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Corsi di formazione e Master finanziabili con il Bonus Docenti

In considerazione del loro ruolo in ambito scolastico, oltre a conoscenze di psicologia e pedagogia i docenti e formatori dovrebbero integrare nel loro bagaglio di competenze professionali anche nozioni e metodi per gestire la multiculturalità delle classi e l’eventuale presenza di soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento (come la dislessia e la discalculia).

La Buona Scuola”, la riforma scolastica diventata legge recentemente, prevede la possibilità per gli insegnanti assunti a tempo indeterminato di usufruire annualmente di un Bonus Docenti di € 500,00 da destinare ad attività di formazione e qualificazione professionale.

Si tratta di un’ottima occasione per colmare eventuali lacune o approfondire discipline utili per fronteggiare le problematiche che ogni giorno gli insegnanti si trovano a dover risolvere nella gestione delle classi e degli studenti.
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Quali corsi sono finanziabili con il Bonus Docenti?
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Corso online di 1500 ore per formare personale qualificato nella mediazione culturale tra cittadini immigrati e le realtà sociali e civili locali, tra le quali rientra anche la scuola.
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– Master sui Disturbi Specifici di Apprendimento
Master di primo livello è un percorso formativo molto utile in ambito scolastico. Fruibile online, il Master, della durata di 1500 ore, è finalizzato a fornire le competenze necessarie per identificare soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento (come la dislessia, la disgrafia, la discalculia e la disortografia) e di porre in essere le attività necessarie per trattare la problematica in modo mirato.
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– Master per Mediatore Familiare
In caso di separazione e divorzio, sono i figli a subire le conseguenze maggiori, a volte compromettendo anche l’andamento del percorso scolastico. Il Master per Mediatore Familiare è un master di primo livello della durata di 1500 ore, fruibile online, che si propone di formare figure professionali che assistano la coppia in crisi, in particolar modo nella gestione del rapporto con i minori.
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– Master primo livello Pedagogia e Scuola, la professione Docente per la Scuola che Cambia
Master di 1500 ore, fruibile online, rivolto a tutto il personale docente per la formazione in pedagogia, disciplina fondamentale per insegnanti e direttori scolastici di ogni ciclo di istruzione. Tutte le informazioni su questo link

Per qualsiasi informazione aggiuntiva scrivere a [email protected] o visitare il sito web.

Il peso dei passati legami di attaccamento nella scelta del partner e nell’organizzazione della propria vita affettiva

Daiana Aufiero, Ilenia Magnani, Laura Marchesini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

E’ proprio vero che l’amore romantico, quello che si legge nei romanzi e si vede nei film, che dura tutta la vita, non esiste nella realtà? Ed è altresì vero che i legami di coppia sono pieni di passione nelle fasi iniziali, per poi affievolirsi col passare del tempo? Come avviene la scelta del proprio partner?

Per rispondere a queste domande facciamo riferimento alla teoria dell’attaccamento, formulata negli anni Sessanta da uno psichiatra inglese di nome Bowlby, per dimostrare che le relazioni sentimentali si sviluppano seguendo un percorso che contribuisce a un buon adattamento dell’individuo al suo ambiente sociale e fisico (Attili, 2004). E’ grazie alla teoria dell’attaccamento che possiamo spiegare come un uomo, arrivato all’età adulta, organizzi la propria vita affettiva in funzione dei passati legami di attaccamento, mettendo in luce il ruolo che le relazioni della prima infanzia possono avere nel predire il futuro successo di una relazione di coppia. L’interesse di Bowlby era nato con l’osservazione di Lorenz e delle sue paperelle: costui aveva notato che appena nate, quelle papere seguivano la prima cosa che passava loro davanti agli occhi e che ciò continuava per il resto della loro vita. A quel punto Bowlby si è interessato agli studi condotti dagli etologi e ha potuto constatare che, in diverse specie, una varietà di comportamenti sembrava avere lo stesso obiettivo: la vicinanza fisica.

Se alcuni romantici spiegano l’incontro tra due persone come il frutto del caso, Bowlby pensa che il formarsi di una coppia poggi sulle capacità del coniuge di confermare le rappresentazioni che sono state costruite su di sé e sugli altri fin dalla prima infanzia. Bowlby ha usato il termine omeostasi rappresentativa per spiegare che ci si lega a qualcuno che non faccia vacillare il sistema di rappresentazioni così saldo in noi.

Ciò che si vorrà arrivare a dimostrare è che è proprio l’attaccamento il filo che tiene unita una coppia, secondo il processo dell’attaccamento, che porta i partner a provare certe emozioni durante la loro relazione. Secondo questa teoria arriveremo a vedere come l’amore all’interno di una coppia possa essere riconducibile all’amore che lega un bambino alla madre, e come il rapporto madre-bambino può spiegare il complesso legame d’amore tra adulti.

La comprensione dell’attaccamento in età adulta richiede una comprensione della teoria dell’attaccamento in sé (Crittenden, 1999). La teoria dell’attaccamento, sviluppata da Bowlby (1962-82, 1973, 1980), è una teoria riguardante la funzione e lo sviluppo del comportamento protettivo umano. La teoria è nata come integrazione di teorie etologiche, evoluzionistiche, psicoanalitiche e cognitive.

La teoria dell’attaccamento presuppone che gli esseri umani hanno una predisposizione innata a formare legami di attaccamento con persone significative, che questi legami hanno la funzione di proteggere la persona attaccata, e che queste relazioni esistono dalla fine del primo anno di vita fino alla morte. L’attaccamento in sé è definito come un bisogno innato di ricercare per tutta la vita la vicinanza protettiva di figure di riferimento in momenti di difficoltà. Bowlby per primo contesta la teoria di Freud secondo la quale il legame madre-bambino si basa solo sulla necessità di nutrimento del piccolo: infatti non pensa che il legame che unisce il bambino alla madre sia solo per soddisfare il suo bisogno di nutrizione, ma che sia un bisogno primario.

Bowlby parla di Modelli Operativi Interni (MOI) cioè di schemi mentali che ciascuno di noi costruisce nel corso della propria vita, interagendo con l’ambiente, cioè rappresentazioni interne di se stessi, delle proprie figure di attaccamento e del mondo. Essi hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi da parte dell’individuo, consentendogli di fare previsioni e crearsi aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale; questo concetto spiega come le esperienze di vita guidino i nostri comportamenti futuri. I MOI del bambino possono continuamente essere ridefiniti sulla base dei cambiamenti della realtà esterna e della relazione con la figura di attaccamento che muta con il mutare del bambino.

Non tutte le relazioni umane, anche quando sono significative, sono relazioni di attaccamento. Perché si parli di attaccamento devono essere presenti tre condizioni di base (Weiss, 1982). Prima di tutto è necessaria una ricerca della vicinanza tra la persona attaccata e la persona che offre attaccamento; questa ricerca è molto evidente nel bambino piccolo in relazione con la madre. L’altro elemento fondamentale è la reazione di protesta per la separazione, cioè quell’insieme di comportamenti di attaccamento che si manifestano nel momento in cui ci si sente in pericolo perché la relazione non è più garantita. La terza e ultima condizione è la base sicura, cioè la particolare atmosfera di sicurezza che si instaura tra figura attaccata e figura di attaccamento. Bowlby (1988) ha spiegato come un bambino o un adolescente per esplorare l’ambiente extra-familiare abbia bisogno di sentirsi sicuro di poter ritornare sapendo che la base sicura sarà li ad aspettarlo.

Verso la fine degli anni Sessanta, l’attaccamento incominciò ad essere oggetto di studi sistematici. Il contributo primario di Mary Ainsworth alla teoria dell’attaccamento riguarda aver trovato delle differenze individuali nella qualità di attaccamento (Ainsworth et al., 1978). Questo è stato possibile grazie a una semplice procedura di laboratorio, chiamata Strange Situation, volta a misurare l’attaccamento in bambini di 1-2 anni. Furono identificati quattro tipi di attaccamento:

  • Attaccamento sicuro (B) in cui il bambino ha una madre presente, in grado di rispondere ai bisogni di conforto e protezione del figlio; in questo modo il bambino con attaccamento sicuro sa di poter accedere alla protezione della madre quando vuole e quindi è desideroso di esplorare il mondo e allo stesso tempo di ritornare alla sua base sicura nel momento in cui gli si presenta un “pericolo” (per esempio l’avvicinarsi di un estraneo).
  • Attaccamento insicuro-evitante (A) in cui il bambino ha una madre in genere non in grado di rispondere ai suoi bisogni, di conseguenza questi bambini si sentono rifiutati dalla figura di riferimento e temono costantemente il rifiuto dell’altra persona, pur ricercando l’approvazione degli altri per colmare il proprio vuoto. Sono bambini che imparano a inibire le loro emozioni e che non si sentono amabili e desiderabili; come conseguenza il bambino evitante tenderà a distaccarsi dalla madre e successivamente a iper-esplorare l’ambiente circostante.
  • Attaccamento insicuro-ambivalente (C) in cui il bambino ha una madre che risponde alle sue richieste ma in modo non costante, sono madri imprevedibili. In questo modo il bambino si sente a volte amabile altre volte rifiutato e quindi mette in atto una strategia di controllo serrato sulla madre: infatti questi sono bambini che ipo-esplorano l’ambiente perché hanno paura a separarsi dalla loro figura di attaccamento.
  • Attaccamento insicuro-disorganizzato (D) in cui il bambino viene messo in pericolo dalla madre, questo determina un crollo del sistema di attaccamento e di conseguenza i bambini manifestano comportamenti paradossali e disorganizzati.

Hazan e Shaver (1987; 1992) sostengono l’idea che l’innamoramento è un processo d’attaccamento che viene vissuto dagli individui in maniera diversa, a causa delle loro differenti storie di attaccamento. Hazan e Shaver (1987) hanno dimostrato la forte somiglianza tra attaccamento infantile ed attaccamento adulto, portando prove empiriche e dimostrazioni teoriche a sostegno della teoria dell’importanza dello stile di attaccamento nelle relazioni amorose. La ricerca ha analizzato la relazione esistente tra stile di attaccamento e diversi aspetti delle relazioni stabilite nell’infanzia e nell’età adulta. Tale studio è stato condotto negli Stati Uniti su un campione di 620 soggetti, aventi un’età media di 36 anni. Si è chiesto inizialmente ai partecipanti di scegliere tra tre descrizioni standard di sentimenti di sicurezza o insicurezza affettiva, quella che meglio li descriveva ed in base alla loro scelta sono state individuate le persone sicure, quelle insicure-ansiose evitanti e quelle insicure ansiose ambivalenti. Nella fase successiva si è invece chiesto ai soggetti di individuare le caratteristiche salienti delle loro relazioni d’amore all’interno di una scala di aggettivi.

Gli individui categorizzati come Sicuri descrivevano i loro amori come basato sulla fiducia e loro stessi come felici, in grado di accettare aiuto e di offrirne al loro partner malgrado questo avesse commesso errori. Emerge, inoltre, un altro dato degno di nota, le loro relazioni avevano avuto una durata maggiore (10 anni in media) di quelle dei soggetti classificati come Ansiosi Ambivalenti (4 anni e 8 mesi in media), nonché di quelle dei soggetti classificati come Ansiosi Evitanti (5 anni e 9 mesi in media). Gli individui che rientravano, invece, nella categoria Ansiosi Evitanti  descrivevano le loro relazioni come basate sulla paura dell’intimità, sulla gelosia e su alti e bassi emotivi. Gli amanti Ansiosi Ambivalenti avevano una paura di amare altrettanto profonda, alla base di questa paura emergeva una mancanza di fiducia che si manifestava con sentimenti ossessivi nei confronti del partner, forte desiderio di unione e di reciprocità al di fuori della realtà, sentimenti ambivalenti, gelosia e attrazione sessuale.

Evidenziate le differenze possiamo però anche concludere dicendo che dai risultati di questa ricerca emerge che l’amore romantico ha alcuni tratti comuni a tutti gli individui e che le differenze tra gli individui non sono relative solo all’intensità quanto alla diversità di ciò che si prova.

Emerge inoltre che le persone che avevano indicato stili di attaccamento differenti presentavano differenze anche per quanto riguardava la loro storia di attaccamento, le descrizioni dei modelli mentali e le esperienze sentimentali. Infatti, gli individui Sicuri si mostravano consapevoli che i sentimenti romantici nel tempo possono subire delle fluttuazioni ma non escludevano che l’amore potesse poi raggiungere nuovamente l’intensità iniziale, mostravano così di credere nell’amore duraturo. Esprimevano sentimenti di fiducia e si ritenevano persone amabili. Gli Ansiosi Evitanti invece ritenevano che l’amore romantico è impossibile da trovare e che nessuno si innamori realmente, pensavano inoltre che non ci fosse bisogno dell’amore per essere felici. Gli Ansiosi Ambivalenti si innamoravano facilmente al punto da perdere la testa, ma analogamente agli Ansiosi Evitanti, ritenevano quasi impossibile trovare l’amore.

Questa ricerca si è conclusa dimostrando che la distribuzione dei tre stili di attaccamento è risultata sovrapponibile a quella riscontrata negli studi sui bambini, emerge che è la qualità della relazione con l’uno e/o l’altro dei genitori, nonché quella della relazione tra i due genitori stessi, ad essere associata alla loro sicurezza o alla loro ansia affettiva.
Gli individui Sicuri riportavano di aver avuto genitori caldi ed affettuosi, rispettosi, non intrusivi e non opprimenti, sia con i figli che tra di loro. I soggetti Evitanti riportavano comportamenti freddi e rifiutanti da parte della madre ed una relazione quasi inesistente tra i genitori. Gli amanti Ambivalenti, riferivano una madre gradevole ma imprevedibile e di un padre ingiusto, ed una relazione tra i genitori calda ed affettuosa ma non tanto quanto quella dei soggetti classificati come Sicuri.

La ricerca di Hazan e Shaver (1987) sembra evidenziare come le nostre esperienze amorose da adulti dipendano veramente da come si è sviluppato il nostro legame di attaccamento nella prima infanzia e come con la nostra diversità nel modo di amare vada ricondotta alla qualità delle relazioni sperimentate nell’infanzia con i nostri genitori.

Il tratto fondamentale, dunque, che accomuna le relazioni di attaccamento tra partner adulti e quelle tra genitori e figli è che in condizioni di stress gli individui cercano la vicinanza della figura di attaccamento per ricevere conforto e rassicurazione (Ainsworth, 1985; Weiss,1986). Ci sono, però, aspetti secondo i quali la relazione madre-bambino e il rapporto di coppia si differenziano per alcune ragioni.

In primo luogo, nelle relazioni d’amore, entrambe i partner possono in alcune occasioni divenire ansiosi e cercare di essere rassicurati, oppure prendersi cura dell’altro e cercare di farlo sentire al sicuro. Fisher e Crandell (2001) parlano di attaccamento complesso per indicare la natura duale dell’attaccamento di coppia ed anche la bidirezionalità della dipendenza reciproca che caratterizza le relazioni sentimentali tra adulti. Questi autori sottolineano quindi come ciascun partner agendo come figura d’attaccamento, dovrebbe tollerare l’ansia di essere dipendente dall’altro e anche di essere l’oggetto della dipendenza dell’altro. Fisher e Crandell (2001) hanno descritto i vari possibili matching delle diverse tipologie emerse nell’AAI di ciascun partner:

  • Attaccamento di coppia sicuro: quando entrambe i partner si spostano liberamente da una posizione dipendente a quella di essere oggetto di dipendenza dell’altro, esprimendo apertamente il bisogno di conforto e contatto, come pure quello di accoglienza del contatto, segnalando un equilibrio dei due aspetti nell’individuo e nel sistema (Vellotti e Zavattini, 2013).
  • Attaccamento di coppia insicuro che si divide in
    • Attaccamento di coppia distanziante/distanziante in cui entrambe i partner negano i sentimenti di dipendenza e vulnerabilità;
    • Attaccamento di coppia preoccupato/preoccupato in cui i partner esprimono sentimenti costanti di deprivazione ed una convinzione reciproca che l’altro non potrà mai soddisfare il bisogno di conforto;
    • Attaccamento di coppia distanziante/preoccupato in cui il partner preoccupato si sente cronicamente deprivato ed abbandonato, mentre il partner distanziante appare infastidito dai bisogni di dipendenza dell’altro, conducendoli ad una dinamica del tipo inseguitore-distanziante spesso fioriera di relazioni di tipo altamente conflittuale. Questo è il matching che più frequentemente ricorre alla psicoterapia di coppia, il partner distanziante evita di essere dipendete e minimizza l’importanza del legame e il parner preoccupato sentendosi cronicamente deprivato ed emotivamente abbandonato esaspera l’importanza della prossimità psichica e la richiesta di rassicurazione sul piano degli affetti. (Vellotti e Zavattini, 2013).
  • Attaccamento di coppia sicuro/insicuro: la presenza di un partner sicuro, grazie alla capacità di assumere sia le posizioni di dipendenza, sia di essere l’oggetto di dipendenza da parte dell’altro, potrebbe offrire un’esperienza emozionalmente correttiva al partner insicuro che, in questo modo, potrebbe riuscire comportarsi in modo più flessibile e bilanciato (Vellotti e Zavattini, 2013).

Analizzando quanto emerso dagli studi di Hazan e Shaver e da quelli di Fisher e Crandell si può ipotizzare che le relazioni adulte siano influenzate dall’incontro delle strategie di regolazione delle emozioni desunte dalla storia personale dei due partner e che particolare importanza debba essere data al modo in cui i modelli rappresentazionali dei partner si incastrano tra loro (Vellotti e Zavattini, 2008). Il modello d’attaccamento sarebbe quindi una variabile mediatore che incide sulla qualità della relazione di coppia, un filtro tra la percezione non solo di sé e dell’altro, ma anche della relazione in quanto tale.

Un secondo punto di distinzione è l’attrazione: l’amore di coppia è sempre accompagnato dall’attrazione sessuale (Tennov, 1979). Sia Bolwby (1979) che la Ainsworth (Ainsworth et al. 1978), hanno ipotizzato l’esistenza di sistemi comportamentali distinti che comprendono il sistema di attaccamento ed il sistema che regola la prestazione di cure e quello che regola l’accoppiamento e la riproduzione. L’amore adulto comporterebbe l’integrazione di questi tre sistemi attraverso modalità legate alla storia di attaccamento degli individui (Shaver, Hazan, Bradshaw, 1988).

Altra questione di rilevanza è la continuità tra lo stile di attaccamento stabilito nell’infanzia e quello presente in età adulta. Ci sono ricerche che hanno ipotizzato che la continuità tra l’infanzia e l’età adulta, diminuisse con l’avanzare degli anni (Skolnick, 1986). Main, Kaplan e Cassidy (1985) hanno rilevato che, nonostante l’esistenza di un’intensa associazione tra la storia di attaccamento degli individui adulti e lo stile di attaccamento dei loro figli, alcuni genitori si erano liberati da un aspetto transgenerazionale. Infatti, alcuni che genitori avevano avuto un attaccamento insicuro con i propri genitori, erano riusciti a gestire bene al relazione con i figli tanto che, i loro bambini, potevano essere considerati come sicuri. Main, Kaplan e Cassidy hanno affermato che questi genitori erano riusciti a rielaborare le esperienze avute con le proprie figure di genitoriali, arrivando a costruire modelli mentali di relazione più vicini a quelli di soggetti sicuri (Carli, 1985).

Ci sono dati (Engeland e Faber, 1984) che suggeriscono, inoltre, che i modelli di attaccamento non sono necessariamente fissati durante l’infanzia ma rispondono a cambiamenti dell’ambiente, tipicamente interpersonali o di caregiving. Studi effettuati utilizzando la Strange Situation mostrano diverse classificazioni di attaccamento con cargiver differenti (esempio madre e padre); i bambini mostravano modelli di attaccamento differenti con persone diverse (Briges, Connell, Belsky, 1988; Lamb, 1977; Main, Weston, 1981). Quindi la letteratura che si occupa di attaccamento infantile sostiene l’idea che durante l’infanzia alcune persone cambiano modello di attaccamento o mantengono modelli di attaccamento diversi nel tempo e con persone diverse, e che questo è in gran parte dovuto a esperienze nel loro ambiente interpersonale. Questo fa pensare che le cose possano andare nello stesso modo in età adulta.

Gli studi che hanno esaminato la corrispondenza tra la classificazione dell’attaccamento nell’infanzia e nell’età adulta, mostrano che il cambiamento è possibile. Ci sono studi che hanno messo in luce una corrispondenza minima tra le classificazioni di attaccamento infantile e adulto, suggerendo che il cambiamento è l’evento prevalente (Lewis, Fiering, Rosenthal, 2000; Weinfeld, Sroufe, Egeland, 2000). Altri studi, invece, hanno mostrato una corrispondenza significativa, benché non perfetta, tra l’infanzia e l’età adulta, suggerendo che alcune persone cambiano ma che molte non cambiano (Hamilton, 2000; Waters, Merrick, Treboux, Crowell, Albersheim, 2000).

Importante prendere in esame gli studi che si sono occupati di esaminare i predittori del cambiamento, quali eventi di vita significativi (perdita di un genitore, divorzio dei genitori, psicopatologia dei genitori, maltrattamento del bambino) e hanno trovato che il cambiamento in direzione dell’insicurezza è associato a queste esperienze negative di vita (Waters el al., 2000; Weinfield et al., 2000).

Altre ricerche si sono occupate di analizzare la sicurezza nelle relazioni sentimentali adulte, utilizzando come classificazioni: evitamento dell’intimità e ansia di essere abbandonato. Nel tentativo di valutare la stabilità di queste classificazioni e dimensioni è stato chiaro che benché ci sia una moderata evidenza di stabilità, molte persone (circa il 30%) riferiscono diversi stili di attaccamento e molte persone mostrano fluttuazioni nel livello di sicurezza nel corso del tempo (Baldwin, Fehr, 1995; Baldwin, Keelan, Fehr, Enns, Koh-Rangarajoo, 1996; Davila, Burge, Hammen, 1997; Davila, Karney, Bradbury, 1999). Non è chiaro se questo costituisca o meno una prova a conferma di una pervasiva e duratura riorganizzazione di modelli e comportamenti di attaccamento, possiamo però sostenere che in alcune persone e in determinate circostanze si verificano dei cambiamenti nei loro modelli di attaccamento adulto.

Attualmente esistono tre modelli predittori di cambiamento nella sicurezza dell’attaccamento adulto. Il primo modello life stress sostiene che il cambiamento nel livello o pattern di sicurezza di attaccamento si verifica in risposta a significativi eventi di vita o di cambiamenti significativi nelle circostanze di vita; il primo a proporre tale modello è stato Bowlby (1969/1982), il quale sosteneva che il cambiamento relativamente duraturo nei modelli di attaccamento potesse verificarsi come tentativo di adattarsi a nuove circostanze di vita in via di sviluppo ed emotivamente significative (Collins, Read, 1994). Il modello cognitivo-sociale sviluppato originariamente da Baldwin e collaboratori (Baldwin, Fehr, 1995; Baldwin et al., 1996) cerca di spiegare perché le persone riferiscono diversi modelli di attaccamento in tempi diversi. Secondo tale modello, il cambiamento nel pattern di sicurezza di attaccamento è un risultato di stati della mente che cambiano, ovvero i soggetti riferiscono diversi livelli o pattern di attaccamento a seconda di ciò che è attivato nella loro mente in un dato momento. Quindi benché le persone possono avere un tipo di attaccamento stabile nel tempo e sempre accessibile, le persone hanno anche diversi modelli di attaccamento o schemi relazionali che possono essere attivati da circostanze specifiche (Baldwin et al., 1996; Davila et al., 1999). Il cambiamento nell’attaccamento, dunque, è dovuto alla possibilità di accedere a diversi modelli in diversi momenti a seconda delle circostanze attuali della persona. Il terzo ed ultimo modello, quello delle differenze individuali, è stato anche proposto come spiegazione del perché alcune persone riferiscano diversi livelli o pattern di sicurezza. Questo modello afferma che i soggetti che presentano determinati fattori di vulnerabilità (per esempio, divorzio o psicopatologia dei genitori, disturbi di personalità o soffrono di una qualche psicopatologia) saranno più inclini a cambiare livelli e modelli di attaccamento, in quanto hanno sviluppato modelli di sé e degli altri poco chiari, che rendono dunque instabili anche i loro modelli di attaccamento (Davila et al., 1997).

Lo stile di attaccamento può influenzare anche il comportamento sessuale. Come?

Inizialmente il pensiero psicoanalitico ed ora le ricerche sperimentali (Shane, Shane & Gales, 1999; Liotti, 1999; Fraley & Shaver, 2000; Crittenden, 200; Davis, Shaver & Vernon, 2004; Eagle, 2005; Davis et al., 2006) sostengono che il comportamento sessuale possa essere messo in atto allo scopo di regolare stati emotivi e soddisfare bisogni non primariamente sessuali che la persona non riesce a gestire diversamente. Il desiderio sessuale garantisce nuovi modi di cercare conforto e ridurre l’attivazione emotiva. Nel caso in cui non fossimo in grado di integrare le diverse spinte motivazionali che fanno parte di una relazione intima adulta (attaccamento, accudimento e sessualità) possiamo arrivare a frammentarle cercando soddisfazione in relazioni differenti o in modalità disfunzionali (Crittenden, 2002). Inoltre, come possono essere confusi comportamento sessuale e ricerca di conforto (sessualità e attaccamento), può avvenire lo stesso con sesso e aggressività (sessualità e competizione), in modo particolare negli uomini. L’aggressività può così essere espressa sessualmente confondendola per amore da entrambi i partner.

In teoria non ci si lega ad una persona percepita come imprevedibile o ancora sconosciuta. Dall’altra parte, sembra che l’eccitazione sessuale venga ridotta dalla famigliarità e dalla prevedibilità ed invece intensificata dalla novità, dalla non famigliarità e dalla diversità (Eagle, 2005). Ci si trova così a dover integrare le motivazioni che ci legano al nostro partner con quelle che ci spingono a conoscerne altri; la forma più tipica di attaccamento adulto implica quindi l’integrazione tra diversi sistemi comportamentali: attaccamento, accudimento e sessualità (Shaver & Hazan, 1992).

I motivi che stimolano la ricerca del contatto in età adulta, per lo meno agli inizi della relazione, è l’attrazione sessuale (Weiss, 1982; Shaver, Hazan & Bradshaw, 1988; Tombolini & Liotti, 2000). Studi sull’attaccamento hanno, inoltre, suggerito che i modelli operativi interni assimilino le esperienze amorose ed i nuovi partner alle aspettative già esistenti riguardo al Sé e all’altro. Nei momenti in cui si verificano cambiamenti drastici, quali la formazione o la rottura di una relazione di attaccamento adulta, i modelli operativi interni devono modificarsi per incorporare nuove informazioni su di sé e sull’altro (Feeney & Noller, 1995). Solamente i modelli che risultano sufficientemente accurati, cioè aggiornati, genereranno un comportamento adattivo nelle relazioni. Se invece non si riescono ad aggiornare i propri modelli operativi interni, i loro comportamenti verranno guidati da assunzioni inesatte.

Nel caso in cui nel rapporto tra due adulti venga confermato il modello operativo interno di un precoce attaccamento insicuro si verificherà il previsto ostacolo all’esperienza sessuale pienamente condivisa e felice (Liotti, 1999). In questo modo si instaurano forme di attaccamento insicuro tra i partner che costituiscono il fondamento di esperienze sessuali insoddisfacenti o incomplete perché il sesso può essere utilizzato come sostituto di altri bisogni relazionali, non sessuali, o perché ogni piacere sessuale può essere inibito da emozioni dolorose commesse al sistema dell’attaccamento (paura, collera, sofferenza) che il soggetto non riesce a gestire. L’attaccamento sicuro tra i partner che vivono esperienze sessuali è invece una precondizione necessaria perché l’esperienza sessuale possa essere vissuta in maniera libera, piena e non conflittuale.

Secondo Shane, Shane e Gales (1999) il reclutamento della sessualità al servizio dei bisogni di attaccamento rappresenta un’ampia categoria che copre molte manifestazioni sintomatiche diverse, esempio la dedizione patologica al sesso, le ossessioni sessuali ed altro, in questo modo il soggetto utilizza l’esperienza sessuale come via attraverso la quale raggiungere una sensazione di benessere, di auto-protezione e di sollievo dal senso di essere da solo. L’esperienza sessuale diviene così un modo per soddisfare i bisogni di attaccamento.

Il comportamento sessuale può essere vissuto diversamente, in rapporto alle due dimensioni di attaccamento identificate da Bartholomew & Horowitz (1991): evitamento e ansia. Le persone con attaccamento evitante mettono in atto strategie in grado di disattivare i bisogni di attaccamento e la ricerca di vicinanza ed intimità. Il comportamento sessuale può quindi essere vissuto in modo scollegato dai bisogni di attaccamento, oppure li soddisfa ma in modo individuale, anche quando viene sperimentato con un’altra persona, con la quale però non vi è un reale coinvolgimento intimo, il sesso viene utilizzato come un meccanismo di autocura.

Secondo gli studi di Shaver e Hazan (1992) e Allen & Baucon (2004) i soggetti con attaccamento evitante sono soggette a vivere la sessualità in modo più promiscuo e mantenendo una distanza emotiva. Inoltre l’evitamento è risultato essere correlato positivamente con l’utilizzo del sesso al fine di manipolare l’altro o esercitare un controllo su di lui (Davis, Shaver & Veron, 2004). Gli evitanti risultano inoltre essere più preoccupati, rispetto agli ansiosi, elle conseguenze negative dei comportamento sessuali non protetti (Davis et al.,2006). Le persone con attaccamento ansioso vivono spesso l’amore come un’esperienza che implica ossessione, desiderio di reciprocità e di unione, alti e bassi emotivi, una fortissima attrazione sessuale e sentimenti di gelosia (Hazan & Shaver, 1995). Il sesso per loro verrebbe utilizzato per ricevere rassicurazione dell’amore e della disponibilità del partner, per cercare di controllare lo stato emotivo dell’altro e di ravvicinarlo a sé, sostituendo gli stati emotivi negativi con sentimenti di accettazione e desiderio di vicinanza, è un modo per esercitare potere nei confronti del partner. Gli ansiosi tendono ad interpretare l’attività sessuale come un termometro dello stato della relazione, il sesso diviene quindi il modo per mostrare la propria vicinanza ed il proprio affetto nei momenti di difficoltà (Davis, Shaver & Vermon, 2004). Contrariamente alle persone con uno stile di attaccamento caratterizzato dall’evitamento, quelle ansiose tendono a metter in atto comportamenti rischiosi per la propria salute quando questi vengono percepiti come negativi per l’intimità (Davis et al.,2006).

Le persone che invece hanno uno stile di attaccamento caratterizzato da un forte ansia ed un forte evitamento vengono solitamente da situazioni di abuso e trascuratezza, l’esperienza sessuale per loro solitamente non è piacevole e a volte, non implica nemmeno i genitali.

Le ricerche sopra citate sostengono l’ipotesi che il comportamento sessuale possa essere utilizzato al fine di compensare e soddisfare i bisogni di attaccamento che non siano stati adeguatamente riconosciuti e soddisfatti nel passato, e che la persona non è in grado di esprimere e gratificare nel presente. Le motivazioni e le finalità con le quali il sesso viene vissuto sono poi diverse a seconda dello stile di attaccamento e variano anche in funzione dell’identità di genere. Le persone tenderebbero a ricercare relazioni con partner che confermano le loro convinzioni riguardo all’attaccamento.

Quando e come cominciamo ad instaurare un attaccamento adulto?

Secondo Perlam, 1988, la fase finale della trasformazione del sistema di attaccamento dell’infanzia, è proprio quella in cui si compie la scelta di una figura di attaccamento adulto. Sono stati dedicati molti lavori, e sono state formulate molte teorie sulle determinanti della scelta del compagno: Dove gli occhi van volentieri, anche il cuore va, né il piede tarda a seguirli – sostiene Carlo Dossi, per sottolineare quanto vale l’aspetto esteriore nella scelta del partner.

E’ considerato il fattore più importante nel decidere di accettare o meno un primo appuntamento con una persona, come dimostrato dallo studio condotto da Walster e collaboratori (1996) all’Università del Minnesota. Ma questo aspetto non è il solo ad influenzarci, perché entrerebbero in gioco altri fattori: culturali, socioeconomici, legati all’età, alla somiglianza e allo stile di attaccamento. L’influenza di quest’ultimo diventa, inoltre, molto più preponderante nel prosieguo del rapporto determinandone la durata, l’andamento e il grado di soddisfazione provato dai partner (Kirkpatrik, Davis, 1994).

Essere fisicamente attraenti è importante soprattutto negli stati iniziali di un rapporto per varie ragioni: si può pensare che individui d’aspetto piacente e gradevole abbiano anche altre doti (ciò che è bello è buono), o che si possa acquisire prestigio facendosi vedere con un bell’uomo o una bella donna. Da alcune indagini è emerso che attributi come la socievolezza, l’intelligenza e la salute mentale vengono associati alla bellezza, indifferentemente per gli uomini e le donne, mentre calore sessuale è accomunato esclusivamente alle sembianze femminili (Feingold, 1990). Alla lunga, per gli uomini la bellezza rimarrebbe uno degli elementi di maggiore interesse, mentre per le donne lo diventerebbero requisiti diversi, quali il potenziale economico e lo stato sociale (Singn, 1995).

Secondo Vandenberg (1972), invece, nella società occidentale gli individui s’innamorano e si sposano sulla base della somiglianza per una o più caratteristiche fenotipiche. Le correlazioni positive più frequenti nella coppia riguardano la religione e il fatto di volere o meno dei figli, mentre si hanno correlazioni meno significative a proposito della preferenza per un partner socialmente brillante, artist-intelligente, disponibile a adattarsi (Rim, 1989).

Buss e Barnes, occupatisi in particolare delle differenze tra sessi, sostengono che le donne desiderano un compagno onesto, fidato, gentile, comprensivo, accomodante, con un lavoro sicuro. Un uomo con buone risorse economiche garantisce dei vantaggi ai propri figli, nel presente e nel futuro, anche in termini di produttività genetica. Le mogli si aspettano che i mariti offrano, dunque, una certa sicurezza finanziaria e questi sono in genere pronti ad accontentarle (Koestner, Wheeler, 1998). Gli uomini, invece, sognano creature affascinanti, che sappiano cucinare e che siano frugali.

Secondo le teorie relazionali nella scelta del partner ci si orienta verso una persona che, oltre a proporsi come oggetto esterno che promette il soddisfacimento dei bisogni di dipendenza, è anche in grado di ricordare qualche figura importante del passato, come quella genitoriale, o perfino qualche parte di sé. La scelta del partner può, pertanto, essere o complementare all’identità genitoriale e/o personale, o in contrasto a questa. In un caso abbastanza comune di scelta complementare, l’individuo, identificato con l’immagine del genitore dello stesso sesso, ricerca un partner che gli ricordi l’immagine interna del genitore del sesso opposto, mentre nella scelta per contrasto, sceglie un partner che non corrisponda all’immagine interna del genitore del sesso opposto. Dicks (1967) sostiene che in realtà la complementarietà dei bisogni è solo una delle possibili modalità di scelta del partner, che si riscontra soprattutto in quelle relazioni in cui i partner, a causa di conflitti interpersonali risalenti al passato, non possono assumere determinati ruoli, che vengono a essere così rigidamente polarizzati. L’aspettativa di veder appagati dal partner i propri bisogni si ritrova, almeno a un certo livello, in tutte le coppie, specie nella fase iniziale del rapporto.

Successivamente, queste aspettative illusorie vengono piano piano ridimensionate. Nel caso di una relazione sana, equilibrata e funzionale, il processo di crescita e maturazione comporta una progressiva, anche se non indolore, accettazione della reale personalità del partner. Ciò significa che le gratificazioni reciproche non saranno limitate ai momenti in cui l’altro accetta di impersonare per il partner il perduto opposto, ma si potranno rinvenire anche nella scoperta di una insospettata somiglianza rispetto a certe caratteristiche o tratti di personalità.

Nel caso in cui i partner desiderano riprodurre nella propria coppia il tipo di interazione coniugale della propria famiglia di origine, significa che entrambi si sono identificati con l’immagine del genitore del proprio sesso e che hanno scelto un partner che ricordava loro l’immagine interna del genitore di sesso opposto. Quando il partner non si rivela poi così rassomigliante all’agognata figura genitoriale, possono emergere tensioni. Ci si comporta con l’altro come se questi fosse realmente l’oggetto de passato e, in modo regressivo, si cominciano ad utilizzare gli stessi mezzi infantili di allora, per mostrare ostilità o per piegare l’altro al proprio volere. Proprio perché tale dinamica coinvolge contemporaneamente entrambi i partner, ciascuno di loro è, allo stesso tempo, sia il genitore frustrante e ambivalente amato, sia il bambino che cerca di ribellarsi.

Nel caso della scelta per contrasto, invece, i partner respingono i modelli genitoriali e cercano in tutti i modi di dar vita a una coppia assolutamente diversa e distinta da quella della propria famiglia. La delusione è davvero grande quando alla fine si rendono conto che, malgrado gli sforzi profusi, stanno entrambi mettendo in scena quegli stessi schemi che credevano di essersi lasciati alle spalle.

Se la scelta del partner è stata determinata dal cosiddetto fenomeno dell’attrazione degli opposti, può accadere che proprio quelle caratteristiche, così diverse, così lontane dall’immagine che l’altro ha di se stesso e che pure tanta parte avevano avuto nell’attrazione iniziale, vengono successivamente perseguitate perché corrispondenti, in realtà, ad aspetti rimossi e repressi della propria personalità. Un individuo che non può ammettere l’esistenza di certi aspetti di sé, non può accettare neppure nel partner la presenza di qualità simili, non è in grado di integrarli nei propri modelli relazionali, nei propri pattern comportamentali.

In sostanza, le dinamiche proprie delle relazioni oggettuali possono spingere una persona a vedere nel partner esclusivamente le proiezioni dell’oggetto d’amore investito in modo ambivalente, anche in palese contraddizione con le reali qualità dell’altro.

Nella fase iniziale del rapporto, grazie al processo di idealizzazione, il partner viene percepito solo nel suo aspetto positivo di oggetto buono, e quindi la relazione procede senza incontrare grandi difficoltà. Nel corso del tempo, inevitabilmente, il coniuge non si dimostra all’altezza del ruolo di oggetto idealizzato. Può allora subentrare una percezione idealizzata di segno opposto, in cui il partner viene ora visto esclusivamente come oggetto cattivo, odiato e persecutorio. Secondo questa concezione, quindi, il rapporto di coppia costituisce lo scenario ideale di rappresentazione dei rapporti oggettuali non risolti del passato.

Secondo la la Teoria di Byng-Hall (1995), nella selezione del partner, una persona si sofferma su un individuo che gli dà prove di poter mettere in atto almeno alcuni dei ruoli del suo script familiare e viceversa. In questo modo si spiega anche perché durante la fase del corteggiamento i partner spendono tanto tempo nel raccontarsi la propria storia passate l’infanzia in particolare: è un modo per verificare se i rispettivi script familiari sono compatibili e se dai due potrà nascere un nuovo script familiare condiviso che, comunque, manterrà tracce di quelli precedenti. I bambini, infatti, apprendono delle interazioni familiari e tendono a ripetere almeno alcuni aspetti della propria famiglia di discendenza sotto forma di script ripetitivi. Tenderanno anche a cancellare dai propri modelli e pattern relazionali esperienze e stili di comportamento che nella famiglia d’origine hanno trovato inaccettabili o troppo dolorosi, formando così, script correttivi.

L’analisi e lo studio delle coppie rivela, in sostanza, che in numerosi casi il processo di scelta del partner porta a orientarsi verso una persona capace di inserirsi negli script transgenerazionali del partner. Molto spesso si predilige una persona che possa impersonare ruoli e mettere in atto comportamenti che in passato hanno fatto soffrire il soggetto in questione, in grado che questi ora possa opporsi in modo più efficace di quanto sia stato in grado di fare nel passato. Il fatto che il partner rivesta ruoli appartenenti al passato del soggetto, script ripetitivi, inoltre, consente a quest’ultimo di mantenersi fedele alla propria famiglia d’origine. In altri casi, invece, viene scelto un partner che possa mettere in atto uno script correttivo, impersonando ruoli e caratteristiche opposte a quelle della famiglia d’origine del soggetto. E’ evidente come in entrambi gli scenari i partner forniscano un servizio reciproco, in quanto si permettono a vicenda o di correggere il passato o di dimostrare fedeltà alla propria famiglia d’origine. Sono sempre presenti contemporaneamente, sia script correttivi che ripetitivi, e a seconda delle circostanze e delle fasi della relazione verrà messo in atto ora l’uno, ora l’altro.

La teoria dell’attaccamento

La teoria dell’attaccamento, nella concezione Bowlbiana (1979), descrive la tendenza degli esseri umani a stringere legami affettivi preferenziali con gli altri individui, oltre ai genitori, lungo tutto l’arco di vita. Pertanto, la nascita di un legame di attaccamento può corrispondere alla fase di innamoramento. I diversi modi in cui i diversi individui affrontano questo momento delicato, che porterà poi alla formazione di una coppia stabile, dipendono e sono influenzati proprio dal modello fornito dalla relazione precoce tra bambino e genitore (Hazan, Shaver, 1987). Il rapporto esistente tra attaccamento e amore viene comunemente illustrato mediante il concetto di modelli operativi interni o working models. Questi modelli si formano a partire dalle esperienze con le figure di accudimento; Comprendono componenti sia affettive che cognitive e servono creare delle rappresentazioni interne di ciò che ci si può ragionevolmente e presumibilmente aspettare dagli altri.

La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere che i modelli di attaccamento si mantengono relativamente stabili nel tempo, in virtù di una certa continuità tra l’esperienza avuta con i genitori e la successiva capacità di stabilire relazioni intime, pur ammettendo che, a loro volta, le nuove relazioni e in particolare i rapporti di coppia, possono modificare i modelli operativi. Quindi, non solo il legame di attaccamento con il partner può essere diverso da quello che si aveva nella famiglia d’origine, ma addirittura è possibile estendere questo nuovo modello anche al rapporto con la famiglia d’origine, trasformandolo.

La teoria dell’attaccamento fornisce una spiegazione plausibile dei diversi tipi di relazione che un uomo e una donna possono instaurare e di come le universali dinamiche sottostanti vengono diversamente congiunte dai singoli individui fino a produrre stili di relazioni diverse.

Lo stile di attaccamento influenza in maniera così determinante la scelta del partner proprio perché ogni stile implica una serie di attese e timori riguardo ai rapporti interpersonali, in modo che solo un partner con aspettative e timori compatibili potrà essere selezionato (Feeney, Noller, 1991). Secondo la teoria dell’attaccamento, quindi, il rapporto che si instaura tra due partner sarebbe sostanzialmente analogo a quello che unisce madre e figlio, sia per quanto riguarda il bisogno di intimità e condivisione e le aspettative di ricevere conforto e sostegno che per la sofferenza provocata da separazioni e da minacce alla relazione (Hazan, Shaver, 1987). Inoltre, la nascita del legame di attaccamento tra due partner adulti seguirebbe le stesse linee di sviluppo, ricerca di vicinanza, rifugio sicuro, base sicura, previste nell’attaccamento tra madre e bambino.

  • Ricerca di vicinanza: attrazione interpersonale significa che ci sentiamo attratti da qualcuno e quindi vogliamo essere fisicamente e psicologicamente vicini e che speriamo che anche l’altro voglia le stesse cose. Quindi anche la relazione di coppia inizia come ricerca di vicinanza, ma rispetto alle relazioni di attaccamento madre-bambino probabilmente la relazione iniziale è diversa. Nel caso del bambino, infatti, la causa principale che lo spinge ad avvicinarsi alla madre è la paura o la necessità, mentre nel caso degli adulti il motivo iniziale che spinge ad avvicinarsi a un possibile partner è l’interesse sessuale o, secondariamente il desiderio di alleviare una sensazione di solitudine.
  • Rifugio sicuro: una volta che l’attrazione reciproca e l’interesse sessuale hanno condotto alla vicinanza e dato vita a una nuova coppia, perché questa duri ne tempo devono subentrare altre componenti che contribuiscono a mantenere il legame. Tali fattori possono essere identificati proprio nella capacità di fornirsi reciprocamente conforto e sicurezza, ossia nella capacità di essere l’uno per l’altro un rifugio sicuro.
  • Base sicura: a questa fase si arriva solitamente, nel caso dei partner, solo dopo un lungo periodo di prova della relazione e dopo un impegno esplicito in tal senso, come potrebbe essere quello della formalizzazione del legame attraverso il matrimonio (Hazan, Shaver, 1987). Gli studi dimostrano che i soggetti con attaccamento sicuro tendono a scegliere un partner che a sua volta presenta un attaccamento sicuro, mentre, sorprendentemente, gli accoppiamenti evitante-evitante o ambivalente-ambivalente sono poco frequenti e di breve durata (Senchak, Leonard, 1992).

In realtà, quello che è emerso dalle ricerche è che gli individui insicuri scelgono sì un partner con attaccamento insicuro, ma di tipo diverso dal loro. La funzione di una scelta del genere sarebbe quella di confermare la percezione di Sé e degli altri e di giustificare la ripetizione dei propri modelli relazionale (Bartholomew, 1993). Infatti, un evitante, con la sua paura dell’intimità e il suo bisogno di mantenersi a una certa distanza dall’altro, scegliendo un partner ambivalente, che invece aspira a un’unione assolutamente fusionale, non fa altro che trovare conferme alla propria visione negativa degli altri e a trovare giustificazioni per il suo non coinvolgersi troppo. Analogamente l’ambivalente trova conferme alle proprie paure e insicurezze e giustificazioni per la propria dipendenza proprio dal continuo allontanarsi dell’evitante (Bartholomew, 1990).

Collins e Read (1990) hanno fatto notare come molto spesso le persone ricercano un partner che per quanto attiene l’attaccamento, ricorda loro il genitore di sesso opposto (correlazione positiva tra descrizione del proprio attaccamento di uno dei due e descrizione dell’altro attaccamento al dì genitore di sesso opposto). Ciò potrebbe dipendere proprio dal fatto che il rapporto con i propri genitori e l’accudimento che riceviamo da loro influenzano e determinano le nostre aspettative, il nostro modo di pensare a noi stessi e agli altri, caratteristiche queste, che poi inevitabilmente si ripercuoteranno nei nostri rapporti e relazioni. In particolare, poi, la maggior importanza che sembra avere il genitore di sesso opposto è probabilmente dovuta al fatto che questi e il rapporto con questi serva da modello per le relazioni eterosessuali.

Inoltre, le caratteristiche dello stile di attaccamento del partner che è possibile preveder in base allo stile di accudimento del genitore di sesso opposto, risentono di una differenza di genere. Nel caso delle donne, infatti, il tipo di rapporto avuto con il padre permette di prevedere quanto il partner ricerchi l’intimità e accetti di dipendere dagli altri, mentre per quanto riguarda gli uomini la descrizione del rapporto con la madre permette di fare previsioni sul gradi di ansia della partner (uguale timore dell’abbandono e di non essere amato).

I soggetti con stile di attaccamento sicuro, quindi non solo hanno maggiori chance di dar vita a una relazione soddisfacente e appagante, ma si dimostrano anche in grado, all’occorrenza, di porre fine al rapporto senza eccessive difficoltà . Il grado di soddisfazione coniugale degli individui con stile di attaccamento insicuro, invece, si riduce molto velocemente, e altrettanto rapidamente si deteriorano la fiducia e l’impegno reciproco; L’ambivalente vorrebbe sempre chiarire tutto e discutere di ogni cosa, ma così facendo spaventa l’evitante, che invece cerca in tutti i modi di sfuggire al conflitto (Collins, Read, 1990).

Dunque, alla luce di tutto ciò, è ancora logico pensare che l’amore non ha logica?? Pare proprio di no! Come diceva Pascal, logico e filosofo che di sentimenti e di esprit de finesse se ne intendeva: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

Il professore sul ring: perchè gli uomini combattono e a noi piace guardarli?

Gottschall racconta efficacemente i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: paura del dolore ma anche della brutta figura causata dal sottrarvisi; piacere della vittoria ma anche soltanto della lotta in sé.

Nel corso dell’ultimo secolo innumerevoli testi – da “Essere e tempo” alla “Guida galattica per autostoppisti” – hanno sottolineato che porre le giuste domande è più importante che offrire le giuste risposte. Se una simile impostazione è corretta, probabilmente il libro di Gottschall può esserne un caratteristico esempio. Gli interrogativi che pone, in effetti, sono di estremo interesse, riguardando il significato degli sport di combattimento (e più in generale degli sport, se non addirittura del gioco inteso come game e non come play), dal punto di vista del loro rapporto con la guerra, degli interrogativi etologici che pongono, delle questioni relative al genere ad essi collegate.

Tutte le domande, però, sarebbero riconducibili a quella formulata nel sottotitolo: “Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli?.

Già questa frase, tuttavia, contiene uno sgradevole retrogusto sessista o è il frutto di un singolare atto mancato di pretta marca freudiana (che non è frutto della traduzione, perché l’originale suona altrettanto ambiguamente “Why men fight and why we like to watch”). Le implicazioni di queste parole sembrerebbero: (1) sono i veri uomini che combattono; (2) tutti gli altri (“noi”) possono solo guardare; (3) sia le donne che gli uomini di serie B sono attratti dai combattenti. Certamente una simile impostazione è molto lontana dalla volontà conscia dell’autore, ma per molte ragioni la lettura del libro non fuga del tutto il dubbio iniziale.

Occorre subito rimarcare che l’autore non è uno psicologo (malgrado tenga un blog entro “Psychology Today”): si tratta di un docente di letteratura angloamericana della Pennsylvania che ha impostato questo lavoro su un doppio registro: l’osservazione partecipante e la ricerca bibliografica. In realtà, però, il rimarchevole sforzo di trarre informazioni da fonti estremamente varie (dalla letteratura all’etologia, dalla sociologia ai manuali sportivi, dai fumetti alla pubblicità) non serve a formulare ipotesi da suffragare con la ricerca empirica; né il racconto delle proprie esperienze sul campo, pur letterariamente tornito e perfino appassionante, può in qualche modo confermare tesi tratte dalla letteratura scientifica.

Il progetto nasce in modo certamente originale. Gottschall, secondo quanto egli stesso riferisce, al momento di formularlo è un adjunct professor (l’equivalente, grosso modo, di un ricercatore) in cerca di un’idea abbastanza forte da lanciarlo verso una brillante carriera o farlo definitivamente licenziare. L’apertura di una palestra di mixed martial arts nei pressi del suo dipartimento gli ispira l’idea di mettersi alla prova e contemporaneamente utilizzare la propria esperienza per scrivere qualcosa di nuovo. Gottschall non è a digiuno di arti marziali, avendo praticato il karate al college, ma è curioso di sperimentare cosa significhi allenarsi per un combattimento relativamente privo di limiti e ritualizzazioni.

Le mma sono in effetti una specialità marziale particolarmente violenta, pensata per i cosiddetti combattimenti nella gabbia (il famigerato octagon), nei quali gli avversari si affrontano in incontri letteralmente senza esclusione di colpi. Al punto che i colpi agli occhi o ai genitali, negli incontri di livello professionistico, sono puniti da una multa ma non dalla squalifica. I combattimenti nella gabbia, in effetti, nacquero come una sorta di barbaro esperimento per stabilire quale arte marziale fosse realmente più efficace. Allo scopo si confrontarono tra loro alcuni tra i più illustri esponenti delle più varie forme di lotta. Il risultato fu in generale la cocente sconfitta delle specialità orientali ad opera di tecniche meno coreografiche ma più semplici ed efficaci come streetfighting e kickboxing. Poiché però il dominatore delle prime edizioni del campionato mondiale risultò un praticante del ju-jitsu brasiliano (basato sulla lotta a terra), i candidati iniziarono ad allenarsi sia a colpire (striking) sia a lottare (grappling). Così si è sviluppata, anche su un piano amatoriale, la disciplina eclettica alla quale Gottschall si è allenato per quindici mesi, arrivando fino a combattere un incontro pubblico vero e proprio (oltre che a infortunarsi innumerevoli volte).

Gottschall racconta efficacemente i sentimenti contrastanti che si provano nel combattimento estremo: paura del dolore ma anche della brutta figura causata dal sottrarvisi; piacere della vittoria ma anche soltanto della lotta in sé.

Ciò che meno convince, però, sono le sue tesi di fondo. Il combattimento sarebbe di per sé una prerogativa naturalmente maschile, allo stesso modo in cui lo sono le lotte tra maschi animali della stessa specie per accoppiarsi con le femmine.

Il fatto che il numero dei praticanti di arti marziali di sesso femminile sia in costante aumento non smuove le sue convinzioni: a suo avviso il maschio è naturalmente fighter e la donna naturalmente cheerleader; esattamente come l’uomo sarebbe naturalmente portato ad attribuire maggiore importanza al potere e alle sfide e quindi più interessato alla politica rispetto alle donne. A suo avviso la stessa distinzione tra sesso e genere sarebbe il frutto di una sorta di equivoco politicamente corretto: gli uomini e le donne non attuerebbero comportamenti attesi dalla cultura dominante ma sarebbero geneticamente predisposti ad agirli. Caratteristico della superficialità con la quale spesso Gottschall si muove è la sua modalità di escludere a priori una componente omoerotica nel piacere del combattimento. A suo avviso è sufficiente prova al riguardo considerare il fenomeno della ritrazione istintiva dei genitali durante la lotta (legato alla necessità di proteggerli).

Rimane senza risposta (ma in questo caso giustamente) un’altra delle questioni fondamentali affrontate dal libro. Se non esistono sport di combattimento collettivo vero e proprio, esistono però molti sport popolari di squadra nei quali gli scontri fisici possono essere piuttosto violenti e per diversi ricercatori hanno, con intenti diversi, da tempo sottolineato l’affinità con il conflitto bellico.

Questi sport sono (come pensava Konrad Lorenz) un modo per incanalare una naturale aggressività umana all’interno di un rituale privo di rischi, o sono al contrario un modo per alimentare l’aggressività che alla guerra conduce?

Dietro le sbarre della tossicodipendenza: un’indagine esplorativa in carcere

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

DIETRO LE SBARRE DELLA TOSSICODIPENDENZA: UN’INDAGINE ESPLORATIVA IN CARCERE

Autrice: Alessia Maisano, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

ABSTRACT

Questo studio nasce per identificare il lavoro svolto dagli psicologi all’ interno del carcere in relazione ai detenuti tossicodipendenti ed in termini di reinserimento sociale di quest’ultimi. L’ idea iniziale da cui si è sviluppata la ricerca è stata quella di poter verificare se la partecipazione da parte dei detenuti ai gruppi trattamentali, da letteratura lo strumento più utilizzato nell’ ambito della cura delle tossicodipendenze, potesse effettivamente portare ad un cambiamento nello stile di vita e negli atteggiamenti degli stessi.

Allo scopo di definire con precisione il modo con cui questa modalità di trattamento viene portata avanti, è stata eseguita un’ analisi esplorativa mirata a raccogliere dati sia sulla struttura individuale e personale del soggetto, sia sul trattamento a lui proposto. L’ obiettivo di questo studio è stato quello di effettuare un confronto pre-post tra i dati ottenuti dai soggetti relativamente al loro stato di benessere psichico e comportamentale e alla soddisfazione relativa alla partecipazione all’ attività in questione.

E’ emerso come il gruppo abbia un effetto di cambiamento positivo sui soggetti in relazione alla presenza di problematicità relazionali e di elevato livello di dipendenza.

ABSTRACT

This study was designed to identify the work carried out by psychologists with drug- addicted prisoners in terms of social rehabilitation. The idea was to determine whether the participation of prisoners to trattamental groups, the most used therapy in the treatment of addiction, could actually lead to a change in their life style and attitudes.

In order to define the way this treatment is carried out, experimental analysis were done through collecting data on both individual and personal dimension of the subjects and on the proposed treatment. The main goal of this study was to realize a pre-post comparison between data related to the psychical and behavioral well-being of the prisoners and their satisfaction concerning the participation in the activities. As result of this research is emerged that the rehabilitation treatment could lead to a positive change of the person, in relation to the presence of relational problems and high level of addiction.

Keywords: Tossicodipendenza, carcere, terapia di gruppo, trattamento, clinica.

 

Watching eye effect: sentirci osservati ci rende più onesti e generosi

Il bisogno di approvazione sociale è così forte che anche la sola presenza di un paio d’occhi, per esempio raffigurati in un dipinto, è efficace nel motivare il comportamento in tal senso.

La vista di un paio d’occhi può scoraggiare le persone dal mentire e dal comportarsi in modo egoistico; sentirci osservati, infatti, ci spinge ad aderire maggiormente a norme e regole comunitarie. Il bisogno di approvazione sociale è così forte che anche la sola presenza di un paio d’occhi, per esempio raffigurati in un dipinto, è efficace nel motivare il comportamento in tal senso.

Un nuovo studio giapponese ha osservato il watching eye effect nella situazione in cui due valori sociali entrano in conflitto: l’onestà e l’aiutare chi ne ha bisogno. Ai partecipanti allo studio è stato chiesto di tirare un dado per determinare l’entità di una donazione da parte degli sperimentatori alla Croce Rossa giapponese, in aiuto alle vittime del terremoto e dello tsunami del 2012. Il lancio dei dadi avveniva in privato, in modo che i soggetti potessero decidere di mentire sul risultato per aumentare la donazione.

La metà dei partecipanti tirava i dadi in una stanza in cui era appesa la foto di un paio di occhi, mentre l’altra metà si trovava in una stanza vuota. Confrontando i valori dei tiri di dado riferiti dai partecipanti con quelli attesi in un contesto di tiro casuale, i ricercatori hanno potuto stimare quanti partecipanti hanno barato. Molti di quelli che non si sentivano osservati hanno mentito, riferendo agli sperimentatori un valore superiore a quello ottenuto con il lancio dei dadi, e destinando in questo modo più soldi alla beneficenza. Nel gruppo che era ‘osservato’ invece i soggetti erano più propensi a dire la verità. Insomma, la generosità vince sull’onestà fino a che questo rimane in un contesto privato.

Ma il watching eye effect ci espone immediatamente e ancor prima che ce ne rendiamo conto, all’idea di un giudizio sociale, e in questo caso i rischi connessi all’essere visto come disonesto sono percepiti come maggiori di quelli connessi a un comportamento ingeneroso. In questo caso è l’onestà a vincere sulla generosità.

In ogni caso i risultati di questo studio ci inducono riflettere su quanti e quali potrebbero essere i contesti pubblici e privati in cui forse sarebbe auspicabile appendere un bel quadro con un paio di occhi che ci scrutano per promuovere comportamenti prosociali o prevenire quelli disonesti.

Sigmund Freud: un drammaturgo erede di Shakespeare

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di Domenica 01/11/2015

 

Come mai nessuno ha preso il posto di Freud nell’immaginario collettivo? Cosa gli ha permesso di sopravvivere alla messa in mora delle sue idee?

L’uso della cocaina, le sfide feroci con i colleghi, le lettere alla moglie… Il mito dello psicoanalista oggi sopravvive ancora in talent e serie TV.

Leggo l’ultima biografia di Freud con una domanda che mi risuona nella testa: cosa ha permesso all’immagine di quest’uomo di sopravvivere con tanto successo alle sue stesse idee? Perché se a X-Factor Mika si improvvisa psicologo, neanche male, Fedez commenta: ‘Gli è stato infuso qualche gene di Freud durante la notte da qualche alieno’ ? Lo osservo agire.

Freud che scrive lettere alla futura moglie Martha, protestando perché non sente il suo amore casto ricambiato con la stessa intensità. Freud che sperimenta la cocaina confidando di stare per compiere una scoperta scientifica rilevante. Freud e l’avversario, il nemico-amico di cui sempre avrà bisogno, un doppio nel quale specchiarsi e un traditore dal quale difendersi. Lo stampo: il nipote John, compagno di giochi dell’infanzia. L’esempio più compiuto: Jung. Quasi li vedo a Brema, nel 1909, pronti ad imbarcarsi alla conquista dell’America. Al ristorante, Jung interrompe l’astinenza dal vino dopo anni. Freud lo interpreta come un atto di fedeltà a lui. A cena Jung racconta di leggende: corpi mummificati di uomini preistorici. Freud per tutta risposta ha una sincope. Al risveglio spiega a Jung e Ferenczi, uno dei suoi allievi più brillanti – la psicoanalisi di oggi gli somiglia – che il racconto indica come in Jung alberghi il desiderio di un figlio di uccidere il padre. Jung reagisce rabbiosamente: accusa Freud di delirare.

Sulla nave continuano un gioco che mille volte ho visto fare nei primi anni della mia formazione: l’interpretazione reciproca. Non richiesta. Un modo raffinato di insultarsi. Jung racconta un sogno: due crani umani sul suolo di una grotta. Freud insiste: desideri la mia morte. Jung dissentiva. Si delineava la rottura. Freud che in quello stesso viaggio si diverte all’idea di come le sue idee sulla sessualità umana avrebbero scandalizzato gli Americani, ai suoi occhi anime semplici e puritane. A Central Park Freud ha un problema urinario, cose che in viaggio succedono. Jung rintuzza e interpreta: desiderio di attirare l’attenzione.

Nella biografia scritta, con troppi dettagli, da Élisabeth Roudinesco, ‘Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro‘, scene come queste si susseguono senza pause. La costruzione della ‘Società psicologica del mercoledì’. Le battaglie intellettuali contro gli eretici: Adler, Reich. Il senso perenne della scoperta, il piacere della costruzione di un sistema di pensiero. La hybris del non volerla ricondurre ad altro: non psicologia, non neurologia, non semplice filosofia. Psicoanalisi. Aveva l’intelligenza e l’ambizione sufficienti, e il carattere testardo e tirannico lo aiutavano. La curiosità febbrile della scoperta di un mondo nascosto nei meandri dei lapsus e dei sogni delle sue pazienti isteriche. La convinzione di offrire una cura efficace, potente, inaudita.

Il ruolo di Freud nella psicoterapia moderna è diventato marginale. Molte correnti di psicoanalisi seguono pratiche lontane dal maestro. Le psicoterapie dinamiche, di matrice psicoanalitica, hanno riferimenti più freschi. Ero a Montreal il mese scorso, per il congresso sui disturbi di personalità – la diagnosi che riceverebbero oggi tanti dei pazienti da lui trattati. Nessun collega lo ha citato, neanche quelli che lavorano all’Anna Freud Centre. Per capire come curare l’animo si pesca in laghi diversi. La psicoanalisi è in crisi tremenda, di praticanti e di pazienti.

Leggiamo i fenomeni clinici inforcando lenti differenti. Roudinesco riporta una delle osservazioni di Freud più studiate, il gioco ‘Fort-Da’. Protagonista il nipotino Ernstl, diciotto mesi. Quando la madre si assentava giocava col rocchetto legato alla cor dicella. Lo lanciava emettendo un “ÔÔÔÔÔ” che significava: ‘Fort’, partito. Poi lo richiamava a sé con un ‘Da’, ecco. Secondo Freud era un modo di padroneggiare il dolore, esprimere sentimenti ostili e vendicarsi della madre. Una spiegazione che ormai consideriamo contorta.

Meglio leggerla nel linguaggio di John Bowlby, ideatore della teoria dell’attaccamento e psicoanalista mal tollerato dalla sua comunità quando emerse. Il bambino soffre, normalmente, per l’allontanamento della madre. Si arrabbia? Niente di strano se gli si toglie l’oggetto d’amore indispensabile. Il gioco del rocchetto simulava l’allontanamento della madre, la convinzione che la madre sarebbe tornata e la gioia anticipatoria. Poi la madre morirà. Il bambino ha bisogno di mantenere il legame simbolico. Allontana il rocchetto e lo recupera. Ha bisogno di farlo, il dolore della perdita è troppo intenso. E forse in famiglia non lo avevano aiutato a esprimerlo, ci chiederemmo con curiosità attuali.

Freud che si scontra con Pierre Janet, lo psicologo che prima di lui spiegò i sintomi isterici. Janet lo sfida nel 1913 a Londra: io ho formulato da anni i concetti di analisi psicologica e subconscio. E meglio. Janet è oscurato da Freud, diventa una nota a margine dei libri di psicologia per decenni. Bowlby faticò a restare nella società di psicoanalisi. Hanno avuto la loro rivalsa, la psicoterapia che pratichiamo è quella ispirata a Janet e Bowlby, molto più che a Freud.

La domanda mi ritorna in mente. Come mai nessuno ha preso il suo posto nell’immaginario collettivo? Cosa ha permesso a Freud di sopravvivere alla messa in mora delle sue idee? Molte risposte possibili, nessuna decisiva. Una tra tante: Freud come erede di Sofocle e Shakespeare. La tragedia riscritta in forma di sistema di pensiero. Per dire, in linea ereditaria, dopo di lui c’è Il padrino.

Ma il mondo dell’arte inizia a guardare altrove, anche se Woody Allen è produttivo, Bertolucci indimenticabile e Dalì contrabbanda sogni perturbanti negli studi professionali. Freud sopravvive in ‘In treatment‘ – versione americana, i consulenti italiani non sono all’altezza del compito – storie di uno psicoanalista aggiornato che riesegue alcuni canoni dell’analisi classica.

Gli sceneggiatori aprono altri libri. ‘Inside out’, splendido: un trattato di psicologia cognitiva delle emozioni reso narrazione. ‘Lie to me: le espressioni facciali tradiscono la verità, le emozioni non mentono. La teoria di Paul Ekman – e Darwin – diventata strumento investigativo. ‘Criminal minds‘: analisi del comportamento psicopatico basato sulle scienze della personalità.

Attaccamento: l’eredità dei costrutti di Bowlby – Una conversazione tra Karin e Klaus Grossmann e Grazia Attili – Roma, 30 ottobre 2015

Patrizia Mattioli

 

Venerdì 30 Ottobre si è tenuto a Roma presso il Centro Congressi di Via Salaria, 113, il seminario dal titolo “Attaccamento: L’eredità dei costrutti di Bowlby – Una conversazione tra Karin Grossmann e Klaus Grossmann (Regensburg University) e Grazia Attili (Sapienza Università di Roma)”.

Alla conversazione ha partecipato anche Lieselotte Ahnert (Università di Vienna).

Il lavoro di Karin e Klaus Grossmann, ricercatori di fama mondiale, conferma e sviluppa i temi dell’attaccamento a partire dai costrutti di Bowlby: il bambino deve poter contare su una figura di attaccamento affettuosa e affidabile per un adeguato sviluppo psicoaffettivo e per la costruzione di adeguati Modelli Operativi Interni; la separazione dalle figure di attaccamento ha effetti negativi e può innescare veri e propri black out emotivi che possono distogliere il bambino dal mondo esterno.

Karin e Klaus Grossmann hanno parlato di indicatori dello stato di sicurezza dall’infanzia in poi – ricavati per esempio da come i bambini parlano delle relazioni e quanto riferimento fanno alle relazioni in caso di difficoltà – e quali modalità relazionali concorrono a favorirlo: il supporto da parte delle figure di attaccamento, la loro capacità di riconoscere l’individualità del piccolo, il loro adeguato funzionamento sia come base che come porto sicuro.

Hanno parlato di quanto è importante il ruolo del padre nello sviluppo sociale e nello status sociale del bambino, quanto egli possa essere la figura di attaccamento principale o una figura secondaria con un’importante ruolo di compensazione e soprattutto quanto egli possa essere determinante nell’influenzare lo stato d’animo della partner e indirettamente influire sul rapporto madre/bambino. E’ già riconosciuto che il padre ha il compito di promuovere l’esplorazione sociale e secondo Grossmann ha un’altra funzione a cui forse non è stata data finora la giusta importanza ed è quella di supporto durante l’esplorazione.

Tutti i relatori concordano nell’affermare che è più difficile fare il padre che fare la madre.

Ahnert ha illustrato il suo studio di metanalisi dell’attaccamento dall’infanzia all’età adulta, ricavato dall’analisi di più di 20.000 studi sull’attaccamento. Ha riscontrato che uno stato di sicurezza non si mantiene per più di 15 anni, mentre l’insicurezza tende ad essere più stabile. Secondo L. Ahnert i modelli di attaccamento non sono stabili ma dinamici, molto influenzati anche in età adulta dalle esperienze e dagli ambienti affettivi.

Le implicazioni degli stili di attaccamento nella relazione tra caregiver e pazienti affetti da demenza

Silvia Baraldi e Elena Del Rio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

In letteratura la teoria dell’attaccamento viene utilizzata come base per la comprensione delle dinamiche subordinate alla cura delle persone affette da demenza e dei familiari, osservando come l’attaccamento influenza l’esperienza nel ruolo di caregiver.

 

L’assistenza all’anziano con patologia degenerativa come la demenza comporta problematiche di grande complessità e richiede risposte specifiche sia per le esigenze del malato, ma anche per coloro che se ne prendono cura, i così chiamati caregivers.

Il ruolo del caregiver diventa cruciale sin dalle prime fasi della malattia ed è frequente che il famigliare stesso possa sviluppare una condizione di stress, sia sul piano fisico sia emotivo, legata al gravoso compito di assistenza e accudimento, sia per il carico fisico e per la presenza di disturbi del comportamento che la malattia comporta, sia per gli inevitabili cambiamenti nella relazione tra il caregiver e il paziente.

Sono presenti numerosi lavori e studi che confermano l’importanza del ruolo di caregiver nel processo assistenziale e nella necessità di sostenere tale figura per apprendere le conoscenze e le risorse idonee a ricoprire il nuovo ruolo; per elaborare e vincere sentimenti di colpa e disagio psico-emotivo che la malattia porta (Kupferschmidt et al. nel 2009).

In letteratura la teoria dell’attaccamento viene utilizzata come base per la comprensione delle dinamiche subordinate alla cura delle persone affette da demenza e dei familiari, osservando come l’attaccamento influenza l’esperienza nel ruolo di caregiver. In generale la teoria dell’attaccamento può essere considerata come un approccio con radici concettuali complesse e multiple che evidenzia come aspetto essenziale la presenza nell’uomo di un bisogno innato di ricercare per tutto l’arco della vita la vicinanza protettiva di una figura significativa ogni volta in cui è in pericolo, soffre, ha bisogno o è in difficoltà. Questo bisogno innato però fin da subito viene integrato con le esperienze derivanti dall’ambiente in cui l’individuo viene a trovarsi. Quindi la tendenza dell’uomo a cercare la vicinanza delle figure di attaccamento corrisponde ad una conoscenza che è su basata su uno schema innato, ma che per diventare completamente operativo deve essere integrato con le esperienze relazionali concrete, in questo senso, infatti la qualità delle prime relazioni con il caregiver nell’infanzia influenzano lo sviluppo dei modelli operativi interni, delle aspettative verso Sé e altri e forniscono le basi per nuove esperienze e interazioni sociali.

Nell’infanzia, durante il primo anno di vita, i bambini, all’interno della relazione con il caregiver, si creano delle aspettative circa il rapporto con la figura di attaccamento, organizzando così dei Modelli Operativi Interni, formati dall’insieme di memorie episodiche e semantiche, quindi sia dell’esperienza emotiva che cognitiva, e di rappresentazioni del Sé e dell’altro significativo. Questi modelli determinano quelli che sono i comportamenti di attaccamento e che sono stati divisi in:

  • Attaccamento sicuro (Sé amabile, accettato; altro accettante, fornisce cure e protezione, stabile; memoria episodica e semantica integrate; strategie usate nella relazione e nell’esplorazione dell’ambiente sono le più diverse, in generale di avvicinamento alla figura di attaccamento se c’è pericolo e di esplorazione se non c’è pericolo)
  • Attaccamento insicuro evitante (Sé rifiutato, non degno d’amore; altro rifiutante; memoria semantica ed episodica non integrate; strategia più utilizzata nella relazione è l’evitamento)
  • Attaccamento insicuro ambivalente (Sé degno/non degno d’amore, altro accettante/rifiutante; memoria semantica ed episodica non integrate; strategia più usata nella relazione è il tentativo di tenere il controllo relazionale con comportamenti seduttivi e/o con modalità aggressive)

La teoria del’attaccamento non prevede una stabilità assoluta, durante tutto l’arco della vita, dello stile di attaccamento appreso durante l’infanzia anche se i modelli operativi interni sono molto resistenti al cambiamento; la possibilità al cambiamento si lega alla capacità di riflettere sui propri modelli interni e alla possibilità di esperienze relazionali correttive (Bartholomew K, 1993).

La teoria dell’attaccamento è stata ampiamente utilizzata come base per la comprensione delle dinamiche sottostanti la cura delle persone bisognose, in particolar modo delle persone affette da demenze e delle differenze che i diversi stili di attaccamento nei caregivers possono comportare nella nuova relazione che si crea. La demenza, infatti, minaccia il legame di attaccamento, con la progressione della disabilità cognitiva e funzionale, si possono attivare sentimenti di attaccamento, come il ricercare sicurezza e vicinanza, bisogno di dipendenza, richiesti al caregiver.

Questa nuova relazione permette al figlio di ripristinare il primario legame di attaccamento verso il genitore, come conseguenza il figlio si adopera in comportamenti protettivi e di aiuto, per mantenere la vicinanza e un trasmettere un senso di sicurezza verso il genitore fragile. Nel contesto di accudimento e attivazione del sistema assistenziale, l’ attaccamento sicuro risulta essere in relazione con una serie di risposte, tra cui:

  • La conoscenza di scelte di vita del malato (Turan, Goldstein, Garber, e Carstensen, 2011);
  • Il sentirsi preparati ad intraprendere il ruolo di caregiver ( Sorensen, Webster, e Roggman, 2002);
  • La probabilità di fornire sostegno e assistenza (Carnelley, Pietromonaco, e Jaffe, 1996);
  • Essere predisposti all’aiuto (Klaus, Kennell, e Klaus, 1995);
  • La qualità delle cure fornite per la persona malata (Cicirelli, 1991).

I dati presenti sul panorama scientifico, portano nella direzione per cui un caregiver sicuro può essere visto come in grado non solo di usufruire dei supporti sociali esistenti ma, soprattutto, di affrontare e integrare le emozioni riguardanti il proprio congiunto, riuscendo ad essere emotivamente più disponibile e diminuendo la sensazione soggettiva del carico che la malattia comporta, il ‘burden’ (Pezzati et al, 2005) .

Di fronte ad eventi come la diagnosi di una malattia cronica, un caregiver sicuro può avere un miglior adattamento nelle situazioni di stress. All’opposto, stili di attaccamento di tipo insicuro in un caregiver possono riversarsi in situazioni di maggior conflitto, sentimenti ambivalenti e difficoltà nell’affrontare e regolare le emozioni. I dissidi irrisolti ma anche quelli presenti, mai affrontati nella propria storia di vita, condizionano i momenti difficili della situazione di cura. I caregivers con stile di attaccamento sicuro, sono accoglienti nel modo di fornire conforto e sostegno, mentre caregivers con stili di attaccamento insicuro, faticano a supportare il malato o tendono ad evitare situazioni in cui è richiesto il supporto o nella situazioni in cui il bisogno di dipendenza da parte del malato risulta elevato (Bartholomew & Horowitz, 1991).

In diversi studi, come quello di Carpenter (2001), è stato osservato come lo stile di attaccamento, delle figlie che si occupano di madri anziane, era correlata al tipo di cure fornite; figlie con attaccamento sicuro riescono a fornire cure più emotive (vicinanza, protezione, sicurezza) rispetto all’attaccamento insicuro. Inoltre nello stesso studio, confermato anche in altre ricerche, lo stile di attaccamento sicuro risulta in relazione di una più bassa percezione del burden della cura (Carpenter, 2001; Cicirelli, 1993), mentre stili di attaccamento insicuro risulta maggiormente correlato ad una percezione di carico maggiore e alla presenza di sintomatologia depressiva (Gillath, Johnson, Selcuk, e Teel, 2011). Come sottolineato da Carpenter, in condizioni di disagio un adulto con stile di attaccamento insicuro può avere delle difficoltà a trovare le risorse per fornire cure sensibili ed efficaci ad altre persone; una persona relativamente sicura potrà invece percepire gli altri, non solo come fonte di sicurezza e supporto, ma anche riuscire a comprendere i bisogni degli altri e apportare sostegno.

Caregiver insicuri, inoltre, sembrano meno in grado di adoperarsi concretamente nel richiedere aiuto quando le difficoltà si manifestano (Crispi et al., 1997), come ad esempio rivolgersi ai servizi presenti sul territorio. Nello studio di Markiewicz e colleghi (1997) rivolto all’esplorazione degli stili di attaccamento e tratti di personalità dei caregivers, hanno mostrato come uno stile di attaccamento Sicuro mostri relazioni sane in cui le persone desiderano essere disponibili e affidabili. Lo stile ansioso-ambivalente riflette invece un attaccamento di dipendenza, accompagnato da emozioni di rabbia e delusione, mentre lo stile evitante riflette coloro che evitano o si distaccano dall’altro. Markiewicz e colleghi hanno inoltre evidenziato che il caregiver ansioso – ambivalente riportano più spesso reazioni emotive negative legate al proprio ruolo assistenziale e una tendenza minore a richiedere supporti esterni e rivolgersi ai servizi. Caregiver evitanti hanno maggior probabilità di affidare la cura ad un aiuto esterno.

Nel Regno Unito, come parte di uno studio longitudinale di persone con Alzheimer, lo stile di attaccamento del caregiver e le strategie di coping messe in pratica nella cura e assistenza del malato, sono state esaminate come potenziali predittori degli aspetti emotivi e psicologici nonché del grado di carico soggettivo esperito dal caregiver (Cooper, Owens, Katona, e Livingston, 2008). I risultati mostrano come caregiver con attaccamento insicuro segnalavano sintomi ansioso-depressivi, inoltre si è evidenziato come queste persone utilizzavano strategie di coping poco funzionali con conseguenza di sentire maggior carico.

Magai e Cohen (1998) nel loro studio hanno analizzato l’impatto dello stile di attaccamento dei pazienti affetti da demenza, su chi si prende cure di queste persone. Osservando che lo stile di attaccamento di persone affette da demenza, era un predittore significativo del burden del caregiver.  Coloro che si prendono cura di un anziano affetto da demenza che mostra uno stile di attaccamento sicuro, saggeranno un minor carico nella cura. Per le persone affette da demenza, uno stile di attaccamento sicuro è stato correlato ad un minor manifestarsi di sintomi emotivi (ansia, frustrazione, agitazione) e ad un concetto di Sé positivo, con ansia inferiore e un concetto di sé più positiva.
Avere presente lo stile di attaccamento sia della persona affetta da demenza che del loro familiare è considerato importante per il benessere di entrambi i membri (Nelis et al., 2012).

Nella pratica clinica risulta quindi importante considerare le potenziali implicazioni di relazioni di attaccamento. Le evidenze scientifiche presentate mostrano come sia importante tenere presente il costrutto dell’attaccamento. Infatti nello specifico un stile di attaccamento sicuro permette di integrare in modo flessibile emozioni e cognizioni che possono condurre ad una cura dell’anziano in cui anche quest’ultimo risulta co-costrutture delle nuove dinamiche relazionali che si vengono ad instaurare; mentre uno stile di attaccamento insicuro, quindi poco funzionale alla costruzione di significati del Sé e del mondo, le discrepanze e le sofferenze soggettive possono essere un fattore di rischio per il benessere di chi si prende cura di un familiare malato.

Gli interventi psicoterapeutici dovrebbero concentrarsi maggiormente sulla risoluzione dei sintomi psicologici ed emotivi negativi, istruire ed insegnare strategie di coping adeguate, e sulla valutazione del burden, piuttosto che sull’ attaccamento, che è considerato stabile e non facilmente suscettibile di cambiamento attraverso l’intervento (Cooper et al., 2008).

In conclusione mentre lo stile di attaccamento non può essere aperto al cambiamento, il riconoscimento delle dinamiche di attaccamento risulta importante in termini di sostegno e cura per coloro che vivono con demenza.

La paura del blushing (rossore): dalla Fobia Sociale al Taijin kyofusho

Ad accomunare la Fobia Sociale e il Taijin kyofusho interviene il sintomo del blushing ovvero il rossore. In effetti si tratta di un sintomo che compare tra i sintomi fisici della fobia sociale e che caratterizza un sottotipo di Taijin kyofusho.

Le emozioni, sebbene costituiscano una dimensione assolutamente basilare dell’esistenza umana e sebbene siano state oggetto di riflessione, sono state trascurate fino a tempi relativamente recenti dalla psicologia, senza dimenticare rilevanti eccezioni come Darwin, James e Freud.

Darwin nelle sue teorizzazioni infatti era intenzionato a dimostrare come le espressioni delle emozioni nell’uomo erano analoghe a quelle degli animali. In questo Darwin deduceva come l’uomo e l’animale derivassero da un antenato comune (Black , 2003). Partendo dall’osservazione sulla frequenza e sulla complessità delle condotte emotive in numerose specie animali, Hebb (1949) giunse alla conclusione che l’uomo è il più emotivo degli animali, anche grazie allo sviluppo filogenetico di sofisticati centri nervosi. A questa osservazione D’Andrade (1996) aggiunse che le specie più intelligenti sono probabilmente anche quelle più emotive, poiché i due sistemi sono evoluti congiuntamente.

Per Darwin le espressioni delle emozioni potevano essere osservate in maniera chiara nei soggetti psichiatrici perché le loro emozioni erano espresse vistosamente. A questo proposito Darwin cita la descrizione di Sir James Crichton-Browne di pazienti con ‘melancolia’ (depressione) e ‘ipocondria’ che erano caratterizzati dalla contrazione di ciò che egli chiama i muscoli del dolore, che causavano un solco trasversale sulla fronte (Black, 2003).

Una definizione esaustiva di emozione è quella proposta da Kleinginna e Kleinginna: emozione è un insieme complesso di interazioni fra fattori soggettivi e oggettivi, mediati da sistemi neuronali/ormonali che può:

  • Suscitare esperienze affettive come senso di eccitazione, di piacere e dispiacere;
  • Generare processi cognitivi come effetti percettivi emozionalmente rilevanti, valutazioni cognitive, processi di etichettamento;
  • Attivare adattamenti fisiologici diffusi di fronte a condizioni di eccitamento;
  • Condurre ad un comportamento che spesso, ma non sempre, è espressivo, diretto ad uno scopo ed adattivo.

Le emozioni di base secondo Ekman possono essere considerate: la rabbia, il disgusto, la paura, la felicità, la sorpresa e la tristezza.

Un altro autore , Goleman, teorizza l’esistenza di otto famiglie di emozioni:

  • Collera: furia, sdegno, risentimento, ira, esasperazione, indignazione, irritazione, acrimonia, animosità, fastidio, irritabilità, ostilità e, forse al grado estremo, odio e violenza patologici.
  • Tristezza: pena, dolore, mancanza d’allegria, cupezza, malinconia, autocommiserazione, solitudine, abbattimento, disperazione e, in casi patologici, grave depressione.
  • Paura: ansia, timore, nervosismo, preoccupazione, apprensione, cautela, esitazione, tensione, spavento, terrore come stato psicopatologico, fobia e panico.
  • Gioia: felicità, godimento, sollievo, contentezza, beatitudine, diletto, divertimento, fierezza, piacere sensuale, esaltazione, estasi, gratificazione, soddisfazione, euforia, capriccio e, al limite estremo, entusiasmo maniacale.
  • Amore: accettazione, benevolenza, fiducia, gentilezza, affinità, devozione, adorazione, infatuazione.
  • Sorpresa: shock, stupore, meraviglia, trasecolamento.
  • Disgusto: disprezzo, sdegno, aborrimento, avversione, ripugnanza, schifo.
  • Vergogna: senso di colpa, imbarazzo, rammarico, rimorso, umiliazione, rimpianto, mortificazione, contrizione.

In particolare la vergogna, al pari del senso di colpa, dell’orgoglio e dell’imbarazzo è un’emozione cosiddetta speciale; queste sono state definite emozioni dell’autoconsapevolezza perché comportano inevitabilmente un autoriferimento (un giudizio su di sé, un’assunzione di responsabilità) ma sarebbe più opportuno chiamarle emozioni sociali o interpersonali , in quanto esse richiedono necessariamente il riferimento non solo a sé ma anche al giudizio degli altri.

Castefranchi (1990) distingue tra vergogna e imbarazzo:

  • La vergogna può riferirsi non solo ai difetti morali ma anche a semplice goffaggine. Potrebbe essere vista secondo Castelfranchi come una sorta di rammarico (l’emozione sentita quando l’individuo è stato sventato in uno dei suoi obiettivi) oppure potrebbe una sorta di paura (l’emozione sentita come quando può accadere la vanificazione di un qualche obiettivo, ad esempio, l’obiettivo di stima). In altre parole, ci vergogniamo quando abbiamo un rimpianto o temiamo di perdere la faccia davanti agli altri o a noi stessi. In questo senso, la funzione della vergogna è quella di proteggere i nostri obiettivi di stima (essere valutati positivamente dagli altri) e autostima (essere valutati positivamente da noi stessi).
  • L’imbarazzo invece rimanda a una qualche mancanza dell’individuo. Ad esempio una persona può essere imbarazzata quando ha due o più alternative e non sa quali scegliere tra loro. Il tutto si complica se tra le alternative a disposizione ve ne sono alcune orientate su di sé e altre orientate sull’altro. Questo conflitto potrebbe essere la radice dell’imbarazzo.

Queste emozioni se portate all’eccesso possono far conseguire l’evitamento delle situazioni sociali all’interno delle quali potrebbero emergere e il progressivo isolamento dell’individuo: tutto ciò potrebbe portare generalmente a una diagnosi di Fobia Sociale.

A differenza però del Giappone, dove si parla di Taijin-kyofusho (paura delle relazioni interpersonali). Questa sindrome è costituita da quattro sottotipi:

  • Sekimen-kyofu (fobia di arrossire);
  • Shubo-kyofu (fobia di un viso/corpo deforme);
  • Jiko-shu-kyofu (fobia dell’odore del proprio corpo);
  • Jiko-shisen-kyofu (fobia del proprio sguardo).

Taijin kyofusho (対人恐怖症 ) è una sindrome specifica della cultura giapponese. Il termine taijin kyofusho si traduce in disordine (sho) della paura (kyofu) delle relazioni interpersonali (taijin). Coloro che soffrono di Taijin Kyofusho rischiano di essere estremamente imbarazzato da se stessi o dispiacere agli altri. (Iwata, 2011). Questa sindrome è basata sulla paura e sull’ ansia. I sintomi di questo disordine includono :

  • Evitare le gite e le attività sociali;
  • Il battito cardiaco rapido;
  • La mancanza di respiro;
  • Gli attacchi di panico;
  • Il tremore e sentimenti di paura e panico se la persona si trova in mezzo alle persone o in una situazione pubblica.

Taijin kyofusho è comunemente descritta come una forma di ansia sociale (fobia sociale), in cui la persona è preoccupata ed evita il contatto sociale e come un sottotipo di shinkeishitsu (disturbo d’ansia). Tuttavia, invece del timore di essere duramente giudicato dagli altri a causa della loro inettitudine sociale, chi soffre di taijin kyofusho segnala un timore di offendere o danneggiare altre persone. Quindi la messa a fuoco è su come evitare danni agli altri piuttosto che a sé stessi.

Ad accomunare la Fobia Sociale e il Taijin kyofusho interviene il sintomo del blushing ovvero il rossore. In effetti è un sintomo che compare tra i sintomi fisici della fobia sociale e che caratterizza un sottotipo di Taijin kyofusho ovvero il sekimen-kyofu (fobia di arrossire). (Iwata, 2011). Con il termine arrossire s’intende il diventare rosso in viso.

Darwin descriveva il rossore come ‘La più particolare e la più umana di tutte le espressioni‘, in quanto reazione involontaria e che non può essere inibita (Black , 2003). Black riporta anche come la tendenza ad arrossire sia ereditaria e come tutti gli esseri umani, indipendentemente dal colore della pelle, siano dotati di questa reazione innata.

Comunemente vi è la credenza che arrossire sia una risposta indesiderabile, soprattutto se la persona in quel determinato momento è al centro dell’attenzione (Rot , 2015). Molti studi confermano l’associazione del fenomeno del blushing con l’ansia sociale, la tendenza a sperimentare imbarazzo durante le interazioni con gli altri e una sensibilità generale alla valutazione da parte delle altre persone.

Per approfondire il fenomeno del blushing, Rot e colleghi hanno condotto nel 2015 uno studio con un campione di studenti di Psicologia. I risultati hanno mostrato come le principali emozioni correlate al blushing sono l’imbarazzo e la vergogna, sopra descritte (Rot, 2015). Nel campione osservato i soggetti mostravano il blushing in media circa una o due volte al giorno, in particolare in situazioni in cui i soggetti (per la maggior parte donne) erano in interazione con individui del sesso opposto oppure con un individuo con uno status più elevato. Si è visto anche che il blushing veniva ignorato da entrambi gli attori in queste situazioni. Da questo studio è emerso come i soggetti che arrossiscono frequentemente possano giungere a credere che non dovrebbero arrossire, in quanto questo secondo loro rappresenta un segno di debolezza.

L’arrossire è altresì considerato da questi soggetti un difetto caratteriale (Rot,2015). L’incidenza maggiore del blushing è osservabile tra gli adolescenti e i giovani adulti ed è maggiormente diffuso nel sesso femminile. Le persone che arrossiscono frequentemente potrebbero sviluppare la paura del blushing. Le persone accomunate da questa paura risultano essere accomunate da un comportamento sociale non dominante e sottomesso, dal percepire sé stessi come deboli e da scarse capacità di affiliazione.

Riguardo la percezione della socializzazione negli individui con un blushing molto sviluppato, Glashouwer nel 2011 ha condotto uno studio per approfondire le associazioni automatiche tra il blushing e i rapporti interpersonali. In questo studio è stato osservato come gli individui che arrossiscono di frequente temono di essere considerati delle persone incompetenti, non piacevoli e inaffidabili. I risultati hanno mostrano come gli individui con una forte tendenza al blushing si aspettano pesanti costi sociali da parte degli altri dovuti proprio a questa loro caratteristica. Quindi costoro credono che dopo la reazione di blushing si possano innescare delle reazioni negative da parte di chi li osserva, fino ad arrivare all’esclusione da parte del gruppo di riferimento. Questo non fa altro che aumentare la paura del blushing e rende ancora più probabile la comparsa del rossore.

Tutto ciò porta gli individui con tendenza al blushing a sviluppare delle credenze disfunzionali riguardo questa reazione innata. Credenze che non sempre sono coerenti con la realtà sperimentata dall’individuo, in quanto costui è talmente concentrato sulla sua paura di arrossire e sulle conseguenze sociali negative che ne potrebbero derivare da non prendere in esame la possibilità che invece le altre persone potrebbero apprezzare questa caratteristica. Infatti la società interpreta come accettabile il blushing e a volte può avere anche un valore correttivo soprattutto se accade dopo una trasgressione. Rot (2015) afferma come il blushing possa addirittura arrivare ad avere un effetto benefico sulla riparazione delle situazioni sociali.

Col cavolo la cicogna! Raccontare ai bambini tutta la verità su amore e sessualità (2009) – Recensione

Marta Villa ed Elisabetta Lunghi

Quante volte ci è capitato di assistere a richieste degli alunni su come nascono i bambini e tutto ciò che riguarda la loro crescita, le relazioni intime, sia dal punto di vista sentimentale che fisiologico…la verità è che noi adulti non siamo abbastanza preparati!

Cioè in pratica sappiamo tutto ma poi a spiegare le cose si fa una gran fatica e molto spesso ci rendiamo conto di far fatica a cambiare piano… ossia innalzarci al piano dei bambini. Chi fa interventi nelle scuole in ambito affettivo sessuale ha una gran responsabilità perché purtroppo ancora oggi in molte famiglie non si parla di relazioni, sentimenti, emozioni, sessualità, perciò questi incontri rappresentano a volte una delle poche possibilità per informare i bambini affiché si sviluppi una crescita consapevole e sana.

I genitori negli incontri di restituzione confessano di essere molto imbarazzati e di non sapere da dove iniziare ad introdurre l’argomento con i propri figli…così lasciano correre sperando che qualcun altro svolga questa parte. ‘Col cavolo la cicogna!’ ci è apparso un’ottima occasione, come tutti i libri del dottor Pellai, per poterci formare su questi temi e suggerirlo alle famiglie in cui, appunto, i bambini assistono dal vivo al processo della nascita di un fratellino.

La protagonista del libro è Alice, una bambina di nove anni, che avrà un fratellino o una sorellina. Quando i genitori annunciano la sorpresa, nella testa della bimba si affollano milioni di domande sulla nascita del fratellino. Le sue domande sono legate a ciò che vede: come è entrato il semino dentro la pancia della mamma? come uscirà e le farà male? Dovranno fare un taglietto alla mamma?. Alice ha la fortuna di avere due genitori molto attenti e disponibili che le forniscono insieme alla sua insegnante molte risposte puntuali ed esaustive sugli argomenti come l’amore, la sessualità e il corpo umano.

Il libro è una scoperta di tutta la sfera intima, dalle emozioni all’innamoramento, dai cambiamenti corporei associati alla crescita alle differenze tra maschi e femmine, al concepimento, fino alla gravidanza e alla nascita. Il libro è a prova di bambino perchè ha attività divertenti e filastrocche che stimolano la riflessione e permettono al bambino di avere delle informazioni corrette per uno sviluppo sano della sfera affettiva. Bello e rassicurante. Materiale molto utile!

Nuove prospettive sulle cause della depressione maggiore e il suo trattamento

Irene Rossi

 

Una recente pubblicazione fatta dai ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme, porta a sostenere che la depressione maggiore sia causata da anomalie nelle cellule immunitarie del cervello (microglia), con significative conseguenze sui possibili trattamenti e lo sviluppo di una nuova generazione di psicofarmaci.

La depressione maggiore, che affligge una persona su sei almeno una volta nell’arco della vita, è la principale causa di disabilità al mondo, superando malattie cardiovascolari e respiratorie, cancro e HIV / AIDS combinati.

In un rivoluzionario articolo di revisione teorica, pubblicato sulla rivista Trends in Neurosciences, i ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme suggeriscono che il progresso nella comprensione della biologia della depressione è stata lenta e che richiede un’estensione aldilà delle anomalie nel funzionamento dei neuroni. Il contributo di altre cellule cerebrali, spesso trascurate dai ricercatori, può essere più rilevante nel causare la depressione.

Tuttavia questo non significa che tutti i sottotipi di depressione o altre malattie psichiatriche siano originati da anomalie in queste cellule, ma tali ipotesi, supportate anche da altre ricerche precedenti, non possono essere ignorate. La nuova ricerca, svolta dal gruppo del Prof. Yirmiya, potrebbe avere un profondo impatto sul futuro sviluppo di farmaci anti-depressivi. I farmaci attuali non hanno sempre l’effetto desiderato sui pazienti, per cui vi è un urgente bisogno di scoprire i meccanismi biologici e nuovi obiettivi farmacologici per diagnosticare la causa principale della depressione e per il trattamento appropriato di pazienti depressi.

Le cellule della microglia, che comprendono il 10% di tutte quelle del cervello, sono le cellule immunitarie del cervello. Combattono batteri infettivi e virus nel cervello. Esse prevedono inoltre la riparazione e la guarigione di danni causati da lesioni cerebrali e traumi.
Ora sappiamo che queste cellule svolgono un ruolo nella formazione e messa a punto delle connessioni tra neuroni (sinapsi) durante lo sviluppo del cervello, così come nei cambiamenti di questi collegamenti per tutta la vita. Questi ruoli sono importanti per il normale cervello e funzioni comportamentali, tra cui il dolore, l’umore e le capacità cognitive.

Gli studi sull’uomo, utilizzando lo studio dei tessuti post mortem o tecniche speciali di imaging, hanno dimostrato che quando la struttura o il funzionamento della microglia cambiano, queste cellule non possono più regolare i normali processi cerebrali e il comportamento e questo può portare alla depressione.
In effetti, i cambiamenti nella microglia si verificano durante molte condizioni associate con alta incidenza di depressione, tra cui infezioni, lesioni, traumi, invecchiamento, malattie autoimmuni come la sclerosi multipla e malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. In queste condizioni, la microglia assume uno stato in cui diventa grande e rotonda, e secerne composti che generano una risposta infiammatoria nel cervello.

La forma e il funzionamento della microglia possono essere modificati anche dopo esposizione a stress psicologico cronico imprevedibile, che è una delle principali cause di depressione nell’uomo. È importante sottolineare che una ricerca nel laboratorio del Prof. Yirmiya recentemente ha anche scoperto che in seguito all’esposizione a tale stress, della microglia muore e le cellule rimanenti appaiono piccole e degenerate.
Questi risultati hanno implicazioni sia teoriche che cliniche. Secondo questa nuova prospettiva, sia l’attivazione che il declino della microglia può portare alla depressione. Pertanto, la stessa classe di farmaci non può trattare la malattia uniformemente.
Un approccio medico personalizzato dovrebbe essere adottato: sulla base di una valutazione iniziale, dovrà essere impiegato un trattamento con farmaci che inibiscono la microglia iperattiva o stimolano la microglia soppressa.

Metacognitive beliefs and Desire Thinking as Predictors of Craving and Alcohol Use – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Metacognitive beliefs and Desire Thinking as Predictors of Craving and Alcohol Use

Ceci G.,Felicetti F., Martino F., Rampioni M., Romanelli P., Troiani L., Caselli G.
Studi Cognitivi, Sede di San Benedetto del Tronto IV anno; London South Bank University
Relatore: Felicetti Federica

Scopo della ricerca è quello di verificare se le credenze metacognitive e il pensiero desiderante sono predittori di craving e uso di alcool nella popolazione clinica e in quella non clinica.

Il Modello Metacognitivo Trifasico per i disturbi alcool correlati (Spada, Caselli & Wells 2012) è stato sviluppato al fine di migliorare la comprensione del funzionamento di tale popolazione clinica e di promuovere trattamenti specifici per questa problematica e descrive da una prospettiva psicologica i tre stati dinamici che caratterizzano il consumo problematico di alcol: anticipazione/desiderio (craving), consumo/intossicazione, astinenza, stati che sono ben conosciuti e descritti anche a livello neurobiologico (Koob & Volkow, 2010), ma che non sono mai stati esplorati in termini cognitivi. Il modello è bastato sulla presenza di tre componenti metacognitive chiave: il pensiero desiderante, processi cognitivi disfunzionali (rimuginio e ruminazione), credenze metacognitive.

In linea con il modello trifasico, lo scopo della nostra ricerca è quello di verificare se le credenze metacognitive e il pensiero desiderante sono predittori di craving e uso di alcool nella popolazione clinica e in quella non clinica. Lo studio è una ricerca osservazionale longitudinale condotta su popolazione clinica con problematiche legate all’uso di alcool e popolazione non clinica.

Il campione è costituito da 50 soggetti con Problematiche legate all’uso di alcol (popolazione clinica) e 150 soggetti senza Problematiche legate all’uso di alcol (popolazione non clinica). L’arruolamento è avvenuto in strutture cliniche (Comunità/ Sert) per il gruppo con Problematiche da uso di alcol e in altri centri per il gruppo di confronto (università/scuole di specializzazione/altro). I soggetti segnalati verranno valutati attraverso una batteria di test costituita da:

  • scheda raccolta dati;
  • Quantity-frequency Scale (QFS);
  • The alcohol use disorders identification test (AUDIT);
  • Penn Alcohol Craving Scale (PACS);
  • Desire Thinking Questionnaire (DTQ);
  • Metacognition about Desire Thinking Questionnaire (MDTQ);
  • Positive Alcohol Metacognitions Scale (PAMS);
  • Negative Alcohol Metacognitions Scale (NAMS);
  • Alcol Metacognitive Monitoring Scale (AMMS);
  • Frustration Discomfort Scale-Revised (FDS-R);
  • Start Signal Questionnaire (SSQ);
  • Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS).

Le valutazioni successive vengono effettuate a 3, 6 e 12 mesi dal T0 e prevedono la somministrazione delle seguenti scale:

  • Quantity-frequency Scale (QFS);
  • The alcohol use disorders identification test (AUDIT);
  • Penn Alcohol Craving Scale (PACS);
  • Desire Thinking Questionnaire (DTQ).

Al fine di verificare le ipotesi, verranno condotte una serie di regressioni multiple volte ad indagare se le credenze metacognitive e il pensiero desiderante sono predittori di craving e abuso di alcol nelle fasi successive. La sintomatologia ansioso-depressiva e la scarsa tolleranza della frustrazione verranno considerate come covariate di tale relazione.

 

Il catalogo dei cercatori Parte II – Tracce del Tradimento Nr. 30

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XXX: Il catalogo dei cercatori Parte II

 

La ricerca delle tracce del tradimento può assumere il colore mentale dell’ossessione. Se si è nell’incertezza si dubita di se stessi, della propria dignità e amabilità, e dell’altro e della sua fedeltà, e si cerca di aumentare il controllo sui fatti per ridurre l’incertezza e sentirsi maggiormente competenti, forti, fiduciosi nei propri mezzi, competenti nel controllo della propria esistenza. Il rimuginio accompagna il cercatore di tracce ed è il suo compagno mentale.

Possiamo definire il rimuginio come una attività mentale verbale astratta con contenuti catastrofici riguardanti il futuro. Il rimuginio nasce come tentativo di prevedere il futuro in modo più preciso e minuzioso, per ridurre l’incertezza che si presume catastrofica, per tenere sotto controllo le proprie emozioni negative. È presente negli ansiosi e nei disturbi dell’alimentazione e nelle ossessioni. Quando si rimugina ci si allontana dal mondo reale e si va nel mondo mentale e astratto delle proprie più catastrofiche paure, si va a vivere in un altro posto minaccioso e doloroso e più si sta nel mondo della paura più la paura che si voleva scacciare, aumenta.

Tutto questo diventa più grave quando ci si trova in situazioni di reale stress esistenziale, come ad esempio il timore dell’abbandono da parte del proprio compagno di vita. Il problema di questo fenomeno è che essendo mentale e astratto porta con sé una tendenza al distacco dalla realtà, dal sano pragmatismo che ci fa sdrammatizzare le cose e ci consente di affrontarle. Ci si allontana in un mondo mentale pieno di contenuti catastrofici e in modo ripetitivo si orienta la propria attenzione agli aspetti negativi del futuro, con l’illusione di prepararsi all’azione ma in realtà adottando una preparazione all’azione dannosa e disfunzionale per gli scopi che ci si prefigge. L’atto del cercare che spesso si rivela non portare a nulla di preciso, ma a volte, pur portando a qualcosa di determinato, non annulla il problema del cercatore che più che essere preoccupato del rapporto deve risolvere il dubbio sulla propria non amabilità.

Lo stato mentale del cercatore parte dalla gelosia (e quindi dalla scarsa autostima e dalla scarsa amabilità) ed è volto alla risoluzione dell’incertezza, è accompagnato da rimuginio, angoscia, rabbia e curiosità. Ma questo insieme di emozioni, scopi e comportamenti non prevede strategie organizzate una volta che il dubbio sia sciolto in un senso o nell’altro. Vi è un grande e vasto gap tra l’accuratezza di chi cerca, la capacità di setacciare con assoluta minuziosità la casa e i beni dell’amato e la scasa efficacia della strategia quando per caso un tradimento appaia certo. La conferma ci trova impreparati, nei casi buoni vi saranno rimproveri, rabbia, pianti e accuse, nei casi severi la distruzione di se stessi e di un rapporto che si poteva salvare.
Occorrerà un grande sforzo e concentrazione per affrontare in modo lucido e strategico la nuova fase della conoscenza, facendo sì che non ci si lasci travolgere da sentimenti ed emozioni forti e confusi, ma mettendoli al servizio di una strategia esistenziale che porti alla serenità nel medio o nel lungo tempo.

Stefanella aveva trovato nel cellulare le tracce inequivocabili di un tradimento del marito con una persona che lei da diversi anni sospettava essere nel cuore di lui. La crisi, condotta con rabbia e determinazione, accuse, pianti, botte e ricatti, non consentì nessun tipo di giustificazioni e dialogo al marito. Era in colpa e doveva pagare. La coppia si ruppe con un enorme frastuono per le famiglie, gli amici e i colleghi di lavoro. A tutti lei chiese di schierarsi e se non accettavano li cacciava dalla sua vita per sempre.
La sua esistenza cominciò a svolgersi tra le stanze del suo avvocato, le poche amiche rimaste e la parrocchia. Non riusciva a parlare di nulla che non fosse il torto subito, non riusciva a passare in alcun modo dalla rabbia a sentimenti di mancanza, di perdita o di rassegnazione. La sua vita divenne imbalsamata intorno ai giorni della scoperta. Tutto si fermò. Questa posizione ripetitiva e dolorosa tenuta per più di quindici anni consumò la sua vita e non le consentì in alcun modo di costruirsi alternative, nuovi progetti, nuove speranze e rapporti. La rabbia per il torto subito dal tradimento non le consentì in alcun modo di elaborare l’evento doloroso e andare avanti nella costruzione di un progetto alternativo.

Ma come potremmo suddividere i diversi tipi di cacciatore di tracce? Perché si possono trovare delle differenze e delle categorie che corrispondono ovviamente a diversi assetti interni cognitivi ed emotivi. Risponderemo con i prossimi articoli.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Dopo l’expo? Inizia l’hangover da sbornia emotiva

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  01/11/2015

 

L’Expo è stata una sbornia emotiva, oltre che economica. E una sbornia relazionale…Ci voleva tale sbornia dopo anni di depressione e tedio di noi stessi. Ora però ci tocca gestire l’hangover.

L’Expo ci ha fatto bene, ha dato energia ed euforia. Non si tratta solo di dati economici. Bisognosi come siamo d’incoraggiamento e di approvazione, sentirci con l’Expo ammirati e stimati ci ha fatto bene. Ci voleva una sbornia dopo anni di depressione e tedio di noi stessi. Ora dobbiamo gestire l’hangover, gli effetti fisiologici spiacevoli dopo una nottata di dissipazione passata a consumare bevande alcoliche. Mal di testa, nausea, letargia, irritabilità e intollerabilità di ogni minimo fastidio, fosse anche un po’ di luce e rumore, e poi tanta sete.

Non si è mai capito bene da cosa dipende l’hangover. Fisiologicamente, si parla di disidratazione, ipoglicemia, intossicazione da acetaldeide e infine carenza di vitamina B12. Tutti fattori plausibili, anche se insufficienti a spiegare tutto. Almeno così scrive la studiosa Gemma Prat, un’esperta di sbornie che vorrei avere per amica.

L’Expo è stata una sbornia emotiva, oltre che economica. E una sbornia relazionale, se mi passate il termine tecnico. Ovvero un momento in cui ci siamo sentiti al centro del mondo, non affetti dal nostro eterno dubbio di essere un paese anomalo, un paese particolare.

Se dovessi dire quali sono i rischi dell’hangover post-Expo, il principale è quello legato al mancare di questa tribuna psicologica che è stato l’Expo e della quale abbiamo fin troppo bisogno, un luogo che ci rassicuri di non essere anomali, di essere un paese normale.

Tutto questo non ci fa bene. Almanaccare continuamente sull’essere o meno un paese normale, chiedersi continuamente se si è veramente nella norma, rammaricarsi di non essere accettati nel club dei normali a ogni piè sospinto per le occasionali o anche frequenti prese in giro degli altri non ci fa bene. Secondo una nota ipotesi psicologica, non è utile tornare con la mente sui propri supposti difetti, sulle proprie supposte anomalie. È illusoria e ingannevole la sensazione che star lì a concentrare l’attenzione sui propri difetti sia d’aiuto. In realtà è un atteggiamento sterile, perfino dannoso, che perpetua e aggrava i problemi. Somiglia al pensiero propositivo e produttivo, ma non dobbiamo cascarci.

Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo e banalmente giudicante, singolarmente privo di vere informazioni e indicazioni per il futuro. Eppure in esso ci crogioliamo in un eterno hangover auto-flaggellatorio, illudendoci che si tratti di una benefica autoanalisi redentrice e finalmente decisiva, capace di darci quella normalità a cui aneliamo disperatamente.

Ben strana normalità, del resto, che consisterebbe in un essere al centro della stima altrui e nel contempo nell’aderire a un misterioso parametro di civiltà, vagamente corrispondente a quello di una generica sfera di cultura nordica, variamente declinata in base a i gusti personali, ora inclinanti verso il Nordamerica e ora verso il Nordeuropa.

Sarebbe interessante fare una storia sociale di questo secolare rimuginio italiano sull’essere anomali, quasi che la storia si riduca a una dicotomia tra uno sviluppo normale, quello altrui, e uno anormale, il nostro. Al contrario di quel che si crede, quest’attitudine malmostosa e perennemente scontenta nacque in ambienti tendenzialmente di destra. Non di destra liberale o liberal-conservatrice, non nella destra storica di Cavour, Minghetti e Ricasoli che fece l‘Italia e che anzi aveva un atteggiamento poco propenso alla lagna e all’analisi inutilmente ripetitiva e dettagliata di un supposto carattere nazionale più o meno tarato. L’ossessione nacque semmai in ambienti nazionalistici che rinnegavano l’Italietta liberale a loro parere non all’altezza del suo alto destino. Solo recentemente questa attitudine si è spostata a sinistra, quasi a riempire un vuoto ideologico creatosi dopo il crollo del muro. Questo però è un altro articolo, torniamo al nostro hangover post-Expo.

In poche parole, dell’Expo possiamo prendere quel che c’è di buono e che in fondo si riduce a quel che si è fatto, sia per la coscienza alimentare del pianeta che per l’economica di questo paese e di Milano. Il resto sono chiacchiere, rimuginii, parole e vuoti rammarichi senza un perché, anche se apparentemente lo hanno. Un hangover è un hangover, uno stato d’animo passeggero sul quale non si deve costruire una narrazione di se stessi e della nostra nazione. Racconti simili, se proprio necessari, abbisognano di appuntamenti meno effimeri.

Gone Girl – L’amore bugiardo e la gelosia: una matrioska di sentimenti patologici – Cinema & Psicologia

Caterina Poli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Le persone che vivono un amore patologico, arrivano ad appellarsi a comportamenti aggressivi, eccessivi, vendicativi, distruttivi ed estremi per riportare l’attenzione della persona amata su di sè. Ma si può definire amore?

Non sono gelosa. Chiedilo alla tua amica. La sua testa è in frigo.”
Questa freddura, che gira nei social network, è stata scritta da un anonimo che, in chiave divertente, voleva sdrammatizzare una dinamica tutt’altro che allegra: la gelosia patologica, “mostro dagli occhi verdi” shakespeariano.
Di primo acchito provoca un sorriso, soprattutto nelle donne che si immedesimano in un sentimento così intenso ma di difficile espressione, per la forte componente di imbarazzo e vergogna che suscita l’ammettere di sentirsi in uno stato di inferiorità, in un vortice di insicurezze che mantiene vigili davanti a ogni rischio o pericolo di perdita dell’amato.

In un secondo momento innesca, invece, un processo di riflessione: cosa scatta nelle persone quando vedono a rischio il rapporto con il partner?
La conflittualità con i rivali, visti come possibili avversari e pericolose alternative, seppur spesso sia solo frutto di un’immaginazione spiccata del geloso stesso e non in linea con il piano di realtà, porta a sintomatici vissuti, frutto di discussioni accese tra i partner. L’irrazionalità dell’amore sta nell’incapacità di autocontrollarsi davanti a pensieri pervasivi che devastano mentalmente l’individuo.

Per spiegare la gelosia patologica bisogna prima fare un passo indietro e definire la gelosia, in modo tale da tracciare un confine tra ciò che si reputa normale e ciò che sfocia nell’anormalità. Ma prima ancora bisogna fare una digressione sull’amore patologico, da cui sfuma la gelosia. Una matrioska di sentimenti ambivalenti, tra il lecito e l’illecito, il morale e l’amorale.

Le persone che vivono un amore patologico, arrivano ad appellarsi a comportamenti aggressivi, eccessivi, vendicativi, distruttivi ed estremi per riportare l’attenzione della persona amata su di sè. Ma si può definire amore? Spesso si assiste a casi di coppie in cui il partner prende in ostaggio i sentimenti dell’altro, con ricatti, bugie e presunzione, ma come può ritenersi un rapporto destinato a durare nel tempo? Un recinto dalle mura invalicabili dove giochi di brutto tiro intrappolano in rapporti senza fine e senza amore. Si sta insieme più per apparire socialmente invidiabili, culturalmente affascinanti all’apparenza, ma chiusa la porta di casa nessuno vorrebbe fare i conti con una realtà sempre più all’ordine del giorno, quelle coppie che si dichiarano amore incapaci poi di costruire giorno per giorno ciò di cui realmente una coppia necessita.

Su queste premesse, il regista David Fincher, ha creato ad hoc le fondamenta del suo capolavoro cinematografico : “Amore Bugiardo-Gone Girl”, interpretato da Ben Affleck nelle vesti di Nick e Rosamund Pike nelle vesti di Amy, una coppia legata da un matrimonio problematico a tal punto che allo scoccare del quinto anniversario Amy scompare.

SPOILER ALERT: L”ARTICOLO SVELA LA TRAMA DEL FILM

Nick inizialmente viene indagato come presunto omicida visti gli indizi disseminati per la casa e la sua relazione extraconiugale con una sua studentessa, che giustificherebbe il suo bisogno di sbarazzarsi della moglie, risultata incinta. La cruda verità dei fatti però è che l’accaduto è un diabolico e vendicativo piano di Amy che, vedendo il marito freddo, distratto e soprattutto infedele, ha messo in scena tutto, dal campione falso di urine per simulare una gravidanza fino ad arrivare a un diario segreto, lasciato in bella vista, dove esterna malessere e paura di una relazione ormai vicina alla tragica e inevitabile fine.

Dopo aver camuffato il suo aspetto, Amy fugge e si rifugia dapprima in un residence poi da Desi Collings, un suo amante del passato, facendogli credere di esser pedinata. Durante un’ennesima intervista tv a Nick, richiesta da quest’ultimo per cercare di convincere disperatamente l’opinione pubblica della sua innocenza, Amy ne rimane colpita e si riscopre attratta dal marito e pronta a tornare da lui. Così, per giustificare il suo rapimento, simula una sorta di prigionia da parte di Desi, uccidendolo senza scrupoli con un taglio alla gola e numerose coltellate in camera da letto, non prima di aver creato ad arte i segni delle sofferenze di altri presunti atti violenti. Amy torna a casa a un mese dalla sua scomparsa e racconta agli agenti dell’FBI la sua falsa storia, ma la sua bugia non regge con Nick, il quale, recita davanti a tutti la parte del marito che ritrova la sua amata, ma, in separata sede, smaschera Amy, che, spalle al muro, non mancherà di farlo sentire sotto ricatto e obbligarlo dunque a nascondere il tutto. Nick non trovando il coraggio di abbandonarla finge che la situazione sia tornata alla normalità, e davanti a tutti dichiarano amore reciproco annunciando che aspettano un figlio, stavolta per davvero, concepito da Amy con lo sperma di Nick conservato in una clinica.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER

Questa trama altamente complicata e piena di intrecci, parte da una situazione di vendetta di un’infedeltà che sembrerebbe una delle più tipiche reazioni alla scoperta di un tradimento, per di più prolungato nel tempo, del proprio partner, ma in realtà sfocia in una delirante reazione di follia della moglie. Il folle progetto architettato da Amy rasenta la patologia. Ogni sua azione è irreale, dall’omicidio di Desi, uomo capitato per caso nella sua strada e colpevole di amarla troppo, fino a tutti gli stratagemmi pungenti con cui tenta di intrappolare il marito. Paradossalmente accade un fenomeno spesso presente nelle coppie, dalla noiosa quotidianità priva di sentimenti, si passa attraverso tranelli e bugie, filo conduttore del film, a una situazione in cui si vede riacceso l’amore di Amy, pronta a perdonare il marito del tradimento. Un fuoco che spento, forse mai esistito, attraverso varie peripezie, riappare magicamente. Ma quando, neppure i tranelli e i sotterfugi riescono a calmare le acque di una tempesta emotiva relazionale, di cui l’amore patologico ci ha dato un chiaro esempio, ci troviamo davanti al sentimento della gelosia patologica.

Un ciclo interpersonale disfunzionale che provoca un’instabilità relazionale e una vulnerabilità verso lo scompenso. Il più delle volte, la gelosia affonda le sue radici nell’infanzia, in una cattiva relazione che il geloso ha instaurato con i propri genitori, i quali, non rinforzando in modo appropriato il bambino nel costruirsi una buona fiducia in se stesso e una buona autostima, fanno sì che evolva una personalità inconsapevole del suo valore e profondamente insicura. Ogni soggetto, tende a riprodurre nella sua vita affettiva adulta il tipo di relazione che ha avuto con la figura materna. Secondo la teoria dell’attaccamento, nella nostra vita tendiamo a recitare sempre lo stesso script, copione, quindi, se la mia sceneggiatura è “essere geloso dell’amato”, anche se il mio partner è la persona più fedele del mondo, finirò comunque per sospettarlo. Doucherty ed Ellis, a tal proposito, hanno riportato alcuni casi interessanti di mariti gelosi che accusavano le mogli di vizi inesistenti che però ben si confacevano alle loro madri.

Ma cos’è esattamente la gelosia?
Un sentimento? Una reazione fisiologica? Un’emozione?
Con questa rassegna proverò, appellandomi ad alcuni degli autori che più si sono occupati di questa tematica di definirla nel migliore dei modi.
Secondo gli psicologi Tarrier, Beckett, Harwood e Bishay, la gelosia è [blockquote style=”1″]un complesso emozionale multidimensionale e pervasivo caratterizzato dalla percezione di una minaccia di perdita del partner e sospetti infondati di potenziali rivali che include componenti comportamentali, affettive e cognitive.[/blockquote] La gelosia è fonte di sofferenza non solo per chi la subisce ma anche per chi la prova e, a causa dei suoi effetti distruttivi, è protagonista di molti fatti di cronaca. Secondo Eurispes, infatti, è il movente della maggior parte dei crimini passionali in Italia ed è il sentimento che più provoca disagio soggettivo, imbarazzo, perdita dell’autostima fino al disprezzo di sè.

La psichiatra Marazziti D., la definisce un’emozione normale che serve a diversi scopi: il principale è la stabilizzazione della coppia, attraverso la percezione dei segnali che possono insidiarla. David M. Buss la definisce [blockquote style=”1″]un’emozione negativa solo nel senso che provoca dolore psicologico, mentre invece è estremamente positiva, perché preposta a cogliere ed identificare i pericoli che potrebbero minare la coppia, mobilitando strategie specifiche per mantenerne la stabilità.[/blockquote]

Secondo la teoria delle emozioni, che si chiama cognitivo-fenomenologica, sviluppata principalmente da Richard S. Lazarus, la gelosia viene considerata come [blockquote style=”1″]una serie di risposte emotive e comportamentali che fanno seguito ad una conseguenza di valutazioni e rivalutazioni continue di ciò che accade tra il geloso, il partner e la terza persona che si inserisce tra i due.[/blockquote]

La gelosia è ritenuta patologica quando supera il livello di possessività che è considerato nella norma da una data società o cultura, ed è caratterizzato da tre componenti fondamentali:
– la credenza che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa che abbia importanza nella propria vita;

– la malinterpretazione dell’innocenza dei comportamenti, pensieri e sentimenti dell’amato, vista in chiave di continua sospettosità;

– la percezione della potenziale perdita dell’amato come un evento assolutamente catastrofico per la propria vita.

Si teme a tal punto che un legame possa finire che, senza volerlo, a causa delle proprie tormentate preoccupazioni, accade l’inaccettabile fine.

Il confine tra l’amore avvolgente e il controllo ossessivo è abbastanza sottile, a volte labile. Quando la gelosia diventa esagerata e il sospetto e la sofferenza della perdita diventano insopportabili, allora s’innesca la patologia. Secondo Clèarambault, il geloso patologico si distingue dal normale per [blockquote style=”1″]l’esaltazione passionale prolungata nel tempo, con contenuti di pensiero coatto e vischioso che tendono ad autoalimentarsi fino ad eliminare ogni feedback con la realtà. Il tutto si traduce sul piano comportamentale, in azioni irrispettose e oltraggiose, spesso brutali nei confronti dell’altro.[/blockquote]

Lorenzi, nell’ambito della psicologia patologica, ha provato a proporre una classificazione comprensibile e ben definita per fare diagnosi di questo disturbo in continua crescita, anche se, ad oggi non viene ancora inserito nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), ritrovandosi però nel disturbo delirante o nel disturbo ossessivo-compulsivo, oppure come sintomo di altri disturbi psichiatrici, come la depressione e il disturbo di panico, o di malattie neurologiche, come il morbo di Parkinson, i traumi cranici, l’alcolismo cronico: in questi casi si parla di gelosia sintomatica o secondaria.

Sempre Lorenzi ha individuato tre diverse declinazioni del fenomeno:
– Iperestesia gelosa (sindrome di Mairet)
– Gelosia ossessiva
– Gelosia delirante (sindrome di Otello)

Chi soffre di iperestesia gelosa vive in un clima di vissuti di gelosia non solo di tipo amoroso. Le idee di gelosia sono nitide, persistenti, prevalenti a forte componente affettiva e spingono ad azioni patologiche. Queste occupano tutto il campo esperienziale del soggetto e gran parte della sua coscienza pur mantenendo un costante confronto con la realtà. Spesso arrivano a essere un vero e proprio stile di vita, quindi onnipresenti in ogni relazione umana significativa che il soggetto andrà a costruire.

Nella gelosia ossessiva le idee di infedeltà sono indiscutibili e il dubbio è lacerante a tal punto che invalida la vita quotidiana dell’individuo. Chi ne soffre è costantemente alla ricerca di segnali che possano affievolirlo, confermarlo o smentirlo. Nonostante vi sia un riconoscimento dell’infondatezza dei loro sospetti e sono consapevoli della loro assurdità e ne provano vergogna, non riescono a modificare la loro condotta e sono tormentati da un dubbio di una potenza tale che li trascina in un abisso che li porta a frequenti interrogatori al partner, a controlli minuziosi che occupano la maggior parte del loro tempo.

Nel caso della gelosia delirante, vi è una ricerca continua e ossessionante di prove che confermino l’infedeltà del partner, perseguita spesso con modalità inusuali e la totale impossibilità di accettare un possibile dubbio, anche di fronte a ogni evidenza contraria o alla totale assenza di ogni indizio concreto. Raramente l’idea di infedeltà è associata a un unico e specifico rivale, ma in genere è vaga e al partner vengono attribuite varie relazioni più o meno transitorie e occasionali. Il comportamento del geloso delirante non è teso alla scoperta di qualcosa che si dà già per certo, ma piuttosto di far ammettere al partner la colpa, motivo per cui quest’ultimo viene continuamente assillato da interrogatori e da costanti richieste di confessioni. I deliri di infedeltà possono rappresentare i segnali di una schizofrenia latente, o apparire come nuovi tratti di psicosi già strutturate. I disturbi emotivi completano il malessere associato al delirio: la depressione, ad esempio, con i suoi vissuti di inadeguatezza e fallimento, può contribuire all’insorgenza o al peggioramento della gelosia delirante. Nel 1891 Krafft-Ebing sottolineò il legame tra alcol e gelosia, riportando che ben l’80% di uomini alcolizzati soffriva di una grave forma di delirio di gelosia, molto stabile nel tempo, ma gli studi più recenti hanno ridimensionato la percentuale abbassandola. Questo perché un tempo si pensava che l’alcol avesse un ruolo specifico nello scatenare la gelosia facendo emergere sospetti, facilitando errori di giudizio e alterando la percezione delle situazioni, oggi invece si pensa disinibisca solo l’individuo che, liberato dal proprio autocontrollo, riesce così a esprimere sospetti preesistenti, poiché sono spesso i problemi coniugali a portare all’alcolismo. Altre forme sono quelle scatenate dall’abuso di sostanze stupefacenti, come la cocaina o le anfetamine. I deliri di gelosia rispondono molto bene alla terapia con farmaci antipsicotici.

I ricercatori dell’Università di Pisa, Donatella Marazziti, Michele Poletti, Liliana Dell’Osso, Stefano Baroni e Ubaldo Bonuccelli, hanno pubblicato sulla rivista “Cns Spectrums” , della Cambridge University Press, i risultati di un loro studio in cui hanno individuato le zone del cervello dove nasce la gelosia patologica avvalendosi dell’utilizzo della risonanza magnetica funzionale. Attraverso le loro ricerche su alcolisti, schizofrenici e pazienti con il Parkinson, dove spesso sono presenti tratti di gelosia patologica, gli psichiatri hanno scoperto che è implicato soprattutto un trasmettitore, la dopamina, con un ruolo nello sviluppo della psicosi. Hanno evidenziato, in particolare, come il cervello di chi fa della gelosia un’ossessione sia programmato per assumere atteggiamenti impulsivi e fuori dal controllo razionale. Secondo questo studio gli eccessi di gelosia delirante sono causati quindi da uno squilibrio biochimico all’interno della corteccia prefrontale, ovvero un’area del cervello che sovraintende i processi cognitivi ed affettivi.

Già nel 1912, uno psichiatra tedesco, Emil Kraepelin, aveva collegato la gelosia ad alterazioni del cervello e all’abuso di droghe.
In alcune specie di topi al posto della gelosia abbiamo l’effetto Bruce: i maschi secernono una sostanza che, annusata da una femmina gravida, la fa abortire, ma solo se l’odore è diverso da quello del maschio che l’ha messa incinta. Questo permette al topo che induce l’aborto la possibilità di fecondare lui stesso quella femmina. Quindi, quel che noi esseri umani viviamo come sentimento della gelosia, in altre specie può essere un puro meccanismo fisiologico. Per questa ragione non possiamo ridurre la gelosia al sentimento geloso.

Sempre secondo la psichiatra Donatella Marazziti, si attivano anche i sistemi regolatori dell’ansia, della paura e dell’innamoramento. Infatti il soggetto geloso è molto simile ad un paziente ansioso, dal momento che spesso vive in uno stato di allarme continuo che ricorda il disturbo d’ansia generalizzato o l’ansia anticipatoria del disturbo di panico: questo suggerisce che entrino in gioco alcuni neurotrasmettitori come la noradrenalina, una sostanza che serve a risvegliare il cervello, a mantenerlo vigile, se necessario pronto a scattare all’attacco o alla fuga. Oppure, la reazione del geloso, è simile a quella che avviene nell’ansia di separazione, quando ad esempio da piccoli non sopportiamo di essere allontanati dai nostri genitori; si ritiene che in questa condizione svolgano un ruolo importante sostanze come i neuropeptidi oppioidi, le cosiddette morfine endogene.

Per certe caratteristiche, poi, il geloso può ricordare un paziente ossessivo o depresso: i neurotrasmettitori candidati sono in questo caso la serotonina, il cui compito è in genere quello di renderci più moderati, smorzando tutte le reazioni impulsive e la dopamina che attiva l’attenzione ed il senso del piacere. Donatella Marazziti, a tal proposito, ha somministrato un questionario a 400 studenti universitari ed a pazienti affetti da gelosia ossessiva, chiedendo loro di porre attenzione alla gelosia legata alla relazione attuale. Il questionario utilizzato era il “ Questionario sulle relazioni affettive”, composto da una prima sezione per la raccolta dei dati demografici, e da un’altra parte composta da 30 domande finalizzate all’identificazione di alcune caratteristiche fondamentali della gelosia.

A conferma delle aspettative, i pazienti avevano un punteggio totale superiore agli studenti e, in particolare, passavano più tempo a pensare al tradimento del partner, a tal punto che le loro attività quotidiane erano compromesse; provavano una sofferenza marcata; temevano molto di più di non essere sessualmente attraenti; parlavano meno volentieri dei loro problemi legati alla gelosia ed anche della gelosia in generale; tendevano, infine, a limitare la libertà del partner e a controllarlo.

Esiste anche una pista biochimica legata al tasso di estrogeni. David Gearly e altri quattro psicologi della University of Missouri-Columbia hanno studiato il livello ormonale di 282 studenti, invitandoli a compilare un questionario sulle relazioni sessuali e la gelosia. Hanno scoperto che le 62 ragazze che usavano la pillola anticoncezionale erano molto più gelose delle altre: quindi, secondo i ricercatori, è l’alto tasso di estrogeni, contenuti nella pillola, che condiziona il grado di gelosia femminile.

Alcuni studiosi, poi, si sono soffermati su quelle che sono le differenze di genere. David Buss si interrogò a riguardo già negli anni ’80 e i suoi studi sono stati ripresi anche da Grazia Attili, che nel 1998 fece una ricerca su 300 studenti dell’Università di Roma, equamente divisi tra maschi e femmine, in cui chiedeva di rispondere a una semplice domanda: “Cosa ti disturba e rende geloso?” in relazione a due eventualità: la prima in cui vieni a sapere che il/la tuo/a partner ha rapporti sessuali con un’altra persona, la seconda in cui vieni a sapere che il/la tuo/a partner ha un legame affettivo intenso e forse è innamorato/a di un’altra persona. E’ risultato che il 95% delle ragazze era sconvolto dalla seconda circostanza e solo il 32% dalla prima. Al contrario, il 65% dei ragazzi era disturbato dalla prima eventualità e solo il 45% dei ragazzi dalla seconda. Altri ancora, tra cui Peter Salovey, attraverso alcuni studi, si sono interrogati sulle differenze tra gelosia e invidia, termini spesso usati erroneamente come intercambiabili.

Mentre l’invidia riguarda ciò che si vorrebbe avere ma non si ha, la gelosia riguarda ciò che si ha e non si vorrebbe perdere. La gelosia, quindi, è un soffrire per una perdita possibile, l’invidia un soffrire per una mancanza attuale, di qualcosa che un altro ha.

Carla Diazzi del Dipartimento di Psicologia Generale di Padova, insieme ad alcuni colleghi ha elaborato un modello per la costruzione di uno strumento di tipo cognitivo-comportamentale, per l’assessment della gelosia patologica, partendo dagli studi sulla depressione di Beck. L’idea su cui si basa questo studio è che i gelosi morbosi abbiano sviluppato nel tempo uno schema cognitivo, basato su assunzioni erronee, a causa di dinamiche culturali, esperienziali e di personalità, che li porta a interpretare in modo non corretto gli eventi. Per questo motivo i comportamenti innocenti e neutri del partner vengono costantemente percepiti come una minaccia alla relazione o con sospetto causando reazioni emozionali e comportamentali eccessive che vanno ad infierire con il normale funzionamento del soggetto e della coppia. Da queste premesse è stato elaborato un test multidimensionale di 64 item suddivisi in 4 sezioni. La prima composta da una scala cognitiva, valuta la frequenza dei pensieri erronei. La seconda, composta da una scala emozionale, valuta l’intensità delle emozioni di paura, tristezza e rabbia sperimentate dal soggetto davanti a una situazione ipotetica di minaccia alla relazione. La terza composta da una scala comportamentale, chiede di valutare la frequenza con cui si manifestano comportamenti investigativi e di conferma, di evitamento e aggressivi contro il partner o i potenziali rivali. L’ultima sezione valuta la frequenza con cui le ruminazioni di gelosia si ripercuotono sulla vita dell’individuo e sull’armonia della coppia. Questo strumento di comprovata validità e attendibilità è in attesa di taratura italiana e di un suo futuro utilizzo in ambito psicodiagnostico.

I rischi infine, associati alla gelosia patologica, sono numerosi e si distinguono in:
-Comportamenti confirmatori, tra cui troviamo comportamenti di investigazione come interrogatori al partner, ripetute telefonate a lavoro, visite a sorpresa, fino a stalking o consultazione di detective privati; di controllo di vestiti, diari, corrispondenze del partner, ispezioni della biancheria e in casi estremi anche dei genitali per trovare prove a favore di un’attività sessuale illecita o l’utilizzo di strumenti di registrazione nascosti per raccogliere informazioni su eventuali relazioni clandestine.
– Depressione, ansia, fobie, facile irritabilità, agitazione.
-Evitamenti delle situazioni che possono provocare gelosia, come ad esempio, negozi/giornali che possono contenere immagini di persone giovani attraenti, o programmi televisivi/film per loro potenzialmente dannosi, o i contesti in cui si teme possa esser presente un possibile rivale. Comportamenti di questo genere non permettono la disconferma dei pensieri intrusivi, e quindi portano alla falsa credenza che l’infedeltà sia tenuta sotto controllo grazie proprio all’evitamento delle situazioni rischiose. Un circolo vizioso senza via d’uscita.
-Discussioni e accuse possono spesso sfociare in violenza fisica e verbale. Non di rado la gelosia patologica è correlata all’abuso coniugale e all’omicidio. Le donne, che rappresentano la maggioranza delle vittime, riferiscono raramente le proprie esperienze di abuso, sviluppando sintomi di impotenza, ansia, depressione, estrema passività e uso di sostanze alcoliche. La violenza legata alla gelosia non è solo fisica: spesso, infatti, il sopruso è più difficile da individuare perché viene inferto a livello psicologico, come emerso dai dati Istat. Le strategie comprendono: la denigrazione, il controllo di alcuni comportamenti, l’intimidazione e l’isolamento che può arrivare alla segregazione.

Ad oggi, la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato di essere molto efficace nel trattamento della gelosia patologica, soprattutto quando le ossessioni sono preminenti o se vengono individuati tratti di personalità borderline o paranoici. Anche la terapia di coppia, è un’ottima strada per la risoluzione dei conflitti relazionali.

Come emerge da questa rassegna, la gelosia patologica è una tematica su cui stanno uscendo dati sempre più avvincenti e stravolgenti e su cui tante scoperte si faranno ancora. Inevitabile quindi la conclusione di quanto sia importante all’interno dell’amore un sano sentimento di possessività e gelosia perché sentirsi l’esclusivo oggetto d’amore di una persona è il sogno di tutte le persone, e Bowlby con la sua formidabile teoria dell’attaccamento, lo insegna. Liotti stesso nella sua teoria dei “Sistemi Motivazionali Interpersonali” (SMI), evidenzia come il sistema di attaccamento e di riflesso di accudimento siano indispensabili nella vita di ogni singolo individuo, avere una base sicura da cui poter trarre le cure adeguate e il sostegno per affrontare le inevitabili peripezie della quotidianità in questi tempi di crisi politica, economica, sociale è una buona ancora di salvezza a cui appigliarsi e farsi forza. Ogni coppia attraversa tempi di crisi amorosa e sospetti ma finchè c’è ricongiungimento c’è speranza. Un motto banale, ma veritiero.

La relazione tra una dieta ricca di grassi e sintomi ansioso-depressivi

Sabrina Guzzetti

 

Un recente studio sui topi, da pochi giorni accettato per la pubblicazione sulla rivista British Journal of Pharmacology, rivela che l’iperglicemia e l’aumento del peso corporeo, conseguenti all’ assunzione di un regime alimentare ad alto contenuto di grassi, pare poter determinare la comparsa di sintomi ansioso-depressivi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il diabete mellito e i disturbi dell’umore interessano circa 350 milioni di persone, con un impatto sulla salute pubblica e i costi socio-sanitari in costante aumento negli ultimi anni. Dalla letteratura sul tema si apprende che le due patologie paiono essere spesso compresenti e caratterizzate da una connessione reciproca di tipo bidirezionale: se da una parte i disturbi depressivi, specie se insorti precocemente nel corso della vita, risultano associati ad un incremento del rischio di sviluppare il diabete, dall’altra è stato anche osservato che una porzione rilevante di pazienti con diabete (fino al 30% del totale) soffre anche di un disturbo depressivo maggiore.

I due disturbi, inoltre, risultano associati a diverse alterazioni del sistema serotoninergico cerebrale, e potrebbe essere proprio questo il meccanismo alla base di tale frequente comorbidità. Ciò che fino a poco tempo è rimasto tuttavia sorprendentemente pressoché inesplorato, è la possibilità che il diabete possa alterare l’efficacia dei farmaci antidepressivi, costituiti spesso dai cosiddetti inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (quali Escitalopram o Sertralina) o che possa addirittura arrivare ad elicitare una sintomatologia di tipo depressivo o ansioso.

Nel recente studio, firmato dal Dr. Bruno P. Guiard, alcuni topi sono stati nutriti secondo un regime alimentare ad alto contenuto di grassi e sottoposti ad analisi metaboliche e comportamentali periodiche, unitamente ad un monitoraggio dei livelli extracellulari di serotonina a livello cerebrale. Dai risultati ottenuti è emerso che l’aumento della massa corporea e della glicemia, conseguente ad un’alimentazione ricca di grassi, si è accompagnato, come ipotizzato, alla comparsa di sintomi ansioso- depressivi, con un parallelo decremento dei livelli extracellulari di serotonina.

In seconda battuta è stato dunque testato se l’assunzione di farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (escitalopram) e/o la riduzione dell’apporto di grassi attraverso la dieta potessero invertire le anomalie metaboliche e comportamentali precedentemente indotte. Dai risultati è emersa un’efficacia dei farmaci pressoché nulla in presenza di una dieta ricca di grassi; al contrario, l’adozione di un regime dietetico più bilanciato si è dimostrata in grado di invertire quasi completamente i disturbi metabolici e di ridurre significativamente anche i sintomi ansioso-depressivi.

Questo studio ha fornito una chiara evidenza della correlazione esistente tra diabete e depressione, almeno in riferimento a quei casi in cui il diabete viene indotto da un regime alimentare eccessivamente sbilanciato a favore dei grassi.

[blockquote style=”1″]Questa scoperta rinforza l’idea che la normalizzazione dei parametri metabolici possa dare maggiori chance di giungere ad una remissione dei sintomi depressivi, specie nei pazienti affetti da diabete. Questa patologia pare per altro attenuare l’azione antidepressiva degli psicofarmaci, con importanti ricadute sul piano della pratica clinica[/blockquote] dice il Dr. Guiard.

La categorizzazione dell’informazione – Introduzione alla Psicologia nr. 32

Categorizzazione dell’informazione: la categorizzazione dell’informazione in memoria permette di effettuare delle inferenze partendo da una serie di proprietà degli oggetti che appartengono a una data categoria. La categorizzazione, dunque, consente di interagire con gli oggetti attribuendo loro un nome.
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 32)

 

Nelle scorse settimane su questa rubrica abbiamo parlato delle differenze tra memoria semantica e memoria episodica, di memoria autobiografica, di memoria a breve/lungo termine e working memory e di memoria implicita e esplicita (ndr).
Ora, ci dedicheremo alle modalità di categorizzazione dell’informazione in memoria.

È noto che non categorizzando gli oggetti sarebbe impossibile conoscere, imparare e effettuare ragionamenti.
la categorizzazione permette, insomma, di unire tutti gli oggetti con caratteristiche comuni e con funzioni simili, consentendo in questo modo di usufruire di denominazioni adeguate alla categoria specifica usata (Anderson 1991).

I vantaggi cognitivi della categorizzazione sono:
– economia cognitiva: massimizza l’informazione con il minimo sforzo cognitivo;
– percezione del mondo che non sarà recepito come un insieme di oggetti indistinti, ma formato da classi, categorie, di elementi correlati tra loro.

Le teorie sulla categorizzazione dell’informazione

Di seguito le più importanti teorie sulla categorizzazione.

Secondo la teoria classica, definita anche rule based, ogni oggetto è formato da un insieme di proprietà, che rappresentano le caratteristiche semantiche necessarie per essere considerato come tale (Keane and Eysenck 2005). Il processo di categorizzazione si basa sul riconoscimento di caratteristiche comuni agli oggetti, grazie alle quali possono essere inseriti in categorie prestabilite (Ashby and Maddox 1998).

Dai limiti della teoria classica nasce la teoria dei prototipi e degli esemplari. Secondo la teoria dei prototipi un elemento deve essere confrontato con un prototipo o esemplare ideale, oggetto rappresentativo di una categoria, che contiene tutte le caratteristiche più tipiche della categoria in esame.
Secondo la teoria degli esemplari, al contrario, una categoria è rappresentata semplicemente da tutti gli esemplari che appartengono alla categoria stessa. Il processo decisionale si basa sulla comparazione di elementi che accomunano gli oggetti e che andranno a determinare una rappresentazione mnestica per ogni esemplare della categoria. Inoltre, mentre per la teoria del prototipo esiste un oggetto prototipico con cui confrontare tutti gli altri della categoria, per la teoria degli esemplari si ottengono, invece, rappresentazioni distinte di un numero di oggetti che andranno a costituire delle sottoclassi all’interno della categoria.

Murphy e Medin (1985), per contro, affermano che tutti i soggetti possiedono delle teorie implicite, atte a spiegare il mondo e a classificare gli oggetti, natura compresa, che animano la realtà circostante. Queste teorie permetterebbero di inserire un elemento in una categoria partendo da un giudizio individuale.

Successivamente, Barsalou (1999) ha proposto la teoria della simulazione, secondo la quale nel concetto è presente intrinsecamente la capacità di costruire rappresentazioni flessibili, quindi adattabili alle situazioni e alle esperienze dell’individuo. I concetti, dunque, classificano situazioni dirette al raggiungimento di uno scopo, tipico di ogni individuo (Barsalou 1983).

Questo breve excursus sulle teorie della categorizzazione mostra rapidamente quali potrebbero essere le modalità secondo le quali la nostra mente immagazzina informazioni e si struttura.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Personalità, genetica e ambiente: quale rapporto?

 

Le esperienze e i meccanismi che portano alla stabilizzazione e al mantenimento di una situazione di benessere o di disagio sono tanto importanti quanto le prime esperienze che in qualche misura dirigono lo sviluppo verso la salute o la patologia (Gennaro, 2006).

Fino agli anni ’50, il paradigma dominante nell’ambito della ricerca e della clinica era quello psicoanalitico (soprattutto negli USA) in tutte le sue declinazioni (psicoanalisi dell’Io, delle relazioni oggettuali, la teoria bowlbiana dell’attaccamento), ponendo grande enfasi sugli effetti quasi irreversibili delle esperienze precoci di frustrazione e separazione dal caregiver (Bowlby, 1951; Freud, 1965; Spitz, 1958; Winnicott, 1957). Ad oggi vi è motivo di ritenere, in seguito all’acquisizione di una casistica clinica più ampia, che l’impatto delle esperienze relazionali primarie, anche quelle negative, può avere effetti a lungo termine molto diversi in base alla natura delle esperienze di vita successive. Infatti l’azione dell’ambiente interpersonale modula le varie espressioni della stabilità emotiva o di altre caratteristiche.

Tuttavia è stato rilevato che le cause delle condotte e della maggior parte delle manifestazioni della personalità non vanno ricercate solo nell’ambiente ma anche nell’organismo biologico (Gennaro, Scagliarini, 2007) . Ad esempio, studi sul temperamento hanno dimostrato che bambini estroversi hanno più probabilità di essere invitati ad occasioni sociali, così come i bambini più dotati intellettualmente sono frequentemente più propensi a scegliere attività più competitive e impegnative. Questo è tanto vero sia per gli aspetti disfunzionali della personalità (ad. es. la propensione a fare scelte rischiose) sia quelli più funzionali, come l’attitudine allo studio, i quali possono implicare anche l’influenza di alcuni neurotrasmettitori come la dopamina e la serotonina (Gennaro, Scagliarini, 2007).

Plomin (2000) ha scoperto che l’influenza genica e l’ereditarietà aumentano all’aumentare dell’età. I geni sono programmati per attivarsi alcuni anni dopo la nascita e gli effetti, per potersi manifestare, hanno bisogno di tempo e di certe situazioni ambientali“critiche”; la potenzialità genica si riduce poi nel corso dello sviluppo a causa delle interrelazioni con l’ambiente che dirige le influenze genetiche lungo una serie di esperienze che poi col tempo amplificano le similarità dovute a un’origine comune.Questo significa che l’invecchiamento più che riflettere quello che si è consolidato con la cultura, rivela sempre di più le nostre predisposizioni.

Come giustamente ha notato Gottlieb (1998), i geni non costituiscono un sistema chiuso, portatore di un progetto preciso, ma sono elementi di un sistema biologico in continua evoluzione, tant’è che la [blockquote style=”1″]la selezione naturale ha preservato gli organismi che sono adattivamente più responsivi nei confronti delle loro condizioni di sviluppo, sia a livello comportamentale che fisiologico[/blockquote] (Gottlieb, 2000, p.796).

Riprendendo il discorso di apertura, si evince che l’aspetto biologico (meccanismi neurologici ed endocrini presenti fin dalla nascita, che determinano il grado di attivazione emotiva, il livello di attività motoria, la socievolezza e l’impulsività) della personalità e le influenze ambientali (la famiglia, la scuola, il lavoro ecc.) determinano i caratteri e le condotte degli individui in modo però non troppo deterministico. Come sostiene Strelau (1983), la personalità è il risultato delle condizioni storiche e sociali, così come dell’apprendimento e della socializzazione, esprimendo desideri ed aspettative personali. I cambiamenti, seppur lenti, vi sono durante tutto l’arco della vita.

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