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Modalità Competitive e Relazioni Interpersonali: Ipercompetitività e Bullismo – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Modalità Competitive e Relazioni Interpersonali: Ipercompetitività e Bullismo

Maria Elena Maisano, Fulvio Tassi, Sara Mori

Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni

Olweus, 1996

Nello studio  si é tentato di verificare l’esistenza di una correlazione positiva tra ipercompetitività e bullismo.

Traendo spunto dall’esistenza di diverse analogie tra le caratteristiche di personalità e comportamentali degli individui ipercompetitivi (con stile competitivo volto a vincere sull’avversario a tutti i costi) e quelle dei cosiddetti bulli, si é tentato di verificare l’esistenza di una correlazione positiva tra ipercompetitività e bullismo, ipotizzando che una forte carica competitiva possa contribuire all’acquisizione ed al rafforzamento di caratteristiche di personalità che scatenino condotte di tipo disadattivo.

Gli strumenti utilizzati sono l’adattamento italiano delle due scale Hypercompetitive Attitude Scale (HCA) e Personal Development Competitive Attitude Scale (PDCA ) ideate da Ryckman et al. I dati sono stati raccolti da un campione di 1011 studenti (583 maschi e 428 femmine) frequentanti i primi tre anni di scuole superiori della provincia di Lucca.

I risultati hanno confermato l’esistenza e la significatività della correlazione tra bullismo e ipercompetizione. La correlazione tra bullismo e competizione evolutiva (stile competitivo centrato sul miglioramento della performance) è risultata non significativa, sebbene non totalmente negativa. Probabilmente, perché anche laddove si compete per cercare di migliorare se stessi e la propria performance, non si é del tutto immuni dall’istinto a prevalere sull’avversario.

L’esistenza di una correlazione positiva tra ipercompetizione e bullismo indicherebbe una forma di influenza tra di essi che sarebbe interessante approfondire con ulteriori ricerche. Se le caratteristiche di tale influenza venissero meglio definite, sarebbe possibile ipotizzare che interventi, ad es. di tipo psicoeducativo, mirati all’acquisizione di uno stile competitivo positivo, potrebbero costituire un fattore di prevenzione o di diminuzione del rischio di porre in essere atti di bullismo nei confronti dei pari.

Il condizionamento operante: il paradigma sperimentale di Skinner

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 34)

 

 

La scorsa settimana su questa rubrica abbiamo parlato del condizionamento classico (ndr). Oggi, invece, vi presenteremo il condizionamento operante.

 

Skinner inventò il paradigma sperimentale del condizionamento operante. Lo strumento sperimentale usato in questo paradigma era la Skinner box: una gabbia in cui la cavia poteva esplorare liberamente l’ambiente e compiere comportamenti come pigiare una leva o premere un tasto.

Skinner inventò il paradigma sperimentale del condizionamento operante, che poteva essere di due tipi:

  • Quello rispondente, in cui la risposta messa in atto da una cavia in gabbia avviene come reazione a uno stimolo,
  • Quello operante, in cui la risposta è emessa spontaneamente.

Lo strumento sperimentale usato in questo paradigma era la Skinner box: una gabbia in cui la cavia poteva esplorare liberamente l’ambiente e compiere comportamenti come pigiare una leva o premere un tasto.

Alcuni comportamenti messi in atto dalla cavia erano però rinforzati, il che rendeva più probabile la ripresentazione, in futuro, del comportamento stesso. Ad esempio, se un piccione cavia scopriva che il pigiare un tasto portava all’erogazione del cibo (rinforzo), allora lo ripeteva più e più volte.

Quindi, in generale il condizionamento operante consiste nella messa in atto di un comportamento, che se rinforzato positivamente si ripresenta con una maggiore frequenza. Prendiamo un bambino che è libero di fare diverse cose in una stanza, ma è rinforzato positivamente solo quando mette a posto i suoi giochi. Successivamente, apprende che mettere in ordine è un comportamento giusto da eseguire.

La messa in atto di un determinato rinforzo può indebolire o incrementare la probabilità di comparsa di un certo comportamento. I rinforzi possono essere di molti tipi:

  • Rinforzi che funzionano automaticamente (ad es., il cibo), senza l’intervento dell’uomo.
  • Rinforzi che acquisiscono una funzione atta a implementare la ricomparsa del comportamento che richiede l’intervento dell’uomo.
  • Rinforzi generalizzati che derivano dall’esplorazione e dall’interazione col mondo fisico. Ogni individuo che riceve dei feedback positivi nell’interazione con l’ambiente, aumentano la sua probabilità di acquisire nuovi comportamenti. Gli stimoli positivi che rinforzano il comportamento sono sia di origine fisica sia di natura psicologica, come ricevere consenso, approvazione, affetto.
  • Rinforzo positivo derivante dalla sottomissione degli altri attraverso l’esercizio del potere
  • Rinforzi simbolici, come l’uso della moneta.
  • Rinforzi dinamici che sono caratterizzati non da stimoli ambientali ma dai nostri stessi comportamenti.

Il Rinforzo del comportamento, in sintesi, si può suddividere in due grosse macro categorie: positivo e negativo. Il rinforzo positivo è quello che determina una conseguenza gradita. Il rinforzo negativo, invece, porta all’allontanamento o alla cessazione di uno stimolo o comportamento spiacevole.

Nel condizionamento operante, inoltre, si possono distinguere 3 fasi:

  • Preapprendimento: serve a determinare il comportamento operante, ovvero la frequenza della messa in atto della risposta da parte della cavia (ad esempio premere la leva) senza che vi sia alcun rinforzo positivo o negativo;
  • Condizionamento: il ricercatore stabilisce quando deve avvenire il rinforzo.
  • Estinzione: la risposta condizionata decade dopo un certo numero di comportamenti messi in atto perché non rinforzata mai.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Solo gli psicologi possono agire sul disagio psichico

CNOP – Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi – COMUNICATO STAMPA

 

Il Tar del Lazio riconosce al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi l’unicità della Professione: “il disagio psichico presuppone una competenza professionale non riconosciuta ai counselors. Il presidente Giardina: “Grande successo per la psicologia italiana e ottimo risultato a favore della salute dei cittadini”.

ROMA 18 novembre 2015Grande risultato giuridico per il Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi. Il Tar del Lazio, infatti, con sentenza 13020/2015, accoglie il ricorso del Cnop contro il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero della Salute e riconosce l’unicità della Professione dello psicologo, disponendo la cancellazione dell’Assocounseling (Associazione di categoria) dall’elenco delle attività non regolamentate dalla legge 4/2013. In sostanza, i counselors non hanno alcuna competenza per gestire il rischio psichico che attiene alla sfera della salute.

“Non può non convenirsi – si legge nelle motivazioni della sentenza – che la gradazione del disagio psichico presuppone una competenza diagnostica pacificamente non riconosciuta ai counselors e che il disagio psichico, anche fuori dai contesti clinici, rientra nelle competenze della professione dello psicologo”.

A tal proposito il Tar del Lazio fa riferimento alla normativa nazionale che inquadra il disagio psichico nell’ambito dell’attività sanitaria, come confermato anche dai pareri del Consiglio Superiore della Sanità, dall’inquadramento degli psicologi nelle piante organiche delle unità locali, nonché alla vigilanza del Ministero della Salute sull’Ordine nazionale degli Psicologi.

Nessuna figura professionale distinta dallo psicologo può quindi intervenire per affrontare casi delicati come quello del disagio psicologico.

“La sentenza del tar Lazio – afferma il presidente Cnop, Fulvio Giardina – conferma l’unicità della professione di psicologo. È un grande successo per la psicologia italiana perché viene ribadito e confermato che l’ambito della tutela della salute non può essere consentito a chi non ha i requisiti. I counselors non svolgono attività regolamentata e non offrono alcuna garanzia per la tutela della salute dei cittadini”.

Un riconoscimento importante, dunque, non solo per la categoria ma anche a sostegno della salute di tutti i cittadini: ogni persona che presenta delle problematiche psicologiche deve trovarsi sempre di fronte ad un professionista iscritto all’ordine che abbia titoli e competenze autorizzate.

 

Angela Corica

Ufficio stampa Cnop

 

ESTRATTO DELLA SENTENZA:

 

SENTENZA ASSOCOUNSELING:

 

ISIS, terroristi e vittime: un profilo psicologico

Articolo di Corrado de Rosa, pubblicato su L’Espresso

Strage Parigi, la psicologia di terroristi e vittime

Su cosa fa leva lo Stato Islamico per reclutare i suoi militanti? I kamikaze sono mentalmente disturbati? Quali sono le conseguenze a breve e lungo termine sulla psiche dei sopravvissuti alle bombe? Le risposte di uno psichiatra

Psicologia dello Stato Islamico
Lo Stato Islamico offre risposte e ricompense inestimabili a chi ha bisogno di certezze: il significato di una vita, il grado di eroi e martiri nella Storia della lotta agli infedeli. L’Is si legittima con la religione, ma le ragioni profonde della sua forza sono psicologiche. Fa leva sulla disperazione di chi vive in territori degradati, crea opportunità basate sul sogno di rivalsa, fa welfare alternativo per la soddisfazione del qui e ora: porta l’elettricità nei villaggi, apre mense e aggiusta strade, vaccina i bambini, paga le famiglie dei kamikaze. I capi lavorano per sottrazione: al-Baghdadi appare pochissimo sui media, nessuno sa con precisione chi siano i suoi luogotenenti. Questo accresce il loro alone di mistero, l’immagine di guerrieri e santi che sfidano il male, la paranoia dei militanti. Col risultato di facilitare reclutamento e radicalizzazione.

L’Is offre le donne ai combattenti, sfrutta i social network per fare propaganda, usa la musica per creare identità e rafforzamento nell’immaginario collettivo, affina la manipolazione psicologica per reclutare foreign fighters. Mette in rete immagini virali che provocano eccitazione e indignazione (soprattutto in chi è suggestionabile), stuzzica i sentimenti d’ingiustizia, umiliazione e riscatto, eccita il bisogno di appartenenza, trasforma il profano nel sacro.

 

Strage Parigi, la psicologia di terroristi e vittimeConsigliato dalla Redazione

Su cosa fa leva lo Stato Islamico per reclutare i suoi militanti? I kamikaze sono mentalmente disturbati? Quali sono le consguenze a breve e lungo termine sulla psiche dei sopravvissuti alle bombe? Le risposte di uno psichiatra (…)

Tratto da: l'Espresso

 

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Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – I nuovi approcci di matrice sociologica

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 2/4

Nell’ambito della ricerca sociologica emergono nuove formulazioni teoriche che modificano irreversibilmente il modo di spiegare la criminalità, vista come un fenomeno complesso e pluricomposto.

LEGGI ANCHE: Tra analisi scientifica e stigma sociale – (Parte 1/4)

Si passa da una visione eziologica, deterministica, a una visione invece più processuale, interattiva, legata agli effetti della devianza e del controllo sociale, piuttosto che alle cause lineari e semplici; le nuove impostazioni teoriche prendono cioè in considerazione la complessa interazione che si instaura tra il soggetto deviante, le norme e la reazione sociale.

Lemert è una figura centrale in questo cambiamento di prospettiva, in quanto propone una sociologia della devianza antitetica agli studi dell’eziologia del crimine e attenta alle conseguenze del controllo sociale. L’autore fu il primo a distinguere tra due tipi di devianza. Per devianza primaria si intende una condotta deviante ‘senza che si mettano in moto reazioni sociali e psicologiche che modifichino il ruolo e il sentimento della propria identità del soggetto agente’ (Ponti, 1999, p. 164); la devianza primaria riguarda quindi tutti quei comportamenti che, se anche infrangono le leggi, vengono riassorbiti dalla società senza ricevere un’etichetta deviante o una reazione stigmatizzante. In caso di devianza primaria, le ricadute sul senso di sé del soggetto agente sono solo marginali, in quanto non portano ad una riorganizzazione della struttura psichica ed identitaria del soggetto stesso; il ruolo deviante non viene attribuito al soggetto né da sé stesso né da parte della comunità socio-istituzionale (De Leo, 1998).

La devianza secondaria, al contrario, suscita forti reazioni sociali di tipo sanzionatorio e accusatorio e comporta peculiari effetti psicologici sull’individuo; egli tenderà a percepirsi come deviante, sviluppando tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il suo ruolo comporta, con conseguente fissazione in tale ruolo deviante (Ponti, 1999, p. 164). Il soggetto deve dunque riorganizzare e ricostruire la propria identità in base al ruolo deviante che gli è stato attribuito e in cui, ora, egli si riconosce. Anche se Lemert non ha mai dedicato il suo lavoro alla devianza minorile, secondo De Leo (1998) questi concetti hanno notevole rilevanza per lo studio di tale fenomeno:

La devianza primaria è importante perché mette in evidenza tutte le strategie di normalizzazione che vengono adottate, in campo minorile, quando si vuole evitare che la devianza diventi di dominio istituzionale […]. Per quanto riguarda la devianza secondaria il problema non semplice è di rimanere fedeli al modello di Lemert, senza cadere in qualche rischio deterministico talvolta presente nella sua teoria.

Ciò significa considerare sempre il rapporto interattivo e circolare esistente tra società e individuo, in quanto, la prima reagisce all’atto antigiuridico con sanzioni e giudizi, il secondo attiva a sua volta nuove strategie cognitive e comportamentali; la ristrutturazione del sé infatti non avviene semplicemente per effetto di una reazione sociale, ma avviene all’interno dell’interazione fra il soggetto e la reazione sociale stessa. È evidente ora la ricaduta sul piano della tutela del minore criminale: se si concepisce l’adolescenza come la fase evolutiva in cui la costruzione dell’identità raggiunge il suo culmine, non senza crisi o difficoltà (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) e si assume che, nel caso di una condotta deviante o criminale, la reazione sociale e istituzionale abbia forti ricadute sul piano psichico e identitario dell’adolescente, allora è possibile ipotizzare che la scelta di quale misura applicare avrà un impatto molto differenziato sulla struttura del sé dell’adolescente stesso (De Leo, 1998; De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

Concordemente, anche Becker (1963) mette in evidenza che l’individuo può diventare deviante attraverso un percorso complesso, fatto di tappe successive, durante le quali costruisce le premesse per i passi da compiere in seguito. Secondo Becker infatti il primo passo all’interno del percorso deviante è rappresentato dalla commissione di un atto che infrange la norma; il secondo passo riguarda l’essere riconosciuto come deviante da parte della società, il che ha delle conseguenze sul soggetto che dovrà ricostruire e ridefinire la propria identità sulla base del nuovo ruolo acquisito. Infine, il terzo passo consisterebbe nell’ingresso in un gruppo deviante organizzato e nella stabilizzazione non solo della condotta deviante, ma anche del concetto di sé in quel senso.

Si anticipano così i concetti di ‘interazione sociale’ e ‘significato sociale dell’esperienza‘ che saranno le matrici dell’impostazione interazionista simbolica e dei modelli processuali e sequenziali che vedono la devianza come una carriera, attualmente adottati nell’analisi dell’azione deviante commessa da minori (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986; De Leo, 1998; De Leo e Patrizi, 1999).

Dal punto di vista dell’evoluzione degli apporti della sociologia allo studio della devianza, un contributo fondamentale risulta quello di Matza (1976). La sua impostazione teorica prende le mosse dalla critica a tutti gli assunti delle teorie delle subculture delinquenziali e delle bande giovanili. Prima di tutto egli ritiene semplicistico considerare il deviante come colui che si oppone alla morale tradizionale e largamente condivisa per seguire un proprio sistema di valori. Inoltre, ritenere che le culture delinquenziali siano radicate solo in certi contesti sociali o urbani è espressione di un pregiudizio classista; la cultura deviante, così come la concreta possibilità di delinquere, è infatti diffusa e presente in tutte le classi sociali, come ben dimostrato da Sutherland. L’aspetto specifico del deviante consiste dunque nella neutralizzazione della norma, cioè nel modificare il significato della norma attraverso la neutralizzazione del vincolo normativo.

Sykes e Matza (1957) definiscono le tecniche di neutralizzazione come modi di aderire alla scelta deviante risolvendo, contemporaneamente, il conflitto psicologico rispetto al sistema di valori interiorizzati; tali tecniche consisterebbero in forme di razionalizzazione del comportamento deviante risolvendo la distanza socialmente definita fra questo e i valori condivisi:

Il processo di razionalizzazione consente al soggetto di esprimersi in senso deviante e giungere all’infrazione normativa neutralizzando, attraverso il ricorso a particolari tecniche, il conflitto con la morale da lui almeno parzialmente accettata. Queste razionalizzazioni, non intervengono ex post facto, ma precedono l’atto deviante e servono ad escludere la responsabilità individuale e a negare la sua illeicità attraverso la ridefinizione del proprio operato

Ponti, 1999, pp. 167-168

L’adozione delle tecniche di neutralizzazione consentirebbe al soggetto deviante di giustificare cognitivamente la propria devianza e di disattivare il controllo sociale, salvaguardando così la positività della propria immagine. Le tecniche di neutralizzazione individuate da Matza (1976) sono cinque e sono state così descritte dall’autore:

  • La negazione della propria responsabilità consente all’individuo di spostare la responsabilità dell’azione da lui commessa all’esterno; l’autore sostiene che l’azione non era realmente voluta, oppure che ci sono forze più importanti di lui a costringerlo, oppure lamenta di autopercepirsi come una palla da biliardo trascinata nelle diverse situazioni;
  • La minimizzazione del danno provocato si verifica quando il soggetto sostiene che le sue azioni sono reprensibili solo perché vietate dalla legge, non perché immorali in sé (classica distinzione tra mala in se e mala quia prohibita); in questo modo viene completamente ridefinito il significato e la forma dell’atto deviante;
  • La negazione della vittima permette di neutralizzare la responsabilità sostenendo che la vittima meritava il trattamento ricevuto a causa di alcune sue caratteristiche, come il sesso, la razza, il gruppo di appartenenza; questa tecnica viene spesso utilizzata nel caso delle aggressioni agite verso minoranze etniche, omosessuali, disabili;
  • La condanna di coloro che condannano viene messa in atto quando il soggetto descrive la società e le istituzioni come ipocriti e corrotti ritenendo quindi il loro giudizio come compromesso e parziale;
  • Con il richiamo a ideali più alti il soggetto sostiene di aver sacrificato i valori più generali della società a vantaggio di ideali particolari ma considerati eticamente superiori, quali la fedeltà al gruppo, la solidarietà tra amici.

De Leo (1998) evidenzia la centralità all’interno della teoria di Matza, del soggetto che agisce, che sceglie e che costruisce attivamente la propria realtà, elaborando cognitivamente i condizionamenti esterni senza subirli; secondo l’autore, il pensiero di Matza, con i concetti di significazione e soggettività, si inserisce perfettamente nella corrente teorica dell’interazionismo simbolico.

L’influenza del pensiero di Matza sullo studio della devianza minorile è fondamentale; il grande merito di questa teoria è quello di aver spostato l’attenzione sui processi sociocognitivi di giustificazione e legittimazione della condotta deviante allo scopo salvaguardare la propria immagine di sé e il proprio sistema valoriale e morale. La rilevanza di questi processi saranno al centro della teoria socialcognitiva di Bandura e del concetto di disimpegno morale.

Crisi della maschilità e ruolo del corpo: uno sguardo sociologico sulla vigoressia

Milvia Spinetta e Andrea Passoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

La vigoressia, ovvero l’ossessione nei confronti del proprio corpo e dei muscoli, porta la persona a trascorrere gran parte della propria giornata in palestra per costruire e accumulare i muscoli, avendo così l’idea di meglio definire la propria maschilità. In quest’ottica patologica, vi è l’implicita e ferma convinzione che si è tanto maschili, quanti muscoli si possiedono.

La storia e le società passate ci insegnano che due sono le polarità del genere umano: l’uomo e la donna. Questi possono essere analizzati prendendo in considerazione tre elementi: il sesso, ovvero gli attributi strettamente legati al corpo fisico e alla biologia della persona; l’identità, ovvero la percezione che la persona ha di sé e che lo porta a dire ‘io sono uomo’ oppure ‘io sono donna’, e il ruolo sociale attribuito alla persona, che viene percepita da altri con l’etichetta di ‘uomo’ o ‘donna’.

Due principali teorie sul genere lo concettualizzano in maniera differente. L’essenzialismo ci parla di maschilità o femminilità come biologicamente determinate: in sostanza, uomini e donne si nasce. In quest’ottica, il genere è un attributo oggettivo, naturale, universale e immutabile; esso si basa principalmente sulle differenze ormonali, di dimensioni, di organizzazione del cervello e capacità riproduttiva (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 2004). Il costruzionismo sociale supporterebbe invece l’idea che il genere umano sia indirizzato da alcune caratteristiche fisiche, psicologiche e comportamentali prototipiche che in sé sarebbero fittizie, non propriamente oggettive ma culturalmente prodotte. Dal punto di vista della ricerca scientifica, le differenze di genere non sarebbero quindi confermate; laddove trovino riscontro, questo non sarebbe significativo (Connel, 2011).

In effetti, al di là dei prototipi di genere più comuni, se si pensa alla grande variabilità delle caratteristiche maschili in sé o femminili in sé, c’è da riflettere su quanto il concetto di genere sia variegato sia dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, che psicologiche e comportamentali. Per fare un esempio, si potrebbe pensare al prototipo di uomo alto, forte, robusto, indubbiamente più aggressivo e propenso a dominare rispetto alla donna, competitivo e con una spiccata propensione verso abilità come la logico-matematica e gli ambiti scientifici in generale. Tutte le caratteristiche elencate sono significatamente a discrezione dell’universo maschile o fanno ampiamente parte anche del mondo femminile? Ma soprattutto, che influenza ha la cultura nella definizione del concetto di maschilità/femminilità?

Secondo quest’ultima teoria, le differenze biologiche tra uomo e donna ci sono ma gli atteggiamenti variano culturalmente e si possono considerare di origine sociale, quindi uomini e donne si diventa (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 2004). In particolare, prendendo in considerazione il concetto di maschilità, essa verrebbe concettualizzata come costruzione attiva, che si produce attraverso interazioni sociali, per cui il comportamento umano lo si apprenderebbe, non sarebbe biologicamente determinato, né è già insito nella natura umana. L’uomo parteciperebbe alla vita sociale in quanto uomo, come soggetto dotato di un genere ben definito nei diversi contesti sociali, ambientali e storici. Maschilità come prodotto sociale attivo.

L’uomo o la donna verrebbero quindi definiti tali in base a cosa fanno, piuttosto che a chi sono, secondo un decalogo di regole, una serie di comportamenti riconosciuti come maschili (Boni, 2004). Questo interessante punto di vista si distacca nettamente dal concetto tradizione di maschilità come concetto patriarcale ed egemone, dell’uomo amante del famoso connubio donne-motori, virile e dominante rispetto alla femminilità in molti campi: familiare, lavorativo, sessuale, politico, religioso, etc,. In effetti, dando un ampio sguardo sul mondo odierno e sulla nostra società, sorgerebbe l’esigenza di approfondire il concetto di maschilità, in quanto esso si è nettamente trasformato in pochi decenni. Sentendo parlare di uomini-casalinghi, transgender, prodotti e pratiche per la bellezza maschile, lotte per la rivendicazione dei diritti omosessuali e mode maschili inusuali e molto fashion, viene da chiedersi: ma il maschio oggi chi è? Come si comporta, come si veste, a cosa si interessa e come appare?

Dal punto di vista sociologico, dagli anni Ottanta è emersa la figura del new man, ovvero l’uomo che si è saputo trasformare o farsi trasformare in qualcosa di maggiormente femminizzato, senza che ciò implichi necessariamente omosessuale. E’ colui che mostra una maggiore sensibilità e interessamento all’amore, più che al sesso, senza vergognarsene, colui che cura il proprio aspetto fisico, che si prende cura della famiglia anche da altri punti di vista oltre che a quello finanziario. Il new man ha saputo risvegliare il proprio lato emotivo, è anti-sessista, crede nella parità di genere e permette alla donna di ‘portare i pantaloni’ al posto suo. Egli segue mode create appositamente per lui, nonché pratiche di bellezza che fino a qualche tempo prima appartenevano esclusivamente all’universo femminile, come la depilazione, l’uso di prodotti antirughe, la chirurgia estetica, etc. I mass media sembrerebbero giocare un ruolo fondamentale nella costruzione di questo tipo di maschilità: essi plasmano il concetto odierno di maschio, se non altro lo promuovono, lasciando ampio spazio a prodotti dedicati al maschio come diete dimagranti, creme ringiovanenti, e profumi sponsorizzati da modelli molto magri, che appaiono sessualmente ambigui e più consoni a esprimere un aspetto candido più che il tradizionale concetto di virilità. Questa è una sfaccettatura della maschilità, che per certi punti di vista appare quindi in crisi rispetto a ciò che si poteva pensare in una società patriarcale.

In contrapposizione al new man, rimane però l’ uomo tradizionale, che la sociologia chiama new lad, di cui si potrebbe dare un quadro prototipico come di colui che porta avanti valori sessisti, ama difendere il proprio lato virile, apparire coraggioso, tutto d’un pezzo, aggressivo e talvolta brutale, indipendente e mascalzone. E’ colui che osa sempre e non chiede mai, il classico macho. Egli tratta la figura femminile subordinandola, relegandola talvolta a oggetto di desiderio sessuale, spesso abbinata al mondo dei motori.

Sia il primo che il secondo modello di maschilità si possono considerare mediati, ovvero promossi dai mass media stessi, che nel rappresentarli, ne darebbero uno svelamento al solo scopo commerciale attraverso internet, cartelloni e spot pubblicitari, radio, televisione, cinema, stampa periodica e quotidiana. Un interessante esempio di questa mediazione del concetto di maschilità viene teorizzato dal sociologo Federico Boni in ‘Men’s help’, un libro che prende in considerazione i periodici dedicati al mondo maschile che dagli anni Novanta iniziano ad essere pubblicati in Inghilterra, dove raggiungono un successo strepitoso, venendo successivamente divulgati anche in altri paesi (2004). Si parla di ‘Arena’, ‘GQ’, ‘The face’, periodici dedicati proprio al new man e al suo interessamento allo stile e moda, alla cura di sé, del corpo e del proprio tempo, nonché alla casa, famiglia, cucina e giardinaggio.

Successivamente, in risposta a questi, vengono pensati e divulgati periodici maschili più inclini invece agli interessi del new lad come ‘Loaded’, ‘Maxim’ e le edizioni rivisitate di ‘Arena’ e ‘GQ’, che decidendo di cambiare rotta, si dedicano maggiormente al new ladderism. La costruzione identitaria del maschio, che abbiamo visto essere mediata soprattutto dai mezzi di comunicazione, si manifesterebbe soprattutto attraverso un oggetto tangibile, esplicito, che non si può nascondere né negare, proprio di ogni essere vivente e veicolo di espressione del sé identitario: il corpo.

Connel afferma che nel senso comune si ritiene che vi sia una maschilità vera, che sottosta alle teorie e tendenze dell’uomo, una maschilità fissa, strettamente legata alla naturalità e si incarna nel corpo maschile (1995). Ruspini aggiunge inoltre che il corpo è fluido e in scena nella società attuale, affermando che ‘la società in cui oggi viviamo offre ai singoli individui molteplici e inedite opportunità di dialogo con il proprio corpo, sempre più risorsa fluida, in divenire, che non può essere data per scontata. Il tema dei corpi “liquidi” è oggi di grande attualità’ (2009).

Il corpo esprimerebbe quindi la maschilità attraverso il comportamento, il suo apparire, la sua forma e le modalità con cui esso si muove. Molte pratiche sarebbero mezzo d’espressione del corpo, basti pensare a tatuaggi, piercing, chirurgia estetica, depilazione, abbronzatura artificiale, diete, palestra e assunzione di sostanze anabolizzanti, per non parlare di tagli, scarnificazioni, abrasioni, bruciature e graffi, gesti autolesionistici che trovano nell’atto l’espressione di un dolore interno, che diviene subito dolore fisico, nonché rituale (Stagi, 2008). Ma il corpo non è solo oggetto da segnare o agghindare a festa, esso presuppone un’esperienza corporea, una dimensione che va al di là della pura fisicità. Infatti, dal punto di vista clinico osserviamo come il corpo divenga veicolo di manifestazione del proprio dolore ad esempio nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare, in cui il corpo pretende di poter somigliare all’anima, che tende a un ideale ben preciso: di perfezione e annullamento di ogni marchio femminile (nelle anoressiche), del volersi nascondere (paradossalmente, nei pazienti obesi), della bellezza, discontrollando (nelle pazienti bulimiche), della purezza (nei pazienti ortoressici) e della costruzione della propria virilità e maschilità (nel pazienti vigoressici). Il mezzo principale di questa ricerca del proprio ideale è il cibo ma nel caso del paziente vigoressico, che ora approfondiremo, lo sono anche la pratica sportiva nelle palestre e l’uso di sostanze anabolizzanti.

Sul ‘Corriere della sera’ datato venerdì 28 gennaio 2005, Rosella Redaelli e Marco Mologni pubblicano un articolo intitolato: ‘Tanta palestra e poco cibo: allarme sindrome di Adone – Duemila ragazzi lombardi colpiti da anoressia. Fenomeno in crescita’.

L’articolo parla di un fenomeno in crescita, ragazzi anoressici che trascorrono la maggior parte del proprio tempo in palestra e durante i pasti seguono una dieta povera e ripetitiva. Essi hanno lo scopo di bruciare i grassi e avere un corpo scolpito. L’articolo espone inoltre qualche statistica e spiega le peculiarità dell’anoressia maschile. In allegato, si trova inoltre la sezione testimonianza, che riporta la voce del campione ginnasta Igor Cassina, che incita i ragazzi ad amare lo sport e viverlo senza trasformarlo in un’ossessione o in un idolo, punendosi poi nel momento in cui non si raggiungono i risultati attesi. Sotto la storia viene invece riportato il decorso della malattia di Davide, un ragazzo di Monza che racconta la propria anoressia nervosa.

In realtà, nel 2005 era già edito da qualche anno il testo ‘The adonis complex‘ di Pope, Philips e Olivardia che negli Stati Uniti avevano già parlato di vigoressia, un disturbo differente dall’anoressia maschile nervosa, anche se rientrano entrambi nei disturbi dell’alimentazione, abbinati al dismorfismo corporeo.

La vigoressia o sindrome di Adone o bigoressia (dall’aggettivo inglese big), alternativamente chiamata anoressia al contrario, porta la persona, solitamente maschio, a percepirsi troppo magro e smilzo anche laddove la persona sia muscolosa e allenata, ed è abbinata a un forte desiderio di ingigantire il proprio corpo, fino a raggiungere il modello di Adone, di fatto inesistente nella realtà (Dalla Ragione, Scopetta, 2009). L’ossessione nei confronti del proprio corpo e dei muscoli porta la persona a trascorrere gran parte della propria giornata in palestra, senza badare troppo a giorni di riposo, giorni di festa e vacanze, per costruire e accumulare i propri muscoli, avendo così l’idea di meglio definire la propria maschilità. In quest’ottica patologica, vi è l’implicita e ferma convinzione che si è tanto maschili, quanti muscoli si possiedono.

La dieta alimentare del vigoressico è compromessa dall’intento di perfezionare il proprio corpo, è dunque limitata ed ossessiva, danneggiata talvolta da uno strappo alla regola, considerato un’ eccezione e accompagnato da un gran senso di colpa, che la persona combatterà facendo ore e ore di esercizio fisico.

Ma, nonostante il bigoressico rincorra una dieta e uno stile di vita estremamente salutistici, egli spesso giustifica l’assunzione di ormoni androgeni, sostanze anabolizzanti e sostanze ergogeniche illecite, che accompagnano gli estenuanti allenamenti a cui si sottopongono e che lo aiutano a raggiungere una forma fisica altrimenti impossibile per il corpo umano.

Coloro che soffrono della sindrome di Adone non sono mai soddisfatti della propria figura corporea in quanto essi non la percepiscono normalmente, si parla infatti di dismorfismo corporeo perché, visti da fuori, i vigoressici presentano in tutto e per tutto il prototipo dell’uomo muscoloso. Eppure, come ricorda Stagi, la persona che è immersa nelle pratiche vigoressiche da lungo tempo si vergogna a mostrare il proprio corpo in spiaggia o comunque tende a nascondere le proprie forme fisiche, perché considerate non abbastanza muscolose secondo il suo canone di bellezza maschile (2008). Alcune situazioni come spiaggia o vita sessuale costituiscono per il vigoressico una fonte di ansia e disagi, pur essendo situazioni sociali largamente diffuse e in generale poco compromettenti per la persona.

Secondo Pope e i suoi collaboratori, la costruzione del proprio corpo, muscolo dopo muscolo, si pone in fretta assonanza con la costruzione identitaria maschile del bigoressico, il quale fa del suo corpo un progetto di vita che lo distoglie dalle problematiche reali e dalle relazioni sociali che fanno parte della sua vita. Legata a questa caratteristica, vi è anche un’autostima generalmente medio-bassa, che incrementa o diminuisce a seconda che il corpo venga percepito bello, muscoloso e prestante oppure brutto, magro, flaccido. Vi sono inoltre delle complicanze mediche a cui il vigoressico può andare incontro: Il sovrallenamento può portare a problemi nell’apparato cardiovascolare e muscolare, nonché problemi psicologici; l’abuso delle sostanze precedentemente citate può portare a danni endocrinologici anche gravi. Inoltre, come ogni disturbo di entità ossessiva, la vigoressia può portare la persona a manifestare comportamenti compulsivi, a vivere periodi di depressione anche gravi, che possono implicare il suicidio (Dalla Ragione, Scopetta, 2009).

Per concludere, le autrici appena citate ammettono che, essendo questo una patologia studiata da poco, gli strumenti per misurarla sono ancora nuovi, ma vengono riportate alcune importanti aree da indagare, utilissime per individuare una predisposizione vigoressica e un dismorfismo corporeo. A tal proposito, sarebbe importante approfondire:

  • L’evitamento sociale, ovvero con quanta frequenza la persona eviti le attività sociali, scolastiche o lavorative a causa della preoccupazione per l’aspetto esteriore;
  • Il tempo, ovvero quante ore al giorno la persona impiega per prepararsi atleticamente con l’intento di migliorare il proprio aspetto fisico;
  • La dieta e altre pratiche, ovvero se la persona segua una dieta precisa e la abbini a integratori alimentari allo scopo di migliorare l’aspetto fisico oppure quanto la persona spenda al mese per acquistare i cibi giusti, altre sostanze, i vestiti o l’attrezzatura sportiva.

 

Quando il matrimonio è una questione di investimento

C’è stato un tempo in cui il matrimonio costituiva un passaggio obbligato, una tappa scontata nel percorso esistenziale della maggior parte della popolazione. Oggi, invece, sono sempre meno le coppie che scelgono di sposarsi e, anche qualora lo facciano, i processi motivazionali alla base della scelta sembrano essere diversi da quelli di una volta. Che cosa è cambiato?

Un recente studio condotto da Shelly Lundberg e Robert Pollak si è occupato di indagare questo complesso fenomeno esaminando il valore culturale, il significato sociale e la natura economica del matrimonio. Prima degli anni Cinquanta la società occidentale si reggeva su una distinzione dei ruoli sessuali piuttosto rigida che prevedeva che gli uomini si occupassero del sostentamento materiale del nucleo familiare e le donne gestissero la casa e i figli. Nella maggior parte dei casi, in altre parole, le donne erano prima di tutto madri e, se lavoravano, lo facevano per periodi brevi, tra una gravidanza e l’altra, senza un disegno di carriera specifico. Un secondo aspetto, secondo gli autori, permette di comprendere la natura del matrimonio nella sua forma classica: la vulnerabilità della figura femminile all’epoca era in certa misura tutelata dalla rigidità del patto matrimoniale e dalla difficoltà di uscita da tale rapporto in termini economici, giuridici e sociali.

A partire dalla metà del secolo, invece, la società occidentale (e quella americana in particolare) è stata protagonista di cambiamenti profondi che hanno ridisegnato, tra le altre cose, il ruolo del matrimonio. Innanzitutto, a partire dagli anni Cinquanta sempre più donne hanno scelto di proseguire gli studi dopo le superiori e, così facendo, hanno posticipato il matrimonio e si sono aperte la possibilità di intraprendere una carriera lavorativa significativa in termini di prospettive di crescita e di salario.

Una serie di cambiamenti legislativi ha poi reso possibile intraprendere la strada del divorzio con difficoltà decisamente più contenute e, dal punto di vista sociale, l’opzione è stata gradualmente accettata. Infine, le innovazioni tecnologiche e un mercato con un’offerta in forte crescita hanno permesso una gestione della casa molto più semplice e rapida: non serviva più qualcuno a casa che si dedicasse a tempo pieno alle faccende domestiche. In termini economici, si poneva un quesito importante: quale poteva essere il vantaggio del matrimonio ora che non era più così difficile vivere soli e che la specializzazione di genere si attenuava sempre di più?

 

Matrimonio in epoca moderna

I costi in termini di libertà personale non sembravano più secondari rispetto ai vantaggi pratici e, così, si è iniziato a sposarsi meno, a compiere il passo in età più avanzata e a concepire bambini anche al di fuori del matrimonio. Se negli anni Cinquanta circa l’85% degli uomini e delle donne statunitensi erano sposati, nel 2010 la percentuale si è attestata attorno al 65%.

Ma c’è qualcosa di più: se è vero che i matrimoni sono in generale diminuzione, ciò non vale per la popolazione in possesso di titoli di studio elevati. All’interno di questa categoria, infatti, i matrimoni sembrano essere più frequenti, più duraturi e precedenti alla nascita dei figli. Si sposano meno del 40% delle donne statunitensi che non hanno concluso le scuole medie e circa il 70% di quelle con un master, mentre optano per la convivenza circa il 20% delle prime e solo il 5% delle seconde. Gli autori riportano inoltre, in riferimento alla popolazione americana bianca, una percentuale del 53% di prole nata al di fuori del matrimonio per madri con un diploma superiore o licenza media, mentre la percentuale scende al 6% per le donne laureate. I dati registrati per la popolazione afroamericana e ispanica mostrano un andamento simile, anche se i numeri sono più alti in tutte le categorie di titoli di studio.

Come spiegare questo fenomeno? Secondo gli autori, il matrimonio è diventato uno strumento di protezione per un investimento molto specifico, quello sulla cura e sull’educazione dei figli. Un investimento che, sostengono Lundberg e Pollak, ha senso per i ceti più colti e benestanti, che hanno una maggior quantità di risorse -economiche e non – da dedicare alla prole, impegnandosi per garantire un futuro di successo.

Secondo questa lettura le classi medio-basse, non essendo nelle condizioni di mettere a punto e realizzare grandi progetti per i figli, non avrebbero motivo di accettare le limitazioni della propria libertà che il matrimonio comporta. E questo, a sua volta, potrebbe portare ad un’ulteriore riduzione delle risorse e ad un destino segnato in cui le scarse possibilità educative ricevute dai genitori determinano scarse possibilità educative offerte ai figli – una questione sociale che richiede di essere presa in attenta considerazione.

Counseling: si pronuncia il TAR del Lazio

Un articolo di Federico Zanon pubblicato da Altrapsicologia.it

 

 

Il TAR del Lazio ha pubblicato una sentenza destinata a dare sempre più chiarezza sul fronte della tutela delle attività psicologiche.

Insieme ad altre sentenze che in passato hanno fatto storia, anche questa è un nuovo mattone nella giurisprudenza sulla tutela dei confini della professione di psicologo e della salute dei cittadini.

Il lungo iter è tutto consultabile sulla pagina del TAR. Ma vale la pena rintracciare alcuni stralci della sentenza, che è consultabile integralmente qui.

I COUNSELOR NON STANNO NEMMENO NEI CANONI DELLA LEGGE 4/2013

Si inizia ANNULLANDO  tutti i diversi provvedimenti che hanno fondato l’inserimento di Assocounseling nell’elenco delle Associazioni non regolamentate ai sensi della legge 4/2013.

Per chi non lo ricordasse, la Legge 4/2013  ha dato la possibilità di ottenere un ‘bollino’ statale a professioni non regolamentate.

Assocounseling chiese e ottenne di essere iscritta nell’elenco delle Associazioni riconosciute dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Ne seguì il ricorso degli psicologi, di cui Altrapsicologia ha dato notizia in questo articolo.

L’INTERESSE DEGLI PSICOLOGI: SONO AFFARI ANCHE NOSTRI

Un primo elemento di interesse della sentenza è che riconosce agli psicologi l’interesse a ricorrere, e quindi ad occuparsi del counseling:

“La giurisprudenza è pacifica nel ritenere che “gli Ordini professionali, per la loro peculiare posizione esponenziale nell’ambito delle rispettive categorie e per le funzioni di autogoverno delle categorie stesse ad essi attribuite, sono legittimati ad impugnare in sede giurisdizionale gli atti lesivi non solo della propria sfera giuridica come soggetto di diritto, ma anche degli interessi di categoria dei soggetti appartenenti all’Ordine, di cui l’Ente ha la rappresentanza istituzionale” (v. CdS IV 50/2005).”

LA NATURA GENERICA DEL COUNSELING.

Il secondo e più importante argomento riguarda la natura del counseling così come presentato da Assocounseling. L’Associazione ce lo racconta così:

“attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. E’ un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il Counseling può essere erogato in vari ambiti quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale.”

 

LEGGI ANCHE: STORICA SENTENZA COUNSELOR: I PUNTI INTERESSANTI

Un’altra storica sentenza contro i counselorConsigliato dalla Redazione

Il TAR del Lazio ha pubblicato una sentenza destinata a dare sempre più chiarezza sul fronte della tutela delle attività psicologiche. (…)

Tratto da: AltraPsicologia

 

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Procedura per la valutazione delle capacità metacognitive di pazienti con disturbo di personalità

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Procedura  per la valutazione delle capacità metacognitive di pazienti con disturbo di personalità

S. Torniai, T. Ciulli, G. Orsanigo, M. Tafi, C. Ziella, S. Mori, S. Taddei, C. La Mela

Scuola Cognitiva di Firenze

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia

 

Le capacità metacognitive sono definite come le capacità dell’individuo di compiere operazioni cognitive euristiche sui propri e altrui stati mentali e utilizzare tali conoscenze a fini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati di sofferenza soggettiva (Semerari, 1999).

Per la valutazione delle capacità metacognitive nei pazienti affetti da disturbo di personalità sono attualmente usate la SVaM (Scala di Valutazione per la Metacognizione, Carcione et al., 1997) e l’IVaM (Intervista per la Valutazione della Metacognizione, Semerari et al., 2008). Un ulteriore strumento è stato messo a punto per i disturbi dello spettro schizofrenico (Lysaker et al., 2002).

Ad oggi la ricerca non ha ancora stabilito se il funzionamento metacognitivo nei soggetti con disturbo di personalità sia una condizione tratto-dipendente, o se, invece, si possa avere uno scadimento delle capacità metacognitive in contesti relazionali capaci di attivare stati mentali problematici (Dimaggio et al., 2009).

Gli obiettivi del nostro studio sono:

1) Mettere a punto una procedura standardizzata per attivare stati mentali problematici ed esplorare le diverse funzioni metacognitive.

2) Verificare se il funzionamento metacognitivo vari in relazione alla qualità dello stato mentale in pazienti con disturbi di personalità.

L’intervista semi strutturata messa a punto risulta suddivisa in 3 sezioni: nella prima viene chiesto di descrivere un episodio relazionale recente, nella seconda viene esplorato un episodio relazionale recente particolarmente significativo per l’attivazione di intense componenti emotive negative, infine, nella terza sezione tramite delle tecniche immaginative, il soggetto descrive un episodio del passato correlato allo stato emotivo attivato. I trascritti della registrazione dell’intervista sono stati successivamente analizzati tramite la SVAM per valutare le funzioni metacognitive.

I risultati ottenuti sembrerebbero mostrare che la procedura è in grado di attivare stati mentali problematici ed elicitare i diversi domini metacognitivi .

Una prima valutazione dei trascritti del campione mostra inoltre una variazione del funzionamento metacognitivo nelle 3 sezioni dell’intervista, in linea con l’ipotesi di uno scadimento delle funzioni durante l’attivazione di stati mentali problematici.

Sebbene i risultati preliminari supportano l’ipotesi iniziale, l’attuale dimensione ridotta del campione non permette di trarre conclusioni significative e definitive sull’ipotesi di una condizione stato-dipendente delle capacità metacognitive.

 

La Family-based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza – Roma, 2015

Loriana Murciano

 

Durante il corso “Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza” che si è tenuto a Roma dal 3 al 6 novembre scorsi, il Prof. Daniel Le Grange, docente dell’Istituto Benioff di Pediatria dell’Università di San Francisco, California, ha illustrato il razionale clinico ed i principali studi di efficacia del Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family -Based Treatment – FBT), considerato attualmente l’intervento psicoterapeutico di prima scelta nella cura dell’Anoressia Nervosa (AN) in adolescenza (APA, 2005; NICE, 2004; RANZCP, 2014; Quaderni del Ministero della Salute 17/22, 2013; Rapporto ISTISAN 13/6, 2012).

L’ FBT trova le sue radici nel modello di Terapia Familiare sviluppato presso il Maudsley Hospital di Londra negli anni ’80 ed integra diversi aspetti (cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale e di “clinical management”): sono utilizzate infatti strategie ed interventi provenienti da diverse scuole di terapia familiare (Structural Family Therapy di Minuchin, Scuola Milanese Selvini-Palazzoli, Strategic Family Therapy di Haley e Narrative Therapy di White).

L’FBT è un trattamento ambulatoriale intensivo indicato per bambini ed adolescenti che si presentano in condizioni di stabilizzazione clinica e che pone al centro dell’intervento i genitori, considerati la “risorsa chiave” per il recupero clinico del loro figlio.
Il trattamento si struttura in 3 fasi con una durata di circa 12 mesi.
Nella prima fase (1-10 sessioni a cadenza settimanale) i genitori si assumono la responsabilità (con l’assistenza del terapeuta FBT) di supportare l’aumento di peso del proprio figlio e di limitare i comportamenti patologici di compenso. Nella seconda fase (11-16 sessioni) il paziente è supportato nel riprendere il controllo e la responsabilità della propria alimentazione e del peso. La terza fase (17-20 sessioni) è focalizzata sul mantenimento del peso raggiunto e sul percorso verso una ripresa di uno sviluppo adolescenziale fisiologico e più armonico.
L’alleanza terapeutica con l’adolescente all’inizio del trattamento non si è dimostrata una variabile che ne influenza l’esito nel tempo (Forsberg et al. 2013).

Quali sono i presupposti fondamentali per l’FBT?
1. Visione agnostica delle cause della malattia
2. Posizione non autoritaria del terapeuta
3. Genitori “responsabili” del recupero del peso
4. Esternalizzazione (“separazione del paziente dalla patologia”)
5. Focus iniziale sul peso

Rispetto alle questioni teoriche l’FBT assume una posizione “agnostica”; strategicamente è fuorviante per il terapeuta FBT occuparsi degli aspetti causali ed eziopatogenetici (secondo i modelli dinamici, cognitivisti, sistemici, etc.) finché l’adolescente non abbia riacquistato le competenze cognitive, metacognitive ed emotive che solo un adeguato recupero ponderale può garantire.
L’obiettivo dell’FBT è far sì che i genitori arrivino a svolgere il compito e la funzione di guida per portare il loro figlio adolescente a “rimettersi in carreggiata” e poter percorrere il proprio sviluppo. L’FBT agisce come connessione figlio-genitori: il messaggio dell’Anoressia Nervosa è di richiamo verso i genitori (“quanto peso devo ancora perdere perché voi vi accorgiate che sono in crisi?”); il ruolo del terapeuta è quello di comunicare ai genitori “Svegliatevi! Accorgetevene!”, ossia di portare loro a fare quello che i figli non riescono a chiedere.
Il passaggio dalla prospettiva della parentectomia all’empowerment genitoriale implica un cambiamento del modello evolutivo dell’adolescente.
L’FBT è risultata efficace in più del 50% dei casi ed ha mostrato un significativo decremento del tasso di recidiva e di ri-ospedalizzazione nel tempo (Hughes, Le Grange, Court et al., 2013)

Il terapeuta FBT assume una posizione di consulente autorevole, non autoritario né critico, che in un clima di empatia interviene nel sostenere l’autonomia terapeutica dei genitori, ascoltando la famiglia, fornendo suggestioni e informazioni e cercando di stimolarne le risorse positive e modificarne gli atteggiamenti negativi; bisogna aiutare i genitori a comprendere cosa è meglio e più salutare per i propri figli (renderli più “responsabili”) senza fornire prescrizioni ed istruzioni con comunicazioni esplicite: l’obiettivo è di far acquisire loro la capacità di affrontare le sfide proposte dai loro figli.

E’ fondamentale spiegare ai genitori la gravità della malattia e separare l’adolescente dalla patologia (“Esternalizzazione”) per evitare inutili colpevolizzazioni e per avere un atteggiamento collaborativo e presente. [blockquote style=”1″]È il sopravvento della malattia che determina gli aspetti sintomatici ed i comportamenti disfunzionali e patologici dell’adolescente, non una modalità della persona che all’improvviso cambia[/blockquote]. L’anoressia nervosa per il Prof. Le Grange è paragonabile ad un cancro e l’impegno comune dovrà essere la sua completa eradicazione e, quindi, la guarigione del paziente.

Il focus iniziale del trattamento FBT è il recupero ponderale: l’aspetto del peso è l’elemento organizzatore del lavoro iniziale. La terapia inizia facendo salire il paziente sulla bilancia e valutando le curve ponderali e le strategie per limitare l’impatto clinico del disturbo alimentare. L’enfasi deve essere posta sul miglioramento ponderale piuttosto che sui cambiamenti cognitivi ed emotivi finché non si è recuperato un peso ragionevole (il 90% del peso salutare indicato per il paziente).

Prima di iniziare il trattamento FBT viene fatta una valutazione psicodiagnostica e clinica dell’adolescente ed un’intervista con i genitori in cui viene definita l’idoneità al trattamento ambulatoriale. La terapia FBT prevede un approccio di team multidisciplinare che può comprendere, oltre al terapista FBT (che coordina la cura), il pediatra/internista che gestisce la sicurezza clinica del paziente, il neuropsichiatra infantile, il nutrizionista, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere.

Il modello FBT prevede 3 fasi per un totale di 20 sessioni in 12 mesi.
La prima fase, che costituisce il 50 % della cura, consta di 10 sessioni a cadenza settimanale ed ha l’obiettivo di aiutare i genitori a “riassumere il controllo dell’alimentazione”: si tratta di fornire ai genitori gli strumenti per far rialimentare l’adolescente e portarlo nella situazione di procedere verso la sua autonomia. Nell’ adolescente che soffre di anoressia nervosa l’autocontrollo del peso non ha niente a che fare con il controllo della propria vita ma è solo il controllo indotto dalla malattia; bisogna portare i genitori a fare quello che un infermiere farebbe durante il ricovero: nella vita di tutti i giorni il compito iniziale dei genitori deve essere quello di sgretolare la dieta ferrea ed i comportamenti di compenso patologici.

Subito nella prima sessione l’intento del terapeuta FBT deve essere quello di stabilire e sottolineare che si tratta di una situazione grave (a rischio di vita) e di crisi dell’adolescente e di tutta la famiglia ed è importante che tutti siano coinvolti per risolvere la situazione (anche gli eventuali altri figli); bisogna cercare di ridurre il senso di colpa conferendo ai genitori un ruolo attivo nell’aiutare il paziente. I genitori dovrebbero andar via allarmati e con una responsabilità condivisa col terapeuta sulle possibili soluzioni; la famiglia deve essere ingaggiata evitando che l’adolescente si senta responsabile di aver rovinato la sua vita e quella della sua famiglia. Nell’FBT, focalizzandosi sull’aspetto del peso, si va comunque a riorganizzare le relazioni sociali e di attaccamento, pur non intervenendo come nella terapia sistemica secondo Minuchin: i genitori sono esortati con perseveranza a lavorare insieme su questo punto “sintonizzandosi tra di loro e concordando” nelle posizioni assunte verso il proprio figlio. Viene conferito così ai genitori un mandato molto chiaro “d’ora in poi siete voi genitori a dover prendere in mano la situazione alimentare di vostro figlio!”.

Nella seconda sessione si svolge il “pasto familiare”: in precedenza ai genitori viene richiesto di portare un pasto che entrambi decidono insieme. L’osservazione del momento critico del pasto familiare ha due intenti: fornire informazioni sul funzionamento familiare e capire in che modo la famiglia si è adeguata alla malattia (ulteriori comportamenti disfunzionali e di disturbo). L’enfasi in questa fase è posta sullo sforzo congiunto che i genitori devono fare per salvare la vita del loro figlio (parental training con esercizi di perseveranza). È importante costruire un contesto diverso in cui la paziente possa sperimentare due genitori “allineati” contro la malattia pur condividendo e supportando la difficoltà del figlio adolescente.

Il concetto dell’esternalizzazione, ossia la separazione dell’adolescente dalla sua malattia, fornisce all’adolescente stesso la consapevolezza che il terapeuta ha una chiara idea della lotta in cui si dibatte; questo aiuta ad attribuire i giusti significati, riducendo i sensi di colpa ed il criticismo genitoriale. Le prime sessioni, focalizzate sul peso, hanno un taglio comportamentale. Quando il paziente arriva al recupero del 75% del peso corporeo salutare si può passare alla fase 2 che ha l’obiettivo di raggiungere il 90% del recupero ponderale. Prima di ridare il controllo della propria alimentazione all’adolescente bisogna assicurarsi di avere “una rete di sicurezza intorno”: nella fase 2 ogni pasto deve essere ancora sottoposto alla supervisione dei genitori; l’adolescente però inizia ad essere coinvolta nelle decisioni alimentari visto che la “sua parte sana sta riemergendo”.

Durante il corso si sono svolti esercizi di role-playing con alcuni partecipanti e sono stati visionati video e trascritti esemplicativi che hanno didatticamente chiarito le procedure di intervento.
Ad arricchire il valore clinico e scientifico dell’evento svoltosi a Roma l’intervento del Dott. Armando Cotugno, direttore della UOSD Disturbi del Comportamento Alimentare ASL RME, che ha illustrato, in ultima analisi, l’esperienza italiana del protocollo FBT in un contesto istituzionale pubblico.

Le conseguenze del trauma (con e senza disturbo post traumatico da stress) sulle funzioni esecutive

Martina Torresi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Quali sono i fattori, oltre al trauma in sé, che possono rappresentare cause di rischio o di protezione per lo sviluppo ed il mantenimento dei sintomi del DPTS? Molteplici ricerche correlano la presenza di eventi traumatici a deficit cognitivi che interessano l’attenzione, la memoria e le funzioni esecutive.

Il DSM V classifica il disturbo post-traumatico da stress (DPTS) come un disturbo indipendente dai disturbi d’ansia, classificandolo all’interno della sezione ‘Disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti’ che comprende: il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito, il DPTS, il disturbo da stress acuto e i disturbi dell’adattamento (DSM V).

Kessler et al., 1995 hanno stimato che circa il 50-60% di persone, durante il corso della propria vita, potrà essere esposta ad un esperienza traumatica, che può riguardare traumi relativi a combattimenti, aggressioni sessuali, incidenti, o altri orrori di vita. Ma è stato stimato che soltanto il 5-10% delle persone svilupperanno sintomi specifici per una diagnosi di DPTS.

Tale osservazione ha portato i ricercatori a considerare quali sono i fattori, oltre al trauma in sé, che possono rappresentare cause di rischio o di protezione per lo sviluppo ed il mantenimento dei sintomi del DPTS. Molteplici ricerche correlano la presenza di eventi traumatici a deficit cognitivi che interessano l’attenzione, la memoria e le funzioni esecutive (DePrince et al., 2009).

La letteratura ha contribuito ad evidenziare come gli approcci neuropsicologici rappresentino un’importante via che ci permette di individuare i fattori di vulnerabilità e quelli di recupero rispetto allo sviluppo e al mantenimento dei sintomi del DPTS (Aupperle et al., 2011).

De Bellis et al., 2013 mettono in risalto il concetto di sviluppo traumatologico, in riferimento all’impatto psicobiologico che i maltrattamenti e le violenze interpersonali possono avere sullo sviluppo dei bambini. Il modello dello sviluppo traumatologico (De Bellis, 2001) si basa sul modello psicobiologico del DPTS chiamato anche reazione di attacco-fuga. Quest’ultimo afferma che la paura ed i ricordi traumatici associati alle esperienze di maltrattamento infantile, vengono elaborati attraverso il talamo attivando poi l’amigdala, responsabile della rilevazione degli stimoli di paura. L’amigdala trasmette successivamente i segnali di paura ai neuroni della corteccia prefrontale, all’ipotalamo e all’ippocampo, struttura cerebrale coinvolta nella memoria, il quale causa elevate risposte di cortisolo. Vi è inoltre un aumento dell’attività nel locus coeruleus che comporta una maggiore attività del sistema nervoso simpatico, dei neurotrasmettitori legati allo stress (catecolamine), del battito cardiaco, della pressione sanguigna, dell’indice metabolico e una maggiore allerta.

Tali modificazioni preparano il corpo a proteggersi dal pericolo, ma risultano essere dannose quando persistono in determinate relazioni stressanti e disuguali, come nel maltrattamento genitore-bambino. Tale stress chimico compromette la corteccia prefrontale e le funzioni esecutive (Arnsten, 1998). La corteccia prefrontale a sua volta può inibire l’attivazione dell’amigdala, meccanismo responsabile della riduzione dei sintomi del DPTS. Quindi, il modello di sviluppo traumatologico basato su un modello psicobiologico statico del DPTS, predice che i giovani maltrattati potrebbero mostrare deficit rispetto alle funzioni esecutive prefrontali e rispetto alle funzioni mnesiche. Un modello di sviluppo traumatologico dinamico invece, potrebbe predire che il sistema di sviluppo dello stress colpisce funzioni cerebrali multiple che possono essere inizialmente legate ai sintomi acuti del DPTS, ma che poi innescano conseguenze indipendenti ed effetti sfavorevoli. Così un precoce trauma attiva un meccanismo che può causare deficit neuropsicologici globali e multipli in aree e domini che non sono collegati però ai sintomi tipici del DPTS né a psicopatologia.

Deficit delle funzioni esecutive (FE) sono stati riscontrati negli adulti esposti al trauma (El-Hage et al., 2006; Navalta et al., 2006), inclusi quelli con DPTS (Kremen et al., 2007; Parslow & Jorm, 2007) e con sintomi dissociativi (DePrince & Freyd, 1999; Simeon et al., 2006).

Rispetto a ciò, Aupperle et al. (2011) riassumono i risultati di studi che hanno indagato le FE associate al DPTS. In particolar modo, prendono in considerazione deficit riguardanti le capacità di inibizione e di regolazione attentiva, che possono precedere ed essere antecedenti all’esposizione traumatica e quindi rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo del DPTS, ed essere collegati alla gravità dei sintomi.

Sebbene molte ricerche neuropsicologiche nell’ambito del DPTS si siano concentrate sullo studio delle funzioni mnesiche e di apprendimento, altre hanno indagato la possibilità di un eventuale malfunzionamento del lobi frontali e quindi delle FE.

Nel considerare le FE gli autori fanno riferimento alle capacità di mantenimento e di controllo di comportamenti complessi diretti ad uno scopo (Alvarez and Emory, 2006; McCabe et al., 2010). Le FE includono:

  • L’attenzione, focalizzazione della propria mente su un particolare stimolo all’interno dell’ambiente
  • La working memory, mantenimento attivo e manipolazione dell’informazione nella propria mente per un certo periodo di tempo
  • L’attenzione sostenuta, mantenimento dell’attenzione su un insieme di stimoli o su un compito per un periodo di tempo prolungato
  • La capacità inibitoria, inibizione di risposte automatiche e mantenimento del comportamento diretto allo scopo
  • La flessibilità e/o lo switching, abilità di passare da un compito all’altro o da una strategia ad un’altra
  • La pianificazione, abilità di sviluppare ed eseguire comportamenti strategici al fine di raggiungere un obiettivo futuro (McCabe et al., 2010; Repovs and Baddley, 2006).

Aupperle et al. 2011 hanno deciso di focalizzarsi sulle FE e sull’attenzione piuttosto che sull’apprendimento e sulla memoria per due motivi: in primo luogo ci sono state recenti review che hanno discusso la relazione tra memoria, apprendimento e DPTS, in secondo luogo recenti ricerche hanno messo in evidenza che training di modificazione attentiva possono essere vantaggiosi nel trattamento dei disturbi d’ansia (Amir et al., 2009a; Schmidt et al., 2009; Amir et al., 2009b; Najmi and Amir, 2010). Così la ricerca orientata al funzionamento dell’attenzione e della working memory può aumentare la nostra conoscenza rispetto al DPTS e condurci a trattamenti più efficaci per questa tipologia di pazienti.

Dal lavoro di Aupperle et al., 2011 vengono discussi vari risultati. In primo luogo gli autori mettono in evidenza come vi siano alcuni fattori cognitivi di rischio che correlano con sintomi del DPTS; tra questi individuano funzionamento attentivo, esecutivo e mnesico pre-trauma.

Per quanto riguarda l’attenzione e la working memory emerge che persone con DPTS, che avevano subito aggressioni sessuali o avevano avuto esperienze di guerra, quando confrontate con vittime senza DPTS e controlli senza trauma, presentano basse performance in compiti di attenzione uditiva e working memory (Burriss et al., 2008). Per quanto riguarda l’attenzione sostenuta e le funzioni inibitorie gli studi hanno ripetutamente trovato che persone con DPTS mostrano perfomance ridotte in compiti volti a valutare l’attenzione sostenuta uditiva e visiva (Continuous performance test, CPT) riportando un elevato numero di errori di intrusione, indice di difficoltà inibitorie (Wu et al., 2010); anche quando sottoposti a prove volte valutare le capacità di inibizione (prove Go-no-go, Attention network tasks, Stroop test), la performance di persone con DPTS è consistentemente deficitaria e correla con la gravità dei sintomi del DPTS (Lagarde et al., 2010; Wu et al., 2010). Resta difficile determinare la direzionalità di questi effetti visto che tali ricerche si basano su disegni cross-sectional. Infatti l’aumentato arousal e i sintomi intrusivi (l’evento traumatico viene rivissuto) possono determinare maggiore distrazione quando un individuo sta provando a concentrarsi sul compito, così da interferire con la working memory, l’attenzione sostenuta e le funzioni inibitorie. E’ possibile inoltre che le difficoltà di inibizione si manifestino non solo nella diminuzione della performance ma anche compromettendo l’abilità ad inibire memorie emotive e l’arousal fisiologico in risposta ai vari triggers durante il compito.

Rispetto alle capacità di flessibilità, switching attentivo e pianificazione, essenziali per il controllo esecutivo, le conclusioni risultano incongruenti: alcuni studi (Stein et al., 2002; Jenkins et al., 2000) su persone con DPTS evidenziano difficoltà di flessibilità e switching (indagate con il Trail making test, TMT) caratterizzate da un aumento del tempo impiegato a risolvere il compito, mentre altri non riscontrano tali difficoltà (Twamley et al., 2009; Lagarde et al., 2010).

Per quanto riguarda le capacità di pianificazione nel DPTS, valutate con il test della Torre di Londra e il Wisconsin Card-Sorting Test (WCST), non sono emersi deficit importanti (Lagarde et al., 2010) ma affiora solo una difficoltà iniziale di problem solving in quanto nello svolgimento del WCST nelle persone con DPTS emerge un aumento del numero di trials utilizzati per il completamento della prima categoria del compito (Twamley et al., 2009).

E’ possibile affermare come le capacità di pianificazione e le strategie di switching in persone con DPTS risultino essere risparmiate nei compiti che non richiedono limiti di tempo (WCST) a differenza di quelli che lo richiedono (TMT) e che working memory, attenzione sostenuta e capacità inibitorie siano compromesse in casi di DPTS.

Anche studi di neuro-immagine mettono in evidenza differenze nei correlati neurali che vengono ad attivarsi in soggetti sani e in soggetti con DPTS in relazione alle FE. Tali studi mostrano che in soggetti sani, durante compiti che richiedono capacità di inibizione, vi è un’attivazione delle aree della corteccia frontale inferiore, della corteccia orbitofrontale, e della corteccia prefrontale laterale, quest’ultima specificatamente implicata in risposte inibitorie (Aron et al., 2003; Bledowski et al., 2010). In soggetti con DPTS invece si evidenzia una ridotta attivazione della corteccia prefrontale laterale durante lo svolgimento di compiti richiedenti capacità inibitorie (Falconer et al., 2008). Tuttavia un’importante limitazione di questi studi è il riscorso eccessivo a campioni clinici che corrono il rischio di enfatizzare eccessivamente gli effetti specifici della sintomatologia del DPTS sui deficit cognitivi a scapito degli effetti intrinseci del trauma (Navalta et al., 2006).

I deficit cognitivi potrebbero precedere l’inizio del DPTS, svilupparsi insieme all’evento traumatico o insorgere al manifestarsi dei sintomi (Brandes et al., 2002). Per tale motivo studi che utilizzano solo pazienti con DPTS per analizzare gli effetti del trauma sulle FE, non consentono di comprendere le reali conseguenze del trauma sugli aspetti cognitivi.

Navalta et al., (2006) per superare questo problema, hanno indagato gli effetti dell’abuso sessuale in relazione allo sviluppo neurocognitivo in un campione di riferimento non clinico, cioè che non aveva sviluppato una diagnosi di DPTS. Lo studio metteva a confronto 26 donne con storia di abuso sessuale (traumatizzate) con 28 donne senza storia di abuso sessuale (assenza di trauma). I risultati mostrano che l’abuso sessuale è associato a difficoltà cognitive, in particolar modo differenze significative tra i due gruppi sono emerse in compiti volti a valutare le capacità inibitorie, abilità comprese nelle FE.

Così come Navalta et al. (2006), anche De Bellis et al. (2013) indagano il funzionamento cognitivo in bambini e adolescenti mettendo a confronto gruppi clinici con gruppi non clinici. Il campione è formato da tre gruppi: gruppo maltrattati che avevano sviluppato un DPTS; gruppo maltrattati che non avevano sviluppato un DPTS; gruppo di controllo non maltrattati. In accordo con il modello di sviluppo traumatologico sia statico che dinamico (De Bellis, 2001), gli autori ipotizzano che entrambi i gruppi di bambini maltrattati (sia con DPTS che senza) avrebbero riportato performance significativamente peggiori in tutti i domini neuropsicologici rispetto al gruppo di controllo, e che il gruppo di bambini maltrattati con DPTS avrebbe mostrato performance significativamente peggiori in compiti volti a valutare la memoria e le FE rispetto al gruppo dei solo maltrattati e al gruppo di controllo.

E’ stato indagato inoltre se specifiche tipologie di abuso sono associate a specifici domini neuropsicologici, tenendo sotto controllo la gravità del maltrattamento. Per quanto riguarda gli esiti neuropsicologici, non emergono differenze tra i due gruppi di bambini maltrattati: entrambi i gruppi maltrattati (sia con DPTS che senza) eseguono similmente e significativamente peggio prove volte a valutare il QI, il rendimento scolastico, e tutti i domini neuropsicologici eccetto quello fine-motorio, dimostrando come le difficoltà cognitive emergano indipendentemente dalla diagnosi di DPTS.

Non emergono inoltre differenze rispetto alle funzioni esecutive nei due gruppi di bambini maltrattati ma abbiamo differenze tra i due gruppi solo rispetto le abilità visuo-spaziali, che però includono FE di ordine superiore e che quindi supportano l’ipotesi secondo cui il modello di sviluppo traumatologico dinamico predice performance peggiori in compiti volti a valutare le funzioni esecutive nel gruppo maltrattati con DPTS rispetto ai solo maltrattati. I risultati mostrano una relazione tra le variabili di maltrattamento e il funzionamento cognitivo, tale che una durata maggiore della diagnosi di DPTS correla con più basse funzioni visuo-spaziali, i sintomi dissociativi correlano negativamente con il dominio attentivo, e l’esperienza di ripetuti tipi di maltrattamento risulta negativamente associata al dominio dei risultati accademici, mostrando quindi degli effetti cumulativi del trauma che non sono collegati al DPTS. Questo dato supporta il modello di sviluppo traumatologico dinamico secondo il quale un precoce trauma può portare a meccanismi che causano deficit neuropsicologici multipli e globali che non sono collegati ai sintomi dell’attuale DPTS o a psicopatologia.

Solo l’indice di abuso sessuale correla significativamente e negativamente con due principali domini cognitivi: memoria e linguaggio. Ciò suggerisce che bambini abusati sessualmente riportano performance peggiori in compiti che valutano capacità di linguaggio e memoria rispetto a bambini che subiscono altre forme di maltrattamento. In letteratura è stato osservato inoltre che la natura del trauma può influenzare in modo specifico il funzionamento cognitivo nei pazienti traumatizzati. A tal proposito l’obiettivo di DePrince et al., (2009) è stato quello di mostrare che i bambini esposti a trauma familiare (abuso fisico, violenza sessuale ed esposizione alla violenza domestica) avrebbero mostrato deficit delle FE maggiori rispetto a bambini esposti a traumi non familiari. Successivamente alla somministrazione di questionari e una batteria neuropsicologica che andava ad indagare le FE, tra cui working memory, capacità di inibizione, velocità di elaborazione, controllo delle interferenze e attenzione uditiva, un totale di 110 bambini è stato suddiviso in tre gruppi: gruppo con trauma familiare (maltrattamenti fisici e sessuali di tipo famigliare); gruppo con trauma non familiare (calamità naturali, incidenti automobilistici, e/o nella comunità/violenza dei pari); gruppo senza trauma.

Lo studio rivela un effetto della relazione tra condizione di esposizione al trauma familiare e prestazioni nei compiti delle FE, pur tenendo sotto controllo le variabili che contribuiscono ad influenzare la performance sulle FE (condizione familiare di esposizione al trauma, ansia e sintomi dissociativi, presenza di lesioni cerebrali, status socio economico). I bambini esposti a trauma familiare rispetto ai loro pari mostrano prestazioni compromesse nei compiti che valutano le FE rispetto sia al gruppo trauma non familiare che al gruppo di controllo. Tale studio però non è in grado di determinare la direzione causale della relazione tra FE ed esposizione al trauma familiare.

Potrebbe essere che il deficit delle FE aumenti il rischio di esposizione al trauma, piuttosto che l’esposizione al trauma potrebbe comportare deficit nelle FE. Tuttavia non è possibile escludere che il deficit delle FE aumenti il rischio di violenza familiare.

Il processo adolescenziale: teoria e tecnica

È come se si versasse vino nuovo in vecchi otri

(Winnicott , D.W., 1962)

Nell’adolescenza si definisce il rapporto tra il riproporsi dell’identico e l’emergere del nuovo (Cahn, R., 2000).

Nel senso di contenere, organizzare, dare un nome agli incessanti cambiamenti interni ed esterni che riguardano questa fase dello sviluppo e che ci rendono altri nella misura in cui rimaniamo noi stessi (Cahn, 2000).

R. Cahn (2000) parla di soggettivazione intesa come processo di assunzione della soggettività. Essa rinvia a quell’insieme di azioni psichiche che conducono l’individuo a percepire la propria individualità creando uno spazio psichico personale adeguato, che permette una differenziazione con l’esterno e allo stesso tempo una capacità di auto simbolizzazione dell’esperienza. Questo processo riguarda il corso dell’intera vita dell’individuo e in questa fase dello sviluppo trova uno snodo cruciale.

Vediamo che il processo di soggettivazione di ogni individuo dipende dalle determinanti interne del soggetto ma anche dalla cultura e dalle norme della società che gli è propria. Ogni psicoanalista deve occuparsi della realtà psichica dell’adolescente, ma anche dell’oggetto esterno, della realtà sociale e persino di una pseudo realtà psichica che il paziente può costruirsi (Cahn, R., 2000).

Su questo rapporto si incentra il lavoro psicoanalitico che mira a rintracciarne la problematica dalle origini fino all’organizzazione più o meno definitiva della mente.

L’adolescenza è un periodo in cui si presentano dei profondi cambiamenti biologici, psichici e sociali. Assistiamo, infatti, in questo periodo, a delle trasformazioni corporee, anatomiche e fisiologiche e ad un ampliamento delle capacità cognitive. Tutti questi cambiamenti portano nell’adolescente ad elaborare un nuovo statuto del corpo, dell’identità e del mondo.

Come ricorda Margot Waddell (2000), i cambiamenti fisiologici della pubertà si verificano solitamente prima di quelli emotivi, questo soprattutto per quanto riguarda il sesso femminile. Infatti, molte ragazze iniziano ad avere le mestruazioni e a sviluppare caratteristiche sessuali secondarie all’età di dieci o persino nove anni. Questi cambiamenti corporei portano con se un sentimento perturbante (Freud, S., 1919), infatti, la comparsa del corpo genitale è vissuto in un primo tempo come estraneo ed esterno al ragazzo, rispetto alle precedenti sicurezze del periodo infantile.

L’adolescente, pertanto, in questo processo di cambiamento, attraversa un lutto normale riferito su più fronti: lutto dei genitori, idealizzati nell’infanzia; lutto del corpo infantile; lutto della propria identità e del proprio ruolo nel mondo infantile (Selener, G., 1991).

Per poter far subentrare la realtà genitale, dovrà compiere una scelta importante per l’identità sessuale: essere donna oppure uomo? E dovrà rispondere ad una domanda che riguarda il processo di soggettivazione: chi sono io? Queste domande portano con sé dei turbamenti, sentiti spesso come insopportabili, sono vissuti che il giovane vorrebbe evacuare e dai quali vorrebbe difendersi.

Spesso in questo periodo assistiamo a dei comportamenti delinquenziali che servono per alleviare la tensione degli impulsi aggressivi e sessuali. Inoltre, i comportamenti delinquenziali servono all’adolescente a sondare i limiti dell’autorità esterna ed interna: il giovane mette alla prova gli altri e se stesso. Questo modo di rapportarsi gli permette il progressivo distanziamento dalle proprie figure di attaccamento primario, per creare poi un pensiero proprio, per sciogliere e per poi riallacciare i legami antichi al fine di renderli attuali (Cahn, R., 2000).

I genitori tuttavia, permangono come base sicura, specialmente nei momenti di forte difficoltà, ma si riattiva una rinegoziazione dei ruoli e delle posizioni all’interno della famiglia, sia da parte dei figli che da quella dei genitori. Il conflitto con l’autorità genitoriale implica un’elaborazione dei fantasmi di parricidio e matricidio che, dopo il complesso edipico, si riattualizzano in questa fase (Salvucci, A., 2010).

L’Io viene nuovamente sottoposto ad una forte pressione istintuale, infatti, lo stesso S. Freud (1905) sosteneva che la pubertà rilancia il movimento edipico interrotto nel periodo della latenza e lo porta a termine. Tuttavia, la riaccensione adolescenziale delle tendenze edipiche suscita angosce di castrazione, fantasie o paure di perdita dell’amore o degli oggetti d’amore che possono provocare delle infantilizzazioni difensive oppure riattivare la fantasia masturbatoria centrale (Laufer, M., 1984), in base alla quale l’adolescente rivive fantasie fusionali infantili (Ammanniti, M., 1989).

Durante l’adolescenza il ragazzo dovrà confrontarsi nuovamente con il senso di colpa, con il timore della perdita, con la gratitudine e la sensibilità nei confronti degli altri. Meltzer D. (1993) descrive l’adolescenza come un periodo di crisi dello spazio mentale e della sua integrazione, caratterizzato dalla presenza di un particolare tipo di splitting: da un lato l’invidia per il potere, l’egocentrismo, l’ambizione sfrenata; dall’altro la sensibilità per i deboli, l’idealizzazione dell’altruismo, l’emotività.

Nel tentativo di trovare ed esprimere un proprio nuovo modo di essere, l’adolescente oscilla continuamente tra queste due posizioni, vivendo uno stato di grande confusione tra ciò che può portarlo avanti o indietro, rispetto a quella che percepisce chiaramente come una scomoda e faticosa situazione intermedia tra infanzia ed età adulta. Nel desiderio di prendere le distanze dalla dimensione infantile, considerata debole e dipendente, l’adolescente teme fortemente la sua stessa grande sensibilità, perché ha paura che mostrarsi troppo sensibile lo possa far, di nuovo, scivolare indietro verso l’infanzia e la dipendenza dagli adulti. Contemporaneamente, nel desiderio di progredire verso la dimensione adulta, tende a pensare che l’unico modo di rendersi indipendente sia quello di andare avanti senza pietà.

Come è stato messo in luce da contributi psicoanalitici (Freud, A., 1957; BIos, P., 1962) e da ricerche psicologiche, in questo periodo si verifica uno spostamento della dipendenza dai genitori ai coetanei. Nell’adolescenza si possono evidenziare processi assimilabili a quelli presenti nella prima fase di separazione-individuazione. La spinta alla sperimentazione e alla curiosità si ripropone nuovamente nel campo delle relazioni nel gruppo di coetanei, così come si possono assimilare molti comportamenti a quelli presenti nella fase di riavvicinamento, rintracciabili soprattutto nell’ambivalenza che caratterizza la relazione con gli adulti e soprattutto con i genitori.

Steinberg (1986) ha mostrato con le sue ricerche che gli adolescenti diventano più autonomi dai genitori sul piano emotivo e nello stesso tempo sono più suscettibili all’influenza dei coetanei, in particolare nel periodo fra i 14 e i 15 anni, quando la ristrutturazione del Sé è in primo piano. Dopo questa età l’influenza dei coetanei si riduce anche perché il Sé dell’adolescente è maggiormente integrato. Interessante che nel caso delle ragazze il 25% dimostri gradi elevati di autonomia rispetto ai genitori e ai coetanei, che si trovano solo nel 12% dei ragazzi.

Come afferma Wolf (1982):

Per tutta la vita si mantiene il bisogno di un sostegno al proprio Sé, anche se l’intensità e la forma del rispecchiamento cambiano in modo appropriato all’età.

Il gruppo dei pari, inoltre, diviene contenuto e contenitore degli investimenti identificatori e di idealizzazione dei nuovi oggetti, fonte di gratificazione e di sostegno narcisistico. Esso può essere utilizzato come elemento di esternalizzazione delle diverse parti di sé; come afferma Meltzer (1977), i processi sociali messi in moto, favoriscono, tramite la realizzazione nel mondo reale, la graduale diminuzione della scissione, dell’onnipotenza e il ridursi dell’angoscia persecutoria.

Quando parliamo dell’adolescenza e dell’importanza che assume il rispecchiamento potremmo rifarci alla teoria della conoscenza umana che Platone sviluppa nel suo dialogo Alcibiade. Nel dialogo Socrate, riferendosi all’iscrizione di Delfo, si rivolge ad Alcibiade: ‘se l’iscrizione consigliasse l’occhio, come consiglia l’uomo, dicendo: ‘guarda te stesso’, in che modo e cosa penseremmo voglia consigliare? non forse a guardare qualcosa guardando la quale l’occhio fosse in grado di vedere se stesso?’. Socrate continua ad interrogarsi ‘quale oggetto v’è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi’, e Alcibiade in risposta: ‘è chiaro. Socrate, gli specchi e oggetti simili’. Socrate prosegue nelle sue argomentazioni: ‘hai osservato che poi a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è un’immagine di colui che guarda’ (Narcy, M., 2005).

Diversamente tuttavia stanno le cose quando parliamo di banda: essa trova la sua forza di coesione nel suo scopo distruttivo (Rosenfeld, H., 1972). La banda quando si riunisce ha il falso scopo di garantire sicurezza e protezione ai membri che ne fanno parte, ma il compito primario è quello di recare danno. Inoltre la sua funzione è di sorveglianza (Polacco, W., 1999).

Come ricorda Rosenfeld H. (1972), il narcisismo distruttivo di questi pazienti è organizzato da una banda in cui vi è un capo che controlla tutti per attuare il piano distruttivo.  La richiesta di aiuto, in questa fase evolutiva, non viene quasi mai dall’adolescente stesso ma, di frequente, ci si trova di fronte all’invio da parte dei genitori, della scuola, dei tribunali, ecc.

Il primo problema nella costituzione di un setting terapeutico è che qualsiasi tipo di psicoterapia è sempre condotta da un adulto e, dal punto di vista dell’adolescente, spesso, gli adulti appaiono come i gestori di una struttura di potere e di controllo. L’adolescente tende a rifiutare l’aiuto psicoterapeutico sia perché teme una manipolazione da parte di un adulto che, pretendendo di curarlo, potrebbe cercare di imporgli modelli di pensiero e di comportamento inaccettabili, sia perché il lavoro psicoterapeutico potrebbe comportare la rivisitazione dolorosa dei propri conflitti.

Per ciò che riguarda la tecnica psicoanalitica con gli adolescenti mi sembra opportuno citare una frase a me cara: ‘la condizione vulcanica dell’adolescente è necessario coglierla, è necessario utilizzarla’ ( Pierre Mâle, 1972). In analisi lo spazio dell’adolescenza ha dei confini alle volte indefinibili, il transfert può dispiegarsi a fatica. Per Anna Freud (1957) gli adolescenti erano i figliastri della psicoanalisi, non erano candidati alla psicoanalisi classica proprio per il loro essere in continua metamorfosi.

L’adolescente è poco propenso a focalizzarsi sulle proprie esperienze infantili mentre preferisce parlare di ciò che avviene nella propria vita reale attuale. Compito dell’analista è quello di comprendere l’influenza della storia passata dell’adolescente focalizzandosi sul suo mondo interpersonale, esterno ed interno al setting, in modo da espandere l’esperienza del Sé dell’adolescente. Il setting ha in sé una funzione materna, quella di holding, di contenitore e una funzione paterna esercitata dalle regole dello stesso.

Lo scopo del terapeuta, che ha in cura un adolescente, è quello di permettere al ragazzo il completamento del processo evolutivo. Come ricordano anche le neuroscienze, la psiche in questo periodo, andrebbe considerata come una struttura evolutiva disarmonica. Proprio queste dis-armonie devono essere colte durante il trattamento analitico poiché, questa modalità di funzionamento e i relativi meccanismi di difesa messi in atto nel lavoro clinico, ne rivelano le peculiarità. L’obiettivo è utilizzarle via via che ne fanno la comparsa per poter essere rielaborate. Ma forse ancor di più bisogna favorirne l’emergenza o ridurne gli ostacoli che frappongono a ciò. Questi ostacoli sono, tuttavia, resistenze in rapporto a conflitti infantili inconsci, impedimenti della possibilità stessa di pensare, di desiderare e agire per proprio conto.

L’analista nel transfert è spesso vissuto sia come persecutore, sia come colui che salverà l’adolescente da questa sessualità vissuta come incestuosa, da questo corpo e dai propri fantasmi. Vediamo che l’adolescente in psicoanalisi deve provare affidabilità nell’analista, nella sua capacità simultanea d’identificazione e di distanziamento, deve trovare la giusta distanza tra Scilla e Cariddi, fra seduzione e freddezza.

Anche il setting deve essere contenitivo, tale da assicurare affidabilità e costanza poiché esso potrebbe far rivivere vissuti abbandonici specialmente se questi sono stati alimentati da fallimenti reali nelle relazioni primarie. L’adolescenza, quindi, rappresenta un periodo delicato dello sviluppo dell’individuo: ‘Se tutto si prepara nell’infanzia, se non nella primissima infanzia, forse addirittura nei primissimi giorni di vita, tutto si gioca nell’adolescenza’ (Kestemberg, E., 1980).

Pertanto, è utile dare ascolto alle parole, ai silenzi, agli agiti dell’adolescente e cercare di intervenire lì dove si è creata una falla nel processo evolutivo.

Bisogna che il fiume trovi una diga, formi dei vortici, trascini via con sé ciò che lo circonda per misurare la forza del suo flusso, scavare il proprio letto e correre verso il mare integrando i nuovi ostacoli, le figure edipiche che lo arricchiranno, in maniera forse dolorosa ma senz’altro necessaria. Se, al contrario, la diga viene aggirata o semplicemente sostituita da una divisione del corso delle acque, queste si riducono, si esauriscono sterilmente oppure si scindono e si perdono rumorosamente.

(Kestemberg, E.,1980).

Quando la genitorialità è funzionale e quando diventa disfunzionale e maltrattante

Il parenting è un concetto che consente di osservare, interpretare e comprendere come si struttura lo sviluppo psico-socio-culturale del bambino nelle sue diverse articolazioni ed effetti. Il parenting, infatti, condiziona il benessere e il malessere fisico e psicologico del bambino e favorisce o ostacola i processi di sviluppo e crescita fisica e psicologica. In questo senso il parenting può essere osservato in una dimensione di protezione, quando è funzionale allo sviluppo, o di rischio e compromissione, quando è disfunzionale e maltrattante.

La relazione figli-caregiver è lo spazio relazionale primario in cui si sviluppano i processi mentali che determinano lo sviluppo del sé, delle rappresentazioni mentali dell’altro e del mondo. Esiste un momento della vita di ogni persona in cui il soggetto vive in uno spazio relazionale neutro in cui fa esperienza del significato delle relazioni: è in questa fase che inizia a riconoscere e decodificare l’accudimento del genitore e co-costruire un’aspettativa relazionale espressione della rappresentazione di sé e dell’altro ( Stern, 1987). In questo spazio relazionale primario, caratterizzato dai processi di accudimento del caregiver, si realizzano tutti i processi di sviluppo psico-fisico-sessuale del bambino.

Il parenting è il concetto che meglio rappresenta “ il processo relazionale finalizzato all’accudimento”. Questo è “co-determinato dal bambino e dall’adulto identificato come figura di riferimento, si realizza in una dimensione spazio-temporale e socio-culturale e promuove lo sviluppo fisico e psico-socio-culturale-educativo del bambino”. (Paradiso, 2015). Il parenting è un concetto che consente di osservare, interpretare e comprendere come si struttura lo sviluppo psico-socio-culturale del bambino nelle sue diverse articolazioni ed effetti. Il parenting, infatti, condiziona il benessere e il malessere fisico e psicologico del bambino e favorisce o ostacola i processi di sviluppo e crescita fisica e psicologica. In questo senso il parenting può essere osservato in una dimensione di protezione, quando è funzionale allo sviluppo, o di rischio e compromissione, quando è disfunzionale e maltrattante.

 

Parenting funzionale

Per comprendere il parenting funzionale, disfunzionale e maltrattante è indispensabile osservare il rapporto tra accudimento e bisogni di sviluppo del bambino, nucleo centrale dei processi di accudimento. E’ la competenza del genitore di osservare, riconoscere e soddisfare i bisogni di sviluppo del bambino che determina un parenting funzionale.

Nel parenting funzionale i genitori sono in grado di gestire in modo adeguato le dinamiche famigliari, i processi di riconoscimento e soddisfazione dei bisogni evolutivi e il percorso di crescita e di sviluppo del bambino. In particolare è la qualità delle cure ricevute che determina il benessere relazionale del bambino: l’adeguatezza del comportamento di accudimento è il presupposto per la formazione del legame di attaccamento, dei modelli operativi interni, della rappresentazione di sé e degli altri.

 

Parenting disfunzionale

Nel parenting disfunzionale l’accudimento è precario, ambivalente, non orientato ai bisogni del bambino: il caregiver non riesce a osservare e quindi rispondere ai bisogni evolutivi del figlio e trasferisce su di lui richieste che non è in grado di capire e decodificare. In molti casi ha delle difficoltà a rendersi disponibile al figlio, a entrare in relazione con lui sul piano affettivo e cognitivo. L’effetto finale è un ambiente famigliare caratterizzato da messaggi contraddittori, da proposte non orientate alla fase di crescita e sviluppo del bambino. Il caregiver non è in grado di gestire le dinamiche famigliari specifiche del percorso di crescita di un figlio, di riconoscere e soddisfare i bisogni di sviluppo primari affettivi, sociali e culturali, di agire i comportamenti di monitoring nelle attività dei figli, di regolazione emotiva e comportamentale.

Nel parenting disfunzionale il genitore trasforma i bisogni del bambino in funzione dei propri: è l’esempio di un genitore che non riesce ad adeguarsi alle tappe di sviluppo del figlio e a modulare il comportamento sui bisogni primari del bambino (alimentazione, sonno, controllo sfinterico, cura del corpo) determinando una situazione di deregulation educativa-emotiva-fisiologica che compromette lo sviluppo complessivo del bambino. Il parenting disfunzionale influenza naturalmente la formazione della rappresentazione di sé e dell’altro, il legame di attaccamento e i conseguenti modelli operativi interni.

 

Parenting maltrattante

Il parenting disfunzionale si può trasformare in un parenting maltrattante nel momento in cui il genitore non solo non è in grado di offrire un accudimento appropriato ai bisogni di sviluppo del bambino, ma opera una distorsione, inversione e negazione dei bisogni del bambino ( Paradiso, 2015). E’ l’esempio del genitore che nega il bisogno del bambino e offre un accudimento insufficiente, esperienza principale della trascuratezza, che distorce le esigenze del bambino, espressione tipica della patologia delle cure, che inverte i bisogni del bambino con i propri, sfruttandoli, caratteristica della realtà della violenza psicologica e dell’abuso sessuale.

Quindi, gli effetti del parenting maltrattante sono le situazioni di trascuratezza, deprivazione affettiva, maltrattamento e abuso. Il parenting maltrattante comprende tutte le azioni che compromettono lo sviluppo psico-fisico-sessuale del bambino, ledono l’integrità fisica e psicologica, sfruttano la debolezza e la fragilità psicologica del bambino per soddisfare i bisogni personali. Nel parenting maltrattante i genitori sfruttano il potere nei confronti del figlio, non sono in grado di tutelarlo, seguirlo e crescerlo in una logica di protezione, strumentalizzano la relazione con lui per il soddisfacimento dei bisogni dell’adulto, sino ad aggredire il figlio o a sfruttare i suoi bisogni di sviluppo.

 

Gli effetti a lungo termine e nella vita adulta dei tipi di parenting

Il parenting funzionale, disfunzionale e maltrattante rappresenta un’area concettuale importante nella comprensione non solo dello sviluppo del bambino, ma del benessere/ malessere psicologico della persona nel suo intero percorso di vita. Le numerose testimonianze nell’ambito della clinica, infatti, dimostrano l’impatto del parenting disfunzionale e maltrattante nella storia della persona e, in particolare, in alcune fasi di transizione del ciclo di vita. In particolare nella transizione alla maternità e paternità, biologica o adottiva, i vissuti della donna e dell’uomo in relazione all’accudimento ricevuto emergono in modo prepotente come flash back, come paura, come ansia nel caso di un parenting disfunzionale e maltrattante o come ricordo positivo, serenità, come desiderio di genitorialità, percezione di competenza nel caso di un parenting funzionale.

Il parenting, infatti, è un processo che lega le generazioni attraverso i processi di interiorizzazione dei sistemi di accudimento formando un sistema di “trasmissione intergenerazionale del parenting”. In assenza di un percorso di elaborazione personale o di gruppo è comune osservare la somiglianza dei comportamenti educativi all’interno della famiglia allargata. In conclusione il parenting è un costrutto centrale nella psicologia dello sviluppo, nella psicologia clinica e di comunità poiché rappresenta uno dei processi relazionali di base della nascita psicologica del bambino ( Stern, 1987l) e il principale fattore protettivo e di rischio del benessere/malessere dell’infanzia.

Delusioni d’amore? #VoltaPagina – il 2° Video

Il 40% degli italiani ha consultato almeno una volta un mago.

Solo il 20% ha consultato almeno una volta uno psicologo.

Nella nostra società, e tanto più in questi tempi di crisi, non mancano i motivi per sentirsi stanchi, stressati, inquieti, confusi di fronte ai più diversi problemi che la vita può metterci davanti.

Non sempre questi stati psicofisici vanno considerati come “disturbi”: a volte lo sono, ma a volte sono una risposta “normale” che la mente e l’organismo oppongono a circostanze difficili, dolorose, problematiche. E a volte si ha l’impressione di non farcela ad affrontare da soli i problemi che inquinano le nostre giornate e ci tolgono la serenità; a volte non sapremmo neanche dire perché ci sentiamo arrabbiati, ansiosi o infelici. In questi casi è bene ammettere con sé stessi che le energie non bastano, e cercare aiuto.

Se hai un problema emotivo, una disarmonia in famiglia, nella scuola, nel lavoro, nella vita sociale, rivolgiti a uno psicologo.

Lo psicologo è un professionista con una laurea specifica, che ha superato un Esame di Stato ed è iscritto a un Albo pubblico che ne certifica la formazione e la preparazione ad affrontare esattamente quei problemi emotivi, psicofisici, ma anche sociali e organizzativi entro cui si genera il tuo stato di malessere.

#VoltaPagina

Lo psicologo non si occupa solo di salute mentale, ma di molte altre cose: visita il sito dell’Ordine Psicologi Lazio ( www.ordinepsicologilazio.it ), ideatore di questa campagna di sensibilizzazione #voltapagina

Non affidarti a chi non ha la giusta competenza per aiutarti. Psicologi e Psicoterapeuti sono i professionisti adeguati e formati appositamente per venirti in aiuto.

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Indagine sulla violenza domestica: la visione di sequenze di film famosi come strumento di analisi

 

La violenza domestica nei confronti delle donne è oggi, purtroppo, un fenomeno piuttosto diffuso, a prescindere dal paese e dalla cultura di appartenenza.

La Commissione Europea (2010) lo ha recentemente identificato come la più comune causa di violenza subita dalle donne, con una prevalenza del 22%; nondimeno, si calcola che il 41% degli omicidi compiuti nei confronti delle donne sia perpetrato proprio dal partner maschile. Incredibilmente, resiste ancora uno stigma sociale nei confronti delle vittime femminili di abusi domestici (sessuali e non), poiché il 55% dei cittadini europei ritiene che la prima causa di violenza domestica sia proprio un presunto comportamento provocatorio da parte della vittima, comportamento che eliciterebbe direttamente, secondo un’errata credenza comune, la reazione violenta del partner maschile.

E’ facile immaginare come tale stigma nei confronti delle vittime provochi i maggiori danni nel facilitare e perpetuare proprio i comportamenti abusanti meno violenti, rispetto a quelli più efferati: se, infatti, siamo tutti d’accordo nel condannare l’omicidio, potremmo trovarci meno d’accordo nel condannare quei comportamenti cosiddetti minori come la violenza sessuale o le semplici percosse nei confronti della donna con cui viviamo. E’ questo il ritratto che emerge dalle analisi della Commissione Europea: sembra che tali credenze non siano diffuse solo tra la popolazione maschile (potenzialmente abusante), ma anche tra la popolazione femminile (potenzialmente abusata) che troppo spesso – perciò – tace, nasconde e perfino giustifica le violenze minori subite, magari quotidianamente.

Purtroppo negli anni l’assessment psicologico dell’Intimate Partner Violence Against Women by their male partners (IPVAW) ha incontrato non poche difficoltà, che possiamo facilmente prevedere: utilizzando unicamente strumenti self-report che indaghino esplicitamente la tendenza a compiere tali violenze o le nostre credenze a riguardo, si ricade inevitabilmente nel bias della desiderabilità sociale: il maschio abusante non ammette mai esplicitamente i propri agiti, e tende – anzi –  a difenderli, giustificarli o minimizzarli.

Per tale motivo si è da anni alla ricerca di strumenti che indaghino queste credenze e tendenze in modo implicito, riuscendo quindi ad aggirare il desiderio dell’abusante di apparire migliori agli occhi degli altri. E’ quello che stanno provando a fare Enrique Gracia e colleghi, dell’Università di Valencia, che hanno di recente pubblicato su Frontiers in Psychology uno studio preliminare su di un nuovo strumento, il Partner Violence Acceptability Movie Task (PVAM).

L’idea è semplice quanto acuta: mostrare ai soggetti sequenze di film famosi (come Il colore viola o Pomodori verdi fritti alla fermata del treno) che rappresentano scene di violenza domestica e chiedere loro di fermare la riproduzione quando pensano che il comportamento dell’uomo stia diventando violento. L’ipotesi è che i soggetti (potenzialmente) abusanti abbiano credenze più permissive nei confronti della violenza domestica e che, dunque, lascino riprodurre le sequenze più a lungo di quanto faccia il gruppo di controllo.

Il campione è costituito da 94 maschi condannati per violenza domestica e già inseriti in un programma di intervento psicologico, mentre il gruppo di controllo è formato da 245 studenti universitari (189 femmine, 55 maschi). I tempi di reazione sono stati analizzati insieme ai risultati dell’Inventory of Beliefs About Wife Beating (somministrato dopo la sequenza cinematografica) e hanno confermato le ipotesi: non solo vi è una forte correlazione generale tra il tempo di reazione al film ed il risultato del questionario (tempi più lunghi correlano con punteggi più alti), ma il campione ha espresso tempi e punteggi significativamente più alti rispetto al gruppo di controllo.

Non possiamo, però, non tacere qualche perplessità riguardo alla selezione del gruppo di controllo, che a parer nostro potrebbe aver lievemente amplificato i risultati. Infatti, se il campione era costituito – a buon senso – unicamente da soggetti maschi, c’era da aspettarsi che anche il gruppo di controllo fosse così formato (se non nella sua totalità, almeno nella maggioranza): appare evidente, perciò, come un gruppo di controllo di ben 189 femmine e solo 55 maschi risulti poco adatto per valutare la presenza di un comportamento perpetrato – per definizione – da soggetti di genere maschile nei confronti del genere femminile!

Ciò nonostante, questo studio, seppur preliminare, sembra promettere molto nel campo dell’assessment dell’IPVAW, andando a formare il primo strumento di valutazione implicita delle nostre credenze sulla violenza domestica.

La guerra (intrapsichica) che ognuno di noi deve combattere contro il terrorismo. Cinque strategie efficaci

I danni causati dalle azioni che vanno sotto il nome di “terrorismo” sono di due tipi: (1) distruzione di vite, (2) distruzione del senso di sicurezza nei sopravvissuti.

 

Il bisogno di sicurezza (sapere in ogni momento di essere protetti e al sicuro) è talmente importante per noi da essere secondo solo ai bisogni fisiologici come la fame e la sete (Maslow, 1954). Quando manca, perdiamo una delle qualità fondamentali della nostra vita.

Entro certi limiti, la reazione che abbiamo di fronte agli eventi catastrofici è sotto la nostra diretta responsabilità. Cosa possiamo fare per riappropriarci della nostra sicurezza quando ci viene portata via?

Attacchi come quelli subiti il 13 novembre scorso generano (collusivamente con gli intenti di chi li ha compiuti) uno shock emotivo a cui troppo spesso si accompagna il pensiero che non ci sia niente da fare per difendersi. Gli attacchi terroristici sono eventi che non possono essere controllati. Possono colpire chiunque e in qualsiasi momento.

Se questo è quello che pensiamo, allora ci stiamo mettendo nei guai.

 

A due giorni dagli attentati, i parigini hanno spalancato le finestre dei palazzi e alzato il volume della musica: per scacciare la paura, o meglio, la paura della paura. Il genere di pensieri “non possiamo fare niente”, “siamo tutti bersagli”, “bisogna solo sperare di non essere colpiti” sono molto comuni, molto nocivi e per di più falsi.

Al contrario, ecco una serie di cose che tutti noi possiamo fare per combattere efficacemente il terrorismo.

In una situazione come quella attuale, molte delle nostre interpretazioni si rivelano inesatte perché il modo in cui pensiamo agli eventi ne influenza la percezione, restituendoci un’idea della realtà che non sempre è corretta.

Quello che dobbiamo fare è “mettere alla prova” i pensieri che ci danno l’illusione di comprendere la situazione, ma che in realtà ci ostacolano. Ecco i principali:

 

1 Non c è nessuno a difenderci

L’immenso lavoro svolto per combattere il terrorismo nasconde i suoi effetti. In altre parole non vi è prova manifesta della sua efficacia.

Il fatto che solamente la notizia degli attentati “a segno” venga registrata (e nella maniera più traumatica possibile), mentre non vi è percezione alcuna del lavoro che costantemente permette di ridurre il numero di attacchi al minimo, ci fa sentire soli, in balia degli eventi, così noi crediamo che gli attacchi non possano essere controllati.

In realtà, in ogni istante il terrorismo viene combattuto efficacemente. Dai corpi armati di ogni tipo, fino alle agenzie di Intelligence, un grande numero di persone addestrate appositamente lavora a largo raggio (l’effetto del “non dare nell’occhio” è voluto) per tenere sotto controllo il rischio di attentati.

 

2 Stanno per colpirci!

Quotidianamente, anche in tempo di pace, noi utilizziamo numerose euristiche, ossia pensieri semplificati che ci consentono di risparmiare tempo ed energie (Kahneman, Tversky, 1974). Nonostante spesso siano utili, i pensieri caratterizzati in questo modo hanno un limite.

E’ il caso in cui iniziamo a credere a un falso sillogismo. Questo si presenta quando si assume mentalmente di conoscere già la risposta (esito) e in seguito si stabilisce il percorso logico che la giustifica. Potrebbe funzionare in questo modo:

“I terroristi colpiscono i luoghi affollati, io frequento luoghi affollati, io sarò colpito!”

Generalmente siamo inconsapevoli di questo tipo di logiche; ciò che registriamo a livello cosciente sono soprattutto le conseguenze emotive di questi pensieri automatici.

Teniamo a mente di dover contrastare le euristiche e le logiche troppo semplici quando si presentano.

 

3 Stanno per colpirci! (2° variante)

Una volta analizzati attentamente, alcuni pensieri risultano affetti da varie “distorsioni cognitive” che portano a sovrastimare il pericolo reale.

Comunemente ci si riferisce a una di queste distorsioni con l’espressione ragionamento emozionale. Si presenta quando crediamo che qualcosa sia vera per il solo fatto che “sentiamo” fortemente che è così. In pratica lo stato emotivo di ansia e paura che si sente, viene utilizzato per confermare la percezione del pericolo (sono preoccupato = deve esserci un pericolo) .

In questa maniera, se per caso abbiamo prenotato un viaggio a Parigi, Londra o Roma, potremmo rinunciare a causa dell’apprensione che sorge nell’immaginarci vicini alla fonte del pericolo. In realtà, nelle zone suddette, il rischio di subire un attentato è il medesimo che in tutte le altre parti del mondo, anzi, possiamo ragionevolmente ritenere che in questo momento sia molto più basso visto il livello di allerta che attualmente garantisce maggiori controlli.

 

4 Gli islamici sono tutti terroristi

L’odio razziale è un modo imperfetto di reagire. Molte persone come prima risposta ad un attacco reagiscono con la stessa moneta.

Si tratta però di un metodo fallace di gestione delle proprie emozioni perché funziona soltanto in apparenza e non porta a nessun reale miglioramento della situazione.

D’altra parte però, la rabbia non ha in sé niente di sbagliato. L’odio è un sentimento legittimo che deve trovare espressione, senza essere distruttivo. La rabbia in questi casi è utile se ci consente di scoprire quando noi la utilizziamo per tenere a bada un altro sentimento intenso: ad esempio la paura. Si tratta di una trasformazione molto comune: accettare di essere vulnerabili infatti, è tra le sfide più difficili.

Insomma, prendercela con il fruttivendolo egiziano sotto casa non ci aiuterà (ma capire che ci possiamo sentire spaventati da qualcuno che vediamo tanto diverso da noi è già un passo in avanti).

 

5 Teniamo gli occhi aperti

Qualcuno suggerisce che la prima cosa da fare per combattere il terrorismo è passare all’azione. Siamo tutti in prima linea: guardiamo dentro ogni scatola e dietro ogni velo. Non lasciamoci sfuggire nulla. Segnaliamo tutto alle autorità, denunciamo qualsiasi sospetto.

Affermazioni del genere sono motivate dal bisogno di riappropriarsi della capacità di prevedere l’esito degli eventi. I personaggi (purtroppo anche pubblici) che avallano comportamenti di questo genere dimostrano scarsa responsabilità e nessuna comprensione dei fatti.

E’ stato dimostrato che quando alcuni soggetti (oppositivi o ansiosi) prestano un’attenzione esagerata a certi stimoli innocui o ambigui, questi ultimi vengono interpretati come realmente minacciosi. (Barrett et al, 1996).

Spingere le persone a coltivare il sospetto non può che avere effetti negativi: come in una profezia che si autoavvera, ricercare prove a sostegno di attività sospette induce facilmente a trovarne (o averne l’illusione) dietro ogni angolo, aumentando ancora di più l’incertezza e il livello del pericolo percepito.

 

In conclusione, è chiaro che in un modo o nell’altro tutti noi troviamo una strategia per combattere la nostra personale battaglia contro chi ci minaccia. Alcune di queste strategie potrebbero essere migliori di altre.

Nella nostra personale e intrapsichica lotta al terrorismo (può sembrare uno scherzo metterla in questi termini ma è ciò che concretamente facciamo in ogni istante) il nostro Locus of Control, il Luogo di Controllo, deve essere pienamente nelle nostre mani, così da essere protagonisti del nostro mondo, piuttosto che vittime del destino e sotto il segno della sfortuna.

Di fronte alla domanda “Come possiamo combattere il terrorismo?” non dobbiamo mai rimanere senza una risposta. Al contrario dobbiamo dimostrarci forti nel controllare le nostre emozioni più negative. Le parole “non possiamo fare niente” non sono ammesse e non devono essere pronunciate in nessun caso.

Essere donatori di organi: uno studio sul quoziente empatico, i vissuti d’attaccamento ed i meccanismi di difesa dell’io

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Essere donatori di organi: uno studio sul quoziente empatico, i vissuti d’attaccamento ed i meccanismi di difesa dell’io

Autrice: Rosa De Stefano

 

Abstract

Il presente lavoro intende valutare quanto il quoziente empatico, i vissuti d’attaccamento e i meccanismi di difesa si pongano in relazione con la scelta di essere favorevoli alla donazione degli organi. La tematica è di per sé molto impegnativa, dal momento che il divario esistente tra bisogno di organi e disponibilità a donarli può essere colmato solo comprendendo il peso che alcune variabili assumono all’interno delle scelte che vengono fatte sul piano individuale. Alla ricerca hanno preso parte 140 persone. L’età dei soggetti favorevoli alla donazione di organi che hanno partecipato alla ricerca è compresa fra i 18 e i 76 anni (Media: 35,75; Ds 12,61). Sono stati inoltre esaminati 40 soggetti di età compresa tra i 18 e i 75 anni (la Media è 37,72 e la Ds è 16, 92) non disponibili alla donazione degli organi, che hanno costituito il gruppo controllo.

I risultati di questo studio ci permettono di giungere ad una conclusione, di per sé certo non definitiva, ma che riguarda le modalità di costruzione dei legami affettivi con le figure di attaccamento e la presenza di atteggiamenti empatici e altruistici. Coloro che hanno avuto una figura di attaccamento, soprattutto materna, presente senza essere ipercontrollante e invadente, affettuosa e che si è relazionata con loro con amorevolezza senza inibirne il desiderio di autonomia, hanno manifestato il loro potenziale intendimento di donare gli organi. I comportamenti e gli atteggiamenti equilibrati delle figure di attaccamento potrebbero infatti influire sugli individui, determinando il loro corredo comportamentale e disponendoli all’autonomia decisionale, alla premura disinteressata verso l’altro e i suoi bisogni.

Abstract

The present study aims to assess how the empathy quotient, the feelings of attachment and defense mechanisms are connected with the decision to be in favor of organ donation. The topic is very challenging, since the gap between organs need and willingness to donate them, can be bridged only by understanding the importance that some variables take in individual choices. This research has been attended by 140 people. The age gap among subjects supporting organ donation that participated the survey, is between 18 and 76 years (average: 35,75; 12,61 Ds). The control group was made-up by 40 not-supporting organs donation subjects, aged between 18 and 75 years (average is 37.72 and the DS is 16, 92) which were also examinated.

The results lead to a, certainly not definitive, conclusion that affect the manner of emotional ties construction with attachment figures and the presence of empathy and altruistic behavior. Those who have had an attachment figure, especially maternal, and present without being neither iper-controlling nor intrusive, affectionate and who is related to them with kindness without inhibiting the desire for autonomy, have demonstrated their potential intention to donate organs. The balanced behaviors and attitudes of attachment figures may in fact affect individuals, determining their accompanying behavioral and arranging decision-making autonomy, the disinterested kindness toward others and their needs.

Parole chiave: Donazione organi, attaccamento, empatia, altruismo.

 

Il lacanismo, malattia senile del freudismo

Il lacanismo è ormai al crepuscolo per quanto riguarda l’impiego come forma di terapia (mentre gode ancora di una certa fortuna tra filosofi e critici letterari). Del resto la psicoanalisi lacaniana è praticamente l’unica forma di psicoterapia della quale non esista praticamente alcuno studio di efficacia.

 

Imposture intellettuali e l’esperimento di Alain Sokal

Qualche anno fa, un noto fisico franco-americano, Alan Sokal, ebbe una curiosa illuminazione. Infastidito dalla lettura di Lacan e dei suoi epigoni, il cui esoterismo tecnico scrittoriale rendeva un’impresa degna di Sisifo finire ogni singola pagina, si chiese semplicemente: “E se mi stessero prendendo in giro?”. Sokal volle mettere alla prova questa idea e scrisse un testo intenzionalmente privo di senso ma carico di espressioni intricate e citazioni di autori oscuri.

Lo intitolò in modo roboante “Per un’ermeneutica quantistica del testo letterario”. Lo inviò poi a “Social Text”, una rivista piuttosto illustre, che lo pubblicò senza particolari resistenze. Dopo l’uscita, però, qualcuno avrebbe ben potuto avanzare qualche dubbio sul senso dello scritto, ma nulla successe. Dopo qualche mese, Sokal fece il suo coming out, spiegando il motivo che lo aveva spinto alla burla. Ne nacque un libro, intitolato “Imposture intellettuali” (con Jean Bricmont, trad. it. Garzanti), nel quale il fisico raccontava la propria esperienza e metteva alla berlina tutti gli autori che a suo avviso vendevano fumo senza arrosto. Tra di loro, naturalmente, Lacan occupava il posto d’onore. La tecnica usata per lo sbertucciamento era molto mirata ed efficace: lo psicoanalista francese (come molti intellettuali del suo stampo) si spinge talora a proporre accenni alle scienze hard e alla fisica in particolare; dato che Sokal poteva ben ritenere di controllare almeno quello specifico campo in modo adeguato, era in grado di verificare se le allusioni fossero sensate o almeno coerenti. Naturalmente, Sokal poteva facilmente dimostrare il contrario.

 

La supercazzola di Lacan: esegesi del testo

Sarebbe un errore, tuttavia, ritenere che solo quando si azzarda nel territorio della fisica Lacan sia censurabile. Chiunque legga Lacan senza essere un lacaniano, pur non dicendolo ad alta voce per evitare di sbagliarsi, ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a periodi che sembrano una via di mezzo tra la supercazzola prematurata di “Amici miei” e il grammelot di Dario Fo (che peraltro ha una nobile origine, risalendo addirittura a Molière).

Non c’è dubbio che il linguaggio tecnico di una disciplina scientifica qualsivoglia possa risultare esoterico. Personalmente non mi azzarderei mai a giudicare un articolo di fisica quantistica e a sorridere delle sue formule astruse. Però tendenzialmente gli specialisti di meccanica quantistica capiscono gli articoli sulla meccanica quantistica e gli astrofisici capiscono gli articoli di astrofisica. Perché uno psicologo non dovrebbe capire un testo di psicoanalisi? Eppure questo è quanto succede a psicologi e psicoanalisti non lacaniani quando leggono Lacan: non capiscono nulla o quasi. E questo è testimoniato dagli stessi lacaniani quando criticano chi critica Lacan: invariabilmente il commento è che il lettore non lacaniano non ha capito.

 

Il verbo lacaniano: custodito religiosamente e accessibile solo agli iniziati

Ma è veramente necessario leggere e capire tutto Lacan per criticarlo, come pretenderebbero gli adepti? Beh, anzitutto bisogna chiarire una cosa: leggere tutto Lacan è impossibile. Non semplicemente perché la sua produzione è sterminata (il che è peraltro vero) ma perché solo una frazione del verbo lacaniano è disponibile alla lettura di tutti. I testi realmente redatti da Lacan sono relativamente pochi: la maggior parte di essi è racchiusa e tradotta in italiano in Scritti e Altri scritti (raccolta, quest’ultima di pubblicazione recente per Einaudi). In realtà, però, una parte molto ampia dell’insegnamento di Lacan è costituita dal Seminario, ovvero dalla trascrizione delle lezioni tenute dal nostro per decenni, soprattutto al Collège de France. Ora, del Seminario soltanto una parte è edita (e tradotta in italiano).

Il grosso dei dattiloscritti originali giace negli scrigni del genero ed esecutore testamentario Jacques-Alain Miller e le copie di essi circolano (non riviste e semi-clandestine) solo nelle biblioteche delle scuole di psicoanalisi di ispirazione lacaniana. Negli scritti di Miller e di altri si trovano diverse allusioni ai seminari inediti ma naturalmente è impossibile valutarne l’attendibilità dall’esterno. Già da questo si potrebbero trarre molte conclusioni sullo spirito settario che anima i seguaci di Lacan. Sta di fatto che solo gli iniziati potrebbero realmente leggere l’intero lascito lacaniano; e si tenga presente che tra i seminari inediti ci sono quasi tutti gli ultimi. Quindi ad ogni critica di Lacan un lacaniano iniziato potrebbe rispondere: “Ma tu non hai capito x perché non hai letto y”.

 

Il cocktail esotico di psicoanalisi, strutturalismo e linguistica

In ogni caso bisogna convincersi che per scardinare il lacanismo non serva una forza erculea di ragionamento: bastano, come avrebbe detto Kierkegaard, “un intelletto umano sano e un po’ di senso del comico”. Già l’impostazione del lacanismo è fallace, frutto semplicemente di mode caratteristiche degli anni cinquanta dello scorso secolo. Lacan si limitò a mettere insieme psicoanalisi, strutturalismo e linguistica, per distillare quella che forse è la sua affermazione di base:

[blockquote style=”1″]l’inconscio è strutturato come un linguaggio[/blockquote]

(come si legge nel seminale Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi). Ma l’inconscio è strutturato? E soprattutto, è strutturato come un linguaggio, dal punto di vista della psicoanalisi classica?

La risposta è no, l’inconscio non è, in ottica freudiana, strutturato come un linguaggio, a meno che non si definisca con “struttura” e con “linguaggio” qualcosa di completamente diverso dall’usuale. La struttura di un linguaggio è determinata da una grammatica, ovvero, come scrive Chomsky

[blockquote style=”1″]un sistema di regole e principi che assegna a ciascuna di un numero infinito di frasi una forma fonetica e una forma logica, unitamente ad altre proprietà strutturali.[/blockquote]

Una tale definizione lascia aperto il ruolo della pragmatica del linguaggio, ma anche quest’ultima è soggetta a regole stabilite intersoggettivamente, in modo non meno efficace perché implicito (basta considerare gli studi di Grice al riguardo).

Il linguaggio, secondo quello stesso Roman Jakobson che è costante riferimento di Lacan, è suscettibile di “descrizione quantitativa”: il contenuto da esso veicolato può essere tradotto in termini di “informazione binaria” (si vedano i Saggi di linguistica generale). In altre parole il linguaggio è di per sé coerente, soggetto al principio di non-contraddizione. L’organizzazione dei tempi verbali, nella quasi totalità delle lingue conosciute, è attuata secondo principi che rendono possibile identificare, nella comunicazione, la sequenzialità temporale. L’inconscio di Freud, invece, è caratterizzato dall’incoerenza e dall’assenza del principio di non-contraddizione. Nel lavoro onirico manca anche l’ordinamento temporale e episodi dell’infanzia si innestano in ricordi recentissimi.

Dal punto di vista della tecnica psicoanalitica classica, uno dei fondamenti imprescindibili è costituito dal cosiddetto setting, ovvero quell’insieme di principi pratici che regolano la scansione della terapia e che devono rimanere costanti per quanto possibile: luogo, tempo, intervallo tra le sedute etc. Una delle caratteristiche della tecnica lacaniana, invece, è quella di basarsi sull’ora logica, cioè sulla possibilità di variare la durata della seduta. L’analista decide di interromperla quando a suo avviso sia venuto il momento giusto. Possono esserci tanti buoni motivi per una simile scelta: ci si può limitare qui ad affermare senza tema di smentita che la conseguenza è però quella di alterare in modo decisivo i principi classici della psicoterapia psicoanalitica, e in particolare di quella freudiana.

 

Lacan autoproclamatosi erede di Freud

Si potrebbe a questo punto osservare che il punto di vista lacaniano potrebbe essere inteso come una possibile interpretazione del freudismo e considerare le astruse formule del seminarista parigino come una possibile modalità di lettura di Freud, paragonabile a quella di un critico letterario, che legga un testo qualsiasi senza pretendere di esaurirlo. Questa possibilità, però, è esclusa dallo stesso Lacan, che di Freud si ritiene unico interprete legittimato. Gli cederò a questo punto la parola, citando letteralmente dal Seminario XXIII, intitolato “Il sinthomo” (sic):

[blockquote style=”1″]Sono, mio malgrado, un erede di Freud per avere enunciato a suo tempo quello che si poteva trarre in termini di buona logica dai farfugliamenti di coloro che Freud chiamava la sua banda, e che non ho bisogno di nominare. Si tratta della cricca che seguiva le riunioni di Vienna, della quale non possiamo certo dire che tra gli altri vi sia stato qualcuno che abbia seguito la via che chiamo della buona logica[/blockquote] (trad. it., p. 10).

Lacan sta quindi dicendo che Abraham, Jones e compagnia fossero tutti dei poveri dementi e che Freud li avrebbe tutti sconfessati come del tutto incapaci di intendere e di volere. Purtroppo per lui, le opere freudiane abbondano di riconoscimenti ai suoi allievi per avere contribuito alla crescita della teoria psicoanalitica. Ma per comprendere il rapporto autentico di Freud con i suoi allievi basterebbe leggere i Dibattiti della società psicoanalitica di Vienna, che ci sono pervenuti nei resoconti di Otto Rank (stipendiato ufficialmente da Freud per fungere da segretario verbalizzante). L’epiteto “banda” nei confronti dei primi psicoanalisti è una pura e semplice invenzione di Lacan (né peraltro è l’unica invenzione nelle sue discutibili ricostruzioni storiche).

 

Una coerenza circolare che rinuncia alla logica

Un dubbio potrebbe a questo punto scuotere il lettore che abbia avuto la pazienza di leggere fino a questo punto: come fanno i lacaniani a studiare Lacan e a trovare una logica e una coerenza in quanto leggono e a poter enunciare frasi, o addirittura scrivere interi articoli utilizzando il suo astruso linguaggio se il dettato lacaniano è sostanzialmente privo di senso? In questo sta la genialità supercazzolista di costui: Lacan ha costruito un’articolatissima coerenza circolare nelle definizioni dei propri concetti. Il concetto (1) rimanda ai concetti (2) e (3) e così via, finché non ci si ritroverà ad un concetto (n) che rimanda al concetto (1). Ne risulta una rete dove tutto sembra andare al proprio posto, ma dove nulla ha un reale significato. Mentre il testo freudiano, che sembra essere il riferimento costante di Lacan, viene in realtà piegato a impieghi che il padre della psicoanalisi avrebbe difficilmente riconosciuto.

Nel resto del mondo, se si eccettuano Francia, Argentina e in parte Brasile il lacanismo è ormai al crepuscolo per quanto riguarda l’impiego come forma di terapia (mentre gode ancora di una certa fortuna tra filosofi e critici letterari). Del resto la psicoanalisi lacaniana è praticamente l’unica forma di psicoterapia della quale non esista praticamente alcuno studio di efficacia. I lacaniani, infatti, si oppongono fermamente all’idea che sia possibile effettuare una qualunque forma di verifica empirica basata di misurazioni di alcun tipo (ed anche alla stessa possibilità di registrare sedute analitiche). Sarebbe ora che anche in Italia si prendesse atto di questo e si iniziasse a lasciare quietamente estinguere l’ennesimo epigono dei sarti protagonisti della favola I vestiti nuovi dell’imperatore.

 

Il nonsense disarmante di Amici miei (1975)

https://www.youtube.com/watch?v=JU-QZ7yoyd4

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