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Stai alla frutta? #VoltaPagina – il 3° Video

11,2 milioni di italiani assumono psicofarmaci.

Chi va dallo psicologo è matto?

#VoltaPagina

 

Se hai un problema emotivo, una disarmonia in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella vita sociale, rivolgiti a uno psicologo.

Lo psicologo è un professionista con una laurea specifica, che ha superato un Esame di Stato ed è iscritto a un Albo pubblico che ne certifica la formazione e la preparazione ad affrontare esattamente quei problemi emotivi, psicofisici, ma anche sociali e organizzativi entro cui si genera il tuo stato di malessere.

Non affidarti a chi non ha la giusta competenza per aiutarti. Psicologi e Psicoterapeuti sono i professionisti adeguati e formati appositamente per venirti in aiuto.

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#VoltaPagina

 

Lo psicologo non si occupa solo di salute mentale, ma di molte altre cose: visita il sito dell’Ordine Psicologi Lazio ( www.ordinepsicologilazio.it ), ideatore di questa campagna di sensibilizzazione #voltapagina

Ordine Psicologi Lazio è anche su Facebook: https://www.facebook.com/ordinepsicologilazio/

Seguire il cuore o la ragione nella scelta del lavoro? Il ruolo di abilità e vocazione

La vocazione paga più della precisione tecnica e dei riconoscimenti provenienti dall’esterno. E non solo: la vocazione influisce sui processi cognitivi spingendo l’individuo ad attribuire priorità alle proprie valutazioni, mettendo in secondo piano le informazioni provenienti dal mondo esterno.

[blockquote style=”1″]L’unico modo per fare qualcosa di grande è amare ciò che fai[/blockquote] diceva Steve Jobs.

In un momento storico in cui la ricerca di lavoro sembra costituire un momento difficile per la maggior parte dei giovani sorge spontaneo un interrogativo: inseguire i propri sogni può essere una strategia vincente nella ricerca di un’occupazione? O è più saggio mettere in secondo piano la passione e ambire ad una posizione relativamente stabile e ben retribuita? Idealmente, non avremmo dubbi nell’affermare che la soluzione auspicabile sia un incontro tra questi due aspetti, ma in un contesto di precarietà e incertezza lavorativa le possibilità di trovare un impiego che ci appassioni e ci appaghi, garantendo al tempo stesso buone entrate e sicurezza sembrano scarse. Ci si trova a dover fare una scelta: seguire il cuore o la ragione?

I ricercatori dell’Università di Tel Aviv hanno recentemente indagato questi temi, chiedendosi quanto la presenza di una forte motivazione intrinseca nella scelta del percorso formativo e occupazionale influisca, a distanza di anni, sulla probabilità di trovare effettivamente lavoro nel settore desiderato. E lo hanno fatto scegliendo un settore in cui la conciliazione tra motivazioni intrinseche ed estrinseche sembra particolarmente rara: la carriera musicale.

In uno studio longitudinale della durata di undici anni, 450 ragazzi nella fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, tutti musicisti amatoriali al momento della prima valutazione, sono stati contattati cinque volte e monitorati rispetto alla motivazione, alle abilità e ai progressi di carriera. In particolare, la motivazione intrinseca è stata valutata nei termini di vocazione e misurata con un questionario composto da affermazioni del tipo ‘La mia esistenza sarebbe molto meno significativa senza il mio coinvolgimento nella musica’ oppure ‘In qualche modo, ho sempre in mente la musica’. Le abilità musicali dei partecipanti sono state valutate sia nei termini di abilità percepite dagli stessi, sia come competenze valutate da giudici esperti che hanno esaminato abilità di natura tecnica e performance dei singoli ragazzi. I successi di carriera, invece, sono stati valutati in base al titolo di studio ottenuto e all’occupazione nel settore, considerando come professionale sia le esibizioni e le composizioni, sia l’attività di insegnamento. Sono inoltre stati considerati i premi vinti e i risultati ottenuti nel corso delle audizioni: un musicista di successo deve saper stare sul palco ed esibirsi davanti ad un pubblico.

I risultati della ricerca hanno evidenziato alcuni dati interessanti. Innanzitutto, la vocazione che i ragazzi hanno riferito nel corso della prima valutazione, ad un’età media di 17 anni, è risultata connessa al raggiungimento di obiettivi lavorativi in ambito musicale nel corso della fase conclusiva dello studio. Si noti tuttavia che a mediare tra questi due aspetti sembra essere, secondo quanto riportato dagli autori, l’abilità percepita dai partecipanti. In altri termini, i ragazzi con una vocazione più forte per la musica nel corso dell’adolescenza si sono autovalutati in termini più positivi in età giovanile e, nel corso del tempo, hanno effettivamente avuto più successo.

È interessante notare che alla migliore percezione di abilità non corrispondeva una migliore abilità oggettiva. Insomma, la vocazione paga più della precisione tecnica e dei riconoscimenti provenienti dall’esterno. E non solo: la vocazione influisce sui processi cognitivi spingendo l’individuo ad attribuire priorità alle proprie valutazioni, mettendo in secondo piano le informazioni provenienti dal mondo esterno. Questo spiegherebbe almeno in parte come mai, nonostante le scarse possibilità di successo, i musicisti con una forte vocazione continuino per la propria strada. Seguire il cuore, in fin dei conti, potrebbe essere una buona strategia per essere soddisfatti della propria vita lavorativa.

I neuroni specchio e l’area di Allah

La psicologia corre sempre più il rischio di essere ridotta ad ancella della neurologia. Ma i recenti tragici eventi di Parigi offrono lo spunto per un esperimento mentale utile a riconsiderare il ruolo dello psicologo nella società contemporanea.

Sembra di assistere in tempi recenti a una sistematica abdicazione della psicologia nei confronti delle neuroscienze. Ciò avviene sia nell’ambito della ricerca che in quello (strettamente collegato) dell’università. Per realizzare l’aspirazione di essere accolta a pieno titolo tra le scienze hard, la psicologia ha iniziato a dedicarsi sempre più a confrontare i risultati dei propri esperimenti sul piano della condotta o del comportamento con le variazioni di stato dei circuiti cerebrali. Si sta giungendo anche a valutare i risultati di una psicoterapia in funzione della possibilità di verificare mutamenti nel cervello. La psicologia, in altre parole, tende a identificarsi con la neuropsicologia.

I nuovi ricercatori e aspiranti tali sono a loro volta incoraggiati sempre più dal contesto a specializzarsi in temi neurologici, perché più paganti anche in termini di impact factor e h index (vocaboli esoterici che designano la capacità di far citare i propri lavori da altri). La selezione dei futuri docenti, infatti, lungi dal considerare aspetti come capacità di insegnare, conoscenza e/o esperienza di temi clinici, non esamina più nemmeno tanto il contenuto delle pubblicazioni quanto i fattori oggettivi (se la rivista dove hai pubblicato è ‘rankata’ x, vali x). I corsi di laurea tendono a riflettere questa tendenza, aumentando progressivamente il numero degli esami fondati su nozioni anatomiche più che psicologiche.

È lecito pensare che un buon 90% degli studenti di psicologia sarebbe interessato essenzialmente ad argomenti di carattere tecnico-pratico, utili alla futura professione. Viceversa, è probabile che, ovunque si iscriva, l’aspirante psicologo clinico trovi ad aspettarlo sempre più esami orientati verso argomenti di interesse, in ultima analisi, medico e biologico. Lo studente modello finirà per sapere tutto dei neuroni specchio e di come l’empatia sia, per così dire, oggettivamente osservabile nell’attivazione di certe aree corticali; senza ricavarne nulla nella capacità di stabilire un rapporto empatico con un paziente. Saprà tutto sull’amigdala ma non saprà distinguere l’ansia come stato dall’ansia come tratto.

L’invasione del prefisso neuro- è un fenomeno che non investe soltanto le discipline psicologiche. La possibilità di comprendere il mondo umano sulla base del funzionamento del cervello ha generato la neuropsicologia, la neuropsichiatria e persino la neuropsicoanalisi; ma anche una neurofilosofia, una neuroetica, una neuropolitica e così via. Persino chi si interessa di meditazione ha trovato opportuno tentare di identificare i cambiamenti che tale pratica induce sulla neocorteccia, per provarne l’efficacia. Manca all’appello forse solo una neuro-neurologia (cosa accade al cervello dei neuroscienziati mentre lavorano? proviamo a verificarlo con una risonanza magnetica!).

Absit iniuria verbis: nessuno mette in discussione qui che sia giusto e legittimo sviluppare la ricerca sul cervello e finanziare progetti che si fondano su fMRI, PET ed altri apparecchi le cui sigle misteriose evocano la facoltà finalmente acquisita di verificare l’attivazione dei neuroni. Tuttavia altrettanto legittimo sarebbe pretendere che la psicologia (come nel suo ambito la filosofia) torni ad essere utilizzata come strumento di analisi della condotta umana a prescindere dal sostrato cerebrale e recuperi la sua dignità ermeneutica, che sembra sempre più appannata, anche dal punto di vista della visibilità sui mezzi di comunicazione di massa.

Freud stesso, padre della psicoterapia, era un naturalista convinto ed era certo che un giorno si sarebbe potuto spiegare la psiche individuale in termini di sistemi neuronali (egli stesso provò a farlo, ovviamente senza successo, nel 1895). Era altrettanto certo, tuttavia, che la realtà psichica fosse comunque, appunto, un aspetto della realtà e che occuparsene fosse produttivo. Siamo così certi che il progresso delle neuroscienze abbia modificato così tanto il quadro della psicologia da rendere realmente prossimo ad avverarsi ciò che sognavano Freud e i primi psicologi scientifici, cioè che la comprensione della mente sia riducibile al suo funzionamento fisico?

Suggerirei di procedere con un piccolo esperimento mentale. Ci si chieda se oggi, di fronte alla tragedia appena occorsa a Parigi, sia più utile considerare le azioni dei jihadisti come frutto dell’elaborazione di cervelli o come il risultato delle azioni di individui, che abbiano sviluppato le loro motivazioni in particolari contesti sociali che dovremmo conoscere meglio. Sarà produttivo spiegare l’assenza apparente di dubbi da parte dei protagonisti, nel finire a bruciapelo gente già ferita, in termini di funzionamento (o mancato funzionamento) dei neuroni specchio? O sarà più sensato interpretare una simile condotta sulla base di un processo mentale di deumanizzazione del nemico, cercando di comprenderne i fattori? Porterà maggiori risultati chiedersi se esiste un’area di Allah nel cervello che inneschi determinati comportamenti o domandarsi quali siano le distorsioni cognitive del terrorista e come sia possibile disinnescarle (nel senso più letterale del termine, purtroppo)?

La possibilità che persone capaci di comportamenti adattivi siano anche disposti a porre termine alla propria vita facendosi saltare in aria, onde uccidere allo stesso tempo il maggior numero possibile di supposti nemici è qualcosa che sconvolge profondamente il nostro animo di occidentali. Noi siamo abituati a considerare preziosa la nostra esistenza presente, indipendentemente dalla convinzione di alcuni di noi che esista una vita dopo la morte. L’idea che altri siano convinti che il loro sacrificio costituisca un martirio e che doni loro l’accesso a un Paradiso popolato di un certo numero di vergini pronte a soddisfare i loro desideri per l’eternità non può costituire una spiegazione.

Sposta solo la domanda di una casella, facendoci chiedere come essi acquisiscano una tale convinzione (e se tale convinzione, peraltro, vacilli o meno, o venga rinforzata con ulteriori incentivi e di che tipo). Peraltro, si potrebbe affermare reciprocamente: come ci è incomprensibile la decisione di morire in modo violento se non per effetto della follia, altrettanto è lontana dalla nostra esperienza la precedente morte di tutta la nostra famiglia sotto un bombardamento oppure la vita in un contesto culturale che rifiuta integralmente le nostre convinzioni se non addirittura le ripugna. Si tratta invece di esperienze compiute almeno da alcuni dei jihadisti morti suicidi a Parigi o in altre occasioni meno mediatizzate.

Studiare la psicologia di questi uomini potrebbe essere un passo utile alla comprensione anche di una possibile strategia di reazione. Non è facile decidere a priori se sia opportuno tentare un dialogo con persone che apparentemente il dialogo non lo desiderano; né se un’intensificazione di attività militari contro il cosiddetto Califfato non costituisca, piuttosto che un efficace mezzo per dissuadere da nuovi attentati, un incentivo ad impegnarsi nella ‘guerra santa contro i crociati’.

In effetti la Psicologia dimostra spesso di poter offrire degli strumenti che non vengono poi di fatto utilizzati nel loro pieno potenziale euristico. Philip Zimbardo, per esempio, malgrado fosse già un personaggio universalmente riconosciuto per gli studi sul cosiddetto effetto Lucifero (Zimbardo, 2007), ha tentato invano di offrire la propria interpretazione dei fatti di Abu Ghraib. Si ricorderà della condanna inflitta ai soldati americani che infliggevano umiliazioni ai nemici catturati durante la guerra in Iraq. Zimbardo spiegò in modo del tutto convincente come fosse il contesto a guidare il comportamento di tali soldati, ma nessuno volle prendere in considerazione quanto egli sosteneva, trovandosi molto più comodo spiegare gli abusi come iniziativa dei singoli (Un resoconto della testimonianza di Philip Zimbardo è disponibile qui)

Al contrario, ascoltare Zimbardo avrebbe significato capire le azioni dei condannati, estendere la responsabilità alle gerarchie militari e prevenire eventuali successivi problemi consimili. Nel suo piccolo, chi scrive può ricordare di aver invano offerto con Alessandro Rossi, in tempi non sospetti (Innamorati e Rossi, 2004), tanto delle spiegazioni sui meccanismi del terrorismo nell’epoca di Internet (per ricordarne uno: il funzionamento del franchising del terrore di Al-Qaeda); quanto un esame dei meccanismi aggregativi offerti dalla rete a coloro che in passato erano stati lupi solitari; quanto delle indicazioni su siti che lasciavano comprendere collegamenti tra individui pericolosi (sulla base dell’analisi semiotica e psicologica dei testi presenti nei siti stessi). Scoprire in seguito il concreto e reale valore predittivo di molte ipotesi (a suo tempo assai poco considerate) non è stato per noi un motivo di grande soddisfazione.

Gestire la rabbia: “sfogarsi” o restare fermi finché l’emozione passa?

La rabbia è una delle emozioni di base, che ci segnala che qualcosa sta intralciando il nostro percorso verso un obiettivo importante. Davanti a un’esperienza di rabbia possiamo reagire in tanti modi diversi: alcune persone sono più propense a internalizzare, a tenere tutto dentro, altre cercano di non pensarci evitando l’oggetto della rabbia, altre la sfogano con parole o comportamenti, altre ancora continuano a pensare a quello che ha causato la rabbia, mantenendo contemporaneamente attiva l’emozione. 

Una volta che la rabbia si è attivata e noi vediamo rosso, possiamo evitare le persone che ci hanno fatto arrabbiare, possiamo cercare di discutere della cosa con calma o possiamo esprimere la rabbia verso la persona o la situazione che l’ha causata in modo impulsivo e liberatorio. Ci sfoghiamo. Qualcuno ci taglia la strada e noi suoniamo il clacson, il nostro collega fa un guaio e noi gli urliamo contro, il nostro partner dice una cosa di troppo e si becca la sfuriata.

Se da una parte è stato più volte mostrato come rimuginare in modo rabbioso e tenere il muso sia controproducente sia nella relazione che per la regolazione emotiva, siamo certi che sfogare la rabbia sia di aiuto? Il professor Brad Bushman dice a riguardo che [blockquote style=”1″]Non è detto che una cosa sia positiva solo perché ti fa stare bene. [/blockquote]

In sostanza, facciamo attenzione a sostenere l’utilità dello sfogo solo perché immediatamente dopo ci sentiamo meglio. Bushman ha condotto con il suo team di ricerca una serie di studi sul tema, giungendo a interessanti conclusioni. Una di queste ricerche ha coinvolto 600 studenti (metà maschi e metà femmine) suddivisi in 3 gruppi: a tutti gli studenti è stato chiesto di produrre un testo scritto, che in seguito è stato analizzato e criticato da un compagno; un primo gruppo ha poi ricevuto indicazione di colpire un pungiball immaginando che raffigurasse il compagno critico, un secondo gruppo ha dovuto colpire il pungiball pensando a quanto questo migliorasse la propria forma fisica e un terzo gruppo non ha ricevuto nessuna indicazione e non ha colpito il pungiball, rimanendo in attesa.

Tutti i soggetti hanno poi compilato dei questionari che valutavano la rabbia e l’aggressività. Secondo la teoria della catarsi, sfogarsi colpendo un oggetto e contemporaneamente pensando a una situazione o a una persona che ci ha causato rabbia dovrebbe aiutarci ad abbassare il livello di attivazione emotiva e calmarci. In realtà, è emerso il trend opposto: il gruppo di partecipanti che aveva colpito il pungiball ripensando alla persona che li aveva criticati ha mostrato i maggiori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento, seguito dal campione che aveva colpito il pungiball pensando ad altro. Sorprendentemente, il gruppo di controllo che era rimasto in attesa senza fare nulla ha mostrato i minori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento.

In altre parole, non fare nulla si è mostrato più utile che sfogarsi fisicamente per diminuire i livelli di rabbia. Se questi risultati sono in contraddizione con l’idea di catarsi, sono invece molto allineati con la Teoria Metacognitiva (Wells, 2012): se consideriamo la condizione di “sfogo” più da vicino, questa in sostanza prevede di impegnarsi in una forma di ruminazione rabbiosa, colpendo contemporaneamente il pungiball. Coerentemente con gli studi di Wells e colleghi, le forme di pensiero perseverante contribuiscono a mantenere l’attenzione focalizzata sulla situazione che ha attivato l’emozione negativa, mantenendo al contempo l’emozione stessa (in questo caso, la rabbia). Il fatto di rimanere fermi senza fare nulla (condizione di controllo per questo studio) ha invece molto a che fare con quello che Wells chiama “lasciare in pace i pensieri”: permettere cioè che il pensiero (in questo caso arrabbiato) semplicemente se ne vada come è arrivato, senza alimentarlo con ulteriori risorse cognitive e attentive, che lo mantengono attivato e vivido.

È interessante quindi notare come uno studio che comprende così tanti soggetti, pur partendo da un background teorico completamente differente e proponendosi di indagare meglio il ruolo della catarsi nella risoluzione di dinamiche di rabbia, giunga tuttavia alle stesse conclusioni di tanti studi sulle conseguenze negative del pensiero perseverante in termini attentivi ed emotivi. Questo fa pensare che in qualche misura, soprattutto per le cose che ci stressano nel quotidiano, la soluzione possa davvero essere imparare a lasciarsi in pace.

Forse Esther (2014) di Katja Petrowskaja – Recensione

Una donna alla ricerca delle proprie radici tra un presente invaso dalle informazioni e un passato denso di oscurità.

Katja Petrowskaja è un personaggio che sfugge a ogni semplice etichettatura. Nata in Ucraina da una famiglia di origine ebraica, studia a Tartu e a Mosca in due delle università più prestigiose dell’Unione Sovietica ma per molti anni il suo talento letterario rimane muto. Sposatasi con un esponente di spicco di Greenpeace, si trasferisce a Berlino e sembra del tutto a suo agio nel ruolo di moglie e madre fin’oltre il compimento dei quarant’anni. A un tratto, però, decide di intraprendere la carriera giornalistica e nel giro di qualche mese diviene uno dei columnist più seguiti della Germania, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung con la firma Die östliche Diwa, cioè la Diva dell’est (gioco di parole sul West-östlicher Diwan, ovvero il Divano Occidentale-orientale di Goethe). La Diva, tuttavia, non ancora soddisfatta di una carriera pressoché istantanea e fulminante, decide di mettere in atto un progetto a lungo solo vagheggiato: un libro basato sulla storia delle origini della propria famiglia.

Ne nasce ‘Vielleicht Esther’, che viene pubblicato dalla più prestigiosa casa editrice tedesca (Suhrkamp) e vince prima ancora della pubblicazione il Premio Bachmann nel 2013. All’uscita in Germania, nel 2014, il successo è travolgente: acclamato da molti come un capolavoro, il libro viene subito tradotto in sedici lingue, tra le quali l’italiano. In Italia esce come ‘Forse Esther’ per Adelphi (casa editrice alla quale sembra attagliarsi perfettamente il profilo da outsider dell’autrice) e vince subito un premio letterario anche da noi: la prima edizione del Premio Strega per romanzi stranieri.

In Germania suscita stupore anche l’uso della lingua tedesca da parte di una straniera: una prosa talmente sfaccettata da indurre Suhrkamp a invitare i traduttori a un seminario comune per studiare insieme gli interrogativi stilistici posti dalle rispettive traduzioni. Alcuni critici considerano la scrittura della Petrowskaja una delle più brillanti ed efficaci di questo scorcio di secolo. Lei, tuttavia, non si scompone; abituata ad anni di penombra si limita a rispondere nelle interviste, a chi esprime stupore per la sua tecnica, che comunque lei si fa correggere gli eventuali errori dal marito. Divenuta nota in Germania proprio nel periodo del conflitto russo-ucraino, viene naturalmente invitata varie volte in televisione e si segnala anche per una tendenza naturale a evitare la diplomazia. Lo imparano subito i colleghi giornalisti che si sentono chiedere in diretta televisiva, di fronte all’ambasciatore russo, perché lei si trovi seduta allo stesso tavolo con il rappresentante di un paese che ha appena invaso il suo…

‘Forse Esther’ è una storia di contraddizioni e di oscurità. L’Io narrante si muove in un mondo dove «Google regna su di noi come il Padreterno», o piuttosto dove «Dio ci ‘googla’ la strada, affinché non smarriamo il cammino» (p. 18). Eppure la ricerca del passato si muove tra buchi di informazione paradossali. Il titolo stesso annuncia il primo mistero familiare: il padre della protagonista dichiara che il nome della propria nonna è appunto forse Esther. Come forse?, chiede l’io narrante, come è possibile non ricordarsi il nome della nonna? La risposta è disarmante: i figli la chiamavano mamma e i nipoti babuška. Nessuno quindi pronunciava mai il suo nome. La natura del libro è anch’essa difficilmente riconducibile a una definizione univoca. Si muove al confine tra romanzo e ricerca storica; tra memoria e creazione. Il senso del vissuto non offre punti di riferimento stabili: «Eravamo felici, e tutto in me si ribellava al detto di Tolstoj che ci è stato tramandato, secondo il quale, nella loro felicità, le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre uniche nel loro genere sono solo quelle infelici, un detto che, adescandoci nella sua trappola, suscitava in noi la propensione all’infelicità, come se soltanto dell’infelicità valesse la pena parlare, mentre la felicità era vuota» (p. 23). L’ambivalenza è evocata fin dalla surreale scritta che l’io narrante vede lampeggiare dalla volta dello Hauptbanhof, la stazione centrale di Berlino, all’inizio del suo viaggio verso est: «Bombardier willkommen in Berlin». Senza conoscere il contesto si tradurrebbe con un benvenuto di Berlino ai bombardieri che suona veramente grottesco; in realtà la città ospitava un musical francese di grande successo, appunto ‘Bombardier’.

Fantasmi dai cognomi troppo diffusi si affacciano dal passato: Geller e Heller, Levi e Stern. Soprattutto Stern, come ‘stella’. Sono gli infiniti discendenti di ebrei dallo stesso cognome, dalle stelle gialle perché Stern sulle Yellow Pages di un elenco telefonico americano; alle stelle gialle che contraddistinguevano gli ebrei nei campi di concentramento; alle stelle rosse dei combattenti per l’Unione Sovietica. Una delle stelle rosse, lo zio Vil dell’io narrante, è talmente coinvolta nella fede verso il proprio paese da consolidarla viepiù dopo un episodio atroce. Il plotone del quale fa parte viene mandato all’assalto sotto il fuoco incrociato nemico solo per riempire un fosso anticarro sul quale possono infine passare i panzer; ferito gravemente, viene ritrovato ancora vivo sotto tutti gli altri compagni di plotone. Come non disperare della patria del socialismo? «Chi aveva dubitato non era sopravvissuto» è la risposta (p. 38).

Tutti i personaggi si avvicendano in storie dal contenuto traslucido come la Esther (forse) del titolo, che pare fosse stata uccisa dalla rivoltellata noncurante di un ufficiale tedesco, in risposta alla sua innocua domanda su dove fosse Babij Jar (la fossa comune degli ebrei vicino Kiev). «Osservo questa scena» scrive la Petrowskaja «come fossi Dio, dalla finestra della casa dirimpetto. Forse si scrivono così i romanzi. Oppure anche le fiabe. Siedo in alto, e vedo tutto! A volte mi faccio coraggio e mi avvicino e mi metto alle spalle dell’ufficiale, per ascoltare di nascosto la conversazione. Ma perché mi voltano le spalle? Giro loro attorno, e ne vedo solo le spalle. Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, di vedere i loro volti, quello di babuška e quello dell’ufficiale, per quanto allunghi il collo per riuscire a vederli e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione – non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono» (pp. 186-7). La scrittura si ripiega su se stessa e diventa così interrogativo estetico, domanda sul senso del domandare. Chiunque si occupi di psiche troverà in Forse Esther spunti di riflessione, oltre al puro e trasparente piacere della lettura.

Stigma e qualità della vita nell’obesità: traduzione e adattamento di strumenti valutativi

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Stigma e qualità della vita nell’obesità: traduzione e adattamento di strumenti valutativi

Autore: Elisa Martina Pagani (Università Cattolica del Sacro Cuore Milano)

Abstract

L’équipe del dipartimento di psicologia clinica dell’Università Cattolica di Milano, nel 2012 ha sviluppato un progetto di ricerca per l’analisi della qualità della vita e dello stigma nei soggetti con obesità. La ricerca si è svolta tramite la somministrazione di questionari per rilevare differenti variabili nell’ ambito della patologia e della sanità. Sin da subito i ricercatori si sono resi consapevoli delle difficoltà di adattamento e traduzione degli strumenti dalla lingua inglese a quella italiana, ed hanno dunque indagato la variabilità degli approcci per ottenere una guida semplice e chiara al fine di facilitare l’adozione, l’uniformità e l’uso dei questionari.

 

Abstract (English)

In 2012, the team of the department of clinical psychology at the Catholic University of Milan developed a research project to analyze the quality of life and stigma in people with obesity. The research was conducted by administering questionnaires to detect different variables in the context of disease and health. Right now, researchers have become aware of the difficulties of adaptation and translation tools from English to Italian, and they have therefore investigated the variability of approaches to obtain a clear and simple guidance to facilitate the adoption, uniformity and use of questionnaires.

 

Key words: stigma, obesità, QoL, adattamento, traduzione.

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2 

Il fenomeno della semplice esposizione: ciò che conosciamo ci piace di più

Nicole Savino- OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.

La ricerca in psicologia sociale ha spesso sottovalutato l’influenza che variabili non direttamente analizzabili possono avere nell’orientare le credenze, gli atteggiamenti e le tendenze comportamentali spontanee di ogni individuo. Attraverso l’analisi del fenomeno noto come semplice esposizione è possibile tentare di spiegare almeno in parte come fenomeni che sfuggono ad un chiaro controllo consapevole possano influenzare la disposizione affettiva di un soggetto e rivestire un ruolo nell’orientare il comportamento umano.

Con il termine ‘semplice esposizione‘ s’intende una condizione in cui uno stimolo viene reso accessibile alla percezione di un individuo. Questo è il presupposto teorico dal quale si sono sviluppati filoni di ricerca orientati ad indagare i diversi aspetti che sono coinvolti in tale fenomeno. Il percorso che ha caratterizzato la ricerca in questo campo parte dal contributo fondamentale di Zajonc. L’ipotesi principale dalla quale parte l’autore si può così riassumere:

Semplici e ripetute esposizioni ad uno stimolo sono una condizione sufficiente per determinare in un soggetto una disposizione positiva verso tale stimolo ( Zajonc 1968).

L’autore è arrivato a formulare tale ipotesi basandosi sia su indagini di tipo correlazionale che su alcune evidenze sperimentali, ossia:

  • La correlazione tra la connotazione affettiva di una parola e la frequenza con la quale tale parola viene utilizzata;
  • L’effetto provocato dalla manipolazione sperimentale della frequenza d’esposizione a stimoli rappresentati da parole senza significato e simboli, ad esempio ideogrammi, sulla connotazione attrubuita da un soggetto a tali stimoli.

In particolare ciò che Zajonc intendeva sottolinare è la relazione lineare esistente tra frequenza dello stimolo ed effetto ottenuto. Sicuramente già nei suoi presupposti teorici la ricerca sulla mere exposure si contrappone decisamente alle celebrate leggi sull’attività cognitivo-attentiva che hanno imperato dalla fine del diciannovesimo secolo sino alla metà circa del secolo scorso.

Dagli studi condotti all’epoca da autori quali Fechner (1876), James (1890), Pepper (1919) e Maslow (1937), emerse la convinzione che nei processi cognitivi tutto ciò che può risultare troppo familiare, troppo noto ad un soggetto, distoglie la sua attenzione da un fenomeno, al contrario, uno stimolo nuovo può rappresentare una forte fonte d’interesse.

In accordo con questa ipotesi l’industria pubblicitaria, ad esempio, pur riconoscendo il grande potenziale attribuito alla semplice esposizione nell’orientare le scelte del consumatore, si è dedicata spesso ad una forma di pubblicità che rispettasse la nota legge secondo la quale la disposizione positiva verso uno stimolo viene incrementata se quest’ultimo viene presentato in associazione con un altro stimolo considerato piacevole, in grado di catturare immediatamente l’attenzione. Il prodotto reclamizzato quindi viene spesso presentato al pubblico in contiguità con un rinforzo positivo quale, ad esempio, il corpo femminile.

Allo stesso tempo l’industria pubblicitaria cerca di non cadere nella trappola della overexposure, in accordo con la teoria sulla familiarità degli stimoli (Ederly, 1940; Wiebe 1940) secondo la quale nel momennto in cui uno stimolo diventa eccessivamente abituale e familiare per un soggetto perde parte del suo potenziale attrattivo.

Ma è davvero possibile ipotizzzare che sia così semplice orientare i gusti e le preferenze di un individuo? Per tentare di rispondere a questa domanda ci affidiamo ad alcuni studi condotti da Zajonc sulla correlazione tra la frequenza di utilizzo di alcune parole e il loro significato.

Da tali ricerche sperimentali è emerso che i termini aventi un significato positivo sono utilizzati molto più frequentemente rispetto ad altri con una connotazione negativa. Nello specifico tale correlazione è, secondo Zajonc, almeno in parte il risultato di un fenomeno di semplice esposizione.

Da una ricerca condotta da Johnson, Thomson e Frincke (1960) emerge che la presentazione ripetuta di termini senza significato tende a far migliorare la loro valutazione stimata su una scala Likert di tipo ‘good-bad’. Come Zajonc ha dimostrato in seguito, il fenomeno analizzato nella suddetta ricerca non è altro che la coseguenza diretta di ciò che viene chiamata ‘semplice espozione’. Infatti le persone utlizzano più frequentemente parole che hanno un significato positivo non tanto per la natura semantica del termine, ma più semplicemente perchè nelle interazioni sociali esse vengono preferite rispetto al corrispettivo negativo. In pratica un soggetto reagisce più positivamente a parole che rimandano ad un significato positivo in quanto vi è comunque esposto con maggior frequenza.

In ‘Attitudinal effect of mere exposure’ (1968) Zajonc presenta i risultati di alcune ricerche volte ad appurare, in modo più rigoroso, l’esistenza di una relazione tra frequenza d’esposizione ad uno stimolo e la conseguente valutazione dello stimolo stesso.

In un esperimento da lui condotto sono state mostrate ai soggetti 12 immagini rappresentanti ideogrammi cinesi, la cui frequenza di presentazione, manipolata dallo sperimentatore, variava da 0 a 23 esposizioni. Il compito richiesto consisteva unicamente nel prestare attenzione alle immagini presentate. Nella seconda fase gli sperimentatori hanno comunicato ai partecipanti che i caratteri visti in precedenza erano in realtà degli aggettivi appartenenti ad una lingua straniera che avevano un significato positivo o negativo. Il compito dei soggetti sperimentali era ipotizzarne il significato sistemandoli su una scala Likert a 7 punti. I risultati di questa ricerca dimostrarono l’esistenza di una relazione positiva tra frequenza di esposizione e valutazione attribuita agli aggettivi. In pratica i soggetti hanno valutato più positivamente gli stimoli ai quali nella prima fase sperimentale sono stati esposti con maggior frequenza.

In uno studio successivo Zajonc ha indagato fino a punto gli effetti della semplice esposizione possono essere riscontrati utilizzando stimoli a rilevanza sociale. In questo esperimento è stata mostrata ai partecipanti una serie di fotografie di studenti. Anche in questo caso la frequenza di presentazione (0 -25) è stata manipolata dallo sperimentatore. La relazione tra semplice esposizione e conseguente valutazione dello stimolo è stata testata attraverso le risposte ad un differenziale semantico a 7 punti (good-bad) compilato dai soggetti in una seconda fase sperimentale. Ancora una volta i risultati dimostrano che frequenza d’esposizione e desiderabilità modello-stimolo sono positivamente correlate e soprattutto che la positività del giudizio cresce in funzione del numero di esposizioni con cui tale stimolo è stato presentato ai soggetti.

Non è però tutto così semplice come sembra. Ci sono altre variabili che intervengono nel condizionare il comportamento umano.

In uno studio pionieristico condotto da Kunst-Wilson e Zajonc (1980) gli autori hanno dimostrato che i soggetti sperimentali non erano in grado di distinguere percettivamente gli stimoli presentati nella fase d’esposizione da altri (distrattori) mostrati solamente nella seconda fase sperimentale. In un primo momento ai soggetti è stata mostrata per brevissimo tempo (1-2msec) una serie di ottagoni regolari presentati con egual frequenza (5 volte). Successivamente i ricercatori hanno presentato ai partecipanti una coppia di stimoli composta da un ottagono presentato nella prima fase e da uno mai visto. Per ogni coppia veniva chiesto ai soggetti di riconoscere quale fosse lo stimolo già presentato in precedenza e quale tra i due considerrasse più piacevole.

I risultati dimostrano che i soggetti non sono riusciti a distinguere percettivamente le figure mostrate nella prima fase dalle altre, ma erano comunque in grado di discriminarli dal punto di vista ‘affettivo’. Infatti la maggioranza dei soggetti ha giudicato come più piacevole l’immagine presentata nella prima fase sperimentale pur non riuscendo a distinguerla percettivamente dal distrattore inserito successivamente. Questo tipo di evidenza sperimentale ha portato gli autori ad ipotizzare che nel fenomeno della semplice esposizione l’informazione affettiva sia elaborata secondo modalità in gran parte indipendenti dall’elaborazione dell’informazione cognitiva.

Nel suo articolo ‘On the Primacy of Affect‘ (1984) Zajonc sostiene il primato e l’indipendenza dei processi affettivi rispetto all’elaborazione cognitiva dell’informazione. In particolare l’autore si oppone all’eccessiva importanza attribuita da Lazarus (1982) ai processi cognitivi considerati come una condizione che precede necessariamente ogni fenomeno di natura affettiva. Secondo Zajonc numerosi fenomeni emotivi possono essere spiegati senza ricorrere a processi cognitivi di nessun genere. Per supportare tale constatazione l’autore fa riferimento al primato e all’indipendenza dal punto di vista sia filogenetico che ontogenetico di alcune reazioni affettive rispetto ad altre di tipo cognitivo. Ossia, se fenomeni di tipo affettivo precedono processi cognitivi ad alcuni livelli dello sviluppo individuale, allora è lecito affermare che esiste una reale indipendenza tra i due sistemi.

Ciò che Zajonc intende sottolineare è che alcuni fenomeni di natura affettiva possono avere luogo senza essere necessariamente mediati o preceduti da processi cognitivi e quindi senza una rielaborazione cosciente di tali fenomeni. Sicuramente la relazione tra processi cognitivi ed emozioni ha rappresentato un tema di grandissimo interesse per il Cognitivismo e ancora oggi è difficile trarne una verità assoluta e condivisa.

Cibo ed emozioni: qual è lo strumento migliore per valutare questa relazione?

Negli ultimi anni si è venuta a creare una crescente convinzione secondo cui, accanto alla valenza edonica, le reazioni emotive al consumo di alimenti o la percezione di profumi svolgono un ruolo importante nell’accettazione dei prodotti esistenti sul mercato.

Tuttavia, non è ancora chiaro come poter misurare questo fenomeno con uno strumento affidabile. A tal proposito Mojet e colleghi hanno effettuato uno studio con lo scopo di verificare la possibile esistenza di strumenti semplici che siano in grado di misurare l’impatto emotivo nell’utilizzo di un prodotto, e che possa prevederne gli effetti positivi e negativi relativi all’ accettazione futura indipendentemente dagli effetti di gradimento del prodotto.

Al fine di verificare questa possibilità, sono stati confrontati 3 gruppi composti da 24 soggetti, i quali sono stati esposti alla presentazione di una coppia di yogurt della stessa marca e commercializzazione, ma composti da aromi o grassi differenti. Sono stati utilizzati quattro strumenti differenti: l’Eye-tracking, la Lettura Facciale durante la fase di consumo del prodotto, un nuovo Test di Proiezione Emotiva (EPT) dopo aver mangiato il prodotto e un nuovo Test di Congruenza Autobiografica.

Dal confronto tra i diversi metodi di misurazione sulla loro efficacia nel misurare gli effetti emotivi delle consumazioni, è emerso che tre di questi (la Lettura Facciale, il test di Congruenza Autobiografica e Eye-tracking), non sono risultati funzionali e non hanno riscosso alcun successo.
L’unico test risultato efficace e promettente è il Test di Proiezione emotiva. Nel commentare il buon risultato, bisogna però tenere conto del fatto che sia stato utilizzato un solo tipo di prodotto, cosa che ha reso la sperimentazione relativamente più facile.

In conclusione, per ottenere risultati più dettagliati, andrebbe ritestata la combinazione degli strumenti utilizzati nello studio (tranne il Test di Proiezione Autobiografica) utilizzando diverse tipologie di prodotti, così da poter ottenere maggiori informazioni.

Lo sviluppo dei social network: fenomeno di socializzazione o alienazione?

Silvia Soderini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

L’avvento dei Social Network ha creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. La facile accessibilità dei new media, però, potrebbe trasformarli in strumenti potenzialmente pericolosi per le illusioni che sono capaci di generare.

Ma tu non sei su Facebook? Ci sono tutti!” Chi di noi non ha mai detto, o almeno sentito dire, da un amico, un parente o un collega questa frase! Ormai i social network sono entrati a far parte, in maniera più o meno diretta, della vita di ognuno di noi. Dallo studente universitario che li usa per rimanere in contatto con i propri compagni, al manager sempre alla ricerca di nuove tendenze, all’azienda che vuole migliorare i rapporti con i propri clienti/fornitori e vuole farsi pubblicità: tutti sono iscritti su qualche social network.

È infatti innegabile che la tecnologia abbia cambiato le nostre vite e le nostre abitudini e la rivoluzione provocata dai social network non può essere ignorata poiché si estende a macchia d’olio ed ha un potenziale interno molto ampio. (Riva, 2010).

L’utilizzo dei social network e delle nuove tecnologie inducono difatti molti cambiamenti: cambia il rapporto con se stessi e soprattutto con gli altri, che diventa più diretto ma molto più mediato. Le nuove tecnologie ci promettono di incontrare molte persone ma tendono a togliere il sapore, la genuinità, l’originalità e la freschezza alla relazione interpersonale vera e propria. Cambia, inoltre, il modo di concepire la quotidianità. È difficile pensare alle nostre giornate senza aprire il computer o usare il cellulare; la nostra esperienza quotidiana subisce dei pesanti condizionamenti poichè può cambiare il modo di partecipare alla vita di società. Le nuove tecnologie inoltre ci danno maggiori possibilità di partecipare alla vita sociale condividendo anche luoghi virtuali, ma non è detto che questa partecipazione sia poi effettiva. (Riva, 2010).

Ma capiamo meglio cosa sono i social network… I social network sono diventati un fenomeno globale e negli ultimi 10 anni si è visto un aumento esponenziale del loro uso: Facebook, Instagram, Twitter, Linkedin, sono solo alcune delle piattaforme social che dal loro avvento ad oggi hanno conquistato in maniera esponenziale il Web. Tutte le applicazioni di social network si basano sulla costruzione, manutenzione, gestione e visibilità di profili e di pagine Web personali.

Un profilo ricco di informazioni e dinamico, una lista di contatti e un numero elevato di relazioni interpersonali instaurato con amici e conoscenti, sono gli elementi che fanno dei nuovi media sociali e delle applicazioni di social networking qualcosa di diverso rispetto alle chat, ai blog e ai forum che hanno caratterizzato il Web 1.0. (Massarotto, 2011).

Le applicazioni di social networking permettono di coltivare relazioni amicali e di allargare le proprie reti sociali coinvolgendo persone mai incontrate e senza bisogno di un incontro precedente dal vivo e faccia a faccia. Come piattaforma tecnologica con le sue funzionalità, applicazioni e risorse, il social network facilita le interazioni e lo sviluppo di connessioni e relazioni attraverso l’utilizzo di contenuti diversi (testuali, video, audio, fotografici), la condivisione sociale su piattaforme e dispositivi eterogenei (PC, smartphone e tablet), il coinvolgimento attivo dei membri della rete e la rapidità con cui si può conversare e disseminare informazioni. (Boyd, 2008).

Si potrebbe affermare che questi nuovi strumenti tecnologici abbiano semplicemente amplificato ciò che, con altri mezzi, gli umani sanno fare da sempre, eliminando le barriere temporali e spaziali e offrendoci nuove opportunità di elaborare nuovi pensieri, di produrre nuovi contenuti e di riflettere su noi stessi. Nel fare questo i nuovi media hanno reso obsoleti gli strumenti e modi di comunicare precedenti come l’incontro di persona e le altre forme di interazione tradizionali. (Riva, 2010).

L’aspetto da considerare però è come l’avvento di queste comunità online abbia creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. Alla corporeità dell’incontro faccia a faccia si sostituisce la virtualità del profilo da cui si elimina il corpo ma soprattutto i suoi significati.

La trasparenza dei nuovi media, ossia la loro facile accessibilità, li trasforma in strumenti potenzialmente pericolosi per le promesse di cui si fanno portatori e le illusioni che sono capaci di generare. (Mazzucchelli, 2014). I nuovi media infatti danno la sensazione di essere sociali per definizione e come tali capaci di incidere sulla solitudine sociale per chi ne soffre ma, a lungo termine, si è visto come non sempre si producano conseguenze del tutto positive.

Una delle prime indagini condotta sui social network e che ha coinvolto un numero elevato di individui è stata eseguita dall’ Australian Psychological Society. Sono state intervistate 2.3 milioni di persone prendendo un campione composto sia da membri coinvolti nell’utilizzo di socia network sia da persone senza alcuna presenza on-line. L’indagine, condotta nel 2010, ha evidenziato quanto segue:

  • Il social network interessa persone di tutte le età (97% degli intervistati)
  • Il 70% degli intervistati spende meno di due ore al giorno on-line
  • Il 28% ha avuto almeno un’esperienza negativa
  • Il 52% afferma che i social network hanno aumentato la possibilità di contatto e interazione con amici e parenti
  • Il 26% ha visto aumentare la sua partecipazione come risultato di una maggiore socialità
  • Il 25% tra i 31-50 anni ha incontrato l’anima gemella o un nuovo partner on-line
  • Il 21% (del 25 %) degli incontri ha dato origine a relazioni intime nella vita reale.

Dati interessanti sono emersi anche dall’analisi della frequenza prolungata dei siti di social network. Il 77% degli intervistati ha indicato di accedere a un social network giornalmente, il 51% più volte al giorno e il 26% una volta al giorno. L’accesso più frequente, 59%, è fatto da persone giovani, a seguire, 36%, dalle persone più adulte (32-50 anni) e da quelle anziane, 23%. (APS, 2010).

Un’ulteriore ricerca (Ferguson e Perse, 2000; Leung, 2001) ha messo in evidenza anche quali siano le motivazioni che spingono all’uso del social network, identificandone principalmente 5:

  • Inclusione sociale, cioè il bisogno di appartenere ad un gruppo.
  • Mantenimento di relazioni, la comunicazione on-line permette di rimanere sempre in contatto con i propri amici anche con quelli non raggiungibili perché lontani.
  • Incontro di nuove persone
  • Compensazione sociale, cioè la tendenza a compensare problemi comunicativi presenti nella comunicazione faccia a faccia con la socializzazione on-line
  • Divertimento

Rivoltella (2006) ha evidenziato pressoché le stesse motivazioni evidenziate dalle ricerche internazionali precedentemente citate anche nel contesto italiano.
Recenti studi hanno fatto emergere anche un altro dato significativo. Mentre le persone estroverse sembrano utilizzare i siti di social network per migliorare ulteriormente la loro posizione sociale, gli introversi sembrano utilizzare questo mezzo di comunicazione per compensare le loro difficoltà relazionali.

Entrambe le motivazioni correlano positivamente con un maggiore utilizzo del social network. (Ross et al. 2009; Correa et al. 2010). Il social network agisce come deterrente e via di fuga per persone che nella vita sociale reale sperimentano difficoltà di socializzazione, A causa di tratti del carattere come la timidezza o situazioni d’isolamento sociale, l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network sembrano diventare una fonte privilegiata di emozioni e sensazioni appaganti e intense, seppure scaturite da dimensioni del tutto virtuali. (Caretti, La Barbera, 2005). Internet può rappresentare così un mezzo per fuggire dalla realtà quotidiana e rifugiarsi in un mondo illusorio e gratificante, in cui l’elemento virtuale permette di superare le difficoltà e le inibizioni che possono caratterizzare le interazioni reali. (Cantelmi et al., 2000).

Come afferma McKenna, il contatto sociale attraverso chat e community, può diventare un utile strumento per superare le difficoltà di comunicazione e di interazione faccia a faccia che si possono presentare nella vita quotidiana. (Amichai-Hamburger, McKenna, 2006). L’indagine condotta dall’associazione degli psicologi australiani evidenzia infatti, tra gli effetti positivi del social network, la presenza di maggiori contatti personali (meno isolamento) e relazioni interpersonali (meno solitudine). Nonostante vi sia anche un alto numero di esperienze negative on-line, la maggioranza degli intervistati non sembra intenzionato ad abbandonare i social network.

Analizzando la letteratura presente emerge come la fascia d’età maggiormente attratta dall’ utilizzo dei social network sia sicuramente quella relativa all’adolescenza. Una ricerca svolta nel 2008 realizzata dall’associazione Save the Children in collaborazione con il CREMIT ha indagato il significato che Internet assume per gli adolescenti e gli atteggiamenti adottati rispetto ai possibili rischi del mondo virtuale. Il risultato evidenzia come tra i ragazzi intervistati prevalga l’idea che Internet sia utile, facilmente gestibile e non particolarmente pericoloso, nonostante molti ammettano di aver assunto almeno una volta comportamenti trasgressivi e provocatori, o aver vissuto situazioni rischiose.

Ma i benefici e i vantaggi percepiti non vengono regalati gratuitamente. L’illusione di connettersi con il mondo attraverso le piattaforme dei social network può spingere le persone a trasformarsi in individui che si isolano dalla vita reale sostituendola con una socialità superficiale ed illusoria. (Marcucci, 2004).

È possibile riferirsi a due ipotesi esplicative per indagare la relazione tra la comunicazione che avviene attraverso i social network e il benessere psicologico che ne consegue, soprattutto riguardo l’età adolescenziale, la teoria del disimpegno e quella della stimolazione (Valkenburg e Peter, 2007), le quali illustrano una visione molto diversa delle conseguenze che l’ uso eccessivo delle nuove tecnologie può produrre.

La teoria del disimpegno sottolinea come la comunicazione on-line incida negativamente sul benessere psicologico, poiché sottrae tempo che potrebbe essere dedicato alle amicizie già esistenti riducendone la qualità. La tendenza dei ragazzi a intrattenere relazioni con sconosciuti, spesso di breve durata, non permetterebbe di impegnarsi in relazioni significative. A sostegno della teoria del disimpegno è possibile menzionare la ricerca internazionale denominata HomeNet (Kraut et al., 1998), che rileva come una maggiore permanenza in rete sia associata ad una diminuzione, modesta ma statisticamente significativa, delle attività sociali nella vita off-line quali la comunicazione all’interno della famiglia, il numero di amici frequentati nel tempo libero e un aumento di sentimenti depressivi e di solitudine. Kraut e colleghi (1998) propongono l’espressione Internet Paradox per evidenziare il fatto che questa tecnologia, anche quando utilizzata come strumento comunicativo, in realtà riduce il coinvolgimento sociale e il benessere psicologico di chi la usa, procurando un’alienazione dalla vita reale.

Ciò potrebbe essere spiegato prendendo in considerazione due aspetti: la permanenza in rete sottrae tempo che potrebbe essere impiegato in attività sociali, inoltre attraverso l’uso di Internet i ragazzi tendono a sostituire relazioni sociali significative con amicizia e deboli, poco impegnative e limitate nel tempo, che sebbene possano essere giudicate soddisfacenti in realtà non forniscono una reale supporto emotivo e tendono a creare isolamento dalla vita reale.

Alcune ricerche infatti (Morgan e Cotten, 2003) sottolineano come i ragazzi tendano a giudicare anche il miglior amico on-line come meno significativo e l’amicizia stessa come meno duratura nel tempo. Le amicizie virtuali tenderebbero a diventare emotivamente intense in un periodo di tempo troppo breve senza che vi sia sufficiente fiducia nel legame. La relativa anonimità dell’interazione on-line favorirebbe infine la tendenza dei soggetti a mentire, ad esprimere apertamente emozioni negative o a interrompere in modo brusco la comunicazione nel momento in cui si verifica un conflitto senza le preoccupazioni che tipicamente caratterizzano la comunicazione faccia a faccia. (Wolak, Smahel e Greenfield, 2003).

La teoria della stimolazione sottolinea, al contrario, come la comunicazione on-line permetta un arricchimento del contesto relazionale del soggetto e favorisca le opportunità di crescita e di adattamento al contesto. Recenti studi effettuati nel contesto italiano da Baiocco (2011) ritengono che in rete si tendano a costruire gli stessi contesti e a rapportarsi in modo simile a quanto si faccia nella vita off line con alcune possibilità in più: l’anonimato, la possibilità di discutere anche di questioni più intime con minor imbarazzo, la mancanza di informazioni relative al proprio aspetto fisico, all’età, al genere, all’appartenenza etnica o allo status sociale.

In rete sembrerebbe più facile svelare le parti più intime di sé: tale processo favorirebbe quindi un accudimento, gradimento e fiducia reciproca che a loro volta migliorerebbero le qualità dell’amicizia stessa. (Valkenburg e Peter, 2007). In Internet le amicizie fra ragazzi di sesso diverso sarebbero più solide e intimamente profonde di quelle nella vita non virtuale forse per il minore imbarazzo che si prova in riferimento alla connotazione sessuale della relazione e alla sua presentazione pubblica. Ricerche hanno anche dimostrato che i ragazzi con problemi di ansia sociale o comunque tendenzialmente soli, ritengono come maggiormente reali e intime le relazioni virtuali e sono in grado di integrare meglio la loro vita on-line con quella off line. (Couyoumdjian, Baiocco, Del Miglio, 2006).

Sono state proposte due ipotesi principali riguardo la relazione tra comportamento amicale nella vita off line e il contenuto e la qualità delle relazioni amicali in Internet. La prima asserisce che le competenze relazionali del soggetto nella vita off line forniscano il prototipo delle successive relazioni in rete, favorendo nel soggetto la conoscenza di sé, buone competenze sociali e una migliore regolazione emotiva. Una visione complementare suggerisce come, nel corso dello sviluppo, le abilità interattive vengano generalizzate alternativamente dalla vita off line a quella in rete. (Cheng, Chan e Tongs, 2006).

In definitiva, la letteratura presente permette di delineare come le nuove tecnologie, in particolar modo i social network, incidano sul nostro modo di pensare, sulle nostre pratiche quotidiane, sui nostri modelli relazionali e sulla nostra comunicazione.

La comunicazione e la socializzazione mediata dalla tecnologia interagiscono infatti in modo sinergico con la vita off line, in particolar modo per i giovani. I dati rilevati da Baiocco ci confermano come alcune volte l’utilizzo di questi mezzi di comunicazione comporti un risvolto positivo, mentre altre volte ciò può rivelarsi molto dannoso. Per questo motivo è opportuno chiedersi e valutare per quali ragazzi e in quali circostanze, Internet possa configurarsi come un contesto poco creativo o addirittura pericoloso e in quali altre circostanze possa configurarsi come un contesto altamente positivo.

La ricerca sembra suggerire che quei ragazzi già competenti a livello relazionale, con buoni livelli di autostima e capacità cognitive, riescano a massimizzare gli aspetti positivi dei social network: la rete interpretata come tecnologia sociale può essere uno strumento che funge da impalcatura per migliorare il modo in cui gestire relazioni, intrattenere discorsi, esprimere aspetti diversi di sé.

Ma, come afferma Kraut nelle sue ricerche, non si può non considerare che per le personalità più fragili questa barriera tra reale e virtuale sia ancora più sottile e confusa. Ultimamente si è dimostrato l’aumento di stati depressivi tra adolescenti utenti di social network. Gli individui che si sentono meno inseriti nella cerchia di coetanei e che vedono nei social un modo per riscattarsi socialmente potrebbero andar incontro ad un fallimento . La creazione di un nuovo profilo idealizzato porterà il soggetto ad una fittizia realizzazione sociale e ad una vera alienazione da quello che è il mondo reale.

Difatti le relazioni si creano velocemente anche con persone che nemmeno si conoscono, se non virtualmente, creando una sorta di socializzazione superficiale e degradante: non si arriva più ad un’intimità amicale raggiunta con il tempo con l’arricchimento d’ esperienze comuni, a meno che non si comunichi con amici che si frequentano nella realtà.

Concludendo, è ormai evidente che i social network siano diventati un elemento fondante e per certi versi irrinunciabile della comunicazione nella società moderna ma, come tutto quello che ci circonda, forse sarebbe il caso di maneggiarli con cura.

La discriminazione omofobica a scuola: caratteristiche e mezzi di contrasto

Posta l’importanza della scuola come supporto alla costruzione dell’identità sessuale e personale, come viene vissuta l’omosessualità a scuola e quali criticità presenta?

La scuola e il gruppo dei pari rivestono un’influenza notevole sulla formazione dell’identità sessuale e dell’autostima di gay e lesbiche: essi costituiscono il luogo privilegiato per sviluppare una positiva immagine di sé, particolarmente instabile nell’età adolescenziale, contrastando eventuali dinamiche rifiutanti presenti nelle famiglie di origine (D’Ippoliti e Schuster, 2011).

L’importanza della fase adolescenziale nel percorso di scoperta ed esplorazione della sessualità è nota da tempo: a fronte di un 64% di giovani che dichiarano di avere i primi rapporti sessuali tra i 13 e i 15 anni, il 59% dichiara di provare attrazioni per persone dello stesso sesso prima dei 14 anni e addirittura il 92% entro i 19 anni (Barbagli e Colombo, 2001).

Posta l’importanza della scuola come supporto alla costruzione dell’identità sessuale e personale (al punto che i coetanei vanno a sostituire la famiglia nelle esigenze di sostegno e sicurezza quando i bisogni di appartenenza in famiglia non vengono soddisfatti), come viene vissuta l’omosessualità a scuola e quali criticità presenta?

Uno dei più grossi limiti è l’adesione incondizionata a modelli eterosessisti, dati per scontato, quale norma, con atteggiamenti omofobici di condanna, generando messaggi del tipo: ‘Puoi appartenere al gruppo solo se ti comporti o fai finta di essere eterosessuale’ (Hardin, 2008).

Ecco che il bisogno di accettazione porta gay e lesbiche a nascondere la propria sessualità per paura del rifiuto in cambio dei benefici che l’appartenenza a un gruppo apporta: sostegno emotivo, sviluppo delle abilità sociali, indipendenza dai valori familiari.

In una cornice omofobica di questa natura, l’omosessualità diviene da denigrare, attraverso varie forme di violenza perpetrate nei confronti delle persone omosessuali: i tipi di comportamento adottato variano dalle aggressioni fisiche (spinte, calci, mozziconi di sigarette spenti sul corpo) fino all’esclusione sociale, che si è dimostrata più efficace di quella fisica (Rivers e Smith, 1994).

Secondo Lingiardi (2007) è possibile individuare le caratteristiche distintive del bullismo omofobico:

  • Le prepotenze chiamano in causa una dimensione specificatamente sessuale, perché l’attacco è rivolto più alla sessualità che alla persona in sé;
  • Una maggiore difficoltà a chiedere aiuto per la propria omosessualità, perché essa richiama intensi vissuti di ansia e vergogna;
  • Il bambino vittima trova con difficoltà figure protettive: infatti “difendere un finocchio comporta il rischio di essere considerati omosessuali

Rispetto alla frequenza degli atti discriminatori, in una ricerca condotta su 7000 bambini di scuola primaria e secondaria in Gran Bretagna, si è rilevato che rispettivamente il 27% e il 10% erano state vittime di bullismo talvolta o più spesso; rispettivamente il 10% e il 4% una volta a settimana o più (Whitney e Smith, 1993). Sembra esservi una differenziazione della discriminazione a seconda degli indirizzi di studio: mentre si evidenziano attitudini più positive nei confronti delle differenze negli indirizzi artistici, gli studenti omosessuali degli istituti tecnici o professionali sarebbero i più discriminati (D’Ippoliti e Schuster, 2011).

Quali sono gli effetti di una tale discriminazione, sia a livello scolastico che personale? In generale, le conseguenze maggiori sono la riduzione delle opportunità individuali, sia in campo scolastico che lavorativo, e la riduzione della dignità (D’Ippoliti e Schuster, 2011).

In altre parole, la discriminazione può portare a vivere la scuola con disagio, aumentando l’insicurezza personale e relazionale, con mancato proseguimento degli studi e maggiore difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro. La discriminazione omofobica portata avanti da scuola e società espone gli omosessuali a un maggior rischio di disturbi dell’umore e consumo di sostanze quali nicotina, alcool e marijuana: ammonta a un terzo il numero dei giovani omosessuali che si tolgono la vita ogni anno, con una frequenza dei tentati suicidi doppia, e la causa è spesso da attribuirsi alla stigmatizzazione sociale (Barbagli e Colombo, 2001).

Come in ogni percorso educativo riuscito, è necessario incoraggiare il bambino a sentirsi bene con se stesso, resistendo alla tentazione di denigrarsi a sua volta (omofobia interiorizzata), valutando negativamente i propri pensieri e sentimenti, solo perché diversi da quelli della maggioranza. In questo senso la scuola dovrebbe essere un luogo privilegiato nel percorso di accettazione della propria sessualità e di socializzazione dei propri vissuti, visto che l’esposizione a omosessuali dichiarati può aiutare gli altri studenti a comprendere la realtà di gay e lesbiche. Lo dimostra una ricerca su 260 studenti di college americani: la percezione degli omosessuali da parte degli altri studenti cambia dopo la frequenza di un dibattito informativo tenuto da gay e lesbiche (Geasler, Croteau, Heineman e Edlund, 1995). Molti partecipanti alla ricerca infatti dichiaravano che l’esposizione personale alla discussione tenuta da persone omosessuali aveva contribuito a rimuovere stereotipi, scoprendo l’infondatezza di molti pregiudizi.

Insieme alle esperienze dirette, poi, il ruolo degli insegnanti è indispensabile per aiutare gli allievi nella ricerca, definizione e accettazione della propria identità: a tal fine sarebbe importante offrire un’educazione sessuale ad ampio spettro e comprensiva di tutti gli orientamenti, già a partire dalla scuola elementare e media.

Report dal Congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg, 20-22 novembre 2015

L’evoluzione della conoscenza psicologica dei disturbi alimentari oscilla da anni indecisa tra neuroscienze e psicologia cognitiva e al tempo stesso stabilmente si focalizza sul concetto di disregolazione emotiva.

Nel congresso dell’European Council of Eating Disorders (ECED) di Heidelberg (20-22 novembre 2015) queste due traiettorie si sono incrociate, come fanno da tempo. La psicoterapia cognitiva continua a detenere il primato dell’efficacia, anche se uno stallo di circa dieci anni la minaccia: nulla di nuovo è emerso dopo il secondo modello di Fairburn, quello transdiagnostico. Le ipotesi neuroscientifiche che esplorano le disfunzioni regolative delle emozioni e cercano di localizzarle nell’attività dell’amigdala sono audaci ma non hanno prodotto al momento ricadute cliniche paragonabili all’apparizione del protocollo cognitivo di Fairburn.

Nel giorno di apertura abbiamo ascoltato Hubert Lacey, storico anfitrione di questa società scientifica, l’ECED, e del suo congresso. La prima edizione si tenne a Londra negli anni ’80 e fu quasi un incontro informale nell’ufficio di Hubert. Dopo tutti questi anni il congresso dell’ECED mantiene la sua atmosfera di vecchi e pochi amici, un centinaio di professionisti dei disturbi alimentari, di “old dog” come dice Eric van Furth. Pochi ma buoni tuttavia gli happy few dell’ECED, dato che tra loro ci sono grandi studiosi, come gli stessi Lacey e van Furth, o Hans Hoeck –grande epidemiologo- e Martin Fichter, Ulrike Schmidt e la nostra Sandra Sassaroli.

 

Nel discorso di apertura, come dicevo, Hubert Lacey ha messo il dito nella piaga: le anoressiche non responders, questo 20% che assolutamente non migliora e tra le quali si annidano le più sfortunate vittime dell’anoressia, il più mortale tra i disturbi psicologici, quel 10% di pazienti circa che alla fine di terribili digiuni auto-inflitti finisce per soccombere alla morte. Lacey ha lucidamente enumerato le caratteristiche di queste pazienti, al cui centro vi è una modalità così pervasiva di adesione al timore di ingrassare e di smettere la dieta da farne quasi delle psicotiche.

Il giorno dopo abbiamo ascoltato Ulrike Schmidt proporre alcune possibili ricadute cliniche del modello disregolativo indebitato con le neuroscienze. Schmidt propone sia tecniche di espressione emotiva tese a incrementare la consapevolezza del significato esistenziale dei sintomi (consapevolezza che migliora il benessere emotivo ma –purtroppo- non la gravità del retringimento alimentare) sia interventi di feedback regolativo e di stimolazione cerebrale. Fichter ci ha aggiornato sui dati della mortalità delle anoressiche, mostrandoci dati allarmanti su questo triste fenomeno. Nel simposio sulla terapia cognitiva colleghi olandesi e norvegesi hanno parlato delle difficoltà che s’incontrano nell’applicazione piena del protocollo di Fairburn.

Un controllo di supervisione stretto e continuo è necessario per ottenere una buona aderenza degli operatori al protocollo. Ci ha fatto piacere apprendere che la versione del protocollo di Fairburn al trattamento ospedaliero più diffusa e utilizzata al mondo è quella proposta dal collega italiano Riccardo Dalle Grave. Complimenti! Infine i colleghi tedeschi del gruppo di Steffi Bauer e Marcus Moessner di Heidelberg ci hanno aggiornato sull’utilità delle piattaforme online per diffondere prevenzione e consapevolezza tra i giovani.

Il “contagio emotivo” nei social media: come avviene?

 

In tutti gli utenti, indipendentemente dal grado di sensibilità, le emozioni positive sono risultate essere più contagiose rispetto a quelle negative.

I social media sono usati come principale canale di discussione da milioni di persone ogni giorno.
Gli individui producono, quotidianamente, sui social media, micro-comunicazioni e le emozioni espresse in esse possono avere un impatto sugli stati emotivi degli altri.

Un nuovo studio rivela che le emozioni sono spesso condivise in modo virtuale su Twitter e che quelle positive sono di gran lunga più “contagiose” rispetto a quelle negative.
Alcuni ricercatori dell’Università della California (USC) hanno analizzato 3800 soggetti, scelti random tra gli utenti di Twitter, e hanno scoperto che taluni sono anche più sensibili all’influenza emotiva rispetto ad altri.

Emilio Ferrara, principale autore dello studio e informatico dell’USC, afferma che spesso quello che viene twittato e condiviso sui social-media non ha solo la funzione di essere espressione di sè, ma anche quella di influenzare gli altri.
Le scoperte, frutto della collaborazione di Ferrara e Zeyao Yang (Università dell’Indiana), sono state pubblicate sul giornale PLOS One.
I due studiosi hanno utilizzato un algoritmo che misura la valenza emotiva dei tweet classificandoli in positivi, negativi o neutri. Essi comparano il sentimento del tweet dell’utente, rispetto ai sentimenti di tutti i tweet che appaiono nei feed di tale utente durante l’ora prima.
Numeri superiori alla media di tweet positivi presenti nel feed erano associati alla produzione successiva di tweet positivi, mentre numeri superiori alla media di tweet negativi erano associati alla futura produzione di tweet negativi.

Circa il 20% degli utenti di Twitter erano ritenuti altamente sensibili a quello che i ricercatori chiamano “contagio emotivo”, essendo oltre la metà dei loro tweet identificabili come “influenzati”. Tali utenti erano condizionati circa quattro volte in più da tweet positivi rispetto ai tweet negativi.
Quelli meno sensibili al contagio emotivo, risultavano comunque sempre essere influenzabili, circa due volte in più, da tweet positivi rispetto a quelli negativi.

In tutti gli utenti, indipendentemente dal grado di sensibilità, le emozioni positive sono risultate essere più contagiose rispetto a quelle negative.
[blockquote style=”1″]Questo può essere rilevante per pianificare interventi sugli utenti che soffrono di depressione o di altre forme di disturbi dell’umore[/blockquote] sottolinea Ferrara.

Lo studio si basa su decenni di ricerche che dimostrano, in primo luogo, che le emozioni possono essere diffuse attraverso contatti personali, scoprendo ora che esse possono diffondersi altrettanto bene attraverso le interazioni on-line.

Tuttavia, l’analisi dei messaggi sui social media può essere impegnativa: Facebook lo scorso anno è stato criticato per aver modificato il News Feed di circa 700000 utenti, tentando di dimostrare un effetto simile a quello descritto nell’ articolo. Differentemente, Ferrara e Yang non vanno a manipolare ciò che gli utenti di Twitter stanno vivendo ed esprimendo, ma più semplicemente si limitano ad osservare ciò che è già stato espresso e ad analizzarlo.

La proteina prionica è protettiva contro l’epilessia: confermato con accuratezza senza precedenti il ruolo neuroprotettivo di PrPC

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) – COMUNICATO STAMPA

Un nuovo studio, il più sistematico e rigoroso finora compiuto in questo campo, stabilisce chiaramente uno dei ruoli benigni della proteina prionica (PrPC): la sua presenza nel cervello ha un ruolo nel prevenire l’insorgenza delle crisi epilettiche.

PrPC è forse più nota nella sua forma degenerata, il prione, l’agente infettivo alla base di alcune pericolose malattie neurodegenerative come per esempio il morbo della mucca pazza. Allo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports (gruppo Nature) ha collaborato anche la SISSA.

Da tempo gli scienziati si interrogano su quale sia il ruolo fisiologico di PrPC nel suo stato fisiologico normale. Studi precedenti avevano suggerito che fra queste funzioni vi fosse anche quella di evitare l’insorgenza di scariche epilettiche nel cervello (modulando probabilmente l’azione di canali sinaptici specifici), ma c’è chi aveva messo in dubbio la validità di queste ricerche.

L’idea era che, in passato, i modelli animali non fossero sufficientemente specifici e che le osservazioni fossero il prodotto di un errore, sistematico, sperimentale

spiega Giuseppe Legname professore della Scuola internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste. Legname è fra gli autori della nuova ricerca.

Con il nostro lavoro abbiamo voluto fugare ogni dubbio. Abbiamo utilizzato ben 4 modelli animali, proprio per mettere alla prova l’ipotesi neuroprotettiva di PrPC rispetto all’epilessia

Risultato?

PrPC ha sicuramente un ruolo nell’evitare le scariche epilettiche, quando manca infatti queste sono molto più frequenti.

Questo studio si pone ora come un riferimento importante nel suo campo:

Nessun altro finora ha utilizzato questa precisione e quest’ampia casistica. Lo studio è di spessore anche dal punto di vista della collaborazione fra istituti internazionali: la SISSA, ma anche l’Università di Barcellona, il Centro Tedesco per le Malattie Neurodegenerative di Gottinga, e altri istituti spagnoli

conclude Legname:

Naturalmente non ci fermeremo qui: stiamo infatti già continuando a migliorare i nostri risultati con un nuovo modello sviluppato utilizzando nuove tecniche genetiche avanzate e molto più precise che riesce a spegnere selettivamente solo la proteina prionica.

 

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Immagini:

Crediti: G.Giachin & G.Legname (SISSA)

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Tel:  (+39)  040  3787644  |  (+39)  366-­‐3677586    

via Bonomea, 265, 34136 Trieste    

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

 

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Cannabis: può essere terapeutica per la prevenzione dell’epilessia

Inside Out sorprende ancora: il primo appuntamento di Riley

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out e di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni. Successivamente ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Abbiamo inoltre analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia- psicoeducazione. E’ stato pubblicato, infine, un articolo su come, grazie al film Disney, l’educazione emotiva abbia raggiunto il grande schermo (NdR).

Inside Out ci sorprende ancora: i creatori Disney hanno ideato un nuovo cortometraggio in vista dell’uscita di DVD e Blu-Ray del film (nei quali sarà inserito come contenuto speciale).

Il cortometraggio racconta del primo appuntamento di Riley con un ragazzo: cosa succederà nella mente dei vari protagonisti? Quali emozioni si attiveranno nei genitori che, inaspettatamente, fanno i conti con questo momento? E la giovane Riley si lascerà guidare da Gioia, Tristezza o dalle altre emozioni?

Non ci resta che aspettare, nel frattempo un’anteprima del cortometraggio:

 

I poco amati, o indegni dell’amore – Tracce del Tradimento Nr. 32

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXXII: Il/La poco amato/a 

 

Alcuni cercatori di tracce di tradimento hanno lo scopo di ritornare a stare soli. Alcuni cercatori hanno la convinzione di essere tradibili, che sia pensabile al suo uomo o alla sua donna di preferire qualcun altro. Ha un dubbio sull’amore dell’altro perché ha un dubbio sulla sua dignità di essere amato e amabile.

Luigi era cresciuto in una famiglia spezzata dove il padre aveva precocemente abbandonato la casa e i figli senza da allora ricordarsi quasi mai di cercarli: questa mancanza precoce e il disinteresse che ne era seguito erano stati molto dolorosi per lui. Il padre di Luigi aveva poi avuto altre due mogli e altri figli e più si complicava la sua situazione, più era distaccato, lontano, squalificante quando riceveva da Luigi richieste di presenza o di affetto. Per tutti un esempio, una pasqua tra un matrimonio e l’altro aveva trascorso la festa con i figli di primo letto rendendo Luigi felice e incredulo. Egli aveva già 35 anni ma i suoi occhi e il suo interesse erano orientati con forza a ottenere dal padre rassicurazioni emotive e affetto. L’anno dopo Luigi aveva chiamato il padre per chiedergli se sarebbe stato presente e distrattamente egli aveva detto di sì. Ma la sua situazione matrimoniale era nel frattempo cambiata e la nuova moglie non voleva incontrare Luigi. Il padre non venne, e lo fece senza avvisare né spiegare nulla. Per Luigi questa fu la prova della sua posizione di povero uomo senza valore. Essere trascurato senza spiegazioni lo faceva pensare a un essere isolato, indegno, destinato a solitudine. Ebbe una depressione e in questa depressione cominciò a cercare le prove del tradimento di sua moglie. L’emozione dominante non era l’ansia o la paura ma la tristezza, cercava tracce con la convinzione ferma e indistruttibile che il tradimento fosse l’ineluttabile coronamento della sua storia affettiva. Come poteva un uomo come lui essere amato e stimato nel tempo con fedeltà? Rispondeva quasi con rabbia alle rassicurazioni affettuose della moglie.

Il cercatore depresso ha un problema di fiducia che deriva proprio da questo, da una visione di se stesso come scarsamente degno di amore, di passione e di rispetto. Egli pensa del suo uomo o della sua donna che sono affascinanti e desiderati. E costruisce così lo scopo di cercare tracce. Cercare tracce è un’attività dolorosa che viene vista come una sorta di giusta modalità di rimettere le cose a posto e vissuta come ineluttabile. Molte volte alla fine può accadere che le tracce di qualche presente o passato tradimento vengano alla fine trovate, oppure che a qualche segno neutro si dia una interpretazione nefasta. La sensazione soggettiva sarà allora, quasi di gioia. Di soddisfazione, di giusta soddisfazione. Egli sarà rassicurato nelle sue credenze sul disamore e sulla dolorosa superiorità del fascino dell’altro insieme al suo proprio personale disvalore. Le tracce vengono in questo caso a rappresentare una filosofia generale sul mondo. Non vi è gioia e non vi è giustizia e la sfortuna si accanisce in modo arbitrario su alcuni privandoli di un destino felice anche soltanto immaginabile. La certezza del disamore è per questa persona preferibile alla navigazione nei terreni incerti dell’amore dubbioso, tormentato. Non sempre in questi casi si decide, si è in grado di decidere di separarsi, ma quando alla fine ci si ritrova soli si è almeno certi del torto subito e della propria filosofia. A volte invece si abbandona con uno scontro aperto e un abbandono impulsivo, rabbioso dimostrativo. All’altro non viene lasciata nessuna possibilità di recupero e dialogo, ci si ritrova soli, vittime, pieni di amaro. Il fatto che il tradimento soltanto immaginato sia stato accertato o fortemente sospettato crea uno stato di dolorosa certezza.

Allora è vero, effettivamente io sono uno di quelli destinati a stare soli, per sfortuna, per destino, per il volere degli dei nefasti. Le cose dopo il disordine e le paure del rapporto sono a posto, sono di nuovo in ordine, è vero sono destinato a stare solo. Paradossalmente da questa nuova e dolente prospettiva il mondo è divenuto più prevedibile, maggiormente rassicurante, è avvenuto ciò che è giusto e che mi aspettavo, sono dolente ma più calmo.

Ma a volte realmente non esiste tradimento e si è costretti a fare i conti amaramente con la fedeltà dell’altro. Se non riesce a trovare tracce non si placa perché il tormento dell’incertezza fa sentire come preferibile l’abbandono, la lotta a questo vuoto, a questo rimuginare. Ma anche quando si è capaci di rassegnarci al miracolo di una relazione profonda e solida da parte del partner questo è difficile che basti a costruire, a recuperare una visione del mondo meno dura e dolorosa, e spesso verso il proprio compagno si diventa sfidanti, distanzianti, e non capaci di dialogo affettuoso e piacevole. A volte il compagno affettuoso viene svalutato proprio per questa sua affettuosità per un uomo o una donna così indegni. Forse anche lui è un poveretto o un essere squallido e senza alternative.

Una paziente di mezza età non capiva perché la situazione familiare, nonostante i figli fossero pieni di risorse e energia e nonostante la situazione economica fosse abbastanza florida, fosse rovinata dall’ atteggiamento negativo sfiduciato e sfidante del marito che tornando a casa non ripeteva altro che osservazioni amare sul mondo e sull’ inutilità di tutto. Lo faceva quasi a sfidarla, con rabbia e lei non riusciva a rassicurarlo in nessun modo. Questa situazione la stava facendo diventare realmente preoccupata e depressa, perché [blockquote style=”1″]come faccio dottoressa a pensare di invecchiare con uno che mi accusa sempre che tanto lo lascerò perché così va il mondo, io non vorrei lasciarlo, so come è fatto, so come è pessimista ma alla fine ho 60 anni, stiamo insieme da trentacinque anni e gli sono affezionata e dove crede che io voglia andare, ma insomma se continua così tra un po’ finisce che vado a Bergamo a vivere vicina a mia figlia che me lo chiede sempre, e lo lascio solo, anche se mi fa pena…[/blockquote]

Dal punto di vista di lui nulla può servire a stare bene, se la moglie rimane in casa egli è sospettoso e tormentato da timori e ossessioni, se alla fine, stanca va a vivere dalla figlia, egli ha la conferma che non gli voleva bene e che egli era nel giusto con i suoi comportamenti sospettosi e timorosi. Come emerge con chiarezza da questo esempio l’unica cosa certa è la ripetitività dei comportamenti di lui e la ricorsività delle emozioni negative e la impossibilità a uscire dal circolo vizioso della sofferenza subita e indotta nell’ altro.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Intelligenti si nasce? Verso una visione incrementale delle capacità cognitive

Corinne Oppedisano

 

L’intelligenza è una capacità complessa di cui la definizione e l’ operazionalizzazione risultano complesse e dunque molteplici. Per Piaget l’intelligenza è una forma di adattamento dell’organismo all’ambiente fisico e sociale circostante, secondo una reciproca influenza che riguarda non solo la capacità dell’ambiente di modificare l’organismo ma anche la possibilità per l’organismo di agire attivamente sull’ambiente a proprio vantaggio.

Secondo Dweck, le teorie dell’intelligenza possono essere suddivise in due macrocategorie: le teorie entitarie e quelle incrementali. Il primo gruppo di teorie concepisce l’intelligenza come una forma fissa e data, un’entità stabile e immodificabile, un patrimonio che ogni individuo riceve alla nascita e sul quale non ha nessuna possibilità di accrescimento. Secondo le teorie incrementali, invece, le abilità cognitive sarebbero il risultato delle stimolazioni ambientali e delle esperienze di apprendimento che, a partire dal patrimonio di risorse individuali, permettono un ampliamento, non tanto della conoscenza, quanto degli strumenti di analisi e comprensione del reale che consentono un arricchimento dei mezzi verso la conoscenza.

Ognuno di noi ha la propria teoria implicita dell’intelligenza, una concezione sulle abilità cognitive che è in grado di determinare atteggiamenti diversi di fronte alle sfide da affrontare e differenti reazioni al fallimento. Coloro che possiedono una visione entitaria dell’intelligenza preferiscono affrontare compiti in cui sanno di riuscire, questo perché il fallimento è vissuto come una conseguenza della propria immodificabile incapacità di affrontare il compito. Ciò induce a evitare situazioni incerte che potrebbero in realtà rappresentare delle preziose opportunità di apprendimento.

Il ritenere di poter accrescere le proprie potenzialità cognitive induce invece a cercare attività sfidanti che rappresentano delle occasioni per acquisire nuove capacità. Anche il fallimento dunque non rappresenta la reificazione di uno status quo di immodificabile mancanza, quanto piuttosto l’opportunità di capire che bisogna cambiar strategia e adottare nuove soluzioni, più adatte alla richiesta dell’ambiente. Ne consegue che la teoria dell’intelligenza determina un atteggiamento verso l’apprendimento che risulta centrale in tutti i contesti formativi e lavorativi, primo fra tutti la scuola. Incoraggiare la discussione sulle teorie implicite dell’intelligenza che guidano un alunno può rappresentare una preziosa occasione per accompagnare verso una modificazione dell’atteggiamento nei confronti dello studio ma anche più in generale nei confronti delle situazioni extra-scolastiche.

Le potenzialità della discussione sulle teorie dell’intelligenza sono molteplici perché da un lato agiscono sulla propensione ad affrontare compiti sempre più difficili, dall’altro permettono di risignificare l’errore, il quale non è più un segno della propria mancanza ma un’opportunità di rimettersi in discussione e fare meglio. Bisogna evidenziare altresì come sia importante favorire una visione incrementale dell’intelligenza prima di tutto nei formatori coinvolti nelle sfide educative, come gli insegnanti. Un docente che ha un modello entitario dell’intelligenza favorirà l’interiorizzazione dello stesso tipo di teoria anche negli alunni a cui insegna. Un insegnante che crede nella modificabilità cognitiva strutturale dell’alunno, al contrario, può incoraggiare il cambiamento, favorire la crescita e determinare nuovi stili di apprendimento. Anche i genitori hanno un ruolo centrale nel determinare l’adozione di un modello di intelligenza incrementale. In particolare la lode in seguito al successo, così come la critica di fronte all’insuccesso, favoriscono una visione incrementale dell’intelligenza quando sono rivolte alle strategie e all’impegno che il bambino ha posto nel compito. Al contrario lodare o criticare la persona induce a ritenere che la prestazione sia centrale nel definire il valore di sé e questo instilla la paura del fallimento che rappresenta un forte ostacolo alla crescita personale.

L’adozione di un modello incrementale dell’intelligenza ha dato vita negli ultimi decenni a numerosi programmi di educazione cognitiva la cui finalità è accompagnare la persona verso un cambiamento che sperimenterà attivamente in prima persona. Fra questi ricordiamo il metodo Feurestein che, facendo della modificabilità cognitiva strutturale il presupposto imprescindibile dell’intervento, attraverso un’esperienza di apprendimento mediato, si propone di accompagnare la persona verso una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità e del proprio stile cognitivo e verso una sperimentazione di nuove modalità di pensiero, il tutto nel contesto di una relazione con il mediatore- formatore che restituisce importanza anche agli aspetti emotivi delle situazioni di apprendimento. Una buona relazione fra formatore e discente appare dunque come il presupposto irrinunciabile sul quale si fonda la discussione e la ridefinizione dell’ intelligenza che rendono possibile l’inizio di un percorso verso una maggiore consapevolezza del proprio funzionamento mentale e una maggiore autonomia.

L’utilizzo della mindfulness nel trattamento delle dipendenze patologiche

Francesca Mazzocco, Claudia Soldi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Questo lavoro mira ad integrare i due costrutti “Mindfulness” e “Addiction”, come chiave per comprendere i modelli neuropsicologici che si basano sull’addiction e gli interventi psicoterapeutici che derivano da essi.

 

A tal proposito l’apporto dei processi di mindfulness è cruciale sia da un punto di vista teorico e sia da un punto di vista applicativo in alcuni recenti approcci psicoterapeutici, tra cui ad esempio la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Functional Analytic Psychotherapy (FAP).

Tutti i modelli terapeutici che includono i processi di mindfulness, hanno come scopo principale quello di portare la persona a modificare alla radice il rapporto con le proprie esperienze interne ed in generale.
L’obiettivo è quello di sviluppare l’abilità di ognuno di noi, di osservare la propria esperienza mentre accade e non solo quella di esserne il soggetto, il protagonista e l’attore.

Questa capacità del sé di osservarsi in azione in modo non giudicante e non orientato a modificare in alcun modo ciò che si sta osservando, crea quello spazio, quel decentramento necessari a perseverare nelle proprie scelte e nei propri comportamenti anche in presenza di esperienze di vita dolorose e spaventose. Da qui l’emergere di modelli psicologici che si fondano sulla constatazione dell’ubiquità della sofferenza umana e della conseguente impossibilità di liberarsene o di risolverla, stimolando lo sviluppo e l’applicazione in ambito terapeutico di principi e metodi profondamente radicati nella psicologia orientale, con l’esigenza di integrare diversi approcci valorizzando quelle componenti innate della natura umana, decisive nell’influenzare la lettura degli eventi, i comportamenti e gli stati emotivi dell’individuo.

Tali componenti possono essere individuate nell’accettazione dell’esperienza (Hann, 1998; Hayes, Strosahl, Wilson 1999), nell’atteggiamento compassionevole verso la propria e altrui sofferenza (Gilbert, 2005), nella capacità di auto-osservazione non giudicante (Kabat-Zinn, 1990), nell’idea che la mente può osservare se stessa e comprendere la propria natura (Dalai Lama, Benson, Thurman, Goleman e Gardner, 1991).
La capacità peculiare di tali componenti è quella di dirigere l’attenzione verso la sfera emotiva e verso il rapporto di interdipendenza e reciproca influenza tra mente e corpo (Goleman, 1991), e più in generale in un atteggiamento capace di armonizzare e normalizzare le variabili intra e interpersonali.

Tutte queste componenti possono essere riassunte nel concetto di mindfulness.
La mindfulness consiste quindi nella capacità di sviluppare e mantenere un’attenzione consapevole, non è una tecnica di rilassamento, bensì una pratica per sviluppare l’attenzione volontaria.
Secondo la definizione di Joan Kabat-Zinn (1990), mindfulness significa [blockquote style=”1″]Porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante.[/blockquote] Si tratta quindi di stato mentale correlato a particolari qualità dell’attenzione e della consapevolezza, in cui la persona ascolta e osserva le proprie emozioni, le proprie sensazioni fisiche e i propri pensieri, accettandoli così come sono, senza giudicarli, senza cercare di modificarli, né bloccarli.
La pratica della mindfulness si propone quindi, di aiutare a sostituire nella vita quotidiana comportamenti reattivi, automatici e distruttivi con scelte consapevoli e appropriate al contesto.
La mindfulness, nella concezione più generale del termine, propone un modo di essere consapevoli, che può servire come via d’accesso a un modo più vitale di essere nel mondo; in pratica, imparando ad essere mindful, riusciremo a sintonizzarci con noi stessi: [blockquote style=”1″]Essere consapevoli della pienezza della nostra esperienza ci rende consapevoli del mondo interno della nostra mente e ci immerge completamente nella nostra vita[/blockquote] (Siegel, 2009).

La mindfulness non cambia i contenuti della nostra mente (pensieri) ma le nostre relazioni con essi e si presenta come uno strumento che può essere integrato ad una terapia.
Come afferma Kabat-Zinn (1990), infatti i pensieri sono solamente pensieri, non rappresentano la realtà; la consapevolezza che noi non siamo i nostri pensieri porta al distanziamento da essi e alla possibilità di entrarci in relazione per quello che in realtà sono: semplici eventi mentali, indipendentemente dal loro contenuto o dalla loro carica emotiva.

In ambito clinico, la mindfulness rientra negli orientamenti terapeutici della cosiddetta terza onda della terapia cognitivo-comportamentale ed è stata sviluppata in una serie di protocolli molto efficaci per affrontare e superare il dolore cronico e lo stress, le recidive depressive, le ricadute nella dipendenza da alcool e sostanze (in cui focalizzeremo l’attenzione), e nei disturbi alimentari (MBSR- MindfulnessBased Stress Reduction; MBCT- MindfulnessBased Cognitive Therapy: MBRP- MindfulnessBased Relapse Preention; MB-EAT- MinfulnessBasedEatingAwareness Training).

Le dipendenze (Addictions)

La dipendenza comporta l’uso di sostanze, che a loro volta creano uno stato alterato di coscienza, con una modalità compulsiva e distruttiva che induce a ricercare il piacere ed evitare il dolore (il paradigma della fuga).

Quindi, se la dipendenza implica mancanza di consapevolezza e fuga, di conseguenza l’essenza della cura è un approccio che mira ad aiutare la persona a ricordare, ad aumentare la consapevolezza e la capacità di sperimentare la vita con lucidità senza evadere. La mindfulness è proprio questo genere di pratica, è l’essere aperti all’esperienza momento per momento in modo non giudicante, e il ruolo del terapeuta è proprio quello di favorire un cambiamento nella consapevolezza e di rendere più evidenti le conseguenze negative dell’uso di sostanze. Il tipo di consapevolezza richiesta varia a seconda delle fasi di cambiamento.

Prochaska e Di Clemente (1986) hanno svolto un’analisi dei fattori riguardanti le fasi attraverso le quali si passa per cambiare un comportamento che crea dipendenza e successive ricerche hanno scoperto che è possibile tracciare queste fasi non solo nelle dipendenze, ma in ogni genere di cambiamento nel comportamento umano. Nel modello completo a sei fattori le fasi sono: pre-contemplazione (significa non-consapevolezza, in questa fase la persona semplicemente non sa che c’è un problema, non si tratta di negazione, poiché quest’ultima indica che il problema esiste ma che l’individuo si rifiuta di riconoscerlo); contemplazione (la persona è impegnata in un dialogo interiore per scoprire se il problema è reale o meno); determinazione (in questa fase la persona è pronta per il cambiamento, e per passare alla fase successiva, deve percepire che ci sono possibilità che rendono possibile il cambiamento); azione (in cui la persona compie i passi concreti richiesti dal cambiamento); mantenimento (rappresenta la fase più difficile e significativa, prevedere situazioni difficili che possono emergere, es. una festa di nozze in cui si possono trovare alcolici); ricaduta (quando le persone non riescono a modificare al primo tentativo i comportamenti che creano dipendenza). Per questo è importante che il terapeuta conosca bene le fasi in cui il paziente si trova in modo da offrirgli le terapie appropriate.

Volkow, (2007) definisce la tossicodipendenza una malattia complessa ma curabile, che colpisce le funzioni cerebrali e modifica il comportamento. L’uso di droghe altera la struttura e le funzioni cerebrali provocando cambiamenti che persistono nel tempo, anche dopo l’interruzione dell’uso, oltre ad esporre le persone al rischio di sviluppare numerosi altri disturbi fisici e mentali legati agli effetti tossici della droga stessa.
Proprio perché la tossicodipendenza coinvolge così tanti aspetti della vita personale di un individuo, non esiste un unico trattamento efficace in assoluto. Le nuove scoperte scientifiche nel campo del neuroimaging ci mostrano l’efficacia di nuove terapie farmacologiche e comportamentali, per la dipendenza.

I pazienti che abusano di sostanze ricevono generalmente un trattamento psicoterapico al fine di:
• ottenere una modifica comportamentale nei confronti dell’uso di sostanze;
• affrontare le patologie correlate all’uso di sostanze, come depressione, ansia, disturbi post-traumatici da stress (PTSD) e disturbi di personalità.
Sebbene, ad oggi, molte ricerche si siano focalizzate sul trattamento farmacologico (Koob GF, 2000), recenti studi hanno scoperto che mirare a specifiche disfunzioni neurobiologiche, utilizzando tecniche di trattamento cognitive e comportamentali, può rivelarsi importante anche nella prevenzione delle ricadute (DeVito EE et al., 2012; FeldsteinEwing SW et al., 2011; Goldstein RZ et al., 2009; Naqvi NH &Bechara A, 2010; Potenza MN et al., 2011; Volkow ND et al., 2010).

Potenza e colleghi (2011), nella loro revisione dei meccanismi neurali che potrebbero essere alla base dei trattamenti per la dipendenza, suggeriscono che i trattamenti comportamentali potrebbero essere più efficaci nel cambiamento della corteccia prefrontale e del funzionamento esecutivo (ad esempio, i processi top-down), mentre gli interventi farmacologici sembrano essere più efficaci nel cambiamento dei circuiti striatali della ricompensa (ad esempio, i processi bottom-up). Coerentemente con queste ipotesi, Volkow e colleghi (2010) hanno addestrato delle persone con dipendenza da cocaina ad inibire intenzionalmente le risposte al craving per la cocaina, e utilizzando la PET, hanno trovato che l’inibizione cognitiva attiva del craving per la droga era associato con diminuita attività metabolica nel nucleo accumbens e nella corteccia orbitofrontale mediale destra, rispetto ad un gruppo che non doveva cercare di inibire il craving per la sostanza.

Secondo questi autori, interventi cognitivi progettati per rafforzare il controllo inibitorio e diminuire l’impulsiva ricerca della droga in risposta a stimoli correlati ad essa, possono essere utili nel trattamento della dipendenza.
In un altro studio, Janes e colleghi (2010) hanno utilizzato la fMRI per esaminare le risposte di 21 donne fumatrici ad immagini legate al fumo rispetto a immagini neutre. Successivamente hanno condotto sondaggi di follow-up durante 8 settimane di un intervento comportamentale e farmacologico per smettere di fumare. Coloro che hanno continuato a fumare sigarette durante le 8 settimane di trattamento, hanno mostrato un aumento della risposta BOLD (Blood Oxygen Level Dependent) agli stimoli legati al fumo, al momento della valutazione iniziale, nell’insula, nell’amigdala, nell’ACC, nella corteccia prefrontale e in numerose altre aree. Le analisi della connettività funzionale inoltre, hanno rivelato una diminuita connettività funzionale tra le regioni della corteccia prefrontale e l’ACC e l’insula, suggerendo che chi fumava una sigaretta avrebbe potuto mostrare un minor controllo top-down ed una maggior consapevolezza enterocettiva bottom-up degli stimoli fumo-correlati.

Questo pensiero si allinea con quello di Goldstein e colleghi (2009), i quali hanno proposto che un training cognitivo per migliorare la consapevolezza di sé e ridurre i bias attenzionali verso gli stimoli della droga possa aiutare a prevenire le ricadute. Witkiewitz e colleghi (2012) ipotizzano che un trattamento basato sulla mindfulness, una nuova tecnica cognitivo-comportamentale basata sulla consapevolezza, possa essere ideale per mirare a ciascuna di queste aree. La Mindfulness-based Relapse Prevention (MBRP) è una tecnica cognitivo-comportamentale per la prevenzione delle ricadute nei pazienti tossicodipendenti (Witkiewitz K et al., 2012).

Un gruppo di ricercatori della Washington State University ha da poco pubblicato una revisione della letteratura sugli studi che hanno utilizzato questa tecnica nella fase post-terapeutica del percorso di disintossicazione, per indagarne i possibili meccanismi neurobiologici sottostanti. I più forti predittori di recidiva nei pazienti tossicodipendenti sono il craving e l’affettività negativa. Il primo è definito come spinta e desiderio soggettivo di consumare sostanze stupefacenti, la seconda rappresenta la disposizione individuale a sperimentare stati emotivi avversi, che si accentua nei periodi particolarmente stressanti. È per questo che la maggior parte dei trattamenti contro la dipendenza da sostanze stupefacenti si concentra sulla riduzione del desiderio di assumere sostanze e sulla gestione dello stress. Si ritiene che il motivo delle ricadute possa essere collegato ad un deficit funzionale nel sistema prefrontale di controllo esecutivo (top-down), nel circuito della gratificazione striatale ventrale (bottom-up) oppure nel circuito di apprendimento delle abitudini dello striato dorsale.

Secondo gli autori, le evidenze che emergono dalla metanalisi suggeriscono che la MBRP influenza e modifica in maniera efficace i processi automatici (bottom-up): il sistema di risposta allo stress, il sistema di reattività emozionale (compresi l’insula, la corteccia cingolata anteriore e l’amigdala) ed il comportamento di ricerca automatica della droga (che coinvolge lo striato). In sinergia con interventi comportamentali mirati, la pratica della mindfulness è associata anche al potenziamento dei processi top-down (funzionamento esecutivo, controllo cognitivo, regolazione dell’attenzione e delle emozioni, controllo inibitorio, motivazione e decision-making) attraverso cambiamenti nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ventromediale, nella corteccia orbitofrontale, nell’ippocampo e nell’insula. Sebbene, ad oggi molte ricerche si siano focalizzate sul trattamento farmacologico (Koob GF, 2000), tali studi hanno mostrato che mirare a specifiche disfunzioni neurobiologiche, utilizzando tecniche di trattamento cognitive e comportamentali, può rivelarsi importante anche nella prevenzione delle ricadute (De Vito EE et al.,2012; Feldstein Ewing SW et al., 2011; Goldstein RZ et al., 2009; Naqvi NH & Bechara A, 2010; Potenza MN et al., 2011; Volkow ND et al., 2010).

Mindfulness & Dipendenze, la prevenzione delle ricadute: Mindfulness Based Relapse Prevention

Il programma MBPRP (Mindfulness Based Relapse Prevention) basato sulla mindfulness si sviluppa per la prevenzione delle ricadute nella tossicodipendenza. I Disturbi da uso di sostanze sono condizioni croniche recidivanti dove quindi la ricaduta ne caratterizza il decorso. In particolare si manifesta il craving cioè un desiderio intenso di assumere una sostanza psicotropa i cui effetti sono già stati sperimentati in precedenza, dove generalmente si intrecciano ricerca del piacere ed evitamento del dolore. In tutti i differenti interventi la ricaduta rimane un problema cruciale presente in più della metà dei soggetti. La prevenzione alla ricaduta è quindi la sfida più importante nei trattamenti per le tossicodipendenze.
La peculiarità di questo programma terapeutico risulta quindi essere la combinazione fra pratica meditativa e modello RP (Relapse Prevention) cioè un intervento cognitivo-comportamentale volto a prevenire e gestire le ricadute.

Come riportato precedentemente i modelli di trattamento basati sulla mindfulness condividono l’obiettivo principale di modificare alla radice il rapporto con la propria esperienza, in particolare con quella interna, sviluppando le abilità di osservarla proprio mentre accade. Questo dovrebbe aiutare a trovare uno spazio per mentalizzare i propri bisogni e stati di sofferenza. La mindfulness vuole aiutare a sviluppare la possibilità di non reagire automaticamente o inconsapevolmente, essa può essere considerata la via d’uscita dal nostro stato di trance quotidiano dove siamo in balia di condizionamenti consci ed inconsci, abituali ed automatici.

Il programma MBRP si svolge in gruppo ed è mirato sull’esperienza diretta al fine di riflettere lo scopo centrale della mindfulness: osservare quello che sta succedendo nel momento invece che perdersi in interpretazioni e storie raccontate. Nelle diverse sessioni viene dato rilievo alle sensazioni corporee, ai pensieri ed alle emozioni e per questo i partecipanti vengono spesso spronati a tornare all’esperienza immediata. Con la mindfulness si tenta di gestire craving ed impulsi osservandoli e senza farsi travolgere dentro. La mindfulness, infatti, vuole aiutare questi pazienti a vedere le cose per come sono: riconoscere, sentire e accettare il disagio quando si manifesta e cercare di comprenderlo invece che rifuggirlo. Si mira inoltre a fornire strumenti su come far fronte alle ricadute: se l’individuo acquisisce nuove strategie di coping nelle situazioni stressanti, il senso di autoefficacia viene potenziato e le probabilità di ricaduta si riducono.

Nel programma i partecipanti si mettono in gioco in prima persona riportando situazioni di potenziale difficoltà e rischio, da questi racconti si identificano quindi stimoli e situazioni che rendono particolarmente vulnerabili i partecipanti e si identificano successivamente insieme abilità concrete da usare in queste occasioni.
La mindfulness aiuta in quanto favorisce un più ampio senso di scelta, compassione e libertà. L’obiettivo di queste pratiche è incrementare la consapevolezza dei segnali e delle reazioni automatiche, sviluppare una nuova relazione con queste esperienze e favorire l’apprendimento di strategie pratiche da utilizzare in situazioni ad alto rischio. Riprendendo una metafora del programma si mira ad imparare a “cavalcare l’onda del craving senza esserne travolti”. Qui è quindi utile accettare craving e desideri in modo da poterli esplorare, osservare e successivamente gestire in modo da incrementare il senso di autoefficacia.

La ricaduta viene quindi vista come un evento comune e considerata come un’opportunità di apprendimento piuttosto che un fallimento. Il fallimento viene infatti visto come autoaccusa e senso di colpa esponendo il soggetto ad un rischio maggiore di ricaduta.
Tramite gli esercizi di mindfulness si vuole aiutare il paziente affetto da dipendenza da sostanze a prendere coscienza del ventaglio di scelte a sua disposizione uscendo quindi dalla “trappola mentale” della dipendenza. Questo permette di uscire dagli schemi mentali e dalle reazioni automatiche.
Il programma è rivolto a soggetti già in astinenza dalle sostanze, in particolare si tratta di un programma ambulatoriale di aftercar per consolidare i risultati ottenuti. Prima del gruppo si svolgono brevi colloqui individuali coi partecipanti per conoscenza e per sviluppare l’alleanza terapeutica, viene spiegato il protocollo ed indagata la motivazione.

Il programma viene svolto in gruppi di circa 6-12 partecipanti e consiste in un gruppo chiuso. Esso consiste in otto sessioni a cadenza settimanale della durata di circa due ore l’una. Il setting ideale deve avere tappetini, cuscini e pouff in modo da permettere di sedersi sul pavimento comodamente.
Il clinico che conduce il protocollo deve avere esperienze di mindfulness, questo perché la propria esperienza personale rende maggiormente in grado di supportare le altre persone nella pratica.
Ogni incontro inizia con un momento di meditazione per promuovere maggiore consapevolezza e presenza e termina distribuendo le schede dei compiti. Ogni settimana vengono infatti dati dei compiti da svolgere a casa i quali vengono poi usati come materiale nelle sessioni successive. Durante le sessioni è molto importante rivedere i compiti svolti a casa e chiarire eventuali dubbi e difficoltà. Spesso capita infatti che aver vissuto sentimenti di malessere durante la pratica venga letto come un aver svolto male la pratica perché in automatico viene vista come qualcosa che deve essere piacevole e rilassante. La mindfulness invece vuole creare consapevolezza ed uno spazio per ogni esperienza incluso malessere e stress e spesso la fatica è più nel tentativo di controllare questi aspetti che viverli.

Le otto sessioni sono così suddivise:
Nelle prime tre sessioni si lavora sulla pratica della consapevolezza e sulla sua integrazione nella quotidianità.
Nelle tre sessioni centrali si mira all’accettazione dell’esperienza presente e all’applicazione nella prevenzione della ricaduta.
Nelle ultime due sessioni si estende la pratica a questioni legate alla cura del sé, alla rete di supporto ed a uno stile di vita equilibrato.
Dal punto di vista della ricerca l’approccio è di tipo evidence-based. Studi sottolineano che soggetti che svolgono questo programma hanno livelli inferiori di craving o abuso di sostanze in risposta a stati affettivi negativi (Witkiewitz, lustyk, Bowen 2012). Risultati di uno studio indicano una significativa diminuzione del craving, incremento dell’accettazione e tendenza ad agire con consapevolezza (Bowen, Chawla, Collins, 2009).

Le sessioni del programma Mindfulness Based Relapse Prevention

SESSIONE 1 – PILOTA AUTOMATICO E RICADUTA

Nella prima sessione si affronta il tema del “pilota automatico”: l’azione senza consapevolezza. Si vuole infatti introdurre ai soggetti il concetto che quotidianamente agiamo con il “pilota automatico”, tuttavia è possibile imparare a discriminare fra modalità automatica e consapevolezza per giungere ad osservare cosa accade nella mente e nel corpo senza reagire in modo automatico. Successivamente si discute il nesso tra pilota automatico e ricaduta in quanto davanti a craving ed impulsi la reazione è spesso da “pilota automatico”. Il primo esercizio viene quindi definito “esercizio dell’uvetta” e consiste nell’osservare e poi mangiare consapevolmente un singolo acino d’uva al fine di introdurre il coinvolgimento consapevole ed osservarne tutti i pensieri e sensazioni che spesso trascuriamo. Il conduttore deve mostrarsi abile nel riportare costantemente l’attenzione sull’esperienza presente in quanto frequentemente vi saranno deviazioni su altri pensieri o reazioni. Questo continuo riportare all’esperienza diretta deve anche essere utilizzato per favorire l’attenzione sulla tendenza della mente a vagare altrove e sulla necessità di riportarla al momento presente. Dopo questo esercizio si invitano i partecipanti a presentare altre situazioni della loro vita in cui hanno agito con il pilota automatico.
Successivamente il conduttore porta l’esercizio nel contesto della ricaduta: “Perché stiamo facendo questo esercizio nell’ambito di un programma di prevenzione alla ricaduta?”. Qui uno degli strumenti proposti per lavorare nel gruppo e a casa è il Body-scan tramite il quale si prende consapevolezza di tutte le sensazioni che proviamo nel corpo. Fondamentale risulta quindi poi il concetto che il craving e gli impulsi spesso si manifestano anche attraverso correlati fisici.
Alla fine della prima sessione bisogna rimandare l’importanza della pratica a casa in quanto il cuore della pratica è l’esercizio quotidiano. Dopo questa prima sessione un compito a casa può essere applicare la stessa attenzione e consapevolezza che abbiamo applicato all’esercizio dell’uvetta su un’altra azione che generalmente svolgiamo in modo automatico e praticare con costanza il body scan. Può essere utile suggerire la compilazione di un diario.

 

SESSIONE 2 – CONSAPEVOLEZZA DEGLI EVENTI SCATENANTI E DEL CRAVING

In questa sessione si lavora sul riconoscimento degli eventi scatenanti. Gli eventi scatenanti spesso portano infatti ad una concatenazione automatica di pensieri ed azioni dove la mindfulness dovrebbe creare uno spazio di pausa in questa concatenazione automatica. A tal fine viene proposto l’”Esercizio della passeggiata in strada” dove lo scopo è permettere ai partecipanti di osservare la risposta iniziale della mente ad uno stimolo ambiguo e riconoscere la cascata di pensieri, emozioni e sensazioni fisiche prodotte da questo. Nello scenario si rivive una situazione di una persona in lontananza che ci sembra di conoscere e vorremmo salutare ma la persona non ricambia il saluto. In seguito a questo scenario presentato con poche parole ed in modo vago i partecipanti descrivono ogni pensiero o emozione che attraversi la loro mente. Facendo l’esercizio i partecipanti diventano consapevoli delle proprie reazioni e delle diverse reazioni di ognuno, di come gli eventi siano spesso interpretati e della concatenazione di reazioni che scatenano. Da questo esercizio dovrebbero apprendere come le interpretazioni non sempre coincidono con la verità e come possono causare un comportamento reattivo dovuto a pensieri ed emozioni.

Come secondo esercizio viene proposto “l’Esercizio del surf dell’impulso”: vivere il craving non più con timore ma con curiosità e gentilezza. A fronte di un episodio di forte craving del soggetto nel raccontarlo lo si invita a rivedere la concatenazione scatenata. Nel ripercorrere questo episodio di craving i partecipanti vengono invitati ad usare la stessa attenzione usata nell’esercizio dell’uvetta o in quello del body scan.
Questo è un esercizio cruciale del protocollo, riuscire a fermarsi senza farsi travolgere dal craving ed osservare cosa accade. “Cavalcare il craving” viene proposto in questo esercizio come un modo per restare presenti all’intensità del craving senza rimanerne sopraffatti o comportarsi reattivamente. Ai partecipanti viene chiesto di immaginare l’impulso come un’onda dell’oceano e se stessi mentre praticano il surf, usando il respiro come una tavola da surf per cavalcare l’onda. Vengono successivamente discusse sensazioni fisiche spesso descritte come intollerabili ed intenso desiderio di mascherare uno stato emotivo. Viene poi spiegato che il craving non è una linea che sale sempre di più di intensità ma come un’onda raggiunge l’apice per poi scendere.

 

SESSIONE 3 – MINDFULNESS NELLA VITA QUOTIDIANA

Durante la sessione, a seguito di una fase di apertura, viene svolto un compito di consapevolezza dell’ascolto: imparare ad uscire dal pilota automatico per focalizzarsi con attenzione sull’attività che stiamo svolgendo. Il compito viene svolto prevalentemente da seduti, bisogna stare nel momento presente anche se la mente tenderà a divagare, accettare ed osservare la cosa per poi riportare con gentilezza al momento presente.
La vera pratica tuttavia consiste nel riuscire a portare questa conoscenza nella vita quotidiana e per questo nell’esercizio successivo viene proposta la tecnica della respirazione SOBER (Stop, Observe, Breath, Expand, Respond). È una delle pratiche quotidiane più utili in situazioni di alto rischio o stressanti. In queste situazioni tendiamo ad adottare il pilota automatico e comportarci in modo contrario al nostro interesse, serve quindi maggiore consapevolezza delle nostre reazioni.

La tecnica SOBER si sviluppa in questo modo:
Stop: fermarsi e sganciare il pilota automatico
Observe: osservare mente e corpo in questo momento
Breath: spostare l’attenzione concentrandosi sul respiro
Expand: espandere quello che viviamo con il respiro alle sensazioni di tutto il corpo
Respond: rispondere con consapevolezza

 

SESSIONE 4 – MINDFULNESS NELLE SITUAZIONI AD ALTO RISCHIO

Nei precedenti esercizi ci si è preparati a portare la mindfulness nella vita di tutti giorni e questo diventa l’aspetto centrale di questa sessione: in particolare si vuole inserire la mindfulness all’interno delle aree o delle situazioni più difficili che tendono a elicitare comportamenti reattivi.Il passaggio che caratterizza la quarta sessione è riuscire a gestire con consapevolezza situazioni che in passato sono state associate all’uso di sostanze o altre componenti reattive. Per fare ciò i partecipanti lavorano sul riconoscere e stare con emozioni di disagio che possono nascere invece che evitarle. In questa fase si usano esercizi della consapevolezza integrati con lo spazio di respiro Sober. Con la tecnica SOBER i partecipanti possono poi passare all’esperienza diretta non per cambiarla ma per porvi maggior attenzione e scegliere con più consapevolezza.
In questa sessione l’esplorazione di aree soggettivamente mette anche in rilievo schemi di reazione più comuni alle persone. Per elicitare i rischi di ricaduta ogni partecipante viene invitato a condividere un tipico evento scatenante o situazione di rischio, può essere utile riportare questo su una lavagna in quanto in un secondo momento potrà essere utile far notare come spesso vi siano categorie comuni e riferirsi agli studi degli stimoli comuni che scatenano la ricaduta (stati emotivi negativi, pressioni sociali, conflitti interpersonali). Risulta utile dopo la pratica in gruppo parlare di quelle che potrebbero essere ulteriori difficoltà nella vita reale.

 

SESSIONE 5 – ACCETTAZIONE E AZIONE EFFICACE

Fra gli obiettivi di questa sessione vi è introdurre e coltivare una diversa relazione nei confronti delle esperienze sfidanti, quali sensazioni, emozioni o situazioni spiacevoli. In particolare si riporta il tema di non poter avere il controllo su alcuni aspetti della nostra vita e delle conseguenti frustrazione e rabbia che possono derivarne e portare all’uso di sostanze. Il messaggio che viene trasmesso è che cominciando a smettere di lottare con il momento presente, andandogli piuttosto incontro con compassione ed accettazione, smettiamo di opporci alla realtà diventando quindi più liberi di rispondere invece che reagire.
La sessione si svolge utilizzando la tecnica SOBER con la peculiarità di applicarla in coppie. Le coppie vengono invitate a riportare una situazione problematica di quelle comuni e mentre parlano il conduttore suona la campana e le invita a fermarsi ed applicare il SOBER. Questo esercizio aiuta a simulare la tecnica in situazioni quotidiane.
Il problema di lavorare con la rabbia spesso si presenta in questa fase. Si lavora quindi sul concetto di portare consapevolezza e curiosità sull’esperienza della rabbia piuttosto che reagire ad essa immediatamente e cercare di sopprimerla.
In questa fase viene anche introdotto il movimento consapevole cioè portare attenzione alle sensazioni del corpo durante il movimento o stretching.

 

SESSIONE 6 – VEDERE I PENSIERI COME PENSIERI

In questa sessione si lavora sui pensieri considerati come parole o immagini della mente ai quali possiamo scegliere di credere o meno. In particolare viene trattato il ruolo che hanno i pensieri e il credere ai pensieri nel ciclo della ricaduta.
Tramite meditazione in seduta i partecipanti vengono invitati a considerare i pensieri osservandone la natura stessa. Possiamo imparare a osservare i pensieri così come si presentano e come poi scompaiono, restando in contatto con il momento presente. Vengono presentate delle metafore per rendere l’idea di come un pensiero arriva e poi scompare (es. il pensiero è come nuvole che si muovono nel cielo limpido), inoltre può essere utile esortare a classificare i pensieri (ricordo, valutazione, fantasia..) per favorire il riconoscimento dei pensieri quali oggetti passeggeri.

La discussione poi sfocia sul ruolo dei pensieri nella ricaduta. Per mostrare la relazione fra pensieri e ricaduta, si sceglie in gruppo un esempio di una situazione che potrebbe portare a ricaduta. L’esempio viene illustrato usando lo schema base del ciclo di ricaduta. Si identificano quindi i pensieri iniziali e tutte le reazioni emotive. Si segue tutta la catena fino alla ricaduta cercando di identificare il punto in cui sarebbe stato possibile fare un passo indietro. La discussione vuole mostrare che anche nel ciclo che conduce alla ricaduta c’è ancora la possibilità di scegliere.

 

SESSIONE 7 – CURA DI SE’ E STILE DI VITA EQUILIBRATO

In questa sessione viene fornito uno sguardo più ampio alla nostra vita identificando aspetti che sostengono un’esistenza sana e vitale e quelli che portano a maggior rischio.
Viene proposta poi una meditazione seduta di amorevole gentilezza dove si utilizzano per esempio pensieri di buon augurio.
Viene poi proposta la scheda di annotazione delle attività quotidiane per portare la consapevolezza su attività quotidiane ordinarie e su come queste tendono a condizionare complessivamente umore, equilibrio e salute. In particolare si analizza se le attività che svolgiamo sono positive (Nourishing) o negative (Depleting) per noi. Questo esercizio ci mostra quindi come trascorriamo le nostre giornate e come per esempio aggiungere attività positive.

In questo capitolo si approfondiscono quindi le scelte dello stile di vita che predispongono maggiormente alla ricaduta. Spesso si usa l’acronimo HALT (Hungry, Angry, Lonely, Tired) come esempio di fattori che influenzano la vulnerabilità e che si saranno sempre nella nostra vita ma possiamo imparare a prendercene cura in modo nuovo.

 

SESSIONE 8 – SUPPORTO SOCIALE E PROSEGUIMENTO DELLA PRATICA

L’obiettivo è sottolineare l’importanza delle reti di sostegno come modo per ridurre il rischio e supportare recupero, continuare a praticare la mindfulness. Parlare dell’importanza di una rete di supporto e di cosa li potrebbe portare a sentirsi in difficoltà nel chiedere aiuto.
Durante questa sessione risulta utile inoltre discutere dei vari strumenti a disposizione, concentrandosi su quelli che i partecipanti ritengono per loro più o meno utili da utilizzare nella vita quotidiana.

Discussione

I risultati della maggior parte degli studi precedentemente riportati, concordano sul fatto che alcuni interventi psicoterapeutici modulano l’attività cerebrale soprattutto a livello di aree specifiche, quali la corteccia prefrontale, il cingolo anteriore e l’amigdala, e sul fatto che le modificazioni a carico di queste aree corrispondono al miglioramento clinico (Frewen PA et al., 2008).
Purtroppo, gli studi pubblicati ad oggi sono stati condotti quasi tutti su pazienti con patologie psichiatriche specifiche e selezionati mediante valutazioni diagnostiche che si riferiscono a categorie descrittive che trascurano alcuni aspetti importanti del quadro clinico, quali per esempio, il funzionamento cognitivo o le caratteristiche personologiche e psicodinamiche. Questi aspetti, sui quali ci si attende che un intervento psicoterapico abbia un effetto specifico e diverso da quello indotto da una terapia farmacologica, spesso non vengono considerati nella selezione dei campioni per gli studi clinici con­trollati.

Il programma MBSR utilizza la pratica di mindfulness come elemento centrale del programma di intervento e si differenzia da altri programmi clinici, in quanto questi ultimi si focalizzano su componenti specifiche di insegnamento della mindfulness come un insieme di abilità, come un modo per affrontare la sofferenza che affianca l’utilizzo di terapie occidentali. La MBSR offre invece un’esplorazione sistematica degli effetti dello stress, esplorazione che si rivela una componente importante per la guarigione e la salute.

L’implicazione psicoterapeutica più importante della mindfulness, non consiste tanto in tecniche, seppur preziose, da insegnare ai clienti, quanto piuttosto nella capacità del terapeuta di essere davvero presente (Bien, 2006). A tal proposito Segal, Williams e Teasdale (2002), contrariamente alle aspettative iniziali, hanno scoperto che non è davvero possibile insegnare la mindfulness ai clienti senza praticarla. Lambert e Simon (2008), ad esempio, riferiscono che il 30% della variazione negli esiti della terapia è attribuibile a fattori comuni, quali la relazione terapeutica, mentre solo il 15% è attribuibile a specifiche tecniche terapeutiche. Miller, Taylor e West (1980) hanno scoperto che uno dei fattori più importanti nella relazione terapeutica, è rappresentato dai livelli di empatia del terapeuta, ed è strettamente correlata con i risultati terapeutici, migliorando anche la qualità dell’alleanza terapeutica (Wexler, 2006), anche se sono necessarie ulteriori ricerche in questo campo.

Questo dato, può rivelarsi particolarmente importante nei confronti di un disturbo stigmatizzato come la dipendenza, nel quale la qualità della relazione interpersonale con il terapeuta può determinare la reazione del cliente rispetto a ogni ipotetico tratto di negazione da parte del cliente (Miller e Rollnick, 1991). Proprio per questi motivi, risulta importante che un terapeuta che pratica mindfulness, possa essere in grado di seguire meglio le tracce dei cambiamenti dello stato emotivo del cliente momento per momento, di essere consapevole della fase di cambiamento nella quale si trova il cliente e di accettare qualsiasi cosa il cliente presenti come naturale e comprensibile, compresa la tendenza umana di resistere al cambiamento.

Dunque la mindfulness, non è da considerarsi come un’alternativa alla psicoterapia, ma come una sua possibile e utile integrazione di cui possono beneficiare sia il paziente che il terapeuta, in quanto, la mindfulness è un lavoro prettamente di osservazione, mentre la psicoterapia lavora prevalentemente sui contenuti.
Inoltre è di grande importanza sottolineare come nei casi di intensa sofferenza sia opportuno iniziare per primo un percorso psicoterapeutico che permetta di ristabilire il disequilibrio emotivo e solo successivamente può essere più appropriato invitare il paziente a praticare la mindfulness.

Un intervento CBT-based per migliorare la sintomatologia depressiva e prevenire l’obesità in un campione di adolescenti americani

 

E’ ormai noto come gli adolescenti in sovrappeso evidenzino una maggiore predisposizione a sviluppare disturbi mentali accompagnati da problematiche legate alla performance scolastica.

In aggiunta, oltre il 37% delle ragazze e il 20% dei ragazzi in questa fascia d’età riporta sintomi depressivi gravi, indipendentemente dai problemi di peso. Per tale motivo, risulta imperativo sviluppare ed applicare interventi mirati alla riduzione dei sintomi depressivi e del peso corporeo nelle scuole.

Sulla base di questi presupposti, un innovativo protocollo CBT definito COPE (Creating Opportunities for Personal Empowerment) Healthy Lifestyles TEEN (Thinking, Emotions, Exercise, Nutrition) è stato impiegato in un campione di 779 adolescenti americani con età compresa tra 14 e 16 anni, mostrando effetti significativi e a lungo termine nella riduzione della sintomatologia depressiva e del peso corporeo.

Nel dettaglio, il team guidato da Bernadette Melnyk (2015) ha voluto confrontare l’effetto del COPE sugli outcomes sovracitati con l’effetto di un programma mirato ad incrementare le capacità attentive dei soggetti (Healthy Teens). Il programma COPE è costituito da 15 incontri (uno a settimana) a carattere educativo, tesi ad illustrare la relazione esistente tra pensieri ed emozioni, per insegnare come reagire agli eventi quotidiani in maniera adattiva. In particolare, agli studenti viene insegnato come le modalità di pensiero influenzino direttamente le emozioni e i comportamenti che conseguono ad un evento, fornendo i necessari esempi, solitamente avvalendosi del modello ABC.

Inoltre, il programma include importanti nozioni sulle migliori abitudini alimentari e 20 minuti di attività fisica per ogni incontro, finalizzati a migliorare la salute dei partecipanti. 

Dopo un’ intensa giornata di formazione rispettivamente per il COPE o il Healthy Teens, gli insegnanti hanno proceduto a trasmettere di volta in volta le informazioni dei diversi protocolli agli adolescenti, assegnati casualmente ai due gruppi (cluster RCT). Inoltre, ogni adolescente riceveva un piccolo manuale contenente gli insegnamenti proposti dal protocollo a loro assegnato, comprendente dei compiti da svolgere a casa durante l’arco dello studio. Dai risultati è emersa una significativa riduzione del peso corporeo e del BMI (indice di massa corporea) solo nel “gruppo COPE”.

Inoltre, tali risultati permanevano a distanza di 12 mesi e gli studenti di questo gruppo tendevano a rimanere fisicamente attivi a differenza di quelli assegnati al gruppo Healthy Teens. Per quanto riguarda la sintomatologia depressiva, i due gruppi ottenevano i medesimi benefici. Tuttavia, i partecipanti che all’inizio dello studio presentavano una elevata sintomatologia depressiva, riuscivano a migliorare e a rientrare nel range di normalità solo se assegnati al gruppo COPE; quelli assegnati al gruppo Healthy Teens, invece, non evidenziavano alcun miglioramento.

Come riportato dagli studenti stessi nel follow-up, il protocollo COPE risulta efficace nella gestione dello stress e permette ai partecipanti di sentirsi meglio con se stessi (69,6% del campione), inoltre risulta in grado di suggerire e sostenere i comportamenti più adattivi dal punto di vista delle abitudini alimentari e dell’esercizio fisico per lo studente (48%) e la sua famiglia (22,6%).

I punti di forza del protocollo COPE sono molti: l’effetto positivo sulle abitudini alimentari, sul BMI, sugli outcomes psicosociali, sulla performance scolastica e la possibilità di essere erogato dagli insegnanti precedentemente formati dal/i clinico/i. Sebbene i risultati sostengano il valore aggiunto del COPE rispetto al Healthy Teens, un limite dello studio sta nel non aver controllato l’effetto dei 20 minuti di attività fisica prevista per ogni incontro COPE, invece assenti nel Healthy Teens.

Cionondimeno, appare chiaro come un programma incentrato sullo sviluppo delle competenze cognitivo-comportamentali degli studenti, sia in grado di ridurre il rischio di obesità e di disturbi dello spettro depressivo all’interno della popolazione di adolescenti americani. Le ricerche future avranno il compito di rintracciare tale effetto positivo in nuove popolazioni e stabilire quale sia l’effettivo contributo della componente psico-educativa e dell’attività fisica.

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