si sono valutate le reazioni emotive della popolazione aquilana in seguito al terremoto del 6 aprile 2009. Allo studio hanno partecipato 1710 persone e a ciascun partecipante sono state somministrate le scale TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) per la valutazione dell’alessitimia, e BDI (Beck Depression Inventory) per la valutazione del livello di depressione.

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Adolescenza e devianza, tra analisi scientifica e stigma sociale – L’evoluzione dei contributi psicologici

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 4

Superando le visioni causalistiche che vedono un nesso diretto tra determinate caratteristiche psicologiche e psicopatologiche e comportamento criminale, la psicologia recupera l’importanza delle mediazioni cognitive e interattive e dei significati sociali e simbolici che definiscono le azioni umane. In questo senso, si tenta un superamento delle teorie psicologiche classiche che hanno tentato di spiegare il comportamento criminale e deviante, non senza cadute nel determinismo e nel riduzionismo.

In primis si tenta un superamento delle teorie della personalità, che concepivano la personalità come rigida costellazione di tratti in gran parte immutabili nel tempo e resistenti al cambiamento; inoltre, anche le teorie che propongono come assioma quello basato sulla triangolazione frustrazione-aggressività-criminalità, risultano insufficienti e parziali nell’analisi del comportamento criminale che mostra caratteristiche tutt’altro che lineari e sequenziali.

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Alla luce di queste valutazioni critiche e di fronte alla necessità di sviluppare nuove cornici teoriche per affrontare lo studio dei comportamenti devianti e criminali, a partire dagli anni ’80, emergono nuove prospettive psicologiche e nuove cornici interpretative ricche di concetti innovativi e di grande valore epistemologico.

In ambito comportamentista, si deve ad Albert Bandura (1996) il merito di aver superato le rigide visioni stimolo-risposta e di aver proposto una teoria complessa social-cognitiva del comportamento, della personalità e quindi anche della spiegazione della devianza. I concetti di “determinismo triadico reciproco”, “autoefficacia percepita”, “agency” hanno infatti rappresentato una svolta nella lettura dei comportamenti umani, compresi quelli devianti o problematici. Il concetto di uomo che emerge dalla visione di Bandura è quello di un agente attivo, un essere complesso e competente in grado di agire in maniera attiva sul proprio ambiente sociale.

Per quanto riguarda più strettamente l’analisi della condotta deviante, Bandura (1996) introduce il concetto di “disimpegno morale”, intendendo il complesso di strategie socio-cognitive adottate dagli individui per svincolarsi da responsabilità e giudizi, pur salvaguardando il proprio sistema di valori morali (Caprara e Malagoli Togliatti, 1996; De Leo, 1998; De Leo e Patrizi, 1999; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004); secondo Bandura, infatti, è sostanzialmente in virtù dell’azione di meccanismi interni di autoregolazione che può realizzarsi una forma di disimpegno morale per cui diventa ammissibile una condotta precedentemente riprovata (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995). Un forte e costante utilizzo di questi processi cognitivo-sociali, messi in atto individualmente o in gruppo, sembrano correlati positivamente con un orientamento alla devianza (Bandura, 1996; De Leo, 1998).

Più dettagliatamente, si tratta di [blockquote style=”1″]processi di disattenzione, distorsione, misinterpretazione tramite i quali si può venire a creare una frattura nel pensiero morale e tale da giustificare condotte che di norma sono incompatibili con il proprio codice morale e con il mantenimento della stima di sé[/blockquote] (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995, p. 20).

Bandura sottolinea nella descrizione degli otto meccanismi di disimpegno morale come questi permettano di realizzare un modo di pensare [blockquote style=”1″]che porta a una derubricazione morale del danno prodotto e che giustifica condotte che di norma sono condannate sul piano morale. Si creano le condizioni mentali per agire in contraddizione con il proprio codice morale senza dovervi abdicare[/blockquote] (Caprara e Malagoli Togliatti, 1996, p. 14):
– la giustificazione morale è un tipo di pratica per cui il disimpegno morale opera direttamente sull’interpretazione del comportamento stesso; il comportamento reprensibile e dannoso è reso personalmente e socialmente accettabile dipingendola al servizio di scopi sociali e morali più elevati, in modo tale da poter mantenere un giudizio positivo di sé;
– l’etichettamento eufemistico permette di mascherare attività reprensibili o di conferirvi uno status di rispettabilità;
– il confronto vantaggioso, sfruttando il principio del contrasto, permette di far passare un’azione deplorevole per accettabile o giusta, confrontandola con una ancora più riprovevole;
– il dislocamento della responsabilità permette di zittire le sanzioni interne spostando la fonte di responsabilità da se stessi ad altre persone, solitamente più autorevoli cui non era possibile sottrarsi;
– la diffusione della responsabilità permette di indebolire le sanzioni interne diffondendo la responsabilità ad altri specifici o in senso generale; questa strategia è spesso utilizzata dai gruppi o dalle bande criminali in quanto “se tutti sono responsabili, nessuno lo è veramente” (Bandura, 1996, p. 70)
– la distorsione delle conseguenze agisce ignorando o distorcendo gli effetti delle proprie azioni;
– la deumanizzazione della vittima, infine, funziona attribuendo alla vittima dell’azione reprensibile o violenta assenza di sentimenti o caratteristiche umane o spregevoli, conferendole uno status di inferiorità subumana o bestiale.

Bandura sottolinea inoltre che i diversi meccanismi di disimpegno morale possono facilmente combinarsi insieme, producendo un potenziamento reciproco e non una semplice sommatoria di effetti.

In una ricerca di Caprara, Pastorelli e Bandura (1995), gli autori hanno verificato la validità interna e di costrutto di due scale di misurazione dei meccanismi di disimpegno morale in bambini e adolescenti in correlazione ad altre scale di valutazione della condotta aggressiva e impulsiva; i risultati hanno confermato la validità delle due scale per la misura del disimpegno morale in entrambi i campioni, mostrando forti collegamenti tra disimpegno morale e condotte aggressive. In particolare nel gruppo degli adolescenti, i risultati mostrano una elevata correlazione tra disimpegno morale e atteggiamenti come la tolleranza alla violenza,[blockquote style=”1″] a conferma dell’emergenza di una precisa costellazione mentale che giustifica il ricorso all’aggressione e alla violenza[/blockquote] (ibid., p. 27).

I dati confermano quindi l’impianto teorico di Bandura e permettono di concludere che le forme persistenti di devianza, in particolare in adolescenza, risultano correlate significativamente non solo con un alto livello di disimpegno morale (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995; Caprara e Malagoli Togliatti), ma anche con un basso livello di autoefficacia percepita (De Leo, 1998).

De Leo (1998) concepisce la devianza minorile come una funzione comunicativa articolata e complessa, spiegabile attraverso l’analisi dei sistemi di appartenenza del soggetto (famiglia, gruppo dei pari, istituzioni). Il punto di vista dell’autore abbraccia tutte le più recenti acquisizioni epistemologiche provenienti dalla scuola sistemico-relazionale, interazionista, social-cognitiva, superando definitivamente la visione del comportamento umano come determinato da pressioni fisiche, ambientali, familiari o psicopatologiche. Il fuoco dell’attenzione viene centrato sulle funzioni e sugli effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni, per i sistemi e i soggetti coinvolti.

L’autore definisce la devianza come “azione comunicativa” in quanto capace di richiamare inevitabilmente l’attenzione dei sistemi sociali in cui si verifica, sollecitando risposte di controllo, reazione o disapprovazione e, ricorsivamente, la struttura sociale e i sistemi di controllo rimandano al soggetto che ha commesso l’azione deviante informazioni di ritorno che fungono da feedback e da guida nelle scelte che il soggetto metterà in atto in futuro. Parlare di devianza come di una forma di comunicazione complessa e sfaccettata, significa tenere conto della condizione di coevoluzione e di circolarità interattiva in cui sono coinvolti due sistemi simbolici: un microsistema, ovvero il soggetto che agisce e che invia messaggi precisi (anche se spesso difficili da decifrare), e un macrosistema istituzionale, che risponde con altrettanti messaggi in un processo dinamico e retroattivo. La scelta di una teoria della devianza come comunicazione consente di ottenere un’analisi più complessa delle condotte criminali, in particolar modo di quelle messe in atto da minori in quanto, in età evolutiva, la dimensione comunicativa/espressiva della devianza prevale su quella strumentale (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003):

[blockquote style=”1″]I ragazzi vivono meno la funzione strumentale del loro comportamento, mentre esprimono più bisogni legati all’identità, alle relazioni, ecc. Questo conferisce particolare rilievo ad un approccio della devianza come comunicazione per spiegare e comprendere i comportamenti fuori legge dei giovani come complessa espressione di soggettività in evoluzione e in relazione[/blockquote] (De Leo, 1998, p. 145)

Una prospettiva di questo genere può offrire preziose indicazioni su come analizzare e interpretare non solo azioni francamente criminali, di ampia gravità (come i reati contro la persona) ma anche altre azioni devianti, frequenti e diffuse tra gli adolescenti, che, ad una prima e superficiale analisi, rimangono senza spiegazione oppure sono sbrigativamente relegate nell’ambito della patologia mentale o del disagio psicosociale; ne sono un esempio il vandalismo, il consumo di sostanze psicoattive, le prepotenze in ambito scolastico, gli scontri negli stadi di calcio. Tutte queste azioni portano con sé intrinsecamente significati e valori relazionali, culturali e simbolici che le diverse figure professionali devono impegnarsi a decifrare: potrebbero essere un segnale di disadattamento psicologico, sociale o familiare, ma potrebbero anche, ad un’analisi più profonda, esprimere bisogni maturativi, identitari, affettivi (De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

De Leo propone un ulteriore approfondimento nell’analisi degli effetti comunicativi ed espressivi dell’azione deviante in adolescenza, distinguendo:
– effetti legati all’identità: ogni azione comunica all’autore stesso e agli altri segni e significati relativi alla propria identità in chiave situazionale ed evolutiva;
– effetti relazionali: l’azione contiene messaggi di relazione interpersonale che riguardano sia le persone direttamente coinvolte nell’azione sia, simbolicamente, i propri gruppi di appartenenza;
– effetti legati a regole interpretative dell’azione: l’azione è il risultato di processi interpretativi regolati da codici generalizzati;
– effetti di sviluppo: ogni azione è svolta in un’ottica di mantenimento/cambiamento, esprimendo esigenze di sviluppo e cambiamento in relazione alla personalità dell’autore e/o ai contesti in cui l’azione si colloca (scuola, famiglia, coetanei);
– effetti normativi e di controllo: riguardano il rapporto con le sanzioni, le norme penali e le regole informali. Facendo diretto riferimento al concetto sistemico di “ridondanza”, intesa come strutturazione di significati (De Leo e Mazzei, 1989), De Leo ipotizza quindi che in particolare in adolescenza [blockquote style=”1″]ogni azione contenga ridondanze rispetto all’identità[/blockquote] (1998, p. 154), comunicando segni e significati riguardo l’identità in costruzione.

Questa impostazione teorica ha importanti ricadute anche sul piano metodologico; per analizzare l’azione umana nel suo senso di comunicazione di stati mentali e identitari profondi, risultano infatti inadeguati gli strumenti quantitativi come i questionari. Inoltre, il professionista che si occupa di azioni trasgressive e violente in ambito giudiziario si trova di fronte all’impossibilità di osservare direttamente l’azione in questione, in quanto già avvenuta; egli ha a disposizione resoconti, atti giudiziari, ricostruzioni dei fatti e anamnesi psicologiche avvenute dopo l’azione. Al professionista, soprattutto quando è lo psicologo clinico o forense, si prospetta quindi un lavoro di ricostruzione dell’azione e dei suoi legami complessi con l’autore, la vittima e il contesto attuale e pregresso in cui l’azione stessa ha avuto luogo (De Leo e Malagoli Togliatti, 2000). L’indagine psicologica in questo settore aspira quindi alla conoscenza della verità, pur partendo dal presupposto che il sapere scientifico non è mai possessore della verità assoluta ma in continua tensione verso di essa (Rossi e Zappalà, 2004). Infatti, se il giurista ha il compito di ricostruire la realtà fattuale e oggettiva, per avere la certezza di attribuibilità all’imputato, lo psicologo si pone l’obiettivo di [blockquote style=”1″]ascoltare, comprendere, interpretare sia le parole e la comunicazione che il soggetto va ricostruendo sulla sua azione trasgressiva, sia i significati e i segni che l’azione stessa esprime sul soggetto[/blockquote] (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986, p. 267).

Coerentemente con questa concezione della ricostruzione dell’azione, De Leo, Bosi e Curti Gialdino (1986) propongono uno schema categoriale esplorativo per l’analisi delle funzioni psichiche e comunicative dell’azione violenta in adolescenza. Tale schema scompone ulteriormente l’azione in diverse componenti tra loro correlate e in interazione:
– gli scopi e le intenzioni ai quali l’individuo lega l’azione violenta;
– le regole implicite ed esplicite applicate dall’individuo nel corso della propria azione, con  riferimento al contesto normativo e alla percezione dell’antigiuridicità dell’azione violenta;
– i significati di autorappresentazione assegnati alla propria azione, la forma e il messaggio comunicati attraverso l’azione, la funzione di sviluppo o di passaggio che l’azione assume in senso sia psicologico che relazionale.

Questo schema consente di far emergere operazioni mentali, cognitive, comportamentali utili per la conoscenza dell’azione dal punto di vista sia psicologico che giuridico. Nell’analisi delle azioni violente commesse in maniera specifica da adolescenti sono risultate particolarmente feconde le dimensioni del significato di autorappresentazione e della funzione evolutiva dell’azione, con ricadute preziose anche sul piano del lavoro clinico e riabilitativo (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986). Gli autori confermano quindi che l’azione violenta in adolescenza sia portatrice di una capacità propulsiva di rompere condizioni di staticità e rigidità nel sistema psichico e relazionale dell’adolescente, e di una funzione intrinseca e strategica di realizzare uno sblocco evolutivo (ibid.). La concezione sistemica e costruzionista della devianza come azione comunicativa e portatrice di significati personali, relazionali e sociali complessi ha quindi completamente rivoluzionato il quadro teorico e metodologico riguardo le condotte devianti adolescenziali; tuttavia, da sola, essa non spiega come da una singola azione deviante o trasgressiva si passi ad un vero e proprio stile di vita deviante, caratterizzato non solo da comportamenti trasgressivi e/o criminali, ma anche da un complesso sistema di rappresentazioni di sé e degli altri, di aspettative, di valori e significati. Rimangono quindi non chiarite le modalità e le situazioni attraverso cui avviene il passaggio dalla messa in atto di una singola azione deviante all’acquisizione di uno stile cognitivo, comportamentale e relazionale di tipo deviante o criminale. In particolare in adolescenza infatti, è alquanto probabile e altamente frequente la messa in atto di atti devianti o trasgressivi che assumono inizialmente la forma dell’attività ludica, del piacere della trasgressione, soprattutto se agiti in gruppo, tanto che alcuni autori (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) parlano della presenza di una trasgressione “fisiologica” in adolescenza e quindi funzionale al superamento dei difficili compiti di sviluppo fase-specifici; mentire, disobbedire, saltare la scuola, avere comportamenti sessuali precoci, fare uso di tabacco, alcol o altre sostanze, commettere qualche piccolo furto sarebbero quindi espressione di una trasgressività specifica dell’adolescenza, che non necessariamente si trasforma in azioni criminali vere e proprie, anche se di diversa gravità, e in una identità deviante.

Per sopperire a questa lacuna, De Leo e Patrizi (1999) propongono un modello di analisi centrato sul concetto di “carriera deviante”, che per le sue caratteristiche di sequenzialità e processualità appare particolarmente indicato per l’analisi delle condotte devianti reiterate e recidive. La devianza viene quindi intesa come un percorso, un processo, piuttosto che l’effetto o il prodotto di fattori e cause antecedenti; tale processo presenta, secondo gli autori, un carattere attivo, costruttivo, nel senso che si sviluppa producendo e organizzando connessioni fra dimensioni situazionali, relazionali, simboliche.

De Leo (1998) descrive tre fasi del processo di costruzione e stabilizzazione della carriera deviante. La prima fase viene definita dall’autore come la fase degli antecedenti storici della devianza; si tratta di fattori di varia natura ampiamente evidenziati sia dalle ricerche classiche sulla devianza sia da quelle di nuova generazione, tra cui la deprivazione parentale e/o sociale, carenze infantili, relazioni conflittuali in famiglia, caratteristiche psicopatologiche, isolamento o emarginazione sociale. Un riesame critico di questi fattori, permette di assegnare loro il valore di rischi aspecifici, ovvero di precondizioni che, seppur rintracciabili in molte carriere devianti, rimangono in questa fase aperte ad esiti diversi, di tipo non deviante (Ingrascì e Picozzi, 2002).

La seconda fase, in genere di breve durata, è caratterizzata da una crisi che si manifesta attraverso episodi agiti e percepiti come devianti; si tratta di una fase altamente rischiosa in quanto i rischi possono ora strutturarsi verso una specificità più decisamente improntata alla costruzione di un percorso deviante. Si tratta della fase in cui il contesto socio-istituzionale inizia ad attivare reazioni sanzionatorie alla condotta del soggetto attribuendovi significati negativi; tuttavia De Leo sottolinea che questi processi mantengono ancora in questa fase livelli di flessibilità e apertura verso altre forme ed altri percorsi.

La terza fase è rappresentata da una tendenza dell’individuo e dei contesti in cui egli agisce ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni e per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del processo; se infatti [blockquote style=”1″]la storia antecedente fornisce indicatori complessi e aspecifici, e la fase critica costituisce una sfida intensa ad assumere la forma della devianza, la fase della stabilizzazione, che può risultare tormentata e molto lunga nel tempo, sembra caratterizzata dalla tendenza ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni, per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del percorso, rendendo via via meno probabili alternative alla devianza e aperture verso altri percorsi di vita[/blockquote] (De Leo, 1998).

Il grande merito di questo modello, è quello di valorizzare la funzione attiva svolta dal soggetto che, nel processo di costruzione di sé come deviante, svolge un ruolo attivo di continua riconsiderazione e rielaborazione delle auto ed etero-attribuzioni di significato. Inoltre, in quanto modello di matrice processuale e probabilistica, attribuisce ai fattori di rischio una dimensione di aspecificità e non di causalità lineare. Quest’ultimo aspetto è di notevole rilevanza soprattutto quando l’azione deviante o trasgressiva è messa in atto da minori; considerare il processo di formazione della carriera deviante come un processo che si autodefinisce, si plasma e si dota di significato, pone le basi per un approccio qualitativo e dinamico alla devianza minorile.

De Leo e Patrizi (1999) a questo proposito, sintetizzano alcune tappe del percorso di devianza minorile, intendendole come passaggi da cui estrarre significati e rappresentazioni simboliche riguardo al sé, alle proprie azioni e agli altri osservatori.

L’inizio appare caratterizzato dall’occasione favorevole ad agire in maniera deviante, dalla dimensione comunicativa dell’atto, da vantaggi espressivi legati al sé e alle relazioni significative; l’azione deviante nasce quindi “per caso”, nel senso che non è espressione di pianificazione o di anticipazione intenzionale, bensì si costruisce nella contingenza del presente. In questa fase il gruppo assolve un’importante funzione: è contesto privilegiato di rispecchiamenti reciproci (De Leo e Patrizi, 1999), è un contenitore psichico collettivo che consente lo sviluppo di un senso di identità soggettiva e la definizione dei ruoli sociali e di genere (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004), è una nicchia protettiva fitta di identificazioni reciproche e di possibilità di sperimentazione del sé (Saottini, 1999; Ingrascì e Picozzi, 2002). Ed è nel gruppo che l’implicito diventa esplicito, la fantasia diventa azione, quando le aspettative individuali si incontrano con quelle degli altri orientando verso l’azione. Nella fase iniziale, le motivazioni sottostanti l’azione trasgressiva non sono dunque di natura strumentale ma soprattutto espressiva (De Leo e Patrizi, 1999; De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

La prosecuzione comporta invece la scoperta di vantaggi strumentali: il riconoscimento esterno e di gruppo (aspetto di non poca rilevanza in adolescenza, fase in cui il riconsocimento sociale e la popolarità tra i pari assume grande valore di natura affettiva e identitaria; Cattelino e Bonino, 1999; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), la percezione delle proprie competenze nel settore, la fruizione di vantaggi personali (De Leo e Patrizi, 1999).

Giunti a questa fase, il percorso può prendere due strade diverse: la stabilizzazione o l’interruzione della carriera deviante. Nel primo caso, il ragazzo riconosce e utilizza la devianza nell’agire trasgressivo e sente di non saper far altro; spesso, in questa fase, il soggetto vive parallelamente insuccessi in altre aree di attività, come la scuola, il lavoro, la famiglia, e sente che l’area della devianza è forse l’unica in cui sente e percepisce se stesso come competente e abile. A differenza di altri contesti quindi, la devianza rimanda al soggetto un feedback positivo sul piano dell’autoefficacia e del riconoscimento di sé come persona capace. Nel secondo caso, il ragazzo interrompe la propria carriera deviante, spesso non senza vissuti di problematicità, rispetto alla paura di giudizio morale da parte della comunità, di difficoltà a reinserirsi nella comunità stessa, di esclusione dal gruppo dei pari.

Secondo De Leo e Patrizi (1999) sembra mancare ancora un anello perché le corrispondenze tra attribuzione di personalità deviante, provenienti dall’esterno, e il riconoscimento soggettivo di identità, assuma valore costruttivo di una carriera deviante. Il passaggio da una devianza reiterata alla carriera sembra ricondurre alle funzioni che lo stesso agire deviante assume a due livelli:
– funzioni di mantenimento dell’organizzazione soggettiva e relazionale, come tentativo di riequilibrare l’organizzazione del proprio sé e dei contesti di appartenenza;
– funzioni intrinseche all’azione deviante, con i suoi vantaggi, con le relazioni che attiva, al cui interno il soggetto trova conferma di sé e delle proprie competenze soggettive.

Gli autori avanzano quindi l’ipotesi dell’interazione tra funzioni estrinseche ed intrinseche della devianza, dove [blockquote style=”1″]essa rappresenta un canale comunicativo, nelle prime, e uno strumento di autoefficacia, nelle seconde[/blockquote] (De Leo e Patrizi, 1999, p. 42); questa interazione costituirebbe il tracciato della carriera quale esito di [blockquote style=”1″]un impegno individuale a trovare equilibrio fra vissuti, talvolta preponderanti, di disagio ed esigenze di ricavare un senso di efficacia dalle proprie scelte d’azione[/blockquote] (ibid.). L’ipotesi degli autori sembra essere confermata dalle recenti indagini di Bandura sul senso di autoefficacia che dimostrerebbero un legame tra scarsa autoefficacia e comportamenti antisociali e trasgressivi.

Ad esempio, in una ricerca svolta da Bonino, Cattelino e Ciairano (2003) su un campione di adolescenti di età compresa tra i 14 e i 19 anni, le autrici hanno analizzato la relazione esistente tra autoefficacia e tre categorie di comportamenti devianti (aggressione fisica, furto e vandalismo, bugia e disobbedienza); i risultati hanno dimostrato che tutti i comportamenti devianti suddetti aumentano quando l’adolescente presenta una scarsa autoefficacia regolatoria. Specularmente, l’autoefficacia si dimostra come un fattore di protezione quando si associa a:
– uno stile genitoriale improntato al controllo, alla supervisione ma anche al sostegno e all’ascolto – possibilità di discutere apertamente in famiglia dei propri sentimenti, dubbi e bisogni;
– percezione del proprio successo scolastico e attribuzione di importanza ad esso;
– contenimento da parte del gruppo dei pari;
– un uso costruttivo e progettuale del tempo libero, sia soli che in gruppo.

Inoltre, le autrici sottolineano che, in un’ottica multicausale e interazionista, questi fattori protettivi, quando compresenti, si potenziano a vicenda, in quanto fattori che [blockquote style=”1″]operano in maniera sinergica e non indipendenti dai diversi ambiti di sviluppo in cui si manifestano[/blockquote] (p. 187).

I dati confermerebbero quindi le ipotesi di De Leo e Patrizi, secondo cui la possibilità di affermare i propri bisogni di individuazione e autoaffermazione unitamente a un feedback positivo, proveniente dai diversi contesti di sviluppo, della propria immagine e delle proprie competenze socio- relazionali, svolgerebbero una funzione fortemente protettiva rispetto all’inizio e alla stabilizzazione della carriera deviante.
Il modello della carriera deviante è stato applicato da De Leo (1998) allo studio delle relazioni tra devianza e tossicodipendenza e devianza e relazioni familiari; in entrambi i casi il modello si è rivelato prezioso nel mettere in luce la sequenza di periodi diversi nel tempo nei quali si configura la stabilizzazione della carriera deviante. Le indagini sembrano confermare le potenzialità di un approccio sequenziale, proponendo una serie di fasi ma anche di trame, narrazioni, categorie interne, che possono rappresentare una “mappa” di analisi e studio, utile dal punto di vista sia clinico che della ricerca.

L’adozione di un modello di questo tipo, implica indirettamente l’utilizzo di metodologie diverse da quelle classiche e quantitative; allo scopo di estrapolare le componenti simboliche, ridondanti, comunicative dell’azione deviante e di unificarle in una sequenza di fasi tra loro concatenate, risultano particolarmente adatte metodologie come l’autobiografia e la narrazione che mettono direttamente al centro dell’analisi il Sé, le sue componenti, le sue definizioni e le sue proiezioni nel tempo. Queste metodologie sono coerenti con la recente corrente di pensiero che fa riferimento alla psicologia narrativa di Bruner, secondo cui il Sé è un prodotto della narrazione, che, grazie alle sue caratteristiche di riflessività e ricorsività, si volge al passato e modifica il presente alla luce del futuro.

Le implicazioni che questa prospettiva di mentalizzazione e significazione può avere a proposito della giustizia minorile sono notevoli, in quanto consentirebbe al minore deviante o autore di reato [blockquote style=”1″]la possibilità di narrare il contenuto violento della sua condotta e di ritrovare nel contesto del racconto il significato dell’atto stesso, mettendogli a disposizione gli strumenti per cogliere il ruolo del Sé e dell’Altro[/blockquote] (Rossi, 2004, p. 269). La comprensione profonda dei significati sociali e antigiuridici dell’atto criminale, la tensione all’autoresponsabilizzazione dell’autore e il recupero del ruolo attivo dell’Altro, soprattutto quando è vittima, rappresentano infatti le basi teoriche ed epistemologiche del modello conciliativo e riparativo della giustizia.

Il burnout nei caregivers professionali

Sara Nicoli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La sindrome da burnout viene definita da alcuni autori come lo stress lavorativo specifico delle helping profession, ossia professioni di aiuto che comprendono figure come medici, psicologi, infermieri, insegnanti o assistenti sociali.

 

Lo stato di disagio che porta al Burnout

Lo stato di disagio parte dalla visione dell’utente come di un postulante a cui viene elemosinata una prestazione di aiuto (G. Contessa, 1995). Questa ideologia, ancora molto diffusa in Italia, ha condotto gli operatori del sociale a sviluppare un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei riguardi degli utenti che non hanno poteri e sono identificati come “rappresentanti della malattia”, coloro che chiedono aiuto perché sono in uno stato di inferiorità (Lamanna, 2003). Ma, l’incontro dei bisogni dell’utenza porta l’operatore a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni e le proprie motivazioni. Questo atteggiamento si trasforma gradualmente in un senso di impotenza, disagio che rede l’operatore, vittima del disagio stesso.

 

Sindrome da Burnout: definizione e sintomi

Maslach nel 1982 fornisce una definizione della sindrome da burnout che si esplica in stati di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità verso gli altri, differenziandosi però dalle varie tipologie di nevrosi in quanto disturbo riguardante il ruolo lavorativo.

Queste manifestazioni comportamentali e psicologiche possono essere raggruppate, secondo l’autore, in tre categorie:

  • Esaurimento emotivo: sentirsi emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un aridimento emotivo nel rapporto con gli altri;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento di allontanamento e di rifiuto nel confronto di coloro che ricevono o richiedono la prestazione professionale, il servizio o la cura;
  • Ridotta realizzazione professionale: percezione della propria inadeguatezza al lavoro, caduta dell’autostima e sensazione di insuccesso lavorativo.

Il caregiver colpito da burnout può manifestare inoltre sintomi somatici e l’insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari, difficoltà nella sfera sessuale ecc..) o l’abuso di sostanze (alcool, psicofarmaci ecc..).

 

La fasi del burnout

Maslach descrive inoltre stadi progressivi del disagio che si caratterizzano per un progressivo aumento della demotivazione e frustrazione lavorativa.

La prima fase viene definita entusiasmo idealistico, e si risolve nelle motivazioni che hanno portato gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale sia consce che inconsce. Tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato ed immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status.

Nella fase successiva, quella di stagnazione, l’operatore continua a lavorare ma si rende conto che il lavoro non va a soddisfare del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza, determinando nell’operatore una chiusura verso l’ambiente di lavoro e i colleghi.

Nella terza fase il pensiero dominante del caregiver è di non essere più in grado di aiutare nessuno. Questa fase è la più critica, il vissuto dell’operatore è un vissuto di perdita, svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali in quel momento. Come fattori di frustrazione intervengono inoltre lo scarso apprezzamento dei colleghi e degli utenti nonché una convinzione di un’ inadeguata formazione per il tipo di lavoro scelto. Il soggetto in questa fase può assumere atteggiamenti aggressivi o mettere in atto comportamenti di fuga (frequenti assenze per malattia, allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate).

Il graduale disimpegno emozionale conseguente la frustrazione, con il passaggio dall’empatia all’apatia costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a un’uscita dal mondo professionale prescelto.

Nella concretezza quotidiana, quindi, le capacità personali giocano un ruolo importantissimo almeno quanto le capacità tecnico-professionali. D. Goleman definisce l’intelligenza emotiva come la capacità delle persone di affrontare le difficoltà in modo efficace ed ottimale nelle difficoltà della vita, la possibilità di avere accesso alle proprie emozioni consente infatti all’individuo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo. Tutto ciò nel rapporto medico-paziente consentirebbe al primo di essere empatico e sensibile alle esigenze reali del secondo. Nel burnout emerge la difficoltà nel misurarsi con le proprie emozioni e il non riconoscimento del problema con l’insorgenza di un sentimento di rassegnazione. Questa condizione non rappresenta soltanto un problema dell’individuo ma si propaga in maniera altalenante dall’utenza all’èquipe. L’influenza dello “stress” va ad intaccare quindi il servizio.

 

Il burnout colpisce gli aspetti relazionali

Alcuni studi effettuati su gruppi di operatori all’interno di strutture a lunga degenza, mostrano come il burnout vada a colpire maggiormente gli aspetti relazionali che si riducono ai minimi scambi in funzione dei bisogni strumentali dei singoli pazienti (Cronin-Stubbs, 1985). L’attenzione verso i bisogni individuali del singolo e il mantenimento della privacy e della dignità di quest’ultimo risultano essere fortemente minacciati (Norman, 1987). In particolar modo uno studio longitudinale di Amstrong- Esther & Browne affronta il cambiamento relazionale tra operatori ed assistiti concentrandosi sulla tipologia di ospiti. I dati ripotano una maggiore riduzione di interazione con i pazienti affetti da patologie psico-cognitive (5.6%) rispetto agli altri pazienti (15.6%). Inoltre gli autori riportano anche un maggior grado di inattività dei primi (88,5% del tempo) rispetto a quella dei secondi (30,5%).

 

Prevenzione del burnout

Come prevenire quindi l’insorgenza della sindrome da burnout all’interno dei professionisti della salute? Come migliorare la qualità dei servizi erogati?

Bisognerebbe tener conto delle variabili di tipo psicologico, relazionale ed emotivo all’interno delle attività di aiuto. Prevenire i fallimenti nel campo del lavoro sanitario vorrebbe dire pianificare, analizzare in modo realistico le proprie potenzialità in confronto attivo con gli altri. L’aspetto relazionale con i colleghi è un fattore fondamentale per un significativo incremento delle prestazioni lavorative. L’organizzazione del lavoro d’aiuto dovrebbe prevedere la creazione di un clima lavorativo positivo attraverso l’analisi delle motivazioni e delle prestazioni dell’èquipe e contemporaneamente un attento esame che tenga presenti realtà quali i cambiamenti culturali e strutturali dei servizi, le gerarchie e i relativi ruoli, i poteri e la responsabilità e le competenze e la formazione professionale.

Garantire un clima che sia gratificante per l’operatore significa gestire il suo carico emotivo personale a favore della promozione del benessere psicofisico e delle problematiche relative allo stress lavorativo (Lamanna, 2003). A qualsiasi livello agisca l’operatore esistono strategie di intervento per la prevenzione del burnout. Chermiss ne identifica diverse:

  • Sviluppo dello staff: portare l’operatore ad adottare aspettative più realistiche e obiettivi che forniscano alternative di gratificazione; aiutare gli operatori a sviluppare meccanismi di controllo e feed-back sensibili a vantaggi a breve termine; fornire frequenti possibilità di training per incrementare l’efficienza del ruolo; incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse; fornire consulenza centrata sul lavoro o incontri per gli staff che stanno sperimentando elevati livelli di stress lavorativo;
  • Cambiamenti di lavoro e strutture di ruolo: limitare il numero di pazienti di cui lo staff è responsabile; distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti esigendo il lavoro in più di un programma; utilizzare personale ausiliario; garantire periodi di riposo alla necessità; dare la possibilità ad ogni membro di proporre nuovi programmi; costituire varie fasi di carriera per uno staff;
  • Sviluppo della gestione: creare programmi di training e sviluppo per il personale attuale e futuro che si dedica alla supervisione; creare sistemi di controllo per la supervisione (indagini dello staff, feed-back regolari); controllare la tensione di ruolo nei supervisori;
  • Soluzione del problema organizzativo e modello decisionale: creare meccanismi formali di gruppo per la soluzione del problema organizzativo e la risoluzione del conflitto; organizzare training per la risoluzione del conflitto; accettare l’autonomia dello staff e la partecipazione alle decisioni;
  • Obiettivi del centro e modelli di gestione: rendere gli obiettivi chiari e compatibili per quanto possibile; rendere la formazione e la ricerca i maggiori obiettivi del programma; condividere la responsabilità delle cure e della terapia con i pazienti, le loro famiglie e la comunità.

 

In conclusione, al fine di un efficace prevenzione della sindrome da burnout, possiamo sottolineare l’importanza quindi di un intervento multi-sfaccettato che miri a modificare lo stile organizzativo dello staff e i modelli di gestione di quest’ultimo al fine di arrivare ad avere un maggiore supporto tra i vari operatori e un aumento della qualità del lavoro di tipo assistenziale e della vita stessa del caregiver professionale.

Le aspettative positive dei genitori favoriscono un miglior rendimento scolastico nei figli

Quando i genitori hanno aspettative positive e manifestano speranza riguardo le prestazioni scolastiche dei figli, possiamo averne un riscontro positivo in termini di rendimento nello studio.

Tuttavia avere aspettative, molto elevate e irrealistiche -probabilmente perfezioniste- è assolutamente controproducente, non solo per il benessere psichico dei figli (a breve e lungo termine) ma anche in termini di risultati scolastici concreti.

Un recente studio longitudinale pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology ha analizzato dati raccolti su un vasto campione di studenti e loro genitori delle scuole secondarie di secondo grado della Baviera (Germania).
In particolare i ricercatori si sono focalizzati sui risultati scolastici in matematica e su due variabili genitoriali: l’aspirazione dei genitori (cioè il desiderio che il figlio ottenga un voto specifico nella materia in oggetto di studio) e le aspettative nei confronti del figlio (in che misura ritengono che il figlio otterrà una certa votazione).

Dallo studio è stato riscontrato che un’elevata aspirazione genitoriale facilita il raggiungimento di risultati scolastici positivi, ma soltanto dal momento in cui non superano delle aspettative realistiche. Quando invece le aspirazioni sono di gran lunga maggiori rispetto alle aspettative dei genitori, le performances scolastiche dei figli calano in maniera significativa.
Dunque se studi precedenti sembravano veicolare un messaggio univoco tale per cui grandi aspirazioni dei genitori facilitano rendimenti scolastici positivi, oggi la letteratura recente ci mette in guardia da questa logica semplicistica, suggerendo invece che sono le aspettative realistiche a facilitare il successo, quanto meno in matematica.

Meta-emozioni, credenze sulle emozioni e regolazione emotiva nei disturbi di personalità – Dal Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

 

META-EMOZIONI, CREDENZE SULLE EMOZIONI E REGOLAZIONE EMOTIVA NEI DISTURBI DI PERSONALITÀ

R. Bedini, A. Brugnoni, S. Giuri, C. Manfredi, A. Mannarino

 

Il presente studio si pone l’obiettivo di indagare il costrutto di meta-emozione in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità, per poter meglio comprendere come la reazione emotiva alle proprie emozioni sia predittiva di altri costrutti che in letteratura sono stati correlati con gli agiti impulsivi.

Abstract teorico

La letteratura scientifica ha indagato nel tempo il ruolo delle emozioni e della regolazione emotiva nei pazienti con diagnosi di Asse II (e.g., Linehan, 1993). Nel corso degli anni, i vari autori si sono focalizzati sui diversi aspetti delle difficoltà di regolazione emotiva, dalla paura della rabbia (Diogo et al., 2006), al riconoscimento delle espressioni facciali (Renneberg et al., 2005), ai diversi aspetti dell’intelligenza emotiva (Leible et al., 2004) e tolleranza dello stress (Iverson et al., 2012).

Da un punto di vista più globale, diversi autori hanno approfondito il ruolo della paura delle emozioni (Williams et al., 1997), intesa come la paura dell’esperienza emotiva in sé (sia positiva che negativa), legata al timore di perdere il controllo durante tale esperienza, e/o alla paura di una reazione all’emozione, in particolare rispetto alle conseguenze fisiche sperimentate in seguito alla risposta emotiva (Williams et al., 1997; Berg et al., 1998). La paura delle emozioni è stata declinata soprattutto sui disturbi di Asse I, con particolare attenzione allo spettro ansioso (paura della paura, Mennin et al., 2005) e depressivo (paura della tristezza, Nolen-Hoeksema, 2004).

Più recentemente, è stato proposto il costrutto di meta-emozione (Mitmansgruber et al., 2009), come esplicativo di alcuni processi di evitamento, consapevolezza e accettazione emotiva.

Il presente studio si pone l’obiettivo di indagare il costrutto di meta-emozione in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità, per poter meglio comprendere come la reazione emotiva alle proprie emozioni sia predittiva di altri costrutti che in letteratura sono stati correlati con gli agiti impulsivi. Per questo, è stata costruita una batteria di test che esplora le meta-emozioni, i livelli di rabbia percepita, la capacità di controllare le emozioni di rabbia, i pensieri che i pazienti fanno rispetto alle emozioni che si ritrovano a provare e le difficoltà generali di regolazione emotiva, con lo scopo di approfondire come tutti questi costrutti sono correlati tra loro, in che misura le meta-emozioni possono mediare la relazione tra le difficoltà di regolazione emotiva e la sintomatologia borderline. Il campione è composto da soggetti ospiti di due case di cura con esclusione di quelli con concomitante diagnosi di abuso/dipendenza da sostanze.

I dati sono stati sottoposti ad analisi correlazionali e regressioni, per valutare la capacità predittiva dei costrutti indagati sul tipo di diagnosi e il modo in cui tutte le componenti considerate correlano tra loro.

Schizofrenia e terapia cognitivo-comportamentale: introduzione all’argomento ed elementi di efficacia

Erika Aucello, Valentina Pastore – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

Trattamento della Schizofrenia: il contributo dell’approccio cognitivo-comportamentale.

Schizofrenia & CBT: Abstract

La schizofrenia è da sempre definita come una patologia di difficile gestione e trattamento a causa dei molteplici aspetti che la caratterizzano in termini di sintomi positivi e negativi. Questi ultimi causano il più delle volte una serie di ripercussioni molto gravi dal punto di vista del funzionamento generale del soggetto in termini di abilità individuali e sociali. Numerosi sono stati nel corso degli anni i tentativi clinici di affrontare e gestire tale malattia soprattutto ricorrendo alla terapia farmacologica che risultava essere tra le più efficaci per il trattamento dei sintomi positivi. Solo negli ultimi decenni si è valutata l’importanza di affiancare alla terapia farmacologica una di tipo psicosociale; nella sotto citata review viene descritto l’importante contributo dimostrato dall’approccio cognitivo-comportamentale in termini di trattamento della schizofrenia (Beck, 1952), ben esplicato attraverso esperimenti qui descritti.

Nello studio F. Naeem et al. (2014) viene messa a confronto l’efficacia di un intervento classico di trattamento della schizofrenia (TAU) con un TAU associato ad un programma di CBT breve culturalmente adattata (CaCBT), trovando che tale combinazione potesse essere una modalità di trattamento più efficace per pazienti con schizofrenia. In un altro studio di H. Waller et al. (2014) è stato dimostrato come le credenze illusorie a contenuto persecutorio, molto comuni nella schizofrenia, sia possibile trattarle con una modalità di intervento denominata Thinking Well, con sedute focalizzate di terapia cognitivo-comportamentale, dimostrandone altresì un’elevata efficacia. Ancora A. Staring et al. (2012) hanno dimostrato l’efficacia di tecniche di CBT rispetto ai sintomi negativi della schizofrenia, servendosi di circa 50.5 sedute di trattamento comprendenti tecniche di CBT nel corso di 18 mesi con conseguente miglioramento dell’avolizione e del funzionamento globale dei pazienti.

Ad oggi come evidenziato da E.M. Tsapakis et al. in uno studio del 2015, e come emerge da cospicua letteratura scientifica, il trattamento maggiormente efficace della schizofrenia sembra essere quello che combina la terapia farmacologica a psicoeducazione, terapia cognitivo-comportamentale e arte terapia.

La schizofrenia

La schizofrenia viene considerata una tra le più devastanti malattie mentali a causa di numerosi fattori, quali precocità d’esordio, gravità sintomatologica e frequente cronicizzazione. Tali fattori possono determinare un rapido deterioramento dell’autonomia del soggetto in diverse aree funzionali (area affettiva, relazionale e lavorativa) con conseguente tendenza all’isolamento sociale (A. Vita, G.M. Giobbio, 2006).

Benché si parli della schizofrenia come patologia singola, essa comprende disturbi con cause eterogenee e include pazienti nei quali il quadro clinico, il decorso della malattia e la risposta alla terapia sono diversificati tra loro. Proprio per questo motivo non esiste il trattamento della schizofrenia, ma tutti gli interventi terapeutici devono essere messi a punto sulla base dei bisogni specifici di ciascun paziente (G.O.Gabbard, 2007).

I tratti essenziali della schizofrenia secondo i criteri del DSM V sono rappresentati da un insieme di segni e sintomi caratteristici (sia positivi, sia negativi) che devono essere presenti per un certo periodo di tempo.

 

Sintomi della schizofrenia

Numerosi autori (Andreasen et al. 1982; Keith & Matthews, 1984; Munich et al. 1985; Strauss et al. 1974) hanno proposto la suddivisione dei sintomi della schizofrenia in tre principali raggruppamenti: sintomi positivi; sintomi negativi; relazioni interpersonali disturbate.

I sintomi positivi comprendono i disturbi del contenuto del pensiero (come i deliri), i disturbi di percezione (come le allucinazioni) e le manifestazioni comportamentali (come catatonia e agitazione) che si sviluppano in breve tempo e sono spesso associati ad un episodio psicotico acuto. Mentre i sintomi positivi possono essere considerati come un’innegabile ‘presenza’, i sintomi negativi possono essere caratterizzati come assenza di funzioni. Tra i sintomi negativi, di notevole interesse vi sono affettività coartata, povertà di pensiero, anedonia e apatia. Altro tratto distintivo del disturbo risultano essere le relazioni interpersonali disturbate che come i sintomi negativi tendono a svilupparsi in un notevole arco di tempo. Tale categoria di disturbi comprende ritiro sociale, espressione inadeguata dell’aggressività, mancanza di consapevolezza del bisogno altrui e incapacità di avere un contatto significativo con altre persone (G. O. Gabbard, 2005).

L’esordio della patologia avviene generalmente nell’adolescenza o nella prima giovinezza. Analizzando l’andamento della patologia si possono distinguere due fasi: una prima fase, denominata prodromica in cui si possono osservare alcuni segni indicativi del cambiamento in atto. Tale fase presenta un andamento progressivo e può sfociare in tempi più o meno in una successiva. Alla prima fase segue la fase attiva in cui i sintomi, che nella fase precedente indicavano solo un cambiamento della personalità del soggetto, fanno la comparsa eventi psicopatologici rilevanti (A. Vita, G.M. Giobbio, 2006).

Numerose ricerche sull’eziologia della schizofrenia hanno dimostrato l’importanza dei fattori biologici nelle psicosi, ma tali fattori non sono di per sé sufficienti a spiegare l’eziologia del disturbo; per comprendere l’insorgenza e il decorso della patologia è necessario tenere in considerazione anche fattori di natura sociale e psicologica. Il modello che meglio integra questi tre ordini di fattori è il modello stress vulnerabilità (Neuchterlein & Dawson, 1984). Nonostante esistano vari modelli stress vulnerabilità, tutti ipotizzano che l’insorgere della malattia non sia ascrivibile ad un solo fattore, ma derivi dalle interazioni continue tra geni, ambiente e processi intrapsichici. Tale modello ha importanti implicazioni sul piano terapeutico, in quanto ne deriva l’importanza di scegliere approcci integrati, diretti ai tratti disfunzionali del soggetto così come ai fattori socio-ambientali (Moreschi, 2009).

Terapia cognitivo comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) è un approccio evidence-based, sviluppatosi negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck ed è attualmente considerato, a livello internazionale, uno dei più affidabili ed efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento di numerosi disturbi psicopatologici. Tale approccio postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti evidenziando come i problemi emotivi siano in gran parte il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo. Ciò implica che, non sarebbero gli eventi a creare e mantenere i problemi psicologici, emotivi e di comportamento, ma questi verrebbero largamente influenzati dalle strutture cognitive dell’individuo.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) si propone, di conseguenza, di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e d’interpretazione della realtà, al fine di sostituirli e/o integrarli con convinzioni più funzionali. Mettendo in luce le interpretazioni errate della realtà e proponendone delle alternative – ossia, delle spiegazioni più plausibili degli eventi – si produce una diminuzione quasi immediata dei sintomi. Infatti, una valutazione realistica delle situazioni e il cambiamento del modo di pensare producono un corrispondente miglioramento dell’umore e del comportamento.

Tale approccio si distingue dagli altri grazie ad alcune peculiari caratteristiche. La CBT è un approccio scientificamente fondato (evidence based), in quanto l’intervento clinico viene messo a punto sulla base delle conoscenze relative alle strutture e ai processi mentali desunti dalla ricerca psicologica di base. Inoltre numerose ricerche basate su studi scientifici rigorosi hanno dimostrato che tale approccio è efficace nel trattamento e nella cura della maggior parte dei disturbi psicologici quali ad esempio ansia, depressione, attacchi di panico e fobie.

La terapia cognitivo-comportamentale è una forma di psicoterapia direttiva, pianificata e limitata nel tempo, infatti il numero e la frequenza delle sedute vengono concordati da terapeuta e paziente. La durata della terapia varia di solito dai quattro ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale.

A differenza di altri approcci, la CBT è orientata al futuro. Le esperienze, i racconti, le descrizioni di ciò che è accaduto nel passato sono importanti per capire come si sono sviluppati e strutturati nel tempo i problemi attuali, ma non costituiscono l’elemento fondamentale su cui basare l’intervento e il trattamento terapeutico. Le cause del disagio psicologico, dei problemi e delle difficoltà del paziente sono, per la psicoterapia cognitivo-comportamentale, da rintracciare nel qui ed ora, nel presente e nel come l’attualità dei problemi viene rappresentata a livello cognitivo, comportamentale ed emozionale nel futuro. L’obiettivo primario è aiutare il paziente a raggiungere il benessere psicologico liberandolo dai problemi e dal disagio vissuti finora attraverso la sua diretta collaborazione.

Altra caratteristica essenziale di questo approccio risulta essere la stretta collaborazione tra paziente e psicoterapeuta. Fin dal primo momento, paziente e terapeuta lavorano insieme nella definizione dei problemi e degli obiettivi da raggiungere; all’interno della terapia non vi sono obblighi, tutto viene proposto e concordato.

Infine, l’approccio cognitivo-comportamentale è diretto allo scopo. Dopo la prima fase relativa alla valutazione dei problemi e alla formulazione di una diagnosi, vengono individuati in modo collaborativo con il paziente, gli interventi e gli obiettivi più adeguati a risolvere i suoi problemi. Essa è finalizzata a modificare quelli che la teoria di riferimento definisce i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti disadattivi del paziente, con lo scopo di facilitare la riduzione e l’eliminazione del sintomo o del disturbo psicologico, in modo tale da risolvere il problema concreto presentato dal paziente. Periodicamente sono previste sedute di monitoraggio per verificare eventuali miglioramenti ottenuti e il raggiungimento di obiettivi prestabiliti.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale applicata alla schizofrenia

L’utilizzo della psicoterapia cognitivo-comportamentale per il trattamento della schizofrenia è stato descritto per la prima volta da Beck nel 1952. Tale modello ha subito negli ultimi 30 anni numerosi cambiamenti (Beck, 1976). Le prime forme di psicoterapia applicate alla schizofrenia utilizzavano strategie comportamentali, messe in atto con lo scopo principale di produrre cambiamenti in primis nella sfera affettiva e successivamente in quella cognitiva (Tarrier, 1992). Scopo principale del trattamento era il miglioramento delle strategie di coping e l’acquisizione di abilità sociali in modo da garantire l’autonomia del paziente. Grande importanza veniva data anche ai sintomi negativi, che venivano trattati attraverso programmi di attività graduali.

Successivamente le ricerche e la pratica clinica hanno fatto emergere altri importanti fattori da tenere in considerazione in aggiunta allo stile e ai contenuti del pensiero. Tali fattori, quali emozioni, attaccamento, problematiche interpersonali, perdita/traumi, autostima e accettazione potrebbero avere un ruolo fondamentale nell’insorgenza e nel mantenimento della patologia.

Il riconoscimento dell’eterogeneità e della complessità del processo che opera all’interno della schizofrenia ha richiesto un più ampio approccio di trattamento che incorpora al suo interno i vari sviluppi della teoria e della pratica clinica. Fondamentale è stato il cambiamento della concezione secondo la quale i pensieri irrazionali causassero direttamente comportamenti maladattivi e le emozioni negative a favore di una visione costituita da una più ampia e complessa rete di fattori che interagendo tra loro causano i comportamenti maladattivi e le emozioni negative sopra descritte. Tali fattori si costituiscono di relazioni autoregolate, pensieri, comportamenti, sentimenti e sensazioni fisiche (Teasdale, 1993).

Nell’applicazione pratica, questo consisteva nel modificare non solo il contenuto dei pensieri negativi bensì di apportare modifiche anche ai sentimenti e alle relazioni interpersonali. Nel corso degli anni si evidenzia una minore tendenza a focalizzarsi esclusivamente sul pensiero difettoso, bensì di impiegare le tecniche terapeutiche per modificare numerosi fattori quali relazioni interpersonali, regolazione emotiva, modalità di relazionarsi con se stessi, autocontrollo e controllo interpersonale (Mansell, Carey, in press).

Grazie a queste evoluzioni teoriche e pratiche si è assistito, negli ultimi 5-10 anni, all’emergere di nuovi approcci terapeutici che nascono sotto la spinta delle teorie cognitive classiche e tentano di includere al loro interno la teoria e le influenze filosofiche. Tra gli approcci definiti di terza generazione troviamo la mindfulness, la terapia metacognitiva (MCT), il compassionate mind training (CMT) e il metodo dei livelli (MOL).

Nel corso degli anni i modelli cognitivi hanno subito numerosi cambiamenti e sono stati molto utili per la comprensione e il trattamento dei sintomi della schizofrenia. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, basata su tali modelli, si è dimostrata essere efficace e valida nel trattamento dei sintomi sia positivi che negativi del disturbo. Nuovi sviluppi teorici nel trattamento di alcuni disturbi, come ansia e depressione, hanno rivelato il complesso processo transdiagnostico che opera all’interno della schizofrenia. È quindi chiara la necessità di sviluppare un’ampia concettualizzazione dei sintomi psicotici in grado di racchiudere l’eterogenea e multisfaccettata natura di questo disturbo. I recenti sviluppi nelle teorie cognitive, note come approcci di terza generazione sottolineano l’importanza di prendere in considerazione non solo i contenuti del pensiero e le credenze disfunzionali bensì anche le relazioni interpersonali e i sentimenti del soggetto.

Vi è un numero considerevole di ricerche che confermano l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale per il trattamento della schizofrenia. Controlli randomizzati hanno mostrato effetti moderati sia per i sintomi positivi che per quelli negativi, con un mantenimento dei benefici nel tempo (Wykes, Steel, Everit., Tarrier, 2008). Il trattamento è risultato efficace anche per i pazienti che rifiutavano il trattamento farmacologico, con risultato positivo sia per i sintomi positivi sia per quelli negativi del disturbo (Christodoulides, Dudley, Brown, Turkington, Beck, 2008; Sensky, Turkington, Kingdon, et al. 2000).

Nel caso sia presente comorbilità con altri disturbi o abuso di sostanze il trattamento risulta più complesso; in taluni casi gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale risultano meno efficaci (Barrowclough, Haddock, Beardmore, et al., in press).

In uno studio condotto da Zimmermann et al. (2005) è emerso come pazienti trattati durante la fase acuta rispondevano meglio rispetto a pazienti trattati in fase cronica. Il trattamento di psicoterapia cognitivo-comportamentale sembra essere consigliato per la cura di pazienti con sintomi psicotici di media gravità e per quelli ad elevato rischio di conversione o con grave sintomatologia (McGorry, Phillips, Yung, et al 2000; Morrison, French, Walford, et al. 2004).

Dal punto di vista applicativo/pratico le sedute risultano più brevi e maggiormente flessibili, rispetto a sedute per altri tipi di disturbi, inoltre le attività che i pazienti devono svolgere a casa sono semplificate. Il trattamento di psicoterapia cognitivo-comportamentale prevede un miglioramento del funzionamento generale del soggetto, dato che viene ampiamente confermato da studi empirici che sostengono l’efficacia della CBT. Spesso si registra un miglioramento del funzionamento generale del paziente anche quando non vi è miglioramento dei sintomi, questo è il motivo che spinge molti terapeuti ad affiancare un trattamento di psicoterapia ad un trattamento farmacologico. Lieberman et al. (2005) sostengono che l’uso di farmaci antipsicotici atipici migliorano la neurogenesi e solo se combinati con un trattamento di psicoterapia portano all’acquisizione di nuove abilità da parte dei pazienti (Lieberman, Tollefson, Charles, et al. 2005).

Verranno riportati di seguito alcuni studi esemplari che dimostrano l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale nel trattamento di questo disturbo dalla natura complessa e multisfaccettata.

Brief culturally adapted CBT for psychosis (CaCBTp): a randomized controlled trial from a low income country

Naeem et al. (2014) in uno studio hanno messo a confronto l’efficacia di un intervento classico di trattamento della schizofrenia (TAU) con un TAU associato ad un programma di CBT breve culturalmente adattata (CaCBT), trovando che tale combinazione potesse essere una modalità di trattamento efficace per pazienti con schizofrenia.

Metodo

I partecipanti furono reclutati da due ospedali in Karachi (Pakistan) tra i 18 e 65 anni con diagnosi di schizofrenia. L’intero campione dei soggetti partecipanti era di 116 di cui 59 che avrebbero beneficiato dell’intervento TAU associato a CaCBT e 57 del solo intervento TAU. Gli strumenti utilizzati per l’analisi dei soggetti sono stati la Positive and Negative Syndrome Scale of Schizophrenia (PANSS), la Psychotic Symptom Rating Scales (PSYRATS) e la Schedule for Assessment of Insight (SAI). La prima è largamente diffusa e usata, costituita di 30 item caratterizzanti le tre sottoscale di Sintomi Positivi, Sintomi Negativi e Psicopatologia Generale. La seconda si compone di 17 item costituiti dalle sottoscale di Allucinazioni uditive e Illusioni e la terza indaga su tre dimensioni di insight: Aderenza al trattamento, Riconoscimento di malattia e Rietichettamento del sintomo, che consiste nel riconoscimento del sintomo stesso e del fatto che si tratti di un evento patologico.

Il programma di CBT breve culturalmente adattata è stata usata per oltre 4 mesi sul campione selezionato utilizzando dalle 6 alle 10 sedute. Una parte molto importante dell’adattamento culturale della CBT per le psicosi è il coinvolgimento dei familiari. In Pakistan, infatti, la famiglia è molto coinvolta nella cura del paziente e si compone spesso di quelli che sono proprio i caregivers del paziente permettendo agli autori dell’esperimento di comprendere quanto l’aiuto della famiglia accrescesse la possibilità di accettare un intervento di cura. Tale versione consiste di 6 incontri con i partecipanti e 1 con le famiglie e le sedute si concentravano particolarmente su: Formulazione e Psico-Educazione, Normalizzazione e Introduzione al Modello Vulnerabilità Stress, Lavorare sulle Allucinazioni, sulle Illusioni, Lavorare con i Sintomi Negativi, Conclusione Trattamento e Prevenzione delle Ricadute.

Risultati e conclusioni

I partecipanti del gruppo sperimentale mostrarono significativi e più elevati miglioramenti rispetto al gruppo TAU alla fine della terapia, sia in riferimento ai sintomi positivi che a quelli negativi, oltre che alla psicopatologia in senso più generico (PANSS), illusioni e allucinazioni (PSYRATS) e insight (SIA). Questa versione culturalmente adattata di CBT era stata testata precedentemente in un piccolo studio pilota in Lahore (Habib et al., 2014) mentre lo studio in questione veniva condotto in Karachi. Nonostante ciò possiamo concludere che questo esperimento dimostra come sia fattibile offrire una modalità migliore di trattamento della psicosi composta dall’associazione di una TAU e una CaCBTp breve a soggetti che possono frequentare il servizio sanitario locale regolarmente, seppur in un Paese dal reddito basso e quindi con poche risorse economiche. Il coinvolgimento dei curanti e dei familiari sottolinea inoltre una parte essenziale della terapia in questa cultura, che può migliorare l’efficacia del trattamento stesso.
 

Thinking Well: a randomized controlled feasibility study of a new CBT therapy targeting reasoning biases in people with distressing persecutory delusional beliefs

In un altro interessante studio di Waller et al. (2014) è stato dimostrato come le credenze illusorie a contenuto persecutorio, che sono molto comuni in disturbi psicotici come la schizofrenia, sia possibile trattarle con una modalità di intervento denominata Thinking Well, ossia un nuovo approccio terapeutico che combina la recentemente sviluppata Maudsley Review Training Programme (MRTP) con sedute focalizzate di terapia cognitivo-comportamentale. Nonostante la difficoltà di trattamento di tali sintomi tipici dei disturbi psicotici, l’autore dimostra come tale trattamento sia risultato molto efficace.

Metodo

Il campione selezionato si componeva di 31 soggetti tutti con disturbi nello spettro della schizofrenia riferenti illusioni persecutorie e sono stati reclutati in tre grandi strutture di malattie mentali di Londra. Lo studio è stato condotto dividendo i partecipanti in un gruppo sperimentale di 17 soggetti sottoposto al Thinking Well Intervention e un gruppo di controllo di 14 soggetti che continuava ad essere sottoposto ad un intervento comune (TAU). Quest’ultimo gruppo avrebbe continuato a ricevere le cure usuali della comunità di salute mentale a cui apparteneva, il gruppo sperimentale invece sarebbe stato sottoposto al TW Intervention che consisteva nella compilazione del MRTP nell’arco di una o due sedute, seguita da 4 sedute individuali sostenute da uno psicologo clinico specializzato in CBT associata a psicosi.

Tali sedute prevedevano l’esecuzione di compiti che includevano l’apprendimento di abilità di rilassamento e di ricerca di maggiori informazioni attraverso la generazione di più alternative di pensiero meno persecutorie e cariche emotivamente, concentrandosi su quanto l’umore e le esperienze passate incidano in maniera determinante sul modo di pensare e interpretare gli eventi. Questi compiti erano concepiti in modo tale da essere interattivi con il terapeuta ed impegnativi, includendo piccoli puzzles, video registrazioni, brevi videoclip da guardare e compiti a casa. I progressi venivano poi misurati settimanalmente. L’obiettivo di entrambi gli strumenti utilizzati nella TW Intervention era esplorare in che modo le persone prendono decisioni e attribuiscono senso alle esperienze di ogni giorno.

Risultati e conclusioni

I feedback ottenuti da questo studio furono decisamente positivi. Dei 17 partecipanti del gruppo sperimentale sottoposto al TW Intervention due terzi hanno riportato un’esperienza positiva gradendo molto le sedute, comprendendone i contenuti, diventando più riflessivi e apprendendo più attivamente nuove abilità. I soggetti sono stati in grado di applicare quanto appreso anche successivamente alle sedute, migliorandone l’umore e il benessere. Il restante terzo ha riportato un’esperienza non positiva ma nemmeno negativa, semplicemente neutrale. I risultati quindi furono promettenti, in termini di fattibilità e accettabilità di TW Intervention.  Tale esperimento presenta, tuttavia, dei limiti come la mancanza del doppio cieco nella condizione di trattamento e una procedura più opportuna di reclutamento, identificando come idonei soggetti che erano stati precedentemente sottoposti ad uno studio simile. Nonostante ciò lo studio è stato comunque considerato un successo dal punto di vista del grado di soddisfazione dei pazienti e del loro effettivo miglioramento.

Cognitive behavioral therapy for negative symptoms (CBT-n) in psychotic disorders: a pilot study

In un terzo studio qui riportato, Staring et al. (2012) hanno analizzato l’efficacia di tecniche di CBT rispetto ai sintomi negativi della schizofrenia, considerati da sempre la sfida maggiore della cura della salute mentale. In tale esperimento infatti gli studiosi hanno ipotizzato che servendosi di circa 50.5 sedute di trattamento comprendenti tecniche di CBT nel corso di 18 mesi si sarebbero ottenuti miglioramenti rispetto all’avolizione, ottenendo un miglioramento nel funzionamento dei pazienti molto poco performanti. L’obiettivo dello studio era valutare se 20 sedute di CBT per sintomi negativi (CBT-n) li avrebbero ridotti entro 6 mesi. Inoltre i ricercatori volevano valutare il modello cognitivo per sintomi negativi analizzando una riduzione delle credenze disfunzionali mediante gli effetti stessi di sintomi negativi.

Metodo

Il numero dei soggetti scelti per il campione sperimentale era di 21 pazienti adulti con un disturbo dello spettro della schizofrenia con sintomi negativi, sottoposti ad una media di 17.5 sedute settimanali di CBT-n della durata di 45 minuti ciascuna. La CBT-n era basata su un lavoro di Grant et al. (2012) ma leggermente adattato, allo scopo di distinguere tra le varie credenze disfunzionali e renderlo più adatto a valutare l’insight sul self-stigma, discriminazione percepita ed esclusione sociale, esperienze di perdita e lutto e stati di demoralizzazione. La terapia di CBT-n iniziava con la somministrazione della Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS) allo scopo di creare un profilo personale del paziente e deciderne gli obiettivi da raggiungere. Seguiva poi la psicoeducazione verso i deficit neurocognitivi e le attitudini disfunzionali.

Risultati e conclusioni

I limiti dell’esperimento sopra descritto sono caratterizzati dall’assenza del campione di controllo, dall’utilizzo di un campione sperimentale relativamente piccolo e dalla mancanza di analisi di follow-up, tuttavia è stato dimostrato che la CBT-n può essere efficace nella riduzione di sintomi negativi. I pazienti hanno riportato una riduzione delle credenze disfunzionali sulle loro abilità cognitive, di performance, delle esperienze sociali e di esclusione sociale e questa riduzione, oltre ad essere stata clinicamente importante, ha parzialmente mediato gli effetti sui sintomi negativi come dai ricercatori ipotizzato e sperato. I pazienti hanno iniziato a concepire la loro malattia in un modo meno stigmatizzante e sono diventati più speranzosi rispetto al futuro.

Clinical Management of negative symptoms of schizophrenia: an update

Sembra rilevante illustrare uno studio di Tsapakis et al. (2015) in quanto, mettendo in evidenza il fatto che i sintomi negativi della schizofrenia (NSS) interferiscono maggiormente sulla qualità di vita del soggetto rispetto ai sintomi positivi, una precoce ed accurata diagnosi utilizzando scale di valutazione selettive è essenziale per documentare e monitorare l’evoluzione dei NSS parallelamente alla risposta del paziente al trattamento. Antipsicotici tipici e atipici hanno mostrato una modesta efficacia nella gestione di NSS, d’altro canto le terapie non farmacologiche incluse quelle psicologiche spesso falliscono quando indirizzate ai NSS. Al momento sembra che l’approccio migliore per la gestione clinica dei NSS si ottenga attraverso l’utilizzo complementare di una terapia farmacologica con terapie psicosociali. Per quanto riguarda la terapia farmacologica utilizzata oggi per il trattamento dei NSS sono tendenzialmente Antidepressivi, Anticonvulsivanti, Psicostimolanti, Agenti veglia-promotori e gli Antagonisti del recettore della Serotonina e si pensa che con il tempo la ricerca avrà modo di elaborare farmaci di efficacia superiore con maggiore tollerabilità a lungo termine e quindi con conseguente miglioramento del trattamento dei NSS. Per quanto concerne invece le terapie psicologiche, Tsapakis et al. (2015) hanno individuato le seguenti terapie come le più efficaci da integrare alla terapia farmacologica:

  • Psicoeducazione familiare. La diagnosi di schizofrenia ha conseguenze devastanti per la famiglia del paziente, dal punto di vista economico, emotivo e sociale. E’ importante educare le famiglie ed informarle circa la natura del disturbo, la prognosi e il ventaglio dei sintomi tipici della malattia, inclusi i sintomi negativi. Se informati ed educati, infatti, i familiari diventano più supportivi e meno critici verso il paziente quando comprendono che la demotivazione e l’anedonia sono sintomi della malattia stessa invece che comportamenti dettati dalla personalità del soggetto (Velligan & Alphs, 2014). Si sentono inoltre più supportate e comprese da personale qualificato. L’obiettivo quindi della psicoeducazione familiare è persuadere le famiglie dei paziente che il loro modo di comportarsi verso il paziente può facilitare la ripresa dello stesso, compensando molti deficit specifici del disturbo. I dati sperimentali stessi rivelano infatti che la psicoeducazione eleva gli standard di efficacia della cura e il decrescere di sintomi negativi, riducendo anche gli episodi di ricaduta e riospedalizzazione (Xia et al., 2011 ; Giròn et al., 2010) .
  • Terapia cognitivo-comportamentale. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) fu in origine sviluppata per il trattamento della depressione e per i disturbi d’ansia (Beck, 1976). Solo negli anni ’90 quando il trattamento psicologico per condizioni psicotiche iniziò a diffondersi e la CBT fu implementata, si iniziò ad utilizzarla anche per la schizofrenia (Turkington et al., 2006). Usando la CBT il terapeuta mira ad identificare gli obiettivi del paziente e solo successivamente ridurli a sottocategorie di obiettivi da raggiungere uno per volta (Perivoliotis & Cather, 2009). Il proposito della terapia è migliorare l’autoefficacia, accrescere il piacere e ridurre lo stigma e di conseguenza potenziare la riduzione dei sintomi negativi (NSS) e migliorare il funzionamento globale. Quindi il trattamento non mira ad eliminare i sintomi ma ad eliminare gli ostacoli che si frappongono tra il paziente e gli obiettivi da raggiungere, che siano sintomi, deficit di abilità sociali o gestione della rabbia. Quando si applica la CBT vengono utilizzate diverse e ben elaborate tecniche e strategie. Per esempio, combinando l’esame delle cognizioni distorte con l’attivazione comportamentale si può migliorare l’anedonia e la mancanza di interazione sociale (Beck & Rector, 2005).
  • Arte terapia. L’arte terapia, che include l’arte, la musica, la danza, i movimenti corporei e il drama therapy, è una forma di psicoterapia utilizzata allo scopo di gestire i sintomi negativi della schizofrenia come terapia aggiuntiva alla terapia antipsicotica. Con tale tipo di trattamento, si aiutano le persone ad esprimere i loro pensieri e sentimenti in una modalità non distruttiva, offrendo un potenziale miglioramento della qualità di vita del paziente e riducendone anche i sintomi negativi (Crawford et al. 2012 ; Holttum and Huet, 2014).

Conclusioni

I risultati ottenuti dagli studi sopracitati evidenziano che nel complesso esistono buone prove di efficacia che la CBT riduca i sintomi nelle persone affette da schizofrenia. Premesso che tale efficacia è ascrivibile ad un approccio integrato che prevede anche l’utilizzo di altri strumenti, l’utilizzo della CBT può anche migliorare l’insight e l’adesione del soggetto al trattamento farmacologico con conseguente miglioramento del funzionamento sociale. In attesa di ulteriori studi che arricchiscano la letteratura odierna, si può affermare che la terapia cognitivo-comportamentale sia adeguata oltre che utile per il trattamento della schizofrenia.

Vuoi cambiare vita? #VoltaPagina

Se hai un problema emotivo, una disarmonia in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella vita sociale, rivolgiti a uno psicologo.

Non affidarti a chi non ha la giusta competenza per aiutarti. Psicologi e Psicoterapeuti sono i professionisti adeguati e formati appositamente per venirti in aiuto.

 

#VoltaPagina: IL VIDEO

Nella nostra società, e tanto più in questi tempi di crisi, non mancano i motivi per sentirsi stanchi, stressati, inquieti, confusi di fronte ai più diversi problemi che la vita può metterci davanti.

Non sempre questi stati psicofisici vanno considerati come “disturbi”: a volte lo sono, ma a volte sono una risposta “normale” che la mente e l’organismo oppongono a circostanze difficili, dolorose, problematiche. E a volte si ha l’impressione di non farcela ad affrontare da soli i problemi che inquinano le nostre giornate e ci tolgono la serenità; a volte non sapremmo neanche dire perché ci sentiamo arrabbiati, ansiosi o infelici. In questi casi è bene ammettere con sé stessi che le energie non bastano, e cercare aiuto.

Ma l’offerta di aiuto a cui possiamo rivolgerci è spesso inadeguata a recuperare uno stato di benessere: si propongono di aiutarci gli amici o i familiari, ma spesso il loro affetto e il loro sano buon senso non sono sufficienti ad affrontare la complessità dei nostri problemi emotivi; oppure cerchiamo l’intervento del medico, ma farmaci ansiolitici o antidepressivi, anche se possono darci qualche temporaneo giovamento, non modificano il contesto che ha prodotto quei problemi.

Meno che mai possono essere efficaci gli interventi dei ciarlatani o di quei consulenti improvvisati che propongono soluzioni facili e superficiali che non risolvono nulla…

Lo psicologo è un professionista con una laurea specifica, che ha superato un Esame di Stato ed è iscritto a un Albo pubblico che ne certifica la formazione e la preparazione ad affrontare esattamente quei problemi emotivi, psicofisici, ma anche sociali e organizzativi entro cui si genera il tuo stato di malessere.

Lo psicologo non si occupa solo di salute mentale, ma di molte altre cose: visita il sito dell’Ordine Psicologi Lazio ( www.ordinepsicologilazio.it ), ideatore di questa campagna di sensibilizzazione #voltapagina

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Nightcrawler, lo sciacallo (2014): quando la psicopatia diventa istituzione – Recensione

Alessandra Notaro

Nightcrawler, film scritto e diretto da Dan Gilroy con protagonista Jake Gillenhaal: nella trama l’umano diventa sempre più distante e la linea etica tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si assottiglia sempre più fino ad essere invisibile.

Lou si guadagna da vivere rivendendo fili metallici rubati; Lou sopravvive per espedienti ma ha come obiettivo quello di trovare un vero lavoro. Nessuno assume ladri.

Una sera assiste ad un incidente ed è là che intuisce quale potrebbe essere il suo futuro vedendo una troupe televisiva accorsa per riprendere l’accaduto. Nemmeno in questo caso trova qualcuno che lo assuma, allora decide di procurarsi il materiale e dare inizio alla sua nuova attività. Luo vive di espedienti. E così in una escalation mediatica che lo porterà al successo, l’umano diventa sempre più distante e la linea etica tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si assottiglia sempre più fino ad essere invisibile.

In un interpretazione magistrale Jake Gillenhal ci mostra un personaggio dagli occhi spalancati che fa uso di linguaggi e nozioni appresi da internet, e di un’espressività da manuale: maschere sociali pronte ad essere usate al momento giusto, le maschere da copione di uno sciacallo. Il bisogno di esercitare potere prevale su ogni altro obiettivo, e spesso questo si realizza tramite l’abuso. Questa è la caratteristica saliente di un’organizzazione psicopatica di personalità. Se gli oggetti esterni falliscono, l’unico oggetto su cui poter investire emotivamente è il Sé e il suo potere (McWilliams, 2012). “È letteralmente spudorato” scrive Nancy McWilliams a proposito della personalità psicopatica: l’ Altro per l’individuo antisociale si riduce alla sua utilità, a spettatore passivo del suo potere, l’ Altro serve a riconoscere il potere conquistato attraverso il controllo onnipotente. Lo psicopatico, spesso abusato nell’infanzia, desidera il riconoscimento sociale del suo potere: l’ essere per, ennesimo e drammatico espediente per sopravvivere.

Lou mostra attraverso una telecamera la violenza più terribile e agisce sugli spettatori una seconda violenza, complice l’emittente televisiva, che fa leva sull’attrazione-repulsione di una violenza esibita e messa in vetrina: perché se da un lato la violenza che spaventa entra nelle case degli spettatori e li coinvolge, d’ altra parte lo schermo televisivo fa da specchio riflesso verso la quale ri-proiettare nuovamente e spostare paure e angosce dello spettatore.

Unica presenza a fare da contraltare al protagonista e che sembra ergersi in difesa di un sentire emotivo che vede l’Altro fin quasi ad esserne travolti, è il suo assistente Rik. Non c’è spazio nel mondo organizzato e manipolato di Lou per i sentimenti, come dirà a Nina in un surreale appuntamento e corteggiamento; così, nemmeno Rik e ciò che egli rappresenta possono esistere. Louth, Williamson e coll. (1998) hanno osservato che gli psicopatici presentano anomalie nei circuti cerebrali deputati ai processi affettivi e linguistici, hanno ipotizzato quindi che gli individui estremamente antisociali non hanno appreso i sentimenti nello stesso modo in cui fa la maggior parte degli individui, cioè sulla base di relazioni: gli psicopatici acquisirebbero il linguaggio emotivo come una sorta di seconda lingua.

Il sofisticato fascino di Lou ben si addice ai personaggi descritti da Babiak e Hare, personaggi che si trovano ai livelli più alti delle aziende americane e chiamati dagli stessi autori ‘serpenti in giacca e cravatta’ (2007). Gli autori stimano che in nord America una persona su 100 è psicopatica. È proprio il mondo aziendale moderno, più flessibile, in cui rischi elevati possono portare a profitti altrettanto elevati, che attira una struttura di personalità psicopatica.

Il personaggio di Lou segna proprio il passaggio da una rappresentazione dello psicopatico come criminale, ad una pericolosamente integrata nel contesto sociale e lavorativo ipermoderno. La loro capacità di saper scegliere la maschera giusta al momento giusto come se fosse una seconda lingua permette loro di entrare in un’azienda come nastri nascenti se non addirittura come salvatori abusando della fiducia dei colleghi, manipolando i superiori. Nel momento stesso in cui un’ organizzazione viene così a configurarsi e premia una struttura di personalità psicopatica, la psicopatia stessa diviene istituzione. L’ abuso diviene istituzione.

Cantava Bersani:

Chiedi un autografo all’assassino
guarda il colpevole da vicino
e approfitta finché resta dov’é
toccagli la gamba fagli una domanda
cattiva, spietata
con il foro di entrata, senza visto di uscita

(Samuele Bersani, Cattiva)

L’abuso è nel non riconoscere l’Altro, la sua autonomia psichica. Non c’è spazio per la domanda dell’Altro perché inconciliabile con il desiderio di potere dello psicopatico che istituisce l’abuso. E proprio quando l’abuso diventa l’arma vincente per la scalata al successo allora, in quel momento, la psicopatia diventa istituzione.

La curiosità e l’interesse aumentano le capacità mnestiche nell’età avanzata

Le nostre capacità di memoria iniziano a subire un declino già dai venti anni d’età. Ma non disperiamo poichè un nuovo studio pubblicato su Psychology and Aging sottolinea l’importanza della curiosità e della motivazione nel migliorare le capacità mnestiche in persone di età avanzata, compensando i deficit generalmente riscontrati.

 

Memoria, interesse e capacità mnestiche: l’esperimento

Gli studiosi hanno coinvolto nello studio un gruppo di età avanzata (età media 73 anni) e un gruppo di giovani (età media 20 anni) e hanno chiesto loro di rispondere a una serie di domande (ad esempio, quale fu la prima nazione a dare alle donne il diritto di voto).
Riguardo alle domande cui furono date risposte errate, è stato chiesto ai soggetti di esprimere quanto fossero curiosi di conoscere la risposta e il grado di interesse per quell’argomento. In seguito è stata data loro la risposta alle diverse domande.

Dopo un’ora, sono stati proposti test a sorpresa per i soggetti, i quali sono stati nuovamente sottoposti alla prima metà della batteria di domande; e una settimana dopo, sempre a sorpresa, i soggetti devono rispondere alla seconda metà della batteria di domande.
Per prima cosa il gruppo degli anziani ha ottenuto un risultato simile al gruppo dei giovani in termini di prestazioni mnestiche. Per i giovani è stata riscontrata una media di accuratezza delle risposte del 86.6% dopo un’ora e del 51,8% dopo una settimana; mentre il gruppo di età più avanzata ha ottenuto l’ 89.15% di correttezza dopo un’ora e il 50.1% dopo una settimana.

Si può quindi ipotizzare che il gruppo degli anziani, che effettivamente ha riferito maggiore curiosità e grado di interesse verso le domande proposte, abbia compensato il gap mnestico generazionale attraverso queste variabili squisitamente psicologiche?
In parte sì. Anche se la curiosità iniziale riferita dal soggetto non è risultata correlata alle performance mnestica successive, però è stato dimostrato che maggiore era l’interesse nell’ argomento della domanda migliori erano i risultati nel ricordare la risposta in entrambi i gruppi di soggetti.

E’ interessante però leggere l’interazione tra età, grado di interesse e capacità di ricordo a breve e medio termine: l’effetto migliorativo del grado di interesse sulla performance mnestica va in un crescendo per il gruppo degli anziani con il massimo effetto nel ricordo a medio termine: l’inverso accade invece per i giovani che subiscono un’iniziale spinta nel recupero a breve termine (un’ora) per poi andare incontro a un declino di questo effetto dell’interesse (dopo una settimana).

La contraddizione e l’autostima in Cina

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

Expat nella terra di mezzo, cronache sull’orlo di una crisi di nervi

The Chinese Mind vuole essere una raccolta di riflessioni, storie e ricerche riportatevi da una psicologa wài-guó rén, la straniera, alle prese con la cultura e la gente cinese nella Shanghai contemporanea. Shanghai è un luogo elettrizzante, contradditorio nella sua essenza, costantemente in mutamento, ti lascia con una certezza: tutto, troppo umano per rimanervi indifferente.

Nell’era multiculturale, si spendono sensatissime parole su altrettanto documentati manuali di psicologia riguardo l’appropriazione di quell’insieme di credenze, valori, atteggiamenti, emozioni, reti di significati e di pratiche che caratterizzano una specifica cultura.

Si parla di appropriazione e non di acquisizione perché la complessità di una cultura non si impara studiando sui libri, nè facendo vacanze all’estero, ma si fonda direttamente sull’esperienza, intesa come “l’enciclopedia di conoscenze esplicite e tacite, acquisite mediante il coinvolgimento personale nelle azioni e nelle interazioni con gli altri, accumulate nel corso del tempo” (Anolli, 2011).

Tutto vero, salvo poi renderti conto che la maggior parte degli aneddoti rientrano sotto la nebulosa categoria del “That’s china” – espressione utilizzata dallo straniero smarrito che non ci sta capendo più nulla. Allora le emozioni prevalgono, le teorie dei manuali rimangono in penombra e la sfida che stai vivendo si irradia in tutta la sua complessità.

Buona lettura!

La contraddizione e l’autostima in Cina

In gran parte dei paesi asiatici la realtà non viene concepita come univoca, con confini precisi e coerenti, ma anche semplici e banali domande, ad esempio, “in quale giorno inizierà l’anno scolastico?” lasciano spesso lo straniero, in questo caso la sottoscritta, stupito e accigliato per non ottenere quella che nella prospettiva occidentale è una risposta sicura.

Rimane sempre qualcosa in sospeso, qualcosa in forse, una sorta di Inshallah per cui – e i cognitivisti direbbero che è proprio così – nulla nella vita, neanche negli aspetti più banali e pratici pare essere certo.

Possiamo rilassarci se cerchiamo di comprenderne le ragioni: le credenze e le rappresentazioni cognitive dei paesi dell’Estremo Oriente sono saldamente radicate nel taoismo che implica un presupposto tanto semplice quanto ingerente:

La realtà – o meglio la rappresentazione della realtà – non è univoca ma è contradditoria per natura (definito come “principio di contraddizione”).

Dunque entrambi gli aspetti di una contraddizione (“ciò che è A” e “ciò che è NON-A”) non si autoescludono ma possono convivere in armonia e possono mutare: di fronte a una incoerenza si tende al compromesso in modo che in qualche modo entrambi i lati della medaglia, entrambe le “verità” possano essere conservate (Peng & Nisbett, 1999).

Lo shock occidentale di fronte alle apparenti contraddizioni deriva dal fatto che la nostra conoscenza ha radici nella logica aristotelica in cui il principio di non contraddizione vale eccome: se una cosa è vera non può essere falsa!

Effettivamente sembrerebbe che anche l’autostima, in quanto insieme di credenze su sé stessi non sia esente dal fenomeno.

Prendiamo ad esempio i cinesi: Spencer-Rodgers et al. (2004) hanno riscontrato che i cinesi hanno un autostima significativamente più bassa e profili diversi rispetto agli americani (misurata attraverso il famoso e occidentale questionario Rosenberg Self- Esteem Scale). Infatti accade che i cinesi, per natura più tolleranti alla contraddizione e con un bisogno di coerenza meno stringente rispetto agli americani, si autodescrivono sostenendo sia item positivi che negativi, delineando un profilo di sé appunto molto articolato e includente sia aspetti positivi che negativi. Molto più polarizzate sarebbero invece le autorappresentazioni dei soggetti americani: o sei positivo o sei negativo.

Una maggiore incoerenza e ambivalenza nelle credenze su di sé non sarebbe però un problema per gli orientali. Ad esempio Campbell e colleghi (1996) hanno riscontrato che il grado di coerenza interna e stabilità delle credenze sul sé erano meno correlate all’autostima per i giapponesi che per i canadesi; e la discrepanza tra sé ideale e sé reale era legata alla depressione in misura minore che per il campione occidentale (Heine & Lehman, 1999).

Un limite di questi studi però risiede negli strumenti self-report che sono misure “esplicite” dell’autostima e nella desiderabilità sociale dei soggetti, che negli orientali può tradursi nell’assunzione di un atteggiamento di modestia con una preferenza per risposte moderate e non estreme mentre valutano sé stessi di fronte ad altri (Chen, Lee, & Stevenson, 1995).

Senza contare il fatto che gli strumenti self-report utilizzati in moltissimi studi sono etnocentrici (studiati e messi a punto da individui di cultura non cinese), e -per citare la piu semplice falla – alcuni items possono essere male interpretati.

Comunicazione non verbale: lezione magistrale di Daniel Messinger al NeuroComScience – Report

Nella Lectio magistralis organizzata da NeuroComScience lo scorso 22 novembre il prof. Daniel Messinger ha presentato i risultati di alcune ricerche sull’argomento comunicazione non verbale e manifestazione delle emozioni.

La comunicazione non verbale e il modo in cui le emozioni si manifestano –espressioni del volto, postura corporea- rappresentano temi di ricerca estremamente affascinanti sin dai tempi della pubblicazione del libro caposaldo di Charles Darwin ‘L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali‘ e ancora oggi estremamente attuali. Nella Lectio magistralis organizzata da NeuroComScience lo scorso 22 novembre il prof. Daniel Messinger ha presentato i risultati di alcune ricerche sull’argomento.

Il prof. Messinger, docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università di Miami dove dirige il laboratorio di osservazione comportamentale, indaga, nei suoi lavori, lo sviluppo sociale ed emozionale attraverso l’analisi delle espressioni facciali e motorio-gestuali, con particolare riferimento allo sviluppo infantile. Tali ricerche si avvalgono non solo dell’utilizzo di metodi osservativi, ma anche della realizzazione e utilizzo di appositi software che analizzano le espressioni del volto e la postura corporea; ulteriori ambiti di studio sono le dinamiche comunicative presenti in bambini con diagnosi inerenti lo spettro autistico.

La presentazione viene introdotta da una ricerca (Harker, L. e Keltner, X., 2001) che indaga la significatività, sul piano sociale, dell’espressione di emozioni positive. Gli autori hanno preso in esame le foto scattate ad alcune donne per l’annuario del college; le foto sono state sottoposte ad un campione di osservatori. Gli osservatori hanno espresso preferenza per le foto di donne che mostravano nell’espressione del volto emozioni positive (sorriso) rispetto alle foto che raffiguravano donne che, invece, non sorridevano, a dimostrazione del fatto che le emozioni positive portano beneficio a livello sociale. Inoltre, è emerso come l’espressione di emozioni positive rappresenti anche un valido predittore di benessere personale e del conseguimento di traguardi di vita desiderabili (life outcomes).

Il secondo studio presentato (Rosenberg et al, 2015) si concentra sui benefici apportati dalla meditazione; nello specifico, gli autori vogliono verificare l’influenza che la meditazione esercita sulle risposte emozionali alla sofferenza. Partendo dalla premessa che la meditazione aiuta le persone a coltivare sentimenti di empatia e a rafforzare la motivazione ad aiutare gli altri, viene analizzato l’impatto che tre mesi di training di meditazione intensiva hanno esercitato sulle risposte emozionali a scene di sofferenza. I sessanta partecipanti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo che ha effettuato il training meditativo o al gruppo di controllo; dopo l’esposizione a scene di film che mostravano scene di sofferenza veniva effettuata la misurazione delle risposte emozionali attraverso l’osservazione delle espressioni facciali. Come risultato, è emerso che gli appartenenti al gruppo che aveva effettuato il training erano più inclini, rispetto al gruppo di controllo, a mostrare espressioni facciali che esprimevano tristezza e meno espressioni di rabbia e disgusto.

La ricerca effettuata dallo stesso Messinger (Messinger, D., Fogel, A. e Dickson, K., 2001) compara i vari tipi di sorrisi, giungendo alla conclusione che “tutti i sorrisi sono positivi, ma alcuni sorrisi esprimono maggiore positività di altri”. Un campione composto da 13 bambini viene osservato settimanalmente dal primo fino al sesto mese di età durante le interazioni con la madre, analizzando le modalità con cui compare il sorriso.

Il sorriso non Duchenne (non accompagnato dall’apertura della bocca e dal sollevamento delle guance) è relativamente più frequente rispetto a momenti senza sorriso sia quando le madri stanno sorridendo che quando i bambini stanno guardando i visi delle loro madri. Il sorriso con il sollevamento delle guance, invece, si verifica con maggiori probabilità quando la madre sorride e il bambino la sta guardando. Il sorriso Duchenne (caratterizzato dal sollevamento delle guance, lo strizzare gli occhi e l’apertura della bocca) appare correlato con l’interazione e con la condivisione di affetti positivi. Nello specifico, le dimensioni del sollevamento delle guance e dell’apertura della bocca appaiono essere associate, rispettivamente, con l’amplificazione dei processi di condivisione di affetti positivi e di contatto interattivo tramite gli sguardi, elementi presenti in grado minore nel sorriso non Duchenne.

Ciò vale anche per gli affetti negativi: nei bambini la cry face (faccia da pianto) esprime sentimenti più intensi quando la bocca si apre e gli occhi si contraggono. Attraverso l’interazione, i bambini arrivano a comprendere se stessi come esseri sociali che influenzano e sono influenzati dagli altri; l’essere immersi in interazioni diadiche di sincronia contribuisce a sensibilizzare i bambini alla risonanza emotiva e all’empatia che sottende alle relazioni umane nell’arco della vita.

Gli occhi socchiusi e la bocca aperta rappresentano delle valide variabili discriminanti dell’intensità delle emozioni, perché gli stati emozionali (sia positivi che negativi) sono più intensi, anche negli adulti, quando sono accompagnati dalla costrizione degli occhi e dall’apertura della bocca.

Una differenza significativa tra l’espressione facciale delle emozioni nei bambini e negli adulti è che gli stati emozionali negativi sono associati a più movimento ed espressività del viso, rispetto agli stati positivi, nei bambini; negli adulti si verifica l’esatto contrario, l’espressività associata agli stati negativi è minore, essi mascherano le emozioni negative nel volto; la postura corporea rappresenta un indicatore più affidabile del reale stato emotivo della persona.

Se prendiamo in esame gli stati depressivi, vediamo come minore è l’espressività, a livello facciale, delle emozioni di tristezza, minore è la risposta al trattamento e maggiore è la gravità dello stato depressivo. Coloro che rispondono ai trattamenti hanno anche maggiore variabilità nel tono della voce, fanno meno pause mentre parlano e hanno un eloquio più rapido.

Nei bambini con diagnosi inerenti lo spettro autistico si verifica un minore livello di accordo tra le sensazioni sperimentate dal bambino e la conseguente risposta comportamentale: le reazioni sia a livello di espressione facciale che a livello verbale risultano più incoerenti e, inoltre, compare un modo caratteristico di ruotare la testa. A tempo stesso, la capacità di espressività a livello vocale tende a non modificarsi con l’avanzare dell’età e il bambino, nelle interazioni, appare più attratto dagli oggetti che dalle persone.

Per quanto riguarda la diagnosi precoce, il fatto che il bambino sia in grado di prestare attenzione all’adulto con cui è in interazione, attuando un’attenzione condivisa anche in assenza di altri stimoli, è un buon predittore dell’assenza di difficoltà legate allo spettro autistico.

In ultima analisi, l’osservazione e l’analisi delle espressioni facciali e della postura corporea rappresentano una valida fonte di informazioni, sia per quanto riguarda lo studio e la comprensione dei comportamenti umani, che per le applicazioni in ambito clinico e diagnostico.

La pratica della Mindfulness migliora la qualità di vita delle donne in gravidanza

Mindfulness in Gravidanza: la letteratura internazionale, negli ultimi anni, si è interessata notevolmente a trovare delle soluzioni per migliorare la qualità di vita delle donne in gravidanza e dei loro futuri bambini. La crescita esponenziale e i numerosi benefici tratti dall’utilizzo della Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) hanno portato il mondo della ricerca a sperimentare il protocollo Mindfulness anche per le future mamme.

 

Stress in Gravidanza e tono dell’umore

Durante la gravidanza, lo stress e un basso tono dell’umore possono interferire nella relazione madre-neonato e nello sviluppo del bambino stesso, aumentando in modo considerevole il rischio di disturbi dell’umore post-natali.

Da alcuni studi (Gavin et al., 2005; Vieten & Astin, 2008) emerge che il 18% delle mamme sperimentano degli episodi depressivi nel corso della gravidanza, accompagnati da scarso appetito, sintomi psicosomatici e insonnia. Questi episodi per altro, tendono ad aumentare dal primo trimestre al terzo e ultimo trimestre quando il parto è ormai imminente. I sintomi depressivi potrebbero essere poi responsabili di successive conseguenze quali ridotto periodo di gestazione e nascita pretermine, parto cesareo non programmato, basso peso alla nascita del bambino, depressione post-partum.

La gravidanza è causa inoltre di alcune oscillazioni ormonali; il cortisolo, ad esempio, definito anche “ormone dello stress” può raggiungere dei livelli superiori alla soglia di produzione funzionale, innescando degli effetti indesiderati per l’organismo. Anche in questo caso l’aumento del cortisolo è direttamente proporzionale al trascorrere della gravidanza, con incremento di sintomi di carattere ansioso, dolori acuti e cronici e conseguente infiammazione della zona pelvica, sperimentati soprattutto negli ultimi mesi di gestazione.

 

Mindfulness in gravidanza

La letteratura internazionale, negli ultimi anni, si è interessata notevolmente agli aspetti sopra indicati, cercando di trovare delle soluzioni per migliorare la qualità di vita delle donne in gravidanza e dei loro futuri bambini. La crescita esponenziale e i numerosi benefici tratti dall’utilizzo della Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) hanno portato il mondo della ricerca a sperimentare il protocollo Mindfulness anche per le future mamme.

Per Jon Kabat-Zinn, pioniere della Mindfulness, la migliore definizione di questa disciplina è [blockquote style=”1″]porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante[/blockquote] (1994).

Si tratta cioè di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento per momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza, e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.

Mindfulness Based Stress Reduction

Il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction prevede solitamente 8-10 incontri con cadenza settimanale in cui è previsto l’apprendimento di alcune discipline come la meditazione seduta (sitting meditation) e camminata (walking meditation), il body scan e lo yoga. Gli effetti positivi della Mindfulness Based Stress Reduction sono ampiamente dimostrati su di una vasta gamma di patologie e disturbi quali insonnia, dolore cronico, stress, disturbi dell’alimentazione, ipertensione, disturbi d’ansia e dell’umore, difficoltà di memoria e di concentrazione.

Vieten e Astin (2008) mostrano che le mamme che avevano seguito un protocollo Mindfulness Based Stress Reduction standard nel corso della gravidanza, riscontravano dei risultati positivi considerevoli. Il gruppo sperimentale mostrava, infatti, un miglioramento del proprio umore superiore del 20-25% rispetto al gruppo di controllo composto da mamme che non avevano praticato Mindfulness Based Stress Reduction; il miglioramento era riscontrabile soprattutto in una riduzione dell’ansia, riduzione dei sintomi depressivi e un minore stress sperimentato nel periodo post-partum.

Mindfulness in gravidanza e diminuzione del dolore pelvico

Ancora, Beddoe e il suo gruppo di ricerca (2009) hanno dimostrato che la Mindfulness portava a una consistente diminuzione del dolore pelvico che, le donne incinte sperimentano di frequente nei mesi finali della gravidanza. Il dato interessante è che le future mamme che avevano iniziato, nel secondo trimestre di gravidanza il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction, avevano poi nell’ultimo trimestre una netta riduzione dei dolori acuti e cronici nella zona pelvica. Questa riduzione non si rilevava nel gruppo di controllo (composta da donne incinte che non avevano iniziato la MBSR) e nel gruppo composto da mamme che invece avevano praticato la MBSR solo all’inizio del terzo e ultimo trimestre di gravidanza.

 

Mindfulness in gravidanza per i disturbi d’ansia

Infine, dei lavori (Glover, 2014; Van de Heuvel et al., 2015) suggeriscono che i figli di mamme che hanno manifestato dei disturbi d’ansia nel periodo pre-natale, possono incorrere più facilmente in un ritardo nello sviluppo emotivo. Si stima che il 10-15% di questi neonati avranno poi, nella primissima infanzia, deficit emotivi e comportamentali. Un gruppo di ricerca dell’università olandese di Tilburg in uno studio recente (Van de Heuvel et al., 2015) ha mostrato i benefici della pratica Mindfulness in questa condizione.

I ricercatori hanno utilizzato per il loro esperimento delle mamme in stato interessante che, soffrivano di disturbi d’ansia non specifici ma legati probabilmente alla loro condizione materna. Un gruppo di queste mamme è stato sottoposto a un protocollo Mindfulness Based Stress Reduction standard, mentre il gruppo di controllo era composto da mamme che non praticavano Mindfulness. I risultati hanno dimostrato che i bambini al decimo mese di vita, figli di mamme che avevano praticato MBSR, mostravano una maggiore facilità di regolazione emotiva e affettiva rispetto al gruppo di bambini coetanei che invece erano figli di mamme appartenenti al gruppo di controllo.

 

Questi studi enfatizzano ulteriormente l’efficacia della Mindfulness in gravidanza e tutti i benefici che ne derivano, è necessario però che la ricerca prosegua in questo senso avendo come principale obiettivo quello di migliorare la qualità di vita della mamma e del suo bambino.

Correlati EEG dell’attività proiettiva spontanea su stimoli visivi non strutturati

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Correlati EEG dell’attività proiettiva spontanea su stimoli visivi non strutturati

Autrice: Susanna Bonanni (Università Sapienza di Roma)

Abstract

La proiezione è un meccanismo di difesa in cui l’individuo attribuisce all’altro vissuti emotivi o impulsi di tipo spiacevole che egli rifiuta in se stesso. Dati recenti suggeriscono l’implicazione di un pattern neurale fronto-parietale durante la proiezione di stati mentali interni su stimoli visivi non strutturati (Luciani et al., 2013). Ad oggi, nella comunità scientifica, non è ancora chiaro se la proiezione sia un meccanismo indotto dalla specificità della consegna assegnata durante la somministrazione di test proiettivi, quali il test di Rorschach, oppure sia un fenomeno spontaneo elicitato dalla natura ambigua dello stimolo. L’obiettivo del presente studio è quello di esplorare il ruolo della consegna valutando l’attività neuronale di un campione di soggetti durante la presentazione di stimoli visivi strutturati e non strutturati (ambigui).

A tal fine, sono stati confrontati due gruppi di partecipanti: ad un gruppo veniva assegnata una consegna specifica, viceversa, l’altro gruppo non riceveva istruzioni specifiche. I dati EEG sono stati registrati in modo continuo a 250 Hz utilizzando NetStation 4.5.1 HydroCel Geodesic Sensor Net a 256 canali. Successivamente, è stata svolta un’analisi dei potenziali evento correlati (ERP) ed una tomografia elettromagnetica a bassa risoluzione (sLoreta). Dai risultati ottenuti è stato riscontrato un pattern di attivazione fronto-parietale nel campione di soggetti con consegna specifica, in accordo con lo studio di Luciani e collaboratori (2013). Inoltre, le analisi comparative tra i due gruppi mostrano un’attivazione significativa della corteccia entorinale (BA28-sinistra) e peririnale (BA25-sinistra; BA36-sinistra) nel gruppo di soggetti senza consegna specifica. Tali risultati mostrano che la specificità della consegna gioca un ruolo cruciale nel determinare la qualità della proiezione e dell’attività neuronale ad essa sottostante. In particolare, in assenza di una consegna specifica ciò che viene messo in atto dai soggetti, posti di fronte alle figure non strutturate, potrebbe non essere un fenomeno proiettivo, bensì una strategia di disambiguazione percettiva dello stimolo supportata da un pattern temporo-mesiale.

Projection is a defence mechanism in which a person refuses his own unpleasant impulses by attributing them to others. Recent data suggest the involvement of a fronto-parietal neural pattern during projection of internal mental states on non-structural visual stimuli (Luciani et al., 2013). Nowadays, in the scientific community, is still not clear if projection is a mechanism induced by specific instructions given during projective tests, like Rorschach test, or it is a spontaneous phenomenon elicited by the ambiguity of stimuli. The aim of the present study was to explore the role of instructions by assessing neural activity of a sample of subjects during the presentation of structural and non-structural (ambiguous) visual stimuli.

In order to achieve this aim two groups were compared: one group received specific instructions and the other one didn’t. EEG data were recorded continuously at 250 Hz using NetStation 4.5.1 with 256-channels HydroCel Geodesic Sensor Net. Event related potential (ERP) components and low-resolution electromagnetic tomography (sLoreta) were analyzed. The relevance of a fronto-parietal pattern regarding the group with specific instructions was found, supporting the results of Luciani et al. (2013). Moreover, comparative analysis between the two groups show a greater activation of the entorhinal cortex (left-BA28) and the perirhinal cortex (left-BA35, left-BA36) in the group without specific instructions. Findings show that specificity of instructions plays a crucial role in determining the quality of projection and the neural activity below. In particular, subjects without specific instructions may respond to the non-structural stimulus with a perceptive disambiguation strategy supported by a middle-temporal pattern, rather than a projective phenomenon.

Parole chiave: Test di Rorschach, Proiezione, Correlati neurali, EEG, aree tempo-mesiali

Il Disturbo dell’apprendimento non verbale: un nuovo disturbo tra i DSA

Stefania Pedroni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

Disturbo dell’apprendimento non verbale: nell’area dei disturbi dell’apprendimento e dello sviluppo, vi è un sottogruppo di bambini competenti nella sfera verbale, ma meno capaci nei domini non verbali, in particolare nelle abilità visuo-spaziali. Questi individui incontrano una serie difficoltà di apprendimento e di adattamento.

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale: un DSA non ancora classificato

Nell’area dei disturbi dell’apprendimento e dello sviluppo, vi è un sottogruppo di bambini competenti nella sfera verbale (con un alto Quoziente Intellettivo Verbale), ma meno capaci nei domini non verbali e in particolare nelle abilità visuo-spaziali (Mammarella e Cornoldi, 2014). Questi individui incontrano serie difficoltà di apprendimento e di adattamento, per le quali richiedono valutazioni cliniche e supporto psicologico. Tuttavia gli attuali sistemi di classificazione (DSM-5 e ICD-10) non riportano una specifica categoria diagnostica in grado di descrivere il loro funzionamento.

Johnson e Myklebust (1967) hanno coniato il termine Disturbo dell’apprendimento non verbale, cercando di identificare le caratteristiche e le difficoltà dei bambini che ne soffrono. Tuttavia al momento attuale, sebbene la maggior parte dei ricercatori e dei clinici siano concordi sul fatto che esista chiaramente il profilo del bambino con Disturbo dell’apprendimento non verbale (ad eccezione di Spreen, 2011), gli stessi non sono d’accordo sulla necessità di una specifica categoria clinica e sui criteri per una sua identificazione (Fine, Semrud-Clikeman, Bledsoe e Musielak, 2013).

 

Il profilo dei bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale

Per fare chiarezza su questo aspetto, Mammarella e Cornoldi (2014) hanno condotto un’analisi della letteratura, selezionando 35 articoli scientifici, pubblicati tra gennaio 1980 e febbraio 2012, che hanno descritto il funzionamento di bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD – Non verbal Learning Disorder). Tale rassegna aveva lo scopo di portare alla luce i criteri maggiormente usati per identificare i bambini con NLD e differenziarli da coloro che non presentavano NLD.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno proposto 5 criteri diagnostici utili a identificare i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale:

  • Un basso profilo di intelligenza visuo-spaziale e un livello relativamente buono del Quoziente di Intelligenza verbale;
  • Difficoltà visivo-costruttive e della motricità fine;
  • Scarsi risultati scolastici in matematica rispetto a una buona abilità di lettura;
  • Deficit nella memoria di lavoro spaziale;
  • Difficoltà emotive e sociali.

Secondo gli autori (Mammarella e Cornoldi, 2014), per poter fare diagnosi devono essere presenti necessariamente il primo criterio e almeno due dei criteri dal 2 al 4, mentre il quinto potrebbe essere considerato come una possibile caratteristica associata. Infatti i problemi emotivi e sociali sono stati tra gli aspetti salienti per la selezione dei bambini inseriti nel gruppo con Disturbo dell’apprendimento non verbale in molte ricerche analizzate, ma nessuno studio ha riportato misure oggettive del funzionamento sociale, di cui solo alcuni aspetti sono stati indagati scrupolosamente, ovvero la comprensione delle emozioni, la percezione sociale e le abilità relazionali.

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale e i problemi di adattamento sociale

L’importanza di possedere adeguate abilità sociali per potersi relazionare agli altri in modo efficace, ha condotto i ricercatori a studiare questo ambito con interesse. Una possibile spiegazione della relazione tra problemi di adattamento sociale e Disturbo dell’apprendimento non verbale è stata proposta da Galway e Metsala (2011): le difficoltà nelle abilità visuo-spaziali interferiscono con la percezione dei segnali non verbali negli scambi relazionali (Petti et al., 2003). E’ teoricamente significativo il fatto che i bambini che hanno deficit nei compiti di organizzazione visuo-percettiva, abbiano difficoltà anche nell’interpretazione di segnali sociali non verbali, spesso lievi e passeggeri, come espressioni facciali e vari segni paralinguistici fonti di informazioni importanti (per esempio gesti e umorismo), (Petti et al., 2003). Una quantità significativa di comunicazione avviene tramite il linguaggio non verbale (Nowicki e Duke, 1992), per questo in letteratura si è ragionato sul fatto che i bambini con deficit nell’interpretazione di segnali non verbali possano avere problemi nelle interazioni ed essere a rischio di problemi emotivi e sociali, come è stato evidenziato nella rilevazione di un aumento della psicopatologia in persone con Disturbo dell’apprendimento non verbale (Petti et al., 2003).

Galway e Metsala (2011) nella loro ricerca sperimentale hanno esaminato le relazioni tra le abilità nella risoluzione di problemi interpersonali, le abilità visuo-spaziali e l’adattamento psicosociale (descritto da genitori e insegnanti). Il loro studio ha evidenziato come i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale mostrino difficoltà in molti aspetti nella risoluzione dei problemi interpersonali, paragonati ai bambini della stessa età con sviluppo tipico: in particolare codificano meno segnali sociali e sono più scarsi nell’interpretare emozioni basate su questi indicatori. La percezione sociale non verbale è stata misurata utilizzando scenari video-registrati di situazioni di vita reale, ecologicamente più validi rispetto a immagini statiche.

Le difficoltà a livello non verbale nella percezione sociale che vengono documentate, forniscono supporto empirico allo studio di Rourke (1995), secondo cui i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale hanno problemi a identificare e riconoscere alcune espressioni di emozioni e altri sottili indicatori non verbali nelle interazioni sociali.

 

Un aspetto interessante dello studio riguarda il fatto che, quando venivano presentati oralmente aneddoti sociali, non emergevano differenze tra i gruppi relativamente all’identificazione di elementi interpersonali della storia, di riconoscimento delle emozioni dei personaggi o di formazione di opinioni sugli aspetti relazionali.

 

Il contributo dello studio di Galway e Metsala (2011) è stato quello di scoprire correlazioni significative tra le abilità visuo-spaziali e le abilità di percezione e interpretazione dei segnali non verbali. Questi risultati suggeriscono che deficit nelle abilità visuo-spaziali conducono a deficit di percezione sociale, anche se un rapporto di causa-effetto non è ancora stato confermato empiricamente (Petti et al., 2003). Un aspetto interessante dello studio riguarda il fatto che, quando venivano presentati oralmente aneddoti sociali, non emergevano differenze tra i gruppi (bambini con e senza Disturbo dell’apprendimento non verbale) relativamente all’identificazione di elementi interpersonali (e non interpersonali) della storia, di riconoscimento delle emozioni dei personaggi o di formazione di opinioni sugli aspetti relazionali. Le difficoltà che emergevano quando i bambini dovevano interpretare le emozioni basandosi su video-registrazioni (scenari non verbali), non venivano riscontrate in queste storie verbali. Secondo gli autori questo poteva essere spiegato col fatto che le abilità verbali, ben sviluppate nei bambini di entrambi i gruppi, permettevano rappresentazioni adeguate del problema a partire da aneddoti verbali. Questo potrebbe essere considerato come un possibile e importante punto di forza nella risoluzione di problemi interpersonali nei bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale (Galway e Metsala, 2011).

Entrando nello specifico dello studio, gli autori hanno rilevato che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale possiedono lo stesso repertorio di comportamenti assertivi dei loro pari a sviluppo tipico, ma non credono che queste risposte condurranno a risultati di successo. Quindi scelgono meno spesso una di queste loro condotte competenti come la migliore soluzione a un problema. Una possibile spiegazione per gli stessi ricercatori riguarda il fatto che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale possono avere difficoltà a generalizzare a partire da casi singoli in cui hanno ottenuto risultati positivi. Quindi potrebbero avere difficoltà a costruire un concetto corrispondente a ‘comportamenti che portano a risultati positivi’. Questo potrebbe confermare l’indicazione di Rourke (1995), che ha suggerito che la formazione di un concetto generale è un’area di difficoltà nei bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale e lo studio di Schiff, et al. (2009), che ha verificato che questi bambini hanno difficoltà con il ragionamento analogico. Lo studio rappresenta un passo iniziale verso un’analisi più esauriente dei processi cognitivi in bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale.

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale, Sindrome di Asperger & ADHD

Alla luce di queste prime evidenze, Galway e Metsala (2011) suggeriscono che gli interventi e gli approcci terapeutici potrebbero includere strategie che mirano a favorire interpretazioni più positive del comportamento degli altri, elaborare risposte a un problema che abbiano più probabilità di essere efficaci e lavorare verso la messa in atto di tali risposte. In contesto educativo, il lavoro di gruppo e un training su queste abilità potrebbe dare beneficio ai bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale. Per esempio gli insegnanti potrebbero aiutarli a individuare i comportamenti (in situazioni sociali) che più probabilmente hanno un esito favorevole e di conseguenza lavorare su come eseguire il comportamento in modo competente. Potrebbe essere praticato un training preventivo in aggiunta a un supporto fornito durante il corso dell’interazione sociale.

Nell’esperienza clinica degli autori (Galway e Metsala, 2011), essi hanno osservato che adulti e pari potrebbero attribuire motivazioni negative ai comportamenti problematici dei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale. Un importante passo verso il miglioramento delle esperienze scolastiche di questi individui, potrebbe essere l’aiutare il personale scolastico a comprendere meglio il disturbo dell’apprendimento non verbale in generale, oltre alle specifiche aree di difficoltà di ogni determinato bambino con disturbo dell’apprendimento non verbale.

Comprendere le interazioni sociali è cruciale per lo sviluppo della competenza sociale, secondo lo studio di Semrud-Clikeman et al. (2010), uno dei primi a utilizzare misure dirette e indirette della percezione sociale per esplorare possibili differenze tra bambini con differenti disturbi: disturbo dell’apprendimento non verbale, sindrome di Asperger, ADHD misto, ADHD con predominanza di disattenzione e un gruppo di controllo a sviluppo tipico.

Lo scopo di questo studio era quello di valutare la percezione e il funzionamento sociale in bambini con sindrome di Asperger e disturbo dell’apprendimento non verbale, usando misurazioni dirette e indirette. Una caratteristica che definisce la sindrome di Asperger (AS) è la difficoltà nelle relazioni sociali (America Psychiatric Association, 2000). Gli individui con tale sindrome hanno problemi con gli altri, hanno difficoltà nella comunicazione reciproca e sono pedanti nelle loro abilità linguistiche (Klin, Volkmar, Sparrow et al., 2000). Inoltre la presenza di interessi stereotipati e ristretti, la difficoltà a condividere il piacere per le attività o gli oggetti e un’aderenza inflessibile alle routine o ai rituali sono stati riconosciuti come aspetti importanti nella diagnosi della sindrome di Asperger (American Psychiatric Association, 2000). Sottolineare frequentemente le difficoltà sociali in questi individui porta a vissuti di incomprensione e successivo ritiro, in particolare nelle interazioni sociali nuove e inaspettate (Adolphs et al., 2001).

Difficoltà nella percezione sociale è stata anche associata a Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD) (Myklebust, 1975). I bambini con NLD hanno deficit specifici nell’identificare espressioni facciali e gesti (Petti et al., 2002), a usare il contenuto emotivo per fare inferenze sociali (Worling et al., 1999) ed elaborare segnali sociali (Woods et al., 2000). Alcuni studi hanno trovato che anche bambini con NLD diventano ritirati e tristi in seguito ad esperienze negative coi loro pari (Rourke e Tsatsanis, 2000). Tuttavia oltre alle somiglianze nell’area delle difficoltà di socializzazione tra individui con NLD e AS (Klin, Volkmar e Sparrow, 2000), ci sono molte differenze che possono fare ipotizzare che questi disturbi abbiano diversi substrati neurologici sottostanti (Semrud-Clikeman et al., 2010). Per esempio, al contrario dei bambini con sindrome di Asperger, quelli con NLD hanno spesso difficoltà nei calcoli e nel ragionamento matematico così come nella comprensione del testo. Inoltre i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale hanno più probabilità di avere difficoltà nelle abilità visuo-spaziali, come per esempio nel comprendere destra e sinistra (Forrest, 2007).

I bambini con sindrome di Asperger si distinguono da quelli con NLD nel fatto che generalmente hanno bisogno di attaccarsi a routine rigide, hanno interessi stereotipati e spesso hanno buoni risultati scolastici (Ozonoff e Rogers, 2003). Secondo Semrud-Clikeman et al. (2010), l’uso di una metodologia complessa, come per esempio quella di Lecavalier et al. (2009) o Gadow et al. (2008), per determinare quali sintomi sono simili o differenti tra bambini con AS o NLD, è necessario per comprendere come questi disturbi si intersechino. Inoltre è necessaria un’ampia mole di studi che possa definire criteri diagnostici appropriati per NLD simili a quelli che sono stati fatti per AS.

Lo scopo dello studio (Semrud-Clikeman et al., 2010) era determinare possibili differenze tra i bambini diagnosticati con sindrome di Asperger, NLD e sottotipi di ADHD su misure dirette e indirette di funzionamento sociale ed emotivo. La principale scoperta riguarda il fatto che i bambini con sindrome di Asperger e quelli con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno più difficoltà a valutare indicatori emotivi e non verbali, paragonati ai bambini dei gruppi di controllo e a quelli con ADHD. Non è stata confermata invece l’ipotesi secondo cui i bambini con sindrome di Asperger hanno più difficoltà di quelli con NLD (Semrud-Clikeman et al., 2010). In accordo con studi precedenti (Lecavalier et al. 2009), che usavano scale di valutazione neuropsicologica e di comportamento, lo studio attuale trova più somiglianze nella percezione sociale tra gruppi con NLD e AS che differenze, usando una misura diretta di valutazione della percezione sociale.

Tali risultati suggeriscono che sia NLD sia AS sono associati a disturbi sociali. Le scale sui comportamenti compilate da genitori e insegnanti mostrano differenze significative tra i gruppi: come aspettato, il gruppo di controllo mostra un migliore funzionamento comportamentale in tutte le aree paragonato al gruppo clinico. Quando vengono confrontati i gruppi clinici, i bambini con AS mostravano più problemi esternalizzanti rispetto al gruppo di controllo e al gruppo ADHD con predominanza di disattenzione; una scoperta in accordo con precedenti ricerche (Lecavalier et al. 2009). All’interno della scala internalizzante, i sintomi di tristezza erano particolarmente evidenti per bambini con AS, NLD e ADHD misto, con il gruppo AS che mostrava la maggiore tendenza ad avere queste difficoltà. I genitori osservavano più ritiro in casa per i gruppi AS e NLD, gli insegnanti indicavano ritiro sociale in relazione soprattutto al gruppo AS. La tendenza al ritiro dalle relazioni sociali può essere associata a una più alta consapevolezza delle difficoltà sociali come evidenziato dai punteggi nelle scale auto-riferite dal gruppo con AS. I risultati dell’attuale studio mostrano che i bambini con problemi di competenza sociale, indipendentemente dalla diagnosi, sperimentano vissuti di rifiuto sociale, con difficoltà secondarie relativamente all’umore e al ritiro sociale.

Clinicamente queste scoperte sono importanti poiché pongono in evidenza il fatto che gli interventi non devono avere come obiettivo solo il miglioramento nelle abilità sociali, ma anche aumentare nei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbalel’abilità di far fronte al rifiuto sociale e di gestire meglio la tendenza al ritiro da tali interazioni (Semrud-Clikeman et al., 2010).

Mentre le difficoltà comportamentali erano aspettate per i bambini con una diagnosi di ADHD misto, l’entità degli aspetti internalizzanti no. I bambini con ADHD misto erano considerati dai loro genitori e insegnanti avere più sintomi di depressione, rispetto a quelli con ADHD con predominanza di disattenzione (i loro punteggi erano nella fascia a rischio). Questa scoperta potrebbe far pensare che i bambini con una diagnosi di ADHD con predominanza di disattenzione, senza problemi di apprendimento, abbiano un maggiore adattamento paragonati a quelli con ADHD misto. Questo conferma precedenti studi, che avevano trovato risultati simili (Gadow et al. 2004).

Uno dei limiti di questa ricerca, tuttavia, è proprio la difficoltà nella diagnosi di disturbo dell’apprendimento non verbale. Non è chiaro come le scoperte siano rappresentative per le persone con disturbo dell’apprendimento non verbale nella letteratura, poiché i criteri diagnostici variano largamente tra i ricercatori (Forrest, 2007). Ecco perché è importante individuare criteri diagnostici chiari, definiti e condivisi dalla comunità scientifica. Ma occorre ancora tanto lavoro in questa direzione e stimolarlo diventa utile.

Pur tenendo in considerazione questo limite, dai risultati si evince che i bambini con sindrome di Asperger e NLD mostrano difficoltà nella comprensione delle emozioni e dei segnali non verbali presenti nelle interazioni sociali. I bambini con ADHD agiscono invece in modo socialmente più funzionale rispetto a questi ultimi. Quindi le difficoltà percettive possono influenzare la comprensione delle interazioni sociali più dell’attenzione (Semrud-Clikeman et al., 2010). Inoltre i bambini con sindrome di Asperger, NLD e ADHD-misto mostrano i maggiori sentimenti di sconforto e ritiro sociale, in base ai punteggi ottenuti dalle valutazioni fornite da genitori e insegnanti.

Tuttavia è importante non solo esaminare i punteggi dei comportamenti dei bambini risultanti dalle valutazioni di genitori e insegnanti, ma anche utilizzare misure dirette di comprensione delle interazioni sociali, quando si analizzano i comportamenti dei bambini con problemi nella competenza sociale. I dati autoriferiti da parte di bambini con sindrome di Asperger, NLD e ADHD-misto possono essere problematici (Semrud-Clikeman et al., 2010): nello studio i bambini con queste diagnosi non avvallano item che indichino problemi nel funzionamento sociale. Secondo gli autori può essere che siano inconsapevoli o non disposti a rivelare ciò che li riguarda su una scala di auto-valutazione. Valutazioni cliniche qualitative di bambini con sindrome di Asperger e NLD hanno messo in evidenza che questi bambini provano sentimenti significativi di solitudine e isolamento sociale che sono dolorosi per loro (Gadow et al. 2008). Interviste con bambini con questi disturbi così come osservazioni comportamentali possono essere un metodo più appropriato per valutare queste aree di forza e fragilità nel funzionamento sociale (Semrud-Clikeman et al., 2010).

 

Disturbo dell’apprendimento non verbale e disagio emotivo

Il disagio emotivo provato da bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale è stato approfondito nella ricerca di Mammarella, Ghisi et al. (2014), in cui l’obiettivo principale era quello di fare luce sulle caratteristiche psicologiche di bambini con diversi profili di Disturbi dell’apprendimento (8-11 anni): bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD), Disturbo della lettura (RD) e bambini a sviluppo tipico (TD). Sono stati somministrati loro Questionari per valutare sintomi ansiosi e depressivi. Lo scopo era quello di identificare diversi profili di difficoltà internalizzanti (come ansia e depressione) in bambini con NLD, paragonati a bambini con RD e TD, dal momento che, secondo gli autori, sono stati pubblicati troppo pochi risultati sui problemi internalizzanti di bambini con NLD (e RD). Sono state inoltre esplorate le differenze in termini di ansia (generalizzata, sociale, da separazione e scolastica).

I risultati della ricerca evidenziano che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale e RD manifestano maggiori sintomi ansiosi dei bambini a sviluppo tipico. In particolare manifestano maggiori sintomi di ansia generalizzata e ansia sociale. Alti livelli di ansia generalizzata potrebbero essere dovuti alla sensazione che le situazioni siano fuori dal loro controllo, impressione che viene provata frequentemente anche dai bambini con Disturbo del linguaggio (Margalit e Zak, 1984). I sintomi di ansia sociale in bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbero essere legati alle loro difficoltà nel riconoscimento dei segnali emotivi non verbali, come le espressioni facciali e i gesti (Petti et al., 2003) e perciò potrebbero essere ragionevolmente attribuiti alle loro scarse abilità sociali (Woods et al., 2000).

D’altro canto è abbastanza comune aspettarsi che i bambini con RD leggano male e per questo siano preoccupati di leggere ad alta voce in classe e questo potrebbe far sviluppare sintomi di ansia sociale. Così le preoccupazioni potrebbero essere indotte da commenti negativi da parte di insegnanti, genitori e compagni di classe. Gli esiti suggeriscono anche che differenti tipi di Disturbi del linguaggio si associano a diversi quadri di ansia.

Inoltre i bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale presentano maggiori livelli di ansia scolastica e ansia da separazione dei bambini a sviluppo tipico. Secondo gli autori questo potrebbe essere dovuto al fatto che il loro disturbo è molto meno conosciuto del Disturbo della lettura e di conseguenza verrebbe gestito in modo meno appropriato a scuola (per esempio potrebbe essere poco noto e gli insegnanti potrebbero non essere in grado di riconoscerlo prontamente). Un approccio inappropriato a questi bambini potrebbe farli sentire inadeguati e ansiosi sulle loro prestazioni scolastiche.

Una scarsa comprensione generale dei sintomi tipici dei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbe anche essere responsabile di stili educativi genitoriali disfunzionali che contribuirebbero ad aumentare nei bambini l’ansia per il loro rendimento scolastico, come evidenziato dalla ricerca di Antshel e Joseph (2006). Stili educativi genitoriali disfunzionali potrebbero essere associati all’ansia da separazione provata da questi bambini: precedenti ricerche hanno rilevato che lo stress provato nell’allevare un bambino con Disturbo del linguaggio può colpire i bambini in molti modi, incluso lo sviluppo di un attaccamento insicuro ai genitori (Mammarella, Ghisi et al., 2014). Molti autori hanno sottolineato una correlazione positiva tra stile di attaccamento insicuro e ansia da separazione nei bambini (Dallaire e Weinraub, 2005). Tuttavia la ricerca di Mammarella, Ghisi et al. (2014) non ha raccolto valide informazioni sullo stile educativo genitoriale dei partecipanti allo studio. Indagini future potrebbero indagare più approfonditamente la relazione tra lo stress percepito dei genitori, il loro stile educativo e l’ansia da separazione dei loro figli.

Un’altra possibile spiegazione per gli alti livelli di ansia da separazione nei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbe essere legata alle loro caratteristiche di asocialità e ritiro sociale (Rourke, 1995): la loro inclinazione a ritirarsi in se stessi potrebbe implicare una mancanza di altra rete sociale oltre ai genitori, che potrebbe dare luogo a una più elevata ansia da separazione rispetto ai fanciulli a sviluppo tipico.

 

I sintomi di depressione in bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbero di conseguenza venire sottostimati a causa della loro compromessa comprensione delle emozioni

 

Per quanto riguarda la depressione, i bambini con RD presentano una maggiore quantità di sintomi depressivi rispetto agli altri due gruppi, come riconosciuto anche da ricerche precedenti (Maughan et al., 2003). In letteratura (Forrest, 2004), i bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno mostrato anche forme internalizzanti di psicopatologia come la depressione, ma tali osservazioni erano rivolte a bambini di età maggiore rispetto a quelli dello studio di Mammarella, Ghisi et al. (2014), che avevano dagli 8 agli 11 anni. Come riportato in precedenti ricerche (Woods et al., 2000), i bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale sono anche caratterizzati da specifici deficit nell’uso di contenuti emotivi e nell’elaborare segnali sociali; i sintomi di depressione in bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale potrebbero di conseguenza venire sottostimati a causa della loro compromessa comprensione delle emozioni. La ricerca futura potrebbe paragonare bambini più e meno giovani con NLD e RD, per analizzare ulteriormente come si sviluppino i vari sintomi internalizzanti.

Alla luce di queste riflessioni si può concludere che i bambini con Disturbo dell’apprendimento non verbale sono riconoscibili clinicamente e necessitano di sostegno psicologico, nonostante né DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) né ICD-10 (World Health Organization, 1992) menzionino una specifica categoria diagnostica in grado di definirli. Le ricerche sperimentali condotte fino ad oggi hanno permesso di individuare, con un certo grado di consenso tra i diversi autori, un insieme preliminare di criteri per diagnosticare il Disturbo dell’apprendimento non verbale, tuttavia è necessaria altra ricerca per identificare chiari criteri diagnostici (Mammarella e Cornoldi, 2014). Questo primo passo è fondamentale per poter successivamente sviluppare un intervento clinico adeguato.

Le forme della Gelosia

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Sabato 21 Novembre 2015

Dandi e Scialoja in ‘Romanzo Criminale’, Julius Klug in ‘Delirio e gelosia‘, Edvard Munch nel Munchmuseet e anche Medea…La scena del crimine si ripete: il triangolo amoroso. L’innesco dell’esplosione è lo stesso: gelosia.

Inizia il giorno in cui compilo l’elenco dei gelosi. Dandi e Scialoja, il ladro e la guardia, uno dei capi della Banda della Magliana e il commissario che ossessivamente gli dà la caccia in Romanzo Criminale, se si guardassero con attenzione allo specchio vedrebbero riflesso il volto dell’altro. Due destini, la stessa persona. Julius Klug, orologiaio di fede ultramontana internato ad Heidelberg nel 1895, apparirebbe nella stessa immagine. Nel Munchmuseet di Oslo è rinchiuso un altro caso di somiglianza: Edvard Munch. Manca la gelosia femminile. L’esempio perfetto: Medea. Ho dati sufficienti. La scena del crimine si ripete: il triangolo amoroso. L’innesco dell’esplosione è lo stesso: gelosia.

La gelosia del Dandi e Scialoja in Romanzo Criminale

Dandi, nella sua arroganza, vuole per sé ‘la mejo mignotta de Roma’. Quindi cerca la donna che tradisce, per definizione. Scialoja, quando la interroga, sa che Patrizia è la donna del Dandi. E se ne innamora. Per tutta la serie si rincorreranno in un gioco a sconfiggere il rivale, a rubargli la femmina. Lei sfugge con sistematica freddezza, tradisce uno e inganna l’altro. Nella ricerca di salvezza andrà a rifarsi una vita in provincia, da fioraia. Dandi la scoverà, giusto per ricordarle che è sua, e che prostituta resta. Pochi giorni dopo Patrizia gli intima di sposarla, pena rivelazioni a Scialoja. Niente di più eccitante per Dandi. Non la sicurezza del possesso gli interessa, ma umiliare il rivale. Pagherà cara la sua passione triangolare: Patrizia lo tradirà un’ultima volta, indirizzandolo all’agguato mortale.

La gelosia delirante di Julius Klug

Julius Klug, K nel testo di Karl Jaspers ‘Delirio di Gelosia, inizia a credere che la moglie lo tradisca sedici anni dopo avere iniziato a costruire un orologio astronomico. Quella meticolosità nell’inutile che la ritrovi nei personaggi di Baricco. Comincia credendo che la moglie treschi con l’orologiaio di una città vicina. Quale rivale peggiore? La picchia, le dà della puttana. Sente rumori nella notte: uomini che insidiano la sua donna. Minaccia con la pistola chi crede esserne amante, denuncia chi lo considera pazzo e vuole internarlo, ma il sanatorio sarà il suo destino.

Leggo il resoconto di Jaspers: ‘Quando incontrava uno degli uomini di cui sospettava scappava‘. Si sente in pericolo, schiacciato, incompreso, deriso e alla fine mandato in miseria. Ricorda che la moglie era stata definita una composizione floreale che ornava il suo signor negozio. Nell’autobiografia scritta durante il suo soggiorno in manicomio la definisce: ‘Il serpente tra i fiori‘. Una composizione floreale a disposizione di tutti. Formo connessioni: Dandi. Lui avrebbe sottoscritto.

Gelosia: dalla vulnerabilità all’aggressione

Altre connessioni. Un anno fa passeggiavo nel Giardino della Minerva della scuola medica salernitana con il mio collega Giampaolo Salvatore. Mi diceva: ‘La base della gelosia è il senso di vulnerabilità, di inferiorità. Pensa a Sabato, Domenica e Lunedì di Eduardo. Peppino Priore che si sfoga a tavola, si sente fesso a fronte della tresca di sua moglie. La sua fragilità minacciata è diventata rabbia‘.

Ritorna tutto. Dandi, Scialoja, nessuno vuole soccombere, la misura del loro valore è il possesso dell’oggetto d’amore. Ma nell’animo ognuno di loro si sente inferiore e reagisce attaccando o ricercando il senso di grandiosità. Superiorità morale nel caso di K e Scialoja. Un attico nel centro di Roma è il tempio che Dandi erige a se stesso.

Poi c’è Munch, il Munchmuseet. Gelosia del 1895, l’anno in cui K fu internato. Inizio oggi a stabilire nessi paranoici Se volete conoscere la faccia della gelosia, è ritratta lì in primo piano. Ed è la faccia dello spavento e della sconfitta. Perplessità, occhi sgranati, smarrimento. Alle spalle la coppia di amanti che esclude il pittore.

Il viso è abbattuto, apparirà identico in Gelosia II (non lo cercate al museo, non è lì). Passeggio per le sale, il mio ospite mi fa notare un altro quadro, non ricordo oggi il titolo, dipinto decadi dopo. In primo piano lo stesso viso, ma alle spalle c’è una casa in fiamme. Gli amanti non li vediamo, ma sono chiusi là dentro. Di nuovo torna tutto, prima la vulnerabilità e solo dopo l’aggressione, tentativo fallimentare di restaurare la dignità smarrita.

Gelosia - un articolo di Giancarlo Dimaggio_Edvard Munch
Edvard Munch, Sjalusi (Gelosia, 1895 – olio su tela)

Infine Medea che annichilita dal tradimento di Giasone si vendica uccidendo i propri figli per colpire meglio l’infedele. La rievoca Giulia Sissa nel suo ‘La gelosia‘: ‘Furibonda e astuta, viscida e giubilante, la Medea di Seneca è pura crudeltà’.

Le forme della gelosia

Gli attori sono in scena, i fatti sulla scrivania, ora le deduzioni. La gelosia è il timore che l’oggetto amato sparisca per mano di un rivale. Ha varie gradazioni: quel senso di minaccia e sospetto che almeno una volta ha preso tutti i veri innamorati: perché non ha risposto al telefono? Con chi stava parlando? Che ci va a fare in palestra? Sospetti utili entro un certo grado, un minimo di controllo serve e l’altro si sente amato.

Poi la gelosia della personalità paranoide. La sospettosità è sistematica, fondata o meno che sia, la convinzione non muta: l’altro inganna, umilia, deruba. Stai in guardia, erigi un bunker. Se messo al muro, attacca. Infine la gelosia delirante. Più ferma e invincibile della personalità paranoide, crea fatti che non esistono. K sentiva carezze al piede nella notte, gli amanti della moglie si erano intrufolati nel suo letto.

Genesi della gelosia

La radice della gelosia? Ne identifico due. La prima è il senso di vulnerabilità, inferiorità. Come sangue che si ghiaccia, gambe che si sciolgono come cera. Le azioni del geloso, controllo, investigazioni, aggressioni e vendette nascono da lì, tentativi maldestri di proteggere la lumaca quando il guscio si crepa. Costruire grandi case in mura di orgoglio e intonare inni al proprio valore servono ad allontanare la vulnerabilità. Se c’è qualcuno da accusare, il geloso scaccia l’idea strisciante di appartenere ad una genia di reietti. Gode del vigore che dà il combattere il nemico invece di sentirsi una nullità.

La seconda: una forma di relazione oggettuale, il modo in cui nella mente prevedete andranno i rapporti. Immaginatela così: bramate l’amato ma temete che non siate alla sua altezza e qualcuno più potente di voi lo conquisterà. L’angoscia è insostenibile. La vita affettiva si plasma intorno al bisogno di controllare la perdita temuta. Scegliete una persona che vi fa tremare la terra sotto i piedi e passate la vita a prevenirne la fuga. La scelta di Dandi e Scialoja. L’amore per l’inaffidabile e inafferrabile.

La storia finisce sempre allo stesso modo: l’oggetto d’amore si rivela un serpente tra i fiori.

Il film “Thank you for smoking”: e se Reitman avesse parlato di carne rossa invece che di sigarette?

In un momento di piena psicosi mediatica da carne cancerogena, mi sovviene alla mente una brillante pellicola di circa un decennio fa, tratta dall’omonimo romanzo di Christopher Buckley, dal titolo “Thank you for smoking” di J.Reitman.

Nick Naylor è un lobbista per l’industria del tabacco, quel tipo di persona in grado di influenzare a proprio vantaggio l’opinione pubblica, grazie al magico potere della persuasione.
Più precisamente è il Vicepresidente dell’Accademia di Studi sul Tabacco, totalmente consapevole di quello che fa, conosce perfettamente il numero delle malattie e delle morti dovute al fumo di sigaretta, ma come ripete spesso durante il film:

[blockquote style=”1″]ha un mutuo da pagare come tutti.[/blockquote]

Nick è divorziato e ha un figlio con cui vorrebbe passare più tempo, ma gli impegni di lavoro e una ex moglie, preoccupata dell’influenza negativa che il mestiere del padre potrebbe avere sul bambino, glielo impediscono.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

https://www.youtube.com/watch?v=uC9dS-7pEXE

Non voglio sottolineare nulla riguardo l’aspetto discutibile del sistema capitalistico, delle multinazionali o delle logiche di mercato, non sarebbe mia competenza, non sarei in grado; possiamo però provare ad immaginare lo stesso film, magari sostituendo le sigarette con la famigerata carne rossa.

Ovviamente la carne rossa non crea assuefazione o dipendenza come la nicotina, ma è chiaro a tutti che un consumo eccessivo di essa può provocare diversi disturbi nell’organismo. Al di là degli ultimi rapporti dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sulla probabilità che la carne rossa sia in grado di favorire l’insorgenza del cancro, esistono altre patologie dovute al consumo eccessivo di carne, ad esempio un elevato rischio di malattie cardiache o la semplice obesità.

Nessuno si preoccupa della dentatura e delle unghie giallastre dovute al fumo di sigaretta, o del rischio di impotenza maschile, ma c’è una parola che se usata mobilita tutti; quella parola è ‘cancro’, che al giorno d’oggi non solo indica un’enorme sofferenza fisica e psicologica dovuta alle terapie, ma indica un’alta probabilità di morte nonostante l’enorme ricerca in medicina degli ultimi anni.

Ed è ormai una patologia talmente comune, che tutti noi abbiamo avuto vicino nel corso della nostra esistenza, una persona malata di cancro; familiari, amici o addirittura noi stessi.

E’ un tema straziante per tutti, nessuno rimane emotivamente distante da un argomento del genere.
A chi ancora non ha visto il film da cui sto prendendo ispirazione, consiglio di fermare qui la lettura perché sto per svelarne il finale: Nick viene rapito e intossicato di nicotina, si salverà per miracolo qualche ora dopo in ospedale; il Capitano, l’ultimo grande magnate del tabacco, nonché ispirazione del nostro lobbista, muore per un attacco cardiaco e Nick, improvvisamente, sviluppa un senso di protezione e di esempio paterno nei confronti del suo piccolo Joey, i quali lo portano a rifiutare una nuova offerta di assunzione nella sua azienda.

Sono tutte situazioni che colpiscono il nostro protagonista sul personale, sono per lui emotivamente toccanti: il rischio della propria morte, quella di un persona vicina, la vita di un figlio… improvvisamente Nick diventa sensibile all’argomento con cui per anni si è sudato lo stipendio.

Questo film offre a tutti coloro che lo guardano un interessante spunto di riflessione sulla psiche umana: perché la nostra sofferenza e il nostro disagio, in egual misura, sono sempre maggiori di quelli degli altri? Perché se è un problema non ci riguarda direttamente non ci interessa?
Reitman quindi, grazie all’uso di una satira tagliente e intelligente, rappresenta tematiche ancora molto attuali sul ruolo della società, sulla verità e sulla libertà di scelta.

Il concetto di parenting nella storia della psicologia: funzioni genitoriali, competenze e stili genitoriali

Il tema del parenting ha iniziato a svilupparsi agli inizi del ‘900 come riflessione sociologica sulle diverse rappresentazioni del ruolo genitoriale, pedagogica sui modelli relativi all’educazione del bambino e psicologica sulla centralità del ruolo genitoriale nello sviluppo del bambino e sui processi di formazione dell’identità e benessere psicologico.

In psicologia Winnicott, Bowlby, Stern hanno osservato la relazione madre-bambino nei processi di base della formazione del sistema psichico (Bowlby 1989; Stern 1985, 2004; Winnicott 1968) e quindi dell’importanza della qualità delle cure genitoriali nei processi di formazione dell’identità. Nel corso degli studi sul parenting si sono alternate definizioni che hanno privilegiato il concetto di funzione, stile e competenze genitoriali, alcune volte utilizzate come sinonimi, altre volte come termini distinti e altre ancora come concetti integrati tra loro.

 

Parenting come funzione

Rispetto al concetto di funzione genitoriale uno dei principali modelli che descrive il ruolo dei genitori è quello di Bornstein (2002) che osserva le attività svolte dai genitori nella relazione con i figli all’interno dei diversi ambiti di sviluppo come l’autonomia, l’apprendimento, le relazioni sociali.
Anche Visentini (2006) propone un modello di parenting orientato a definire il ruolo genitoriale in termini di finalità psico-sociali dell’accudimento sulla base della meta-analisi delle principali teorie psicologiche sullo sviluppo del bambino e sulle relazioni famigliari.

Visentini (2006) definisce otto funzioni genitoriali: la funzione protettiva, la funzione affettiva, la funzione emotiva, la funzione normativa, la funzione predittiva, la funzione rappresentativa, la funzione significante, la funzione triadica.

 

Parenting: gli stili genitoriali

Nell’ambito dello studio del parenting un altro tema analizzato è quello dello stile genitoriale: mentre le funzioni genitoriali rappresentano [blockquote style=”1″]l’insieme delle attività portate avanti, realizzate, compiute dal genitore nell’accudimento del figlio[/blockquote] (Paradiso, 2015), lo stile genitoriale descrive la modalità relazione con cui il genitore entra in relazione con il figlio. Benedetto e Ingrassia (2010) descrivono i diversi stili genitoriali attraverso una riflessione storica che ha il merito di riprendere le principali categorie che hanno determinato lo sviluppo di questo concetto.

La panoramica si sofferma sui diversi termini utilizzati dai diversi autori che rendono conto delle caratteristiche degli stili genitoriali: i primi concetti hanno descritto stili genitoriali di accettazione-rifiuto e dominanza-sottomissione (Symonds,1939), oppure di calorosità-ostilità; di rigidità-permissività, coinvolgimento ansioso-distacco tranquillo ( Becker, 1964), di controllo fermo e controllo debole o autonomia psicologica e controllo psicologico (Schaefer,1959), di controllo e supporto ( Baumrind, 1991).

 

Parenting: competenze genitoriali

Un altro concetto determinante nello studio del parenting è quello di competenze genitoriali (Benedetto, Ingrassia, 2010) frequentemente confuso con quello di funzione genitoriale, ma a volte anche di stile o di capacità genitoriali, rappresenta, invece, la performance del genitore nel qui ed ora, l’elemento visibile della relazione genitori-figli (Paradiso, 2015).
Alla luce di queste riflessioni è possibile affermare che il concetto di parenting descrive una realtà articolata che in molti casi è stata riassunta con termini di funzione, competenze e stili genitoriali che non possono non essere collegate con la rappresentazione sociale del ruolo genitoriale, ma anche dell’immagine di famiglia e di bambino.

In questo momento storico, infatti, a fianco del processo definitorio del parenting, si sta aprendo la strada all’osservazione delle caratteristiche distintive in ogni tipologia famigliare. In un certo senso si sta avviando un processo di valutazione della fenomenologia del parenting nell’ambito delle diverse esperienze famigliari, ma anche nelle fasi critiche del ciclo di vita della famiglia e nelle esperienze di crisi e disgregazione famigliare.

Questo presuppone uno sforzo definitorio rispetto al concetto di parenting non solo nelle diverse discipline, ma anche all’interno della stessa area di sapere (Benedetto, Ingrassia, 2010). Naturalmente la definizione terminologica è fondamentale non solo sul piano teorico, ma anche su quello clinico, giuridico e di servizio sociale proprio per le implicazioni pragmatiche che hanno sugli interventi psico-sociali di natura clinica, ma anche giuridica nella tutela dei minori.

 

Verso una defizione di parenting

In questo senso è possibile affermare che il parenting è un processo multideterminato da aspetti anche sociali e culturali che richiamano le rappresentazioni sociali sul ruolo del genitore, del bambino e della famiglia nella società.
Quindi è un costrutto che necessita di un collegamento con la dimensione culturale della genitorialità in particolare in un momento storico in cui sono presenti forti trasformazioni nelle tipologie famigliari. Per questo il concetto di parenting può essere definito come un processo relazionale co-determinato dal bambino e dall’adulto identificato come figura di riferimento che determina lo sviluppo fisico e psico-socio-culturale ed educativo del bambino, in una dimensione spazio-temporale e socio-culturale.

Tracce di salute mentale su Radio Fragola

Tracce di Salute Mentale, serie radiofonica in onda da questa settimana, firmata da Alvise Sforza Tarabochia, lecturer in Italian Studies nel dipartimento di lingue moderne dell’Università del Kent, mette in questione la percezione della salute mentale.

Ogni nuovo episodio di Tracce di Salute Mentale va in onda il martedì alle 19.50, con repliche il giovedì alle 13.45 e il sabato alle 11.00, su Radio Fragola ( http://www.radiofragola.com/Stream/fragolaplayer.html ). La serie si compone di 17 episodi.

Tracce di Salute Mentale esplora la storia e la filosofia della salute e della salute mentale dall’alba della medicina occidentale ad oggi. Il percorso che vuole percorrere è decostruttivo: i concetti di salute e salute mentale che abbiamo oggi forse non sempre sono i più adatti a promuovere la nostra salute.

Discuterne storicamente e criticamente dunque significa riuscire a capirne gli effetti collaterali negativi (come la mercificazione delle terapie e la medicalizzazione di stati mentali normali per esempio), allo stesso tempo riconoscendone gli effetti estremamente positivi (come per esempio l’estinzione di numerose malattie mortali, la riduzione dei tassi di mortalità, ecc.)

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