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Il pensiero autocritico nella depressione: cosa accade nella nostra testa

Depressione e pensiero autosvalutativo: l’autocritica può essere considerata a tutti gli effetti un tratto fondamentale in un paziente depresso. Emozioni negative condite da un forte senso di svalutazione e da pensieri del tipo “sono un fallito”, “non sono all’altezza”, “sono un perdente” possono aumentare il nostro senso di inadeguatezza e peggiorare la nostra autostima. Di conseguenza, un pensiero autocritico pervasivo può essere considerato un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento della depressione.

Pertanto, l’identificazione di anomalie neurali durante l’elaborazione autocritica e la ricerca di marcatori neurofisiologici di previsione potrebbero essere utili per individuare la psicoterapia più adatta nel trattamento di pazienti con depressione.

Un gruppo di ricercatori tedesco (Doerig et al., 2015) ha recentemente condotto uno studio che ha permesso di identificare le strutture cerebrali maggiormente implicate nella determinazione del pensiero autosvalutativo nel paziente depresso.
La ricerca poneva a confronto un gruppo di controllo con un gruppo composto da soggetti con depressione maggiore diagnosticata attraverso alcune misure psicometriche tra cui il Beck Depression Inventory (BDI).

Inoltre i soggetti erano sottoposti ad altri strumenti diagnostici per la valutazione delle loro capacità nella regolazione delle emozioni. Successivamente i pazienti e i soggetti sani, dovevano scegliere da una lista, tre aggettivi negativi che più identificavano il loro mood autocritico (“non attraente”, “sgradevole” ecc.) e altri tre aggettivi negativi comunque riguardanti il loro umore ma non specificatamente svalutativi e autocritici.

Entrambi i gruppi poi erano sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI) e al contempo i ricercatori proponevano, ai soggetti sperimentali, delle immagini contenenti degli aggettivi neutri e aggettivi negativi generici e specificatamente autocritici, che gli stessi soggetti avevano scelto in precedenza. I risultati mostrarono una maggiore attivazione nell’amigdala nei pazienti depressi rispetto ai soggetti di controllo.

Inoltre, la ricerca presentava un altro dato interessante. I pazienti depressi avevano effettuato precedentemente una psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) e a tal proposito erano stati divisi in due sottogruppi: quelli “response” che avevano imparato a regolare le emozione relative al pensiero autocritico e i “non-response” che invece ancora non sapevano gestire questo aspetto emotivo. La condizione sperimentale mostrava un’iper-attivazione dell’amigdala nei pazienti “non-response” rispetto ai pazienti che invece avevano tratto beneficio dalla CBT. I risultati hanno ancora più valore in quanto i pazienti dei due gruppi non differivano in termini di genere, età, stato civile, livello di istruzione, singolo o ricorrente episodio, cronicità.

Questi dati suggeriscono che l’amigdala, la parte del cervello deputata alla gestione emotiva, può essere considerata un marcatore centrale nella determinazione degli stati depressivi. Non è ancora chiaro come l’iperattività di questa struttura centrale sia di impedimento nell’apprendimento delle abilità di regolazione emotiva. Il gruppo della Doerig, ipotizza che i pazienti depressi “non-response” abbiano avuto un vissuto di emozioni negative altamente spiacevoli e che tendano, attraverso l’evitamento, ad allontanarsi da tali emozioni ostacolando così il cambiamento e la conseguente regolazione emotiva.

Il ruolo paterno nella psicologia: l’eccezione è la regola e la regola è l’eccezione

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  07/11/2015

Un’intera psicologia fondata sulle figure del padre e della madre è andata in soffitta. Figure un tempo ritenute obbedienti a ruoli che si riteneva affondati nella profondità della psiche, della biologia e della preistoria si sono rivelate mere funzioni facilmente sostituibili.

L’eccezione è la regola e la regola è l’eccezione, in psicologia. O almeno nella psicologia moderna. Difficile stabilire un canone, difficile tracciare una linea che dica cosa sia normale e cosa meno. Anzi, tracciare questa linea è ormai sospetto, e soprattutto insostenibile, mai retto da prove conclusive. Ad esempio, un’intera psicologia fondata sulle figure del padre e della madre è andata in soffitta. Figure un tempo ritenute metafisiche, obbedienti a ruoli che si riteneva affondati nella profondità della psiche, della biologia e della preistoria si sono rivelate mere funzioni facilmente sostituibili.

Per la vecchia psicologia tradizionale la madre e il padre svolgevano ruoli ben definiti ed entrambi indispensabili nel canovaccio della tragicommedia familiare. Il canovaccio era flessibile e l’esito non necessariamente positivo, ma le parti non prevedevano variazioni. Vi erano tre attori: padre, madre e bimbo. O bimba; le bambine meritano la gentilezza del politicamente corretto, sia detto senza ironia.

E naturalmente la prima figura che è stata abbattuta è stata quella del padre, il cappellaio matto che già da tempo era stato additato come il vilain del racconto, il cattivo della storia. Nel 1999 Silverstein e Auerbach pubblicarono un articolo diventato famoso sulla prestigiosa American Psychologist, articolo intitolato ‘Deconstructing the Essential Father’. Decostruire il padre indispensabile.

In questo quadro popolato di archetipi che somigliano pericolosamente a stereotipi, abbattere il padre vuol dire sostanzialmente abbattere la regola. L’articolo fu uno dei primi a sostenere, con dati probanti, che per essere buoni genitori la configurazione tradizionale padre/madre non fosse l’unica possibile e necessaria. Sono possibili altre combinazioni: solo la madre, solo il padre, due madri, due padri, o altro. Questo l’esito dell’articolo, ma l’apertura era tutta concentrata sui padri.

Il processo di svalutazione del ruolo del padre nel processo di crescita dei bambini era già iniziato dagli anni ’60, il decennio decisivo della secolarizzazione di massa in Occidente. Da quel decennio in poi già molti teorici della psicoanalisi e della psicologia scientifica avevano messo da parte la centralità del confronto padre-figlio e la terribilità del conflitto edipico. Lo avevano sostituito con uno scenario più morbido e adrammatico, più sentimentale e senza scosse: la cosiddetta relazione di attaccamento tra genitori e figli, in cui l’amore e l’accudimento (soprattutto materno; il padre inizia a svanire, inutile e goffo fuco) prendevano il posto del parricidio di Edipo.

Vero è che altri studi hanno cercato di recuperare la figura del padre, tirandolo fuori dallo sgabuzzino in cui era stato confinato, vecchio babbeo sopravvissuto del buon tempo andato, zio matto da non prendere troppo sul serio.

Pare che i bambini siano più sensibili all’esperienza di rifiuto del padre rispetto a quella della madre. I bambini e i giovani adulti tenderebbero a fare maggiore attenzione al genitore percepito più forte, dotato di maggiore potenza interpersonale o di prestigio e, solitamente, questo ruolo è relegato alla figura paterna, che da sempre svolge un ruolo fondamentale all’interno della famiglia. Una bella consolazione per il padre traballante e mendico dell’età contemporanea.

Però rimane in forze, e con molti buoni dati empirici a suo favore, il movimento contrario che ridimensiona il ruolo del padre. Non si pensa più che lo sviluppo di una psiche matura e stabile dipenda da uno scontro di personalità tra i figli che devono conquistare l’autonomia e un padre che deve imporre e trasmettere la Regola, la Legge morale prima di aprire i cancelli della libertà. E se non c’è regola, non c’è nemmeno eccezione. O meglio, l’eccezione è la regola, e la regola è l’eccezione.

Vediamo perché. La nuova visione della famiglia parte con una serie di ricerche sul campo (Silvestein e Auerbach, 1999) in cui sono stati intervistati e valutati padri di vario tipo: padri divorziati, padri risposati, padri mai sposati, e padri appartenenti ad almeno 10 sottogruppi culturali e/o etnici degli USA, tra i quali: haitiani cristiani, cosiddetti promise keeper (membri un’organizzazione conservatrice cristiana statunitense), gay, latinos, bianchi divorziati, ebrei ortodossi, e greci (nonni e non padri in quest’ultimo caso).

Il risultato è prevedibile: tutte queste combinazioni sarebbero irrilevanti. In fondo ciò che conta è che ci sia almeno una figura genitoriale, non importa di quale sesso o in quale configurazione affettiva. Non c’è un valore aggiunto legato ai ruoli distinti e combinati del padre e della madre. Di essenziale non c’è nulla: né il padre, né la madre. C’è solo l’individuo astratto che svolge la funzione asessuata del care-giver. Le ricerche su padri divorziati o mai sposati o risposati tutti altrettanti capaci di essere buoni genitori corroborano questa conclusione.

Certo, Silverstein e Auerbach condividono anche la preoccupazione che sarebbe preferibile che i padri moderni assumessero un atteggiamento più coinvolto e responsabile verso la loro prole. Come si sa, questo è un problema particolarmente sentito negli Stati Uniti, dove frequentemente i padri abbandonano emotivamente e materialmente la famiglia e la prole. Sulla base di questi dati il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, dichiarò nel 2008, in un discorso pronunciato durante la giornata del papà (Father’s Day) alla Apostolic Church of God di Chicago, che dalle statistiche appare che i bambini senza padre hanno una probabilità cinque volte maggiore di vivere in povertà e di commettere crimini, nove volte maggiore di non frequentare la scuola, venti volte maggiore di finire in prigione e in generale di avere problemi comportamentali, fuggire da casa e diventare genitori in età adolescente.

Discorso che colpisce particolarmente conoscendo la storia personale del presidente Obama, cresciuto senza padre. Forse c’è ancora bisogno di una regola che renda possibile l’eccezione?

Quando l’aiuto non è di aiuto: il sostegno emotivo nella coppia e il senso di incompetenza negli uomini

Le donne apprezzano il sostegno emotivo quando attraversano problemi coniugali, ma per gli uomini le cose sembrano andare diversamente; infatti sembra che il supporto emotivo possa far sentire gli uomini impotenti e meno competenti.

A sostenerlo è uno studio apparso sul Journal of Gerontology che ha analizzato 772 coppie sposate da una media di 39 anni.

A ogni partecipante è stato chiesto di valutare la qualità della relazione di coppia e quali fossero le reazioni del partner rispetto ai loro problemi. In particolare, è stato chiesto se pensavano di poter discutere di eventuali preoccupazioni con il coniuge quando ne sentivano il bisogno, se li apprezza, se capisce i loro sentimenti, se discutono con lui/lei, e se li fa sentire tesi o frustrati.

Dall’analisi dei risultati emerge che i mariti hanno riferito una più alta qualità coniugale, livelli più bassi di tensione coniugale e di aver ricevuto i livelli molto più elevati di sostegno emotivo rispetto alle mogli.
Tra le coppie in cui entrambi i coniugi hanno riferito tensione coniugale, le mogli hanno riportato maggiori sentimenti di tristezza e preoccupazione, anche se i sentimenti di preoccupazione erano ridotti quando ricevevano sostegno emotivo dai loro mariti.
I mariti invece hanno riportato meno tristezza e preoccupazione, ma hanno segnalato una maggiore frustrazione nel dare e ricevere sostegno emotivo.

[blockquote style=”1″]Gli uomini che danno sostegno emotivo alle mogli possono sentirsi molto frustrati se sentono che avrebbero preferito indirizzare le loro energie su un’altra attività[/blockquote] osserva la dott.ssa Carr, autore dello studio.

Si ipotizza che l’aumento dei sentimenti di frustrazione tra i mariti possa essere correlato all’età: negli uomini più anziani infatti il ricevere sostegno emotivo correlava con la presenza di sentimenti di impotenza e incompetenza più marcati.
Questi risultati potrebbero avere importanti implicazioni per le coppie sposate da tempo che, con l’avanzare dell’età, sono particolarmente vulnerabili alle difficoltà che possono influenzare il loro rapporto, come ad esempio problemi di salute. La frustrazione derivante da questi sentimenti infatti può in alcuni casi favorire l’aggressività verso la partner.

Complessivamente questi dati suggeriscono che il supporto è valido solo se viene recepito come utile e auspicabile, in alcuni casi infatti è necessario fare attenzione e verificare che l’accudimento non venga invece vissuto come una squalifica verso le capacità di autogestione dei problemi.

La validazione italiana del Frustration Discomfort Scale (FDS) – Dal VI Forum di Formazione in Psicoterapia, Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

LA VALIDAZIONE ITALIANA DEL FRUSTRATION DISCOMFORT SCALE (FDS)

Marina PAPARUSSO, Federica FELICETTI, Cristina FRATINI, Simona TRIPALDI

Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Cognitivo – Comportamentale e Centro di ricerca “Studi Cognitivi”, Milano
sede di San Benedetto del Tronto

 

La teoria contemporanea REBT (Rational Emotive Behaviour Therapy) ha posto notevole enfasi sui contenuti dell’intolleranza alla frustrazione nel determinare il disagio psichico. Inoltre, sebbene l’intolleranza alla frustrazione sia stata trattata come unidimensionale, la gamma di credenze ad essa relativa descritta in letteratura REBT suggerisce un costrutto multidimensionale (Dryden e Gordon, 1993).

Seguendo tale modello teorico, Harrington nel 2005 ha messo a punto la Frustration Discomfort Scale (FDS) e ha mostrato come l’intolleranza alla frustrazione è meglio descritta da quattro fattori: intolleranza emotiva, diritto, intolleranza al disagio e realizzazione.

L’obiettivo di questo studio è stato quello di procedere ad una prima validazione italiana del Frustration Discomfort Scale (FDS), somministrando la scala ad un campione della popolazione italiana, e quindi di analizzarne le proprietà psicometriche in merito ad affidabilità e validità.
A tale scopo l’FDS è stato messo a confronto con l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS, Zigmond e Snaith, 1983), questionario self-report largamente utilizzato per misurare stati d’ansia e di depressione.

 

Il Fenomeno Artistico: variabili psicologiche che lo contraddistinguono e ne consentono l’accadimento

Daniela Voza e Laura Zamboni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

La psicologia e le arti hanno questo in comune: che tanto la prima quanto le seconde coprono l’intero ambito della mente umana. 

Rudolf Arnheim

L’artista è il creatore di cose belle. Rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte […] Nessun artista è mai morboso. L’artista può esprimere qualsiasi cosa. Il pensiero e il linguaggio sono per l’artista strumenti di un’arte […] Ogni arte è a un tempo epidermide e simbolo. Coloro che vogliono andare sotto l’epidermide lo fanno a proprio rischio. Lo spettatore e non la vita viene rispecchiato dall’arte. La diversità di opinioni intorno a un un’opera d’arte indica che l’opera è nuova, organica e vitale.

Oscar Wilde

Quali processi cognitivi sono implicati nella creazione artistica? Quali fattori psicologici motivano una persona a contemplare opere d’arte? E quali abilità cognitive sono necessarie per comprendere un’opera d’arte?

Nella prefazione a ‘Il ritratto di Dorian Gray’ Oscar Wilde riassume quanto poi verrà definito oggetto di studio della psicologia dell’arte. Secondo Winner (1982), infatti, lo psicologo dell’arte è interessato ai processi psicologici che rendono possibile la creazione artistica e la risposta all’arte, ponendo particolare attenzione ad alcuni quesiti: che cosa motiva l’artista a creare? Quali processi cognitivi sono implicati nella creazione artistica? Quali fattori psicologici motivano una persona a contemplare opere d’arte? E quali abilità cognitive sono necessarie per comprendere un’opera d’arte?

Diversi sono stati gli approcci di ricerca: quello psicoanalitico che appare prigioniero delle maglie della costruzione dottrinale di riferimento e spesso limitato al terreno circoscritto della psicopatologia; l’indirizzo sperimentale che, costretto dall’esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa, non sembra riuscire a rendere conto della reale e quotidiana esperienza dell’evento artistico e, il filone che fa capo ad Arnheim, il più proficuo e ricco di dati e di indicazioni, idealmente e concretamente precursore dell’indagine ad ampio raggio insita in questo approccio (Argenton, 1996). Negli ultimi decenni le neuroscienze cognitive hanno esteso il loro campo d’indagine anche al dominio della creazione artistica, dando origine ad un nuovo filone di studi: la neuroestetica.

Per poter esaminare le diverse risposte fornite, occorre preliminarmente definire l’oggetto di interesse e cioè il fenomeno artistico, a tal proposito risulta esaustiva la descrizione fornita da Argenton (1996), secondo cui il fenomeno artistico si impernia su tre componenti in relazione tra loro: l’opera, creata ed eseguita da un artefice, l’artista, che viene recepita e compresa da qualcun’altro, il fruitore. Tutto ciò che accade come effetto dell’interazione di queste tre componenti, la relazione artista-opera, fruitore-opera, dà luogo al fenomeno artistico, cioè ad ‘un singolo e ben circoscritto evento o ad una serie più o meno articolata, ampia e complessa di eventi che sono suscettibili, oltre che di esperienza, di osservazione e di indagine’. Con l’espressione comportamento artistico si indica l’insieme dei processi cognitivi ed esecutivi che portano l’artista alla realizzazione dell’opera e con comportamento estetico l’insieme dei processi cognitivi ed esecutivi che portano il fruitore a sancire l’artisticità dell’opera e a goderne (Argenton, 1996).

La qualità della fruizione estetica è mediata cognitivamente ed è influenzata dalla particolare cultura, dall’ambiente in cui siamo stati educati, dai canoni estetici che informano tale tipo di cultura, dal grado di expertise e familiarità che abbiamo nei confronti dell’opera verso cui ci poniamo (Gallese, 2010).

Se dell’artista e del fruitore si esaminano i processi della mente (emotivi, intellettivi e motivazionali) attivi nella creazione e ricreazione dell’opera, gli atteggiamenti, lo stile e le preferenze; dell’opera, dispositivo organizzato dall’artista per suscitare una particolare esperienza, si sottolinea e si prende in esame il suo essere forma significante. Le proprietà che caratterizzano la forma sono collegate agli aspetti di funzionamento sia del nostro apparato sensoriale e motorio sia dei processi percettivi e rappresentativi che guidano l’attività con cui traduciamo la nostra cognizione della realtà in forme simboliche. La forma artistica racchiude un significato percettivo che si regge sull’interazione dei valori di equilibrio e di dinamicità ed è percepibile indipendentemente dalla conoscenza dell’altro significato, quello rappresentativo che corrisponde a ciò che l’artista ha voluto dire o che ha voluto esprimere con la sua opera (Argenton, 1996).

Secondo Amabile e Pillemer (2012), nel comportamento artistico, esiste una motivazione intrinseca alla creatività che varia a seconda del valore individuale percepito rispetto al compito stesso, all’interesse e piacere che si provano nell’attività svolta. La creatività non viene quindi percepita come un tratto di personalità, ma sarebbe il risultato di componenti personali e di particolari abilità cognitive e sociali. Dagli studi condotti da queste autrici emerge anche come la motivazione estrinseca, ad esempio una ricompensa, in alcuni casi risulterebbe dannosa alla motivazione intrinseca.

Sembra che stia parlando di questa motivazione intrinseca Pennac, quando nel suo testo teatrale scrive:

Se solo uno pensa alla necessaria solitudine… le lunghe pause del dubbio… E quei momenti di felicità così gratuiti… o la felicità dell’alba, i giorni in cui l’idea ti fa saltar giù dal letto… perché non è il gallo a svegliarti, né il camion della spazzatura… non è neppure la prospettiva del premio o l’ambizione di lasciare una traccia… E’ l’urgenza di quel piccolo tocco di scalpello a cui pensavi quando ti sei addormentato… quella pennellata di ocra rosso all’angolo destro della tua tela, lassù in cima… ecco cosa ti fa saltar giù dal letto! Il suono inebriante di una nota, che cambierà tutto… un nonnulla in punta di penna, forse una virgola, una semplice virgola… una sfumatura essenziale… il minuscolo dell’opera… una cosa da niente… solo la necessità… Dio mio, la bellezza di quelle mattine necessarie, nella casa addormentata...

Di questa costellazione di componenti, per Gibson (2008), c’è un aspetto che caratterizza l’artista, cioè una certa libertà dalla realtà. Una poesia o un dipinto infatti costituiscono una copia della realtà, ma non si tratta di una mera riproduzione, poiché l’artista vi inserisce qualcosa di genuinamente nuovo. In quest’ottica l’arte e l’artista non ci dicono direttamente qualcosa sulla realtà, ma ci fanno credere, ci intrattengono, informano ed eventualmente rinforzano le nostre conoscenze sull’argomento. L’artista possiede la capacità di immaginare il mondo e la vita reale in un modo che sarebbe altrimenti impossibile, secondo l’autore questa capacità deriverebbe da un insight cognitivo circa l’esperienza umana e la nostra consapevolezza di essere al mondo.

Rispetto alle capacità cognitive alcuni studi sostengono che questa abilità degli artisti, in particolare dei pittori, derivi da una vasta esperienza nell’interazione visiva con gli oggetti e con le immagini durante il disegno, in tal senso l’artista viene visto come un esperto nella cognizione visiva (Kozbelt, 2001). Gli artisti sarebbero cognitivamente differenti dai non artisti, specialmente per ciò che riguarda la memoria di figure ed oggetti, l’utilizzo di immagini mentali nella comprensione di frasi e nella generazione e trasformazione mentale di immagini di figure (Winner, 1992).

Secondo Argenton (1996) l’abilità dell’artista che la sua opera manifesta dipende dal grado di padronanza con cui egli manipola le sue rappresentazioni mentali elaborando la forma che soddisfi i suoi intenti rappresentativi, e i mezzi, le tecniche, che ne consentono la traduzione in rappresentazioni concrete. La soddisfazione viene all’artista quando riscontra nella propria opera una corrispondenza ai suoi intenti rappresentativi e i risultati della sua grande fatica vengono premiati dal riconoscimento del pubblico, appagando quello che in psicologia si chiama il bisogno di autoaffermazione o di autorealizzazione.

L’arte attiva inoltre nel fruitore una serie di processi, comportamenti e cognizioni che costituiscono il comportamento estetico e ciò che è ancora più caratteristico, cioè l’esperienza estetica. Questo comportamento non consiste nel semplice piacere, un’opera d’arte può essere apprezzata in maniera singolare ed unica, non solo per la sua bellezza o la sua virtuosità tecnica o per il messaggio che trasmette. Secondo Bronowski (1978) l’esperienza estetica deriverebbe dal processo di scoperta, mentre per Urmson (1962) l’apprezzamento è il risultato di specifici criteri di bellezza (proporzioni, armonia, equilibrio). Il comportamento estetico viene visto quindi come un processo che da un lato vede implicate le caratteristiche stesse dell’opera d’arte e, dall’altro lato, coinvolge direttamente il fruitore e le emozioni che l’opera suscita in lui.

Questi due aspetti sono integrati nel modello di elaborazione delle informazioni (Leder, Belke, Oeberst e Augustin, 2004): in una prima fase di analisi percettiva vengono elaborati gli stimoli di contrasto, intensità, luminosità, colori, raggruppamenti e buone forme. L’analisi percettiva avviene in maniera rapida e senza sforzo ed incide sulla preferenza estetica. Nella seconda fase quanto percepito viene integrato con la memoria implicita e valutato come familiare e prototipico. Il modello prevede due differenti output: l’emozione estetica e il giudizio estetico, un’opera d’arte viene considerata tanto più piacevole (giudizio estetico), quanto più positiva è stata l’esperienza emozionale elicitata (emozione estetica). I soggetti esperti tendono a formulare giudizi in base allo stile, mentre per i non esperti sono importanti i riferimenti al sé e la possibilità di associare ad un’opera d’arte eventi ed emozioni riferiti alla propria vita.

I due comportamenti (artistico ed estetico) possono manifestarsi sia contemporaneamente e nel medesimo contesto, spaziale, storico, sociale, economico, culturale, sia in tempi e contesti poco o molto lontani e diversi fra di loro. Il fenomeno artistico si verifica quando e solo quando, da parte di un individuo o di un gruppo di individui, vengono riconosciute e attribuite proprietà artistiche al prodotto realizzato da altri. Esso si presenta inoltre, con delle costanti strutturali e processuali (Argenton, 1996). Sono implicati e si intersecano tra loro processi cognitivi ed attivazione emozionale. L’artista mette in gioco la propria creatività, le specifiche abilità cognitive ed il suo insight nel leggere la realtà in modi differenti ed originali, il fruitore analizza le caratteristiche formali del lavoro che a loro volta richiamano ed attivano un processo di scoperta che ci informa sulla realtà e sulle nostre emozioni. L’artista con la propria opera manifesta di sé: di aver lasciato in modo più o meno inequivocabile, il segno della sua mano, cioè l’impronta che le deriva dall’essere stata fatta da lui e non da qualcun’altro e che esprime il suo stile personale, la sua personalità artistica.

Per spiegare questa relazione importanti contributi derivano da recenti studi di neuroestetica, sulle basi neurali della capacità di apprezzare il bello e l’arte (Zeki, 1999). Solso (2003) distingue tre livelli di comprensione dell’arte descrivendo il modello SPS:

  • Sensory: percezione innata, processi di elaborazione visiva bottom up che sono comuni a tutti gli individui. Il modo in cui vengono elaborati gli stimoli visivi come forma, colore, direzione e movimento dall’occhio e dal cervello sono strettamente connessi alla fisiologia e all’anatomia del sistema visivo centrale e periferico. Il primo livello comprende la percezione sensoriale dell’opera e l’elaborazione corticale di queste caratteristiche.
  • Psychology: percezione diretta, modello top down in cui la mente umana tende ad organizzare un percetto (Arnheim,1954). Secondo Changeux (1994) l’artista sfrutterebbe la capacità umana di creare immagini che abbiano la possibilità di rimanere stabili nella mente di chi osserva.
  • Schema – story: percezione come ricerca di significato che attinge alle conoscenze ed alla storia personale dell’individuo. A questo livello l’opera viene collocata nel suo periodo storico, corrente artistica, biografia dell’autore, significato che l’autore ha voluto esprimere e che l’opera assume per l’osservatore in base alla sua storia ed ai suoi schemi di interpretazione della realtà. Lo schema personale è una struttura di dati utile a rappresentare concetti generici immagazzinati in memoria, una generalizzazione (Argenton, 1996), costruita attraverso ripetute esperienze della realtà, che orienta la percezione top down di un’opera d’arte sia sulla base dei significati personali, sia in considerazione del periodo storico o della corrente artistica (Solso, 2003). In quest’ottica quando le caratteristiche fisiche e psicologiche convergono si comprende l’arte ad un livello difficile da descrivere a parole, che Kemp (1990) definiva come unico, incommensurabile ed indefinibile sentimento che è al tempo stesso soggettivo ed universale.

Secondo il neuroscienziato Zeki (1999), in ogni esperienza estetica, il cervello, così come l’artista, deve eliminare ogni informazione inessenziale dal mondo visivo per poter rappresentare il carattere reale di un oggetto. Secondo Ramachandran (Ramachandran e Hirstein 1999), l’abilità dell’artista consisterebbe nel saper evocare nel cervello del fruitore specifici processi biologico/percettivi, inducendo un meccanismo di ricostruzione dell’oggetto artistico che si accoppierebbe a una sensazione di piacere.

Secondo Gallese entrambi questi approcci confinano l’esperienza estetica a una pura questione di pertinenza del cervello visivo. La fruizione di un’opera d’arte implica invece per il neuroscienziato una nozione multimodale della visione, cui partecipano anche sensi come il tatto e che coinvolge la sfera emozionale, il tutto guidato dalla fondamentale natura pragmatica della relazione intenzionale. Ci sarebbero quattro livelli di processamento neurale dell’esperienza estetica (Gallese e Di Dio, 2012):

  • Apprezzamento estetico: valutazione soggettiva basata sulle risposte emotive e sull’eventuale identificazione introspettiva di tali risposte. In questo primo livello gli oggetti assumono valenza estetica per il soggetto, perché caricati di significati emotivi in base alle esperienze pregresse. Il circuito che si attiva è quello della memoria, da uno studio di Di Dio et al. (2007) condotto attraverso fMRI, emerge come stimoli piacevoli fossero associati all’attivazione dell’amigdala di destra, struttura coinvolta nella rilevazione della salienza dello stimolo. Secondo gli autori questi risultati suggeriscono che gli aspetti più soggettivi dell’esperienza estetica sono mediati dalle esperienze emozionali pregresse del fruitore.
  • Attitudine estetica: stato mentale che rende possibile la valutazione del contenuto estetico dell’opera osservata. In questo secondo livello non sono più sufficienti solo le esperienze pregresse, ma è necessaria anche una particolare disponibilità mentale per cui gli elementi che innescano l’esperienza estetica diventino accessibili. Questo stato spiega la variabilità di risposte di fronte alla stessa opera sia da parte di persone diverse, sia della stessa persona in situazioni differenti.
  • Esperienza estetica: gli autori lo definiscono come un livello di processamento fondamentalmente percettivo. La scoperta dei neuroni canonici, neuroni specchio e neuroni posti alla codifica spaziale, permette di spiegare nel fruitore un’esperienza incarnata delle azioni, emozioni e sensazioni contenute nell’oggetto osservato. La simulazione incarnata consiste in un meccanismo funzionale attraverso cui le azioni, emozioni e sensazioni che vediamo attivano le nostre rappresentazioni interne degli stati corporei associati a questi stimoli sociali, come se vivessimo la stessa azione, emozione o sensazione. A livello cerebrale, diversi studi di neuroestetica (Di Dio et al., 2007; Kawabata e Zeki, 2004; Jacobson et al., 2004), riscontrano un’attivazione di alcune aree parietali e premotorie, ciò supporta l’ipotesi che l’esperienza estetica sia caratterizzata da una codifica visuospaziale accompagnata da un effetto motorio.
  • Giudizio estetico: esplicita valutazione dell’opera, determinata da canoni estetici di ordine culturale e sociale; si tratta quindi di un processo altamente cognitivo che coinvolge sistemi decisionali ed autovalutativi.

Le neuroscienze, con la scoperta dei neuroni specchio nella scimmia e la successiva dimostrazione dell’esistenza di meccanismi di rispecchiamento nel cervello umano, hanno fornito il livello di descrizione sub/personale a questa dimensione relazionale della condizione umana, un meccanismo neurofisiologico capace di spiegare molti aspetti delle nostre capacità di relazionarci con gli altri. L’oggetto artistico, che non è mai oggetto in se stesso, ma polo di una relazione intersoggettiva, quindi sociale, emoziona in quanto evoca risonanza di natura sensori-motoria e affettiva in chi vi si mette in relazione. La risonanza interindividuale, descrivibile in termini funzionali come simulazione incarnata, costituisce una dimensione consustanziale del nostro essere umani (Gallese, 2005; 2006b; 2009a,b). Tale dimensione diviene cruciale anche per interpretare l’arte, la creatività e la dimensione estetica dell’esistenza umana. Essere umani significa divenire capaci di interrogarsi su chi siamo: sia l’arte sia la scienza sono espressione specifica della condizione umana, entrambe sono volte ad interrogare l’invisibile per renderlo visibile. Da sempre la creatività artistica ha espresso nella forma più elevata questa capacità (Morelli, 2010).

Nell’espressione artistica teatrale/performativa, il corpo attoriale diviene l’epifania pubblica della capacità di rappresentazione mimetica dell’agente. Il meccanismo di simulazione incarnata abbraccia numerosi aspetti della relazione intersoggettiva, quali azioni, intenzioni, comportamenti imitativi, emozioni, sensazioni e linguaggio che derivano il proprio senso condiviso dalla comune radice nel corpo in azione, il principale protagonista e artefice dell’espressione teatrale. Il corpo in azione è il perno attorno a cui si costruisce quella sintonizzazione che secondo tale modello caratterizza la reciprocità intrinseca a ogni pratica interindividuale, e quindi, anche le relazioni di reciprocità intrinseche alla performatività teatrale. La simulazione incarnata consente di guardare al teatro da una prospettiva naturale, e quindi universale. Nella danza lo scopo dell’azione è l’azione, un’azione che già al puro livello motorio di descrizione è però carica di significati per chi la esegue e per chi la osserva. Nella danza si aggiunge la dimensione sociale, che consiste nella programmatica interscambiabilità fra attore e fruitore, tra artista e pubblico (Gallese, 2010).

Anche quando l’opera d’arte non ha alcun contenuto direttamente e analogicamente mappabile in termini di azioni, emozioni o sensazioni, in quanto priva di un riconoscibile contenuto formale (pensiamo ad un’opera di Lucio Fontana o di Jackson Pollock), i gesti dell’artista nella produzione dell’opera d’arte inducono il coinvolgimento empatico dell’osservatore, attivando in modalità di simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto o segno artistico. I segni sul dipinto o sulla scultura sono le tracce visibili, le conseguenze degli atti motori attuati dall’artista nella creazione dell’opera. Ed è in virtù di questo motivo che essi sono in grado di attivare le relative rappresentazioni motorie nel cervello dell’osservatore (Freedberg e Gallese 2007; Gallese 2010).

Conclusioni

L’arte è uno dei più significativi prodotti e una delle più pregnanti manifestazioni della cognizione umana per cui è e dev’essere un imprescindibile oggetto di riflessione e di ricerca della psicologia (Argenton, 1996).

Oggi le neuroscienze, avendo la potenzialità di illuminare la natura estetica della condizione umana e la sua naturale propensione creatrice possono contribuire allo studio dell’espressività e dell’esperienza estetica indagando l’imprescindibile ruolo del corpo nell’espressione creativa e nella sua ricezione. La prospettiva neuroscientifica consente in tal senso un’ulteriore valorizzazione della dimensione distintiva e straordinaria dell’arte e dell’esperienza estetica (Gallese, 2010).

L’arte è eterna, ma non può essere immortale. E’ eterna in quanto
un suo gesto, come qualunque altro gesto compiuto, non può non continuare
a permanere nello spirito dell’uomo come razza perpetuata…
Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia.

Lucio Fontana, Primo Manifesto dello Spazialismo, 1947

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – In principio era il determinismo

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 1

L’analisi dei comportamenti devianti in adolescenza necessita di un punto di vista processuale, interattivo, dinamico che tenga conto delle caratteristiche psicologiche, relazionali, sociali peculiari e specifiche di questa fase di sviluppo.

Adolescenza e devianza, considerati singolarmente, sono due concetti molto complessi e sfaccettati; la complessità e l’eterogeneità aumentano notevolmente se poi vengono considerati nella loro relazione reciproca. L’analisi dei comportamenti devianti in adolescenza necessita infatti di un punto di vista processuale, interattivo, dinamico che tenga conto delle caratteristiche psicologiche, relazionali, sociali peculiari e specifiche di questa fase di sviluppo.

Questo assunto teorico e metodologico ormai assodato in letteratura, è tuttavia un’acquisizione piuttosto recente delle conoscenze in ambito psicologico, educativo, sociologico e giuridico; a lungo infatti sono state applicate ai soggetti in età evolutiva le stesse categorie conoscitive e di analisi utilizzate per gli adulti, in riferimento a logiche deterministiche e causalistiche per cui un dato comportamento ritenuto negativo era linearmente e meccanicamente prodotto da alcune cause sottostanti, di ordine biologico, fisico, genetico, oppure familiare, culturale, razziale. A ciò si è accompagnata una visione della rieducazione in senso positivistico, basata su concetti di personalità immatura o patologica, risocializzazione e modificazione della condotta mediante lo sradicamento dal contesto sociale e familiare ritenuto a priori deviante in prima battuta (De Leo, 1996; Rossi, 2004).

A lungo è mancata una visione capace di valutare in maniera sinergica e interattiva i fattori interni, di ordine cognitivo, affettivo, motivazionale, ed esterni, di natura istituzionale, culturale, sociale, relazionale. La letteratura psicologica, di scuola sia psicodinamica (Pietropolli Charmet, 2000; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) che psicosociale (Zani, 1995; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), è sostanzialmente concorde nel parlare non più di ‘adolescenza’ ma di ‘adolescenze’; nessuna fase del ciclo di vita infatti si mostra eterogenea, sfaccetta e diversificata come quella dell’adolescenza. Sono stati progressivamente abbandonati i modelli di analisi universalistici, che ritenevano l’adolescenza un fenomeno sostanzialmente identico per tutti e trasversale nel tempo e nelle culture umane, e i modelli patologici, che vedevano invece l’adolescenza come condizione di rottura, sofferenza, disagio.

È cresciuta nella psicologia contemporanea la consapevolezza che lo sviluppo non è un processo lineare, uguale per tutti, ma un percorso che si snoda lungo tutto l’arco di vita a partire dalle costanti interazioni tra individuo e contesti di appartenenza (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003). In questa visione sistemica e costruzionista, le traiettorie e i percorsi di sviluppo appaiono irregolari, mai prevedibili in modo deterministico. L’individuo e l’ambiente sono considerati elementi inseparabili, che si influenzano a vicenda, formando un sistema integrato e dinamico; si sottolinea il ruolo strutturante dell’azione individuale, in grado di selezionare e plasmare attivamente i contesti circostanti da cui però è costantemente influenzata e modellata, in un rapporto circolare e ricorsivo. L’adolescenza si mostra come fase evolutiva particolare, specifica, che richiede modelli teorici e di analisi in grado di tenere conto questi aspetti di complessità.

A questo proposito viene attualmente utilizzata in letteratura la nozione di ‘compito di sviluppo’ come linea guida per l’analisi e lo studio del benessere psicosociale in adolescenza (Zani, 1995; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), utile anche per meglio conoscere e interpretare anche alcuni comportamenti adolescenziali di natura problematica, come quelli violenti, devianti o criminali (Cattelino e Bonino, 1999; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

I compiti di sviluppo compaiono nei diversi momenti dell’arco di vita, sono caratteristici di alcune fasi evolutive e derivano dall’interazione tra maturazione fisiologica e nuove capacità cognitive e relazionali dell’individuo da un alto, e l’insieme delle influenze, delle richieste e delle norme sociali dall’altro. I compiti di sviluppo richiedono all’individuo l’adozione e l’applicazione di alcune strategie di diversa natura (cognitiva, affettiva, comportamentale, sociale) che gli consentano di superare efficacemente tali sfide; il fallimento nella risoluzione di questi compiti evolutivi preclude o compromette il futuro adattamento dell’individuo, mentre il successo favorisce il benessere psicosociale dell’individuo e pone le basi per l’acquisizione di nuovi apprendimenti e nuove risorse, utili per i compiti di sviluppo che si presenteranno nella fase evolutiva successiva.

L’adolescenza è portatrice di compiti di sviluppo fase specifici che spesso causano notevoli turbamenti, dubbi, sofferenze all’individuo che li deve affrontare, in quanto investono tutta la sfera socio-relazionale dell’adolescente, i suoi affetti, i suoi pensieri e la sua nicchia evolutiva nel complesso; i compiti di sviluppo richiedono all’adolescente un lavoro, spesso doloroso e difficile, di ricostruzione e ristrutturazione che investe tutte le aree significative della sua vita. Di conseguenza, gli adolescenti, per affrontare queste sfide evolutive, possono mettere in atto strategie talmente differenziate, che in base alle situazioni e ai contesti possono assumere valori e significati molto diversi tra loro; alcune possono avere un valore adattivo e protettivo per l’individuo, altre, al contrario, possono compromettere il suo benessere e fungere da fattori di rischio per il futuro adattamento. Queste acquisizioni teoriche si mostrano particolarmente adatte anche per analizzare e approfondire lo studio dei comportamenti devianti e delle condotte a rischio in adolescenza:

Si tratta di comportamenti che compaiono in quest’età e che possono, in modo diretto o indiretto, mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale, così come la salute fisica immediata o futura […]. Si tratta di comportamenti diversi, che hanno però la caratteristica comune di poter compromettere nell’immediato come a lungo termine, il benessere fisico, psicologico e sociale

Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003, p. 31-32.

Questi comportamenti sono stati a lungo definiti problematici dalle precedenti prospettive teoriche basate soprattutto sugli aspetti normativi e sulle regole della società; oppure sono stati descritti come francamente patologici, ma alla luce della nuova prospettiva di studio proposta, concependo il benessere come un costrutto complesso che coinvolge gli aspetti fisici, psicologici e sociali, è preferibile definirli come comportamenti a rischio. Si tratta, come visto sopra, di una categoria di comportamenti altamente eterogenea, di cui fanno parte comportamenti molto diversi tra loro come l’uso di tabacco, alcol o sostanze psicoattive, il furto, la menzogna, il disagio scolastico, il vandalismo, le prepotenze nel mondo reale oppure online; interpretare comportamenti così diversi tra loro sulla base di un semplicistico modello patologico impedirebbe di coglierne il significato profondo e centrale.

Infatti secondo Bonino, Cattelino e Ciairano (2003) le funzioni dei diversi comportamenti a rischio, trasversali ad essi, si riferiscono al compito evolutivo principale dell’adolescenza, ovvero lo sviluppo dell’identità; la messa in atto di comportamenti a rischio svolge le seguenti funzioni, strettamente intrecciate tra loro:

  • Assumere anticipatamente comportamenti che per l’adulto sono normali (ad esempio il fumo di sigaretta)
  • Affermare la propria autonomia come persona e come attore sociale (evidente soprattutto per la diminuzione del tempo passato in famiglia e l’aumento di quello passato con i coetanei)
  • Sperimentare le potenzialità e le possibilità delle nuove competenze acquisite (fisiche, cognitive, relazionali)
  • Mettere il sé alla prova in diversi contesti e ambiti
  • Esplorare nuove sensazioni ed emozioni, nonché limiti e reazioni sociali
  • Comunicare bisogni, sensazioni, stati mentali spesso ambivalenti e confusi
  • Condividere esperienze, azioni, emozioni (soprattutto con il gruppo dei pari)
  • Trovare un equilibrio tra i bisogni di individuazione e differenziazione (entrambi importanti per l’adolescente)

Una cornice di riferimento come questa, che tiene conto dei significati profondi sottostanti alcune condotte adolescenziali, fornisce nuovi strumenti di analisi e di indagine delle condotte trasgressive e devianti in adolescenza.

Secondo Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) la tendenza alla trasgressione in adolescenza è infatti legata a problematiche riguardanti la costruzione di un’identità autonoma e all’assunzione di un ruolo sociale; se si riconosce valore alla dimensione psicologica che è alla base delle condotte trasgressive e devianti, le si può dunque intendere soprattutto come una difficoltà evolutiva nella costruzione dell’identità sociale dell’adolescente (p. 279).

Tra trasgressività e devianza in adolescenza esiste un rapporto di continuità e discontinuità dovuto a diversi fattori, che variano in base ai comportamenti esaminati e soprattutto ai significati, impliciti o espliciti, attribuiti loro nell’ambito di una certa cultura; infatti, all’interno della cultura giovanile, vengono attribuiti significati e valori qualitativamente diversi a comportamenti che dalla cultura adulta sono esplicitamente condannati.

A partire dagli anni 80, emergono con fermezza critiche alle precedenti teorie riguardanti la devianza, ritenute tutte fuorvianti in quanto impregnate di logiche deterministiche e causalistiche e di facili equivalenze (ad esempio: presenza di un genitore criminale = criminalità nei figli; appartenenza a determinate aree urbane o gruppi etnici = criminalità). Infatti, il rapporto tra devianza, criminalità, comportamento antigiuridico da una parte e fattori psicologici, sociali, familiari, istituzionali dall’altro, risulta tutt’altro che semplice ed unidirezionale; la complessità inoltre non può che amplificarsi nel momento in cui a questa osservazione si aggiunge la presenza di soggetti minori, in quanto la fase evolutiva che stanno vivendo è già da sé caratterizzata da ineliminabili aspetti di specificità, complessità e variabilità. Non solo, ma l’adolescenza è quasi per definizione caratterizzata anche da aspetti di flessibilità e potenzialità, in quanto le strutture cognitive, affettive ed identitarie non ancora completamente definite e strutturate, offrono un terreno di lavoro estremamente fertile alle diverse figure professionali che si occupano di adolescenti in generale e di adolescenti devianti in particolare (Pietropolli Charmet, 2000; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Si apre così un percorso di riflessione epistemologica e teorica che nasce dall’insoddisfazione dalle teorie classiche sulla devianza, ritenute responsabili di produrre genericità e confusione, e che parte da una concezione di atto criminale inteso nella sua specificità processuale, specificità che lo distingue nettamente da altre forme di devianza sociale, come la tossicodipendenza, la malattia mentale, la disabilità, spesso semplicisticamente unificate sotto il criterio di deviazione dalla norma (De Leo e Patrizi, 1999). A questo fermento teorico, si aggiungono nuovi orientamenti epistemologici, proposti dalla psicologia sociale e dell’età evolutiva, che propongono una visione della realtà sociale composta di sistemi tendenti all’auto-organizzazione e in continua interdipendenza tra loro, una visione processuale del cambiamento che avviene secondo modelli di coevoluzione, una visione dello sviluppo umano non come una sequela di stadi ma di un continuo dispiegarsi di compiti di sviluppo in tutta l’arco di vita.

Secondo De Leo e Patrizi (1999), i primi segni di cambiamenti all’interno della cornice teorica ed epistemologica a proposito dello studio della devianza, possono essere rintracciati nella comparsa di alcune categorie concettuali che hanno sollecitato a ripensare il crimine da fatto ontologico, o comunque necessitato, a percorso individualmente, socialmente e normativamente costruito (p. 22). Gli autori si riferiscono ai concetti di processualità, causalità circolare, carriera deviante, attribuzione di significato, costitutivi della corrente di pensiero dell’interazionismo simbolico di Mead, della teoria di sistemi di Luhman e della teoria socialcognitiva di Bandura. Grazie a queste elaborazioni teoriche, si è fatta strada l’idea di azione violenta e criminale come risultato di processi dinamici di interazione sociale (De Leo, 1998, p. 80), restringendo il fuoco dell’attenzione sulle funzioni e sugli effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni (ibid., p.143).

La differenza fondamentale è quella che passa fra una concezione di insieme intesa come semplice sommatoria di elementi e una concezione insieme come organizzatore che cambia la natura degli elementi, come una combinazione che va studiata come tale, per come funziona come sistema

De Leo, 1998, p. 141

Appare evidente in questa citazione il cambio di paradigma e la grande influenza a questo proposito delle nuove proposte teoriche che si vanno affermando in diversi ambiti delle scienze umane; l’obiettivo è quello di restituire complessità e specificità a un oggetto di indagine che inutilmente si è cercato di ridurre a unità o a semplice sommatoria di fattori.

Il condizionamento classico – Introduzione alla Psicologia nr. 33

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 33)

 

 

Ivan Pavlov (1927) all’inizio dello scorso secolo osservò le abilità di alcuni cani di riuscire a creare una associazione transitoria tra uno stimolo somministrato dallo sperimentatore e una risposta comportamentale messa in atto dall’animale. In questo modo nasce il condizionamento classico o rispondente.

Nello specifico, accadeva che i cani riuscivano a unire uno stimolo condizionato, ovvero uno stimolo neutro individuato dallo sperimentatore (un suono), a una risposta generalmente presentata automaticamente (erogazione di cibo), detta stimolo incondizionato. Il cane dopo aver ascoltato il suono, stimolo condizionato, e visto il cibo, stimolo incondizionato, cominciava a salivare (Risposta Incondizionata). Succedeva che dopo ripetute esposizioni all’associazione stimolo-risposta, il cane iniziava a salivare non appena sentiva il suono e senza ricevere il cibo (Risposta Condizionata).

Pavlov, successivamente, osservò che se lo stimolo condizionato non era somministrato in maniera sistematica, e alla fine non era neppure più somministrato, allora la risposta condizionata perdeva di efficacia fino a scomparire del tutto. Questo fenomeno prende il nome di estinzione.

In ogni caso il ricordo dell’associazione tra lo stimolo e la risposta condizionata rimaneva nella memoria dell’animale. Infatti, ripresentando lo stimolo condizionato, la risposta condizionata ricompariva ancora una volta, ma in questo caso bastavano minori interazioni stimolo-riposta.

Inoltre, è possibile generalizzare questo fenomeno del condizionamento classico. Pavlov stesso vide che presentando stimoli condizionati diversi, tipo suoni diversi tra loro, il cane salivava ugualmente.

In ambito psicopatologico il condizionamento classico è utilizzabile per capire come si forma una fobia specifica. Se si ha paura dei ragni, alla lunga il solo pensiero di questi insetti diventa spaventoso. Non solo, lo stesso principio del condizionamento classico è utilizzato in ambito comportamentale come esercizio per riuscire a superare le fobie. Tale tecnica prende il nome di desensibilizzazione. In questo caso il terapeuta invita il paziente a esporsi in maniera graduale con l’oggetto temuto nel tentativo di estinguere l’associazione precedentemente appresa tra lo stimolo condizionato (ad es: serpente) e la conseguente risposta disfunzionale o condizionata (es: tachicardia, sudorazioni,vertigini, etc.), definita appunto risposta condizionata. Lo scopo è dimostrare che la risposta emotiva non è così spaventosa come sembra, ma è possibile gestirla.

 

 

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L’esposizione in psicoterapia. L’interazione mente-corpo contro la paura di Emiliano Toso (2015) – Recensione

L’esposizione può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”.

Siete anche voi tra quelli che alla vista di un minuscolo ragnetto strillano in maniera isterica e fuggono a gambe levate? Con una singola sessione di psicoterapia espositiva potreste vincere la vostra paura ed arrivare ad accarezzare una simpatica tarantola di 12 cm di diametro (Hauner et Al., 2012). Vi vedo scettici… Non sottovalutate la potenza dell’esposizione!

L’esposizione può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”. Tecnica tradizionalmente associata alla terapia cognitivo-comportamentale, viene in realtà utilizzata in moltissime forme di psicoterapia, in particolare per il trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche dell’ipocondria, del disturbo dell’immagine corporea e dei disturbi dell’alimentazione.

E proprio a questa tecnica lo psicoterapeuta Emiliano Toso dedica il libro “L’esposizione in psicoterapia”, in gara nell’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica.

Toso scrive un testo sì divulgativo, ma corredato di una vasta bibliografia che offre numerosi spunti di riflessione per tutti gli addetti ai lavori, facendo il punto della situazione sullo stato dell’arte di una tecnica che, secondo l’autore, oggi viene un po’ trascurata e relegata a “vecchia carcassa in disuso”.
Attraverso una disamina dei più recenti contributi scientifici riscontrati in letteratura sul tema, l’autore illustra i differenti tipi di esposizione e la loro efficacia, e si interroga sui non ancora chiari meccanismi curativi sottostanti. Inizialmente – afferma Toso – l’esposizione era considerata un mezzo per estinguere risposte riflesse e condizionate; successivamente è stata considerata un metodo per ristrutturare credenze distorte, fino ad arrivare alle concettualizzazioni più recenti che vedono l’esposizione come uno strumento per creare nuove memorie antagoniste e inibitorie.

Indubbiamente i progressi nel campo delle neuroimaging hanno contribuito a comprendere maggiormente l’esposizione, mostrando come possa modificare strutturalmente e funzionalmente alcune aree cerebrali, ma i meccanismi d’azione di base restano ancora alquanto oscuri.

ESPOSIZIONE IN PSICOTERAPIA - EMILIANO TOSO - RECENSIONE - FEATUREDAssodato che l’esposizione funziona, appare lecito domandarsi se esistono modi per aumentarne l’efficacia. A tal proposito Toso descrive sia metodi “chimici” che “fisici” utilizzati in combinazione con l’esposizione e ne discute l’efficacia alla luce di quanto presente in letteratura. Per quanto riguarda l’esposizione combinata con il trattamento farmacologico (ansiolitici o antidepressivi) la maggior parte degli studi sembrano sostenere che la combinazione porti per lo più vantaggi modesti se non, addirittura, negativi. Molto interessanti invece gli studi condotti su sostanze “cognitive enhancers” (es. L-dopa e D-cicloserina) che sembrano essere in grado di potenziare l’effetto dell’esposizione agendo sui meccanismi di apprendimento e memorizzazione. Tra i metodi fisici risultano invece di particolare interesse la possibilità di utilizzare il sonno per manipolare il fenomeno dell’estinzione, il verbalizzare ed esplicitare le proprie emozioni durante l’esposizione per ridurre le emozioni negative, e l’uso della realtà virtuale e del biofeedback.

Toso non dimentica infine di dedicare un capitolo al ruolo giocato dalla consapevolezza sia durante l’esposizione che durante l’evitamento, recuperando i contributi della Terapia Metacognitiva di Wells (esposizione metacognitiva e rifocalizzazione attentiva) e della Mindfulness.

Il testo si conclude con un tentativo, che l’autore stesso definisce forse una scelta azzardata, di fornire una propria personale concettualizzazione dell’esposizione. La teoria presentata considera l’evitamento e l’esposizione fenomeni psicologici al servizio dello scopo di “ricerca del piacere”. L’uomo, secondo Toso, per natura sarebbe infatti guidato dalla ricerca di gratificazione e non dall’istinto di sopravvivenza. Pertanto di fronte a stimoli minacciosi metterebbe in atto comportamenti di evitamento non allo scopo di sopravvivere, bensì con il fine di provare piacere evitando la sofferenza dovuta allo stimolo temuto; rimanendo però in questo modo bloccato in circoli viziosi paradossalmente gratificanti (perché riducono la sofferenza), ma che ne limitano l’esplorazione e la funzionalità. In quest’ottica, l’esposizione ripristinerebbe il funzionamento adattivo dell’individuo dando vita a nuove fonti di piacere, raggiungibili mediante comportamenti espositivi in grado di sviluppare circoli virtuosi.
Una teoria ambiziosa, che non mancherà di stimolare nel lettore riflessioni in merito.

Ciò che è certo è che Toso ci regala un testo che rende più consapevoli noi terapeuti della potenza, delle potenzialità e dei limiti dell’esposizione in modo da utilizzarla in terapia con la massima cognizione di causa, e offre ai pazienti a cui proponiamo di affrontare gli stimoli temuti la possibilità di comprendere e apprezzare una tecnica non banale né scontata, ma tanto potente da poter far sì che addirittura un aracnofobico possa arrivare a coccolarsi una pelossissima tarantola.

Gli effetti negativi delle interruzioni del sonno

Secondo uno studio condotto da ricercatori della Johns Hopkins Medicine svegliarsi più volte durante la notte è dannoso, più di quanto non lo sia la stessa quantità ridotta di sonno ma senza interruzioni, in particolare ciò che ne risulta maggiormente danneggiato sono gli stati d’animo positivi.

I ricercatori hanno studiato 62 uomini e donne assegnati in modo casuale a tre condizioni sperimentali in cui dovevano dormire in una stanza di ricerca clinica ospedaliera per tre notti consecutive: risvegli forzati, un ritardo nell’orario in cui si va a letto o sonno ininterrotto.

Dopo la prima notte, i partecipanti sottoposti alle condizioni risvegli forzati (otto) e quelli con ritardo nel sonno, hanno mostrato configurazioni simili di bassi stati d’animo positivi e alti stati d’animo negativi, misurate con un questionario standard di valutazione dell’umore somministrato prima di andare a letto in cui veniva chiesto di valutare l’intensità di una varietà di emozioni positive e negative.

Le differenze significative però sono emerse dopo la seconda notte: il gruppo di risveglio forzato ha avuto una riduzione del 31% degli stati d’animo positivi, mentre il gruppo sonno ritardato ha avuto un calo del 12% rispetto al primo giorno. Non sono state invece trovate differenze significative nell’umore negativo tra i due gruppi in uno qualsiasi dei tre giorni.

Questi dati nell’insieme mettono in evidenzia come la frammentazione del sonno sia particolarmente dannosa per gli stati d’animo positivi. Quando il sonno è disturbato per tutta la notte, infatti, non si ha la possibilità di progredire attraverso le fasi del sonno per ottenere la quantità di sonno a onde lente che è fondamentale per garantire il senso di ristoro.

Secondo i ricercatori anche se lo studio è stato condotto su soggetti sani senza patologie del sonno, i risultati possono applicarsi anche a chi soffre di insonnia: i risvegli frequenti durante la notte infatti sono comuni tra i neo-genitori e gli operatori sanitari in guardia notturna, ma è anche uno dei sintomi più comuni tra chi soffre di insonnia; chi soffre di insonnia infatti non fa mai l’esperienza di un sonno ristoratore perchè dorme a singhiozzo.

L’umore depresso è un sintomo comune di insonnia; il team di ricerca per indagare questo legame ha utilizzato un test chiamato polisonnografia – che monitora alcune funzioni del cervello e del corpo mentre i soggetti dormono – per valutare le fasi del sonno.

Il gruppo risveglio forzato, rispetto al gruppo sonno ritardato, ha avuto periodi più brevi di sonno profondo a onde lente. La mancanza di sufficiente sonno ad onde lente ha mostrato un’associazione statisticamente significativa con la riduzione degli stati d’animo positivi. Inoltre il sonno interrotto ha colpito diversi aspetti degli stati d’animo positivi, riducendo non solo i livelli di energia, ma anche i sentimenti di simpatia e cordialità.

Lo studio suggerisce anche che gli effetti del sonno interrotto sull’umore positivo siano cumulativi, infatti le differenze tra i gruppi sono emerse dopo la seconda notte e hanno continuato il giorno dopo la terza notte di studio; possiamo immaginare quali siano gli effetti dei disturbi del sonno cronici correlati alla mancanza di periodi di adeguato sonno ad onde lente.

Concorso RACCONTA LA TUA TESI: i video dei vincitori

I vincitori del concorso Racconta la tua tesi

in collaborazione con la Sigmund Freud University Milano

 

Racconta in un video di 90 secondi i contenuti chiave della la tua tesi di Laurea Triennale e vinci una borsa di studio per la Laurea Magistrale in Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University.

La giuria, composta dal Consiglio del Corso di Laurea Magistrale di Psicologia ha selezionato i migliori 3 video inviati, vincitori del concorso 2015:

 

  1. BOIANO ERICA Laureata presso l’Università degli Studi Milano Bicocca il 15/10/2015

Tesi: Genere e coraggio, uno studio psicosociale.

 

  1. ALBANESE FEDERICA Laureata presso l’Università degli Studi Milano Bicocca il 12/10/2015

Tesi: Da Fonagy a Sass: mentalizzazione, sviluppo e psicopatologia

 

  1. RIBOLI GRETA Laureata presso l’Università Telematica eCampus il 22/07/2015

Tesi: Istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione. La Psichiatria da mezzo di coercizione a strumento terapeutico per la libertà.

Visita il sito della Sigmund Freud University Milano:

LOGO SFU MILANO 2015

La dipendenza affettiva: i fattori predisponenti – Dal Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

La Dipendenza Affettiva: fattori predisponenti

M.STAVOLA (1), G.MAZZOCATO (2), R. BRAMBILLA (3), F. FIORE (4)
(1) e (2) Scuola Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Bolzano
(3) e (4) Studi Cognitivi di Milano

Scopo della ricerca è quello di verificare se fenomeni di Dissociazione e di Disregolazione emotiva conseguenti ad un Trauma infantile e uno stile di Attaccamento non sicuro sono fattori predittivi per la Dipendenza Affettiva.

La Dipendenza Affettiva fa parte delle cosiddette New Addiction, che con la pubblicazione del DSM 5, sono per la prima volta entrate a far parte della categoria denominata “Disturbi non correlati a sostanze” accanto ai “Disturbi correlati a sostanze”. Un cambiamento importante nonostante il fatto che l´unica dipendenza comportamentale introdotta è quella legata al gioco d´azzardo che esisteva già nel DSM IV ma nei “Disturbi del controllo degli impulsi”.
Ad ogni modo, come evidenzia anche il DSM 5 nella parte introduttiva al capitolo delle Dipendenze, c´è molta attenzione rivolta alle New Addiction nel tentativo di chiarirne gli aspetti salienti, fornirne evidenze e stabilire criteri diagnostici e decorsi.

La Dipendenza Affettiva, a differenza delle altre forme di dipendenza comportamentale, si sviluppa nei confronti di una persona e ciò la rende più difficile da riconoscere e da contrastare. Spesso il soggetto non ne è consapevole considerandosi vittima, in genere, di un narcisista o un manipolatore ponendo, quindi, all´esterno l´origine della propria sofferenza.

Obiettivo di questa ricerca è stato quello di verificare un modello eziopatogenetico ben noto in letteratura e cioè un modello centrato sul trauma (relazionale precoce che è uno dei fattori di rischio più importanti per lo sviluppo di psicopatologia in generale) e sull’attaccamento come rappresentazione dei modelli futuri di regolazione degli affetti. In questo modello lo stile di attaccamento insicuro/disorganizzato (il bambino è in una condizione di minaccia senza via di scampo poiché la fonte di protezione è assente o contemporaneamente fonte di pericolo) costituirà un fattore di “rischio” e vulnerabilità rispetto ai possibili esiti postumi. Chi ha subito il trauma complesso presenta due dimensioni psicopatologiche fortemente correlate tra loro: dissociazione della coscienza e disregolazione emotiva.

Per questa ricerca sono stati individuati 4 Strumenti Self-Report:
1. TRAUMA: Childhood Trauma Questionnaire – Short Form (Bernstein-Fink)
2. ATTACCAMENTO: Relationship Questionnaire (Bartholomew-Horowitz)
3. DISSOCIAZIONE: Dissociative Experience Scale (Carlson-Putnam)
4. DISREGOLAZIONE EMOTIVA: Difficulties Emotion Regulation Scale (Gratz-Roemer)

I questionari sono stati somministrati online e compilati in forma anonima da membri di alcuni Gruppi di Auto-Aiuto per Dipendenza Affettiva (spesso nominati come Gruppi di Vittime di Narcisisti o Manipolatori). Ne esistono molti e distribuiti sul territorio nazionale. Sono gruppi che si incontrano periodicamente (in genere mensilmente) e che condividono online, su alcune piattaforme web o social, informazioni e opinioni. Hanno sempre un Moderatore o Facilitatore e la presenza di uno Psicologo o Psicoterapeuta.
Il questionario è stato compilato da 201 persone nel Gruppo Sperimentale, ma purtroppo solo 99 lo hanno compilato totalmente. Nel Gruppo di Controllo il questionario è stato compilato da 75 persone.

I risultati dell’analisi comparativa dei dati aggregati ha riportato quanto segue:

TRAUMA: Nel Gruppo Sperimentale tutte le scale presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo, ma in particolar misura e significato nelle scale di Abuso Emotivo e Negligenza Emotiva;
ATTACCAMENTO: Nel Gruppo Sperimentale le scale che presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo sono quelle della scala Preoccupato e Timoroso. Interessante è il dato che nella valutazione della relazione il Dipendente Affettivo abbia un’alterazione del Modello di sé e non del Modello dell’altro. In particolare il Modello di sé Positivo (scala Sicuro e Distaccato/Svalutante) diminuisce fortemente mentre il Modello di sé Negativo (scala Preoccupato e Timoroso) aumenta fortemente. In effetti il Dipendente Affettivo non è «a proprio agio con l’autonomia» e anche il «rifiuto della dipendenza» è basso, così come è molto «preoccupato per la relazione» e ha più «timore dell’evitamento sociale»;
DISSOCIAZIONE: Nel Gruppo Sperimentale le scale presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo per la presenza di Esperienze Dissociative Patologiche e per la presenza di un Disturbo Dissociativo (valore inesistente nel Gruppo di Controllo);
DISREGOLAZIONE EMOTIVA: Nel Gruppo Sperimentale le scale presentano valori più elevati rispetto al Gruppo di Controllo per la presenza di una Disregolazione Emotiva Moderata e Forte.

E’ stata inoltre sviluppata un’analisi statistica dei dati al fine di poter determinare possibili correlazioni tra le variabili, nonché la presenza di regressioni e la verifica di un modello moderazionale tra le variabili, vale a dire, la presenza di un’influenza «indiretta» tra alcune variabili.

L’analisi di Correlazione ha portato a risultati interessanti mostrando una correlazione ad alta significatività tra tutte e 4 le dimensioni (Trauma, Attaccamento, Dissociazione, Disregolazione emotiva).

L’analisi del Modello Moderazionale ha portato a risultati importanti mostrando la seguente regressione ad alta significatività:
– Trauma ha un’ influenza diretta su Attaccamento con un coefficiente di regressione (β= 0,179).
– Dissociazione ha un’ influenza diretta su Attaccamento con un coefficiente di regressione (β= 0,157).
– Trauma ha un’ influenza diretta su Dissociazione con un coefficiente di regressione (β= 0,197)

Abbiamo quindi potuto verificare che Trauma ha un’ influenza totale su Attaccamento con un coefficiente di regressione (β= 0,21).

Le “nuove dipendenze”, hanno assunto un ruolo di primo piano nel panorama dei sintomi/disturbi contemporanei sia per la loro crescente diffusione sia per l’impatto, potenzialmente nefasto, che esercitano sulla sfera soggettiva, socio–relazionale e familiare. Tali dipendenze, si manifestano nel compulsivo bisogno di ricercare l’oggetto, praticare l’attività, una coazione a ripetere o ripetizione in grado di compromettere l’esistenza stessa della persona, fuori dalle sue possibilità di controllo razionale.
Questa ricerca ha confermato quanto riportato in letteratura per le Dipendenze in generale ovvero la presenza di una maggiore Dissociazione e Disgregolazione emotiva, di uno stile di attaccamento non sicuro e la presenza di negligenza/abusi emotivi durante l’infanzia all’interno del gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo.

 

Come funziona l’intelligenza: può il genere influenzare lo sviluppo di credenze sulle abilità intellettive?

Il possedere un determinato tipo di teoria implicita sull’intelligenza sembra produrre particolari effetti sul modo in cui gli studenti affrontano il processo di apprendimento e sui risultati ottenuti.

Nella realtà quotidiana ogni individuo si ritrova ad affrontare compiti e sfide in cui vengono messe alla prova tutta una serie di abilità comunemente raggruppate sotto il concetto di intelligenza. La complessità di questo costrutto ha contribuito allo sviluppo di vari “luoghi comuni”, non del tutto corretti, sull’intelligenza (Meyer, 2000), che, nella vita quotidiana vengono utilizzati per spiegare la buona riuscita o l’insuccesso in svariati compiti. Tra le credenze più diffuse si riscontrano sicuramente quelle che identificano l’abilità intellettiva come innata e di natura immutabile (statica), per cui viene, a torto, ritenuta non suscettibile di miglioramento, nemmeno attraverso interventi educativi specifici.

Anche in ambito scolastico, di fronte ai successi o fallimenti accademici, gli studenti tendono a formarsi delle teorie sulla natura dell’intelligenza e sul modo in cui si sviluppano le abilità intellettive. Carol Dweck (2000) ha identificato due tipologie di teorie implicite relative all’intelligenza. Da un lato, si possono riconoscere studenti che considerano l’intelligenza un costrutto fisso, non modificabile e presente in una certa quantità sin dalla nascita; d’altra parte, altri ritengono, invece, che le abilità intellettive possano essere potenziate e sviluppate grazie all’impegno personale e al coinvolgimento in percorsi educativi specifici. Dweck (2000) ha definito queste credenze, rispettivamente, teoria dell’intelligenza come entitaria e teoria dell’intelligenza come fissa.

Il possedere un determinato tipo di teoria implicita sull’intelligenza sembra produrre particolari effetti sul modo in cui gli studenti affrontano il processo di apprendimento e sui risultati ottenuti (Dweck e Legett, 1988; Dweck, 2000). In particolare, bambini e ragazzi che considerano la propria intelligenza come fissa, di fronte ad insuccessi o a prestazioni al di sotto delle aspettative, tendono a demotivarsi, a ridurre il proprio impegno scolastico e a sperimentare livelli crescenti di ansia verso le prove che la scuola chiede loro di affrontare.

L’atteggiamento che li caratterizza potrebbe essere riassunto nella frase: “Non riesco perché non sono intelligente”. Questa convinzione potrebbe avere ripercussioni negative anche sull’autostima e sullo sviluppo delle relazioni sociali. In base a tali presupposti, spesso si sviluppa un orientamento motivazionale al compito basato sulla prestazione (o sull’evitamento di essa). Al contrario, gli studenti che hanno sviluppato una teoria dell’intelligenza di tipo incrementale mettono al centro del loro percorso di apprendimento l’impegno che mettono in gioco e la scelta di strategie di studio appropriate; inoltre, li accompagna spesso la consapevolezza che, per poter ottenere un potenziamento significativo delle loro abilità intellettive, è necessario, da parte loro, uno sforzo che si prolunghi nel tempo, raggiungendo e superando prove via via sempre più difficili. Tale atteggiamento è molto utile perché, in caso di insuccesso, aiuta a comprendere quali sono stati gli errori strategici che hanno contribuito a tale risultato. In questo caso, l’insuccesso non viene visto come mancanza di intelligenza ma come utilizzo non efficace delle proprie abilità (Kinlaw e Kurt-Costes, 2003), o come conseguenza di uno sforzo non gestito in modo corretto. L’orientamento motivazionale più frequente, in questi casi, è quello della padronanza del compito.

Considerando il peso che queste credenze hanno nel processo di apprendimento, ci si potrebbe chiedere quali siano le categorie di studenti che potrebbero più facilmente manifestare teorie implicite dell’intelligenza come entitaria, sviluppando perciò un atteggiamento non efficace di fronte alle sfide. Emergono alcuni elementi di criticità in relazione al genere degli studenti, per cui, in alcuni condizioni, le studentesse potrebbero essere maggiormente a rischio di sviluppare una condizione di vulnerabilità legata alle loro credenze sull’intelligenza in ambito accademico.

Già Carol Dweck (2000) aveva rilevato come le ragazze che mostrano prestazioni scolastiche molto buone tendono maggiormente a sviluppare una teoria entitaria rispetto ai coetanei maschi. Secondo la studiosa, le studentesse che ottengono a scuola risultati brillanti, ricevono molto frequentemente elogi alla loro intelligenza e doti intellettive: in tal modo, si formerebbe la convinzione che i loro successi accademici dipendono da un dato “talento” che esse hanno avuto la fortuna di possedere sin dalla nascita.

Nel momento in cui si verificasse un periodo di difficoltà scolastica o un insuccesso accademico, la valutazione potrebbe essere rapidamente ribaltata, convincendole di non essere all’altezza di determinati compiti. Tale convinzione, inoltre, potrebbe essere alimentata anche da uno stereotipo di genere, secondo il quale l’intelligenza femminile sarebbe spesso considerata meno modificabile e migliorabile di quella maschile (Verniers e Martinot, 2015). Va tuttavia rilevato che le ricerche in questo ambito evidenziano come le differenze tra ragazze e ragazzi nell’ espressione di particolari tipi di teorie dell’intelligenza non sono nette e univoche; in alcuni studi, infatti, non si evidenziano particolarità legate al genere nelle credenze sull’intelligenza (Storek e Furnham, 2012).

Una possibile spiegazione potrebbe essere legata al fatto che alcuni contesti specifici di apprendimento e aree di conoscenza possiedono particolari caratteristiche in grado di determinare una condizione di vulnerabilità per le donne, influenzandone le teorie sulla natura dell’intelligenza e, conseguentemente, gli obiettivi di apprendimento: un esempio viene offerto da Bråten e Strømsø (2006), i quali hanno rilevato che in un contesto di formazione particolarmente competitivo e prevalentemente maschile, come l’ambito dell’economia e della finanza, le studentesse tendono ad adottare obiettivi di apprendimento legati all’evitamento della prestazione in misura maggiore rispetto ai colleghi maschi. Tale condizione non è emersa, invece, per un ambito di formazione professionale comunemente considerato più “femminile”, come quello dell’insegnamento (Bråten e Strømsø, 2006), all’interno del quale, invece le studentesse tendevano più frequentemente a sviluppare un orientamento motivazionale alla padronanza del compito. Il genere andrebbe quindi considerato come uno dei vari fattori esterni, legati a caratteristiche personali e all’interazione con un determinato contesto, che tendono ad interagire nella formazione di un modello motivazionale specifico e individuale, includendo anche lo sviluppo di particolari credenze sulle abilità intellettive (Renaud-Dubé, Guay, Talbot, Taylor, Koestner, 2015).

A partire da quanto precedentemente discusso, possono essere formulate alcune indicazioni. Nella formazione delle proprie credenze sull’intelligenza e sul modo in cui essa funziona, è presente un rischio “vulnerabilità” per le studentesse; tale rischio è presente in forma ridotta e risente comunque dell’influenza di altre caratteristiche personali e contestuali. Sarebbe importante aiutare tutti gli studenti a comprendere le modalità con cui si sviluppano le abilità cognitive ed intellettive, sottolineando il ruolo dell’impegno personale per progredire nel proprio percorso di apprendimento e raggiungere gli obiettivi prefissati; inoltre, per costruire un approccio all’apprendimento maggiormente efficace, accanto a tali indicazioni, si dovrebbe sostenere lo sviluppo di un orientamento motivazionale alla padronanza del compito (Dweck, 2000).

Sarebbe inoltre raccomandabile, per educatori, insegnanti e adulti significativi, centrare le lodi o le critiche agli studenti sull’impegno che essi hanno più o meno investito nei compiti scolastici, piuttosto che sul loro “presunto” livello di intelligenza. Infine, un’altra strategia in grado di offrire supporto agli studenti nella loro attività scolastica e accademica potrebbe essere quella di far loro esplicitare eventuali pregiudizi legati al genere nell’ambito dell’apprendimento e della conoscenza. Questo non solo con lo scopo di evitare lo sviluppo di teorie dell’intelligenza entitaria (che producono conseguenze certamente non adattive per il percorso di apprendimento) ma anche per aiutare ogni bambina e ragazza a riconoscere le proprie potenzialità e a non sentirsi vincolata, nel proprio percorso accademico e professionale, a pregiudizi infondati che pretendono di determinare quali siano le scelte di studio e di carriera più appropriate per il genere femminile.

Effetti della violenza domestica su madri e figli: la prospettiva della teoria dell’attaccamento

Marika Di Egidio, Federica Di Francesco

 

Nei casi di violenza domestica la figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa.

Sempre più frequentemente ci troviamo ad ascoltare o a leggere di donne vittime di violenza domestica.
Numerosi studi evidenziano che le donne che subiscono abusi, sia fisici che psicologici, risultano spesso depresse, ansiose, possono sviluppare un disturbo post-traumatico da stress (PTSD), abusare di sostanze o tentare il suicidio (Golding, 1999; Taft, Watkins, Stafford, Street & Monson, 2011).
Attraverso la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988) è possibile spiegare i meccanismi che alterano il funzionamento psicologico delle donne vittime di violenza.

Nell’uomo, secondo Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988), esiste una tendenza innata a ricercare la vicinanza con la figura d’attaccamento in situazioni di pericolo, stress e solitudine. Il comportamento d’attaccamento si attua come ricerca attiva della figura di riferimento che accudisce e protegge. Nel tempo le modalità con le quali si entra in relazione con le figure d’attaccamento, inizialmente la madre, si stabilizzano e tendono a generalizzarsi, formando schemi cognitivi interpersonali, che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (MOI). Queste rappresentazioni apprese di sé, della relazione con l’altro e delle figure d’attaccamento s’innestano sulle componenti innate del sistema e costituiscono una caratteristica individuale che modella le relazioni interpersonali, portando alla strutturazione di uno specifico stile di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato.

Durante un evento traumatico, come la violenza, si attiva nella vittima il bisogno di cercare sicurezza e protezione nella figura di riferimento, che nella relazione di coppia è rappresentata dal partner.

Nei casi di violenza domestica, tuttavia, la figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi nella mente della donna di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa. Tale stato di disorganizzazione psicologica potrebbe portare la donna abusata a esperire deficit di mentalizzazione e stati di disregolazione emotiva molto intensi che contribuiscono a intrappolarla in una relazione disfunzionale con il partner. La disorganizzazione a livello psicologico tende a manifestarsi anche a livello comportamentale, ripercuotendosi in maniera significativa sulle interazioni interpersonali intrattenute dall’ individuo, compresa la relazione madre-figlio (Huth-Bocks et al., 2004; Solomon & George, 1996 in Levendosky et al., 2012).

Numerose ricerche (Levendosky et al., 2006; Lyons-Ruth et al., 2005; Huth-Bocks et al., 2004) evidenziano, infatti, che i bambini cresciuti in ambienti familiari violenti, testimoni di abusi perpetrati ai danni delle proprie madri, tendono a essere maggiormente esposti al rischio di subire violenze in età adulta.
Alla base di tale associazione sono identificabili diversi fattori causali.

In primo luogo, interagire con una madre picchiata e maltrattata, psicologicamente disorganizzata, costituisce un’esperienza traumatica per il bambino. La relazione genitore-figlio si realizza attraverso una serie di comportamenti contraddittori: la figura d’attaccamento è al contempo spaventata e spaventante. In una simile relazione il bambino non può far altro che strutturare rappresentazioni mentali incompatibili del genitore, fonte allo stesso tempo di protezione e di pericolo o paura (per pericoli esterni e invisibili). A queste rappresentazioni del genitore corrispondono rappresentazioni del Sé altrettanto molteplici e incompatibili. Per descrivere le possibili combinazioni di tali modelli operativi interni di Sé e dell’Altro molteplici, segregati o dissociati, Liotti utilizza il concetto di “triangolo drammatico” di Karpman, per cui in un rapporto diadico i due attori si scambiano i ruoli di vittima, persecutore e salvatore.

Il bambino in relazione con una madre abusata tenderà infatti a percepirsi, di volta in volta, come persecutore, ossia responsabile della paura o aggressività manifestate dalla figura di attaccamento; come vittima terrorizzata e impotente dell’aggressività del genitore; come salvatore, il bambino è un conforto e un’ancora di salvezza per la madre. L’attivazione di modelli operativi interni (MOI) contraddittori e incompatibili ostacola gravemente la sintesi mentale di un senso di sé unitario e coerente, impedendo anche il monitoraggio cognitivo delle emozioni relative a questi molteplici MOI, che restano segregati o dissociati dalla coscienza.

Altrettanto importante è il fatto di dover crescere con una madre violentata e traumatizzata, incapace di esercitare in maniera adeguata la propria funzione genitoriale.

Come detto in precedenza, le madri abusate si sentono donne inette e vulnerabili e presentano una forte disorganizzazione a livello psicologico. Tale visione negativa di sé le induce a considerarsi anche madri inadeguate, incapaci di gestire il proprio bambino e le spinge ad allontanarsi dalla relazione con il piccolo, a ritrarsi sul piano emotivo e ad agire comportamenti scarsamente responsivi rispetto ai bisogni espressi dal figlio. Uno stile parentale così trascurante spinge il bimbo alla strutturazione di un accudimento invertito nei confronti di queste madri così sofferenti.

La felicità di un bambino passa attraverso il soddisfacimento, fin dai primi anni, dei suoi bisogni emotivi primari, che vanno dall’amore incondizionato dei genitori al rispetto del suo essere, dal riconoscimento di chiare gerarchie familiari al supporto nell’esplorazione del mondo esterno, dalla protezione all’empatia.
Tutti questi bisogni sono di solito assicurati dai genitori e dai familiari più stretti che forniscono al bambino una “solidità” di base che lo aiuterà ad affrontare la vita ed il mondo circostante senza eccessive paure.

È evidente che nel fenomeno dell’accudimento invertito questi aspetti vengono del tutto o in parte disattesi: i ruoli del genitore e del figlio si invertono e sarà il bambino a fornire cure e protezione al genitore più debole.

I bambini che sperimentano tale forma di accudimento sono spesso percepiti all’esterno come “mini-adulti”, molto responsabili e attenti ai bisogni dei genitori. Spesso non destano preoccupazione e apparentemente l’infanzia sembra procedere per il meglio; tuttavia, negli anni, potranno manifestarsi sintomi anche gravi di ansia e depressione. La forza di questi sintomi sarà direttamente proporzionale al periodo di accudimento invertito: più breve sarà e maggiori saranno le possibilità che il bambino torni a funzionare secondo le modalità tipiche della sua età cronologica; più lungo sarà il periodo e maggiore sarà la possibilità di uno sviluppo distorto della sua personalità.

Il bambino che si trova a interagire con una madre abusata non è pertanto messo nelle condizioni di potersi percepire come un soggetto competente e degno d’affetto; al contrario tende a maturare un’idea fortemente negativa di Sé, a vedersi come un individuo non amato e non amabile. In maniera complementare, il caregiver e l’Altro tenderanno a essere visti come rifiutanti, trascuranti, non accessibili sul piano emozionale. Tali rappresentazioni di sé e del mondo rendono il bambino più vulnerabile alla violenza esponendolo al rischio di essere coinvolto in relazioni con partner abusanti in età adulta.

Il fatto di aver assistito a episodi di violenza durante l’infanzia sembra essere correlato anche al rischio di sviluppare disordini psicopatologici e comportamentali di varia natura.
Varie ricerche (Chan & Yeung, 2009; Evans et al., 2008; Holt et al., 2008; Kitzmann et al., 2003; Sternberg et al., 2006; Wolfe et al., 2003; Martinez-Torteya et al., 2012; Martinez-Torteya et al., 2009 in Levendosky et al., 2012) confermano la relazione tra esposizione a episodi di violenza domestica durante l’infanzia e disturbi comportamentali esternalizzati (aggressività, deficit attentivi, comportamenti oppositivi-provocatori, delinquenza) e internalizzati (depressione, ansia) in adolescenza e in età adulta.

I bambini testimoni di violenze perpetrate a danno delle proprie madri mostrano una particolare vulnerabilità anche nei confronti del Disturbo Post-Traumatico da Stress (Bogat et al., 2006; Graham-Bermann et al., 1998b; Levendosky et al., 2002 in Levendosky et al., 2012).
Una possibile soluzione per interrompere tale circolo vizioso è ravvisabile nella terapia cognitivo-comportamentale. Iverson et al. (2011) mettono in evidenza come le donne abusate che decidono di intraprendere un percorso di terapia cognitivo-comportamentale riducano notevolmente il rischio di sviluppare depressione e Disturbi Post Traumatici da Stress, elaborando il trauma della violenza subita e conservando un’organizzazione psicologica funzionale a garantire il benessere psicofisico dell’individuo.

Come concepire e affrontare la “crisi” nell’ottica della Psicologia della Salute

 

Nella prospettiva adottata dalla Psicologia della Salute, non sono gli eventi in sé ad esser connotati a priori come patogeni o salutogeni, quanto, invece, il modo in cui la persona affronta e si mette in relazione all’evento attivando o meno una serie di risorse a definirne i possibili esiti.

Il concetto di “crisi” sembrerebbe esser stato tradizionalmente rivestito di un alone di negatività e considerato come qualcosa da temere, da allontanare dal momento che può evolvere più in una direzione negativa che verso un esito positivo e costruttivo. Diversamente, entrambi questi aspetti sembrerebbero esser presenti se risaliamo all’etimologia: il termine Krisis, infatti, indicherebbe un momento che separa un modo di essere o una serie di fenomeni da un’altra differente; nella medicina ippocratica con esso si indicava un punto decisivo della malattia da cui avrebbe avuto origine un decorso favorevole o sfavorevole. In ambito psicologico, Sifneos (1982) definiva la crisi uno stato di sofferenza così intensa da costituire un punto di svolta decisivo verso un miglioramento o un peggioramento.

Erickson (1968) ha parlato di crisi in rapporto al processo di costruzione dell’identità, nucleo centrale dello sviluppo psicosociale della personalità, che, a partire dall’adolescenza, vede impegnato l’individuo nell’intero arco di vita. L’autore articola lo sviluppo della personalità in otto tappe, ciascuna caratterizzata da diversi compiti evolutivi, costituiti da un dilemma, un conflitto da risolvere e il cui superamento è condizionato dal contesto socio-culturale in cui si verifica. Egli parla di crisi evolutive riferendosi alle problematiche ed ai conflitti tipici di ogni fase della vita prevedendone per ognuna un successo, che condurrebbe al passaggio allo stadio successivo e all’integrazione di nuovi elementi nella costruzione della sua identità, e un possibile fallimento con le sue conseguenze: i problemi che la persona incontra e che non riesce a risolvere nel corso dello sviluppo, infatti, si accumulano e si ripresentano nella fase di sviluppo successiva.

In questo modo, il superamento più o meno completo delle varie fasi di sviluppo e la soluzione o non soluzione completa delle numerose crisi e dei problemi di identità, caratterizzeranno l’individuo nella sua interezza. In questo modello, la crisi viene, pertanto, concepita come una fase necessaria da attraversare affinché possa esserci crescita e sviluppo: ogni tappa dello sviluppo della personalità sarebbe una crisi potenziale perché implica un mutamento radicale di prospettiva, enfatizzando, in linea con quanto sostenuto nel presente lavoro, che sia il modo di affrontarla a determinarne la connotazione di fase di crescita o di accresciuta vulnerabilità.

Nella prospettiva adottata dalla Psicologia della Salute, non sono gli eventi in sé ad esser connotati a priori come patogeni o salutogeni, quanto, invece, il modo in cui la persona affronta e si mette in relazione all’evento attivando o meno una serie di risorse a definirne i possibili esiti. I cosiddetti “eventi critici” vengono concepiti come potenziali attivatori di risorse, stimolo alla ricerca di nuove forme relazionali che si addicano meglio alle mutate condizioni di crescita (Mazzoleni, 2004). Perciò, in questa ottica, la connotazione di critico fa riferimento al potenziale effetto destabilizzante e dunque di crisi: l’individuo o il sistema potrebbero, infatti, non riuscire ad affrontare alcuni compiti, rischiando in questo modo di cristallizzare schemi mentali e modalità relazionali o comportamentali; o al contrario, se sostenuti, essi potrebbero rivelarsi in grado di attingere alle risorse interne ed esterne di cui dispongono per creare forme di vita nuove e più funzionali.

Questo modo di intendere la crisi fa leva, perciò, sulla capacità reattiva delle persone che costantemente si trovano ad affrontare fattori che potrebbero potenzialmente indurre malessere. L’individuo che affronta situazioni critiche viene concepito, dunque, come competente nella ricerca di soluzioni che migliorino il proprio modo di essere ed il riconoscere le sue specifiche competenze; invece di concentrarsi esclusivamente sui deficit, può favorire una situazione di benessere.

Intendendo per resilienza la resistenza o elasticità di un materiale sottoposto ad urti improvvisi, Putton e Fortugno (2006) ne individuano sette componenti: la capacità di esaminare se stesso, farsi domande difficili e rispondersi con sincerità (insight), di mantenere una certa distanza emotiva dai problemi (indipendenza), di stabilire rapporti intimi con altre persone (interazione), di riuscire a gestire i problemi (iniziativa), il saper creare ordine e bellezza a partire dal caos (creatività), il saper relativizzare gli eventi vedendone aspetti positivi (allegria), la capacità di far riferimento a dei valori (morale).

Rispetto agli eventi critici la psicologia della salute, pertanto, non si concentra sull’ identificazione dei fattori stressanti come eventi da combattere o da evitare, piuttosto, si occupa di comprendere come alcune persone si muovono verso la salute.
Sulla scia di queste considerazioni, una delle premesse che si ritengono fondamentali negli interventi psicologici è costituita dalla fiducia nelle potenzialità evolutive degli individui e dei sistemi e dalla considerazione degli eventi critici non in quanto scostamenti da norme esterne agli individui stessi, indicatori inevitabili di patologia e pertanto necessitanti di interventi “normalizzanti”. Concepire la crisi in un’ottica dinamico- evolutiva vuol dire prestare attenzione alle premesse che orientano il funzionamento degli individui e dei sistemi ed intervenire supportando questi ultimi nella ricerca di nuove modalità di cambiamento più funzionali.

E’ un periodaccio? #VoltaPagina

Non c’è niente di meglio di un buon amico per parlare dei propri problemi… O forse si.  

Nella nostra società, e tanto più in questi tempi di crisi, non mancano i motivi per sentirsi stanchi, stressati, inquieti, confusi di fronte ai più diversi problemi che la vita può metterci davanti.

Non sempre questi stati psicofisici vanno considerati come “disturbi”: a volte lo sono, ma a volte sono una risposta “normale” che la mente e l’organismo oppongono a circostanze difficili, dolorose, problematiche. E a volte si ha l’impressione di non farcela ad affrontare da soli i problemi che inquinano le nostre giornate e ci tolgono la serenità; a volte non sapremmo neanche dire perché ci sentiamo arrabbiati, ansiosi o infelici. In questi casi è bene ammettere con sé stessi che le energie non bastano, e cercare aiuto.

Ma l’offerta di aiuto a cui possiamo rivolgerci è spesso inadeguata a recuperare uno stato di benessere: si propongono di aiutarci gli amici o i familiari, ma spesso il loro affetto e il loro sano buon senso non sono sufficienti ad affrontare la complessità dei nostri problemi emotivi; oppure cerchiamo l’intervento del medico, ma farmaci ansiolitici o antidepressivi, anche se possono darci qualche temporaneo giovamento, non modificano il contesto che ha prodotto quei problemi; e meno che mai possono essere efficaci gli interventi dei ciarlatani o di quei consulenti improvvisati che propongono soluzioni facili e superficiali che non risolvono nulla…

#VoltaPagina: IL VIDEO

 

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Disturbo acuto da stress e CBT: natura del disturbo e possibilità di trattamento

Simone Zignani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

L’ASD differisce dal PTSD per la gravità dei sintomi, che non sono riconducibili a un comune disturbo d’assestamento, e per la loro comparsa: il disturbo include infatti sia l’esperienza traumatica, sia i sintomi manifestati entro 1 mese dal trauma.

Introduzione

Il disturbo acuto da stress, emergente già dalla risposta che l’individuo dà ad un evento traumatico, emerge durante il primo mese successivo all’ esperienza traumatica.
I sintomi comprendono, tra gli altri, dissociazione, evitamento, elevato arousal, difficoltà di concentrazione; può essere inoltre predittivo di disturbi post traumatici da stress.
Nel seguente articolo si tratteranno gli elementi di funzionamento cognitivo-comportamentali peculiari di questo quadro clinico, nonché delle possibili opzioni per un trattamento efficace.

1. Il disturbo acuto da stress

Il disturbo acuto da stress (ASD) è stato introdotto nel DMS IV per dare visibilità alla situazione di forte sofferenza provata durante un’esperienza traumatica, che può successivamente dar vita a Disturbi Post Traumatici da Stress (PTSD).
Nel DSM 5 è definito secondo alcuni criteri peculiari, tra i quali ricordiamo (American Psychiatric Association, 2013):
– L’esposizione a una situazione di forte minaccia, alla vita o all’integrità fisica (questo comprende anche la dimensione sessuale), per se stessi o altri.
– La possibile comparsa di pensieri intrusivi o dissociazioni.
– Impossibilità a provare emozioni positive.
– Sintomi di evitamento, sia a livello cognitivo che comportamentale.
– Irritabilità, difficoltà di concentrazione o ipervigilanza

L’influenza ambientale, la risposta comportamentale, emotiva e cognitiva del soggetto sono componenti evidenti di questo quadro clinico, nelle quali bene si può inserire la CBT.

L’ASD differisce dal PTSD per la gravità dei sintomi, che non sono riconducibili a un comune disturbo d’assestamento, e per la loro comparsa: il disturbo include infatti sia l’esperienza traumatica, sia i sintomi manifestati entro 1 mese dal trauma (Barton & Blanchard, 1996).

2. I sintomi dissociativi nell’ASD

Sono inoltre presenti, durante l’evento traumatico (dissociazione peritraumatica) o successivamente ad esso, sintomi dissociativi quali derealizzazione, depersonalizzazione, amnesia dissociativa (Cardeñña, 2011).
Se è vero che i sintomi dissociativi sono predittivi di PTSD più gravi e problematici, è anche vero che una maggioranza di casi di ASD sotto soglia soddisfano tutti i criteri diagnostici ad eccezione di quelli riguardanti la dissociazione (Harvey & Bryant, 2003).
Questo implica una esigenza di cura, accompagnamento e trattamento che, al di là della diagnosi, rimane aderente all’esperienza traumatica vissuta e metabolizzata dalla persona, che non necessariamente ha la medesima interpretazione o risposta comportamentale di un’altra (La Mela, 2014).
Del resto, la dissociazione è una difesa che l’individuo utilizza come risposta a un’esperienza molto forte e traumatizzante per evitare il dolore, cosa che ad alcuni individui risulta più facile e quindi preferibile (Koopman & al, 1995).
Gli stessi criteri diagnostici sono abbastanza sfumati, dove evitamento e dissociazione sono due facce della stessa medaglia (Cardeñña, 2011); in definitiva lo scopo di tutte queste manifestazioni è l’evitamento del dolore.

3. Conseguenze del trauma

Le risposte che gli individui danno durante l’evento stressante hanno un beneficio immediato perché permettono di sopportare o evitare il carico cognitivo o emotivo della situazione, tuttavia nel momento in cui questi comportamenti dissociativi o di evitamento permangono essi diventano disfunzionali (Koopman & al, 1995).
La sintomatologia del PTSD, infatti, può essere collegata a quella prima risposta, che viene poi reiterata in modo da evitare di ricordare o rivivere il trauma, attivando una serie di meccanismi di mantenimento del disturbo (La Mela, 2014) che non permettono di elaborare quel dolore che mai è stato elaborato e integrato nell’esperienza dell’individuo.
Sarà opportuno quindi, in questo caso, focalizzarsi prima sul mantenimento del sintomo per poi andare più a fondo nel vissuto e rendere accessibile la parte di esperienza dissociata.

Gli stimoli ambientali processati saranno enfatizzati nella loro dimensione correlata al pericolo e alla paura (Bryant & Harvey, 1997) per la formazione di schemi mentali collegati al trauma costruiti attorno a credenze disfunzionali (La Mela, 2014), quindi dopo il lavoro sui meccanismi di mantenimento sarà necessario soffermarsi su questi core per rielaborare i loro contenuti.
Il rivivere i sintomi (come ad esempio fenomeni dissociativi, o pensieri intrusivi) legati all’ASD non comporta necessariamente un alto livello di stress correlato, fattore invece presente nei PTSD (Bryant & Harvey, 1997), tuttavia in presenza di dissociazione il livello di ansia esperito è più alto, quindi oltre al contenuto è importante anche la modalità di funzionamento dell’individuo, che adottando strategie più disfunzionali proverà anche una maggiore sofferenza psicologica.
Allo stesso modo l’ambiente relazionale circostante potrà ridurre l’utilizzo di strategie dissociative o addirittura rinforzarle, soprattutto nell’ ambito familiare (Bryant & Harvey, 2000), attivando o inibendo, ad esempio, lo schema disfunzionale carico di contenuti legati alla paura.

4. Gli antecedenti

Uno studio condotto da Kristine Barton e suoi collaboratori (1996) mette in evidenza come individui con un passato psicopatologico sono più soggetti a risposte dissociative ad eventi traumatici, hanno sviluppato quindi una vulnerabilità (La Mela, 2014) che rende le loro coping skills meno efficaci.
La vulnerabilità quindi sarà sviluppata attorno all’emozione della paura (Bryant, 2003).

Oltre a questo c’è anche una predisposizione ad evitare informazioni potenzialmente dolorose che contraddistingue i soggetti ASD, che reagiscono in questo modo peculiare e che hanno quindi, a livello cognitivo, un deficit nella memoria autobiografica, e più nello specifico una memoria associativa molto sviluppata e una bassa rievocazione (Bryant, 2003), nello specifico per i contenuti inerenti il trauma e i ricordi positivi (Bryant & Harvey, 2000).

5. Il trattamento

La CBT si rivela molto efficace subito dopo il trauma, sia per gestire i sintomi dell’ASD, sia per prevenire i PTSD.
Nello specifico il trattamento può avvenire tramite la psicoeducazione, per aumentare la consapevolezza nell’individuo dei suoi schemi e delle sue risposte disfunzionali (La Mela, 2014) e la gestione dell’ansia e la ristrutturazione cognitiva, per lavorare invece sulle core beliefs (Bryant, 2003).
Pare che proprio il focus sui meccanismi di mantenimento aiuti l’individuo a integrare il trauma ed evitare l’insorgere di PTSD, dato avvalorato dallo studio di Bryant et al. del 1998.

Gli effetti sono visibili non solo nel qui ed ora, ma anche dopo 6 mesi, il che fa intendere un cambiamento che non si ferma solo al sintomo, ma va già almeno a livello di credenze intermedie; oltre ad una più bassa emergenza di PTSD c’è anche una comparsa minore di sintomi di evitamento, un miglioramento quindi funzionale che ben contrasta l’ASD e una sua successiva evoluzione patologica (Bryant et al., 2002).
Anche un successivo studio longitudinale (Bryant et al., 2005) ha indicato come l’emergere di PTSD sia inferiore con un trattamento di CBT; inoltre, unendo la CBT all’ipnoterapia (Bryant et al., 2006), si è notato un effetto benefico, anche se inferiore alla CBT usata singolarmente.
Questo potrebbe essere dato dal fatto che la forte memoria associativa riscontrata nei soggetti affetti da ASD verrebbe rinforzata e stimolata con l’utilizzo di tecniche ipnotiche, mantenendo di fatto a livello strutturale il sintomo e diminuendo i benefici della terapia in un dato periodo di tempo; di contro, gli ASD che rispondono con meccanismi dissociativi sono più facilmente ipnotizzabili e potrebbero rispondere quindi meglio al trattamento (Bryant & Harvey, 2000).

L’esposizione, che negli studi fatti (Ponniah & Steven, 2009) può andare da 1 a 20 volte, può essere fatta a livello cognitivo o in vivo per contrastare i meccanismi di evitamento sia a livello cognitivo che comportamentale.
La ristrutturazione cognitiva, con o senza l’ausilio dell’esposizione (fino a 20 incontri), sembra dare i risultati migliori in termini di permanenza nel tempo; questo può dipendere dal fatto che lavorare sulle credenze e gli schemi disfunzionali provoca un cambiamento a livello più profondo che lavorare sulla singola strategia di evitamento, fornendo anche schemi più flessibili e quindi maggiore coping; interessante, anche se non abbastanza studiata da quantificarne l’efficacia nel tempo, l’utilizzo di entrambe le tecniche all’interno del trattamento (Ponniah & Steven, 2009).
Pensando allo schema generatosi dal trauma, rendendo i contenuti accessibili si avrà un allentamento dell’associazione stereotipata stimolo-risposta e l’inserimento di nuovi contenuti che andranno a disconfermare lo schema e a creare nuove strutture più funzionali (Bryant & Harvey, 2000).
Altri possibili sviluppi potrebbero essere l’aggiunta di sessioni di gruppo al trattamento e l’utilizzo dell’EMDR (Ponniah & Steven, 2009).
Focalizzando le tecniche descritte all’insorgere dell’ASD e non riferendosi anche ai sintomi PTSD, l’esposizione sembra avere invece un ruolo fondamentale nel bloccare l’insorgere di altra sintomatologia; questo rinforza l’idea che un trattamento tempestivo sul sintomo può permettere un lavoro successivo a livello più profondo senza permettere una degenerazione del quadro clinico.

Conclusioni

L’importanza della risposta dell’individuo all’evento traumatico è di vitale importanza per trovare un trattamento appropriato.
Prima di tutto ci fa conoscere meglio il funzionamento interno del soggetto, e quindi fa capire come i suoi schemi disfunzionali si articolino per evitare di integrare l’esperienza dolorosa.
Un focus sulla specificità della persona in tal senso potrà permettere un intervento tempestivo ed efficace che eviterà il presentarsi di PTSD in seguito.
A causa del funzionamento strutturale di questi schemi, centrati sulla paura, l’esposizione e la ristrutturazione sono operazioni fondamentali per fornire strategie di coping e disconferme che saranno utili per un mantenimento dei benefici nel tempo.
In base alla presenza e alla natura dei sintomi dissociativi si può pensare di implementare l’ipnoterapia come coadiuvante.

L’utilizzo della mindfulness per tollerare l’astinenza da nicotina

Gli interventi basati sulla Mindfulness (MBI) possono aiutare i fumatori, sopratutto quelli che non si adattano ai gruppi di auto mutuo aiuto, a smettere di fumare e a gestire l’astinenza.

In uno studio tutto brasiliano 97 fumatori e 84 non fumatori sono stati sottoposti, oltre alla raccolta di dati socio-demografici, a un questionario self-report per valutare la dipendenza da nicotina, il Fagerström Test for Nicotine Dependence; la Mindfulness è stata valutata con il Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ-BR), un questionario di 39-item che misura l’attitudine a non giudicare, l’agire con consapevolezza, la capacità di osservare, di descrivere, e di non reagire all’esperienza interiore. Il Well-Being Scale ha invece misurato la presenza e l’entità di sentimenti negativi e positivi, e la soddisfazione di vita.

I risultati mostrano che tra i fumatori, il 36,1% registrava una bassa dipendenza da nicotina, mentre il 64% mostrava un forte grado di dipendenza; non è stata osservata alcuna differenza di genere. Minfulness e benessere soggettivo (SWB) però non sembrano variare in funzione del grado di dipendenza da nicotina.

Per i non fumatori, punteggi più elevati sono stati registrati su ogni scala del benessere soggettivo, mentre, per quanto riguarda la mindfulness, punteggi significativamente più alti sono stati ottenuti nel punteggio totale, e nella capacità di osservazione, e di non reattività; anche in questo caso non è stata notata alcuna differenza di genere.

Nel confrontare i fumatori con non fumatori, i primi hanno mostrato livelli significativamente più bassi di soddisfazione di vita, emozioni positive, e SWB generale. I punteggi relativi a sentimenti negativi, transitory displeasing engagement (traducibile con litigiosità erratica) e emozioni dolorose, erano più elevati nei fumatori e i punteggi differivano significativamente tra fumatori e non fumatori.

Inoltre, bassi livelli di sentimenti positivi e elevati livelli di sentimenti negativi sono stati trovati in fumatrici di sesso femminile rispetto ai fumatori di sesso maschile e al gruppo non-fumatori. Secondo i ricercatori questi risultati suggeriscono che c’è spazio per interventi mirati in base al genere maschile o femminile e che gli interventi basati sulla Mindfulness (MBI) possono aiutare i fumatori, sopratutto quelli che non si adattano ai gruppi di auto mutuo aiuto, a smettere di fumare e a gestire l’astinenza, aumentando anche il livello di benessere soggettivo.

La virtual week: un nuovo strumento per valutare la memoria prospettica in pazienti con trauma cranico encefalico – Dal forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

La virtual week: un nuovo strumento di valutazione della memoria prospettica in pazienti con trauma cranico

Martina Torresi, Tatiana Bortolatto, Mariagrazia Esposito

L’obiettivo della ricerca è stato quello di valutare la memoria prospettica (MP) in pazienti che avevano subito un trauma cranico encefalico (TCE) utilizzando un nuovo strumento: la Virtual Week.

Per MP intendiamo la capacità di ricordare intenzioni da svolgere nel futuro e distinguiamo tra intenzioni basate sul tempo (time-based) e intenzioni basate sull’evento (event-based). Le prime si riferiscono ad azioni determinate dal passaggio del tempo (ricordare di eseguire un’azione ad un certo momento, o dopo un certo periodo di tempo) e vengono recuperate grazie a strategie interne auto-attivate e controllo volontario. Le seconde vengono recuperate grazie alla comparsa di un cue esterno (ricordare di fornire un messaggio ad un collega quando lo vediamo) e richiedono un minor coinvolgimento delle funzioni di controllo volontario.

Sulla base della letteratura abbiamo ipotizzato che: 1) le prestazioni fossero peggiori nei compiti time-based rispetto a quelli event-based, 2) emergesse una maggiore capacità di apprendimento dei compiti regolari rispetto a quelli irregolari.

E’ stata indagata inoltre l’esistenza di una possibile correlazione significativa tra la MP e le funzioni esecutive (FE). Un gruppo di 18 soggetti con TCE è stato confrontato con un gruppo di 18 soggetti sani, i quali sono stati valutati con la Virtual Week e con strumenti volti a valutare le FE tra cui:

– Wisconsin Card Sorting Test,

– Trail making test A-B,

– Test di fluenza semantica

– Test di fluenza fonemica.

E’ stata utilizzata la versione computerizzata della Virtual Week, la quale rappresenta una settimana virtuale. Ai partecipanti è stato richiesto di ricordare e svolgere 8 compiti di MP per ogni giorno virtuale (tre in tutto), di cui 4 regolari e 4 irregolari, rispettivamente 2 event-based e 2 time-based. È stata condotta un ANOVA per gruppo, tipo di compito e condizione.

I risultati evidenziano un effetto principale del gruppo, tipo di compito e condizione: i pazienti con TCE hanno ottenuto una prestazione meno accurata rispetto ai controlli nei compiti di MP, e vengono confermate le nostre ipotesi secondo cui le prestazioni risultano più accurate nei compiti regolari rispetto ai compiti irregolari, e nei compiti event-based rispetto ai time-based. Si evidenzia inoltre un’interazione significativa tipo di compito x condizione: ovvero i compiti regolari event-based vengono eseguiti con maggiore accuratezza rispetto a quelli regolari time-based, i compiti irregolari event-based vengono eseguiti con maggiore accuratezza rispetto a quelli irregolari time-based, e quando i compiti sono time-based la performance risulta più accurata quando il compito è regolare. Emergono inoltre correlazioni positive significative tra i compiti di MP e le prove volte a valutare le capacità di ricerca visiva, monitoraggio e switching attentivo.

Concludendo, la ricerca ha confermato la presenza di possibili difficoltà relative all’abilità di MP in pazienti con TCE, evidenziando la relazione tra abilità di MP e abilità di funzionamento esecutivo. Il nostro studio inoltre ha avvalorato la validità della Virtual Week, nel valutare la MP.
In futuro potrebbe essere interessante utilizzare la Virtual Week anche come strumento di riabilitazione della MP, apportando modifiche nella procedura.

 

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