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Mobbing al Lavoro: inquadramento psicologico del fenomeno

Il mobbing è effetto collaterale delle mutate condizioni lavorative. Ma quali sono le caratteristiche del mobbing? Chi sono le vittime e chi i mobbers? %%page%%

Di Elena Fiabane, Gloria Tosi, Martina Pigionatti, Elisa Zugno

Pubblicato il 14 Dic. 2015

Aggiornato il 18 Lug. 2019 12:50

Elena Fiabane, Martina Pigionatti, Gloria Tosi, Elisa Zugno – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca

 

Le mutate condizioni lavorative hanno determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie ad eziologia psicologica, tra cui il mobbing. Questi nuovi rischi emergenti sono quindi legati al modo in cui il lavoro è organizzato e gestito e al contesto economico e sociale odierno.

I profondi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, tra cui in particolare, l’avanzare delle moderne tecnologie, nuove forme di contratto e job insecurity, l’innalzamento dell’età pensionabile e il progressivo invecchiamento della forza lavoro, l’intensificazione del lavoro, lo squilibrio tra lavoro e vita privata, hanno determinato l’emergere di nuovi rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, tra cui in particolare i rischi psicosociali (Tabella 1). Le mutate condizioni lavorative hanno infatti determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie ad eziologia psicologica. Questi nuovi rischi emergenti sono quindi legati al modo in cui il lavoro è organizzato e gestito e al contesto economico e sociale odierno.

Trasversalmente ai settori lavorativi si è verificata una crescente consapevolezza che l’esperienza dello stress sul lavoro può comportare delle conseguenze negative per la salute degli individui, nonché per la salute delle organizzazioni (ISPESL, 2002). A questo proposito, anche il Testo Unico sulla salute e sulla sicurezza lavorativa (D.Lgs. 81 del 9 aprile 2008) ha reso obbligatoria anche la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Tra i rischi psicosociali, quelli maggiormente studiati e conosciuti nella letteratura scientifica sono lo stress, il burnout e il mobbing, che verrà preso in esame nel presente articolo.

La violenza psicologica sul lavoro è un fenomeno presente in molti ambienti di lavoro, che ha ricevuto un interesse crescente negli ultimi anni soprattutto nell’ambito della medicina occupazionale e della psicologia del lavoro. La crescente insicurezza che caratterizza l’attuale mondo del lavoro determina in alcuni un atteggiamento di maggiore aggressività a difesa di posizioni consolidate, mentre in altri una maggiore vulnerabilità nei confronti di veri o presunti attacchi a situazioni socioeconomiche costruite nel tempo.

Secondo i dati riportati dalla recente indagine dell’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2013), il 6% dei lavoratori europei riferisce di aver subito un’esperienza di violenza, di tipo fisico o psicologico, sul posto di lavoro negli ultimi 12 mesi. In particolare, il 12% dei lavoratori intervistati riferisce di aver subito forme di violenza di tipo non fisico (ad esempio, attacchi verbali, minacce di violenza fisica o attenzioni di tipo sessuale) nel corso degli ultimi mesi. Questa ricerca ha evidenziato anche che la violenza psicologica è più frequente di quella fisica, e che i settori più colpiti sono quello sanitario, sociale e dell’amministrazione pubblica. Per quanto riguarda le differenze tra Paesi europei, sembra che il fenomeno sia maggiormente diffuso in Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, mentre bassi livelli si riscontrano nei Paesi del sud e dell’est Europa; queste differenze a livello europeo potrebbero riflettere maggiormente la consapevolezza del fenomeno piuttosto che la sua reale incidenza. Inoltre, un recente studio ha mostrato che la violenza sul lavoro in Europa è notevolmente aumentata nel corso degli ultimi anni (Van den Bossche et al., 2013).

Il mobbing: cenni storici e definizione

Il termine Mobbing (dall’inglese to mob: assalire in massa, aggredire, malmenare) viene utilizzato per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz (1963) per indicare il comportamento di animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo e lo attaccano per escluderlo dal branco. Tale termine fu poi ripreso negli anni Ottanta dallo psicologo svedese Heinz Leymann, il quale lo applicò al mondo del lavoro per designare l’insieme di quei comportamenti assimilabili per violenza e squilibrio di forza a quanto studiato precedentemente dagli etologi (Leymann 1990, 1993, 1996).

Leymann (1996) definisce il Mobbing come:

una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone, nei confronti di un solo individuo, il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa ed è fatto oggetto di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una determinata frequenza (almeno una volta a settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (almeno sei mesi di durata).

A partire dagli anni Novanta, molti autori si sono interessati al fenomeno e hanno cercato di definirne le fasi di insorgenza, di sviluppo e i suoi elementi distintivi; sembrerebbe comunque che il Mobbing presenti peculiarità diverse a seconda delle diverse culture e realtà lavorative (Zapf et al., 2001; Keashly, 200; Richman et al., 2001; Rospenda, 2004), ma allo stesso tempo mantenga delle caratteristiche comuni.

Secondo l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (2002) “il mobbing sul posto di lavoro consiste in un comportamento ripetuto, irragionevole, rivolto contro un dipendente o un gruppo di dipendenti, tale da creare un rischio per la salute e la sicurezza”. La definizione che invece rispecchia maggiormente la realtà italiana proviene dall’Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro (ISPESL, 2001): il mobbing è “una forma di violenza psicologica intenzionale, sistematica e duratura, perpetrata in ambiente di lavoro, volta all’estromissione fisica e/o morale del soggetto (o dei soggetti) dal processo lavorativo o dall’impresa”.

 

Classificazione del Mobbing

Diversi autori hanno cercato di dare una classificazione del Mobbing; Giglioli et al. (2001) ne propongono una che si adatta maggiormente alla realtà italiana e che utilizza come criteri di distinzione i meccanismi patogenetici:

  • Mobbing strategico (o Bossing o Mobbing Verticale/Gerarchico/Trasversale), il quale corrisponde ad un preciso disegno di esclusione di un lavoratore da parte della stessa azienda e/o del management aziendale, che, con tale azione premeditata e programmata, intende realizzare un ridimensionamento delle attività di un determinato lavoratore o il suo allontanamento dal lavoro. Di questa categoria fa parte anche il Mobbing Ambientale o Orizzontale, proveniente dai colleghi di lavoro o da soggetti subordinati alla vittima.
  • Mobbing emozionale o relazionale, il quale deriva da un’alterazione delle relazioni interpersonali, sia di tipo gerarchico che tra colleghi: esaltazione o esasperazione dei comuni sentimenti di gelosia, rivalità, antipatia ecc.
  • Mobbing senza intenzionalità dichiarata, il quale non è dovuto ad una precisa volontà di eliminare o condizionare negativamente un lavoratore; in questi casi un collega di pari grado o un superiore, sentendo minacciata la propria posizione lavorativa, attua molestie morali per tutelarsi. In questo caso l’azienda è responsabile in quanto non in grado sia di individuare tempestivamente tale condizione, che di arginarla e sanarla efficacemente.

 

Fasi del Mobbing

Il Mobbing è un processo complesso, caratterizzato da dinamismo, e in continua evoluzione; secondo Leymann tale fenomeno si snoda attraverso quattro fasi:

  • Segnali premonitori;
  • Mobbing e stigmatizzazione;
  • Ufficializzazione del caso;
  • Allontanamento.

Questo modello è il più conosciuto, tuttavia riflette una realtà diversa da quella italiana, in quanto proveniente dagli studi svolti da Leymann in Svezia. L’adattamento alla situazione italiana proviene da Harald Ege, il quale ha proposto un modello a sei fasi più una pre-fase denominata ‘condizione zero’:

  • Condizione zero. Non è ancora possibile parlare di Mobbing, ma questa situazione, caratterizzata da conflittualità generalizzata, ne rappresenta il presupposto. Non è ancora evidente la volontà di distruggere un particolare lavoratore, quanto piuttosto quella di emergere sopra gli altri.
  • Fase 1: Conflitto mirato. La conflittualità generalizzata viene incanalata verso un obiettivo specifico, emerge dunque la volontà di distruggere qualcuno. Il conflitto non riguarda più solamente il lavoro, ma si dirige anche verso il privato.
  • Fase 2: Inizio del Mobbing. Il conflitto matura e diventa duraturo: le relazioni con i colleghi si inaspriscono e gli attacchi del mobber, che ancora non causano sintomi o malattie psicosomatiche sulla vittima, generano fastidio e disagio.
  • Fase 3: Primi sintomi psico-somatici. La vittima inizia a manifestare un senso di insicurezza e problemi di salute; questa situazione può protrarsi per lungo tempo.
  • Fase 4: Errori e abusi dell’amministrazione del personale. Il Mobbing diventa i dominio pubblico e il caso diviene oggetto di valutazione da parte dell’ufficio del personale .
  • Fase 5: Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. La salute psico-fisica della vittima subisce un notevole peggioramento. Possono manifestarsi forme depressive più o meno gravi che vengono curate con psicofarmaci o terapie dall’effetto palliativo, in quanto il problema persiste e viene ulteriormente aggravato dalle azioni disciplinari attuate dall’azienda.
  • Fase 6: Esclusione dal mondo del lavoro. La vittima esce dal mondo del lavoro tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al prepensionamento o, nei casi più gravi, suicidio, omicidio o azioni vendicative nei confronti del mobber.

I protagonisti del Mobbing

I protagonisti del Mobbing sono essenzialmente due: il mobber e la vittima. In alcuni casi, poi, gli spettatori ricoprono un ruolo cruciale per lo sviluppo e il mantenimento del fenomeno.

Il Mobber è colui che inizia e continua le azioni vessatorie, esercitando violenza morale sulla vittima designata. Egli ha diverse motivazioni per attivare il Mobbing: paura di perdere il lavoro o la posizione guadagnata, paura di essere surclassato ingiustamente da qualcuno più giovane o più qualificato, antipatia o intolleranza nei confronti di qualcuno in particolare. Secondo Cassitto (2001) il mobber è totalmente privo di capacità empatiche e stabilisce rapporti del tutto utilitaristici; qualsiasi cosa accada sul lavoro non è mai colpa sua ma dell’altro e crede di trarre vantaggio dalla distruzione della vittima. Secondo Monaco et al. (2004) esistono diverse tipologie di mobber: il collerico, il frustrato, l’invidioso, il criticone, il sadico, l’istigatore, il tiranno.

Walter (1993) ha compilato una lista di caratteristiche che appartengono al mobber; secondo l’autore sono persone che:

  • Tra due alternative di comportamento scelgono la più aggressiva.
  • Si impegnano attivamente affinchè il conflitto continui e si intensifichi.
  • Accettano, attivamente o passivamente, le conseguenze negative che il Mobbing ha per la vittima.
  • Possono non essere consapevoli delle negative conseguenze del Mobbing per la vittima.
  • Non mostrano sensi di colpa, ma tendono a darla all’esterno.
  • Credono di essere nel giusto.

La vittima è la persona in difficoltà che necessita di aiuto immediato e concreto. Sono persone solitamente sensibili a riconoscimenti e critiche, che investono molto nel loro lavoro, desiderano essere impeccabili, manifestano un presenzialismo patologico sul lavoro, sono molto responsabili e motivate (Hirigoyen, 1998). Quando il Mobbing è in atto, la caratteristica tipica del mobbizzato è l’isolamento: la vittima si sente incompresa e sola di fronte agli attacchi del nemico; spesso mette in dubbio per prima cosa la bontà del suo operato e si sforza maggiormente per soddisfare il suo persecutore (Cassitto, 2001), sforzi che generalmente danno nuovi pretesti ai mobber per continuare il loro operato. Walter (1993) definisce la vittima come una persona che:

  • Mostra sintomi di malattia, si assenta dal lavoro, si licenzia.
  • È colpita da stress psichico o fenomeni psicosomatici; attraversa fasi di depressione o manie suicide.
  • Definisce il suo ruolo in termini di passività.
  • Da un lato crede di non avere colpa, ma dall’altro crede di sbagliare sempre tutto.
  • Mostra mancanza di fiducia in sé, indecisione e senso di disorientamento generale.
  • Rifiuta ogni responsabilità per la situazione o accusa distruttivamente se stessa.

Gli spettatori sono tutte quelle persone (colleghi, superiori, addetti alla gestione del personale…) che non prendono esplicitamente parte al Mobbing, ma che vi partecipano indirettamente, lo percepiscono o lo vivono di riflesso. Gli spettatori possono essere divisi in due categorie: spettatori attivi, che aiutano il mobber compiendo a loro volta piccole azioni mobbizzanti, e spettatori passivi, che non compiono vessazioni ma non intervengono neanche in difesa della vittima.  Secondo Walter (1993) i tratti caratteristici degli spettatori sono i seguenti:

  • Sembrano non avere un ruolo nel Mobbing ma sono in contatto con il/i mobber.
  • Rifiutano ogni responsabilità per la situazione che si è creata, però si vedono come mediatori tra i protagonisti del conflitto.
  • Dimostrano grande fiducia in loro stessi; esprimono le loro simpatie per una parte o per l’altra oppure non vogliono assolutamente avere a che fare con nessuna delle due.
  • Ricoprono spesso un ruolo chiave nel conflitto.

 

Le azioni del Mobbing

Vi sono pareri discordanti per quanto riguarda le caratteristiche che definiscono un’azione mobbizzante. Prima di tutto non esiste un parametro universalmente accettato sull’intervallo di tempo in cui debbano ripetersi le ostilità: secondo Leymann (1996) e Monaco et al. (2004) tali azioni devono ripetersi per un periodo non inferiore ai sei mesi; Hegeney (2003) abbassa tale durata a tre mesi; Agervold (2004) considera sufficiente un lasso di tempo nettamente inferiore, un mese. Questa variabilità dipende, secondo gli autori, dalla tipologia di azione mobbizzante, dalla loro modalità di attuazione e, infine, dalle caratteristiche personologiche dei soggetti coinvolti.

Altre divergenze riguardano la tipologia delle azioni del Mobbing. In Italia si è giunti però a un parere unificato che suddivide tali azioni in quattro categorie (Gilioli et al. 2001; Cassitto, 2001; Bernabei et al., 2005):

  • Attacchi contro la persona (umiliazioni, offese, ridicolizzazioni inerenti la vita privata).
  • Attacchi contro il lavoro svolto (critiche e sabotaggi con i quali il soggetto viene privato o, viceversa, sovraccaricato di lavoro).
  • Attacchi contro la funzione lavorativa ricoperta (declassamento, non attribuzione di incarichi…).
  • Attacchi contro lo status del lavoratore (sanzioni fiscali, controlli di idoneità, trasferimenti improbabili, rifiuto di permessi/ferie…).

Secondo l’ISPESL (2003) le azioni mobbizzanti si possono raggruppare in due categorie: attacchi alla persona e minacce alla carriera professionale (Tabella 2 e Tabella 3).

Infine, ulteriore oggetto di discussione è il carattere di intenzionalità che sta alla base di tali azioni. Sebbene sia difficoltoso stabilire se le condotte mobbizzanti siano programmate, per Monaco et al. (2004) questo aspetto costituisce un elemento chiave per determinare un episodio di Mobbing, insieme anche alla presenza di una relazione asimmetrica fra aggressore e vittima.

Secondo Harald Ege (2002), le peculiarità necessarie a definire un’azione mobbizzante sono le seguenti:

  • Il conflitto deve avvenire in ambiente lavorativo.
  • La frequenza delle ostilità deve essere di ‘alcune volte al mese’ con diverse eccezioni (vd. Ege, 2002).
  • La durata delle vessazioni deve essere di almeno sei mesi, tre se gli attacchi hanno cadenza quotidiana o se le azioni appartengono a tre categorie differenti.
  • Devono essere presenti azioni tipiche del processo di Mobbing.
  • Deve esistere un dislivello di potere fra mobber e mobbizzato e quest’ultimo è sempre in una posizione di svantaggio.
  • Il Mobbing deve evolvere nel tempo passando attraverso tappe determinate.
  • Deve esserci da parte dell’aggressore un intento negativo specifico (politico, conflittuale o emotivo).

Antecedenti del Mobbing

 

Antecedenti personologici del Mobbing

In letteratura sono ancora pochi e controversi gli studi che hanno esaminato l’impatto delle caratteristiche personologiche della vittima di mobbing su questo fenomeno. Risulta molto complesso, infatti, stabilire un rapporto di causalità lineare tra personalità, vulnerabilità verso le situazioni conflittuali e sviluppo di sintomi come conseguenza delle vessazioni subite nell’ambiente lavorativo. Secondo Leymann (1996) i fattori di personalità non sono determinanti nel favorire la vittimizzazione, hanno un peso maggiore invece i fattori sociali e organizzativi. Altri autori, al contrario, sostengono che il profilo di personalità abbia un ruolo decisivo nella genesi del mobbing (Coyne et al., 2000).

Brodsky (1976) afferma che le vittime di mobbing spesso presentano una tendenza a voler raggiungere obiettivi lavorativi poco realistici, determinata anche da una valutazione irrealistica delle proprie capacità personali. Inoltre, spesso sono persone coscienziose, paranoiche, rigide e compulsive. Il più delle volte hanno una percezione negativa di Sé, si auto-svalutano e mostrano ansia nelle relazioni sociali, con capacità di gestione dei conflitti più basse rispetto alle altre persone e livelli di timidezza più alti nelle relazioni sociali (Einarsen et al., 1994). Infatti, è stato riscontrato che gli stili di coping prevalenti in situazioni di conflittualità sono l’evitamento (Coyne et al., 2000) o le reazioni aggressive.

Nello specifico, alcuni autori hanno provato a individuare il profilo di personalità tipico delle vittime di mobbing. Varita (1996) ha utilizzato il 16PF di Cattell e ha riscontrato che questi soggetti avevano ottenuto punteggi più bassi nei fattori stabilità emotiva e dominanza, mentre punteggi più alti nell’ansia, apprensione e sensibilità rispetto alle persone non vittimizzate. Gandolfo (1995) ha riscontrato un’equivalenza di profilo nei soggetti che avevano subito vessazioni e in quelli che non le avevano subite ma che avevano comunque problemi nell’ambiente lavorativo, con una presenza significativa di componenti depressive, forte sospettosità e vulnerabilità.

Altri autori hanno confermato questo risultato (Matthiesen et al., 2001), rilevando gravi disturbi psicologici ed emotivi; in aggiunta, questi autori sostengono che ci sia una relazione tra profilo di personalità e tipologia di vessazione subita e che alcune vittime siano più vulnerabili o reagiscano con modalità volte alla drammatizzazione rispetto ad altri soggetti. Utilizzando l’MMPI-2, Girardi e coll. (2007) hanno osservato, senza differenza tra i sessi, elevazione significative nelle seguenti scale: Ipocondria (Hs), Depressione (D), Isteria (Hy) e Paranoia (Pa). I soggetti vittime di mobbing, quindi, si caratterizzano per la presenza di due cluster principali di sintomi: depressivi (difficoltà nel prendere decisioni, ansia per i cambiamenti, atteggiamenti passivo-aggressivi) e psicosomatici, associati a un forte bisogno di attenzione e considerazione da parte delle altre persone. Anche Fenga e coll. (2012) hanno riscontrato punteggi superiori al cut-off nelle stesse scale dell’MMPI-2; inoltre, hanno analizzato anche le scale di contenuto rilevando punteggi alti in quelle relative all’Ansia (ANX) e alle Preoccupazioni per la salute (HEA), sia nel gruppo degli uomini che in quello delle donne. A differenza degli uomini, però, le donne ottengono punteggi significativamente più alti nella scala di validità Menzogna (L).

In sintesi, il profilo medio di personalità delle vittime di mobbing, a prescindere dal sesso, è caratterizzato da deflessione del tono dell’umore, ansia, somatizzazioni e ideazione persecutoria (la cosiddetta ‘triade nevrotica’ dell’MMPI-2, costituita dall’elevazione delle scale Hs, D, Hy). Queste persone, quindi, tendono a manifestare forme sintomatiche di depressione e a reagire alle situazioni stressanti convertendo i sintomi psicologici in sintomi fisici; a questo si associa una tendenza a reprimere e negare i propri bisogni ed emozioni che determina una riduzione della capacità di introspezione. Per quanto riguarda l’ideazione persecutoria, essa si esprime con atteggiamenti rigidi e ostili nei confronti degli altri, alta sensitività interpersonale e tendenza a fraintendere le intenzioni degli altri che elicitano nell’altro risposte di disconferma o aggressive (Raho et al., 2008; Fenga et al., 2012). Inoltre, queste caratteristiche non sono modulate dal genere e sono simili in entrambi i sessi.

Le vittime e i loro portavoce di solito affermano che il mobbing sia causato principalmente dalla personalità psicopatica del mobber. D’altra parte, sia i mobber che gli altri colleghi spesso riferiscono che la personalità della vittima e il suo comportamento giochino un ruolo importante nel determinare la vittimizzazione (Einarsen et al., 1994). La maggior parte degli studi concorda sul fatto che persone diverse reagiscono e risentono in modo diverso a condotte di mobbing simili (Davenport et al., 2000). Le vittime possono essere selezionate dal mobber proprio per la loro personalità, in quanto vengono osservate la mancanza di abilità sociali, la tendenza a evitare il conflitto o l’incapacità di farvi fronte. Oltre a questo, la vittima può provocare il mobber con comportamenti aggressivi (Coyne et al., 2000).

Anche se la personalità del soggetto mobbizzato non può spiegare in toto la vittimizzazione, è certo che essa determina il modo in cui la persona sperimenta e interpreta gli episodi di mobbing e le sue capacità di padroneggiare i problemi che si presentano nell’ambiente lavorativo.

 

Antecedenti organizzativi del Mobbing

Il mobbing è un fenomeno con un’eziologia multifattoriale; tra le diverse cause, in tutti i casi studiati sono stati riscontrati problemi relativi all’organizzazione del lavoro, alla qualità del management e allo stile di gestione dei conflitti. Le persone coinvolte in questo fenomeno sperimentano carenze nel posto di lavoro e nel clima organizzativo: nei luoghi di lavoro in cui si l’atmosfera generale viene descritta dalle vittime come opprimente, competitiva, dove ognuno persegue i propri scopi. Le vittime denunciano la mancanza di possibilità di influenzare questioni che le riguardano e la scarsità di informazioni e di scambi verbali attinenti a compiti e scopi.

Risulta difficile capire dove finisce una gestione manageriale rigida e dove inizia il mobbing. Infatti in alcune aziende con elevata competizione interna e forte pressione per raggiungere i risultati, in cui predominano modalità relazionali basate sull’aggressività, alcuni tipi di comportamento assimilabili al mobbing vengono accettati dai membri del gruppo lavorativo. Inoltre, in altre aziende vengono tollerati comportamenti normalmente inaccettabili se questi vengono messi in atto da persone che occupano una certa posizione gerarchica al suo interno. Infine, il mobbing può essere intenzionalmente perseguito dall’azienda come strategia specifica di gestione del personale (in questo caso si parla di ‘bossing’). Tuttavia, nella maggior parte dei casi, viene agito da colleghi, capi o sottoposti per svariate ragioni (dall’ambizione, alla gelosia, alla semplice antipatia personale); in questi casi, il fenomeno si sviluppa completamente all’insaputa della direzione aziendale.

Secondo Walter, all’interno di un ambiente lavorativo si riscontrano una serie di stressors che possono costituire dei fattori di rischio per l’instaurarsi di fenomeni di mobbing:

  • Carico psichico del lavoratore: paura di fallire, di essere criticato o di subire delle conseguenze negative per i propri comportamenti o errori; insicurezza dovuta alla precarietà del posto di lavoro; problemi relativi alla vita privata; assenza di riconoscimento; mancanza di autonomia; clima aziendale ostile; conflitti con il superiore e/o con i colleghi; affaticamento cognitivo; pressione alla competizione; pressione dei limiti di tempo; pressione della responsabilità; ordini non chiari e carenza di informazioni; sotto-impiego;
  • Carico sociale: lavoro individuale o di gruppo; densità sociale/sovra-occupazione; isolamento sociale/sotto-occupazione;
  • Carico oggettivo: luce; temperatura; ergonomia; rumore; inquinamento; equipaggiamento tecnico;
  • Carico fisico: relativo allo sforzo e affaticamento fisico;
  • Carico organizzativo: difficoltà del lavoro; velocità del lavoro; spazio a disposizione sul posto di lavoro; norme di prestazione; distribuzione del lavoro quotidiano e settimanale.

È possibile effettuare un’ulteriore classificazione degli stressors organizzativi e psicosociali (Tabella 4).

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