expand_lessAPRI WIDGET

Costruire l’adolescenza all’interno di una comunità terapeutica

Giulia Pellegrinuzzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le comunità terapeutiche per adolescenti dovrebbero offrire all’ adolescente nuove esperienze all’ interno delle quali riprendere il proprio percorso evolutivo momentaneamente minacciato, basandosi anche sul rafforzamento delle capacità di contenimento e di guida presenti, anche se in modo carente, nel contesto familiare e sociale.

[blockquote style=”1″]L’immagine che la madre ha della figlia è di una ragazza “posseduta dal demonio”. La ragazza sembra aver aderito a questa identità negativa mettendo continuamente in atto comportamenti provocatori e pericolosi per sé e per gli altri.[/blockquote]

Queste parole, estrapolate dalla relazione scritta dalla neuropsichiatra, continuavano a balenarmi in testa mentre mi dirigevo verso l’ospedale per conoscere quella ragazzina di 13 anni (che chiameremo Margherita) della quale sarei diventata l’operatrice di riferimento.
Appena entrai nel reparto di Neuropsichiatria Infantile mi trovai davanti una ragazzina piccolina, magra, dalle sopracciglia disegnate con due evidenti piercing uno tra le narici del naso e l’altro sotto al labbro. La riconobbi subito. Sotto i capelli le facevano da cornice al viso due grandi dilatatori posizionati sulle orecchie che la rendevano particolarmente buffa. Due occhietti vispi, verdi, bellissimi, comparivano sotto la frangia. [blockquote style=”1″]Era davvero quello il mostro che mi era stato descritto?[/blockquote] pensai.

Facemmo un colloquio in cui inizialmente parlai soltanto io, le descrissi l’organizzazione della comunità, gli orari, le regole, le attività. Erano cose di cui però non sembrava essere particolarmente interessata, era taciturna e il suo sguardo e la sua mente erano palesemente altrove. L’unica cosa che mi chiese prima di andare fu: [blockquote style=”1″]Ma in comunità ci sono ragazzi con piercing e tatuaggi?[/blockquote]

Cosa ricercava Margherita con quella domanda? Forse un gruppo a cui appartenere, dei punti di contatto e di somiglianza per potersi definire, per potersi riconoscere.
Personalmente avevo molti dubbi e perplessità rispetto al progetto educativo che avrei dovuto organizzarle, ma ciò che mi preoccupava maggiormente era come sarei potuta entrare nel suo mondo, creare uno spazio neutro in cui potesse sentirsi libera di parlare e di far traballare la sfiducia e la diffidenza nei confronti degli adulti che evidentemente la contraddistinguevano.

E’ risaputo che l’adolescenza rappresenti di per sé un momento transitorio, di passaggio.
Ci si trova in un periodo critico della propria crescita psicologica, quasi intrappolati in una costante ambivalenza: da un lato il desiderio di raggiungere un’agognata e temuta posizione “adulta”, dall’altro il timore di perdere i benefici della passata situazione infantile cui si è spinti, clinicamente, a ritornare tramite la regressione. Il compito dell’adolescente è particolarmente difficile: raggiungere e consolidare una propria individualità, un sentimento di sé come persona distinta dalle altre, senza perdere il legame infantile, la costanza oggettuale e l’investimento sulle prime figure di attaccamento. (Goisis, 2014).

La questione diviene ancora più problematica se l’adolescente deve affrontare un distacco da tutto ciò che ha costituito fino a quel momento un mondo di certezze ed una conoscenza di sé ed entrare in un percorso di cura all’interno di una comunità.
Essere all’interno di una struttura residenziale viene letto come una punizione per un adolescente per il quale di norma la nuova autonomia conquistata rispetto al contesto familiare costituisce forse lo strumento principale per la costruzione di un rinnovato senso di sé, come persona separata, pensante, libera.

La costruzione della propria identità attraverso il vaglio delle scelte identificative, la ricerca di valori etici e la possibilità di proiettarsi nel futuro, costituisce il principale compito evolutivo di ogni adolescente ed è proprio in un dosato equilibrio di libertà e di contenimento da parte dei genitori e del contesto sociale che tale compito si può svolgere.
Eppure, quasi paradossalmente, tra gli adolescenti che si incontrano in comunità, ce ne sono diversi che sembrano trovare aiuto nella ricerca della loro identità proprio dall’essere momentaneamente fermati e privati della libertà in senso stretto, in quanto in essa hanno incontrato difficoltà così grandi e pericoli così minacciosi per la loro integrità psichica, da doverne venire protetti (Ferruta et al., 2000). Per questi adolescenti, l’essere temporaneamente inseriti in una struttura comunitaria può diventare, qualora abbiano contemporaneamente la possibilità di essere aiutati a ripensare e a ridare significato a quanto è loro successo, un aiuto nella costruzione della propria identità.

Le comunità terapeutiche per minori hanno come finalità la costruzione di una “cornice”, di uno spazio protetto dove gli operatori (medici, psicologi, infermieri, educatori) sono impegnati in vari modi ad aiutare i ragazzi a riprendere un contatto con la realtà, ripristinando, per quanto possibile, i compiti evolutivi e svolgendo una funzione di collegamento e mediazione con il mondo esterno (Carratelli,1998).

L’equipe curante dovrebbe mantenere una certa flessibilità rispetto alla cura dei pazienti, ma nel contempo mantenere una certa coerenza, sia nel rispondere ai bisogni fisici ed emotivi del giovane paziente, sia nello svolgimento delle funzioni educative. (Ferrigno et al., 2005).
Le comunità terapeutiche per adolescenti dovrebbero offrire all’adolescente nuove esperienze all’interno delle quali riprendere il proprio percorso evolutivo momentaneamente minacciato, basandosi anche sul rafforzamento delle capacità di contenimento e di guida presenti, anche se in modo carente, nel contesto familiare e sociale. Lavorare con i ragazzi non prendendo in considerazione l’intero sistema da cui gli stessi provengono rappresenterebbe difatti una grave mancanza.

I ragazzi che fanno ingresso in comunità spesso hanno una lunga storia di segnalazioni ai Servizi Sociali fin dall’infanzia, sono quindi già conosciuti e, benché spesso siano anche stati seguiti, sono ugualmente in gravissima difficoltà in quanto privi o troppo poveri di quegli strumenti necessari per affrontare il compito adolescenziale di separarsi dalla nicchia familiare e di costruire la propria identità personale e sociale.
Anche la comunità e gli operatori si trovano nella necessità di interrogarsi nuovamente circa la propria identità, tale quesito é collegato alla estrema difficoltà del compito che sono chiamati a svolgere e che ha spesso le caratteristiche del compito impossibile.

L’adolescente che entra in comunità oggi sembra difatti approdare all’ultima spiaggia, in una totale solitudine affettiva, privo di strumenti con i quali poter affrontare il futuro e, soprattutto, incapace di pensare per sé un futuro possibile. Spesso riferisce di aver avvertito all’inizio dell’adolescenza un repentino e radicale cambiamento dell’atmosfera familiare, diventata all’improvviso nel suo vissuto del tutto irrespirabile, o perché troppo satura di elementi da lui avvertiti come tossici ed inquinanti, quali un controllo ritenuto eccessivo, o al contrario, perché troppo rarefatta, come se i genitori ormai rassegnati a perderlo, non lo seguissero più per niente (Ferruta et al. 2000).

Il vissuto claustrofobico in famiglia è caratteristico di una certa fase di molte adolescenze e può costituire una forte spinta, che si aggiunge alle altre, verso l’emancipazione. Lo stretto rapporto con i genitori amati e ammiranti durante l’infanzia si rivela infatti a un tratto troppo angusto, carico com’è di affetti e delusioni, e diventa necessario e fisiologico allentarlo. Ciò spesso determina una crisi, dolorosa ma necessaria, nei genitori stessi e nella famiglia intera, che si trova costretta a ripensarsi e a darsi nuovi equilibri.
Pare che questo delicato momento di crisi e di passaggio abbia avuto nel vissuto dei ragazzi che arrivano in comunità le caratteristiche del terremoto che scuote alle fondamenta e fa crollare rovinosamente la famiglia della loro infanzia, lasciandoli soli in mezzo alle macerie, esposti a una perdita irreparabile, anche perché sentita in parte come causata da loro stessi.

Spesso il ragazzo che arriva in comunità si trova invischiato in un senso di cupa impotenza. Spesso ha cercato rimedio alla propria sofferenza nell’immersione fusionale nel gruppo dei pari, all’interno del quale ha cercato risposte immediate alla sua inquietudine, nell’illusione forse di poter godere di un eterno presente spensierato, all’insegna dell’eccitazione e del piacere esagerato, dell’agire immediato e irriflessivo, visto che non riesce a pensarsi nel futuro. Stessa funzione eccitante e favorente il senso di appartenenza al gruppo viene svolta dalle droghe, di cui fa di solito largo uso, nel tentativo di curare il senso di vuoto, di noia, di sfiducia e spesso di disperazione rispetto all’assenza di qualsiasi tipo di progettualità nel presente e nel futuro. Questo adolescente dichiara di vivere esclusivamente nell’attimo presente, unica cosa di cui è sicuro, e di volere vivere “alla grande”, senza risparmio alcuno, seguace di una dottrina edonistica molto spinta, di un carpe diem esasperato. In realtà non è l’attimo che cerca di afferrare, ma una fuggevole sensazione che gli dia l’illusione di sentire e afferrare se stesso (Ferruta et al., 2000).
Sembra quindi si possa affermare che il ragazzo che oggi ritroviamo in comunità nasconde sempre più spesso una realtà di confusione e di grande sofferenza. Ha un’identità molto incerta, è disorientato circa se stesso e gli altri, circa ciò che è e ciò che vuole, ciò che può essere e diventare.

Margherita al momento dell’ingresso in comunità era molto spaventata, disillusa, le persone per lei più significative avevano di fatto abdicato al proprio ruolo affettivo e di cura e l’avevano consegnata a dei professionisti, che in realtà per lei non rappresentavano altro che meri estranei.
Le parole e i comportamenti che Margherita metteva in atto durante il momento dell’accoglienza in struttura la facevano apparire come un soggetto inavvicinabile, sofferente, non meritevole di cure, di attenzioni e di affetto. Indipendentemente dal nome della patologia scritta in cartella (Disturbo della Condotta in tal caso), mi trovavo davanti una giovane ragazza che sperimentava in se stessa un grande disagio che si ascriveva nel male di vivere, nella difficoltà di trovare una giusta collocazione in un mondo che non l’aveva compresa, non l’aveva gestita, e non era stato in grado di accompagnarla in un momento di estrema difficoltà.

L’adolescente spaventa perché è spaventato, allontana perché si sente allontanato, evita l’incontro con il medico, sbatte la porta in faccia all’educatore, lo caccia dalla propria stanza nella intima speranza che gli adulti riaprano quella porta, che entrino in comunicazione con lui, che non temano quanto di negativo sta mostrando. L’educatore raccoglie quanto di distruttivo il minore esprime senza mostrarsi ferito, impotente o semplicemente spiazzato. Nel sentirsi accolto anche nelle sue parti più negative e cattive, l’adolescente percepisce interesse nei propri confronti, sente quel luogo meno anonimo ed indifferente, inizia a porre le basi per poter realizzare un progetto, inizia a percepire una relazione di fiducia (Erba, Gavarini 2014).

Indipendentemente dalle modalità organizzative di ogni singola comunità terapeutica, l’obiettivo principale è quello di inserire l’adolescente in un ambiente più disciplinato e meno caotico di quello familiare (Carratelli, 1998). Attraverso la creazione di nuovi rapporti significativi e la realizzazione di interventi contenitivi, è anche possibile, infatti, sottrarre i genitori all’aggressività dei figli, interrompendo il circolo vizioso di rabbia che si ripercuote anche su quest’ultimi (Ferrigno et al., 2005).
L’esperienza terapeutica con un adolescente può essere rappresentata metaforicamente dal palo di sostegno che permette a una pianta di mettere radici, crescere, rinforzarsi e svilupparsi, ma senza forzarla, condizionarla o obbligarla, come spesso accade, attorno al tronco che la lega (Pietro Roberto Goisis, 2014). Cosicché Margherita possa trovare un modo per crescere.

Disturbo da ipersessualità: il ruolo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene

Il Disturbo da Ipersessualità è una patologia caratterizzata da un desiderio sessuale non parafiliaco e da una forte impulsività. Questo disturbo integra diversi aspetti fisiopatologici come la disregolazione del desiderio sessuale, la dipendenza sessuale, l’impulsività e la compulsività con i Disturbi d’Ansia e dell’Umore.

Attualmente è ben noto come il comportamento sessuale sia sotto il controllo di una serie di meccanismi centrali riguardanti la regolazione neuroendocrina, il sistema limbico e l’attività inibitoria del lobo frontale. Tuttavia non sono ancora conosciute le origini delle alterazioni neurobiologiche nei pazienti con Disturbo da Ipersessualità.

Recentemente è stato dimostrato che la maggior parte dei disturbi psichiatrici è caratterizzata da una disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA). Sulla base di questa informazione, Jussi Jokinen e colleghi hanno cercato di comprendere quanto l’HPA potesse giocare un ruolo importane anche nel Disturbo da Ipersessualità.

Nel corso dello studio sono stati confrontati 67 pazienti maschi in possesso di una diagnosi di Disturbo da Ipersessualità con 39 volontari sani dello stesso genere. Inizialmente è stata somministrata ad entrambi i gruppi una batteria di test per valutare il livello di Ipersessualità, di Depressione, e di precocità con cui si sono manifestate le avversità della vita. Successivamente sono stati valutati i livelli basali plasmatici del cortisolo e dell’ACTH al mattino, seguiti da un test di soppressione in cui veniva somministrato il Desametasone con un basso dosaggio (0.5 mg), in seguito al quale venivano rimisurati i livelli di cortisolo e ACTH.

Quanto è emerso risulta molto interessante, in quanto i pazienti con Disturbo da Ipersessualità hanno manifestato una disregolazione dell’HPA maggiore nella fase di non soppressione, manifestando livelli significativamente più elevati di ATCH rispetto al gruppo di soggetti sani.

Per quanto riguarda i traumi infantili e il livello di depressione, i pazienti hanno riferito un numero maggiormente significativo di episodi e sintomi rispetto ai volontari sani. É stato però dimostrato che i risultati ottenuti non possono essere spiegati dalla presenza concomitante di queste due problematiche, sottolineando nuovamente quanto sia importante il ruolo dell’HPA nel Disturbo da Ipersessualità.

Per tanto è possibile concludere affermando l’ipotesi di partenza di Jussi Jokinen e colleghi secondo cui la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene giochi un ruolo fondamentale anche nel Disturbo da Ipersessualità in soggetti di genere maschile.

 

Stress, burnout e relative conseguenze: una ricerca nelle fabbriche – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Stress, burnout e relative conseguenze:

una ricerca nelle fabbriche

Carlucci Chiara

L’obiettivo dello studio presentato è verificare se i lavoratori delle fabbriche sono esposti ad alti tassi di stress con possibile rischio burnout, ansia e depressione.

Circa un lavoratore su quattro dell’Unione Europea soffre di stress legato all’attività lavorativa (Eurostats Statistics). Per Stress Lavoro Correlato si intende una difficoltà di adattamento reciproco, tra l’individuo e l’organizzazione, che comporta uno squilibrio tra le richieste organizzative e le risorse personali del soggetto di affrontarle. Alti tassi di stress portano delle conseguenze sui lavoratori, quali potrebbero essere burnout, ansia e sintomi depressivi.

In letteratura sono presenti vari studi che hanno analizzato le correlazioni tra stress e burnout, considerando anche le possibili conseguenze psicologiche a cui può condurre lo stress lavorativo. Ma le ricerche sono state prevalentemente condotte su personale sanitario e professioni d’aiuto (medici, infermieri, dentisti, psicologi, assistenti sociali), oppure insegnanti, poliziotti, impiegati.

È stata poco analizzata la realtà aziendale. Le fabbriche sono ambiente lavorativo le cui mansioni per vari motivi sono ripetitive, frenetiche, usuranti. Perciò i tassi di stress potrebbero apparire elevati, così come le eventuali conseguenze negative dello stesso.

L’obiettivo dello studio presentato è verificare se i lavoratori delle fabbriche sono esposti ad alti tassi di stress con possibile rischio burnout, ansia e depressione. Si ipotizza che forti livelli di stress correlino positivamente con burnout, e che quest’ultimo correli in positivo con ansia e umore basso (depressione).

I dati sono stati racconti su un campione di 45 soggetti. I partecipanti sono i lavoratori di due piccole fabbriche. Due ruoli a confronti: ufficio (sfera commerciale) e lavoro manuale (operai, magazzinieri). Gli strumenti utilizzati sono: l’SBI (Stress Burnout Inventory), lo STAI (State Trait Anxiety Inventory – Ansia di Stato) e il BDI (Beck Depression Inventory).

Dai risultati emergono correlazioni significative tra stress e burnout (r=,487; p<,01**). Inoltre il burnout risulta correlare in positivo significativamente sia con ansia di stato (r=,456; p<,01**) che con depressione (r=,336; p<,05*).

È possibile per cui asserire che le fabbriche sono un ambiente lavorativo in cui i tassi di stress sono elevati, con possibile rischio burnout, il quale potrebbe a sua volta generare nei lavoratori disturbi d’ansia o dell’umore. Tutto ciò inevitabilmente potrebbe influire sulla motivazione dei lavoratori e di conseguenza sulla loro performance lavorativa.

Dai sintomi al gene responsabile: 22 anni dopo il team di Neurologia del Meyer trova la causa della sindrome perisilviana congenita – La scoperta sulla copertina di Lancet Neurology

Ospedale Pediatrico Meyer – COMUNICATO STAMPA

Sindrome perisilviana congenita: finalmente note le cause della patologia che colpisce i bambini e si manifesta con epilessia, deficit cognitivo e disturbi motori. PIK3R2, è il nome del gene responsabile della malformazione cerebrale all’origine della sindrome.

Firenze (21 novembre 2015) – Nel 1995 ne hanno descritto la manifestazioni cliniche e ora, ventidue anni dopo, sono riusciti a trovare le cause della sindrome che colpisce i bambini e si manifesta con epilessia, deficit cognitivo e disturbi motori, guadagnandosi la copertina di Lancet Neurology. PIK3R2, è il nome del gene responsabile della malformazione cerebrale all’origine della sindrome perisilviana congenita, così chiamata perché è caratterizzata da una malformazione che coinvolge le regioni perisilviane, le circonvolluzioni localizzate intorno al principale solco negli emisferi cerebrali, la scissura di Silvio (una delle principali strutture del cervello umano).

A scoprirlo è stato il gruppo di ricerca di Neurologia diretto e coordinato dal professore Renzo Guerrini, nell’ambito di una ricerca collaborativa tra il Dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Pediatrico Meyer e il Center for Integrative Brain Research del Seattle Children’s Research Institute, di recente pubblicazione su Lancet Neurology, l’autorevole pubblicazione internazionale, come prosecuzione dello studio che fu pubblicato sulla stessa rivista nel 1993. Allora, alla risonanza magnetica videro le alterazioni del cervello e ne realizzarono un primo studio.

I risultati della ricerca, che rappresentano l’evoluzione di un impegno scientifico svolto ad alti livelli, sono destinati ad avere un’immediata ricaduta diagnostica. L’identificazione di questo gene come causa della sindrome consente infatti agli specialisti di poter indicare alle famiglie dei pazienti il rischio di ricorrenza della patologia nelle generazioni successive, così da offrire un’adeguata consulenza genetica. Lo studio apre anche prospettive terapeutiche nell’ambito della medicina personalizzata, resa cioè individuale in funzione delle specifiche cause.

PIK3R2 – prosegue il professor Guerrini – appartiene a una famiglia di geni già correlati a una serie di anomalie dello sviluppo del cervello che sono causa di epilessia e di altre manifestazioni cliniche precoci. Questi geni, se alterati, generano proteine che perdendo la loro funzione consentono un’attivazione eccessiva di processi di proliferazione delle cellule nelle fasi precoci dello sviluppo cerebrale. La conseguenza è che un numero eccessivo di cellule compete per acquisire la propria corretta posizione e funzione nella corteccia cerebrale, dando origine a una corteccia disorganizzata. Su alcuni modelli animali si è notato che farmaci già noti possono inibire questi processi di iperattivazione. Ovviamente una cura ancora non c’è ma si tratta di prospettive interessanti.

La ricerca pubblicata con risalto su Lancet Neurology si colloca in un filone di studi molto attivo – quello del mosaicismo – che approfondisce le cause genetiche delle anomalie dello sviluppo cerebrale che causano epilessia, ritardo mentale, disturbi motori e autismo e che possono essere dovute a mutazioni genetiche presenti a volte solo in una percentuale ridotta di cellule dell’organismo, talvolta solo in quelle cerebrali. Ricerche condotte da vari gruppi nel mondo, compreso il team del prof Guerrini, stanno dimostrando in modo sempre più concreto come l’epilessia e varie malformazioni cerebrali siano spesso determinate da alterazioni genetiche presenti solo in alcune cellule cerebrali.

Il gruppo di studio del Dipartimento di Neuroscienze del Meyer, in questa fase, sta quindi orientando le sue ricerche nell’ambito delle cause genetiche dell’epilessia proprio grazie al progetto scientifico europeo Desire (Development and Epilepsy – Strategies for Innovative Research to improve diagnosis, prevention and treatment in children with difficult to treat Epilepsy) di cui ha il coordinamento e darà ulteriore impulso a questo ambito di studi grazie al progetto recentemente approvato dal Ministero della Salute e da Regione Toscana dal titolo ‘An integrated approach to unravel the genetic causes and molecular pathogenesis of epileptogenic focal cortical dysplasia‘.

Il pediatrico fiorentino e la sua vocazione per le neuroscienze

L’ospedale pediatrico Meyer ha due laboratori dedicati allo studio di queste patologie, quello di Neurogenetica e quello di Neurobiologia.

La nostra filosofia di lavoro – prosegue il prof Renzo Guerrini – è quella di fare ricerca scientifica in ambiti che abbiano una ricaduta clinica molto forte e diretta. Tutto con l’obiettivo di offrire un’assistenza capace di dare una effettiva risposta a malattie individualmente rare ma che collettivamente rappresentano una quota significativa della patologia neurologica del bambino.

Studi come quello pubblicato su Lancet Neurology sono resi possibili dalle collaborazioni multidisciplinari interne al Meyer – in particolare con la Neurochirurgia e la Diagnostica per Immagini – ed esterne, quali ad esempio quella con la Fondazione Imago 7 di Pisa, consorzio di cui il Meyer fa parte. Proprio la ricerca effettuata con il magnete ad altissimo campo ha dato un contributo importante alla ricerca.

Sì le immagini acquisite con la Risonanza Magnetica 7 Tesla – conclude il professore – ci ha fatto comprendere le caratteristiche anatomiche specifiche della malformazione e quindi ricercare in soggetti con quadri simili una causa genetica specifica, consentendoci di orientare meglio lo studio.

Importante è state anche la collaborazione internazionale con Seattle per trovare conferma della alterazione genetica in un numero più ampio di soggetti con la stessa malformazione e le stesse manifestazioni cliniche.

La perla e la tartaruga. Il caso di Sandro: la metodologia dell’incontro in psicoterapia (2014) – Recensione

Dobbiamo diventare protagonisti della nostra vita che sta accadendo in questo preciso momento, senza aspettare che qualcosa o qualcuno venga a salvarci da una prigione da cui nessuno, se non noi stessi, può liberarci.

Sandro ha una trentina d’anni e lavora come medico anatomopatologo. Per trovare sollievo ad un malessere a cui non sa dare un nome né un perché, un vissuto dilagante di vuoto e di inutilità, decide di intraprendere un percorso psicoterapeutico.
Il suo terapeuta è Renzo, che lavora in base all’approccio psicanalitico e si serve di procedure immaginative. Renzo ci racconta passo per passo questo cammino sin dal giorno del primo incontro. Le due voci, quella di Sandro e quella del suo terapeuta, si intrecciano nella narrazione percorrendo, come da tradizione analitica, le vie del sogno, dell’immaginazione e del ricordo, che si accompagnano ai vissuti quotidiani.
Conosciamo così meglio Sandro, che non capisce cosa gli stia succedendo e cerca di dare un nome al suo male di vivere, struggendosi per dare alla sua vita un senso che sente di aver smarrito e che fatica a ritrovare o forse a trovare per la prima volta, un senso che sia solo il suo, non mediato dalle aspettative e dalle immagini degli altri. Non sa bene chi è e cosa vuole, si avverte incompiuto, perso in un uno stallo esistenziale da cui non sa come venir fuori.
Si guarda dentro alla ricerca di spiegazioni, si tormenta, vorrebbe cambiare, ma non sa cosa e come e, più di tutto, ha paura. Perché gli sembra di essere senza via d’uscita.

Di fronte ad un malessere così grande, la risposta più immediata è la fuga: dire no alla vita. Un no declinato in vari modi a seconda dei momenti, sia immaginato nell’accezione estrema di vedere il suicidio come modo per evadere dalla prigione in cui si sente rinchiuso, che agito come adattamento, contemporaneamente rassegnato e rabbioso, alla propria condizione. Per usare le parole di Sandro [blockquote style=”1″]Non voglio andarmene da questo labirinto… cosa serve mettere in campo dei progetti… […] La depressione è una pianta carnivora… facile entrare… difficile uscire… questo viaggio mi fa sentire dentro una rabbia che sale al punto che vorrei sbattere anche lei contro un muro.[/blockquote]

Renzo, il terapeuta, è di altro avviso. Accoglie la rabbia e la sofferenza, ma per lui il vissuto, riportato da Sandro, di andare in pezzi suggerisce [blockquote style=”1″]la metafora del ciclo di vita della rosa. Il suo percorso va dal bocciolo alla fioritura. […]Prima di morire, essa lascia cadere i semi sulla pianta per aiutarla a sviluppare una nuova crescita. È disposto a espandere la coscienza per facilitare una svolta decisiva ai cambiamenti in se stesso? [/blockquote]

La terapia prosegue, gli incontri si susseguono e Sandro appare come un uomo che, nel tentativo di attraversare un fiume, si ferma nel mezzo della corrente e non sa né andare avanti né tornare indietro; è sospeso, la sua paura lo blocca.
Il terapeuta, sempre presente, non può, per rimanere nella metafora, nuotare al suo posto: si tratta della sua vita, delle sue scelte, del suo essere al mondo. Nessuno può, materialmente, respirare a posto di qualcun altro. Può, però, continuare a incoraggiare Sandro a vivere perché «lo scopo della vita è non aver paura di vivere».

A questo punto del percorso Sandro, pone al suo terapeuta una domanda precisa. Vuole sapere se anche lui è stato in analisi. In altre parole, se ha vissuto sulla sua pelle ciò di cui parla. Non solo, vuole sapere quale insegnamento il terapeuta ha tratto dall’esperienza dell’analisi, a cosa gli è servito fare tutto questo.
E Renzo risponde che, al di sopra di ogni altra cosa, la terapia personale gli ha insegnato a [blockquote style=”1″]non sognare un’altra vita perché è una realtà unica […] Quindi, in accordo con me stesso in ciò che voglio divenire, cerco di mantenermi vivo e vitale affinché in parte sia nelle mie mani l’accadere del buon fine quale completamento dell’essenza umana. [/blockquote]

Renzo sta dicendo che attraverso il percorso psicoterapeutico ha capito una cosa essenziale: bisogna vivere pienamente la vita che abbiamo, ossia la nostra; non sarà perfetta, tutt’altro, molte volte la vorremmo diversa, ma è la nostra. Attenzione, ciò non vuol dire rassegnarsi a ciò che non ci piace, anzi, è esattamente il contrario. Solo calandoci appieno nella nostra vita possiamo provare a cambiarla, cosa ben diversa dal continuare ad aspirare ad una vita alternativa come se quella che abbiamo sottomano fosse una “vita di prova”, una sorta di prova generale di uno spettacolo che andrà in scena in un secondo momento.

Dobbiamo diventare protagonisti della nostra vita che sta accadendo in questo preciso momento, senza aspettare che qualcosa o qualcuno venga a salvarci da una prigione da cui nessuno, se non noi stessi, può liberarci.
Sandro accoglie lo svelamento del suo terapeuta e porta poi, in risposta, un sogno, lo stesso sogno che da’ il titolo al libro. Ha sognato di [blockquote style=”1″]avere in mano una collana di perle di vetro colorato bianco e nero… non l’apprezzavo… chi l’ha comperata aveva fatto una cavolata… a poca distanza sul terreno dove batteva il sole con sorpresa c’era una perla preziosa per la sua lucentezza… a destra… vicino a me vedevo una tartaruga… aspettavo che si muovesse…[/blockquote]

In altre parole, proprio quando credevo che tutto, la mia vita stessa, non avesse alcun valore mi accorgo che, invece, posseggo qualcosa di prezioso, una perla rara. E la tartaruga? La tartaruga è il lavoro lento, paziente e inarrestabile. Sandro coglie questo messaggio e lo restituisce al terapeuta dicendo [blockquote style=”1″]La cosa mi è chiara… una trasformazione del reale secondo il mio ideale di perfezione (perla) con la forza d’animo (tartaruga)… troverò l’uscita dalla depressione?[/blockquote]

La risposta è sì, troverà l’uscita, proprio nel momento in cui realizza di essere libero di scegliere e si autorizza di agire e ad essere chi desidera…se stesso.

L’indegno rabbioso – Tracce del Tradimento Nr. 33

TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXIII: L’indegno rabbioso

 

Vi sono poi i cercatori di tracce del tradimento che accusano il mondo con rabbia, con lo scopo di riversare colpa rabbiosa sull’altro e di essere vittime. Questo vasto gruppo di cercatori rappresenta uno sviluppo più organizzato della non amata, pur avendo alcuni tratti in comune.

Queste persone si ritengono non abbastanza degne di amore. Spesso hanno avuto un passato doloroso o isolato in famiglie fredde o sfidanti, ma di questa esperienza invece di fare un bilancio depressivo fatalista costruiscono una filosofia di ininterrotta accusa al mondo. Si rimprovera la crudeltà del mondo, si è irosi, sfiduciati. In queste persone la rabbia attiva è dominante e copre la tristezza.

La rabbia è un’ emozione interessante perché deriva da una percezione di aver subito un’ ingiustizia, spesso il primo appraisal è effettivamente di tristezza: “Non è giusto che tu mi faccia questo”. La tristezza non è assorbita e affrontata e la rabbia “è tutta colpa tua” sembra la soluzione migliore. Essa serve a vari scopi tra i quali alzare l’autostima e recuperare l’innocenza. La rabbia non permette di analizzare le proprie responsabilità ed è un’emozione che “guarda agli altri” più che essere concentrata su se stessi.

Chi incontra il rabbioso, ad esempio il partner, vede la rabbia e la sfida, invece di riuscire a intravedere il pessimismo e la sfiducia nelle relazioni del caso precedente. La soluzione rabbiosa della propria rappresentazione di non amato e non amata è molto nociva alle relazioni. Sfocia in accuse, rimproveri e peggiora grandemente la situazione di coppia. Mentre può essere accettabile un compagno melanconico e sfiduciato e depresso, un partner rabbioso accusante è vivibile soltanto da un certo tipo di persone. Persone che sono state a loro volta accusate e rimproverate, pessimiste e vittime. Il clima però, anche nel caso in cui il partner accetti questa situazione, è caotico, confondente, di emozioni dolorose e senza speranza. Insomma in questi casi, chi rimprovera e chi si fa rimproverare vive molto male.

Il criticismo, l’attitudine a rimproverare l’altro per cambiarlo è un atteggiamento molto descritto nella psicopatologia, ad esempio del disturbo ossessivo o dei disturbi alimentari. Consiste nel collocarsi in una posizione di superiorità morale sull’altro trattandolo male per educarlo ad adottare i nostri scopi, ad assomigliare maggiormente a come noi lo vorremmo. Lui cambia perché lo faccio soffrire.

Il fenomeno è normale qualora si presenti occasionalmente, e anche accettabile entro certi limiti per educare un bambino a evitare comportamenti pericolosi, ma diviene molto patologico qualora diventi, in forma di rimprovero rabbioso, la modalità emotiva e relazionale principale. Nelle coppie il rimprovero continuo è tipico quando uno dei due o entrambi sono molto sofferenti psicologicamente, e ha l’effetto spesso grave di deteriorare il clima familiare, il che è nocivo specialmente se queste coppie siano abitate da prole.

Questa rabbia può assumere un aspetto sessuale e violento nella quale la sottomissione dell’altro dovrebbe avere lo scopo di rassicurazione contro la teoria del mondo dipendente dalla propria indegnità e dalla malevolenza degli altri, ma in realtà non riesce allo scopo. Oppure si diventa traditori a si sottovalutano i propri tradimenti senza rendersi conto della drammaticità con la quale si cercano quelli del proprio partner. Nella mente di questi soggetti un alto livello di incoerenza è accettabile. Quando si cercano tracce in modo attivo e costante, lo si fa perché la storia è andata in crisi, perché si pensa ad una crisi possibile e ci si sente sfiduciati, e la scoperta del tradimento dell’altro può diventare una ragione per accollare a lui la colpa di una separazione di cui non ci si vuole prendere la responsabilità. Alla fine è molto impegnativo rimanere in un rapporto con questa rabbia, questa sfiducia, non si godono i momenti buoni, non ci si sente mai in una reale intimità e fiducia con l’altro.

Giacomo e Silvana avevano da lungo tempo una relazione in crisi. Spesso violenta. Entrambi giovani e molto disturbati avevano famiglie d’origine molto simili nella difficoltà di insegnare gli affetti e i sentimenti. La nascita del primo figlio aveva consentito a lui di rendersi conto dell’esistenza di una possibilità di amare in modo reciproco e dolce. Questo lo aveva reso molto critico verso le modalità affettive che si svolgevano nel matrimonio, costituite da rimproveri, accuse, poca dolcezza e scarsa condivisione. Egli aveva avvisato la moglie della situazione che cambiava chiedendole di ragionare con lui su questo e cambiare insieme modalità affettive. Lei aveva interpretato questa richiesta come l’ennesima prova della inaffidabilità di lui e della propria solitudine e aveva accelerato il processo di distacco, cercando tracce dei vecchi amori in modo insistente e sfidandolo apertamente alla separazione, come se fosse stata la scelta unica che avevano davanti. A questa sfida lui rispose andandosene. L’abbandono di lui fu per lei una esperienza tragica, perché del tutto incapace di mettersi a discutere con lui e capire le ragioni dell’accaduto. Incapace di vedere le proprie responsabilità e incapace di ragionare su un possibile cambiamento personale, la sua unica reazione fu di aumentare nella separazione i comportamenti aggressivi e sfidanti, rendendo le cose dolorose lunghe e difficili per entrambi.

Spesso queste persone quando chiedono aiuto lo fanno in modo poco convinto. Lo scopo non è tanto quello di riuscire ad affrontare i propri problemi, ma quello di dimostrare le colpe dell’altro e la propria innocenza. Il colloquio con queste persone è spesso difficile e poco fruttuoso. Sembra che vi sia una domanda di riconciliazione ma in realtà si assiste a un comportamento spesso vendicativo e freddo.

Sofia e Eugenio vengono in studio per una consultazione. Lei è una donna bella e irosa e lui è nell’atteggiamento di chiedere scusa adottando comportamenti di grande prudenza. La storia è molto qualunque, lui grande avvocato ha lavorato troppo e troppo fuori casa mentre lei faceva tre figli e si dedicava a loro perdendo il proprio lavoro che aveva amato molto. Una volta lei aveva trovato tracce del tradimento che lui aveva giustificato come dovuto ad un momento di sbandamento. Lei trovò preservativi in macchina e lui confessò che andava ogni tanto con prostitute ma che non avrebbe voluto mai separarsi ed era disposto a rinunciare a questa pratica della quale poi si vergognava anche. Ma lei era divenuta inflessibile, da quando aveva scoperto -ormai quattro anni prima- il fatto, lo aveva ininterrottamente perseguitato, accusato e rimproverato parlando di lui in un modo colmo di disprezzo da farsì che intervenissi in seduta chiedendole perché con la quantità di disprezzo che aveva per lui rimaneva con lui e non lo lasciava. La risposta di lei era stata: [blockquote style=”1″]Lui deve pagare, non gli permetto di andarsene, sarebbe troppo comodo, lui mi ha fatto un torto e deve pagare.[/blockquote] Soltanto quando lui mi raccontò che era rimasto orfano di entrambi i genitori e che era cresciuto in collegio sentendosi solo si capì perché era impensabile per lui stare solo: [blockquote style=”1″]Se lei mi lascia e non ho i figli e lei io sono un uomo morto, non riesco neanche a pensarci, passerò la vita a chiederle scusa.[/blockquote]

Non dobbiamo omettere di sottolineare che l’espressione della rabbia una volta che si sospettino abbandoni o tradimenti è una delle cause di morte più frequenti in giovani donne. Quando la rabbia è nella testa e nelle mani di un uomo infelice e incapace di accettare che le cose non sino andate o non possano andare nella direzione preferita, le spinte, i pugni e l’espressione rabbiosa corporale possono mettere a rischio la salute e la stessa sopravvivenza delle donne. Non va che gli uomini hanno una muscolatura molto più sviluppata delle donne e questo può metterle in grave pericolo. In questo senso la fiducia e il sentimento di autonomia che le donne stanno esplorando nelle società occidentali sta creando una grande quantità di omicidi ”imprevedibili”. La libertà di dire di no, di tradire, di lasciare è stata da poco raggiunta insieme all’autonomia economica e può accadere in partner squilibrati e rabbiosi che questa libertà venga interpretata come un attacco intollerabile alla propria autostima.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Adozione, disturbi di personalità e fallimento adottivo

Silvia Pomi, Giorgia Righi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Adozione: avere un figlio adottivo è aprire nella propria famiglia uno spazio non solo fisico, ma soprattutto mentale per l’accoglienza di un bambino, generato da altri, con una sua storia, e che ha bisogno di continuarla con dei nuovi genitori, con cui formerà una vera famiglia, come una sua seconda possibilità di vita.

 

Adozione e attaccamento

Bowlby (1989) nella teoria dell’attaccamento sottolinea l’importanza di garantire al bambino, nel corso della prima infanzia, la sensazione di sicurezza e fiducia nei confronti del genitore che rappresenterà una base sicura cui far riferimento per affrontare gli obiettivi di crescita. Ciò richiede al genitore caratteristiche di accessibilità, sensibilità e responsività. Un genitore accessibile fisicamente ed emotivamente, dovrà anche essere in grado di percepire e valutare i segnali di pericolo e di disagio, e di poter rispondere a tali bisogni in maniera amorevole, pronta, costante e adeguata. Ciò produrrà nel bambino un sentimento di sicurezza e un migliore adattamento al mondo sociale. Il soddisfacimento di questi bisogni fondamentali è centrale anche all’interno di un percorso di adozione con genitori non naturali.

Avere un figlio adottivo è aprire nella propria famiglia uno spazio non solo fisico, ma soprattutto mentale per l’accoglienza di un bambino o di una bambina, generato da altri, con una sua storia, e che ha bisogno di continuarla con dei nuovi genitori, con cui formerà una vera famiglia, come una sua seconda possibilità di vita.

 

Adozione e criteri di adottabilità

Secondo la legge 4 maggio 1983 n. 184, perché un minore venga dichiarato in stato di adottabilità deve trovarsi ‘in una situazione di abbandono perché privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio’ (art. 8).

Con la dichiarazione di adottabilità il bambino deve affrontare l’esperienza della separazione definitiva dalle figure genitoriali che non sono state in grado di tutelarlo a sufficienza. Il bambino risulta come sospeso tra il conflitto di voler tornare indietro da quella mamma o quel papà che se pur inadeguati, gli consentiva di appartenere a qualcuno e la paura di nuovi attaccamenti affettivi alternativi ai propri genitori naturali, con tutto il carico di conflittualità e ambivalenza ad essi collegato. (Monaco, Niro, 1999).

 

Il fallimento dell’adozione

Accanto ad adozioni che riescono ad affrontare le situazioni di crisi evolutive, trovando nuove soluzioni che permettono di conservare i legami affettivi instauratisi, ci sono altre esperienze nelle quali purtroppo prevalgono sofferenza e disagio, tanto nei genitori quanto nei figli, che si concludono con il fallimento e nei casi estremi, con la restituzione del bambino.

Riflettere sui meccanismi che possono concorrere al fallimento è un compito fondamentale per tutti gli operatori sociali e gli psicologi che si impegnano in questo lavoro, consapevoli che l’adozione è l’unica possibilità per un bambino abbandonato dai genitori biologici di poter crescere all’interno di una famiglia.

L’esperienza clinica ci segnala che i percorsi dell’adozione risultano essere complessi e il lavoro degli operatori e di tutti coloro che sono coinvolti, necessita di qualificazione, aggiornamento e responsabilità. A oggi il lavoro di prevenzione non sembra aver raggiunto l’efficacia sperata, considerata la percentuale di fallimenti adottivi.

Fallimento adottivo significa per una famiglia, non essere stata in grado di accogliere ed instaurare con un bambino una relazione significativa dal punto di vista affettivo, non attraversando con lui le fasi evolutive, fino al raggiungimento della sua autonomia nell’età adulta. (Galli, Viero, 2001).

Tra 2002 e 2013 sono stati 73 i casi di fallimento adottivo segnalati dai servizi in Emilia-Romagna. Fino al 2005 la definizione applicata era quella di gravi crisi verificatesi all’interno della famiglia adottiva, tali da comportare l’allontanamento del bambino-ragazzo entro il primo anno 
di inserimento in famiglia (o durante l’anno di affidamento pre-adottivo in caso di adozione nazionale), fenomeno noto in letteratura come restituzione. Tra 2006 e 2010 emerge una proporzione di 3 restituzioni entro il primo anno di adozione su 52 fallimenti adottivi più generalmente intesi, con una netta prevalenza (95% circa) di situazioni in cui i problemi adottivi si sono acutizzati (fino alla rottura o interruzione dei legami e al conseguente allontanamento), dopo il primo anno dall’inserimento del bambino in famiglia. Tra 2010 e 2013 emerge una proporzione di 2 restituzioni entro il primo anno di adozione su 38 fallimenti adottivi con la prevalenza degli allontanamenti avvenuti dopo il primo anno di adozione (95%). Nel 92% dei casi i fallimenti hanno riguardato le adozioni internazionali. Gli allontanamenti hanno avuto un andamento crescente ed hanno coinvolto bambini residenti in tutti le province. Il tasso medio di fallimenti adottivi registrati in Emilia-Romagna su tutto il periodo può essere stimato al 2,46%, con oscillazioni variabili di anno in anno. (portale ER /adozioni)

Il fallimento adottivo porta il bambino, già segnato dall’esperienza dell’abbandono, a subire un ulteriore abbandono, il cui effetto costituisce un trauma estremamente grave, che comporta conseguenze sul suo sviluppo psichico.

Il successo dell’esperienza adottiva può dipendere dalla presenza di fattori di rischio che, generalmente, per i genitori sono strettamente connessi alle motivazioni che li hanno spinti all’adozione. Tali elementi di rischio possono essere già presenti nella storia individuale dei protagonisti dell’adozione ma si manifestano palesemente nel momento in cui condizionano l’esito dell’adozione, conducendo al fallimento della relazione adottiva.

 

Adozione: gli indicatori di rischio

Galli (2001) ha analizzato e descritto alcuni indicatori di rischio che possono assumere un peso fondamentale nel definire l’esito dell’adozione; nell’individuare tali indicatori ha tenuto conto non solo delle caratteristiche delle coppie aspiranti all’adozione e dei bambini che vengono adottati, ma anche delle difficoltà e degli eventuali errori di valutazione dei professionisti che operano nel campo. Le peculiarità della coppia che di per sé non costituiscono fattori di rischio, possono invece rivelarsi determinanti di fronte a particolari caratteristiche del minore.

Gli indicatori individuati sono:

  • L’infertilità, la sterilità, i trattamenti medici: necessario che la coppia abbia elaborato e superato il lutto derivante dalla sterilità/infertilità, e abbia avuto il tempo di creare quello spazio interno, psichico e mentale necessario per accogliere un figlio adottivo;
  • I disturbi e funzionamento psicosomatico della coppia: è nota la frequenza con la quale alcune coppie che richiedono di adottare un bambino, dopo anni di ricerca e trattamento dell’infertilità, inizino una gravidanza subito dopo avere presentato la domanda di adozione, al principio o alla conclusione dello studio psicologico e sociale per l’ottenimento dell’idoneità, al momento dell’abbinamento o subito dopo l’arrivo del bambino; altrettanto frequente è il fatto che negli stessi momenti del percorso adottivo, altre coppie manifestino sintomi o malattie psicosomatiche (ad esempio ulcere gastrointestinali, asma bronchiale) più o meno gravi, che incidono sia durante il percorso che in seguito, sulle dinamiche relazionali con il bambino.
  • Le malattie organiche e disabilità: le richieste da parte di coppie nelle quali uno dei partner è affetto da malattie croniche progressive vengono, in alcuni casi, definite adulto-centriche, ovvero domande in cui il bambino adottivo viene a svolgere un ruolo terapeutico nei confronti dell’adulto malato;
  • L’adozione dopo la morte di un figlio: la richiesta di adozione fatta da queste coppie pone necessariamente di fronte al problema dell’elaborazione del lutto, nonché al rischio che il figlio adottivo si trovi a dover svolgere l’impossibile compito di sostituire il bambino deceduto;
  • Il rifiuto di procreare e motivazioni filantropiche: se la richiesta di adozione viene fatta da coppie che, senza problemi di infertilità, sono spinte apparentemente solo da motivazioni filantropiche e ideologiche è possibile che dietro queste motivazioni si celino ansietà riguardanti la gravidanza e/o il parto, oppure timori di trasmettere malattie genetiche, o profonde problematiche riguardanti la sessualità di coppia.

Adozione e psicopatologia

Poche sono le ricerche sulla psicopatologia genitoriale nel tema dell’adozione, tante invece quelle sui disturbi del bambino adottivo, soprattutto legati al periodo adolescenziale. L’attaccamento ai genitori adottivi e ad altre figure familiari si può verificare a ogni età. Sicuramente il periodo adolescenziale, caratterizzato da profondi mutamenti biologici e psicologici e di ricerca della propria identità, presenta per il bambino adottato difficoltà peculiari, ma ciò è indipendente dall’età di inserimento all’interno del nucleo adottivo. Secondo Kestemberg (1962):

Se è vero che tutto si prepara nell’infanzia tutto si gioca nell’adolescenza”.

Come emerge dalla letteratura scientifica sull’adozione, anche in Emilia-Romagna l’età pre-adolescenziale e adolescenziale si conferma essere una fase evolutiva sfidante per le relazioni familiari adottive.

Dalla ricerca di Miller et al. (2000) emergono risultati contrastanti sul fatto che i bambini adottati abbiano più problemi psicologici e comportamentali che i non adottati. Differenze medie standardizzate mostrano che gli adolescenti adottati sono più a rischio in tutti i settori presi in esame, tra cui riuscita scolastica e problemi a scuola, uso di sostanze, benessere psicologico, salute fisica, menzogne e litigi con i genitori. I risultati mostrano che le differenze tra gli adolescenti adottati e non adottati erano maggiori se si consideravano come variabili il sesso maschile, gli adolescenti più giovani o più anziani, ispanici o asiatici e gli adolescenti che vivono in case famiglia o con i genitori di basso livello di istruzione. In maggior misura quindi gli adolescenti adottati hanno più problemi di vario genere rispetto ai loro coetanei non adottati.

Nella ricerca di Cederblad et al. (1993) condotta in Svezia dove 152 famiglie con figli adottivi sono state invitate a prendere parte a uno studio del livello di salute mentale e dello sviluppo dell’identità dei figli adottivi; sia dalle interviste con i genitori che dagli strumenti di auto-valutazione somministrati ai giovani, è emerso che la loro salute mentale era buona e intatta.

Dallo studio effettuato in Spagna su adozioni internazionali da Barcons-Castel et al. (2011) indica che, anche se hanno uno sviluppo adeguato, i bambini adottati mostrano più problemi emotivi e comportamentali rispetto ai bambini non adottati. I risultati indicano differenze tra i bambini adottati e non, legati alla somatizzazione; i minori adottati sono quelli che ottengono i punteggi più bassi in generale e nello specifico nella scala che valuta la capacità di adattamento i minori non adottati ottengono punteggi più alti. Differenze significative sono state trovate nelle abilità adattive: i ragazzi non adottati mostrano abilità migliori di quelli adottati, differenze che non sono state riscontrate invece tra le ragazze.

In generale, i ragazzi presentano punteggi più alti in esternalizzazione della sintomatologia e depressione rispetto alle ragazze. Tra i bambini adottati, il tempo trascorso in un istituto è una variabile che ha un impatto negativo sull’insorgenza di esternalizzazione e internalizzazione dei problemi. I minori provenienti dall’Europa dell’Est mostrano maggiori problemi di attenzione, abilità adattive minori e le relazioni interpersonali più povere rispetto agli altri minori. Inoltre problemi di attenzione appaiano più frequentemente in minori adottati dopo l’età di 3 anni.

L’indicazione metodologica che possiamo trarre dalla lettura dei 
dati delle ricerche sopra riportate sui fallimenti adottivi e sul benessere psicologico dei bambini-adolescenti è la necessità di accompagnare da subito la creazione di legami familiari adottivi (affiliazione-genitorialità adottiva), promuovendo interventi di sostegno e aiuto precoci, in grado di leggere in tempo i segnali di disagio per poter intervenire con successo fin dal loro esordio.

 

Adozione e disturbi di personalità

Per quanto riguarda i disturbi di personalità o altre patologie più gravi, non vi sono in letteratura molti studi legati all’adozione; alcuni di questi mostrano una maggiore probabilità di sviluppare disturbi di personalità e comportamento a rischio in adulti adottati.

In uno studio Westermeyer et al. (2015) hanno indagato la storia di vita e la presenza di disturbi di personalità in adulti adottati e non adottati mediante l’impiego di un campione rappresentativo a livello nazionale. I dati sono stati confrontati in adulti adottati rispetto ad adulti non adottati, per stimare le probabilità della presenza di disturbi di personalità. I sette disturbi di personalità considerati erano istrionico, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, ossessivo-compulsivo e disturbo di personalità dipendente.

Per coloro che erano stati adottati è stato registrato un aumento nella probabilità di sviluppare qualsiasi disturbo di personalità rispetto ai non adottati; in particolare gli adulti adottati mostravano una probabilità maggiore di possedere un disturbo di personalità istrionica, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, e ossessivo-compulsivo rispetto ai non adottati. Questi risultati supportano i più alti tassi di disturbi di personalità tra gli adottati rispetto ai non adottati.

 

Adozione e incidenza di comportamenti suicidari

Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota dal 1998 al 2008, da Keyes et al., si è proposta di indagare se lo stato di adozione rappresentava un rischio di tentativo di suicidio per i figli adottati e non adottati che vivono negli Stati Uniti. Gli autori hanno poi esaminato i report dei genitori e i fattori noti per essere associati a comportamenti suicidari tra cui sintomi di disordine psichiatrico, tratti di personalità, ambiente familiare e disimpegno accademico. Dallo studio è emerso che la probabilità di tentativo di suicidio erano quasi 4 volte superiore in adulti adottati rispetto a non adottati. La relazione tra stato di adozione e tentativo di suicidio è parzialmente mediata da fattori noti per essere associati a comportamento suicidario.

 

Conclusioni: auspicabilità della prevenzione del disagio psicologico nell’adozione

Come suggeriscono gli studi sarebbe interessante ampliare la ricerca sull’argomento, soprattutto in una fase preliminare nel percorso adottivo, sia dal punto di vista genitoriale che del bambino adottato, per poter prevenire il disagio psicologico e ridurre la probabilità di fallimento adottivo.

Anche il viaggio più lungo comincia con un solo passo.

(Laozi)

L’utilizzo dell’EMDR nel trattamento di sintomi depressivi e da PTSD in un campione di profughi siriani

 

Gli eventi che di sovente si accompagnano allo status di profugo predispongono la persona ad un rischio più elevato di sviluppare dei traumi. Inoltre, l’effetto combinato degli eventi stressanti e delle preoccupazioni rivolte al futuro, si sostanzia in un maggiore rischio di sviluppare depressione.

Secondo la United Nations High Commission for Refugees (UNHCR) nel 2012 si registravano a livello mondiale oltre 15.4 milioni di profughi. Negli ultimi due anni il conflitto in Siria ha costretto molte persone a lasciare le proprie abitazioni per fuggire alla ricerca di un luogo sicuro. Così, secondo le stime della UNHCR, nel 2013 si contavano oltre 2 milioni e 800 mila profughi siriani.

Gli eventi che di sovente si accompagnano allo status di profugo (i.e: rischio di morire, tortura, fame, scomparsa dei propri familiari ed amici, etc.) predispongono la persona ad un rischio più elevato di sviluppare dei traumi. Inoltre, l’effetto combinato degli eventi stressanti protratti nel tempo e delle preoccupazioni rivolte al futuro, si sostanzia in un maggiore rischio di sviluppare depressione, disturbi d’ansia ed in particolare disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

A sostegno di tale tesi, uno studio svolto su un campione di profughi cambogiani reclutati tra Thailandia e Cambogia, riscontrò un’incidenza superiore al 55% di depressione del 15% di PTSD. Una delle priorità all’interno del campo della psicologia delle emergenze, è salvaguardare la salute mentale e migliorare la qualità di vita dei profughi.

Tra le tecniche per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress, in accordo con le linee guida NICE (2005), l’EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) ha prodotto ottimi risultati. Tale tecnica prevede la rievocazione da parte del paziente di ricordi traumatici contemporaneamente al movimento orizzontale degli occhi, che seguono uno stimolo in movimento (i.e: le dita del terapeuta) (Shapiro, 2001).

Sulla base di tali premesse, il team di Acarturk e colleghi (2015) ha indagato l’efficacia clinica dell’EMDR su di un campione di profughi siriani adulti (età compresa tra 19-63 anni), che al momento della valutazione non avevano mostrato ritardo mentale e che non stavano assumendo psicofarmaci. Così, 29 partecipanti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale (trattamento EMDR) o al gruppo di controllo. Il gruppo sperimentale riceveva una media di 4.13 sedute EMDR della durata di circa 90min l’una, dove inizialmente il partecipante raccontava la propria esperienza di fuga dalla Siria ed in seguito era invitato a selezionare un ricordo traumatico target su cui svolgere, appunto, l’EMDR. Nello specifico, il ricordo era rievocato per circa 30 secondi e, durante tale intervallo, il paziente seguiva il movimento delle dita del terapeuta che si spostavano da destra a sinistra all’interno del campo visivo del paziente stesso; tale procedura era svolta fino a che il soggetto riportava uno stato di distress associato al ricordo target minimo.

Al termine dello studio, il gruppo sperimentale evidenziò una riduzione significativa di sintomi del PTSD (p <0.001), risultato che si manteneva a distanza di un mese dalla conclusione della ricerca. Anche i sintomi depressivi evidenziarono una riduzione significativa (p = 0.004) esclusivamente nel gruppo sperimentale.

In conclusione, quindi, tale ricerca conferma l’efficacia del trattamento EMDR dei sintomi del PTSD e depressivi in un campione di profughi siriani adulti. Tuttavia, sebbene condotto come randomized controlled trial (RCT) e quindi decisamente valevole sul piano sperimentale, tale studio non è esente da limiti, ad esempio la ridotta numerosità del campione. Le ricerche future, quindi, avranno l’onere di indagare in nuovi e più estesi campioni l’efficacia clinica dell’EMDR.

Comprese quindi le condizioni critiche alle quali i profughi sono esposti e il derivante incremento del rischio di patologie psichiatriche, risulta necessario individuare le tecniche psicoterapeutiche più adatte ad intervenire a livello clinico su questo tipo di pazienti. E’ tuttavia bene sottolineare che permangono delle difficoltà insite nel sapere culturale del popolo siriano che rendono difficile il trattamento clinico dei profughi. Un esempio potrebbe essere la sfiducia nutrita per la psicologia clinica e il conseguente timore di incorrere con più probabilità nel disturbo mentale qualora si prenda parte a delle sedute con un terapeuta (Acarturk et al., 2015).

Un braccialetto ci salverà dalla depressione: la ricerca della Fondazione BRF ONLUS

Fondazione BRF – Comunicato Stampa

Un semplice braccialetto per il monitoraggio dell’attività fisica potrà difenderci dalla depressione, annunciandola in anticipo e consentendoci di ricorrere a una terapia precauzionale.

Un po’come accade per le previsioni del tempo, potremo accorgerci del nostro imminente cambio di umore ed evitare la perturbazione.

È questo lo scopo della sperimentazione che sta per essere avviata dalla Fondazione BRF Onlus -Istituto per la ricerca scientifica in psichiatria e neuroscienze nata da pochi mesi che sarà presentata a Lucca, a Palazzo Bernardini, il prossimo 28 novembre dalle 15.30.

La Fondazione BRF Onlus, presieduta da Armando Piccinni, psichiatra e docente dell’Università di Pisa, ha messo a punto lo studio e si appresta a iniziare la sperimentazione che durerà sei mesi. Dai risultati potranno emergere i dati necessari a prevenire gli episodi di malattia. Si potrà così anticipare l’insorgenza della depressione ed evitare che i pazienti possano essere colpiti dalle conseguenze della patologia.

Il disturbo che verrà studiato sarà quello bipolare. Ne soffre ogni anno una fetta di popolazione che varia dall’1 al 2 per cento. Per quattro individui su cinque, il disturbo è destinato a ripetersi periodicamente. L’identikit del paziente affetto da disturbo bipolare è ricco di sfumature, ma nella maggior parte dei casi la patologia si caratterizza per l’alternanza ciclica di episodi depressivi e maniacali, ovvero fasi di eccitamento.

L’idea della Fondazione BRF Onlus – spiega il presidente, il prof. Armando Piccinni – è quella di identificare i marcatori biologici di questi up and down del tono dell’umore. Attraverso dei braccialetti elettronici, come quelli che usano gli sportivi, i pazienti saranno monitorati 24 ore al giorno per sei mesi. Terremo traccia delle variazioni dei battiti cardiaci, dell’alternanza sonno-veglia, dell’attività fisica e, in parte minore, delle abitudini alimentari dei pazienti. I dati saranno analizzati statisticamente per stabilire il rapporto causa-effetto tra le condizioni fisiche e il momento in cui si presenta la fase acuta del disturbo bipolare.

Il fine della ricerca è trasformare il braccialetto, dopo la sperimentazione, in un mezzo in grado di analizzare con un fine ben specifico il nostro stato fisico. In questo modo per gli specialisti, ma anche per i pazienti stessi, sarà più facile interpretare le variazioni che coincidono con le prime avvisaglie di malessere e agire con rapidità per evitare episodi depressivi o maniacali.

La Fondazione BRF ONLUS, infatti, rilascerà un’app per smartphone in grado di dialogare con il braccialetto elettronico. In questo modo una semplice notifica potrà bastare per comprendere il proprio stato di salute e gli elementi da considerare.

Si tratta del primo passo del nostro Istituto Onlus – commenta il prof. Armando Piccinni – La ricerca nell’ambito della psichiatria e delle neuroscienze ha sempre bisogno di nuove energie, umane ed economiche. Con la Fondazione BRF Onlus abbiamo deciso di metterci in gioco perché siamo certi di poter apportare contenuti innovativi per contribuire a combattere i mali del nostro tempo.

 

NELLA PROSSIMA PAGINA:

Nasce la Fondazione BRF Onlus Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze (COMUNICATO STAMPA)

Nasce la Fondazione BRF Onlus Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze 

Rendere meno soli i pazienti psichiatrici e le persone a loro vicine. E’questa la missione della neonata Fondazione BRF Onlus – Istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze che verrà presentata il 28 novembre 2015 a Lucca (Palazzo Bernardini, dalle 15.30) in un pomeriggio di scienza.

Nata dall’iniziativa di alcuni clinici e ricercatori dell’Università di Pisa, la Fondazione BRF Onlus è un ente privato e senza fini di lucro, che ha come Presidente il Prof. Armando Piccinni (Università di Pisa) e come responsabile ricerche la Prof.ssa Donatella Marazziti (Università di Pisa) e annovera nel suo comitato scientifico personalità internazionali come Marc Potenza (Yale University), Dan J. Stein (University of Cape Town), ma anche Stephen W. Porges (University of Carolina) e Sue Carter (Indiana University). Fra gli italiani spiccano il Prof. Umberto Galimberti e il Prof. Eugenio Picano (CNR).

Vogliamo creare un polo scientifico – spiega il Presidente Armando Piccinni – che punti a sviluppare e finanziare nuovi progetti di ricerca, affinare le conoscenze di tutti i professionisti del settore medico, ma anche dare un risvolto applicativo alle ricerche per il miglioramento delle condizioni di vita dei malati psichiatrici e in generale dell’uomo. Spesso il paziente psichiatrico soffre per una doppia condizione: quella che gli viene consegnata dalla sua malattia, e quella che invece gli impone con l’isolamento e l’incomprensione la società. Il nostro desiderio è quello di tendere una mano, anche attraverso la divulgazione scientifica, a queste persone e alle loro famiglie.

Il pomeriggio di scienza del 28 novembre vedrà la presenza di tre luminari di chiara fama, che si avvicenderanno con altrettante lezioni. A cominciare sarà il Prof. Enrico Alleva con ‘Ruolo delle neurotrofine nel controllo dello stress e delle emozioni nell’animale e nell’uomo‘, a seguire il Prof. Patrick Pageat con ‘La comunicazione chimica dall’animale all’uomo: l’affascinante storia dei feromoni‘, l’incontro terminerà con il Prof. Fortunato Tito Arecchi e la sua lezione ‘Dal caos al linguaggio: la creatività cognitiva‘.

L’occasione sarà utile anche per illustrare le future ricerche della Fondazione BRF Onlus.

Attualmente – spiega Donatella Marazziti, responsabile ricerche – stiamo portando avanti numerosi studi. Il più importante è forse quello sui pazienti bipolari che sarà condotto in un modo innovativo: per monitorare il disturbo utilizzeremo un braccialetto elettronico che verrà presentato proprio nel corso dell’incontro del 28 novembre e che ci aiuterà nello studiare il comportamento dei pazienti e, attraverso una app, ad anticiparne le crisi.

Importanti sono anche gli studi sulle dipendenze comportamentali, nello specifico sulla food addiction e sulla dipendenza dalle nuove tecnologie supportato anche dall’accordo recentemente siglato con ENPAB (Ente Nazionale di previdenza e di assistenza a favore dei biologi), che ha portato alla nascita di una rete che mira a promuovere indagini sul comportamento alimentare e a favorire l’aggiornamento professionale rispetto alle dipendenze alimentari.

Ulteriori studi in corso – continua il Presidente Armando Piccinni – hanno come focus il temperamento e un approccio teorico ad un nuovo modello di struttura temperamentale, l’utilizzo di nuovi trattamenti nei disturbi d’ansia di sostanze naturali in collaborazione con l’istituto internazionale di ricerca IRSEA –France, lo studio sull’influenza della radiazione luminosa nella cronobiologia dei disturbi dell’umore.

In corso è anche una collaborazione con un’azienda leader mondiale di videogiochi per il riconoscimento precoce dei giocatori patologici; l’incidenza della patologia depressiva nel mondo dello sport agonistico; l’incidenza della food addiction in popolazioni giovanili; la dipendenza da Internet all’interno di popolazioni scolastiche.

Gli interventi in programma il 28 novembre:

  • Ruolo delle neurotrofine nel controllo dello stress e delle emozioni nell’animale e nell’uomo

Prof. Enrico Alleva, Director, Section of Behavioural Neurosciences – Dipartimento di Biologia cellulare e Neuroscienze. Istituto Superiore di Sanità. Presidente, Federazione Italiana di Scienze della Natura e dell’Ambiente –FISNA

  • La comunicazione chimica dall’animale all’uomo: l’affascinante storia dei feromoni

Patrick Pageat, DMV, MSc, PhD, Dipl ECVBM-CA, HDR, Professeur Associéd’Ethologie Appliquée etBien-Etre Animal àl’EI Purpan –INP Toulouse (France). Doyen de la Direction Recherche et En-seignement IRSEA – Institut de Recherche en Semiochimie et Ethologie Appliquée

  • Dal caos al linguaggio: la creatività cognitiva

Fortunato Tito Arecchi. Professor Emeritus of Physics. University of Florence – INO. (Istituto Nazionale di Ottica) – CNR

Comitato Scientifico

  • Presidente della Fondazione BRF è Armando Piccinni.
  • Responsabile delle ricerche è Donatella Marazziti.
  • Fanno parte del Comitato Scientifico illustri scienziati ed esperti di livello nazionale e internazionale. Fra questi Joseph Zohar (Sackler Faculty of Medicine, Tel Aviv, Israel), Marc Potenza (University of Yale, USA), Eric Hollander (Montefiore Medical Center, New York, USA), Stephen Stahl (University of California, San Diego, USA), Stephen W. Porges (Kinsey Institute, Indiana, USA), Sue Carter (Kinsey Institute, Indiana, USA), Konstantin Loganovsky (National Academy of Medicine Sciences of Ukraine), Hans-Jürgen Möller (Ludwig-Maximilians University, Monaco), Dan J. Stein (Universy of Cape Town, South Africa), Patrick Pageat (IRSEA, Apt, France), Siegfried Kasper (Università di Vienna, Austria), Alessandro Cozzi (IRSEA, Apt, France), Umberto Galimberti (Università Ca Foscari, Venezia), Eugenio Picano (NR), Filippo Muratori (IRCSS Stella Maris, Università di Pisa), Luciano Domenici (Università di L’Aquila), Tiziana Stallone (Comitato direttivo ENPAB), Enzo Pasquale Scilingo (Facoltà di Ingegneria, Università di Pisa), Leonardo Romei (ISIA, Urbino), Ilse Melotte (La Quercia, Italy), Laura Bazzichi (Università di Pisa), Antonio Latanà (Università di Pisa), Antonello Veltri (Università di Pisa), Rosa Scaramuzzo (Università di Pisa), Mario Campanella (Giornalista scientifico, Italy).

La depressione post-partum: cos’è e come riconoscerla?

Depressione Post-partum – Il periodo della gravidanza e del post-partum è un momento di grande vulnerabilità per la donna. Fin dal concepimento infatti si verificano una serie di cambiamenti non solo esterni, ma soprattutto interni. Per questo motivo la gravidanza viene considerata un’esperienza di “crisi”, in cui la donna acquisirà una nuova organizzazione psichica.

La gravidanza e il parto

I nove mesi di gestazione da un lato permettono alla futura madre di preparare al neonato un suo spazio fisico nel mondo reale, dall’altro le consente di riorganizzare i propri spazi interiori, di creare nella sua mente uno spazio adatto a contenere l’idea di un bambino e di sé come genitore.

Alcune donne hanno difficoltà ad accettare lo stato di gravidanza, provando sentimenti contrastanti, di felicità, di paura, di preoccupazione per ciò che le attende. Queste reazioni sono in realtà condivise da molte donne, ma non sempre vengono espresse, nel timore di sentirsi “diverse” e giudicate come inadeguate. È molto importante saper “leggere” i propri stati interni, perché tristezza, sconforto e ansia possono trasformarsi in veri e propri sintomi di depressione.

Quando il bambino nasce le cose possono complicarsi ulteriormente, poiché i due neogenitori si trovano spesso impreparati nello svolgimento del loro nuovo ruolo. Inoltre, sappiamo che per la donna il post partum è caratterizzato da un rapido cambiamento ormonale, che può favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. Solo il 10-15% della popolazione generale arriva a manifestare sintomi clinicamente significativi per una depressione post-partum. Questi sintomi non sono transitori e possono persistere anche per diversi anni.

L’interesse riscontrato per la depressione post-partum è legato al forte impatto che ha non solo sulla donna, ma anche sul padre e sul bambino. Ma quali sono i sintomi e come si può riconoscere?

 

Sintomi della Depressione post-partum

Per fare diagnosi di depressione post-partum è necessario individuare almeno cinque sintomi tra i seguenti per un arco di tempo di almeno due settimane:

  • umore depresso
  • anedonia (perdita di piacere)
  • modificazione del peso e/o dell’appetito
  • alterazione del sonno
  • astenia (perdita di energie)
  • isolamento
  • sentimenti di colpa e di inutilità bassa autostima, impotenza e disvalore
  • ansia e relativi connotati somatici
  • perdita della libido
  • riduzione della concentrazione
  • pensieri ricorrenti di morte e/o progettualità di suicidio
  • agitazione o rallentamento psicomotorio.

I sintomi nel linguaggio delle mamme si possono tradurre così:
– Umore depresso, labilità emotiva, tristezza e perdita di piacere:

“Ogni cosa ha perso il suo colore”
“Piangerei sempre”
“Non voglio vedere nessuno”
“Per un attimo mi sento benissimo e un attimo dopo sono di nuovo a terra”

– Mancanza di energia, confusione mentale e difficoltà di concentrazione:

“Sono così stanca…”
“Tutto quello che faccio è una fatica”
“Non riesco a prendere decisioni”
“Sono confusa e ho la mante annebbiata”

– Senso di disperazione, inadeguatezza e pensieri pessimisti, a volte pensieri di morte. Sentirsi prive di valore, senso di colpa e biasimo:

“Non sono capace di fare niente”
“Agli altri interessa solo il mio bambino, non come mi sento io”
“Perché sto così male adesso che ho questo bellissimo bambino?”
“Mi sono appena seduta e il bambino ricomincia a piangere”
“A volte penso che tutti starebbero molto meglio se io non ci fossi più”

– Sintomi ansiosi, irritazione:

“Mi sento in allarme”
“Sento che sto per esplodere”
“Ho le palpitazioni, il respiro corto”
“Mi sento un nodo alla gola”

– Alterazione funzioni neurovegetative (sonno, appetito, libido):
“Non sopporto di essere toccata”
“Mi sveglio presto”
“Non ho appetito”
“Mangio senza un freno”

Alcune donne possono presentare solo alcuni di questi sintomi senza soddisfare i criteri per la diagnosi di depressione post-partum. Si può trattare infatti di altri disturbi come il disturbo dell’adattamento con umore depresso.

Quando lo stress che la donna vive nel periodo immediatamente dopo la nascita del bambino è una reazione momentanea alle richieste del neonato o di altri membri della famiglia, non viene fatta alcuna diagnosi. In questi casi fornire informazioni, rassicurazioni e ascolto possono bastare.
Altre volte le difficoltà a concentrarsi, a prendere decisioni e a prendere sonno possono derivare da ansia grave. A meno che non sia presente anche un umore depresso, non si parla di depressione post-partum, ma di un disturbo d’ansia che necessita comunque di un trattamento specifico. È bene però ricordare che la presenza di un certo grado di ansia in un quadro depressivo è una caratterista comune della depressione post-partum.

 

Quando si manifesta la depressione post-partum?

I primi sintomi possono cominciare a manifestarsi già nella 3-4 settimana successiva al parto, manifestandosi clinicamente tra il quarto e il sesto mese, con segnalazioni di casi anche fino ai nove mesi. Questi sintomi non vanno però confusi con la maternity blues, un lieve disturbo emozionale transitorio di cui soffrono più della metà delle donne nei primi giorni dopo il parto e che si risolve spontaneamente entro una settimana senza particolari conseguenze sulla mamma e sul neonato.

Quando la mamma o le persone che le stanno vicine riconoscono i sintomi della depressione post-partum o notano che il malessere persiste per più di due settimane è bene rivolgersi a uno psicologo, che attraverso un colloquio, specifici test e l’osservazione clinica potrà consigliare il percorso di trattamento migliore. Uno tra i trattamenti più efficaci è quello cognitivo-comportamentale (CBT). Prima si interviene, migliore è la prognosi.

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Sviluppi nei paradigmi psicopatologici

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 3

E’ oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva.

LEGGI ANCHE: Tra analisi scientifica e stigma sociale – (Parte 1/4)

LEGGI ANCHE: I nuovi approcci di matrice sociologica – (Parte 2/4)

A lungo, la ricerca e gli studi criminologici hanno operato una serie di semplificazioni e di riduzionismi riguardo al rapporto tra devianza e disagio psicologico; il comportamento deviante e criminale è stato spesso tout court ricondotto a problematiche di natura psicopatologica, che determinerebbero la condotta deviante disinibendo il comportamento e affievolendo le capacità cognitive della persona.

Nonostante questa concezione sia notevolmente radicata nel senso comune e, anche se in maniera minore, in quello psicologico e giuridico, si tratta di un’idea riduzionistica, stereotipata, in quanto è oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva (De Leo, 1998).

Storicamente, le tipologie psichiatriche più frequentemente ritenute predittive della condotta criminale adulta sono state la psicosi, la nevrosi e la personalità psicopatica; per quanto riguarda l’età evolutiva e l’adolescenza l’adozione di queste categorie è stata più limitata, e si è fatto più spesso riferimento ad altre categorie diagnostiche, quali il Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (ADHD), il Disturbo della condotta e il Disturbo oppositivo provocatorio.

In tutti questi casi, la presenza di una etichetta diagnostica non rappresenta di per sé un fattore prognostico per una condotta antisociale o criminale, né ne fornisce una spiegazione univoca e inequivocabile. Ad esempio, l’iperattività diagnosticata durante l’infanzia potrebbe in adolescenza scomparire oppure attenuarsi, confinandosi solo a specifici contesti; allo stesso modo, la cattiva condotta può variare notevolmente in base al contesto e all’età in cui insorge (De Leo, 1998). Per quanto concerne poi l’atteggiamento oppositivo e provocatorio, attualmente si è concordi nel considerarlo parte integrante dell’adolescenza, senza che per questo sia considerato un sintomo, ma piuttosto come un’espressione di bisogni di individuazione e affermazione (Bonino, Cattelino, Ciairano, 2003; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Sono stati dunque messi progressivamente in crisi i modelli nosografici classici e la loro applicazione diretta ad una fase della vita così particolare e delicata come l’adolescenza; tali modelli sembrano ancorati a un’analisi del comportamento umano in termini fortemente positivistici e guidati da criteri ordinativi e descrittivi del fenomeno, inappropriati a cogliere il senso in cui gli adolescenti costruiscono percorsi anomali o devianti (De Leo, 1998). Manca, in sostanza, la considerazione del rapporto tra contesti (affettivi, normativi e sociali) e processi di sviluppo, al cui interno la condotta si verifica e acquista significato.

Le diverse espressioni comportamentali problematiche in adolescenza, come l’aggressività, l’opposizione, le provocazioni, dovrebbero quindi essere intese non come sintomi da ricondurre a una categoria diagnostica, ma come effetti che emergono e assumono significato nell’interazione con diversi contesti produttori di norme e significati. Lo stesso concetto di normalità deve essere sottoposto a valutazioni critiche quando si parla di adolescenza. Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) sostengono che in adolescenza difficilmente la normalità si configura come assenza di sintomi e deve quindi essere valutata in funzione dei compiti che questa fase propone. Gli autori, confermando la scarsa utilità dei sistemi nosografici classici nella valutazione clinica in adolescenza, propongono di considerare il funzionamento psichico formulando la valutazione in termini di bilancio evolutivo; in questa prospettiva, le diverse aree di sviluppo possono essere considerate come sistemi in fase di riorganizzazione e che non hanno ancora trovato un assetto definitivo sufficiente a consentire la valutazione della personalità nel suo complesso, così come avviene per gli adulti.

Al bisogno di modelli e strategie di valutazione clinica che tengano conto della specifica fase evolutiva in cui si trova l’adolescente, con tutte le conseguenze sul piano affettivo, cognitivo, relazionale e sociale, tenta di rispondere l’approccio della psicopatologia evolutiva o developmental psychopathology; tale approccio si basa su concetti e metodologie utili alla comprensione dello sviluppo mentale e patologico durante l’età evolutiva (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004). Secondo questa impostazione teorica, il soggetto si confronta, nella fase di sviluppo in cui si trova, con diversi compiti adattivi, in una relazione dinamica con l’ambiente; la psicopatologia viene dunque considerata un fallimento nella risoluzione dei compiti evolutivi, da cui derivano distorsioni e disadattamenti. Il processo evolutivo è considerato un’interazione dinamica tra organismo e ambiente, in cui si succedono fasi d’adattamento e di crisi che obbligano l’individuo ad elaborare nuove strategie.

Hudziak, Achenbach e colleghi (2007) affermano che la psicopatologia in età evolutiva differisce da quella adulta sotto diversi aspetti. Prima di tutto, l’espressione della psicopatologia nei bambini si modifica sia nella sue manifestazioni che nella sua gravità nel corso dello sviluppo; inoltre, è necessario tenere conto dei cambiamenti riguardo a cosa deve essere considerato normale e adattivo, in quanto alcuni comportamenti considerati patologici ad una certa età possono essere considerati normali ad un’altra età. Infine, l’assessment della psicopatologia in bambini e adolescenti necessita di una molteplicità di fonti di informazioni, tra cui i genitori, gli insegnanti e i ragazzi stessi. Gli autori propongono di affiancare alla diagnosi categoriale proposta dal DSM, una diagnosi di tipo dimensionale, maggiormente adeguata a cogliere gli aspetti peculiari delle manifestazioni psicopatologiche in infanzia e adolescenza, la loro plasticità e il loro cambiamento nel tempo; dal momento che l’uso combinato ed integrato dei due sistemi diagnostici è sensibile alle differenze di età, di genere e della fonte di informazione, è possibile valutare i miglioramenti o peggioramenti del soggetto anche in relazione ai diversi contesti di sviluppo.

La psicopatologia evolutiva propone quindi un approccio evidence-based alle manifestazioni patologiche in infanzia e adolescenza, di grande utilità anche per quanto riguarda la cura e la presa in carico del minore autore di reato (Rossi, 2004). La psicopatologia evolutiva si basa sull’analisi attenta in maniera congiunta, sinergica e interattiva di due tipologie di fattori: quelli di rischio, che aumentano la probabilità di condotte o manifestazioni disadattive, e quelli di protezione, che agiscono in direzione opposta favorendo l’adattamento dell’individuo e modulando l’effetto dei primi (Connor, 2002).

In letteratura vengono elencate diverse tipologie di fattori protettivi e di rischio in rapporto allo sviluppo delle condotte devianti in adolescenza. Ingrascì e Picozzi (2002) elencano a questo proposito cinque specifici fattori di predizione della violenza giovanile: fattori individuali, fattori familiari, fattori contestuali. I fattori individuali comprendono la presenza di caratteristiche psicopatologiche (iperattività, irrequietezza, deficit di attenzione, disturbo della condotta) e la comparsa precoce di comportamenti aggressivi e antisociali, ma non possono essere considerati se non in costante interazione con i tre più importanti e rilevanti contesti relazionali in cui l’adolescente cresce, ovvero la famiglia, la scuola e il gruppo dei coetanei.

Connor (2002) sottolinea inoltre che gli effetti delle relazioni con i genitori e con gli amici non si escludono a vicenda ma, al contrario, sono compresenti e si potenziano reciprocamente; Cattelino e Bonino (1999) confermano questo dato sostenendo che il rischio risiederebbe dunque nell’interazione tra un atteggiamento di scarso controllo da parte dei genitori, uno scarso investimento di tempo trascorso con la famiglia e molto tempo passato con amici che non impongono divieti sufficienti verso comportamenti trasgressivi. Infine Ingrascì e Picozzi annoverano tra i fattori di predizione anche quelli attinenti la sfera socio- culturale, tra i quali la disponibilità di droghe e armi, coinvolgimento nella criminalità di adulti vicini, esposizione alla violenza e al pregiudizio razziale.

Dodge e Zelli (2000) non parlano di fattori di rischio e protezione, ma propongono un modello multidimensionale ed ecologico in cui fattori distali (biologici e socioculturali) sono mediati da fattori prossimali, ovvero esperienze vissute dall’adolescente nei vari contesti di sviluppo:

Nel corso dello sviluppo il funzionamento neuro e psicofisiologico, il contesto socio-culturale e le esperienze vissute con i genitori e con gli altri si influenzano reciprocamente e in modi diversi, che possono favorire od ostacolare il manifestarsi di comportamenti antisociali.

I fattori distali, che rappresentano dunque il bagaglio biologico, genetico e socio-culturale dell’individuo, possono esporre l’adolescente a particolari esperienze a scuola, in famiglia o con i pari; queste esperienze, in maniera interattiva e ricorsiva, interagiscono con i fattori distali, modulandone e mediandone l’impatto in direzione protettiva oppure deviante. L’interazione costante tra i due tipi di fattori riveste dunque un ruolo cruciale nello sviluppo delle condotte devianti o, al contrario, nella loro prevenzione, e nel favorire o ostacolare l’adattamento dell’adolescente ai suoi contesti di vita.

Per quanto riguarda invece i fattori di protezione, Connor (2002) li definisce i fattori come risorse che modificano e migliorano la risposta dell’individuo ad alcuni pericoli ambientali che altrimenti lo predisporrebbero a conseguenze disadattive; i fattori protettivi modulano l’impatto degli agenti stressanti, aumentando le abilità di coping, migliorando l’adattamento e costruendo nuove competenze. L’autore elenca, per esempio, tra i fattori protettivi quelli individuali (buona autostima, competenze sociali, successo scolastico), quelli familiari (attaccamento sicuro con il caregiver, relazioni positive) e quelli extrafamiliari (supporto sociale esterno, relazioni amicali positive).

Connor aggiunge inoltre che la semplice analisi dei fattori di rischio e protezione non è sufficiente per spiegare la reale comparsa del comportamento violento e propone quindi un modello multidimensionale e integrato che prevede la necessaria presenza di altre condizioni, quali la concreta possibilità di compiere il reato, la mancanza di supervisione e di controllo parentale, l’associazione a gruppi delinquenziali e la possibilità di ottenere rinforzi diretti e indiretti alla propria condotta; i vantaggi ottenuti da un crimine non sono solamente di natura materiale, ma riguardano anche il rispetto, l’acquisizione di un certo status all’interno del gruppo dei pari, la paura o l’ammirazione suscitata negli altri (e ciò è particolarmente vero per gli adolescenti), l’esercizio del potere, il piacere della trasgressione (De Leo, 1998; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004).

Secondo questo modello, quindi, il comportamento criminale è preceduto da alcuni fattori di rischio che devono però necessariamente associarsi a fattori precipitanti e di mantenimento della condotta violenta, che portano nel tempo all’assunzione di un ruolo deviante e alla cristallizzazione di un’identità in questo senso. Anche Ingrascì e Picozzi (2002) sottolineano l’importanza di tenere conto, all’interno della dinamica criminogenetica, della catena multicausale che sfocia nell’atto antigiuridico; occorre considerare, dal punto di vista dell’autore, i rapporti tra costi e benefici che l’azione criminale produce e la complessità dei fattori non solo contestuali, situazionali, sociali ma anche psicologici e psicopatologici che circondano l’atto criminale.

L’ottica adottata è quindi multifattoriale, multidimensionale e probabilistica. I comportamenti devianti possono essere letti e interpretati, adottando quest’ottica, come modalità di risposta a costellazioni di fattori cointeressati, superando alcuni limiti storici appartenenti alla criminologia minorile: si pensi ad esempio alle problematiche dell’etichettamento che discendono da una valutazione moralistica della condotta minorile, o alle facili letture dell’agito criminale come esito di una causa precisa e identificabile (Rossi, 2004).

Il contributo che la psicopatologia evolutiva può offrire nella valutazione e nella presa in carico dell’adolescente a rischio di condotte criminali è rilevante, in quanto consente di tenere conto della complessità delle diverse istanze di sviluppo e della loro costante interazione tra loro, fornisce concetti teorici e metodologie qualitativamente adeguate alla fase evolutiva in esame e sostituisce definitivamente la logica universalisitica-determinsitica con una logica probabilistica, dinamica e temporale.

La teoria della mente – Introduzione alla Psicologia nr. 35

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 35)

 

 

Avere una teoria della mente significa riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di queste presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (Sempio et al., 2005).

Si tratta di un’abilità utilizzata quotidianamente e serve ad avere rappresentazioni del funzionamento della mente altrui che permettono di gestire gli stati interni e le relazioni sociali al meglio. Infatti, proprio grazie alla teoria della mente è possibile spiegare, predire e agire sul comportamento proprio e altrui (More, Frye, 1991).

La teoria della mente fa riferimento a stati mentali inferiti da una serie di comportamenti che costituiscono, unitamente, un sistema esplicativo e unitario di rappresentazioni.

La teoria della mente si sviluppa durante i primi anni di vita grazie a una sana interazione con le figure di riferimento e permette di avere uno specchio sulle proprie e altrui capacità cognitive.

Sono state individuate delle variabili che facilitano la formazione di una teoria della mente nel bambino in interazione con un adulto:

  • Attenzione Condivisa, portare la concentrazione contemporaneamente su una stessa cosa o gioco;
  • Imitazione Facciale, riproduzione di particolari mimiche facciali
  • Gioco di Finzione, simulare finti giochi tra adulto e bambino

 

Teoria della mente: “fredda” e “calda”

La teoria della mente, permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003), e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). Sulla base di queste affermazioni, è possibile fare una distinzione tra una teoria della mente “fredda”, usata spesso con fini manipolatori e antisociali, e una teoria della mente “calda”, avente scopi volti al benessere sociale e comunitari.

Dicevamo, che la teoria della mente può essere usata per perseguire scopi manipolatori come nel caso dell’inganno (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999) o per interpretare sentimenti e emozioni altrui, ottenendo vicinanza psicologica come nel caso dell’empatia (McIlwan, 2003) o della comunicazione degli stati emotivi tra madre e bambino (Riva Crugnola, 1999).

La teoria della mente nello sviluppo della psiche dei bambini

Mostrare una padronanza della teoria della mente risulta essere una funzione altamente adattiva per il bambino (Fonagy, Target, 2001). Infatti, quando il bambino riesce a esplicare questa capacità attribuendo stati mentali agli altri diventa in grado di dare un senso al comportamento e a prevedere le reazioni emotive in relazione a un comportamento proprio e altrui. Questa abilità permette, di conseguenza, la messa in atto di comportamenti adatti a ogni situazione sociale.

Secondo Fonagy (2001) il bambino grazie all’interazione con l’altro-adulto, può produrre modelli di rappresentazione del funzionamento di se stesso e dell’altro. Tali modelli gli permettono di adattarsi in maniera funzionale alle situazioni per raggiungere scopi propri e altrui. La mentalizzazione permette di acquisire due abilità: l’autoconsapevolezza e riflessività (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999). Significa, che il bambino è consapevole delle proprie capacità e di quelle altrui ed è capace di riflettere sui propri processi mentali. In questo modo riesce a gestire e a determinare il suo comportamento, riconoscendo di avere dei limiti in alcune funzioni e di avere una serie di conoscenze a cui attingere.

Fonagy e Target (2001), sostennero che la teoria della mente, offre una funzione protettiva per tutti coloro che mostrano delle difficoltà oggettive dovute a traumi subiti, consentendogli di mantenere una sorta di integrità cognitiva ed esperenziale (Fonagy e Target, 2001).

Per concludere, è possibile dire che tale abilità si sviluppa nel tempo e col tempo, quindi non si nasce con una teoria della mente strutturata, ma essa deriva da una serie di attitudini acquisite e da esperienze verificatesi durante la prima infanzia che portano alla formazione di rappresentazioni mentali proprie e altrui che guidano il comportamento sociale del bambino e del futuro adulto.

 

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

La psicoterapia modifica il nostro cervello: mente e corpo un’unità ritrovata

Valentina Retto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Psicoterapia: la concezione che la mente e il corpo siano entità separate è anacronistica e limitante nel campo della diagnosi e della cura del ventunesimo secolo. Oggi si presenta un’opportunità importante per la convergenza tra la medicina e la psicologia, attraverso le neuroscienze.

Psicoterapia: Il pregiudizio originale

Ancora troppo diffusa è la credenza che in psicoterapia si facciano solo “chiacchiere”.
Questo pregiudizio, ovvero un giudizio anticipato e prematuro, come altri ha delle fondamenta culturali profonde. E’ nato da una visione dualistica della cultura occidentale che separa nettamente il concetto di mente da quello di corpo.
Dicotomia che ha condotto a una disparità, anche nell’importanza comunemente attribuita in maggior misura alla salute fisica, a discapito di quella mentale. (McClanahan et al., 2006).
Tuttavia, le più recenti scoperte hanno permesso di stabilire con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello, producendo un vero e proprio mutamento dei circuiti neuronali. Le tecniche di neuroimaging dimostrano che il lavoro psicoterapeutico produce le stesse modifiche chimiche che sono apportate dalla terapia psicofarmacologica, indebolendo la concezione dualistica che vede come nettamente separati la mente e il corpo (Gabbard G. O., 2000).

 

Le radici del pregiudizio: il dualismo mente-corpo

In origine, la Psicologia è nata con lo scopo di studiare gli aspetti caratteriali e comportamentali dell’uomo. Il termine psicologia è stato coniato nel XVI secolo, da Rodolfo Goclenio, e deriva dalle parole: psiché (respiro, alito, fiato, principio vitale, ma anche carattere personale e modo di agire), e logos (discorso, pensare, ragion d’essere, studio). Tuttavia, le radici della Psicologia affondano ancora più in profondità nella filosofia dell’Antica Grecia, con il pensiero di Platone (400 a.C.). Dalla sua teoria nasce la contrapposizione tra tutto ciò che è considerato immateriale e intangibile, il mondo delle idee, e ciò che invece è materiale, corporeo.

Successivamente, questo pensiero dicotomico viene rinforzato dalla filosofia Cartesiana del XVII secolo, con la res cogitans e la res extensa, e fino ad oggi ha influenzato, insieme alla cultura Cattolica, il pensiero del mondo occidentale (Damasio, 1995). Da tali basi si è istaurata una netta divisione tra mente e corpo, questo dualismo ci ha portato a concepire l’uomo come un insieme di organi con distinte funzioni, perdendone il senso di unicità. Da un lato, stimolando un elevato sviluppo conoscitivo e tecnologico, “le specializzazioni”, dall’altro, però, ostacolando un approccio multidimensionale allo studio e alla cura dei fenomeni umani, normali e patologici (Trombini, G. & Baldoni, F., 1998).

In un recente studio condotto tra Belgio e Regno Unito, sono stati osservati gli atteggiamenti inerenti il rapporto mente-corpo e le variabili che rappresentano le differenze di tali inclinazioni, in un campione di studenti universitari e operatori sanitari. I sondaggi indicano una predominanza dell’ideologia dualistica. I giovani, le donne, e chi ha credenze religiose sono i più propensi a credere che la mente e il cervello siano separati e negano la fisicità della mente. La fede religiosa è risultata essere il miglior predittore per tale atteggiamento. Tra gli operatori sanitari, invece, la maggior parte è contraria alla presenza di una divisione tra la coscienza e il corpo. Tuttavia, anche una parte considerevole di questi professionisti, medici e paramedici, più di un terzo, sostiene la concezione dualistica (Demertzi, A. et al., 2009).

Psicoterapia e dualismo mente-corpo: un diverso punto di vista

Una prospettiva alternativa la ritroviamo nella cultura orientale, caratterizzata per avere una visione più ampia dell’oggetto osservato, che viene sempre posto in relazione agli altri elementi del contesto (Nisbett R.E. & Masuda T., 2003). Corpo e mente sono visti come aspetti inseparabili; in particolare, nella filosofia Buddista per unicità non si intende che corpo e mente siano identici, ma che non siano separati, essi sono considerati entità distinte di uno stesso essere vivente che dialogano e interagiscono profondamente. (Feldenkrais, M., 1991; Frank R., 2005).

Tra gli approcci più moderni in ambito medico, invece, si cerca di colmare questa distanza con la medicina integrativa, l’approccio olistico, o la psicosomatica. Infine, il concetto di Engel di medicina biopsicosociale suppone una matrice triangolare, in cui il corpo e la mente sono posti in una relazione reciproca e nei confronti di un terzo agente, l’ambiente. Ciò che emerge da questi nuovi approcci è la necessità di un lavoro interdisciplinare, nel quale il paziente venga preso in carico nella sua interezza, in un’ ottica di cura alla persona e non della malattia (Brunnhuber S. & Michalsen A., 2012; Herrmann-L Sargent, P.A. et al., 2012; Santagostino, 2005; Scogliamiglio, 2008).

 

Psicoterapia e pregiudizio occidentale: pillole per il corpo e parole per la mente

A causa del “pregiudizio occidentale”, l’ambito di indagine della psiché ha imboccato due percorsi separati: quello biologico (neurologia e psichiatria) e quello psicologico (psicologia e psicoterapia), creando la distinzione tra le “malattie del cervello” e i “disturbi della mente”. Si è strutturata, così, anche una divisione dell’iter diagnostico e dell’approccio terapeutico; secondo questa visione dicotomica i disturbi della mente devono essere trattati con la psicoterapia, mentre per le “malattie del cervello” vengono utilizzati gli psicofarmaci (Andreasen, N.C., 2004).
In sostanza, vige la credenza secondo la quale il cervello si cura con i farmaci, mentre la mente si cura con le parole, perché queste non hanno effetti sul corpo. In relazione a ciò, nel senso comune si è venuta a formare l’idea che dallo psicoterapeuta “si facciano delle chiacchiere”, e che le figure professionali dello psicologo e dello psicoterapeuta siano serenamente intercambiabili, se non addirittura sostituibili con figure professionali non adeguatamente formate come il counselor, il life-coach e il trainer o il migliore amico.

Dualismo mente-corpo: è davvero così?

Sigmund Freud, nel suo Progetto di una psicologia (1895), ha scritto:

[blockquote style=”1″]Un giorno sarà possibile rappresentare il funzionamento psichico negli elementi organici del Sistema Nervoso.[/blockquote] (Kandel, E.R., 1998).

Oggi, gli studi dimostrano che quell’auspicio si sta avverando.
Le ricerche degli ultimi anni stabiliscono con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello, producendo al suo interno modifiche chimiche del tutto simili a quelle apportate dai farmaci (Frewen, P.A. et al., 2008).
Quindi, questa “terapia della parola” non solo cambia il comportamento, ma è anche in grado di rinnovare i processi di pensiero e, dunque, di mutare i circuiti neurobiologici del cervello (Gabbard, G.O., 2000).

Integrazione mente-corpo: come accade?

Le percezioni, la memoria, i pensieri, le emozioni e i comportamenti sono gestiti da determinati circuiti neuronali. Ogni disturbo cognitivo deriva da un’alterazione della struttura o della funzionalità di queste reti. Il cervello è un organo plastico, capace di modificarsi nel momento in cui l’individuo riflette, apprende e memorizza, ed è in grado di generare, regolare o modificare le funzioni indispensabili per la vita, sia da un punto di vista biologico che sociale (Dolan R.J., 2002; Squire, L. & Kandel, E.R. 2003; Straube T. et al.,2006).
La psicoterapia promuove l’apprendimento di modi alternativi di pensare e comportarsi, ovvero altera la forza delle sinapsi tra i neuroni, portando, quindi, a dei veri e propri cambiamenti morfologici nei neuroni stessi.
Alla luce di queste conoscenze, in campo scientifico si sta già da tempo gradualmente correggendo la dicotomia culturale di partenza, che prevede una rigida distinzione tra i disturbi neurologici, psichiatrici e psicologici, accogliendo un approccio integrato e interdisciplinare (Manna V., 2008).

 

Psicoterapia: come agisce?

Lo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale divide la terapia principalmente in due fasi, in un primo momento raccoglie informazioni personali, familiari e sull’evoluzione del disturbo per il quale la persona ha richiesto assistenza, inoltre, osserva gli schemi di pensiero e di comportamento, lo stile relazionale e la modalità in cui esprime le emozioni. In un secondo momento si apre la fase dell’intervento terapeutico vero e proprio, i cui obiettivi sono concordati esplicitamente con il paziente sulla base delle richieste fatte, e vengono perseguiti con un coinvolgimento attivo da parte di entrambi, applicando tecniche specifiche, che il professionista può conoscere e padroneggiare solo in seguito ad anni di studi e praticantato. Il fine di una corretta psicoterapia non è quello di modificare l’intera struttura di personalità dell’individuo, bensì stimolare l’apprendimento di pensieri e comportamenti più funzionali, ovvero che non generino sofferenza e disadattamento sociale.

 

Psicofarmaci: coadiuvanti della psicoterapia, non sostitutivi

La psicoterapia modifica il cervello, quindi non è meno “biologica” rispetto alla terapia farmacologica. Ciò non significa che la terapia con i farmaci, non sia uno strumento necessario nel processo di trattamento dei pazienti con maggiore disagio. Tuttavia, gli psicofarmaci tendono ad essere prescritti anche quando non necessari, oppure vengono utilizzati in modo sostitutivo della psicoterapia. Questo accade anche quando le evidenze ci insegnano che la psicoterapia, o la terapia associata se necessario, hanno risultati superiori rispetto all’utilizzo esclusivo della terapia farmacologica (DeRubeis, R.J. et al., 2008; Hirvonen, J. et al, 2010; Hollon, S.D., et al., 2005; Praško, J. et al., 2004).

Efficacia della Psicoterapia: che prove abbiamo?

La psicoterapia è efficace, in particolare, l’American Psychiatric Association (APA) ha stilato le linee guida internazionali sulla base di rigorose revisioni della letteratura scientifica, indicando la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) come la più indicata per la gran parte dei disturbi psicologici raccolti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), e la definisce più efficace della terapia psicofarmacologica sul lungo periodo (Evidence-Based Mental Health, 2003; Fonagy, P. et al., 2002; Michielin P. & Bettinardi O., 2004).

Più recentemente, i risultati di una ventina di studi hanno riscontrato che la CBT modifica la disfunzione dei circuiti neuronali correlati al disturbo psicopatologico trattato. I percorsi psicoterapici testati riguardano pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (Apostolova, I. et al., 2010; Baxter, L.R. et al., 1992; Lehto, S.M. et al., 2008; Nakao, T. et al., 2005; Schwartz, J.M. et al., 1996), disturbo depressivo maggiore (Brody A.L. et al., 2001; Goldapple, K. et al., 2004; Hirvonen, J. et al., 2010; Hollon, S.D. et al., 2005; Karlsson, H. et al., 2010), fobia sociale (Furmark, T. et al., 2002), fobia specifica (Johanson A. et al., 2006; Paquette V. et al., 2003; Straube, T. et al., 2006), disturbo da attacchi di panico (Sakai, Y. et al. 2006), schizofrenia (Penadés, R. et al., 2002), disturbo post-traumatico da stress (Felmingham K. et al., 2007; Levin, P. et al., 1999; Peres, J.F.P. et al., 2005), sindrome del colon irritabile (Lackner, J.M. et al., 2006) e disturbo borderline di personalità (Schnell, K. & Herpertz, S.C., 2007).

Gli effetti neurobiologici della psicoterapia possono essere misurati utilizzando metodi di neuroimaging funzionale, che sono visti come estremamente rilevanti sia per le neuroscienze sia per la psicologia, dal momento che possono gradualmente raggiungere una più precisa identificazione dei circuiti neurali associati a disturbi mentali specifici. Studi condotti utilizzando metodi come la tomografia a emissione di singolo fotone (SPECT), la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fRMI), forniscono un importante contributo, dal momento che le dinamiche cerebrali possono essere osservate in vivo e in situazioni controllate (Sargent, P.A., 2000).

 

Psicoterapia, mente e corpo: conclusioni

La concezione che la mente e il corpo siano entità separate è anacronistica e limitante nel campo della diagnosi e della cura del ventunesimo secolo. Oggi si presenta un’opportunità importante per la convergenza tra la medicina e la psicologia, attraverso le neuroscienze.
Ogni cambiamento nei nostri processi psicologici e cognitivi si riflette in variazioni strutturali e funzionali del cervello stesso.
Non si tratta di un sostegno al riduzionismo biologico, l’obiettivo non è certo provare che tutto quello che non si può misurare con strumenti di neuroimaging allora non ha valenza scientifica. Piuttosto, si vuole dire che grazie ai suddetti progressi tecnologici e all’incremento delle conoscenze scientifiche, è possibile osservare come i pensieri e i loro correlati biologici si modificano all’unisono.

Inoltre, si è dimostrato come la psicoterapia cognitivo-comportamentale sia in grado di produrre tali cambiamenti, mutando la chimica celebrale al pari o più a lungo della terapia psicofarmacologica. Un numero sempre maggiore di neuroscienziati e di psicoterapeuti sta costruendo collegamenti sperimentali e concettuali tra questi due rami complementari e interdipendenti della conoscenza.
Quanto raccolto, infine, spezza le radici di quel pregiudizio ancora troppo presente nel senso comune, che tuttora continua a fraintendere l’efficacia e la natura stessa della psicoterapia.

Il legame tra carenza di esercizio fisico e abuso di alcol

 

Da una ricerca su larga scala riguardante uomini e donne afro-americani è emerso che coloro i quali non si dedicano mai all’esercizio fisico, o di rado, hanno circa il doppio delle probabilità di abuso di alcol rispetto a quelli che si allenano con maggiore frequenza.

Tale scoperta potrebbe avere implicazioni su tutti i gruppi sociali. In particolare, dall’indagine, condotta su 5002 uomini e donne afro-americani, è emerso che quelli che non si impegnano per niente in attività fisiche, o solo occasionalmente, hanno una probabilità quasi doppia – tra l’84 e l’88 % in più – di abuso di alcol rispetto a coloro che regolarmente sono coinvolti in attività fisiche, tenendo in considerazione fattori demografici, come caratteristiche di reddito e di vicinato.

I partecipanti della ricerca appartengono alla National Survey of American Life (NSAL), uno studio che ha avuto luogo tra il 2001 e il 2003, diretto a identificare differenze razziali ed etniche nei disordini mentali e in altri disagi psicologici, compresi quelli inclusi nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Lo studio si è basato sulla definizione di abuso di alcol fornita dal DSM-IV, che lo descrive come quel:

‘bere’ che ha conseguenze sociali, professionali e/o giuridiche negative.

Le scoperte della ricerca sono state presentate all’incontro dell’American Public Health Association, tenutosi a Chicago il 2 novembre. April Joy Damian, dottorando nel Dipartimento di Salute Mentale della Scuola di Salute Pubblica Johns Hopkins Bloomberg e autore dello studio, ha affermato che sono state svolte ricerche sull’associazione tra uso di sostanze e relative condizioni di salute in comorbilità, come depressione e ansia, ma ci sono stati pochi studi che hanno esaminato la connessione tra esercizio fisico e il decremento della possibilità di sviluppare un disturbo da abuso di alcol.

Infatti – Damian ha detto – la NSAL ci fornisce semplicemente uno spaccato della situazione in un certo momento del tempo, ma non possiamo dire se impegnarsi nell’attività fisica impedisca lo sviluppo di un disturbo da abuso di alcol o se lo stesso disturbo possa essere trattato prescrivendo dell’attività fisica.

Ad ogni modo, considerando l’elevato tasso di co-occorrenza che il disturbo da abuso di alcol ha con depressione e ansia, il ricercatore asserisce l’importanza dello sviluppo di ulteriori studi a riguardo, sia su Afro-Americani sia su tutti gli altri gruppi etnici. Inoltre l’autore aggiunge:

Dovremmo considerare come l’esercizio fisico incida sui comportamenti alcol-relati e disegnare programmi di intervento per le persone a rischio.

Il Congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg, 20-22 novembre 2015 – report parte 2

L’ECED ha sempre avuto un atteggiamento ecumenico, non rimanendo chiusa ai trattamenti non cognitivi per i disturbi alimentari. 

Tra le cose che abbiamo seguito nel secondo giorno del congresso ci ha convinto un lavoro dello svizzero Dagmar Pauli sull’importanza del trattamento domiciliare per i disturbi alimentari gravi, quelli più restii alla cura e più invischiati nell’ambiente familiare o più danneggiati, mentre il norvegese Kjersti Hognes Berg ci ha aggiornato sull’utilità della fisioterapia per queste pazienti, non solo da un punto di vista fisico ma anche psicologico: la fisioterapia possiede anche un aspetto esperienziale e corporeo che incrementa il benessere in queste pazienti, pur non producendo miglioramenti sintomatici.

Barbara Pearlman ha illustrato come lei integra interventi neuroscientifici cognitivi e psicodinamici nella sua pratica clinica, secondo un modello che sembra dovere molto al lavoro di Peter Fonagy. Puramente psicodinamici invece i modelli della francese Florence Askenazy e della danese Susanne Lunn. Non è una sorpresa. L’ECED ha sempre avuto un atteggiamento ecumenico, non rimanendo chiusa ai trattamenti non cognitivi per i disturbi alimentari.

 

È stato anche un congresso dedicato alla trascurata figura del paziente con disturbo alimentare di sesso maschile. Ne hanno parlato sia lo spagnolo Fernandez-Aranda che le norvegesi Lynn Reas e Stedal. Timea Krizbai dalla Romania ha parlato di ortoressia, questo nuovo disturbo alimentare caratterizzato dall’ossessione di mangiare sano. Krizbai ci ha spiegato che le persone con Ortoressia Nervosa, infatti, mettono in atto dei veri e propri rituali ossessivi, che possono essere suddivisi in 4 fasi (Brytek-Matera, 2012):

1 – forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare, con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi (ad es., cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o ‘artificiali’, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale);

2 – impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;

3 – preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (ad es., cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);

4 – sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

 

Molto interessante la tedesca Elisabeth Kohls che ha dimostrato come una buona ed equilibrata alimentazione prevenga non solo l’anoressia ma anche la depressione. L’australiana Charlotte Keating ha esplorato l’attaccamento insicuro nei disturbi alimentari.

Nel dibattito finale, un must dell’ECED, si sono scontrate l’olandese Isis Elzakkers e la finlandese Anna Keski-Rakhonen, la prima difendendo la bontà della necessità di trattamenti evidence based in nome del rigore scientifico, la seconda attaccandoli nel nome della creatività clinica. L’olandese aveva sostenuto che è difficile difendere una posizione anti evidence in un congresso psicologico psichiatrico e psicoterapeutico di questi tempi, ma certo il ridotto successo del protocollo di Fairburn nelle anoressiche restrittive o binge purge, ha provocato un certo scetticismo, una certa tendenza a essere disillusi sull’efficacia, e invece di arricchire e tentare di comprendere meglio il funzionamento di queste pazienti, si è visto qualche tentativo di ricorrere di nuovo alla necessità del simbolico, dell’interpretativo.

A nostro giudizio molto c’è ancora da fare nel mondo della ricerca sui disturbi alimentari per integrare le conoscenze che provengono dai diversi campi e per arrivare a un modello più fine, esaustivo e preciso del funzionamento di queste pazienti. Basti pensare al ruolo dei processi, come il rimuginio e la ruminazione, ancora del tutto trascurati nelle ipotesi di intervento clinico e psicoterapeutico. Solo questa può essere una premessa a una nuova corrente di ricerca di efficacia psicoterapeutica basata su ipotesi nuove.

Il congresso si è concluso nella consueta atmosfera amichevole e familiare che lo connota da sempre. Arrivederci tra due anni.

Il trauma nel racconto dei rifugiati: la terapia dell’esposizione narrativa (NET)

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014).

[blockquote style=”1″]Quando un essere umano infligge un dolore o un danno ad un altro essere umano, ne deriva una lacerazione a livello umano e personale. Il trauma distrugge il nucleo di umanità caratteristico di ogni contesto sociale: la comunicazione, la parola, la memoria autobiografica, la dignità, la pace e la libertà.[/blockquote]

In questi anni stiamo assistendo ad un planetario fenomeno migratorio, fatto di intere popolazioni in fuga dalla propria terra. Guerre, persecuzioni, disastri naturali, estrema povertà, genocidi e discriminazioni politiche e religiose, alimentano flussi migratori di popolazioni di rifugiati che legittimamente cercano un luogo più sicuro in cui vivere, in cui costruire un futuro e proteggere le proprie famiglie. Questa ricerca di libertà e dignità nasce dall’aver vissuto situazioni gravemente traumatiche nella terra d’origine, ma spesso incontra sulla via di fuga situazioni di ulteriore minaccia alla vita: torture e umiliazioni, lutti e violenze che non trovano rapidamente una soluzione di protezione, ma che vengono al contrario reiterati, lasciando poco spazio alla possibilità di difesa delle vittime.

Che caratteristiche ha la violenza organizzata? Questo tipo di fenomeni ha alla base una strategia sistematica messa in atto da membri di gruppi con struttura centralizzata o con orientamento politico (unità di polizia, organizzazioni ribelli, organizzazioni terroristiche, paramilitari e unità militari). E’ indirizzata agli individui e ai gruppi con differenti orientamenti politici o di diversa nazionalità o che provengono da specifici background culturali, etnici e razziali. La violenza organizzata è caratterizzata dalla sistematica violazione dei diritti umani e le conseguenze si estendono, vaste, nel futuro di una società.

Cosa succede nella mente di chi vive questi traumi? Sentirsi impotenti di fronte a gravi minacce alla propria vita o incolumità fisica è una situazione che la mente umana non può tollerare a lungo e che genera l’innesco di strategie di sopravvivenza che rischiano di rimanere attive anche molto tempo dopo il superamento del pericolo: stati di allerta persistenti, flash back, reazioni intense di collera e reazioni sproporzionate anche a stimoli ambientali di lieve pericolo e minaccia. La cronicizzazione di queste reazioni è responsabile dello sviluppo di disturbo da stress post-traumatico e di PTSD complesso, situazioni cliniche che se prolungate nel tempo aumentano la probabilità di compromettere la salute fisica e mentale delle vittime nell’arco di vita: depressione maggiore (48%), fobie specifiche (30%), abuso di alcol (51,9%), abuso di droghe (34,5%), disturbi della condotta (43,3%); a queste si aggiungono sul piano della salute generale una maggiore incidenza di malattie autoimmuni, infezioni croniche e un’alterata sensibilità al dolore che può manifestarsi con sindromi da dolore cronico molto invalidanti nella vita quotidiana.

Questi dati ci pongono di fronte dunque alla necessità di pensare strategie di intervento multilivello sulle situazioni di emergenza generate dai fenomeni migratori, che tengano conto sia delle necessità a breve termine legate all’accoglienza dei bisogni primari e all’offerta di protezione, sia di quelle a più lungo termine rispetto all’emergere di difficoltà di integrazione, sofferenza psicologica e malattie mediche legati agli esiti emotivi degli eventi traumatici affrontati prima, durante e dopo il viaggio migratorio. L’emergere di situazioni psicopatologiche è in molti casi immediato e richiederebbe un intervento psicologico tempestivo, ma più spesso la sofferenza psicologica trova spazio proprio quando il pericolo è passato e la vita potrebbe iniziare a scorrere di nuovo normalmente. Quali interventi sono disponibili?

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014). Questo metodo terapeutico offre un protocollo breve per intervenire sulle situazioni sopra descritte e che utilizza la narrazione degli eventi traumatici come strumento terapeutico per ottenere un duplice risultato clinico: ridurre sintomi trauma-correlati e offrire la possibilità di una ricostruzione coerente della propria storia, che possa essere utile a recuperare dignità personale e consapevolezza della violazione dei diritti umani subita. Il trauma infatti rende la memoria frammentata e questo rischia di alterare i ricordi o la loro precisa collocazione nel tempo, generando inevitabile confusione nella vittima, dubbi sulla veridicità degli eventi e sulle responsabilità degli stessi, elementi che sul piano clinico possono mantenere e peggiorare il malessere psicologico.

Nella NET il paziente parla ripetutamente di ogni evento traumatico in dettaglio, mentre fa di nuovo esperienza delle emozioni, delle cognizioni, delle sensazioni fisiologiche e sensoriali e dei comportamenti associati all’evento. Allo stesso modo il paziente racconta le esperienze positive. Con l’aiuto e la guida del terapeuta, il paziente costruisce una narrazione della sua vita, focalizzandosi sui dettagli del contesto relativi alle esperienze traumatiche, così come sugli elementi importanti delle reti emozionali e su come tutte queste parti siano tra loro connesse. Il processo narrativo permette di riconoscere che la rete della memoria incentrata sulla paura, che nel presente provoca i sintomi allerta, viene da esperienze passate e che la sua riattivazione nel racconto è nient’altro che un ricordo di quelle esperienze. Attraverso la narrazione ripetuta i pazienti perdono la risposta emotiva al ricordo degli eventi traumatici, il che porta alla lenta remissione dei sintomi post-traumatici. Allo stesso tempo guadagnano l’accesso ai ricordi passati e sviluppano un senso di coerenza, controllo e integrazione.

Di seguito gli elementi della NET risultati efficaci nel trattamento del trauma e ben descritti nel libro:
1. Ricostruzione cronologica attiva della memoria autobiografica/episodica;
2. Esposizione prolungata ai “punti caldi” della memoria e piena riattivazione dei ricordi dolorosi per modificare la rete emotiva attraverso il racconto (es. imparare a distinguere memoria traumatica dalla sua risposta emotiva condizionata, separare piani temporali, comprendere che gli stimoli sono solo temporaneamente associati alla sofferenza attuale);
3. Associazione significativa e integrazione delle risposte fisiologiche, sensoriali, cognitive ed emotive all’ interno del proprio contesto di vita spazio-temporale (es. comprensione del contesto originario di acquisizione e del riemergere delle risposte condizionate nel corso della vita);
4. Rivalutazione cognitiva del comportamento (es. distorsioni cognitive, pensieri automatici, credenze, risposte);
5. Rivisitazione delle esperienze di vita positive per un supporto (mentale) e per aggiustare le assunzioni di base su di sé e sulla propria storia;
6. Recupero della dignità personale attraverso la soddisfazione del bisogno di riconoscimento, attraverso l’orientamento sui diritti umani alla “testimonianza”.

Attraverso una disamina delle ricerche epidemiologiche sul tema dei traumi collettivi e un’analisi attenta delle basi culturali, psicologiche e neurofisiologiche che determinano e mantengono situazioni di sofferenza psicologica, il manuale offre una guida semplice e chiara sul protocollo terapeutico della NET. La descrizione della procedura per fasi e la presenza di molti esempi clinici, rende il testo di Schauer e colleghi un validissimo riferimento per gli operatori e i terapeuti che lavorano con rifugiati o con pazienti sopravvissuti a violenze organizzate di diverso tipo.

Fermare il complotto del silenzio che spesso domina le vite dei sopravvissuti a traumi collettivi è l’obiettivo più alto di questo approccio, sopportare il peso e il dolore della verità è invece la sfida che questo metodo impone ai clinici e a tutti coloro che quotidianamente si occupano di storie di violazione dei diritti umani.

The Flow esperience: la prestazione che genera gratificazione e positività

Csikszentmihalyi (1975) ha concettualizzato il termine flow come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che corrisponde alla “completa immersione nel compito”.

[blockquote style=”1″]The best moments in our lives are not the passive, receptive, relaxing times… The best moments usually occur if a person’s body or mind is stretched to its limits in a voluntary effort to accomplish something difficult and worthwhile.[/blockquote]
Mihaly Csikszentmihalyi (1990).

[blockquote style=”1″]I momenti migliori della nostra vita non sono tempi passivi, ricettivi, rilassanti… I momenti migliori di solito si verificano se il corpo e la mente di una persona sono spinti ai loro limiti nello sforzo volontario di realizzare qualcosa di difficile e per cui ne valga la pena.[/blockquote]

Il concetto di flow è stato introdotto per la prima volta da Csikszentmihalyi (1975), uno psicologo americano che, a partire dagli anni ’70, ha svolto una serie di ricerche sul “flusso di coscienza” come fenomeno riscontrabile in determinate condizioni di operatività. L’attenzione per questo fenomeno nasce da uno studio effettuato sulla creatività (Getzels & Csikszentmihalyi, 1976), dove l’autore è rimasto colpito dal fatto che quando l’artista in questione reputava che la creazione del suo quadro stesse andando bene, egli persisteva nel lavoro senza sosta, ignorando fame, fatica e disagio. Da qui l’interesse a capire e spiegare questo aspetto di motivazione intrinseca, o autotelica, dell’attività stessa, dello svolgere lavori che premiano da sé e per sé, a prescindere dal prodotto finale o da eventuali rinforzi estrinseci. In questo studio si sottolineava il godimento quale motivazione principale all’operosità.

the flow experience

Csikszentmihalyi (1975) ha così concettualizzato il termine flow come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che corrisponde alla “completa immersione nel compito”. La situazione che rende possibile entrare a contatto con questo stato di essere è caratterizzata dalla percezione, da parte dell’individuo, di sufficienti e appropriate opportunità per l’azione (sfide) da parte dell’ambiente e, corrispettivamente, di personali adeguate capacità di agirvi (abilità). Entrare nel flusso dipende, quindi, dall’equilibrio tra queste due componenti, valutate soggettivamente.

Nel caso il soggetto consideri le sfide al di là delle proprie capacità, entrerà in uno stato dapprima di vigilanza e poi di ansia; nel caso contrario, passerà dal rilassamento alla noia. Quando invece percepirà armonia tra i livelli di sfide e abilità, allora potrà esperire la flow experience, l’esperienza ottimale (Figura 1), sperimentando il pieno assorbimento in un’esperienza che coinvolge l’individuo globalmente, concentrando nel compito aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali. La totale armonia con quello che si sta facendo non solo porta al godimento puro, ma offre la possibilità di accrescere le proprie capacità, mettendosi in gioco, testando e imparando nuove competenze, e la propria autostima (Csikszentmihalyi e LeFevre, 1989). L’esperienza ottimale attiva il flusso dinamico di energia mentale che attiva risorse e potenzialità dell’individuo.

Sono stati svolti diversi studi che confermano l’occasione di vivere la flow experience in diversi campi, ad esempio nell’arte e nella scienza (Csikszentmihalyi, 1996), nell’esperienza estetica (Csikszentmihalyi e Robinson, 1990), nello sport (Jackson, 1995) o nella scrittura letteraria (Perry, 1999). È comunque possibile ritrovare esperienze ottimali in altri ambiti comuni e quotidiani, essendo questa relativa a valutazioni soggettive e, quindi, a caratteristiche personali di approccio all’ambiente, dipendenti anche dal contesto culturale in cui si trova la persona. A tal proposito, Csikszentmihalyi (2000) ha ipotizzato l’esistenza di un tipo di personalità autotelica, caratterizzata dalla tendenza a “godersi la vita”, ovvero a fare le cose per se stesse, e da alcune capacità metacognitive, quali ad esempio la curiosità e la disposizione a prestare attenzione a ciò che accade nell’immediato, che portano a ricercare e cogliere le occasioni intrinsecamente appaganti.

Sono stati poi delineati i fattori, in stretta correlazione tra loro, che costituiscono la flow experience (Nakamura e Csikszentmihalyi, 2002):
– bilanciamento tra sfida e abilità: senso che l’individuo si sta impegnando in qualcosa di appropriato per le proprie capacità;
– fusione tra azione e consapevolezza;
– senso di controllo, sia delle proprie azioni, sia delle conseguenze di esse;
– obiettivi prossimali chiari e feedback immediato che permettono lo svolgersi continuo del processo, momento per momento;
– attenzione e concentrazione totale sul compito;
– perdita dello stato di autocoscienza ordinario, perdita, cioè, della concezione egocentrica di sé come attore tanto è l’assorbimento nel compito;
– distorsione della normale percezione temporale (tipicamente sembra che il tempo passi più in fretta);
– gratificazione legata all’esperienza stessa e profondo senso di piacere (Deci, 1975), tali che spesso la meta finale è solo una scusa per iniziare il compito (esperienza autotelica).

Quando è nel flusso, l’individuo funziona a pieno delle sue capacità. Imparare a cogliere e sfruttare opportunità di esperienze ottimali porta quindi numerosi vantaggi, quali l’attivazione e lo sviluppo di capacità personali e l’assaporare uno stato di benessere collegato a forti emozioni positive e a un senso positivo di autostima e autoefficacia. Aggiungendo, per ultimo ma non meno importante, il peculiare contributo nel dotare di valore l’esperienza momentanea che si sta vivendo.

Stress genitoriale come fattore di rischio nel maltrattamento fisico dei bambini

Claudia Rizza – Open school Studi Cognitivi Modena 

Il maltrattamento fisico sui bambini è un fenomeno sfaccettato: tra i diversi fattori di rischio, uno dei principali fenomeni direttamente associati alla violenza fisica è il parenting stress inteso come una specifica forma di stress percepito dai genitori in base alle responsabilità del proprio ruolo.

 

Per maltrattamento fisico si intende “un danno (fisico) non accidentale che è il risultato di atti (o omissioni) da parte dei caregivers i quali violano gli standard comuni riguardanti il trattamento dei bambini” (Kempe & Helfer, 1972).

Prendendo in esame la definizione di Kempe et al., (1972) emerge che, per poter parlare di maltrattamento, è necessario che i caregivers di riferimento mettano in atto intenzionalmente agiti aggressivi e violenti tali da procurare ai bambini un danno fisico significativo e in grado di violare le norme comunitarie di trattamento (come, ad esempio, la Convenzione sui diritti del fanciullo – ONU,1989). E’ interessante notare che nel concetto di maltrattamento fisico rientrano non solo gli atti effettivamente commessi, ma anche tutti quei comportamenti che non vengono agiti direttamente dai caregivers (omissioni). Come sottolineato da Di Blasio (2002), anche la mancata prevenzione di comportamenti potenzialmente pericolosi per i figli può essere considerata una forma di maltrattamento fisico e, proprio la propensione di alcuni genitori a maltrattare, ha permesso alle ricerche di non focalizzarsi soltanto sull’accertamento del danno ma anche sulla modalità di prevenzione e sulla comprensione di tutti quei fattori che possono, in qualche modo, determinare l’azione maltrattante (Milner, 1993).

A partire dalla complessità della definizione, si può facilmente comprendere come il maltrattamento fisico sui bambini sia un fenomeno sfaccettato: infatti, malgrado si stiano facendo numerosi sforzi per salvaguardarne il benessere e per proteggere i bambini dai potenziali pericoli, esistono una vasta gamma di fattori di rischio (ambientali, sociali e psicologici) che in maniera sinergica, contribuiscono ad incrementare la propensione dei genitori ed esercitare azioni maltrattanti verso i propri figli (Dopke & Milner, 2000).

Tra i diversi fattori di rischio, uno dei principali fenomeni direttamente associati alla violenza fisica è il parenting stress inteso come una specifica forma di stress che viene percepita dai genitori in base alle responsabilità e all’assunzione del proprio ruolo (Abidin, 1995; Abidin, Jenkins, & McGaughey, 1992 Azar, Robinson, Hekimian, & Twentyman, 1984; Chan, 1994; Milner, 1993; Rodriguez & Green, 1997; Wolfe, 1987). Per poter meglio comprendere questa particolare forma di stress è necessario prestare attenzione alle sue tre componenti (Abidin,1995):

  • Il distress genitoriale, che fa riferimento alla percezione dei genitori di avere scarse capacità parentali, alla mancanza di libertà personale, alla restrizione in alcuni aspetti della vita genitoriale, alla mancanza di sostegno sociale e alla presenza, talvolta, di vissuti depressivi (Abidin, 1995; Abidin, et.al, 1992; Deater-Deckard & Scarr, 1996);
  • La relazione disfunzionale genitore-figlio, che si riferisce alle percezioni e ai sentimenti che il genitore nutre nei confronti dei figli. Essa dipende dal grado di soddisfacimento ottenuto dalla qualità della relazione con il bambino e dalla relativa gratificazione percepita in relazione al ruolo genitoriale (Abidin et al, 1992; Vondra & Belsky, 1993). La percezione dei genitori di avere una relazione deludente con i figli è strettamente associata a sentimenti di angoscia e alla presenza di sintomi d’ansia e di depressione (Vondra & Belsky, 1993).
  • La percezione di avere un bambino difficile da gestire si riferisce alla percezione distorta dei genitori di avere dei figli con caratteristiche temperamentali e comportamentali difficili (Abidin, 1995). Questa tipologia di bambini vengono spesso descritti come molto irritabili, difficili da contenere e poco sensibili al rispetto delle regole (Owens & Shaw, 2003). In linea con quanto affermato, alcune ricerche (Bradley & Peters, 1991; Dadds, Mullins, McAllister, & Atkinson, 2002; Larrance & Twentyman, 1983) hanno evidenziato come le madri fisicamente maltrattanti siano più propense ad attribuire i comportamenti negativi del proprio bambino a caratteristiche interne e, viceversa, a fattori esterni i comportamenti positivi. A sostegno di ciò, uno studio condotto da Chilamkurti e Milner (1993) ha evidenziato come le madri ad alto rischio di maltrattamento valutino più frequentemente il comportamento del bambino come errato e, tale valutazione distorta, incrementa la loro percezione di avere un figlio difficile da gestire (Larrance & Twentyman, 1983; Milner, 2000). Al contrario, le madri non maltrattanti utilizzano attribuzioni esterne per spiegare sia comportamenti negativi sia positivi sia ambigui (Dadds at al., 2002).

Dalla letteratura emerge quindi che, il principale agente psicologico capace sia di incrementare il livello di stress parentale, sia di aumentare l’utilizzo di strategie fisicamente maltrattanti a danno dei bambini, è la combinazione tra relazione disfunzionale presente tra genitori e figli e la percezione di avere un bambino difficile da gestire (Abidin, 1983; Milner, 1986,1993). Spesso accade che le difficoltà all’interno della relazione diadica genitore-figlio siano originate da situazioni valutate come particolarmente stressanti e, proprio i meccanismi cognitivi, sembrerebbero essere determinanti nella comprensione della propensione di alcuni genitori a maltrattare i propri figli (Milner, 1986, 2003).

I genitori fisicamente maltrattanti sembrano essere caratterizzati da specifici deficit dei processi cognitivi e dal modo con cui questi vengono utilizzati per attribuire significato ai comportamenti dei figli. Ciò accade perché i caregivers ritengono che, ogni singolo comportamento dei bambini (percepito come fastidioso o sbagliato) sia agito allo scopo di indebolire il ruolo parentale (Milner, 2003). Questa percezione (distorta) deriva principalmente dalla presenza degli schemi cognitivi pre-esistenti, dai processi cognitivi implicati nella percezione, interpretazione e valutazione del comportamento e, infine, dalla modalità con cui gli individui eseguono la risposta (Milner, 1993, 1995, 2000, 2003).

Gli schemi cognitivi pre-esistenti sono strutture mentali che esistono a priori nel soggetto e che hanno il compito di processare le nuove informazioni. In questo caso, i genitori, in base all’esperienza vissuta nel contesto di crescita, hanno sviluppato una serie di credenze e di valori globali (relativi ai bambini in generale) e specifici (relativi ai propri figli e alle proprie attività di parenting) e essi vengono utilizzati nelle pratiche di accudimento (Milner, 2003). Ciò significa che i genitori maltrattanti utilizzano gli schemi pre-esistenti come se fossero una guida pratica utilizzabile e facilmente accessibile sia durante la funzione educativa, sia nella costruzione di una relazione effettiva con i bambini (Milner, 2003).

Gli schemi cognitivi, inoltre, sono caratterizzati da una componente cognitiva e da una emotiva: la prima dimensione consente all’individuo di comprendere la natura dell’evento, che, percependo, interpretando e organizzando, immagazzina in memoria le informazioni provenienti dall’ambiente esterno; la seconda è rappresentata dall’insieme delle emozioni esperite durante gli eventi precedentemente vissuti e risulta essere associata alla credenze che i genitori possiedono circa l’evento (Milner, 2003).

Secondo Milner (2003), i genitori fisicamente maltrattanti, utilizzano gli schemi pre-esistenti come unica risposta alle richieste del bambino e, in questo modo, hanno la tendenza ad assumere una prospettiva rigida e limitata. In particolare, tali schemi, vengono utilizzati più frequentemente in situazioni in cui i genitori sperimentano alti livelli di stress o quando si trovano in situazioni problematiche o ambigue con i loro bambini. Inoltre, i genitori maltrattanti, rispetto ai non maltrattanti, si mostrano meno attenti e consapevoli dell’effettivo comportamento dei figli e, più specificatamente, non riescono (o falliscono) a decodificare le informazioni relative al loro comportamento. Questi tipologia di genitori utilizzano più frequentemente una sorta di ‘attenzione selettiva’ e considerano soltanto i comportamenti inappropriati dei figli piuttosto che quelli ‘corretti’ perchè i primi risultano più conformi alle loro aspettative e non devono operare alcuno sforzo cognitivo per modificare i propri schemi pre-esistenti (Milner, 2003). La causa di tali distorsioni di interpretazione dei messaggi comunicativi non sembra essere legata alla disattenzione ma, piuttosto, ad una imprecisione nella codifica e nella detenzione degli indizi durante l’interpretazione delle informazioni ambientali (Milner, 2003).

Milner (2003), inoltre, suggerisce che genitori ad alto rischio di maltrattamento falliscano nell’interpretazione e nell’integrazione delle informazioni riguardanti i figli. Più precisamente, nel momento in cui un bambino trasgredisce ad una regola, il genitore ad alto rischio di maltrattamento utilizza meno le informazioni attenuanti capaci di ridurre la responsabilità dei bambini e propende maggiormente per l’accettazione del comportamento negativo, proprio a causa delle difficoltà relative alla selezione e all’integrazione delle informazioni. Se la situazione è influenzata da alti livelli di stress parentale, diminuisce ancora di più la probabilità che i genitori usino le informazioni attenuanti e sono favorite le strategie punitive e maltrattanti.

Il processo con cui i genitori maltrattanti valutano le risposte corrisponde ad una selezione distorta causata in parte dall’utilizzo degli schemi pre-esistenti e variano in base allo stile genitoriale. Questa rigidità nella risposta rende molto difficile l’interpretazione realistica dei comportamenti dei propri figli e ancora più difficile il cambiamento del comportamento parentale già tendente al maltrattamento. I genitori ad alto rischio di maltrattamento fisico soffrono, quindi, di una mancanza nelle abilità di gestione delle pratiche di cura e nella capacità di rispondere in maniera adeguata alle richieste loro rivolte e, in casi come questi, il parenting stress funge da amplificatore e sembra essere determinate negli agiti potenzialmente pericolosi e maltrattanti a danno dei bambini (Milner, 2003).

cancel