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Terapie efficaci: evoluzione, integrazione e scienza: dal Congresso di San Benedetto del Tronto, 6 novembre 2015

Il 6 Novembre 2015 a San Benedetto del Tronto (AP) si è svolto l’evento dal titolo ‘Terapie efficaci: evoluzione, integrazione e scienza‘, tema centrale è stato l’efficacia della psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, a partire dai modelli standard fino alla cosiddetta terza onda.

Si è tenuta il 6 Novembre 2015 a San Benedetto del Tronto (AP) una giornata di approfondimento organizzata dalla sede di ‘Studi Cognitivi’ di SBT. L’evento dal titolo ‘Terapie efficaci: evoluzione, integrazione e scienza‘ ha avuto come tema centrale l’efficacia della psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, a partire dai modelli standard per giungere alla cosiddetta terza onda che si sta facendo sempre più strada nel panorama internazionale.

Sono intervenuti come relatori diversi professionisti che operano nel campo della formazione, della clinica e della ricerca scientifica e i lavori sono stati coordinati dalla responsabile di sede, Dottoressa Clarice Mezzaluna. L’obiettivo era creare un momento di incontro e dialogo tra diverse prospettive, e favorire una visione di integrazione tra queste.

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I relatori dell’evento

 

Il Prof. Ezio Sanavio, Professore di Psicologia clinica dell’Università di Padova Direttore della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale ITC di Padova e di Rimini, ci ha illustrato le terapie della ‘terza generazione’, presentandoci obiettivi e tecniche dell’ACT (Hayes), della DBT (Linehan), della Mindfulness (Kabat-Zinn), della Schema therapy (Young) e della Terapia Metacognitiva (Wells).

Tra queste emerge l’importanza data al contatto con il momento presente, alla riscoperta dei valori, all’accettazione, intesa non come rassegnazione, ma come ‘disponibilità’, consapevolezza del ‘qui ed ora’ a contenere anche le esperienze negative. Però, secondo l’ottica del Prof. Sanavio, non si tratterebbe di un vero e proprio salto di paradigma ‘alla Kuhn’, in quanto gli elementi di continuità con teorie e tecniche di prima e seconda generazione sono maggiori degli elementi di discontinuità. Per Sanavio ci troviamo di fronte ad un avanzamento conoscitivo e operativo, ma che ha ancora bisogno di svilupparsi. La critica dei limiti della terza generazione arriva principalmente alla costituzione di scuole, sottoscuole e correnti, ognuna guidata da un suo leader e a volte troppo interessate ai copyright, più che alla ricerca scientifica e al miglioramento e alla crescita teorica delle varie correnti.

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Il Professor Carlo Di Berardino, Direttore del Centro di Psicologia Clinica di Pescara, ci ha parlato dell’utilizzo della Mindfulness in ambito clinico e Psicoterapeutico, e dello spostamento del focus dell’intervento terapeutico verso il ruolo che le emozioni e gli schemi profondi svolgono sulla strutturazione della personalità. Di Berardino ci pone il problema della bicausalità direzionale, cioè dell’importanza del ruolo che le emozioni svolgono sui processi cognitivi, e che determinano allo stato attuale una maggiore attenzione alla corporeità e all’attività sensomotoria nei processi di regolazione delle emozioni. In questo senso, l’effetto terapeutico della meditazione è dovuto non tanto dal cambiamento dei contenuti del pensiero quanto dal distanziamento dagli automatismi emotivo-cognitivi.

Il Professor Benedetto Farina dell’Università Europea di Roma ha ripercorso la storia della ricerca scientifica in psicoterapia a partire dal famigerato studio di Eysenck del 1952 che metteva in discussione l’utilità della psicoterapia per la cura dei disturbi nevrotici. Molta strada in termini di ricerca scientifica è stata percorsa con lo scopo di dimostrare che la psicoterapia non è soltanto un costoso placebo, e paradigmi di ricerca sempre più complessi e articolati hanno riscattato il suo ruolo curativo. Attualmente però, dopo un’accanita ricerca dei fattori terapeutici attivi (active ingredients), emerge l’importanza di comprendere come le qualità del terapeuta interagiscono con le caratteristiche del paziente per ottenere le condizioni interpersonali necessarie a un cambiamento terapeutico. La ricerca scientifica in psicoterapia pertanto non deve essere rappresentata solo dagli studi di efficacy ma deve riguardare anche l’effectiveness dei trattamenti.

Il Professor Paolo Moderato delle Università IULM e SFU, ci ha parlato della terapia ACT, che si occupa principalmente dell’insegnamento di abilità psicologiche per rapportarsi con i propri pensieri ed emozioni dolorose, le cosiddette abilità di mindfulness, aiutando le persone a chiarire quello che è realmente importante e significativo per loro e utilizzare questa comprensione per guidare, ispirare e motivare a cambiare la propria vita in meglio. L’obiettivo dell’ACT è quello di aumentare la flessibilità psicologica, di rendere gli individui pienamente consapevoli e aperti alle proprie esperienze e capaci di agire in linea con i propri valori.

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Dott.ssa Sandra Sassaroli – Direttrice di Studi Cognitivi

 

In chiusura l’intervento della Dottoressa Sandra Sassaroli, Direttrice di Studi Cognitivi, si è incentrato sulla relazione del paradigma metacognitivo con la terapia cognitivo-comportamentale. A partire dal primo trial di Beck, si parla del 1979, è stata portata avanti una forte corrente di ricerca di efficacia su protocolli cognitivo-comportamentali, che ha dato vita a interventi specialistici per diagnosi specifiche. Sebbene non vi siano dubbi sull’efficacia terapeutica della CBT, assistiamo alla cosiddetta crisi dei contenuti: la ricerca empirica non prova che l’efficacia della CBT dipenda dall’esplorazione e dalla modificazione degli schemi e dei contenuti cognitivi.

Questa crisi attualmente viene risolta seguendo due possibili direzioni, una delle quali segue i processi, l’altra prende la direzione della focalizzazione corporea, emotiva, relazionale. Sassaroli parla di un vero cambio di paradigma e non soltanto di un avanzamento tecnico, in quanto perde di importanza l’architettura degli scopi e delle credenze come conoscenza di sé. Nell’ottica processualista un ruolo attivo è riservato alle rappresentazioni metacognitive, intese come credenze sulla stessa attività mentale, che determinano la reazione dell’individuo alla sofferenza stessa, rendendola cronica attraverso la costituzione di un circolo ripetitivo negativo (Repetitive Negative Thinking, RNT). È proprio su questa reazione alla sofferenza che si struttura l’intervento clinico, inteso come consapevolezza dei propri processi mentali e addestramento a padroneggiarli, andando oltre l’intervento sui contenuti che caratterizzava la CBT. Però è possibile, anzi auspicabile una combinazione della CBT con la Terapia Metacognitiva, considerando le credenze come fattori di vulnerabilità e le credenze metacognitive negative come variabili di scatenamento e mantenimento dei sintomi.

Da questo tentativo di sintesi nasce un modello elaborato dal gruppo ricerca di ‘Studi Cognitivi’ denominato LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment). In questo modello si restituisce importanza, in linea con la tradizione italiana, alla radice evolutiva delle credenze cognitive e si pone attenzione ai processi di mantenimento rimuginativi, permettendo interventi terapeutici mirati, efficienti e consapevoli ma mantenendo la raccolta degli aspetti narrativi ed episodici, permettendo anche ai pazienti con difficoltà relazionale la condivisione dei contenuti con il terapeuta.

Ha concluso la giornata la concettualizzazione di un caso clinico da parte di tutti i relatori, impostata secondo i modelli e le teorie proposte durante la mattinata. Questo aspetto più pratico è stato particolarmente apprezzato anche dal pubblico ‘più giovane’, che ha potuto approfittare di una full immersion nella pratica clinica proposta da professionisti esperti.

Cosa si cela dietro alla co-occorrenza tra dislessia evolutiva e adhd?

Vittoria Trezzi, Diego Moriggia, Margherita Novelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

Studi epidemiologici ed eziologici hanno dimostrato che, sia in popolazioni cliniche che nella popolazione generale, la Dislessia Evolutiva (DD) co-occorre molto frequentemente con il Disturbo di Attenzione e Iperattività. Quali sono le ipotesi che spiegano questa co-occorrenza?

Molti clinici dell’età evolutiva si saranno resi conto che un bambino con Dislessia Evolutiva ha molto spesso dei deficit di attenzione o tratti marcati di iperattività. Genitori e insegnanti si dicono: ‘Poverino, è un bimbo che si annoia più facilmente degli altri e ha bisogno di sfogarsi’. Lo stesso vale per bambini affetti da Deficit di Attenzione e Iperattività: capita spesso che questi bambini abbiano difficoltà di apprendimento (lettura, scrittura, calcolo). Anche in questo caso le frasi che si sentono più spesso dai familiari sono: ‘È disattento, è normale che faccia più errori nel leggere. Si dimentica le H perché è impulsivo e scrive di fretta’. Ebbene, c’è sicuramente del vero dietro a queste affermazioni, ma alcuni studiosi hanno voluto approfondire l’argomento.

Studi epidemiologici ed eziologici hanno dimostrato che, sia in popolazioni cliniche che nella popolazione generale, la Dislessia Evolutiva (DD) co-occorre molto frequentemente con il Disturbo di Attenzione e Iperattività (ADHD – Carroll et al., 2005; Maughan & Carroll, 2006).

Prima ancora di inoltrarci nelle differenti ipotesi che cercano di spiegare questa frequente co-occorrenza dei due disturbi, proviamo a chiarire cosa si intende per Dislessia Evolutiva e per Disturbo di Attenzione e Iperattività. La prima è una condizione altamente ereditabile, presente in circa il 3-6% della popolazione generale. La Dislessia Evolutiva è un disturbo abbastanza eterogeneo, tipicamente diagnosticato nei primi anni di scuola elementare, caratterizzato da un deficit nei processi di acquisizione della lettura. Tali difficoltà si possono riscontrare nei parametri di accuratezza e/o velocità di lettura e si presentano in bambini con normali abilità cognitive e adeguate opportunità educative (DSM-V; American Psychiatric Association, 2013). Ne sono un esempio quei bambini che rispetto ai compagni di classe sono molto più lenti a leggere, o sono veloci ma commettono molti errori.

Anche il Disturbo di Attenzione e Iperattività (ADHD) è un disturbo del neurosviluppo altamente ereditabile (American Psychiatric Association, 2013). Tale disturbo ha una prevalenza intorno al 5% in popolazione generale ed è caratterizzato da sintomi raggruppabili in tre dimensioni: disattenzione, iperattività e impulsività (DSM-V; American Psychiatric Association, 2013). In questa categoria diagnostica troviamo ad esempio bambini che non riescono a terminare i compiti perché molto facilmente distraibili, che non aspettano il loro turno quando c’è da alzare la mano in classe, che non riescono a stare seduti per più di dieci minuti perché non sono in grado di frenare l’impulso di muoversi e correre.

Da questa breve descrizione è facile intuire come queste difficoltà siano molto invalidanti non solo per un bambino (e per i suoi genitori) in età scolare, ma anche più in là nel tempo. Sono, infatti, disturbi che vengono definiti life time e che, appunto, permangono fino all’età adulta. La condizione in cui questi disturbi si presentano congiuntamente aumenta esponenzialmente le difficoltà della vita quotidiana e diventa cruciale poterli identificare entrambi per intervenire in modo efficiente e più precocemente possibile.

A conferma dei dubbi di alcuni esperti, secondo i quali la co-occorrenza di questi due disturbi sembrava troppo frequente da poter essere attribuita al caso, si è dimostrato come la Dislessia Evolutiva e l’ADHD co-occorrano con una frequenza maggiore rispetto a quella prevista dal caso. In campioni epidemiologici i disturbi co-occorrono approssimativamente nel 15-40% dei casi e la loro comorbilità è più pronunciata per i bambini con una forte compromissione degli aspetti attentivi rispetto a quelli iperattivi (Gilger et al., 1992). In studi effettuati su campioni selezionati per ADHD, il range di comorbilità è tra il 25% e l’80%, in campioni selezionati per Dislessia Evolutiva, invece, il range di comorbilità oscilla tra il 15% e il 60% (Dykman et al., 1991; Gayan et al., 2005; Gilger et al., 1992; Faraone et al., 1998; Willcutt et al., 2000a,b).

Come abbiamo detto sopra, la prevalenza di bambini affetti da Dislessia Evolutiva è all’incirca del 4% e quella dei bambini con ADHD del 5%. Se i disturbi fossero totalmente indipendenti, la probabilità di ereditarli entrambi sarebbe pressoché casuale, ovvero attorno allo 0,2% (i.e. 4% x 5%). Dal momento che la stima è molto più alta è facile ipotizzare che i due disturbi condividano fattori di rischio quali varianti genetiche, fattori ambientali (Petryshen et al., 2009; Willcutt et al., 2000a), processi cognitivi (Shanahan et al., 2006, Willcutt et al, 2005) e aspetti anatomo-funzionali (Eden et al., 2008) che contribuisco all’insorgenza di entrambi i disturbi. Per tale ragione, la sovrapposizione dei due disturbi è meglio descritta come co-occorrenza rispetto a comorbilità, perché quest’ultima implica che la patofisiologia sottostante ai due disturbi sia indipendente e non legata causalmente (Keplan et al., 2006).

Esistono diverse ipotesi che spiegano la co-occorrenza tra Dislessia Evolutiva e ADHD. Come prima cosa è importante escludere che la co-occorrenza osservata sia un artefatto causato da un errore di procedura di campionamento o da problemi di misurazione (Angold et al., 1999). La soluzione all’ipotesi di artefatto è rappresentata dal fatto che:

  • i due disturbi si presentano in co-occorenza con una frequenza maggiore del caso sia in popolazione clinica che in popolazione generale (Semrud¬Clikeman et al., 1992; Willcutt & Pennington, 2000a);
  • la co-occorrenza è presente in campione di soggetti selezionati sia per Dislessia Evolutiva che per di ADHD, rispettivamente indipendenti;
  • i due disturbi vengono diagnosticati con misurazioni differenti, la Dislessia Evolutiva include una batteria testale composta prevalentemente da test cognitivi, mentre la diagnosi di ADHD prevede anche dei criteri di natura comportamentale (American Psychiatric Association, 2013).

La seconda ipotesi suggerisce che i bambini con uno dei due disturbi possano presentare sintomi del secondo disturbo a causa delle influenze etiologiche del primo, ovvero è comune, per esempio, che i bambini con Dislessia Evolutiva provino frustrazione elicitata dalle difficoltà di lettura e manifestino sintomi disattentivi o di iperattività motoria (Pennington et al., 1993; Pisecco et al., 1996). Tuttavia, il fatto che sintomi comuni nell’ADHD si presentino come sintomi secondari di Dislessia Evolutiva in assenza di specifico Disturbo di Attenzione e Iperattività, e che dunque i suddetti sintomi disattentivi o di iperattività motoria non siano ascrivibili a ADHD non dà completezza scientifica a quest’ipotesi.

La terza ipotesi sostiene che la co-occorrenza riscontrata tra ADHD e Dislessia Evolutiva sia un sottotipo ben distinto di uno dei due disturbi con una sintomatologia e dei correlati neuropsicologici ben definiti (Rucklidge et al., 2002). Questa ipotesi viene smentita dal fatto che risulta molto chiaro come i bambini con entrambi i disturbi esibiscano una combinazione di sintomi presenti in modo selettivo in bambini con solo Dislessia Evolutiva o con solo ADHD. Altri studi, infatti, non hanno trovato risultati a supporto a tale ipotesi (Nigg et al., 1998; Rucklidge et al., 2002; Willcutt et al., 2001; Willcutt et al., 2005).

La quarta e ultima ipotesi suggerisce che ci siano dei fattori di rischio condivisi che contribuiscono alla co-occorrenza riscontrata (Willcutt et al., 2000; Willcutt et al., 2005). Attraverso studi di genetica è diventato progressivamente più chiaro come alcuni fattori di rischio siano condivisi dai due disturbi e come alcuni fattori di rischio genetico siano sovrapponibili per Dislessia Evolutiva e ADHD (Gayan et al., 2005; Loo et al., 2004).

Le prime evidenze di questa teoria sono state fornite dagli studi condotti su gemelli. La logica di uno studio gemellare si basa sull’idea che i gemelli monozigoti (MZ) condividono il 100% del patrimonio genetico, a differenza dei gemelli dizigoti (DZ) che condividono solo il 50% in media. Se partiamo dal presupposto che ci sia una sottostante suscettibilità genetica per un determinato disturbo, i gemelli MZ dovrebbero avere una correlazione per tale tratto molto più elevata di quella dei DZ (circa il doppio).

Per quanto riguarda l’ADHD, gli studi hanno stimato un tasso di ereditabilità che va dal 70% all’80% (Faraone et al., 1993; Gilger et al., 1991; Willcutt et al., 2000a; Gayan et al., 2001; Friedman et al., 2003; Biederman et al., 2005; Faraone et al., 2005; Dell’homme et al., 2007). Le stime per la Dislessia Evolutiva sono molto simili e si aggirano attorno al 40-60% (Gayan et al., 1999; Ziegler et al., 2005). Gli studi sull’ereditabilità bivariata, ovvero la possibilità che i due tratti vengano ereditati simultaneamente dalla stessa coppia di gemelli, oscillla tra .15 e .47 (Willcutt et al., 2000a; Stevenson et al., 1993). Tali risultati ci suggeriscono che la co-occorrenza di questi due disturbi possa essere dovuta a fattori genetici condivisi (Stevenson et al., 1993; DeFries et al., 1991; Light et al., 1995; Willcutt et al., 2000b).

Quando l’ADHD viene suddiviso nelle due sotto-dimensioni (disattenzione e iperattività), gli studi gemellari dimostrano una correlazione più forte tra la Dislessia Evolutiva e i sintomi di disattenzione rispetto che ai sintomi di iperattività e impulsività (Willcutt et al., 2000a). Questi dati ci suggeriscono che i processi di lettura e la disattenzione condividono una certo grado di suscettibilità genetica.

Il passaggio successivo è l’identificazione dei geni coinvolti. Studi di genetica molecolare su campioni indipendenti di ADHD e Dislessia Evolutiva hanno identificato dei potenziali loci di suscettibilità che possono aumentare il rischio di sviluppo di un disturbo. Diversi studi hanno dimostrato la presenza di specifici geni per ogni disturbo (Gayán et al., 2005). Ad oggi, le analisi di linkage in famiglie con bambini affetti da Dislessia Evolutiva hanno identificato nove loci considerati di rischio per la Dislessia Evolutiva situati sui cromosomi 1, 2, 3, 6, 11, 15, 18 e X (Scerri et al., 2010; Raskind et al., 2012) e DYX1C1, KIAA0319, DCDC2 and ROBO1 e GRIN2B sono i geni di suscettibilità maggiormente replicati per la Dislessia Evolutiva (Peterson et al., 2015).

Per quanto riguarda gli studi di genetica molecolare su campioni di bambini con ADHD, sono state individuate regioni di rischio quali : SLC6A3, DRD5, DRD4, SLC6A4, LPHN3, SNAP-25, HTR1B, NOS1 e GIT1 (Hawi et al., 2015).

I risultati che derivano dagli studi di genetica molecolare tra Dislessia Evolutiva e ADHD, congiuntamente, hanno individuato diverse regioni di sovrapposizione. In particolare, due regioni (6q12¬q14 e 15q), precedentemente evidenziate in studi di genetica molecolare su bambini affetti da Dislessia Evolutiva (Grigorenko et al., 2000; Nothen et al., 1999), sono state trovate associate anche in un campione di fratelli affetti da ADHD (Bakker et al., 2003; Ogdie et al., 2004). E’ stata anche riscontrata una sovrapposizione dei fattori di rischio genetici sul cromosoma 11, 15, 16, 17, 10, 14, 13, e 20 ma la regione cromosomica maggiormente studiata è la 6p21¬22, nella quale diversi studi hanno riscontrato associazioni positive (Grigorenko et al., 2000: Grigorenko et al., 1997; Cardon et al., 1995; Gayan et al., 1999; Willcutt et al., 2002). Essa contiene diversi geni. Non è però ancora ben chiaro quale gene nella regione contribuisca alla co-occorrenza tra i due disturbi in oggetto.

È tuttavia importante specificare che il riscontro di un’associazione genetica dei due disturbi nella stessa regione cromosomica non implica automaticamente che gli stessi geni siano coinvolti. È dunque necessaria un’ulteriore e più specifica indagine a tal proposito.

Anche dopo aver analizzato il ruolo dei fattori genetici coinvolti, e dunque quali regioni cromosomiche siano implicate in entrambi i disturbi e quali geni siano da considerare a rischio, ci si è accorti che mettendo insieme tutti i geni considerati di rischio associati alla Dislessia Evolutiva e all’ADHD si riesce a spiegare solo una piccola parte di ereditabilità (Plomin, 2013). Questo scostamento tra l’alto tasso di ereditabilità e le associazioni genetiche significative è chiamato ‘the missing heritability’ (Maher, 2008).

Attualmente la comunità scientifica sta abbracciando tre diversi approcci allo studio della co-occorrenza tra ADHD e dislessia evolutiva:

  • Interazione tra geni (anche conosciuta come ‘epistasis’ – GxG)
  • Interazione tra geni e ambiente (GxE)
  • L’epigenetica (Plomin, 2013).

Si ritiene che l’interazione gene-gene possa, in parte, contribuire alla spiegazione della missing heritability, ovvero l’idea che tra i geni di rischio non ci sia un’interazione di tipo additivo, bensì che un gene possa modificare l’effetto di un altro gene. Ad oggi è presente un solo studio che conferma la presenza di un’interazione GxG in un campione di Dislessia Evolutiva (Mascheretti et al., 2015) ma nessuno studio per quel che concerne i bambini con ADHD. Molti studi hanno dimostrato che non solo gli aspetti genetici debbano essere considerati parte dell’eziologia dei due disturbi, ma che siano presenti dei fattori di rischio ambientale che influenzano la probabilità di sviluppare uno dei due disturbi.

In molti studi gemellari è stato dimostrato come alcuni fattori ambientali medino l’influenza genetica responsabile delle differenze individuali nelle abilità cognitive e scolastiche (Walker et al., 1994; Gayán et al.,, 2001, 2003; Byrne et al., 2002; Olson, 2002, 2006; Petrill et al., 2006; Grigorenko et al., 2007; Hayiou-Thomas, 2008), e la Dislessia Evolutiva sembra un buon fenotipo per investigare simili meccanismi. I fattori di rischio ambientali maggiormente descritti dalla letteratura per quel che concerne la Dislessia Evolutiva sono: stato socio-economico (SES – Hoff et al., 2005); struttura e demografia familiare (Fergusson et al., 1993; DeFries et al., 1994; Fergusson et al., 1999; O’Connor et al., 2000; Jee et al., 2008); livello di istruzione genitoriale (Melekian, 2001; Walker et al., 1994); esposizione ad un ambiente letterale (Scarborough et al., 1994; Bus et al., 1995; Harlaar et al., 2007). L’abuso di sostanze da parte della madre durante la gravidanza (Fried et al., 1997), il peso alla nascita (Bowen et al., 2002; Samuelsson et al., 2006) e problemi in gravidanza (Gilger et al., 1992) sono ulteriori fattori di rischio.

Molti fattori di rischio ambientale sono stati riscontrati associati all’ADHD, ma è stato più difficile comprendere quale di questi possa avere un ruolo causale (Rutter, 2009; Lahey et al., 2009; Thapar et al., 2009). I fattori di rischio maggiormente studiati in relazione all’ADHD sono i fattori pre e peri natali, il fumo in gravidanza (Langley et al., 2005), alcool e l’abuso di sostanze (Linnet et al., 2003), lo stress materno (Glover, 2011; Grizenko et al., 2008), basso peso alla nascita e prematurità (Bhutta et al., 2002); ambienti tossici (Thapar et al., 2013); fattori dietetici (Thapar et al., 2013); caratteristiche socio-culturali dell’ambiente di crescita (Scahill et al., 1999; Pheula et al., 2011).

Tuttavia, molti di fattori ambientali non sono considerati specifici per l’ADHD o per la Dislessia Evolutiva. Questi due disturbi mostrano una sovrapposizione dei fattori di rischio ambientali che può contribuire al co-occorrere dei due disturbi: la chiave per comprendere meglio l’effetto di questi fattori sulla patologia può essere rappresentata da un modello più complesso: l’interazione gene-ambiente (GxE – Nigg et al., 2010).

L’ipotesi che guida questo approccio dichiara che i geni e l’ambiente non operano indipendentemente l’uno dall’altro (Nigg et al., 2010). I fattori di rischio, di qualunque tipo, possono contribuire non solo direttamente ma anche in interazione tra di loro, incrementando la suscettibilità alle avversità ambientali e alterando la sensibilità ai fattori di rischio (Thapar et al., 2013). Un’interazione di questo tipo comporta dunque che una certa suscettibilità genetica sia modulata da misure ambientali (Rutter et al., 2006).

Nonostante la potenziale importanza di questo approccio di interazione gene-ambiente (Rutter et al., 2006), pochi studi hanno preso in considerazione il ruolo congiunto dei marcatori genetici e dei fattori ambientali di rischio. Per quanto riguarda la Dislessia Evolutiva sono stati eseguiti due studi (McGrath et all., 2007; Pennington et al., 2009) che selezionano un campione di bambini con Speech Sound Disorder (SSD), considerati bambini a rischio di Dislessia Evolutiva (Gallagher et al., 2000; Pennington et al., 2001; Raitano et al., 2004). Gli autori trovano un trend d’interazione tra due regioni cromosomiche (6p22 e 15q21) e alcune misurazioni ambientali (e.g., grado di istruzione della madre e la lettura da parte dei genitori al bambino) con effetti su disturbi legati alla lettura (e.g., consapevolezza fonologica, denominazione rapida).

Un solo studio (Mascheretti et al., 2013) ha indagato l’interazione gene-ambiente in un campione di bambini con Dislessia Evolutiva e dei loro fratelli. Si è riscontrata un’interazione tra specifici moderatori ambientali (i.e. fumo materno in gravidanza, basso peso alla nascita e basso stato socio economico) e il gene “di rischio” DYX1C1-1259C/G. Più numerosi sono invece gli studi che indagano l’interazione GxE nei bambini con ADHD. Alcune ricerche hanno esaminato il ruolo dell’allele di rischio DAT1 e DRD4 e trovato interazioni significative con l’esposizione prenatale all’alcool e al fumo e l’esposizione ad avversità psicosociali (Kahn, et al., 2003; Brookes et al., 2006; Neuman et al., 2007; Laucht et al., 2007). Retz e colleghi (2008) hanno riscontrato un’interazione G×E tra avversità ambientali dell’infanzia (e.g., stato economico della famiglia, qualità dell’educazione scolastica, grado di conflitto familiare) e il gene 5-HTTLPR. Lasky-Su e colleghi (2007) hanno indagato l’interazione tra il marcatore BDNF in bassi livelli di stato socio-economico. Waldman (2007) esplora la relazione tra il recettore dopaminergico DRD2 e la stabilità matrimoniale.

Non sono presenti, ad oggi, studi che prendono in considerazione popolazioni di bambini affetti sia da Dislessia Evolutiva che da ADHD in cui sia stato indagato un modello di interazione GxG o GxE.

Quello che è possibile concludere da questo breve stato dell’arte è che il modello eziologico necessario per spiegare un disturbo del neurosviluppo è altamente complesso e polifattoriale, ovvero composto da diversi fattori genetici ed ambientali (Faraone et al., 1999; Fisher et al., 2002). Di conseguenza, per essere in grado di spiegare la co-occorrenza tra due disturbi è necessario un modello almeno altrettanto complesso. Sarà quindi importante approfondire quale ipotesi spieghi al meglio tale co-occorrenza, tuttora ancora parzialmente sconosciuta, per approfondire la conoscenza dei fattori di rischio e per permettere lo sviluppo di sempre più accurate tecniche di prevenzione.

Non solo farmaci per i disturbi depressivi gravi: anche la CBT risulta efficace

Un recente studio ha prodotto risultati interessanti che in qualche modo rivoluzionano le nostre attuali conoscenze in fatto di trattamenti psicoterapeutici dei disturbi depressivi.

Nella scheda informativa n. 396 pubblicata ad ottobre 2015 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sul tema della salute mentale, si ribadisce che i Disturbi Depressivi rappresentano una delle prime cause di disabilità e una delle patologie principalmente responsabili del carico globale di malattia, con più di 350 milioni di persone affette in tutto il mondo. Qualche anno prima, la stessa OMS definiva i Disturbi Depressivi come una vera e propria crisi globale, con paesi nel mondo in cui meno del 10% delle persone affette riceve cure adeguate.

Nella stessa scheda informativa si legge inoltre di come esistano diversi trattamenti efficaci per questi disturbi; più precisamente viene indicato che:

  • Le forme lievi e moderate possono essere trattate efficacemente con psicoterapia, in particolare la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulta essere quella più studiata e con prove di efficacia ampiamente documentate
  • Le forme moderate e severe possono essere efficacemente trattate con psicofarmaci, in particolare con antidepressivi
  • Nelle forme lievi e nei disturbi depressivi in adolescenza gli psicofarmaci non possono essere considerati i trattamenti di prima linea
  • Gli psicofarmaci non devono essere utilizzati nelle depressioni dell’infanzia.

Quanto sottolineato nel documento risulta assolutamente in accordo con le principali linee guida internazionali per il trattamento dei Disturbi Depressivi.

Un recente studio pubblicato su JAMA Psychiatry condotto dal gruppo olandese di Erika Weitz e Pim Cuijpers (Weitz E. S. et al., 2015) ha prodotto risultati interessanti che in qualche modo rivoluzionano le nostre attuali conoscenze in fatto di trattamenti psicoterapeutici dei disturbi depressivi.

L’obiettivo del lavoro è stato quello di valutare un eventuale effetto moderatore della Depressione Grave sulla efficacia del trattamento farmacologico e della CBT ; in altre parole gli autori si sono chiesti se una depressione severa, misurata con adeguati strumenti, possa influenzare i risultati di efficacia che ci si attende da un trattamento farmacologico adeguato o da un trattamento psicoterapeutico effettuato con CBT.

Il lavoro del gruppo olandese è stato condotto mediante una meta-analisi sui dati individuali di singoli pazienti ambulatoriali con diagnosi primaria di disturbo depressivo maggiore o disturbo distimico, inclusi in 16 trails clinici randomizzati in cui si confrontava l’efficacia della CBT con la terapia farmacologica. Le terapie cognitivo-comportamentali dovevano essere manualizzate e utilizzare la ristrutturazione cognitiva come componente principale del trattamento. I dati raccolti si riferiscono a 1700 pazienti ambulatoriali, 794 trattati con CBT e 906 con antidepressivi.

Mentre la maggior parte di studi simili riportati in letteratura si basa su dati aggregati presentati nei singoli articoli, va sottolineato che questa meta-analisi è stata effettuata sui dati dei singoli pazienti inclusi nei diversi studi permettendo così di costruire una misura di sintesi affidabile e precisa; ciò significa che in questo caso i diversi autori, generalmente poco disposti a condividere i propri dati, hanno mostrato completa collaborazione permettendo quel processo di recupero delle informazioni assolutamente necessario per il buon esito di uno studio di queste proporzioni.

I risultati ottenuti dal gruppo di ricercatori olandesi mostrano come non esistano evidenze che la gravità della depressione abbia un effetto moderatore sull’efficacia del trattamento: in altre parole i pazienti con depressione più grave non hanno necessariamente bisogno di farmaci per avere un miglioramento clinico significativo.

Sebbene le linee guida suggeriscano che i pazienti con depressione grave richiedono un trattamento psicofarmacologico, i dati analizzati dal gruppo di Erica Weitz e Pim Cuijpers non mostrano differenze tra terapia farmacologica e CBT. Ciò considerato, anche la CBT potrebbe essere trattamento di prima linea per le forme gravi.

Come gli stessi autori sottolineano, esistono alcuni limiti dello studio relativi alle misure di outcome mediante BDI e HAM-D, nonostante siano strumenti ampliamente utilizzati nella ricerca e nella pratica clinica. La BDI è uno strumento self-report soggetto ad errori di autovalutazione che coglie soprattutto gli aspetti cognitivi della depressione; la HAM-D presenta invece problemi psicometrici ed è orientata ad evidenziare soprattutto sintomi somatici e ansiosi. Inoltre non tutti i trials individuati, in grado di soddisfare i criteri di inclusione, sono stati selezionati per la meta-analisi, per cui è possibile che gli studi inclusi non fossero completamente rappresentativi. Gli autori sottolineano inoltre che la diversità dei risultati tra CBT e terapia farmacologica potrebbe essere influenzata dalla diversa competenza e aderenza ai diversi regimi di trattamento da parte di psichiatri e psicoterapeuti; purtroppo in questo studio non è stato possibile esaminare le qualità delle prestazioni e dei trattamenti erogati.

Nonostante le limitazioni, lo studio rappresenta la prima meta-analisi che valuta la depressione grave come moderatore dei risultati ottenuti attraverso 2 trattamenti di diversa natura.

I risultati ottenuti non mostrano una influenza della variabile gravità, per cui non ci sono dati sufficienti per raccomandare ad un paziente ambulatoriale con depressione grave un trattamento farmacologico piuttosto che una terapia cognitivo-comportamentale.

Sweet November: quando la malattia oncologica costituisce matrice di legame e di cambiamento – Recensione

Nelson incontra Sara, entrambi si ritroveranno a condividere lo stesso tetto per un mese, il mese di novembre. I due si innamorano ma a minacciare l’idillio amoroso e la convivenza sarà la malattia terminale di Sara.

La storia narra dell’agente pubblicitario in carriera Nelson, molto legato al suo lavoro e fermamente convinto che il tempo sia denaro. Nelson ha una relazione con la giovane Angelica. Al test per il rinnovo della patente, Nelson incontra Sara. I due si ritroveranno a condividere lo stesso tetto per un mese, il mese di novembre.

In questo periodo Sara cercherà di far capire a Nelson l’importanza della vita e la superficialità di alcune cose che invece per lui sono fondamentali. Dopo un inizio travagliato, i due entrano sempre più in sintonia, e si innamorano. A minacciare l’idillio amoroso e la convivenza, la triste scoperta da parte di Nelson che Sara è, già da qualche tempo, malata terminale di tumore…

La visione del film con gli occhi di una spettatrice e, nello stesso tempo, di una psicologa psicoterapeuta psiconcologa, è stata una esperienza che ha favorito quella che Bateson (1977) definisce una visione binoculare composta dagli aspetti emotivi strettamente collegati alla vicenda umana narrata e stili di funzionamento relazionale rispetto l’ospite inatteso e sgradito quale la malattia. Ciò che, a mio avviso, favorisce l’integrazione di queste due lenti è la relazione che nasce dall’incontro dei due protagonisti e che funge da matrice di cambiamento.

L’incontro, inizialmente casuale ma ben organizzato in un secondo momento, favorisce la conoscenza di due soggetti apparentemente diversi per stili di vita: lui (ben inquadrato con un lavoro di successo ed una relazione sentimentale stabile), lei (una vita di successo abbandonata misteriosamente per una più svitata) ma che insieme trascorreranno un mese intero, quello di Novembre secondo i confini relazionali che Sara proporrà.

La relazione, nonostante le premesse iniziali, si trasforma in un legame profondo che inganna lo scorrere veloce ed inesorabile del temuto e odiato kronos. Il profondo legame consente ad entrambi di scoprire parti di sé misconosciute favorendo nuove esperienze di vita (es: esercitare la funzione genitoriale, operazioni di salvaguardia per gli animali) che consentono ad entrambi di vivere in modo diverso il proprio kairos.

In questo scenario ad alto contenuto emotivo, la malattia compare verso la fine del film. Essa non va a scardinare il legame ma, come spesso succede, tende a cementificarlo favorendo una maggior condivisione ed un contesto di differenziazione per entrambi. Secondo la classificazione proposta da Costantini , Grassi e Biondi rispetto gli stili di coping messi in atto dal soggetto nei confronti della patologia, si potrebbe dedurre che, apparentemente, lo stile relazionale di Sara sia combattivo, con livelli d’ansia e demoralizzazione congrui alla patologia. Tuttavia, non essendovi aderenza ai trattamenti medici, sembrerebbe, in seconda battuta, che più che stile combattivo, si tratti di evitamento con bassi livelli d’ansia e demoralizzazione e attività distraenti (il proposito di Sara di cambiare la vita di Nelson) a temi legati alla malattia con scarso confonto e poche strategie di compliance.

La malattia, inizialmente silente, poi, in un secondo momento, si manifesta con tutta la sua sfera sintomatologica, come uno specchio (Eduardo lo chiamava ‘o scostumat’ per la sua fedeltà indelebile al reale) favorisce il confronto evitato di Sara con quella che è la sua realtà e, nello stesso tempo, svela il mistero della ‘cassetta chiusa a chiave’ presente nel bagno di Sara e che Nelson non poteva aprire. Questo scenario viene elicitato, in questo caso, dalla telefonata della sorella di Sara, portavoce della famiglia, preoccupata per la mancanza di compliance di Sara nelle cure terapeutiche. La famiglia, probabilmente in accordo con lo stile relazionale di evitamento di Sara non compare nel film se non attraverso qualche discorso di Sara. Considerando, sulla base del racconto fornito da Sara, il disappunto della famiglia per la modalità svitata di cura di questa, si potrebbe ipotizzare che lo stile di coping di questa sia improntato maggiormente verso il versante supportivo. Infatti , Sara alla fine deciderà di tornare dai suoi in quanto si renderà conto che non potrà farcela da sola.

Nel film vengono molto utilizzati alcuni oggetti con valore simbolico come la cassetta chiusa a chiave dei farmaci che, a mio avviso, rende bene la posizione di Sara che, scoperta la malattia, vuole tenerla chiusa in un angolo al fine di non consentire a nessuno di vederla in quanto la sola vista tenderebbe a far crollare l’esistenza mistificata che lei stessa si è costruita. La barchetta che Sara e Nelson regalano al bimbo con il quale si ritrovano ad assolvere funzioni genitoriali (Nelson soprattutto) a mio avviso è simbolo di speranza (nella gara con le altre barchette a vela la barca appare spacciata ma poi, grazie anche a un aiuto di Nelson, riesce ad arrivare prima) e di come la forza della relazione in certi casi possa avere un effetto benefico e terapeutico.

Questo mi porta a riflettere su quanto la mistificazione presente nel film abbia, in questo caso, creato un buon terreno per la semina e la conseguente nascita di un forte legame, un legame che, anche se cieco rispetto ad alcuni aspetti di vita (simbolicamente, a mio avviso, nel film il gioco a moscacieca sta a significare questo) non ha mancato di essere autentico nella purezza dei sentimenti e nel candore dell’incontro amoroso in tutte le sue declinazioni.

Hypersexual disorder, un’ aberrazione della risposta allo stress

Una nuova ricerca svedese si è occupata di hypersexual disorder, meglio noto come dipendenza sessuale, e rivela che questo disturbo può essere collegato a un’ iperattività dei circuiti dello stress.

La dipendenza sessuale, comporta pensieri ossessivi sul sesso, una coazione a compiere atti sessuali, perdita di controllo e abitudini sessuali potenzialmente rischiose o pericolose. La diagnosi è controversa, dal momento che vi è spesso co-morbilità con altri disturbi mentali. Jussi Jokinen del Karolinska Institutet’s Department of Clinical Neuroscience ha usato il test del desametasone per misurare i sistemi di stress dei pazienti. Il desametasone è un farmaco corticosteroide usato per deprimere il sistema immunitario – usato per esempio durante uno shock anafilattico o un trapianto d’organo – serve tuttavia anche come una sorta di test di stress chimico.

Lo studio ha coinvolto 67 uomini con hypersexual disorder e 39 controlli sani. I partecipanti sono stati diagnosticati con attenzione per hypersexual disorder e co-morbilità con depressione o per la presenza di traumi infantili. I ricercatori gli hanno somministrato una bassa dose di desametasone la sera prima della prova, per inibire la risposta allo stress fisiologico, e poi la mattina hanno misurato i loro livelli di ormoni dello stress cortisolo e ACTH.

I risultati indicano che i pazienti con dipendenza sessuale hanno livelli più alti di questi ormoni rispetto ai controlli sani, una differenza che è rimasta significativa anche dopo la verifica di co-morbilità con depressione e la presenza di traumi infantili. ”

[blockquote style=”1″]Un’ aberrazione della regolazione dello stress è stata precedentemente osservata in pazienti depressi, suicidi e tossicodipendenti[/blockquote] sostiene Jokinen.

[blockquote style=”1″]Negli ultimi anni, l’attenzione si è concentrata sul fatto che i traumi infantili possono portare a una disregolazione dei sistemi di stress del corpo tramite i cosiddetti meccanismi epigenetici, per i quali gli ambienti psicosociali possono influenzare i geni che controllano questi sistemi.[/blockquote]

Secondo i ricercatori questi risultati suggeriscono che lo stesso sistema neurobiologico coinvolto in un altro tipo di abuso può essere applicato a persone con disturbo da dipendenza sessuale. Il passo successivo è quello di verificare se la psicoterapia ha contribuito in questi pazienti a normalizzare la loro risposta allo stress fisiologico. Oltre ad eseguire più approfondite analisi epigenetiche.

La caccia, ovvero l’eccitazione della ricerca – Tracce del tradimento XXXI

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – (XXXI: La caccia, ovvero l’eccitazione della ricerca)

 

C’è chi cerca tracce di tradimenti per tenere vivo il rapporto, l’eccitazione dell’incertezza crea uno stato emotivo di curiosità timore e amore che può in alcune circostanze essere preferibile a una paciosa sopravvivenza quotidiana. I cacciatori di questo tipo conoscono l’ossessione della passione amorosa e disconoscono la tranquillità di un amore soddisfatto.

Questi soggetti hanno avuto una relazione inizialmente eccitante, complessa, tormentata, ostacolata. Tuttavia quando tutti gli ostacoli si sono sciolti e finalmente si è insieme e si fanno progetti e si diventa più affini, iniziano ad annoiarsi. Iniziano i primi screzi. Ci si trova davanti a una titubanza affettiva in cui manca l’eccitazione che si aveva inizialmente ma ancora non si ha una visione organica dell’esistenza comune.

La ricerca delle tracce assume la funzione di una ossessione rivitalizzante. Se si trova qualcosa il dolore e l’incertezza, il timore della perdita, richiamano il vecchio sentimento, possono consentire un avvicinamento tormentoso come all’inizio della storia. Se non si trova nulla si continua a cercare. La ricerca è come una caccia, si fa nei ritagli di tempo, si aprono sempre le stesse lettere segrete, si fruga nei cassetti, si centellina l’analisi di smozzicate frasi del passato. Serve questo per eccitarsi, per pensare immaginare il proprio uomo come conteso, affascinante, bello, appartenente a un’altra che lo porta via. Lo si immagina diverso, lo si ama immaginandolo diverso da come egli è. La persona cercatrice di tracce non abbandona mai la coppia ma fa il gioco perverso del malessere e della gelosia come viagra relazionale.

“Sono venuti in seduta per una consultazione di coppia due persone di mezza età, con una crisi di coppia dolorosa ma a cui nessuno poteva in nessun modo rinunciare. L’uomo, un uomo bello e molto ansioso, con una storia difficile alle spalle aveva una ossessione di gelosia per la donna, una bella donna ambivalente e sfuggente che, spesso durante il giorno si prendeva “spazi liberi per pensare” e spegneva il telefono rendendosi irreperibile. Conservava molti amici del passato con i quali intratteneva messaggi telefonici e telefonate lunghe e misteriose. L’uomo sempre più spesso di questo si adombrava, si arrabbiava, si inferociva, e sempre più lei si faceva vana e sfuggente. Anzi più lui si faceva stringente chiedendo controllo e rassicurazioni in modo duro e rimproverante, più lei si faceva ambigua, senza però mai allontanarsi. Nessuno voleva realmente risolvere la situazione con una separazione ma si viveva così tirandosi addosso i cellulari quasi ogni giorno, con urla, inseguimenti, minacce mai messe in pratica, nessuno voleva rinunciare al proprio comportamento e nessuno sapeva rinunciare al tentativo di cambiare quello dell’altro.”

 

Questa coppia è venuta a cercarci per una richiesta di terapia nel tentativo di capire qualcosa del tormento che li affliggeva e timorosi delle crisi di rabbia che si facevano sempre più vaste e durature. Dopo alcune sedute tempestose in cui si sono scambiati sospetti e veleni senza affatto curarsi del terapista, ci hanno lasciato così come erano arrivati da noi, isolati, cuciti per sempre nella relazione eccitante e dolorosa che non volevano addolcire e alla quale non volevano rinunciare.

Il rapporto che diventa stabile abbandona evidentemente la ferocia erotica dell’inizio per stabilizzarsi su una comunicazione, una vicinanza, una dolcezza della compagnia reciproca che alcuni temono moltissimo. Essi interpretano questa fase come una perdita dell’eden sublime nel quale vivevano.

Il tradimento subito, la minaccia dell’abbandono potrebbe avere la funzione di riaccendere nella disperazione la vecchia fiamma. È racconto comune che alcune coppie, dopo tradimenti e riappacificazioni raccontino incontri sessuali finalmente di nuovo eccitanti, con l’epica del sesso assoluto legata alla paura della minaccia della perdita. Queste caratteristiche spiegano il cercare (o inventare) tracce del tradimento come un tentativo di conservare una sessualità e una passione per l’altro che diano ragione del rapporto. E della quale non si sa fare a meno.

In questi casi è chiaro che non si è imparato a vivere una relazione che sia fondata su un amore diverso da quello passionale. Non si conosce, o non si vuole o si considera noioso un amore basato sulla tenerezza, sulla compagnia reciproca sulla solidarietà. Nel paragone tra questi tipi d’amore ci si basa sulla potenza dell’emozione in gioco, della sofferenza del batticuore e non si sa valutare altro.

Il cercar tracce e il tradimento dell’altro sono una necessità che salva il rapporto. Indipendentemente dalla concretezza del tradimento. Un’allucinazione necessaria.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

The lobster (2015) di Yorgos Lanthimos – Recensione del film

Annalisa Bertuzzi

Nel prossimo futuro, essere single non sarà più consentito, non oltre una certa età. Un single è di peso alla società. E se non si trova un partner in 45 giorni? Si viene trasformati in un animale a propria scelta.

Il matrimonio di David è giunto al capolinea: la moglie decide di lasciarlo perché non lo ama più. Si prospetta, quindi, una vita da single. O forse no.

Perché, nel prossimo futuro, essere single non sarà più consentito, non oltre una certa età. Un single è di peso alla società. E se il partner non c’è? Bisogna trovarlo. Come? Si viene deportati, pardon, condotti in un albergo, sottoposti a questionari, schedati e caldamente invitati ad individuare una metà compatibile in 45 giorni di tempo. Altrimenti? Altrimenti si viene trasformati in un animale a propria scelta: così si potrà essere nuovamente utili e si avrà anche, almeno in forma animale, un’altra chance di trovare un partner.

David, in caso di insuccesso, decide di diventare un’aragosta, la ‘Lobster‘ del titolo, perché ama il mare e perché l’aragosta ha sangue blu, dice a chi gli somministra il questionario.

Inizia la fase di ricerca. Ogni mattina la sveglia ricorda il tempo che è rimasto a disposizione. L’albergo propone ai propri forzati ospiti amene attività ricreative da compiere insieme per conoscersi meglio. Sicuramente feste, cene e balli di coppia, ma anche la caccia ai solitari. Per caccia si intende, letteralmente, lo sparare proiettili anestetizzanti a coloro i quali vivono da fuorilegge, cioè da single, nascondendosi nel bosco che circonda l’albergo. Ogni solitario catturato da diritto ad un giorno in più, un giorno in aggiunta ai 45 per trovare l’anima gemella.

La quale anima gemella, si badi bene, deve essere affine, a garanzia del successo della coppia: uno che zoppica sta bene in coppia con una che ha la stessa caratteristica, lo stesso si dica per chi è miope. Vale anche per i pregi, dei bei capelli, ad esempio. Tutto ciò vi sembra assurdo, insensato e grottesco? Del resto è un film.

Tornando a David, meglio, forse, unirsi alla resistenza, al gruppo dei solitari. Si vive nascosti, certo. Ma la libertà, si sa, ha un prezzo. Finalmente liberi dai vincoli imposti dalla società? Anche questa opzione potrebbe riservare più di una sorpresa, non esattamente positiva.

Di fatto, ciò che conta è l’apparenza. Stare in coppia per convenienza e comodità, essere single per ribellione (in tal caso non è affatto consigliabile tornare sui propri passi, e il protagonista lo imparerà a sue spese). Dove è finita la libertà di scelta? L’imprevedibilità? Voglio dire, lo stare insieme perché ci si innamora, lo stare da soli semplicemente perché non si è innamorati. La società queste derive individualistiche non se le può permettere, troppo dispendiose perché impossibili da prevedere, gestire e organizzare adeguatamente.

In fin dei conti, lo dicevamo, non è che un film un po’ contorto ambientato in un futuro distopico, una semplice divagazione. O no?

Transparent ovvero l’ essere tra(n)sparenti: la genitorialità transgender dalla psicologia alle serie TV

Valentina Venturelli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Transparent è prima di tutto un gioco di parole: ‘transparent‘ (dall’inglese) significa ‘trasparente’ ma non solo, esso contemporaneamente è la fusione di ‘trans‘, parola gergale per indicare una persona transgender e ‘parent‘, vocabolo inglese per ‘genitore’.

Con il termine Transgender ci si riferisce all’ampio spettro di individui che si identificano in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita (APA, 2015).

Il titolo di questa serie tv statunitense asserisce fin da principio quale argomento viene trattato nella trama, dando voce ad una realtà più diffusa e più largamente accettata rispetto al passato, ma osservata comunque con sospetto e stigma: una realtà che coniuga l’identità transgender con l’identità di ruolo di genitore.

La serie televisiva, prodotta da Amazon, ideata e diretta da Jill Soloway, tesse un intricato intreccio di narrazioni personali legate ai componenti della famiglia Pfefferman. Filo conduttore della trama è la storia di Morton, capofamiglia e docente di scienze politiche in pensione, e del suo percorso di scoperta e rivelazione di sè come Maura.

La serie tv, vincitrice di due Golden Globes come ‘Miglior serie televisiva’ e ‘Miglior attore in una serie televisiva’ a Jeffrey Tambor nella parte di Maura, cattura con freschezza e genuinità le caratteristiche del modo Transgender e si focalizza in particolare sui rapporti e sulle dinamiche che si sviluppano tra i personaggi e sulla loro connotazione psicologica. La lente di ingrandimento non è posta solo su Maura, ma lascia spazio anche alle storie di vita dei figli e dell’ex moglie. La complessità del coming out si intreccia con le difficoltà e incomprensioni legate all’accettazione di Maura da parte dei figli (Sarah, Josh e Ali) e dell’ex-moglie (Shelly), nonché alle problematicità individuali dei singoli.

L’intento dichiarato dall’autrice è quello di usare la serie tv per esplorare il concetto di identità di genere, partendo dalla propria biografia personale. Soloway, infatti, è stata ispirata dal coming out transgender del padre. La produzione ha cercato di abbattere i preconcetti culturali impiegando il più alto numero possibile (più di 80) di transgenders e come segno di lotta alla discriminazione, tutti bagni dei set sono stati resi neutri dal punto di vista del genere (Internet Movie Database [IMDb], 2014).

Obiettivo di questo articolo è, in primis, tentare di chiarire al lettore l’ingente numero di termini utilizzati per riferirsi al sesso e al genere e secondariamente analizzare la bibliografia più recente riguardo all’essere ‘trans-parent’, ossia genitori transgender.

Il termine transgender è un termine ombrello che descrive un vasto numero di persone che sperimentano e/o esprimono il loro genere in modo non eteronormativo, cioè in modo differente –a volte non tradizionale- da come la maggior parte delle persone si aspetta sulla base delle norme socio-culturali di appartenenza. Transgender è spesso usato come categoria inclusiva per un ampio spettro di identità che includono: transessuali, (..) drag queens e drag kings, male-to-female (MtF), female-to male (FtM), cross-dresser, gender benders, gender variant, gender non conforming e persone di genere ambiguo (Bilodeau & Renn, 2005).

Una persona MtF una persona di sesso biologico alla nascita maschile e sesso psicologico femminile, che ha compiuto la transizione al genere femminile; mentre FtM è una persona di sesso biologico femminile e sesso psicologico maschile, che ha compiuto la transizione al genere maschile. Cross-dresser è il termine preferibilmente utilizzato rispetto a ‘travestito’, che possiede una connotazione dispregiativa, ed indica una persona che usa indossare abbigliamento, trucco ed accessori che la società considera appartenenti al sesso opposto. Si stima che una percentuale compresa tra lo 0,25 e l’1 % della popolazione USA sia transessuale (National Center for transgender Equality, 2014).

Rispetto all’abbondanza di lavori sul coming out omosessuale, il coming out come transgender rimane un fenomeno molto meno studiato.

Uno studio di Bilodeau e Renn (2005) suggerisce che lo sviluppo dell’identità e dell’orientamento sessuale delle persone transgender possa essere assimilabile al processo descritto da D’Augelli per lo sviluppo dell’identità e dell’orientamento sessuale in gay, lesbiche e bisessuali. Tale modello modello, che copre l’intero life-span, si compone di 6 processi identitari relativamente indipendenti l’uno dall’altro e interattivi. Egli identifica:

  • Esito dell’identità eterosessuale
  • Sviluppo di un’identità personale gay/lesbica/bisessuale
  • Sviluppo di un’identità sociale gay/lesbica/bisessuale
  • Svelamento della propria identità gay/lesbica/bisessuale ai propri genitori
  • Sviluppo di una relazione intima gay/lesbica/bisessuale
  • Entrata nella comunità gay/lesbica/bisessuale.

Uno studio di Zimman (2009) sulle narrative utilizzate nel coming out transgender mostra come esse differiscono in modo significativo da quelle di gay e lesbiche. Egli denuncia, inoltre, che per molti autori il focus della ricerca verte sulla questione dell’orientamento sessuale rendendo in tal modo silenziosa la lettera T nell’acronimo LGBT (abbraviazione di Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender).

Siamo indiscutibilmente ancora lontani dalla piena comprensione del coming out transgender, ma possiamo ipotizzare che esso differisca dal coming out omosessuale primariamente perché si possono identificare due diversi momenti per uscire allo scoperto: prima e dopo la transizione. Con il termine transizione, facciamo riferimento al processo attraverso il quale alcune persone transgender passano quando decidono di vivere secondo il genere con cui esse si identificano diversamente da quello assegnato alla nascita. Questo processo può includere o meno la terapia ormonale sostitutiva, la chirurgia di riassegnazione sessuale e altre cure mediche (HRC, 2014).

Rispetto alle coppie di genitori gay o coppie lesbiche, la genitorialità di transgender, transessuali e genderqueer (genderqueer è una persona che non si riconosce nel binarismo di genere uomo/donna e può identificarsi come un’appartenente a una sorta di terzo genere (qualcosa di altro), identificarsi con entrambi i generi, con nessuno dei due oppure con una combinazione di entrambi. Molti genderqueer si identificano anche come transgender) è ancora un’area poco studiata.

Nonostante numerosi studi non abbiano evidenziato differenze nelle capacità genitoriali di persone LGBT confrontate con genitori eteronormativi, ci sono molti stereotipi e miti da sfatare.  Lo studio di Istar Lev (2010) ha voluto sfidare le basi stesse della ricerca esistente sulle famiglie LGBTQ (la lettera Q sta per Queer) asserendo che essa ha minimizzato la complessità dello sviluppo dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale nei figli di tali coppie. Secondo gli studiosi, la ricerca stessa sarebbe guidata da assunzioni eteronormative, che presuppongono un outcome meno positivo qualora i figli di genitori LGBTQ si identifichino come gay o transgender. Tale studio vuole evidenziare l’enorme pressione sociale a cui i genitori LGBTQ sono sottoposti: cioè crescere figli eterosessuali e gender conformi. Le recenti ricerche rivelano che quando i figli mostrano comportamenti non conformi al genere, i genitori LGBT sperimentano senso di colpa e fallimento, come se crescere figli eteronormativi potesse in un certo senso far dimenticare della non conformità dei genitori. I figli di genitori LGBT sono meno rigidi riguardo al genere a all’esplorazione sessuale, ma non sembrano riportare tassi d’incidenza di disforia di genere diversi rispetto ai figli di genitori non LGBT.

Ancora molta strada si deve fare per raggiungere l’equità e sfidare l’eterosessismo, ossia il sistema ideologico che nega, denigra e stigmatizza qualsiasi forma di comportamento, identità, relazione o comunità non- eterosessista (Herek, 1995). Decentrandosi dall’eterosessismo come norma, cambierebbe la natura stessa della discussione riguardo lo sviluppo sessuale e dell’identità di genere.

Uno studio Australiano di Chapman et al. (2012), il primo ad aver incluso nel campione famiglie in cui un genitore è transessuale, ha indagato il rapporto che esiste tra essere un genitore LGBT e l’accesso e la fruizione di cure per i propri figli.

L’omofobia, termine utilizzato per intendere le reazioni affettive ed emotive di ansietà, avversione, disgusto, rabbia e paura che gli eterosessuali possono provare nel confronto con le persone omosessuali (Pietrantoni, 1999) e la transfobia, ossia le stesse reazioni affettive di cui sopra nei confronti delle persone transgender, si sono rivelate le maggiori barriere per l’accesso a cure di qualità nel sistema sanitario per le persone LGBT. Non sorprende, dunque, la riluttanza di tali famiglie nel fornire informazioni riguardo al proprio orientamento sessuale e/o alla propria identità di genere. Molti genitori LGBT sono restii a fare coming out davanti alle figure sanitarie perché hanno riportato esperienze negative e sono preoccupati di eventuali atteggiamenti discriminatori. Così come devono fronteggiare l’esterno, i genitori LGBT possono avere a che fare anche con la loro stessa omofobia e/o transfobia interiorizzata, che può portare a sentimenti di vergogna, ostilità, autodenigrazione e ansia. (Chapman, Wardrop et all, 2012).

Sesso biologico alla nascita (maschile, femminile o intersessuale) e identità di genere, sono componenti distinte del sé: l’identità di genere non necessariamente segue nel corso dello sviluppo la direzione del sesso biologico. L’identità di genere si differenzia anche dal concetto di ruolo di genere, un costrutto socio-culturale, che coinvolge l’adattamento alle categorie socialmente costruite di maschile e femminile (es: giocare con le bambole è da femmina e giocare con le macchinine è da maschi). Sesso biologico, identità di genere e ruoli di genere interagiscono in modo complesso e ognuno di essi risulta indipendente dall’orientamento sessuale, ossia dalla direzione dell’attrazione sessuale ed affettiva (su di un continuum che va dal polo eterosessuale al polo omosessuale, che comprende anche l’orientamento bisessuale e/o il pansessualismo).

Siamo ancora lontani da una vera depatologizzazione delle realtà transgender. Il tema delle identità transgender è ancora dominato da una prospettiva medica e psichiatrica: la cui letteratura si focalizza primariamente su una costruzione binaria dell’identità di genere e propone una correzione della devianza di genere attraverso la riassegnazione sessuale al genere appropriato.

Una sezione dedicata al Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) appare per la prima volta nel 1980 nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III), e successivamente altre 4 edizioni hanno mantenuto e ampliato tale categoria diagnostica. Per quanto riguarda il DSM-V, in realtà, sembra che l’unico cambiamento sia nominale: la nosografia è cambiata da DIG a Disforia di Genere, ma sembra permanere l’idea che una persona transgender in viaggio verso la transizione ne debba soddisfare i criteri. Ma siamo davvero davanti ad uno sviluppo atipico di tipo psicopatologico o no?

Si auspica che come avvenuto per l’omosessualità, anche le diverse realtà abbracciate dallo spettro delle identità transgender, vengano riconosciute come sfumature ed accezioni di una concezione del genere non più binaria, divisa tra maschile e femminile, ma fluida.

Citazioni da Transparent:

  • Episodio 1, ‘Rivelazioni’

Maura al gruppo di auto-mutuo aiuto: La settimana scorsa mi ero imposto di dirlo ai ragazzi, ma non ce l’ho fatta. Non era ancora il momento giusto, capite? Ma lo farò. E succederà presto. Voglio promettervelo. [alza la mano] Ve lo prometto!

  • Episodio 3, ‘Donne’

Maura: Credo che il prossimo a cui lo dirò sarà Josh. […] Pensi che sia pronto? Sarah: No, non si è mai pronti. È come partorire. Hai presente? Un bel giorno il bambino nasce e tu prendi coscienza.

  • Episodio 2, ‘Cambiamenti’

Maura: Quando avevo cinque anni io se-sentivo che c’era qualcosa che non andava. Non sono riuscito a parlare con nessuno del mio lato femminile..era un periodo diverso sai..del tutto diverso[…]così ho dovuto tenere tutti i sentimenti dentro di me…[…]
Sarah: Scusa, ma io non…Scusa papà, ma io non sto capendo…Potresti aiutarmi a venirne fuori? Stai… Mi stai dicendo che ti sei vestito da donna per tutta la vita?
Maura: No, amore. Per tutta la mia vita..per tutta la mia vita mi sono travestito da uomo! Io sono così.

  • Episodio 10, ‘La famiglia’

Maura: Alla scuola elementare di Westlake c’era la signora Painter e io stavo nella fila delle bimbe e mi sembrava giusto […] e, ehm lei mi ha fatto cambiare fila, dovevo stare con i maschietti. È stato allora che ho scoperto di avere qualcosa di…diverso. 

  • Episodio 2, ‘Cambiamenti’

Maura: Ho fatto, come posso dire…tutta la trafila ebraica. A partire dal gioco delle sedie, che poi arrivi a venticinque anni e poi, santo cielo, scegli l-la tipa che ti sta più vicino! Poi abbiamo fatto tre figli, due case diverse e ho avuto una valanga di animali e poi..è finita la commedia.

  • Episodio 5, ‘Rivelazioni atto secondo’

Maura: Prendi anche delle pastiglie?
Divina: No, non più. Prima prendevo queste: Premarin.
Maura: Oh, Premarin. Fa vedere.
Divina: Sì.
Maura: Ma… se le prendo?
Divina: Non ti succede niente! Sono estrogeni, non eroina, tesoro! [Maura ingoia una pastiglia] Allora?
Maura: Mi si sta già gonfiando il seno.

  • Episodio 5, ‘Rivelazioni atto secondo’ [Mort, vestito da donna, incontra un vecchio amico]

Maura: Gary.
Gary: Gesù Cristo! Morty?
Maura: È passato un po’ dalle partite di squash, vero?
Gary: Puoi giurarlo. Che sarebbe quello che hai addosso?
Maura: Oh, be’… Questo è… Qualcuno la chiama collana. Ehm, e questo è… Io credo che si chiami scialle. Un anello.
Gary: Anche lo smalto sulle unghie…

  • Episodio 5, ‘Rivelazioni atto secondo’

Josh: Ehi, stavo cercando di dire che papà è un cazzo di travestito!
Sarah: Quella non è la parola giusta! Ok? È un trans!
Shelly: Ah, quello. Certo che lo so. Pensate che sia una stupida?
Ali: Ommioddio.
Josh: Tu lo sai?! Lo sapevi?!
Shelly: Era il suo… vizietto. Il suo vizietto personale. Tutti ne hanno uno. Questo lo può confermare anche lei, vero Rabbina? Tutti ce l’hanno, vero?
Rabbina Raquel: Be’, suppongo che tutti ne abbiano un paio…
Shelly: Grazie.
Josh: No-no-no-no. No-no-no. Solo desso lui è in quel modo! E si mostra anche in pubblico!

  • Episodio 4, ‘Domande’.

Ali (sotto effetto di droghe-reagendo al coming out del padre): Adesso ti vedo tutto come se non ti avessi mai visto prima! [… ] Papà, oh santo cielo! E adesso come ti devo chiamare? 

  • Episodio 4, ‘Domande’.

Sarah: Rivelare il segreto di un trans è come un atto di violenza. Sarebbe come spogliare una persona in una mensa e costringerla a mangiare da sola.

  • Episodio 6 ‘Incontri e scontri’

Sarah: Questa sera il nonno verrà da noi.
Ella: Sììììì!
Sarah: Il nonno adesso si veste co-come una donna.
Zack: Ma resta sempre un maschio, vero?
Ella: Eeeh?!
Sarah: Per la verità no. Adesso lui è come… è proprio come una femmina. Prendi quest’orso. Come facciamo a sapere se è maschio o femmina?
Ella: È femmina perché ha la vagina!
Sarah: Non lo so, tu vedi la vagina?
Tammy: No.
Sarah: Non lo sappiamo.
Zack: Non ha la vagina, non ha niente. Ha solo il pelo.
Sarah: Allora come facciamo a saperlo?
Ella: Non lo so.
Zack: Non si vede se ha il pene, però. Non lo so neanch’io.
Ella: I maghi possono cambiare. Il nonno è un mago?
Sarah: Sì, già! Lui… Cioè… è una maga!
Tammy: Devi raddrizzare il tiro. Cioè… Sai…
Sarah: Ok, qui non centra la magia. In realtà lo può fare chiunque.
Tammy: Cioè, non è una cosa facile. È abbastanza difficile in effetti. Non è che uno può andare avanti e indietro come vuole.
Ella: Il nonno sarà pettinato bene quando viene?

Il pensiero autocritico nella depressione: cosa accade nella nostra testa

Depressione e pensiero autosvalutativo: l’autocritica può essere considerata a tutti gli effetti un tratto fondamentale in un paziente depresso. Emozioni negative condite da un forte senso di svalutazione e da pensieri del tipo “sono un fallito”, “non sono all’altezza”, “sono un perdente” possono aumentare il nostro senso di inadeguatezza e peggiorare la nostra autostima. Di conseguenza, un pensiero autocritico pervasivo può essere considerato un fattore di rischio per lo sviluppo e il mantenimento della depressione.

Pertanto, l’identificazione di anomalie neurali durante l’elaborazione autocritica e la ricerca di marcatori neurofisiologici di previsione potrebbero essere utili per individuare la psicoterapia più adatta nel trattamento di pazienti con depressione.

Un gruppo di ricercatori tedesco (Doerig et al., 2015) ha recentemente condotto uno studio che ha permesso di identificare le strutture cerebrali maggiormente implicate nella determinazione del pensiero autosvalutativo nel paziente depresso.
La ricerca poneva a confronto un gruppo di controllo con un gruppo composto da soggetti con depressione maggiore diagnosticata attraverso alcune misure psicometriche tra cui il Beck Depression Inventory (BDI).

Inoltre i soggetti erano sottoposti ad altri strumenti diagnostici per la valutazione delle loro capacità nella regolazione delle emozioni. Successivamente i pazienti e i soggetti sani, dovevano scegliere da una lista, tre aggettivi negativi che più identificavano il loro mood autocritico (“non attraente”, “sgradevole” ecc.) e altri tre aggettivi negativi comunque riguardanti il loro umore ma non specificatamente svalutativi e autocritici.

Entrambi i gruppi poi erano sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI) e al contempo i ricercatori proponevano, ai soggetti sperimentali, delle immagini contenenti degli aggettivi neutri e aggettivi negativi generici e specificatamente autocritici, che gli stessi soggetti avevano scelto in precedenza. I risultati mostrarono una maggiore attivazione nell’amigdala nei pazienti depressi rispetto ai soggetti di controllo.

Inoltre, la ricerca presentava un altro dato interessante. I pazienti depressi avevano effettuato precedentemente una psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) e a tal proposito erano stati divisi in due sottogruppi: quelli “response” che avevano imparato a regolare le emozione relative al pensiero autocritico e i “non-response” che invece ancora non sapevano gestire questo aspetto emotivo. La condizione sperimentale mostrava un’iper-attivazione dell’amigdala nei pazienti “non-response” rispetto ai pazienti che invece avevano tratto beneficio dalla CBT. I risultati hanno ancora più valore in quanto i pazienti dei due gruppi non differivano in termini di genere, età, stato civile, livello di istruzione, singolo o ricorrente episodio, cronicità.

Questi dati suggeriscono che l’amigdala, la parte del cervello deputata alla gestione emotiva, può essere considerata un marcatore centrale nella determinazione degli stati depressivi. Non è ancora chiaro come l’iperattività di questa struttura centrale sia di impedimento nell’apprendimento delle abilità di regolazione emotiva. Il gruppo della Doerig, ipotizza che i pazienti depressi “non-response” abbiano avuto un vissuto di emozioni negative altamente spiacevoli e che tendano, attraverso l’evitamento, ad allontanarsi da tali emozioni ostacolando così il cambiamento e la conseguente regolazione emotiva.

Il ruolo paterno nella psicologia: l’eccezione è la regola e la regola è l’eccezione

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  07/11/2015

Un’intera psicologia fondata sulle figure del padre e della madre è andata in soffitta. Figure un tempo ritenute obbedienti a ruoli che si riteneva affondati nella profondità della psiche, della biologia e della preistoria si sono rivelate mere funzioni facilmente sostituibili.

L’eccezione è la regola e la regola è l’eccezione, in psicologia. O almeno nella psicologia moderna. Difficile stabilire un canone, difficile tracciare una linea che dica cosa sia normale e cosa meno. Anzi, tracciare questa linea è ormai sospetto, e soprattutto insostenibile, mai retto da prove conclusive. Ad esempio, un’intera psicologia fondata sulle figure del padre e della madre è andata in soffitta. Figure un tempo ritenute metafisiche, obbedienti a ruoli che si riteneva affondati nella profondità della psiche, della biologia e della preistoria si sono rivelate mere funzioni facilmente sostituibili.

Per la vecchia psicologia tradizionale la madre e il padre svolgevano ruoli ben definiti ed entrambi indispensabili nel canovaccio della tragicommedia familiare. Il canovaccio era flessibile e l’esito non necessariamente positivo, ma le parti non prevedevano variazioni. Vi erano tre attori: padre, madre e bimbo. O bimba; le bambine meritano la gentilezza del politicamente corretto, sia detto senza ironia.

E naturalmente la prima figura che è stata abbattuta è stata quella del padre, il cappellaio matto che già da tempo era stato additato come il vilain del racconto, il cattivo della storia. Nel 1999 Silverstein e Auerbach pubblicarono un articolo diventato famoso sulla prestigiosa American Psychologist, articolo intitolato ‘Deconstructing the Essential Father’. Decostruire il padre indispensabile.

In questo quadro popolato di archetipi che somigliano pericolosamente a stereotipi, abbattere il padre vuol dire sostanzialmente abbattere la regola. L’articolo fu uno dei primi a sostenere, con dati probanti, che per essere buoni genitori la configurazione tradizionale padre/madre non fosse l’unica possibile e necessaria. Sono possibili altre combinazioni: solo la madre, solo il padre, due madri, due padri, o altro. Questo l’esito dell’articolo, ma l’apertura era tutta concentrata sui padri.

Il processo di svalutazione del ruolo del padre nel processo di crescita dei bambini era già iniziato dagli anni ’60, il decennio decisivo della secolarizzazione di massa in Occidente. Da quel decennio in poi già molti teorici della psicoanalisi e della psicologia scientifica avevano messo da parte la centralità del confronto padre-figlio e la terribilità del conflitto edipico. Lo avevano sostituito con uno scenario più morbido e adrammatico, più sentimentale e senza scosse: la cosiddetta relazione di attaccamento tra genitori e figli, in cui l’amore e l’accudimento (soprattutto materno; il padre inizia a svanire, inutile e goffo fuco) prendevano il posto del parricidio di Edipo.

Vero è che altri studi hanno cercato di recuperare la figura del padre, tirandolo fuori dallo sgabuzzino in cui era stato confinato, vecchio babbeo sopravvissuto del buon tempo andato, zio matto da non prendere troppo sul serio.

Pare che i bambini siano più sensibili all’esperienza di rifiuto del padre rispetto a quella della madre. I bambini e i giovani adulti tenderebbero a fare maggiore attenzione al genitore percepito più forte, dotato di maggiore potenza interpersonale o di prestigio e, solitamente, questo ruolo è relegato alla figura paterna, che da sempre svolge un ruolo fondamentale all’interno della famiglia. Una bella consolazione per il padre traballante e mendico dell’età contemporanea.

Però rimane in forze, e con molti buoni dati empirici a suo favore, il movimento contrario che ridimensiona il ruolo del padre. Non si pensa più che lo sviluppo di una psiche matura e stabile dipenda da uno scontro di personalità tra i figli che devono conquistare l’autonomia e un padre che deve imporre e trasmettere la Regola, la Legge morale prima di aprire i cancelli della libertà. E se non c’è regola, non c’è nemmeno eccezione. O meglio, l’eccezione è la regola, e la regola è l’eccezione.

Vediamo perché. La nuova visione della famiglia parte con una serie di ricerche sul campo (Silvestein e Auerbach, 1999) in cui sono stati intervistati e valutati padri di vario tipo: padri divorziati, padri risposati, padri mai sposati, e padri appartenenti ad almeno 10 sottogruppi culturali e/o etnici degli USA, tra i quali: haitiani cristiani, cosiddetti promise keeper (membri un’organizzazione conservatrice cristiana statunitense), gay, latinos, bianchi divorziati, ebrei ortodossi, e greci (nonni e non padri in quest’ultimo caso).

Il risultato è prevedibile: tutte queste combinazioni sarebbero irrilevanti. In fondo ciò che conta è che ci sia almeno una figura genitoriale, non importa di quale sesso o in quale configurazione affettiva. Non c’è un valore aggiunto legato ai ruoli distinti e combinati del padre e della madre. Di essenziale non c’è nulla: né il padre, né la madre. C’è solo l’individuo astratto che svolge la funzione asessuata del care-giver. Le ricerche su padri divorziati o mai sposati o risposati tutti altrettanti capaci di essere buoni genitori corroborano questa conclusione.

Certo, Silverstein e Auerbach condividono anche la preoccupazione che sarebbe preferibile che i padri moderni assumessero un atteggiamento più coinvolto e responsabile verso la loro prole. Come si sa, questo è un problema particolarmente sentito negli Stati Uniti, dove frequentemente i padri abbandonano emotivamente e materialmente la famiglia e la prole. Sulla base di questi dati il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, dichiarò nel 2008, in un discorso pronunciato durante la giornata del papà (Father’s Day) alla Apostolic Church of God di Chicago, che dalle statistiche appare che i bambini senza padre hanno una probabilità cinque volte maggiore di vivere in povertà e di commettere crimini, nove volte maggiore di non frequentare la scuola, venti volte maggiore di finire in prigione e in generale di avere problemi comportamentali, fuggire da casa e diventare genitori in età adolescente.

Discorso che colpisce particolarmente conoscendo la storia personale del presidente Obama, cresciuto senza padre. Forse c’è ancora bisogno di una regola che renda possibile l’eccezione?

Quando l’aiuto non è di aiuto: il sostegno emotivo nella coppia e il senso di incompetenza negli uomini

Le donne apprezzano il sostegno emotivo quando attraversano problemi coniugali, ma per gli uomini le cose sembrano andare diversamente; infatti sembra che il supporto emotivo possa far sentire gli uomini impotenti e meno competenti.

A sostenerlo è uno studio apparso sul Journal of Gerontology che ha analizzato 772 coppie sposate da una media di 39 anni.

A ogni partecipante è stato chiesto di valutare la qualità della relazione di coppia e quali fossero le reazioni del partner rispetto ai loro problemi. In particolare, è stato chiesto se pensavano di poter discutere di eventuali preoccupazioni con il coniuge quando ne sentivano il bisogno, se li apprezza, se capisce i loro sentimenti, se discutono con lui/lei, e se li fa sentire tesi o frustrati.

Dall’analisi dei risultati emerge che i mariti hanno riferito una più alta qualità coniugale, livelli più bassi di tensione coniugale e di aver ricevuto i livelli molto più elevati di sostegno emotivo rispetto alle mogli.
Tra le coppie in cui entrambi i coniugi hanno riferito tensione coniugale, le mogli hanno riportato maggiori sentimenti di tristezza e preoccupazione, anche se i sentimenti di preoccupazione erano ridotti quando ricevevano sostegno emotivo dai loro mariti.
I mariti invece hanno riportato meno tristezza e preoccupazione, ma hanno segnalato una maggiore frustrazione nel dare e ricevere sostegno emotivo.

[blockquote style=”1″]Gli uomini che danno sostegno emotivo alle mogli possono sentirsi molto frustrati se sentono che avrebbero preferito indirizzare le loro energie su un’altra attività[/blockquote] osserva la dott.ssa Carr, autore dello studio.

Si ipotizza che l’aumento dei sentimenti di frustrazione tra i mariti possa essere correlato all’età: negli uomini più anziani infatti il ricevere sostegno emotivo correlava con la presenza di sentimenti di impotenza e incompetenza più marcati.
Questi risultati potrebbero avere importanti implicazioni per le coppie sposate da tempo che, con l’avanzare dell’età, sono particolarmente vulnerabili alle difficoltà che possono influenzare il loro rapporto, come ad esempio problemi di salute. La frustrazione derivante da questi sentimenti infatti può in alcuni casi favorire l’aggressività verso la partner.

Complessivamente questi dati suggeriscono che il supporto è valido solo se viene recepito come utile e auspicabile, in alcuni casi infatti è necessario fare attenzione e verificare che l’accudimento non venga invece vissuto come una squalifica verso le capacità di autogestione dei problemi.

La validazione italiana del Frustration Discomfort Scale (FDS) – Dal VI Forum di Formazione in Psicoterapia, Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

LA VALIDAZIONE ITALIANA DEL FRUSTRATION DISCOMFORT SCALE (FDS)

Marina PAPARUSSO, Federica FELICETTI, Cristina FRATINI, Simona TRIPALDI

Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Cognitivo – Comportamentale e Centro di ricerca “Studi Cognitivi”, Milano
sede di San Benedetto del Tronto

 

La teoria contemporanea REBT (Rational Emotive Behaviour Therapy) ha posto notevole enfasi sui contenuti dell’intolleranza alla frustrazione nel determinare il disagio psichico. Inoltre, sebbene l’intolleranza alla frustrazione sia stata trattata come unidimensionale, la gamma di credenze ad essa relativa descritta in letteratura REBT suggerisce un costrutto multidimensionale (Dryden e Gordon, 1993).

Seguendo tale modello teorico, Harrington nel 2005 ha messo a punto la Frustration Discomfort Scale (FDS) e ha mostrato come l’intolleranza alla frustrazione è meglio descritta da quattro fattori: intolleranza emotiva, diritto, intolleranza al disagio e realizzazione.

L’obiettivo di questo studio è stato quello di procedere ad una prima validazione italiana del Frustration Discomfort Scale (FDS), somministrando la scala ad un campione della popolazione italiana, e quindi di analizzarne le proprietà psicometriche in merito ad affidabilità e validità.
A tale scopo l’FDS è stato messo a confronto con l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS, Zigmond e Snaith, 1983), questionario self-report largamente utilizzato per misurare stati d’ansia e di depressione.

 

Il Fenomeno Artistico: variabili psicologiche che lo contraddistinguono e ne consentono l’accadimento

Daniela Voza e Laura Zamboni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

La psicologia e le arti hanno questo in comune: che tanto la prima quanto le seconde coprono l’intero ambito della mente umana. 

Rudolf Arnheim

L’artista è il creatore di cose belle. Rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte […] Nessun artista è mai morboso. L’artista può esprimere qualsiasi cosa. Il pensiero e il linguaggio sono per l’artista strumenti di un’arte […] Ogni arte è a un tempo epidermide e simbolo. Coloro che vogliono andare sotto l’epidermide lo fanno a proprio rischio. Lo spettatore e non la vita viene rispecchiato dall’arte. La diversità di opinioni intorno a un un’opera d’arte indica che l’opera è nuova, organica e vitale.

Oscar Wilde

Quali processi cognitivi sono implicati nella creazione artistica? Quali fattori psicologici motivano una persona a contemplare opere d’arte? E quali abilità cognitive sono necessarie per comprendere un’opera d’arte?

Nella prefazione a ‘Il ritratto di Dorian Gray’ Oscar Wilde riassume quanto poi verrà definito oggetto di studio della psicologia dell’arte. Secondo Winner (1982), infatti, lo psicologo dell’arte è interessato ai processi psicologici che rendono possibile la creazione artistica e la risposta all’arte, ponendo particolare attenzione ad alcuni quesiti: che cosa motiva l’artista a creare? Quali processi cognitivi sono implicati nella creazione artistica? Quali fattori psicologici motivano una persona a contemplare opere d’arte? E quali abilità cognitive sono necessarie per comprendere un’opera d’arte?

Diversi sono stati gli approcci di ricerca: quello psicoanalitico che appare prigioniero delle maglie della costruzione dottrinale di riferimento e spesso limitato al terreno circoscritto della psicopatologia; l’indirizzo sperimentale che, costretto dall’esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa, non sembra riuscire a rendere conto della reale e quotidiana esperienza dell’evento artistico e, il filone che fa capo ad Arnheim, il più proficuo e ricco di dati e di indicazioni, idealmente e concretamente precursore dell’indagine ad ampio raggio insita in questo approccio (Argenton, 1996). Negli ultimi decenni le neuroscienze cognitive hanno esteso il loro campo d’indagine anche al dominio della creazione artistica, dando origine ad un nuovo filone di studi: la neuroestetica.

Per poter esaminare le diverse risposte fornite, occorre preliminarmente definire l’oggetto di interesse e cioè il fenomeno artistico, a tal proposito risulta esaustiva la descrizione fornita da Argenton (1996), secondo cui il fenomeno artistico si impernia su tre componenti in relazione tra loro: l’opera, creata ed eseguita da un artefice, l’artista, che viene recepita e compresa da qualcun’altro, il fruitore. Tutto ciò che accade come effetto dell’interazione di queste tre componenti, la relazione artista-opera, fruitore-opera, dà luogo al fenomeno artistico, cioè ad ‘un singolo e ben circoscritto evento o ad una serie più o meno articolata, ampia e complessa di eventi che sono suscettibili, oltre che di esperienza, di osservazione e di indagine’. Con l’espressione comportamento artistico si indica l’insieme dei processi cognitivi ed esecutivi che portano l’artista alla realizzazione dell’opera e con comportamento estetico l’insieme dei processi cognitivi ed esecutivi che portano il fruitore a sancire l’artisticità dell’opera e a goderne (Argenton, 1996).

La qualità della fruizione estetica è mediata cognitivamente ed è influenzata dalla particolare cultura, dall’ambiente in cui siamo stati educati, dai canoni estetici che informano tale tipo di cultura, dal grado di expertise e familiarità che abbiamo nei confronti dell’opera verso cui ci poniamo (Gallese, 2010).

Se dell’artista e del fruitore si esaminano i processi della mente (emotivi, intellettivi e motivazionali) attivi nella creazione e ricreazione dell’opera, gli atteggiamenti, lo stile e le preferenze; dell’opera, dispositivo organizzato dall’artista per suscitare una particolare esperienza, si sottolinea e si prende in esame il suo essere forma significante. Le proprietà che caratterizzano la forma sono collegate agli aspetti di funzionamento sia del nostro apparato sensoriale e motorio sia dei processi percettivi e rappresentativi che guidano l’attività con cui traduciamo la nostra cognizione della realtà in forme simboliche. La forma artistica racchiude un significato percettivo che si regge sull’interazione dei valori di equilibrio e di dinamicità ed è percepibile indipendentemente dalla conoscenza dell’altro significato, quello rappresentativo che corrisponde a ciò che l’artista ha voluto dire o che ha voluto esprimere con la sua opera (Argenton, 1996).

Secondo Amabile e Pillemer (2012), nel comportamento artistico, esiste una motivazione intrinseca alla creatività che varia a seconda del valore individuale percepito rispetto al compito stesso, all’interesse e piacere che si provano nell’attività svolta. La creatività non viene quindi percepita come un tratto di personalità, ma sarebbe il risultato di componenti personali e di particolari abilità cognitive e sociali. Dagli studi condotti da queste autrici emerge anche come la motivazione estrinseca, ad esempio una ricompensa, in alcuni casi risulterebbe dannosa alla motivazione intrinseca.

Sembra che stia parlando di questa motivazione intrinseca Pennac, quando nel suo testo teatrale scrive:

Se solo uno pensa alla necessaria solitudine… le lunghe pause del dubbio… E quei momenti di felicità così gratuiti… o la felicità dell’alba, i giorni in cui l’idea ti fa saltar giù dal letto… perché non è il gallo a svegliarti, né il camion della spazzatura… non è neppure la prospettiva del premio o l’ambizione di lasciare una traccia… E’ l’urgenza di quel piccolo tocco di scalpello a cui pensavi quando ti sei addormentato… quella pennellata di ocra rosso all’angolo destro della tua tela, lassù in cima… ecco cosa ti fa saltar giù dal letto! Il suono inebriante di una nota, che cambierà tutto… un nonnulla in punta di penna, forse una virgola, una semplice virgola… una sfumatura essenziale… il minuscolo dell’opera… una cosa da niente… solo la necessità… Dio mio, la bellezza di quelle mattine necessarie, nella casa addormentata...

Di questa costellazione di componenti, per Gibson (2008), c’è un aspetto che caratterizza l’artista, cioè una certa libertà dalla realtà. Una poesia o un dipinto infatti costituiscono una copia della realtà, ma non si tratta di una mera riproduzione, poiché l’artista vi inserisce qualcosa di genuinamente nuovo. In quest’ottica l’arte e l’artista non ci dicono direttamente qualcosa sulla realtà, ma ci fanno credere, ci intrattengono, informano ed eventualmente rinforzano le nostre conoscenze sull’argomento. L’artista possiede la capacità di immaginare il mondo e la vita reale in un modo che sarebbe altrimenti impossibile, secondo l’autore questa capacità deriverebbe da un insight cognitivo circa l’esperienza umana e la nostra consapevolezza di essere al mondo.

Rispetto alle capacità cognitive alcuni studi sostengono che questa abilità degli artisti, in particolare dei pittori, derivi da una vasta esperienza nell’interazione visiva con gli oggetti e con le immagini durante il disegno, in tal senso l’artista viene visto come un esperto nella cognizione visiva (Kozbelt, 2001). Gli artisti sarebbero cognitivamente differenti dai non artisti, specialmente per ciò che riguarda la memoria di figure ed oggetti, l’utilizzo di immagini mentali nella comprensione di frasi e nella generazione e trasformazione mentale di immagini di figure (Winner, 1992).

Secondo Argenton (1996) l’abilità dell’artista che la sua opera manifesta dipende dal grado di padronanza con cui egli manipola le sue rappresentazioni mentali elaborando la forma che soddisfi i suoi intenti rappresentativi, e i mezzi, le tecniche, che ne consentono la traduzione in rappresentazioni concrete. La soddisfazione viene all’artista quando riscontra nella propria opera una corrispondenza ai suoi intenti rappresentativi e i risultati della sua grande fatica vengono premiati dal riconoscimento del pubblico, appagando quello che in psicologia si chiama il bisogno di autoaffermazione o di autorealizzazione.

L’arte attiva inoltre nel fruitore una serie di processi, comportamenti e cognizioni che costituiscono il comportamento estetico e ciò che è ancora più caratteristico, cioè l’esperienza estetica. Questo comportamento non consiste nel semplice piacere, un’opera d’arte può essere apprezzata in maniera singolare ed unica, non solo per la sua bellezza o la sua virtuosità tecnica o per il messaggio che trasmette. Secondo Bronowski (1978) l’esperienza estetica deriverebbe dal processo di scoperta, mentre per Urmson (1962) l’apprezzamento è il risultato di specifici criteri di bellezza (proporzioni, armonia, equilibrio). Il comportamento estetico viene visto quindi come un processo che da un lato vede implicate le caratteristiche stesse dell’opera d’arte e, dall’altro lato, coinvolge direttamente il fruitore e le emozioni che l’opera suscita in lui.

Questi due aspetti sono integrati nel modello di elaborazione delle informazioni (Leder, Belke, Oeberst e Augustin, 2004): in una prima fase di analisi percettiva vengono elaborati gli stimoli di contrasto, intensità, luminosità, colori, raggruppamenti e buone forme. L’analisi percettiva avviene in maniera rapida e senza sforzo ed incide sulla preferenza estetica. Nella seconda fase quanto percepito viene integrato con la memoria implicita e valutato come familiare e prototipico. Il modello prevede due differenti output: l’emozione estetica e il giudizio estetico, un’opera d’arte viene considerata tanto più piacevole (giudizio estetico), quanto più positiva è stata l’esperienza emozionale elicitata (emozione estetica). I soggetti esperti tendono a formulare giudizi in base allo stile, mentre per i non esperti sono importanti i riferimenti al sé e la possibilità di associare ad un’opera d’arte eventi ed emozioni riferiti alla propria vita.

I due comportamenti (artistico ed estetico) possono manifestarsi sia contemporaneamente e nel medesimo contesto, spaziale, storico, sociale, economico, culturale, sia in tempi e contesti poco o molto lontani e diversi fra di loro. Il fenomeno artistico si verifica quando e solo quando, da parte di un individuo o di un gruppo di individui, vengono riconosciute e attribuite proprietà artistiche al prodotto realizzato da altri. Esso si presenta inoltre, con delle costanti strutturali e processuali (Argenton, 1996). Sono implicati e si intersecano tra loro processi cognitivi ed attivazione emozionale. L’artista mette in gioco la propria creatività, le specifiche abilità cognitive ed il suo insight nel leggere la realtà in modi differenti ed originali, il fruitore analizza le caratteristiche formali del lavoro che a loro volta richiamano ed attivano un processo di scoperta che ci informa sulla realtà e sulle nostre emozioni. L’artista con la propria opera manifesta di sé: di aver lasciato in modo più o meno inequivocabile, il segno della sua mano, cioè l’impronta che le deriva dall’essere stata fatta da lui e non da qualcun’altro e che esprime il suo stile personale, la sua personalità artistica.

Per spiegare questa relazione importanti contributi derivano da recenti studi di neuroestetica, sulle basi neurali della capacità di apprezzare il bello e l’arte (Zeki, 1999). Solso (2003) distingue tre livelli di comprensione dell’arte descrivendo il modello SPS:

  • Sensory: percezione innata, processi di elaborazione visiva bottom up che sono comuni a tutti gli individui. Il modo in cui vengono elaborati gli stimoli visivi come forma, colore, direzione e movimento dall’occhio e dal cervello sono strettamente connessi alla fisiologia e all’anatomia del sistema visivo centrale e periferico. Il primo livello comprende la percezione sensoriale dell’opera e l’elaborazione corticale di queste caratteristiche.
  • Psychology: percezione diretta, modello top down in cui la mente umana tende ad organizzare un percetto (Arnheim,1954). Secondo Changeux (1994) l’artista sfrutterebbe la capacità umana di creare immagini che abbiano la possibilità di rimanere stabili nella mente di chi osserva.
  • Schema – story: percezione come ricerca di significato che attinge alle conoscenze ed alla storia personale dell’individuo. A questo livello l’opera viene collocata nel suo periodo storico, corrente artistica, biografia dell’autore, significato che l’autore ha voluto esprimere e che l’opera assume per l’osservatore in base alla sua storia ed ai suoi schemi di interpretazione della realtà. Lo schema personale è una struttura di dati utile a rappresentare concetti generici immagazzinati in memoria, una generalizzazione (Argenton, 1996), costruita attraverso ripetute esperienze della realtà, che orienta la percezione top down di un’opera d’arte sia sulla base dei significati personali, sia in considerazione del periodo storico o della corrente artistica (Solso, 2003). In quest’ottica quando le caratteristiche fisiche e psicologiche convergono si comprende l’arte ad un livello difficile da descrivere a parole, che Kemp (1990) definiva come unico, incommensurabile ed indefinibile sentimento che è al tempo stesso soggettivo ed universale.

Secondo il neuroscienziato Zeki (1999), in ogni esperienza estetica, il cervello, così come l’artista, deve eliminare ogni informazione inessenziale dal mondo visivo per poter rappresentare il carattere reale di un oggetto. Secondo Ramachandran (Ramachandran e Hirstein 1999), l’abilità dell’artista consisterebbe nel saper evocare nel cervello del fruitore specifici processi biologico/percettivi, inducendo un meccanismo di ricostruzione dell’oggetto artistico che si accoppierebbe a una sensazione di piacere.

Secondo Gallese entrambi questi approcci confinano l’esperienza estetica a una pura questione di pertinenza del cervello visivo. La fruizione di un’opera d’arte implica invece per il neuroscienziato una nozione multimodale della visione, cui partecipano anche sensi come il tatto e che coinvolge la sfera emozionale, il tutto guidato dalla fondamentale natura pragmatica della relazione intenzionale. Ci sarebbero quattro livelli di processamento neurale dell’esperienza estetica (Gallese e Di Dio, 2012):

  • Apprezzamento estetico: valutazione soggettiva basata sulle risposte emotive e sull’eventuale identificazione introspettiva di tali risposte. In questo primo livello gli oggetti assumono valenza estetica per il soggetto, perché caricati di significati emotivi in base alle esperienze pregresse. Il circuito che si attiva è quello della memoria, da uno studio di Di Dio et al. (2007) condotto attraverso fMRI, emerge come stimoli piacevoli fossero associati all’attivazione dell’amigdala di destra, struttura coinvolta nella rilevazione della salienza dello stimolo. Secondo gli autori questi risultati suggeriscono che gli aspetti più soggettivi dell’esperienza estetica sono mediati dalle esperienze emozionali pregresse del fruitore.
  • Attitudine estetica: stato mentale che rende possibile la valutazione del contenuto estetico dell’opera osservata. In questo secondo livello non sono più sufficienti solo le esperienze pregresse, ma è necessaria anche una particolare disponibilità mentale per cui gli elementi che innescano l’esperienza estetica diventino accessibili. Questo stato spiega la variabilità di risposte di fronte alla stessa opera sia da parte di persone diverse, sia della stessa persona in situazioni differenti.
  • Esperienza estetica: gli autori lo definiscono come un livello di processamento fondamentalmente percettivo. La scoperta dei neuroni canonici, neuroni specchio e neuroni posti alla codifica spaziale, permette di spiegare nel fruitore un’esperienza incarnata delle azioni, emozioni e sensazioni contenute nell’oggetto osservato. La simulazione incarnata consiste in un meccanismo funzionale attraverso cui le azioni, emozioni e sensazioni che vediamo attivano le nostre rappresentazioni interne degli stati corporei associati a questi stimoli sociali, come se vivessimo la stessa azione, emozione o sensazione. A livello cerebrale, diversi studi di neuroestetica (Di Dio et al., 2007; Kawabata e Zeki, 2004; Jacobson et al., 2004), riscontrano un’attivazione di alcune aree parietali e premotorie, ciò supporta l’ipotesi che l’esperienza estetica sia caratterizzata da una codifica visuospaziale accompagnata da un effetto motorio.
  • Giudizio estetico: esplicita valutazione dell’opera, determinata da canoni estetici di ordine culturale e sociale; si tratta quindi di un processo altamente cognitivo che coinvolge sistemi decisionali ed autovalutativi.

Le neuroscienze, con la scoperta dei neuroni specchio nella scimmia e la successiva dimostrazione dell’esistenza di meccanismi di rispecchiamento nel cervello umano, hanno fornito il livello di descrizione sub/personale a questa dimensione relazionale della condizione umana, un meccanismo neurofisiologico capace di spiegare molti aspetti delle nostre capacità di relazionarci con gli altri. L’oggetto artistico, che non è mai oggetto in se stesso, ma polo di una relazione intersoggettiva, quindi sociale, emoziona in quanto evoca risonanza di natura sensori-motoria e affettiva in chi vi si mette in relazione. La risonanza interindividuale, descrivibile in termini funzionali come simulazione incarnata, costituisce una dimensione consustanziale del nostro essere umani (Gallese, 2005; 2006b; 2009a,b). Tale dimensione diviene cruciale anche per interpretare l’arte, la creatività e la dimensione estetica dell’esistenza umana. Essere umani significa divenire capaci di interrogarsi su chi siamo: sia l’arte sia la scienza sono espressione specifica della condizione umana, entrambe sono volte ad interrogare l’invisibile per renderlo visibile. Da sempre la creatività artistica ha espresso nella forma più elevata questa capacità (Morelli, 2010).

Nell’espressione artistica teatrale/performativa, il corpo attoriale diviene l’epifania pubblica della capacità di rappresentazione mimetica dell’agente. Il meccanismo di simulazione incarnata abbraccia numerosi aspetti della relazione intersoggettiva, quali azioni, intenzioni, comportamenti imitativi, emozioni, sensazioni e linguaggio che derivano il proprio senso condiviso dalla comune radice nel corpo in azione, il principale protagonista e artefice dell’espressione teatrale. Il corpo in azione è il perno attorno a cui si costruisce quella sintonizzazione che secondo tale modello caratterizza la reciprocità intrinseca a ogni pratica interindividuale, e quindi, anche le relazioni di reciprocità intrinseche alla performatività teatrale. La simulazione incarnata consente di guardare al teatro da una prospettiva naturale, e quindi universale. Nella danza lo scopo dell’azione è l’azione, un’azione che già al puro livello motorio di descrizione è però carica di significati per chi la esegue e per chi la osserva. Nella danza si aggiunge la dimensione sociale, che consiste nella programmatica interscambiabilità fra attore e fruitore, tra artista e pubblico (Gallese, 2010).

Anche quando l’opera d’arte non ha alcun contenuto direttamente e analogicamente mappabile in termini di azioni, emozioni o sensazioni, in quanto priva di un riconoscibile contenuto formale (pensiamo ad un’opera di Lucio Fontana o di Jackson Pollock), i gesti dell’artista nella produzione dell’opera d’arte inducono il coinvolgimento empatico dell’osservatore, attivando in modalità di simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto o segno artistico. I segni sul dipinto o sulla scultura sono le tracce visibili, le conseguenze degli atti motori attuati dall’artista nella creazione dell’opera. Ed è in virtù di questo motivo che essi sono in grado di attivare le relative rappresentazioni motorie nel cervello dell’osservatore (Freedberg e Gallese 2007; Gallese 2010).

Conclusioni

L’arte è uno dei più significativi prodotti e una delle più pregnanti manifestazioni della cognizione umana per cui è e dev’essere un imprescindibile oggetto di riflessione e di ricerca della psicologia (Argenton, 1996).

Oggi le neuroscienze, avendo la potenzialità di illuminare la natura estetica della condizione umana e la sua naturale propensione creatrice possono contribuire allo studio dell’espressività e dell’esperienza estetica indagando l’imprescindibile ruolo del corpo nell’espressione creativa e nella sua ricezione. La prospettiva neuroscientifica consente in tal senso un’ulteriore valorizzazione della dimensione distintiva e straordinaria dell’arte e dell’esperienza estetica (Gallese, 2010).

L’arte è eterna, ma non può essere immortale. E’ eterna in quanto
un suo gesto, come qualunque altro gesto compiuto, non può non continuare
a permanere nello spirito dell’uomo come razza perpetuata…
Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia.

Lucio Fontana, Primo Manifesto dello Spazialismo, 1947

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – In principio era il determinismo

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 1

L’analisi dei comportamenti devianti in adolescenza necessita di un punto di vista processuale, interattivo, dinamico che tenga conto delle caratteristiche psicologiche, relazionali, sociali peculiari e specifiche di questa fase di sviluppo.

Adolescenza e devianza, considerati singolarmente, sono due concetti molto complessi e sfaccettati; la complessità e l’eterogeneità aumentano notevolmente se poi vengono considerati nella loro relazione reciproca. L’analisi dei comportamenti devianti in adolescenza necessita infatti di un punto di vista processuale, interattivo, dinamico che tenga conto delle caratteristiche psicologiche, relazionali, sociali peculiari e specifiche di questa fase di sviluppo.

Questo assunto teorico e metodologico ormai assodato in letteratura, è tuttavia un’acquisizione piuttosto recente delle conoscenze in ambito psicologico, educativo, sociologico e giuridico; a lungo infatti sono state applicate ai soggetti in età evolutiva le stesse categorie conoscitive e di analisi utilizzate per gli adulti, in riferimento a logiche deterministiche e causalistiche per cui un dato comportamento ritenuto negativo era linearmente e meccanicamente prodotto da alcune cause sottostanti, di ordine biologico, fisico, genetico, oppure familiare, culturale, razziale. A ciò si è accompagnata una visione della rieducazione in senso positivistico, basata su concetti di personalità immatura o patologica, risocializzazione e modificazione della condotta mediante lo sradicamento dal contesto sociale e familiare ritenuto a priori deviante in prima battuta (De Leo, 1996; Rossi, 2004).

A lungo è mancata una visione capace di valutare in maniera sinergica e interattiva i fattori interni, di ordine cognitivo, affettivo, motivazionale, ed esterni, di natura istituzionale, culturale, sociale, relazionale. La letteratura psicologica, di scuola sia psicodinamica (Pietropolli Charmet, 2000; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) che psicosociale (Zani, 1995; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), è sostanzialmente concorde nel parlare non più di ‘adolescenza’ ma di ‘adolescenze’; nessuna fase del ciclo di vita infatti si mostra eterogenea, sfaccetta e diversificata come quella dell’adolescenza. Sono stati progressivamente abbandonati i modelli di analisi universalistici, che ritenevano l’adolescenza un fenomeno sostanzialmente identico per tutti e trasversale nel tempo e nelle culture umane, e i modelli patologici, che vedevano invece l’adolescenza come condizione di rottura, sofferenza, disagio.

È cresciuta nella psicologia contemporanea la consapevolezza che lo sviluppo non è un processo lineare, uguale per tutti, ma un percorso che si snoda lungo tutto l’arco di vita a partire dalle costanti interazioni tra individuo e contesti di appartenenza (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003). In questa visione sistemica e costruzionista, le traiettorie e i percorsi di sviluppo appaiono irregolari, mai prevedibili in modo deterministico. L’individuo e l’ambiente sono considerati elementi inseparabili, che si influenzano a vicenda, formando un sistema integrato e dinamico; si sottolinea il ruolo strutturante dell’azione individuale, in grado di selezionare e plasmare attivamente i contesti circostanti da cui però è costantemente influenzata e modellata, in un rapporto circolare e ricorsivo. L’adolescenza si mostra come fase evolutiva particolare, specifica, che richiede modelli teorici e di analisi in grado di tenere conto questi aspetti di complessità.

A questo proposito viene attualmente utilizzata in letteratura la nozione di ‘compito di sviluppo’ come linea guida per l’analisi e lo studio del benessere psicosociale in adolescenza (Zani, 1995; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), utile anche per meglio conoscere e interpretare anche alcuni comportamenti adolescenziali di natura problematica, come quelli violenti, devianti o criminali (Cattelino e Bonino, 1999; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

I compiti di sviluppo compaiono nei diversi momenti dell’arco di vita, sono caratteristici di alcune fasi evolutive e derivano dall’interazione tra maturazione fisiologica e nuove capacità cognitive e relazionali dell’individuo da un alto, e l’insieme delle influenze, delle richieste e delle norme sociali dall’altro. I compiti di sviluppo richiedono all’individuo l’adozione e l’applicazione di alcune strategie di diversa natura (cognitiva, affettiva, comportamentale, sociale) che gli consentano di superare efficacemente tali sfide; il fallimento nella risoluzione di questi compiti evolutivi preclude o compromette il futuro adattamento dell’individuo, mentre il successo favorisce il benessere psicosociale dell’individuo e pone le basi per l’acquisizione di nuovi apprendimenti e nuove risorse, utili per i compiti di sviluppo che si presenteranno nella fase evolutiva successiva.

L’adolescenza è portatrice di compiti di sviluppo fase specifici che spesso causano notevoli turbamenti, dubbi, sofferenze all’individuo che li deve affrontare, in quanto investono tutta la sfera socio-relazionale dell’adolescente, i suoi affetti, i suoi pensieri e la sua nicchia evolutiva nel complesso; i compiti di sviluppo richiedono all’adolescente un lavoro, spesso doloroso e difficile, di ricostruzione e ristrutturazione che investe tutte le aree significative della sua vita. Di conseguenza, gli adolescenti, per affrontare queste sfide evolutive, possono mettere in atto strategie talmente differenziate, che in base alle situazioni e ai contesti possono assumere valori e significati molto diversi tra loro; alcune possono avere un valore adattivo e protettivo per l’individuo, altre, al contrario, possono compromettere il suo benessere e fungere da fattori di rischio per il futuro adattamento. Queste acquisizioni teoriche si mostrano particolarmente adatte anche per analizzare e approfondire lo studio dei comportamenti devianti e delle condotte a rischio in adolescenza:

Si tratta di comportamenti che compaiono in quest’età e che possono, in modo diretto o indiretto, mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale, così come la salute fisica immediata o futura […]. Si tratta di comportamenti diversi, che hanno però la caratteristica comune di poter compromettere nell’immediato come a lungo termine, il benessere fisico, psicologico e sociale

Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003, p. 31-32.

Questi comportamenti sono stati a lungo definiti problematici dalle precedenti prospettive teoriche basate soprattutto sugli aspetti normativi e sulle regole della società; oppure sono stati descritti come francamente patologici, ma alla luce della nuova prospettiva di studio proposta, concependo il benessere come un costrutto complesso che coinvolge gli aspetti fisici, psicologici e sociali, è preferibile definirli come comportamenti a rischio. Si tratta, come visto sopra, di una categoria di comportamenti altamente eterogenea, di cui fanno parte comportamenti molto diversi tra loro come l’uso di tabacco, alcol o sostanze psicoattive, il furto, la menzogna, il disagio scolastico, il vandalismo, le prepotenze nel mondo reale oppure online; interpretare comportamenti così diversi tra loro sulla base di un semplicistico modello patologico impedirebbe di coglierne il significato profondo e centrale.

Infatti secondo Bonino, Cattelino e Ciairano (2003) le funzioni dei diversi comportamenti a rischio, trasversali ad essi, si riferiscono al compito evolutivo principale dell’adolescenza, ovvero lo sviluppo dell’identità; la messa in atto di comportamenti a rischio svolge le seguenti funzioni, strettamente intrecciate tra loro:

  • Assumere anticipatamente comportamenti che per l’adulto sono normali (ad esempio il fumo di sigaretta)
  • Affermare la propria autonomia come persona e come attore sociale (evidente soprattutto per la diminuzione del tempo passato in famiglia e l’aumento di quello passato con i coetanei)
  • Sperimentare le potenzialità e le possibilità delle nuove competenze acquisite (fisiche, cognitive, relazionali)
  • Mettere il sé alla prova in diversi contesti e ambiti
  • Esplorare nuove sensazioni ed emozioni, nonché limiti e reazioni sociali
  • Comunicare bisogni, sensazioni, stati mentali spesso ambivalenti e confusi
  • Condividere esperienze, azioni, emozioni (soprattutto con il gruppo dei pari)
  • Trovare un equilibrio tra i bisogni di individuazione e differenziazione (entrambi importanti per l’adolescente)

Una cornice di riferimento come questa, che tiene conto dei significati profondi sottostanti alcune condotte adolescenziali, fornisce nuovi strumenti di analisi e di indagine delle condotte trasgressive e devianti in adolescenza.

Secondo Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) la tendenza alla trasgressione in adolescenza è infatti legata a problematiche riguardanti la costruzione di un’identità autonoma e all’assunzione di un ruolo sociale; se si riconosce valore alla dimensione psicologica che è alla base delle condotte trasgressive e devianti, le si può dunque intendere soprattutto come una difficoltà evolutiva nella costruzione dell’identità sociale dell’adolescente (p. 279).

Tra trasgressività e devianza in adolescenza esiste un rapporto di continuità e discontinuità dovuto a diversi fattori, che variano in base ai comportamenti esaminati e soprattutto ai significati, impliciti o espliciti, attribuiti loro nell’ambito di una certa cultura; infatti, all’interno della cultura giovanile, vengono attribuiti significati e valori qualitativamente diversi a comportamenti che dalla cultura adulta sono esplicitamente condannati.

A partire dagli anni 80, emergono con fermezza critiche alle precedenti teorie riguardanti la devianza, ritenute tutte fuorvianti in quanto impregnate di logiche deterministiche e causalistiche e di facili equivalenze (ad esempio: presenza di un genitore criminale = criminalità nei figli; appartenenza a determinate aree urbane o gruppi etnici = criminalità). Infatti, il rapporto tra devianza, criminalità, comportamento antigiuridico da una parte e fattori psicologici, sociali, familiari, istituzionali dall’altro, risulta tutt’altro che semplice ed unidirezionale; la complessità inoltre non può che amplificarsi nel momento in cui a questa osservazione si aggiunge la presenza di soggetti minori, in quanto la fase evolutiva che stanno vivendo è già da sé caratterizzata da ineliminabili aspetti di specificità, complessità e variabilità. Non solo, ma l’adolescenza è quasi per definizione caratterizzata anche da aspetti di flessibilità e potenzialità, in quanto le strutture cognitive, affettive ed identitarie non ancora completamente definite e strutturate, offrono un terreno di lavoro estremamente fertile alle diverse figure professionali che si occupano di adolescenti in generale e di adolescenti devianti in particolare (Pietropolli Charmet, 2000; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Si apre così un percorso di riflessione epistemologica e teorica che nasce dall’insoddisfazione dalle teorie classiche sulla devianza, ritenute responsabili di produrre genericità e confusione, e che parte da una concezione di atto criminale inteso nella sua specificità processuale, specificità che lo distingue nettamente da altre forme di devianza sociale, come la tossicodipendenza, la malattia mentale, la disabilità, spesso semplicisticamente unificate sotto il criterio di deviazione dalla norma (De Leo e Patrizi, 1999). A questo fermento teorico, si aggiungono nuovi orientamenti epistemologici, proposti dalla psicologia sociale e dell’età evolutiva, che propongono una visione della realtà sociale composta di sistemi tendenti all’auto-organizzazione e in continua interdipendenza tra loro, una visione processuale del cambiamento che avviene secondo modelli di coevoluzione, una visione dello sviluppo umano non come una sequela di stadi ma di un continuo dispiegarsi di compiti di sviluppo in tutta l’arco di vita.

Secondo De Leo e Patrizi (1999), i primi segni di cambiamenti all’interno della cornice teorica ed epistemologica a proposito dello studio della devianza, possono essere rintracciati nella comparsa di alcune categorie concettuali che hanno sollecitato a ripensare il crimine da fatto ontologico, o comunque necessitato, a percorso individualmente, socialmente e normativamente costruito (p. 22). Gli autori si riferiscono ai concetti di processualità, causalità circolare, carriera deviante, attribuzione di significato, costitutivi della corrente di pensiero dell’interazionismo simbolico di Mead, della teoria di sistemi di Luhman e della teoria socialcognitiva di Bandura. Grazie a queste elaborazioni teoriche, si è fatta strada l’idea di azione violenta e criminale come risultato di processi dinamici di interazione sociale (De Leo, 1998, p. 80), restringendo il fuoco dell’attenzione sulle funzioni e sugli effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni (ibid., p.143).

La differenza fondamentale è quella che passa fra una concezione di insieme intesa come semplice sommatoria di elementi e una concezione insieme come organizzatore che cambia la natura degli elementi, come una combinazione che va studiata come tale, per come funziona come sistema

De Leo, 1998, p. 141

Appare evidente in questa citazione il cambio di paradigma e la grande influenza a questo proposito delle nuove proposte teoriche che si vanno affermando in diversi ambiti delle scienze umane; l’obiettivo è quello di restituire complessità e specificità a un oggetto di indagine che inutilmente si è cercato di ridurre a unità o a semplice sommatoria di fattori.

Il condizionamento classico – Introduzione alla Psicologia nr. 33

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 33)

 

 

Ivan Pavlov (1927) all’inizio dello scorso secolo osservò le abilità di alcuni cani di riuscire a creare una associazione transitoria tra uno stimolo somministrato dallo sperimentatore e una risposta comportamentale messa in atto dall’animale. In questo modo nasce il condizionamento classico o rispondente.

Nello specifico, accadeva che i cani riuscivano a unire uno stimolo condizionato, ovvero uno stimolo neutro individuato dallo sperimentatore (un suono), a una risposta generalmente presentata automaticamente (erogazione di cibo), detta stimolo incondizionato. Il cane dopo aver ascoltato il suono, stimolo condizionato, e visto il cibo, stimolo incondizionato, cominciava a salivare (Risposta Incondizionata). Succedeva che dopo ripetute esposizioni all’associazione stimolo-risposta, il cane iniziava a salivare non appena sentiva il suono e senza ricevere il cibo (Risposta Condizionata).

Pavlov, successivamente, osservò che se lo stimolo condizionato non era somministrato in maniera sistematica, e alla fine non era neppure più somministrato, allora la risposta condizionata perdeva di efficacia fino a scomparire del tutto. Questo fenomeno prende il nome di estinzione.

In ogni caso il ricordo dell’associazione tra lo stimolo e la risposta condizionata rimaneva nella memoria dell’animale. Infatti, ripresentando lo stimolo condizionato, la risposta condizionata ricompariva ancora una volta, ma in questo caso bastavano minori interazioni stimolo-riposta.

Inoltre, è possibile generalizzare questo fenomeno del condizionamento classico. Pavlov stesso vide che presentando stimoli condizionati diversi, tipo suoni diversi tra loro, il cane salivava ugualmente.

In ambito psicopatologico il condizionamento classico è utilizzabile per capire come si forma una fobia specifica. Se si ha paura dei ragni, alla lunga il solo pensiero di questi insetti diventa spaventoso. Non solo, lo stesso principio del condizionamento classico è utilizzato in ambito comportamentale come esercizio per riuscire a superare le fobie. Tale tecnica prende il nome di desensibilizzazione. In questo caso il terapeuta invita il paziente a esporsi in maniera graduale con l’oggetto temuto nel tentativo di estinguere l’associazione precedentemente appresa tra lo stimolo condizionato (ad es: serpente) e la conseguente risposta disfunzionale o condizionata (es: tachicardia, sudorazioni,vertigini, etc.), definita appunto risposta condizionata. Lo scopo è dimostrare che la risposta emotiva non è così spaventosa come sembra, ma è possibile gestirla.

 

 

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L’esposizione in psicoterapia. L’interazione mente-corpo contro la paura di Emiliano Toso (2015) – Recensione

L’esposizione può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”.

Siete anche voi tra quelli che alla vista di un minuscolo ragnetto strillano in maniera isterica e fuggono a gambe levate? Con una singola sessione di psicoterapia espositiva potreste vincere la vostra paura ed arrivare ad accarezzare una simpatica tarantola di 12 cm di diametro (Hauner et Al., 2012). Vi vedo scettici… Non sottovalutate la potenza dell’esposizione!

L’esposizione può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”. Tecnica tradizionalmente associata alla terapia cognitivo-comportamentale, viene in realtà utilizzata in moltissime forme di psicoterapia, in particolare per il trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche dell’ipocondria, del disturbo dell’immagine corporea e dei disturbi dell’alimentazione.

E proprio a questa tecnica lo psicoterapeuta Emiliano Toso dedica il libro “L’esposizione in psicoterapia”, in gara nell’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica.

Toso scrive un testo sì divulgativo, ma corredato di una vasta bibliografia che offre numerosi spunti di riflessione per tutti gli addetti ai lavori, facendo il punto della situazione sullo stato dell’arte di una tecnica che, secondo l’autore, oggi viene un po’ trascurata e relegata a “vecchia carcassa in disuso”.
Attraverso una disamina dei più recenti contributi scientifici riscontrati in letteratura sul tema, l’autore illustra i differenti tipi di esposizione e la loro efficacia, e si interroga sui non ancora chiari meccanismi curativi sottostanti. Inizialmente – afferma Toso – l’esposizione era considerata un mezzo per estinguere risposte riflesse e condizionate; successivamente è stata considerata un metodo per ristrutturare credenze distorte, fino ad arrivare alle concettualizzazioni più recenti che vedono l’esposizione come uno strumento per creare nuove memorie antagoniste e inibitorie.

Indubbiamente i progressi nel campo delle neuroimaging hanno contribuito a comprendere maggiormente l’esposizione, mostrando come possa modificare strutturalmente e funzionalmente alcune aree cerebrali, ma i meccanismi d’azione di base restano ancora alquanto oscuri.

ESPOSIZIONE IN PSICOTERAPIA - EMILIANO TOSO - RECENSIONE - FEATUREDAssodato che l’esposizione funziona, appare lecito domandarsi se esistono modi per aumentarne l’efficacia. A tal proposito Toso descrive sia metodi “chimici” che “fisici” utilizzati in combinazione con l’esposizione e ne discute l’efficacia alla luce di quanto presente in letteratura. Per quanto riguarda l’esposizione combinata con il trattamento farmacologico (ansiolitici o antidepressivi) la maggior parte degli studi sembrano sostenere che la combinazione porti per lo più vantaggi modesti se non, addirittura, negativi. Molto interessanti invece gli studi condotti su sostanze “cognitive enhancers” (es. L-dopa e D-cicloserina) che sembrano essere in grado di potenziare l’effetto dell’esposizione agendo sui meccanismi di apprendimento e memorizzazione. Tra i metodi fisici risultano invece di particolare interesse la possibilità di utilizzare il sonno per manipolare il fenomeno dell’estinzione, il verbalizzare ed esplicitare le proprie emozioni durante l’esposizione per ridurre le emozioni negative, e l’uso della realtà virtuale e del biofeedback.

Toso non dimentica infine di dedicare un capitolo al ruolo giocato dalla consapevolezza sia durante l’esposizione che durante l’evitamento, recuperando i contributi della Terapia Metacognitiva di Wells (esposizione metacognitiva e rifocalizzazione attentiva) e della Mindfulness.

Il testo si conclude con un tentativo, che l’autore stesso definisce forse una scelta azzardata, di fornire una propria personale concettualizzazione dell’esposizione. La teoria presentata considera l’evitamento e l’esposizione fenomeni psicologici al servizio dello scopo di “ricerca del piacere”. L’uomo, secondo Toso, per natura sarebbe infatti guidato dalla ricerca di gratificazione e non dall’istinto di sopravvivenza. Pertanto di fronte a stimoli minacciosi metterebbe in atto comportamenti di evitamento non allo scopo di sopravvivere, bensì con il fine di provare piacere evitando la sofferenza dovuta allo stimolo temuto; rimanendo però in questo modo bloccato in circoli viziosi paradossalmente gratificanti (perché riducono la sofferenza), ma che ne limitano l’esplorazione e la funzionalità. In quest’ottica, l’esposizione ripristinerebbe il funzionamento adattivo dell’individuo dando vita a nuove fonti di piacere, raggiungibili mediante comportamenti espositivi in grado di sviluppare circoli virtuosi.
Una teoria ambiziosa, che non mancherà di stimolare nel lettore riflessioni in merito.

Ciò che è certo è che Toso ci regala un testo che rende più consapevoli noi terapeuti della potenza, delle potenzialità e dei limiti dell’esposizione in modo da utilizzarla in terapia con la massima cognizione di causa, e offre ai pazienti a cui proponiamo di affrontare gli stimoli temuti la possibilità di comprendere e apprezzare una tecnica non banale né scontata, ma tanto potente da poter far sì che addirittura un aracnofobico possa arrivare a coccolarsi una pelossissima tarantola.

Gli effetti negativi delle interruzioni del sonno

Secondo uno studio condotto da ricercatori della Johns Hopkins Medicine svegliarsi più volte durante la notte è dannoso, più di quanto non lo sia la stessa quantità ridotta di sonno ma senza interruzioni, in particolare ciò che ne risulta maggiormente danneggiato sono gli stati d’animo positivi.

I ricercatori hanno studiato 62 uomini e donne assegnati in modo casuale a tre condizioni sperimentali in cui dovevano dormire in una stanza di ricerca clinica ospedaliera per tre notti consecutive: risvegli forzati, un ritardo nell’orario in cui si va a letto o sonno ininterrotto.

Dopo la prima notte, i partecipanti sottoposti alle condizioni risvegli forzati (otto) e quelli con ritardo nel sonno, hanno mostrato configurazioni simili di bassi stati d’animo positivi e alti stati d’animo negativi, misurate con un questionario standard di valutazione dell’umore somministrato prima di andare a letto in cui veniva chiesto di valutare l’intensità di una varietà di emozioni positive e negative.

Le differenze significative però sono emerse dopo la seconda notte: il gruppo di risveglio forzato ha avuto una riduzione del 31% degli stati d’animo positivi, mentre il gruppo sonno ritardato ha avuto un calo del 12% rispetto al primo giorno. Non sono state invece trovate differenze significative nell’umore negativo tra i due gruppi in uno qualsiasi dei tre giorni.

Questi dati nell’insieme mettono in evidenzia come la frammentazione del sonno sia particolarmente dannosa per gli stati d’animo positivi. Quando il sonno è disturbato per tutta la notte, infatti, non si ha la possibilità di progredire attraverso le fasi del sonno per ottenere la quantità di sonno a onde lente che è fondamentale per garantire il senso di ristoro.

Secondo i ricercatori anche se lo studio è stato condotto su soggetti sani senza patologie del sonno, i risultati possono applicarsi anche a chi soffre di insonnia: i risvegli frequenti durante la notte infatti sono comuni tra i neo-genitori e gli operatori sanitari in guardia notturna, ma è anche uno dei sintomi più comuni tra chi soffre di insonnia; chi soffre di insonnia infatti non fa mai l’esperienza di un sonno ristoratore perchè dorme a singhiozzo.

L’umore depresso è un sintomo comune di insonnia; il team di ricerca per indagare questo legame ha utilizzato un test chiamato polisonnografia – che monitora alcune funzioni del cervello e del corpo mentre i soggetti dormono – per valutare le fasi del sonno.

Il gruppo risveglio forzato, rispetto al gruppo sonno ritardato, ha avuto periodi più brevi di sonno profondo a onde lente. La mancanza di sufficiente sonno ad onde lente ha mostrato un’associazione statisticamente significativa con la riduzione degli stati d’animo positivi. Inoltre il sonno interrotto ha colpito diversi aspetti degli stati d’animo positivi, riducendo non solo i livelli di energia, ma anche i sentimenti di simpatia e cordialità.

Lo studio suggerisce anche che gli effetti del sonno interrotto sull’umore positivo siano cumulativi, infatti le differenze tra i gruppi sono emerse dopo la seconda notte e hanno continuato il giorno dopo la terza notte di studio; possiamo immaginare quali siano gli effetti dei disturbi del sonno cronici correlati alla mancanza di periodi di adeguato sonno ad onde lente.

Concorso RACCONTA LA TUA TESI: i video dei vincitori

I vincitori del concorso Racconta la tua tesi

in collaborazione con la Sigmund Freud University Milano

 

Racconta in un video di 90 secondi i contenuti chiave della la tua tesi di Laurea Triennale e vinci una borsa di studio per la Laurea Magistrale in Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University.

La giuria, composta dal Consiglio del Corso di Laurea Magistrale di Psicologia ha selezionato i migliori 3 video inviati, vincitori del concorso 2015:

 

  1. BOIANO ERICA Laureata presso l’Università degli Studi Milano Bicocca il 15/10/2015

Tesi: Genere e coraggio, uno studio psicosociale.

 

  1. ALBANESE FEDERICA Laureata presso l’Università degli Studi Milano Bicocca il 12/10/2015

Tesi: Da Fonagy a Sass: mentalizzazione, sviluppo e psicopatologia

 

  1. RIBOLI GRETA Laureata presso l’Università Telematica eCampus il 22/07/2015

Tesi: Istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione. La Psichiatria da mezzo di coercizione a strumento terapeutico per la libertà.

Visita il sito della Sigmund Freud University Milano:

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