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Il bambino affetto da tumore: come intendere l’adattamento psicologico?

Andrea Costa, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Molti dei disturbi psicologici causati dallo stress dell’ “evento cancro” riscontrabili in campo psico-oncologico pediatrico sono psicopatologicamente inquadrabili nella categoria diagnostica del Disturbo di Adattamento, in quanto ne soddisfano i criteri come riportati nel DSM-IV-TR, con tutta la variegata costellazione di sintomi e le diverse varianti con cui può insorgere.

La sopravvivenza dei bambini colpiti da tumore è salita oltre il 75% a livello globale, negli ultimi decenni, tuttavia il percorso che un bambino si trova ad affrontare dal momento della diagnosi e a volte anche da prima non è meno irto di difficoltà, anche psicologiche.

La maggioranza dei professionisti della salute di ogni estrazione considera la malattia neoplastica, con particolare riferimento all’insorgenza in età evolutiva, una condizione che più di ogni altra malattia richiede un continuo processo di elaborazione attuato allo scopo di affrontare i correlati reversibili o irreversibili della malattia, sia fisici che psicologici. L’adattamento è concepibile quindi come un processo costituito da un insieme di reazioni emotive, comportamentali e cognitive determinate dall’esperienza passata ma anche dalle risorse disponibili in quel momento e dalla percezione di una minaccia futura.

Nel considerare l’impatto psicologico della nuova dimensione di “malato” e le reazioni del bambino, la maggioranza dei clinici che si occupa del campo raccomandano di ricordare che costruire modelli clinici della sofferenza psicologica che indichino un esito psicopatologico inevitabile in riferimento all’ “evento cancro” sia un errore sia scientifico che morale: molto spesso i bambini colpiti sono psicologicamente sani, non presentano situazioni pregresse di psicopatologie e sono inseriti in una famiglia che funziona; la sofferenza non ha un’origine intrapsichica, come nella maggioranza dei casi che un professionista psicologo può incontrare in attività di consulenza o terapia, ma è attribuibile ad un evento in qualche modo esterno e profondamente perturbante la normalità dello sviluppo del bambino.

La branca della psicologia che si occupa dei correlati psicologici relativi alla neoplasia infantile, la psico-oncologia pediatrica si differenzia sul piano clinico dalla gran parte del panorama degli interventi psicologici, acquisendo peculiarità solitamente circoscritte all’ambito della psicotraumatologia, in quanto molti aspetti psicologici della malattia tumorale sono considerati traumatici dagli operatori che si occupano della materia. La letteratura disponibile sull’argomento è molto diversificata e descrive i disturbi psicologici che possono insorgere non solo a seguito della comunicazione della diagnosi, ma anche a seguito di periodi prolungati di ospedalizzazione e ad un livello più generale, dopo che le caratteristiche di stabilità e prevedibilità dei regolari ritmi di vita del bambino vengono meno, a causa dello sconvolgimento generale che l’ “evento cancro” comporta.

Molti dei disturbi psicologici causati dallo stress dell’ “evento cancro” riscontrabili in campo psico-oncologico pediatrico sono psicopatologicamente inquadrabili nella categoria diagnostica del Disturbo di Adattamento, in quanto ne soddisfano i criteri come riportati nel DSM-IV-TR, con tutta la variegata costellazione di sintomi e le diverse varianti con cui può insorgere. Tuttavia si pone l’accento su come questa categoria possa essere considerata come una sorta di contenitore atto a definire ed etichettare qualunque forma di disagio psichico del paziente. I clinici raccomandano di sforzarsi di dare ai vissuti psicologici riferiti dal paziente il giusto spazio all’interno del processo di assessment e per esempio qualora la sintomatologia ansiosa o depressiva assuma caratteristiche di espressione più specifiche magari di un Disturbo dell’Umore, non cadere nella tentazione di riferirsi ad una sola categoria diagnostica che per quanto “familiare” per il clinico, non rappresenti adeguatamente la sofferenza del paziente. Infine, data la già citata affinità della psico-oncologia con la psicotraumatologia, non sorprende che in letteratura si trovino evidenze che una buona percentuale di disturbi psicopatologici che possono insorgere a seguito della patologia neoplastica infantile siano inquadrabili con le categorie diagnostiche del Disturbo Acuto da Stress o del P.T.S.D.

Per prendere in esame e valutare la gestione dello stress da parte dei piccoli pazienti e la qualità del loro adattamento, lo strumento di elezione dell’approccio cognitivo è senza dubbio il costrutto di coping.
Il coping, al di là dell’ampia varietà di apparati teorici sviluppatisi attorno a questo costrutto, è definito come un insieme di sforzi cognitivi e comportamentali messi in atto allo scopo di far fronte a richieste “interne” o “esterne” al soggetto e che necessitano di un surplus di risorse per poter essere affrontate. Si può notare come la definizione richiami concettualmente la gestione di molti aspetti dell’”evento cancro”. Un modello molto noto in psicologia clinica è il modello di Lazarus e Folkman, che include come assunti di base che il coping sia legato al contesto, che venga posto l’accento sul tentativo di gestione dello stress, non sul successo o fallimento del tentativo e che il coping possa variare nel tempo. Il nucleo principale del modello sono le fasi di valutazione primaria e secondaria; la valutazione primaria consiste nel giudicare in quale misura l’evento implichi minacce o perdite, la valutazione secondaria consiste nel processo di valutazione di una determinata risposta all’evento giudicato come dannoso e al dispendio di risorse che ne consegue, nonché alla loro organizzazione per fronteggiare il pericolo, qualunque sia. Segue allora un reappraisal, ovvero un’ ulteriore valutazione che giudica gli effetti delle risposte sulla base dei cambiamenti percepiti nelle condizioni del mondo interno ed esterno all’individuo.

Le ricerche disponibili in letteratura che esaminano le correlazioni tra coping e qualità dell’adattamento psicologico alla malattia neoplastica e a ciò che comporta, sono tendenzialmente d’accordo nell’affermare che alcune modalità possano incrementare in una qualche misura la capacità del bambino di gestire lo stress della diagnosi, delle cure e dell’ospedalizzazione, e come questo possa contribuire a una minore incidenza dell’insorgenza di tratti psicopatologici nei casi in cui il coping sia considerato come più funzionale. Ad esempio, è stato rilevato che strategie proattive come il problem solving, la richiesta attiva di informazioni e supporto dal personale medico durante le manifestazioni più acute degli effetti collaterali dei cicli di chemioterapia, come nausea e vomito porterebbero a benefici maggiori rispetto a strategie di coping meno efficaci, come l’”evitamento”.

Nel corso della pratica clinica degli operatori coinvolti nella salute mentale dei pazienti pediatrici, durante gli anni si è sentita la necessità di integrare i modelli già affermati e formulare un modello teorico di coping che fosse più specifico per la descrizione della gestione della malattia neoplastica infantile, e che cercasse di integrare anche quei fattori che influenzano anche indirettamente le risposte e le risorse del bambino, in un’ottica allargata e più comprensiva non solo degli aspetti cognitivi ed emotivi del paziente, ma anche dei fattori oggettivi che riguardano i parametri della malattia, come il tipo di neoplasia e quindi la gravità e i trattamenti a cui è sottoposto il paziente; dei fattori personali che includono oltre alle abilità cognitive anche la maturazione fisica raggiunta nonché il genere sessuale e il temperamento; dei fattori sociali, ossia il supporto sia ricevuto che negato dall’ambiente, soprattutto dalla famiglia di origine, ma anche dal gruppo dei pari e dalla comunità di appartenenza del bambino.

Un modello costruito appositamente per rappresentare la situazione psico-oncologica pediatrica e che considera la malattia neoplastica come evento stressante è il modello di Grootenhuis, che riprende le caratteristiche già esposte del modello di Lazarus e Folkman, ma che pone l’accento anche su quei parametri oggettivi e fattori personali e sociali che non avevano lo stesso spazio all’interno della ricerca psico-oncologica fino a qualche decennio fa e che intervengono, secondo il modello, nella fase della valutazione secondaria. Un esempio dell’importanza della comprensione dell’ambiente familiare è dato da alcune ricerche che hanno evidenziato il ruolo centrale delle madri, considerate come figure “elettive” dalle quali ricevere supporto emotivo durante le fasi di crisi dei bambini, mentre i padri assolvono più spesso a funzioni di interfaccia tra il mondo familiare e il mondo sociale “esterno”.

Una visione “ingenua” potrebbe portare psicologi e personale medico a implementare una maggiore partecipazione della figura del padre durante i momenti di crisi, dove si supporrebbe una sua “mancanza”; invece una visione più accorta, alla luce di questi studi, può dirigere la progettazione di interventi psicologici volti a eliminare eventuali conflitti del bambino con la madre e a consolidare la posizione del padre come prima figura della famiglia in relazione con l’esterno, laddove quella famiglia abbia al suo interno questi ruoli definiti che si incastrano in modo soddisfacente.

Se nel periodo precedente alle ricerche che hanno preso in considerazione questi aspetti, al centro dell’attenzione della ricerca clinica si trovavano le varie modalità di coping studiate in relazione ad un adattamento più o meno efficace, ora lo sguardo dei clinici si è spostato fino a includere questi fattori non direttamente coinvolti in aspetti cognitivi ma che sicuramente circondano il piccolo paziente. L’evidenza empirica indica che essi non possono essere tralasciati dagli operatori coinvolti, che devono avere una idea il più esaustiva possibile della realtà che circonda il bambino malato e il modo in cui egli costruisce il suo adattamento alla patologia neoplastica, in modo da favorire la costruzione di nuove vie e modalità per affrontare la loro situazione e per renderla il meno drammatica possibile, non solo insegnando abilità e promuovendo una strategia di gestione dello stress piuttosto di un’altra, ma abbracciando un’ottica nuova e verso una prospettiva biopsicosociale.

Analisi del contenuto delle autocaratterizzazioni degli allievi in formazione in Psicoterapia

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

ANALISI DEL CONTENUTO DELLE AUTOCARATTERIZZAZIONI
DEGLI ALLIEVI IN FORMAZIONE

Lambertucci L., Aprile C., Del Ponte H., Di Bari S., Formiconi C., Galassi F.R.,
Gambardella M., Ialenti V., Paparusso M., Torrieri M., Caselli G., Scarinci A.

 

Abstract

Introduzione

Il presente studio confronta le autocaratterizzazioni di 20 allievi di una scuola di specializzazione in psicoterapia, all’inizio e al termine del percorso, con quelle di un gruppo di controllo che nel medesimo arco temporale non svolge alcuna formazione. L’autocaratterizzazione permette una comprensione della prospettiva con la quale si costruisce la propria realtà con modalità di cambiamento in continuo divenire.

Obiettivo

Lo scopo è individuare dimensioni o aree problematiche e verificare se la formazione ha comportato negli allievi un processo evolutivo di assimilazione e accomodamento. L’ipotesi è che nel gruppo dei trainee i cambiamenti saranno più significativi che nel gruppo di controllo e indipendenti dagli eventi di vita.

Metodo

Ai documenti è stata applicata l’analisi del contenuto definita da Berelson come capace di descrivere in modo obiettivo, sistematico e quantitativo il contenuto manifesto della comunicazione. Il protocollo adottato contiene le procedure seguite, il manuale dei codici interpretativi e la griglia di codifica. Ogni autocaratterizzazione è stata analizzata da un gruppo di analisti con meccanismi di controllo delle decodifiche soggettive. La somministrazione del Questionario sugli Avvenimenti della Vita (QAV) permette di verificare se ai soggetti siano accaduti, in questo arco temporale, eventi che possono aver inciso sull’assetto cognitivo.

Risultati

Saranno presentati i risultati della ricerca che attestano variazioni significative tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo.

 

 

L’importanza di dire grazie per superare le difficoltà e salvaguardare i legami affettivi

Nell’era della crisi economica e delle difficoltà finanziarie i legami affettivi sono sottoposti ad un carico di stress elevato. A fare la differenza tra le coppie che superano le difficoltà e quelle che ne sono significativamente indebolite potrebbero esserci alcune piccole cose, per esempio il saper dire grazie.

Così afferma un recente studio condotto presso la University of Georgia da Barton, Futris e Nielsen che, con l’intento di comprendere il legame tra situazioni stressanti di natura economica e deterioramento del rapporto coniugale, si sono focalizzati su alcuni fattori che modulano la relazione.

Il campione sperimentale, composto da 468 soggetti, tutti sposati e residenti negli Stati Uniti, è stato contattato telefonicamente e sottoposto ad una serie di questionari per indagare il benessere finanziario, i pattern della comunicazione di coppia, la frequenza delle espressioni di gratitudine tra partner e la qualità della relazione coniugale nei termini di soddisfazione, commitment e propensione al divorzio.

I dati ottenuti hanno rivelato che le situazioni finanziarie vissute come stressanti aumentano la frequenza di pattern comunicativi del tipo richiesta/rifiuto, nel corso dei quali uno dei coniugi avanza delle richieste o pretese e l’altro risponde con una chiusura, un ritiro. Sembra che l’incremento di questo tipo di dinamiche sia a sua volta connesso all’abbassamento del livello della relazione, in altre parole simili interazioni svolgono una funzione di mediazione tra i problemi economici da un lato e i livelli di soddisfazione, impegno e intenzione di divorziare dall’altro.

Si noti che, in parziale dissonanza rispetto alla letteratura precedente, lo studio non ha registrato differenze di genere significative, riscontrando effetti simili nelle coppie in cui ad avanzare richieste è la moglie e in quelle dove a farlo è il marito. Quando i conti non tornano a fine mese, è più probabile che il conflitto sia gestito in modo disfunzionale e che, indipendentemente dai ruoli, la stabilità del matrimonio sia messa in discussione.

Eppure, secondo i risultati della ricerca, esiste un’arma importante a disposizione delle coppie in difficoltà: i dati raccolti mostrerebbero, infatti, che l’espressione di gratitudine all’ interno della coppia protegge la stabilità della relazione. Sentirsi apprezzati e validati dal coniuge ed esprimere a propria volta gratitudine ha un effetto significativo nel ridurre la propensione a terminare la relazione e, soprattutto nelle donne, mantiene alti i livelli di commitment per la relazione anche in presenza di modalità disfunzionali di gestione del conflitto. Non sarebbero invece emersi risultati significativi a supporto di un legame tra l’espressione di gratitudine e la soddisfazione per il legame: saper ringraziare può mantenere saldo il matrimonio ma la felicità coniugale ha bisogno di altro ed è messa a rischio dalla comunicazione poco efficace e dalle difficoltà nel gestire le discussioni. Stabilità e soddisfazione coniugale appaiono connesse ma la loro correlazione è modesta: un dato interessante con evidenti implicazioni teoriche e pratiche per la terapia con coppie in difficoltà.

A tutte le coppie capita di essere in disaccordo ed entrare in conflitto e quando lo stress aumenta le discussioni si moltiplicano. Come mostra la ricerca di Barton e colleghi, a fare la differenza tra i matrimoni che entrano in crisi e quelli che resistono non è quanto frequenti siano i conflitti, ma come si gestiscano e, soprattutto, come ci si comporti nei confronti del partner nelle interazioni quotidiane.

La Family-Based Treatment per adolescenti con Anoressia Nervosa: Daniel Le Grange Ph.D a Roma

Walter Sapuppo – Report dal corso: Family-Based Treatment per adolescenti con Anoressia Nervosa.

Relatore: Prof. Daniel Le Grange Ph.D. – University of California

Family-Based Treatment per Anoressia negli adolescenti - Daniel Lagrange Roma - PANORAMICA

Il coinvolgimento dei familiari nel trattamento dei pazienti affetti da anoressia nervosa trova un discreto consenso tra i clinici di differenti orientamenti teorici. Lo spostamento del focus dalle ricerche dai fattori eziopatogenetici ai fattori di mantenimento delle sindromi alimentari ha permesso negli anni di realizzare programmi terapeutici incentrati sul coinvolgimento collaborativo e “non giudicante” dei familiari.

Nell’approccio multifattoriale, infatti, il coinvolgimento collaborativo della famiglia appare un elemento necessario al trattamento, efficace per riattivare i normali processi di sviluppo e di “svincolo” adolescenziale. Sviluppato negli anni ’90 all’interno del Maudsley Hospital di Londra, il Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family-Based Treatment – FBT) costituisce uno degli interventi psicoterapeutici di “prima scelta” nel trattamento dell’Anoressia Nervosa (AN) in età adolescenziale e preadolescenziale (APA, 2006; NICE, 2004; RANZCP, 2014; Quaderni del Ministero della Salute 17/22, 2013; Rapporto ISTISAN 13/6, 2012).

 

Gli obiettivi primari di tale intervento sono, in primo luogo, il restituire alla coppia genitoriale la funzione di cura e di guida “autorevole” per il superamento dei comportamenti alimentari disfunzionali, la comprensione del ruolo delle dinamiche intra-familiari nel mantenimento del disturbo e il favorire la ripresa di uno sviluppo adolescenziale “normale” (attraverso la comprensione e la discussione delle dinamiche che sottendono i processi di svincolo dalla famiglia d’origine e di costruzione dell’identità adulta) (Eisler et al., 2010; Le Grange e Lock, 2010). Il trattamento si dipana attraverso 5 assunti fondamentali che costituiscono anche i cardini concettuali degli interventi.

In primo luogo viene privilegiata una visione “agnostica” relativa all’eziopatogenesi della patologia (nella concettualizzazione di La Grange, infatti, bisognerebbe praticare un costante “forgetting what You think You know” a proposito di cosa generi la anoressia nervosa).

Il terapeuta, inoltre, dovrebbe mantenere una posizione attiva ma non autoritaria (lasciare molte decisioni alle figure parentali e cercare di non essere controllante nei confronti degli stessi e del paziente) e assumere nella relazione terapeutica un ruolo di “consulente” con l’intento – comune – di risolvere un problema in modo collaborativo.

Altro punto fermo è che le figure parentali devono essere responsabilizzate nel recupero del peso corporeo attraverso un parental empowerment teso a fornire le abilità necessarie a svolgere tale compito.

Il quarto cardine è la “externalization”, ovvero un processo attraverso il quale separare metaforicamente la “persona” dalla patologia (una delle metafore fornite è quella di un corpo estraneo che va estirpato senza mezze misure) e supportare la gestione autonoma della problematica senza patologizzare marcatamente altri aspetti (immaturità, ricerca di attenzioni ecc.) del paziente.

Il quinto e ultimo cardine è relativo alla necessità di porre il focus iniziale sui sintomi, sulla necessità di cambiamenti comportamentali, sulla raccolta anamnestica dello sviluppo della sintomatologia e un’attenzione “relativa” agli aspetti cognitivi correlati al disturbo alimentare.

 

Il Family-Based Treatment, dunque, costituisce un modello d’intervento che integra alcuni aspetti dell’approccio cognitivo-comportamentale con quelli dell’intervento sistemico-relazionale e del “clinical management” in una cornice teorica unitaria propria della “Developmental Psychopathology” e, coerentemente con tale impostazione, individua nel sostegno alle funzioni genitoriali una priorità clinica imprescindibile per rimettere “in carreggiata” lo sviluppo adolescenziale rimasto incagliato – in questo caso – in un disturbo alimentare (Cotugno e Sapuppo, 2014).

Al termine della prima giornata di corso, infine, è tangibile la soddisfazione per il livello scientifico dell’evento oltre che, invero, anche per la meravigliosa cornice del Complesso Monumentale del Santo Spirito in Sassia che, tra il maestoso tiburio ottagonale e l’altare del Palladio, funge da “facilitatore dell’apprendimento”.

Family-Based Treatment per Anoressia negli adolescenti - Daniel Lagrange Roma - PANORAMICA ESTERNO

Rimangono aperti alcuni interrogativi sui processi sottostanti il miglioramento clinico dei pazienti, sulle variabili – l’attenzione, ovviamente, è focalizzata sull’aumento ponderale – che si auspica vengano prese in considerazione in studi futuri (personologiche, cognitive, emotive e non solo rating scale sintomatologiche) e su come si possa migliorare l’efficacia del trattamento se si estremizza la posizione “agnostica” sulla patogenesi del disturbo non definendo esplicitamente la cornice di riferimento epistemologica.

Le argomentazioni, così come la vivacità del confronto e dei numerosi colleghi presenti, hanno gettato le premesse per un ottimo prosieguo.

La verità risiede tra le emozioni della menzogna: analisi Scientifica del Comportamento Ingannevole

Nicola Schirru

Otello accusò erroneamente sua moglie Desdemona di infedeltà, minacciandola di morte se non avesse confessato il suo tradimento. Desdemona chiese a Cassio, il suo presunto amante, di presentarsi per testimoniare la sua innocenza. Otello però disse di aver già ucciso Cassio per tale affronto! Desdemona, realizzando di non poter più provare la propria innocenza, scoppiò in uno sfogo emotivo piangendo disperata, pianto che Otello interpretò come prova indiscussa della colpevolezza di sua moglie, che quindi uccise!

Mentire è una costante negli esseri umani. Allo stesso tempo, essere sospettosi è un prerequisito necessario per smascherare un bugiardo.

Circa un anno fa si è tenuto in Italia un evento scientifico senza precedenti, organizzato dal Laboratorio di Analisi Comportamentale NeuroComScience. Il Prof. Aldert Vrij (Università di Portsmouth), massimo esperto mondiale in analisi della menzogna e psicologia della testimonianza, ha tenuto un convegno nella Capitale in cui ha presentato le più importanti ricerche presenti in letteratura sulla valutazione della credibilità. Il suo contributo a questa scienza vanta più di 300 tra articoli e manuali con oggetto la comunicazione verbale (parlata e scritta) e non verbale applicata alla lie detection. Consulente per le forze dell’ordine nella conduzione degli interrogatori di testimoni e sospettati, viene invitato in tutto il mondo a congressi e workshop quale massimo esperto in materia, ed è editore della rivista scientifica forense ‘Legal and Criminological Psychology‘.

Nei suoi studi (Vrij, 2008) viene approfondita l’analisi scientifica della comunicazione verbale e non verbale, dimostrando quali siano le relazioni con la valutazione della credibilità. Il principio basilare da cui nascono tutte queste ricerche è quello di allontanarsi dal pregiudizio secondo cui mentire sia sbagliato. L’inganno e la menzogna sono concetti sorprendentemente complicati da definire. Filosofi, sociologi, scienziati cognitivi e numerosi altri studiosi per secoli hanno cercato di chiarirne la natura. Alcuni lo definiscono un fenomeno psicopatologico, una deviazione dalla vera natura di quello che viene considerato un comportamento intelligente, altri semplicemente forma (comportamentale) indispensabile per la sopravvivenza dell’essere umano (Happel, 2005). In generale può essere considerato un atteggiamento machiavellico atto a manipolare le interazioni sociali, indistintamente usato da tutte le categorie, a prescindere dal genere, dall’età, dal mestiere: l’essere umano mente in quanto è nella sua natura farlo, che sia un professore, un killer, un prete, una casalinga, un aborigeno, un astronauta. Nella vita di ogni giorno infatti, la maggior parte delle bugie sono white lies, ovvero bugie a fin di bene, che talvolta possono portare più benefici che problemi, utilizzate quali lubrificante sociale.

Vengono sfatati diversi miti, primo tra cui quello che coloro che dovrebbero essere considerati esperti (es., poliziotti), hanno le stesse probabilità di scovare un bugiardo di una persona non esperta, ovvero il 50%, quindi come lanciare una monetina (Mann e colleghi, 2004). La sola categoria che raggiunge un livello superiore alla media è quella degli agenti segreti. E no, l’orientamento dello sguardo a destra piuttosto che a sinistra (come nel film ‘La regola del sospetto’ di Roger Donaldson) non ha correlazione alcuna con le dichiarazioni più o meno mendaci (Vrij & Lochun, 1997).

Oltremodo, in alcuni Paesi (es., Inghilterra, USA, Israele) vengono utilizzati diversi strumenti considerati utili ai fini del detecting deception (es., Behaviour Analysis Interview; Statement Validity Assessment, SVA; Criteria-Based Content Analysis, CBCA; Reality Monitoring; Voice Stress Analysis, VSA; Thermal Imaging; EEG-P300; Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI; Poligrafo, anche detto Macchina della Verità), ma quasi nessuno di questi potrà essere considerato un vero e proprio naso di pinocchio, anzi. Non esistono singoli segnali verbali e non verbali, singoli comportamenti, che indichino al 100% che una persona stia mentendo (Zuckerman e colleghi, 1981), di conseguenza per rilevare la menzogna non ci si può basare su un solo indizio ma è necessario averne diversi.

Così come diversi sono i modi di mentire di ogni essere umano, e diverso sarà ogni volta il suo grado di motivazione (DePaulo e colleghi, 2003). Anche mentire a se stessi viene considerato un modo per ingannare qualcuno, o in altre parole, proteggere la propria autostima. Questi e tanti altri aspetti sono sempre da considerare nelle fasi dell’analisi della menzogna, come per esempio la differenza di genere, gli uomini sono inclini alle menzogne self-oriented, concentrate verso se stessi, mentre le donne a quelle other-oriented, concentrate verso gli altri (DePaulo & Bell, 1996). Dovremmo tenere in considerazione l’età (es., già da neonati, Reddy, 2007), la personalità (es., Weiss & Feldman, 2006, sostengono che gli estroversi sono più bugiardi degli introversi), i trascorsi traumatici: i carcerati, così come coloro che da piccoli hanno subito abusi sessuali sono migliori lie detectors (smascheratori di bugie) di coloro che non hanno subito alcun abuso (Bugental e colleghi, 2001). Comprendere il comportamento umano significa considerare le pressioni ambientali che lo influenzano, pressioni situazionali, cultura, fede religiosa e stato d’animo momentaneo, evitando quindi di commettere il cosiddetto errore fondamentale di attribuzione, e orientando la nostra salienza percettiva non solo verso la persona ma anche verso la situazione circostante (Aronson e colleghi, 2010).

I tempi sono importanti. Le bugie spontanee sono precedute da lunghi periodi di latenza rispetto alle verità spontanee, mentre le bugie pianificate hanno periodi di latenza di gran lunga superiori a quelli delle verità pianificate (DePaulo e colleghi, 2003). Tuttavia, i bugiardi manifestano maggiori momenti di esitazione quando la bugia da raccontare incontra un alto sforzo cognitivo rispetto a quando la menzogna da dire risulta semplice nell’elaborazione (Vrij & Heaven, 1999). Le reazioni verbali e non verbali possono presentarsi in anticipo o in ritardo rispetto all’avvenimento causante la reazione della persona, così come l’esatta collocazione di un’espressione (facciale o gestuale) rispetto al flusso del discorso. Un pugno sbattuto sul tavolo accompagnato dall’espressione ‘Non ne posso più!’ sarà probabilmente falsa se l’espressione verbale e quella del viso avverranno successivamente a quella del gesto.

L’intelligenza è importante. Ci sono evidenze che suggeriscono che preparare con cura una bugia non è poi più di tanto utile negli individui poco furbi (Ekman & Frank, 1993).

Le espressioni sono importanti. Ekman e colleghi (1998), hanno scoperto che i sorrisi sinceri sono più espressi in chi dice la verità, mentre chi mente utilizza più sorrisi finti, che questi ultimi sono più asimmetrici (Rinn, 1984), e che chi dice la verità tende a mostrare più illustratori (Friesen e colleghi, 1979): semplici azioni manuali come versare un caffè saranno più complicate se allo stesso momento si sta costruendo una menzogna, di conseguenza si tenderà a parlare interrompendo manualmente l’eventuale movimento dedicato. Coloro che meglio esprimono le espressioni facciali di rabbia, gioia, tristezza, paura, sorpresa, e disgusto, appaiano più credibili di coloro che hanno inferiori capacità motorio espressive (Riggio & Friedman, 1983).

Le emozioni che prova una persona quando mente sono importanti. Quattro in particolare possono essere associate al comportamento ingannevole, ovvero la paura, l’eccitazione, il senso di colpa e la vergogna (DePaulo e colleghi, 2003). Chi mente può avere paura di essere scoperto, può eccitarsi all’idea di riuscire a fregare qualcuno, può sentirsi in colpa per aver cercato di ingannare il prossimo e addirittura arrivare a vergognarsi. Ma caduta almeno in parte la paura di essere smascherati, uno dei deterrenti della menzogna viene perduto definitivamente. Se un soggetto pensa di non ricavarne alcun vantaggio, o qualora si senta legittimato, mentendo non proverà nessun senso di colpa per la propria bugia. Anzi, talvolta una persona può provare il cosiddetto piacere della beffa, ovvero la soddisfazione di aver saputo giocare d’astuzia, parallela al godimento della sfida, la gioia di aver avuto la meglio su qualcuno, spesso riscontrabile attraverso il sorriso di disprezzo (Legiša, 2015).

La modalità in cui viene condotta un’intervista per valutare la credibilità è importante, anzi fondamentale. Determinate domande possono influenzare le risposte, con la tragica conseguenza che l’intervistatore si convince che il soggetto stia mentendo, a causa del nervosismo del soggetto e/o della risposta falsata dall’influenza della domanda (Vrij, 2006). Per non parlare di quanto sia facile cascare nell’inconscio pregiudizio di sospettare maggiormente di una persona se vestita con abiti scuri piuttosto che abiti chiari (Vrij & Akehurst, 1997), o quando è di brutto aspetto piuttosto che bell’aspetto, le persone più good looking vengono credute maggiormente (Bull, 2004).

Secondo Vrij tre sono le motivazioni principali per cui ci è difficile capire se uno mente: mancanza di motivazione nel voler capire se uno mente (es., nel rapporto di coppia); difficoltà tecniche associate allo smascheramento della menzogna; errori comuni che vengono commessi nell’identificare una presunta bugia, in primis l’Errore di Otello. Inoltre vanno tenute in considerazione alcune ulteriori cause che tendono a rendere complicato lo smascheramento delle bugie:

  • Spesso chi è bravo a mentire cercherà di farlo solo su un dettaglio fondamentale, tenendo nel resto della storia dettagli perfettamente attendibili;
  • Chi riesce a non provare emozioni quali paura o senso di colpa ha più probabilità di sembrare credibile;
  • Uso di euristiche da parte dell’interrogatore (es., sta mostrando nervosismo quindi è colpevole; è vestito con abiti neri e/o è brutto!);
  • Fiducia nell’utilizzo di strumenti senza validità scientifica che dimostri efficacia reale nella valutazione della credibilità (es., BAI, VSA, poligrafo).

Le parole sono importanti, anzi, secondo Vrij (2008) sono il metodo diagnostico più efficace per verificare un potenziale inganno e ci consiglia di procedere con un approccio cognitivo:

  • Imporre un sforzo cognitivo intenso, ovvero rendere l’intervista più impegnativa (es., contemporaneamente alle dichiarazioni fargli compilare un documento o fargli disegnare l’avvenimento: chi dice la verità include più dettagli spaziali, ha meno timore di commettere errori e di inserire testimoni (Vrij e colleghi, 2012);
  • Incoraggiare il soggetto a parlare di più;
  • Inserire domande che non si aspettano;
  • Fare la stessa domanda ma in maniera diversa;
  • Chiedere di raccontare in ordine cronologico degli eventi, per esempio quelli svolti nell’arco della giornata, e successivamente chiedergli di ripetere con la stessa precisione l’ordine cronologico contrario degli avvenimenti. Quando diciamo una bugia, basata su episodi astratti, è molto più complicato riportare esattamente un ordine cronologico inverso (Evans e colleghi, 2013; Vrij e colleghi, 2008);
  • Quando possibile, intervistare gruppi di persone mettendoli a confronto (Klein & Epley, 2015; Vernham e colleghi, 2014);
  • Quando possibile videoregistrare l’intervista codificando i segnali comunicativi (verbali e non verbali).

Vi siete mai chiesti quali emozioni provano Verità e Menzogna? E se potessero parlare tra loro, cosa si direbbero? Probabilmente si accuserebbero a vicenda di dire rispettivamente sempre l’una la verità e l’altra la menzogna, lamentandosi di non riuscire mai a capirne il motivo. Questa è la più grande difficoltà. Possiamo capire quando una persona mente, ma certe volte il perché è quello da comprendere e su cui concentrarsi.

Lavorare in sicurezza: una risorsa psicologica per l’analisi del bisogno formativo

Il fenomeno infortunistico è un problema prioritario per la salute dei lavoratori con ripercussioni notevoli sia a livello sociale che economico. Il problema è stato analizzato da più fronti e da diverse discipline, così come la psicologia, l’ergonomia, l’ingegneria e la medicina del lavoro.

Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 626/94 (legge sulla sicurezza) si è assistito ad una riconfigurazione delle modalità preventive, in termini di salute e sicurezza delle persone sul luogo di lavoro, cercando di abbandonare una politica riparatoria, orientandosi verso una modalità di intervento focalizzata su prevenzione ed informazione. Sotto questi auspici è stato introdotto il D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) che ha adeguato il corpus normativo all’evolversi della tecnica e del sistema di organizzazione del lavoro, oltre a consentire un maggior allineamento a quanto espresso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che da tempo considera la salute sul lavoro non solo come assenza di malattia fisica, ma anche come stato di benessere generale psico-fisico e ambientale, fortemente legato agli assetti e al clima organizzativo presente nei luoghi di lavoro.

Al di là degli aspetti normativi, sappiamo che i contributi nati all’interno della psicologia si sono dedicati soprattutto allo studio dei predittori psico-sociali dei comportamenti a rischio e/o degli infortuni sul lavoro. In letteratura, sono note diverse associazioni tra l’esperienza pregressa di infortunio e la compresenza di alcuni fenomeni psicologici, come l’aumento della percezione di pericolosità rispetto del rischio, la diminuzione della soddisfazione rispetto le misure di prevenzione adottate dall’organizzazione e l’aumento di stress lavorativo (Greening, 1997).

Ulteriori evidenze a tal proposito sono sopraggiunte approfondendo aspetti più legati alla cognizione, come l’hindsight bias (Kahneman, Slovic e Tversky, 1982), conosciuto anche come bias del senno di poi, che condiziona l’atteggiamento delle persone portandole a ragionare erroneamente che sarebbero state in grado di prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è ormai noto (e che il danno è stato fatto!). Considerando che l’obiettivo di quest’articolo è discutere l’assetto delle strategie preventive basate sulla formazione ed informazione, si rimanda il lettore alla riesamina di Serpe e Cavazza (2007) per un quadro maggiore sugli apporti psicologici che si verificano in rapporto ai fenomeni infortunistici.

La disquisizione di oggi vuole presentare una possibile alternativa, attuabile nell’erogazione della formazione in tema di sicurezza lavorativa, in particolare nella prima fase di questo processo, ovvero nell’analisi del fabbisogno formativo, processo in cui il formatore interviene con il fine di sviluppare capacità e competenza negli individui in riferimento al contesto operativo in cui operano, frapponendosi tra il soggetto committente e l’utente.

La definizione del fabbisogno formativo: problemi aperti

In linea con quanto realizzato sul piano legislativo, ad oggi in tema di sicurezza, sembra essere una prassi comune, quella di orientare la manovra preventiva verso la formazione ed informazione dei propri dipendenti, inerentemente ai rischi derivati dallo svolgimento delle proprie mansioni, con l’auspicio che l’aumento di consapevolezza condivisa, possa apportare miglioramenti significativi nelle condotte, assolvendo allo stesso tempo gli obblighi di legge vigenti. Questo ragionamento in realtà, non segue tale linearità, visto e considerato, che possiamo riconoscere almeno due situazioni comuni e trasversali a più realtà lavorative, che si frappongono a questa logica.

La prima si pone considerando che orientare un’azione formativa verso dei lavoratori, che possono non aver espressamente palesato la necessità di un intervento formativo, per una determinata tematica, come quella della sicurezza lavorativa (o in altri campi affini e strettamente connessi, come la gestione delle emozioni) diviene una questione che può generare abnormi difficoltà sia per li formatore, che si può veder diminuire l’efficacia a medio-lungo termine del suo intervento, sia rispetto l’appellante verso il quale quest’ultimo indirizza il suo servizio. Questa considerazione pone l’accento su come l’analisi dei fabbisogni costituisce necessariamente la prima fase del processo di formazione ed è preliminare alla progettazione stessa (Rosati, 2014), pertanto sottovalutare questa fase, può vanificare l’efficacia degli sforzi messi in atto.

Una seconda considerazione si erge osservando un esempio concreto e tangibile: si pensi ai classici corsi sulla movimentazione dei carichi pesanti, che addestrano il lavoratore a mantenere posture e movimenti conformi a salvaguardarsi da sforzi pericolosi. Questi corsi si espongono al rischio di essere percepiti dai lavoratori come belli ma inutilizzabili, soprattutto in quelle realtà operative dove manca sistematicamente il personale necessario per il trasporto di un carico (problema non infrequente) o nel caso di ambienti dove i ritmi uomo-macchina non sono controllabili, così come nelle catene di montaggio che spesso sono progettate senza una debita considerazione degli aspetti ergonomici.

Lo scenario appena descritto vuole essere una dimostrazione piuttosto rapida ed esemplificativa, poiché vi sono altri fattori in grado di impattare negativamente in una performance di sicurezza e in tal senso, un ruolo cruciale sembra essere l’assenza di una cultura aziendale improntata alla tutela di questi aspetti (Cox e Flin, 1998).

Allineandomi a quanto espresso nel MOAFF (Modello Operativo di Analisi dei Fabbisogni Formativi), ritengo sia cruciale avvertire che la problematica dell’analisi dei fabbisogni formativi ha assunto oggi un posto fondamentale. La sua pertinenza e qualità possono avere esiti decisivi (in positivo o in negativo) nella vita delle persone e delle loro organizzazioni di riferimento.

Viste e considerate queste criticità, rilevo come possa essere un opportuno riferimento, quello di indirizzarsi ad una proposta alternativa, che possa potenziare le primissime fasi dell’ analisi del fabbisogno formativo del personale, favorendo l’emergere di quella parte del fabbisogno definito latente, orientando in tal modo l’erogazione dell’intervento in maniera rapida e personalizzata rispetto alle esigenze dei beneficiari della formazione con plurimo beneficio (ovvero per i formatori, per i dipendenti e per l’azienda).

La matrice di svalutazione

Mi vorrei soffermare su un particolare modello derivato dell’Analisi Transazionale, teoria psicologica nata dal pensiero di Eric Berne che gode di una notevole applicabilità, per contesti educativi ed organizzativi di diverso tipo (Steward e Joines, 2005). Mi riferisco alla Matrice della svalutazione, uno strumento elaborato dal pensiero di Mellor e Schiff (1975) consistente in una matrice avente come colonne le sezioni ‘Stimoli’, ‘Problemi’, ‘Opzioni’ e nelle righe ‘Esistenza’, ‘Importanza’, ‘Possibilità di cambiamento’, ‘Capacità personali di cambiamento’, così illustrato nella Fig.1.

L’intera matrice adopera il concetto di Svalutazione per indicare che in un dato momento stiamo trascurando l’accadimento di qualcosa, identificabile dall’incrocio tra riga e colonna. Ci sono tre aree nelle quali una persona può svalutare: se stessa, gli altri e la situazione.

 

Lavorare in sicurezza: una risorsa psicologica per l’analisi del bisogno formativo_TABELLA

Fig.1: Rielaborazione personale della matrice di svalutazione

Modalità di lettura della Matrice di Svalutazione

Procedendo secondo l’ordine prestabilito dagli autori (investigando dapprima dall’Esistenza degli Stimoli, T1), si può scoprire in quale area avviene la Svalutazione. Solo una volta che la Svalutazione è correttamente identificata, si può procedere per rimuoverla. Prima di procedere ad alcuni esempi illustrativi, preciso le due basilari regole che ne regolano la lettura:

  • Lettura per diagonali: le diagonali guidano il senso di lettura, indicando che la presenza di una svalutazione comporterà sempre l’altra, quindi lungo gli assi T1, T2, T3, T4, T5 e T6. Ad esempio una svalutazione nella diagonale T2 corrisponde alla svalutazione dei Problemi e dell’Importanza degli stimoli;
  • Chi svaluta lungo una qualsiasi diagonale svaluterà anche in tutte le caselle al di sotto e alla sua destra;

La matrice oltretutto è impostata per suggerire una procedura d’intervento, ovvero un itinerario di analisi sistematica utile a monitorare il processo volto alla soluzione di un problema. Essa viene esaminata cominciando dalle caselle poste più in alto finché non si individua il punto dal quale ha inizio la svalutazione. Una volta trovato, quello rappresenta il punto su cui occorre soffermarsi, acquisendo dalla persona le informazioni ignorate, sostituendo la consapevolezza alla svalutazione.

Esempio

Immaginiamo di essere degli educatori impegnati in un intervento educativo in aula con diversi alunni. Verso fine lezione facciamo delle domande per accertarci se il contenuto sia stato appreso, ma riscontriamo con rammarico che quasi nessuno è in grado di ricostruire qualcosa. A questo punto potremmo pensare di avere a che fare con studenti con poco motivati e che questo possa aver inciso notevolmente sull’esito finale. Ipotizzando questo scenario, stiamo agendo una svalutazione nell’area degli ‘Altri’ sulla diagonale T5 o T6 della matrice. Se invece affrontassimo il problema da una diagonale più alta, ci accorgeremmo che il microfono non funzionava correttamente e che il problema è che quando abbiamo parlato non si è potuto sentire molto. Il problema è situato nella diagonale T2 e per la sua risoluzione è sufficiente cambiare microfono.

Come intervenire

Il percorso di lettura della matrice di svalutazione suggerito da Schiff, permette ogniqualvolta si ha a che fare con un problema non risolto, di individuare quale informazione è omessa per la sua risoluzione. Seguendo la modalità di lettura proposta, possiamo agire su più tematiche, generando nell’utente quella presa di coscienza necessaria per la messa appunto di future scelte, ottenendo in cambio una restituzione di quelle che sono le maggiori resistenze sulle quali operare attraverso diverse tecniche, come la sensibilizzazione.

La strategia migliore da mettere in atto, per applicare questo strumento all’attenta analisi del fabbisogno formativo nascosto, è quella di chiedere più informazioni ai fruitori dell’intervento riguardo il contenuto della proposta formativa, approfondendo le sue convinzioni personali rispetto la problematica (area della situazione) e rispetto ai suoi comportamenti (area se stessi), esaminando da quale diagonale la persona ci sta rispondendo con una svalutazione. Dato che non possiamo disporre in anteprima questa informazione, la buona prassi è quella di iniziare a verificare sempre dall’angolo in alto della matrice e verso il basso lungo le diagonali.

Meglio intervenire sempre dalla diagonale più alta, perché focalizzare la ricerca in una diagonale troppo bassa a pelle (così come riportato nell’esempio), potrebbe portare il soggetto a svalutare successivamente il nostro stesso intervento, poichè rischierebbe di non ancorarsi al suo sistema di credenze e di elaborazione delle informazioni, ricascando nel terreno poco fertile degli interventi belli ma impraticabili.

Un’ultima considerazione da tenere a mente è di ricordarsi che una persona non sempre attua una svalutazione, ma può rimanere bloccata in un particolare comportamento, semplicemente perché è male informata a riguardo e quindi poco consapevole del ventaglio delle le alternative possibili.

Conclusione

L’analisi dei fabbisogni formativi va considerata alla stregua di una ricerca sociale in senso stretto, in cui l’uso dei consueti strumenti di analisi a scatola chiusa come i questionari, rischia di essere fuorviante. In virtù del fatto che tali fabbisogni non sono sempre esplicitati, come ricordato nelle battute precedenti, rimane la necessità di portarli comunque a coscienza. La matrice di svalutazione è uno strumento semplice e potente che grazie uno schema di domande ad incrocio, ci guida alla comprensione dei processi e delle resistenze in atto che devono essere debitamente considerate se il nostro intento è dirigere il comportamento altrui verso altri scenari, seppure questa esplicitazione ha luogo all’interno di un più ampio e complesso quadro di negoziazione tra attori adulti.

Work Engagement, burnout e workaholism: quali differenze per i lavoratori?

Valentina Costanzo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Il termine engagement viene utilizzato per designare il benessere del lavoratore in contrapposizione alla situazione di malessere lavorativo definito come burnout (Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001). Il lavoratore prova uno stretto legame affettivo nei confronti delle sue attività lavorative e si sente capace di occuparsi delle richieste del suo lavoro.

Esistono due diversi approcci che considerano il work-engagement come positivo, legato al benessere e alla soddisfazione.
Il primo, proposto da Maslach and Leiter (1997), ritiene che l’engagement sia caratterizzato da energia, coinvolgimento ed efficacia, ossia da dimensioni esattamente opposte alle tre dimensioni del burnout, rispettivamente sfinimento, cinismo e inefficacia. Il secondo proposto da Schaufeli, Salanova, Gonzalez-Roma & Bakker sostiene che il work engagement sia una dimensione indipendente, un concetto distinto legato negativamente al burnout, e che sia caratterizzato da vigore, assorbimento e dedizione. Lo sfinimento e il vigore sono ai poli opposti del continuum dell’energia, mentre tra il cinismo e la dedizione c’è l’identificazione (Gonzalez-Roma, Schaufeli, Bakker, & Lloret, 2006).

Il work engagement, quindi, è caratterizzato da un alto livello di energia e da una forte identificazione nel proprio lavoro, mentre il burnout è esattamente l’opposto: poca energia e un basso livello di identificazione. L’assorbimento costituisce la terza dimensione dell’engagement.

Kahn (1990) utilizza un approccio diverso e descrive l’engagement come [blockquote style=”1″]un legame dei membri dell’organizzazione ai loro ruoli lavorativi: con l’engagement, le persone si impegnano fisicamente, cognitivamente, emotivamente e mentalmente durante le performance lavorative[/blockquote] (p. 694).

Di conseguenza, i lavoratori si sforzano di più a lavoro perché ci si identificano. Secondo Kahn esiste una relazione dinamica e dialettica tra coloro che investono le loro energie personali (fisiche, cognitive, emotive e mentali) nel proprio lavoro ed il ruolo lavorativo che consente alle persone di esprimersi. Kahn (1992) differenzia il concetto di engagement dalla presenza psicologica o dall’esperienza del “sentirsi pienamente lì”, ossia quando [blockquote style=”1″]le persone sentono di essere attente, collegate, integrate e focalizzate nel loro ruolo[/blockquote] (p.322).

L’engagement come comportamento (guidare l’energia verso il proprio ruolo lavorativo) è considerato una manifestazione di presenza psicologica, un particolare stato mentale. In questo modo l’engagement è ritenuto capace di produrre risultati positivi sia a livello individuale (crescita personale ed evoluzione) sia a livello dell’organizzazione (qualità della performance).
Ispirato dal lavoro di Kahn, Rothbard (2001) definisce l’engagement come [blockquote style=”1″]un costrutto a due dimensioni motivazionali che include attenzione (…la disponibilità cognitiva e la quantità di tempo che trascorre pensando al ruolo) e l’assorbimento (l’intensità della propria attenzione al ruolo”)[/blockquote] (p.656).

E’ importante notare che il riferimento fondamentale per Kahn (1990, 1992) è il ruolo lavorativo, mentre per coloro che considerano l’engagement come l’antitesi del burnout è l’attività lavorativa o il lavoro in sé.
Macey and Schneider (2008) hanno provato a risolvere la confusione concettuale proponendo con il termine work-engagement un insieme di diversi tipi di engagement (come caratteristica, come stato o come comportamento), ognuno dei quali comporta diverse concettualizzazioni; una personalità proattiva (engagement come caratteristica), il coinvolgimento (engagement come stato), comportamento di cittadinanza organizzativa (engagement comportamentale).

Nonostante ci siano molte definizioni utilizzate per definire l’engagement, tutti gli studiosi concordano sul fatto che indichi alti livelli di energia e una profonda identificazione col proprio lavoro.

Nell’ambito della ricerca, la definizione più utilizzata è quella di Schaufeli, Salanova, González-Romá & Bakker (2002) che definiscono l’engagement come uno stato psicologico positivo, appagante, di legame con il lavoro caratterizzato da:
– vigore, ovvero alti livelli di energia e di resilienza durante il lavoro, la disponibilità nell’investirvi tutte le proprie forze e la perseveranza dinanzi le difficoltà;
– dedizione, un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida;
– assorbimento, l’essere pienamente concentrati e assorti nel proprio lavoro, attraverso il quale il tempo scorre velocemente e si ha difficoltà nel distaccarsi dal lavoro. L’essere assorbiti è vicino a ciò che può essere definito “flusso” (Csikszentmihalyi, 1990), uno stato ottimale, sebbene duri poco a differenza di uno stato mentale più pervasivo e persistente, come il caso dell’assorbimento.

Alcune ricerche si sono focalizzate sulla relazione tra engagement e altri costrutti psicologici (ad esempio il workaholism o l’organizational commitment) e sui predittori più importanti dell’engagement.

Quali differenze ci sono tra l’engagement e il workaholism?

Gli studi hanno dimostrato che l’engagement è differente dallo stato di dipendenza tipico del workaholism, poiché i lavoratori non si sentono in colpa se non lavorano, hanno interessi al di fuori dell’attività lavorativa e lavorano duramente perché provano piacere nel farlo.

Il termine engagement non designa l’aver bisogno di lavorare per lunghe ore o sentire un bisogno incontrollato di lavorare: i lavoratori con un buon livello di engagement non trascurano la loro vita privata, anzi, trascorrono il loro tempo socializzando, coltivando hobbies e attività di volontariato.
Il work engagement, quindi, è un unico concetto che ha come predittori più importanti le risorse lavorative (autonomia, sorveglianza, coaching, performance-feedback) e personali (ottimismo, self-efficacy, autostima), mentre non è legato alle richieste lavorative (Schaufeli and Bakker, 2004).
La letteratura evidenzia che il lavoro influenza lo stato affettivo e il benessere delle persone, infatti coloro che hanno dei fattori stressanti a lavoro reagiscono a breve termine con sentimenti negativi (Gryzwacz, Almeida, Neupert & Ettner, 2004; Zohar, Tzischinski & Epstein, 2003) e a lungo termine con un danno sul benessere (De Lange, Taris, Kompier, Houtman & Bongers, 2003).

Il work engagement è legato positivamente con sentimenti positivi e negativamente con sentimenti negativi nel fine settimana. Persone che godono di un buon livello di engagement a lavoro dovrebbero quindi avere più esperienze positive, le quali, insieme agli eventi piacevoli, favoriscono sentimenti positivi (Gable, Reis & Elliot, 2000; Kanner, Coyne, Schaefer & Lazarus, 1981). Inoltre, lavoratori con alti livelli di engagement sono più attivi (Hakanen, Perhoniemi & Toppinen-Tammer, 2008; Salanova & Schaufeli, 2008) e ciò implica che si sforzano a migliorare il metodo di lavoro che riduce gli effetti negativi perché ci sono meno motivi per generarli. Il lavoratore che si sente “legato”, dunque, dovrebbe essere assorbito dal lavoro e meno distratto dagli eventi negativi (i conflitti ad esempio) che si possono verificare sul posto di lavoro. Di conseguenza, i lavoratori con alto livello di engagement non provano piacere nel concentrarsi sugli eventi negativi e quindi il loro livello di sentimenti negativi rimane basso, mentre provano piacere nel terminare i loro compiti e nel lavorare bene e questo incoraggia i sentimenti positivi e riduce i sentimenti negativi.

Gli studi hanno dimostrato che il work engagement è legato negativamente a sintomi fisici e ad altre manifestazioni di malessere.
C’è da specificare, però, che avere alti livelli di work-engagement non implica che il lavoro di per sé sia un’esperienza più piacevole e che gli scontri sono meno stressanti.

Rispetto alla relazione tra l’engagement e lo stress, c’è un’evidenza empirica sul fatto che le persone con alto engagement sono più colpite da fattori stressanti ed esperienze negative che possono verificarsi a lavoro (Britt et al., 2005), probabilmente perché questi lavoratori percepiscono ogni evento lavorativo come molto importante e perché l’assorbimento totale nel proprio lavoro implica anche l’essere assorbiti di più nelle situazioni stressanti. E’ per questo che per questo tipo di lavoratori è importante un distacco psicologico nei momenti in cui non lavorano. Quando il distacco non avviene, c’è un’alta probabilità che le situazioni stressanti sul posto di lavoro riversino le loro conseguenze negative anche durante le ore non lavorative e, di conseguenza, le sensazioni negative aumentano e quelle positive diminuiscono: in questi casi il lavoratore con alto engagement è a rischio di workaholism.

L’engagement a lavoro e le esperienze positive associate come il vigore o l’assorbimento non implicano che il lavoro sia agevole (Macey & Schneider, 2008). Il work-engagement potrebbe costituire una perdita di risorse affettive e cognitive. Per evitare che la perdita delle risorse continui durante le ore non lavorative e che ci si trovi in uno stato affettivo povero, distaccarsi durante le ore non lavorative è fondamentale. Dato che l’engagement causa alti livelli di attivazione positiva (il vigore ad esempio), questo livello di attivazione probabilmente è così alto anche quando si rientra a casa dopo il lavoro. Quando i lavoratori continuano a pensare agli affari legati al lavoro o continuano ancora con le attività lavorative (e quindi non hanno un distacco psicologico) la loro attivazione rimane alta. Questo può arrecare conseguenze sulla qualità del sonno, l’addormentarsi tardi e la difficoltà nel rilassarsi (Brosschot, Pieper, & Thayer, 2005; van Hooff, Geurts, Kompier & Taris, 2006). Per ridurre questo alto livello di attivazione nelle ore non lavorative è importante distaccarsi mentalmente dai pensieri e dalle attività legate al lavoro. Al contrario, per quei lavoratori che sono legati negativamente a causa delle esperienze spiacevoli a lavoro, il distacco psicologico nelle ore non lavorative non fa differenza: sono meno assorbiti nel lavoro e nelle attività lavorative perciò hanno bisogno di un minore distacco mentale.

Quali sono le caratteristiche dei lavoratori con workaholism?

I lavoratori con workaholism trascorrono gran parte del loro tempo in attività lavorative, lavorano eccessivamente, sono riluttanti nel non farlo e quando non lavorano ci pensano in maniera persistente e frequente.

Sono lavoratori ossessivi e compulsivi (Schaufeli, Taris & Bakker, 2006; Scott, Moore, & Miceli, 1997). Hanno “bisogno” di lavorare a scapito della loro felicità, delle loro relazioni interpersonali e del loro funzionamento sociale. Al contrario, i lavoratori con work-engagement sono felici di lavorare, non è una questione di bisogno, ma trascorrono le ore lavorative impegnandosi con vigore senza rinunciare alle altre attività nel tempo libero e, di conseguenza, non risultano essere lavoratori infelici.

Nel work-engagement sono fondamentali le risorse lavorative: il supporto dei colleghi e dei supervisori, i feedback, la varietà di abilità, l’autonomia e le opportunità (Bakker & Demerouti, 2008; Halbesleben; Schaufeli & Salanova, 2007). Per risorse lavorative si intendono gli aspetti fisici, sociali e organizzativi come ad esempio: diminuire le richieste lavorative e i sacrifici fisiologici e psicologici associati; essere stimolati nel raggiungimento degli obiettivi; stimolare la crescita, l’apprendimento e il progresso della persona (Bakker & Demerouti, 2007; Schaufeli & Bakker, 2004). Le risorse lavorative, quindi, agiscono sia sulla motivazione intrinseca incrementando la crescita, l’apprendimento e il progresso, sia sulla motivazione estrinseca con il raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Soddisfano i bisogni degli individui di autonomia, competenza e di relazione (Deci & Ryan, 1985; Ryan & Frederick, 1997; Van den Broeck, Vansteenkiste, De Witte, & Lens, 2008). Gli ambienti lavorativi che offrono risorse sollecitano i lavoratori a dedicarsi al proprio lavoro poiché è piacevole dedicarsi ai compiti che vengono svolti con successo e agli obiettivi che vengono raggiunti.

Shyness vs. Social Anxiety Disorder – Dal Forum di Formazione in Psicoterapia di Assisi 2015

Shyness vs. Social Anxiety Disorder

Benjamin Gallinaro, Francesca Fiore

Introduzione

Timidezza e Disturbo d’Ansia Sociale (conosciuto anche come Fobia Sociale) sono due condizioni di “discomfort sociale”, la prima frequente e non clinicamente rilevante, la seconda appartenente alla più ampia categoria dei disturbi d’ansia.
Secondo molti autori entrambe le condizioni si collocano lungo un continuum a intensità crescente e sono connotate da emozioni di imbarazzo e vergogna che si manifestano in contesti interpersonali. Non sempre tali condizioni risultano immediatamente distinguibili. Per poter intervenire in maniera efficace e adeguata su entrambe, occorre riuscire a differenziarle con maggior precisione. In tal senso appare importante individuare le credenze centrali e i fattori di mantenimento che le caratterizzano.

Obiettivo

Questo lavoro di ricerca si propone di indagare quali credenze cognitive razionali e irrazionali, basate sulla teoria della REBT e quali processi (perfezionismo, criticismo, rimuginio, ruminazione) e credenze metacognitive sono alla base del costrutto della timidezza (shyness). Oltre a ciò lo studio si propone di individuare gli elementi di differenziazione rispetto alle credenze che sottendono il Disturbo d’Ansia.

Metodo

Per individuare le credenze centrali legati alla Timidezza è stato condotto uno studio su un campione di popolazione normale utilizzando una batteria di test composta da:

Attitudes and Belief Scale (ABS-R II),

Perfectionism Scale,

Perceived Criticism Inventory,

Penn State Worry Questionnaire (PSWQ),

Ruminative Response Scale (RRS),

Metacognitions Questionnaire 30 (MCQ-30),

Anxiety Control Questionnaire (ACQ– SC),

State Trait Anxiety Inventory (STAI-I),

Beck Depression Inventory (BDI).

Risultati e conclusioni

I risultati dello studio mettono in evidenza che le variabili determinanti della timidezza sono principalmente tre: l’ansia, il controllo e la catastrofizzazione.
Secondo la letteratura, tali componenti sarebbero comuni anche al disturbo d’Ansia Sociale, nel quale, tuttavia, si presentano con modalità maggiormente pervasive, radicate e specificamente legate alla dimensione dello scarso valore personale percepito in contesti di performance e di interazione sociale.

 

Depressione Maggiore: la centralità dei sintomi nella definizione di un quadro completo della patologia

Come si fa a sapere se qualcuno soffre di Depressione Maggiore? Il DSM-5 basa la diagnosi di questo disturbo sulla presenza o meno di determinati sintomi, i quali vengono indagati dalle diverse figure professionali tramite numerosi strumenti di valutazione. Spesso però i sintomi indagati dai vari strumenti non corrispondono a quelli definiti dal DSM-5 e la diagnosi viene effettuata quando il soggetto mostra di possedere un certo numero di caratteristiche, senza dare particolare importanza al peso e alla centralità che queste potrebbero giocare all’ interno della patologia.

Secondo il Dottor Fried: [blockquote style=”1″]La depressione è un sistema complesso, estremamente eterogeneo di interazione tra sintomi. E alcuni di questi sintomi possono essere molto più importanti di altri.[/blockquote]

Pertanto il Dottor Fried e i suoi colleghi si sono impegnati ad indagare due questioni molto rilevanti che caratterizzano la formulazione della diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore: quali sono i sintomi con maggior centralità e peso nella Depressione Maggiore e quali sintomi risultano maggiormente centrali tra quelli proposti dal DSM-5 e quelli non proposti dal DSM come l’ansia e l’irritabilità.

Gli autori hanno quindi costruito un network di 28 sintomi, i quali sono stati indagati e valutati attraverso l’Inventory of Depressive Symptomatology (IDS-30) in 3463 pazienti con diagnosi di Depressione Maggiore non psicotica, i quali facevano parte del Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression (STAR*D). Di questi 28 sintomi è stata inoltre stimata la centralità, effettuando un confronto tra i sintomi determinati dal DSM-5 e non. Per centralità si intende il sintomo che maggiormente riflette la connessione esistente tra esso e tutti gli altri sintomi presenti.

Ciò che è emerso, è che i sintomi definiti dal DSM-5 e non, nel complesso, possiedono la stessa centralità, ma che tra i sintomi nella loro singolarità vi è una differenza ben visibile. Questo significa che i sintomi presenti nel DSM-5 non sono migliori dei sintomi non-DSM, ma che i singoli sintomi possono detenere un significato clinico specifico. Osservando nello specifico, tra i sintomi definiti dal DSM-5, quelli che rivelano una minor centralità, sono l’ipersonnia e l’agitazione psicomotoria. Tra i sintomi, invece, più centrali troviamo l’anedonia e l’umore triste, i quali talvolta risultano maggiormente predittivi dell’intera somma dei sintomi di Depressione Maggiore. L’eccitazione simpatica (ad es. palpitazioni, tremori, visione offuscata e sudorazione) è risultato il sintomo più centrale tra quelli non appartenenti al DSM, seguito dai disturbi somatici (ad es. pesantezza degli arti, dolore e mal di testa), problemi gastrointestinali, panico e fobia.

Per quanto i risultati ottenuti siano notevolmente utili ed interessanti, è importante far presente che questi sono condizionati da un grosso limite. La maggior parte dei partecipanti non presentavano solo una diagnosi di Depressione Maggiore, ma anche diagnosi di comorbilità, che potrebbero aver influenzato il ruolo dei singoli sintomi indagati. Detto ciò, bisogna però ricordare che la diagnosi di comorbilità è estremamente diffusa nel Disturbo Depressivo Maggiore, e pertanto questo potrebbe essere anche un punto di forza per quanto riguarda la diffusione dei dati.

In conclusione, la misurazione della centralità dei sintomi, è in grado di fornire nuove intuizioni ed informazioni relative allo specifico significato dei sintomi di Depressione Maggiore. Queste intuizioni hanno inoltre importanti implicazioni cliniche, in quanto suggeriscono nuovi approcci che possono portare ad una previsione migliore di quella che sarà la patologia. Quindi sarà possibile prevedere in anticipo aspetti come il decorso della malattia, la probabilità di recidività e la risposta al trattamento.

La metacognizione come predittore di ruminazione rabbiosa e esperienza di rabbia: uno studio prospettico – Forum di Assisi 2015

La metacognizione come predittore di ruminazione rabbiosa e esperienza di rabbia: uno studio prospettico

Offredi, A. (relatrice), Caselli, G., Spada, M.A., Wells, A., Ruggiero, G.M. & Sassaroli, S.

Lo studio presentato ha indagato le credenze metacognitive relative alla ruminazione rabbiosa, collocandosi nel filone di ricerca che analizza l’influenza di processi cognitivi sull’attivazione emotiva.

In linea con la teoria di Wells, le metacredenze hanno un ruolo nel mantenimento dello stile di pensiero disfunzionale. L’ipotesi iniziale sosteneva che le convinzioni metacognitive predicessero la probabilità di riportare alti livelli di rabbia e ruminazione, al netto del numero di episodi di rabbia vissuti. Lo studio è stato condotto utilizzando un disegno longitudinale cross-lagged.

Ai partecipanti è stato chiesto di compilare un monitoraggio giornaliero relativo a episodi di rabbia, rabbia esperita, ruminazione e metacredenze. Queste ultime erano suddivise in credenze positive, negative e bisogno di controllo, sulla base dei lavori di Wells sulle metacredenze del rimuginio. I risultati ottenuti dimostrano che le credenze positive e negative sulla ruminazione rabbiosa predicono la rabbia nei giorni successivi, mentre la ruminazione viene predetta dalle credenze negative riguardo l’anger rumination stessa. Lo studio ha condotto a nuove conoscenze dei processi metacognitivi della ruminazione rabbiosa , offrendo spunti di riflessione su quale debba essere il core del trattamento di pazienti che applicano l’anger rumination come strategia di regolazione emotiva.

Sul lettino di Freud di Irvin D. Yalom (2015) – Recensione

Un famoso terapeuta racconta in un romanzo l’intrecciarsi delle storie di analisti e pazienti. Sullo sfondo, la svolta relazionalista della psicoanalisi americana iniziata negli anni Ottanta.

Irvin Yalom, psicoterapeuta americano nato nel 1931, ha raggiunto già da molti anni una meritata fama internazionale di teorico della clinica. Tra i suoi libri, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, risalente al 1970, è da tempo tradotto in italiano ed è giunto ormai alla quinta edizione: si tratta forse tuttora del migliore manuale di livello universitario disponibile sull’argomento. Il dono della terapia (2008) costituisce invece un interessante testo di psicoterapia individuale a indirizzo umanistico, focalizzato sul tema della tanatofobia.

In tempi recenti, tuttavia, Yalom è divenuto ben noto al pubblico italiano anche per una serie di romanzi, i cui titoli sono marcati da nomi di filosofi. Il problema Spinoza, Le lacrime di Nietzsche, La cura Schopenhauer uniscono alla precisione dello stile e alla scorrevolezza della narrazione una notevole capacità di utilizzare temi usualmente ben lontani dalla trama dei best seller.”

“Sul lettino di Freud” è anch’esso un romanzo, tradotto in italiano nel 2015, anche se risalente in realtà al 1996. Il titolo originale (Lying on the Couch, cioè “Giacendo sul divano”) è stato stravolto, evidentemente per motivi commerciali (la traduzione del testo è comunque ottima). L’operazione-recupero è certamente fondata. Il romanzo risulta fruibile sia dal lettore che cerca la pura e semplice fiction, sia dal professionista della psicologia, che vi trova tematizzate questioni teoriche di notevole rilevanza. Pur evitando nella maniera più assoluta delle anticipazioni sulla trama, si può sintetizzare la struttura del libro come lo snodarsi di una serie di rapporti paziente/terapeuta. La storia dei tre protagonisti terapeuti si intreccia: oltre a essere membri della stessa associazione psicoanalitica essi si trovano nelle condizioni di esprimere – a vario titolo – giudizi l’uno sull’operato dell’altro. Il più giovane, infatti, deve presentare un rapporto ufficiale sul più anziano, coinvolto in una relazione sessuale con una sua paziente; in quanto analista in training, invece, viene supervisionato dal terzo. Ognuno dei tre esprime un diverso modo di interpretare il proprio ruolo di analista e di considerare le possibilità terapeutiche dell’analisi. La domanda che costituisce lo sfondo di ogni dialogo (esplicito o implicito) tra di loro è in fondo una sola, ed è quella posta al centro del dibattito sulla tecnica psicoanalitica dallo stesso titolo dell’ultimo libro di Heinz Kohut (1983): How Does Analysis Cure?, cioè “Come cura l’analisi?” (anche se il volume uscì in italiano intitolato La cura psicoanalitica).

Per i teorici della psicoanalisi le risposte possibili sono due: l’interpretazione o la relazione terapeutica in sé. Nella tecnica classica proposta da Freud il compito dell’analista è solo quello di interpretare; il suo ruolo è quello di uno specchio o di uno schermo bianco sul quale il paziente possa proiettare, con il transfert, il proprio mondo interno. In quest’ottica la personalità del terapeuta è pressoché irrilevante per la cura e la sua analisi didattica lo aiuta soprattutto a mantenere un atteggiamento neutrale, a non sentirsi coinvolto nelle dinamiche relazionali del paziente. Se invece è la relazione terapeutica ad essere considerata il fattore curativo primario, come riteneva Kohut, il terapeuta assume i connotati di una persona reale per il paziente; la sua personalità diventa lo strumento terapeutico principale e un certo svelamento di se stessi inizia a divenire per lui pressoché inevitabile.

Merton Gill (1994) chiamava questo il passaggio dal paradigma della psicologia monopersonale a quello della psicologia bipersonale, intendendo che nel secondo caso ambedue i partecipanti alla relazione terapeutica sono pienamente coinvolti in essa. L’indubbio vantaggio dell’approccio classico consiste certo nella chiarezza dei confini tra ciò che in analisi può e non può essere compiuto. L’approccio più relazionalista, viceversa, presenta delle insidie: fino a che punto ci si può spingere nell’auto-svelamento e nella partecipazione emotiva? Il romanzo di Yalom è un appassionante tentativo di rispondere alla domanda attraverso storie inventate ma autenticamente plausibili. Nell’intreccio i pazienti complicano a loro volta il quadro portando in analisi motivazioni non sempre lineari, che rendono il compito dei rispettivi terapeuti decisamente impegnativo.

Nel corso del 2015 sono apparsi in italiano altri due libri di Yalom: Guarire d’amore (Cortina), e Creature di un giorno (Neri Pozza) che raccontano invece storie autentiche di psicoterapia. Non escludiamo di occuparcene su questo sito.

 

 

Di Irvin Yalom:

Il problema Spinoza

È una sorta di plutarchea evocazione delle vite parallele di due personaggi molto lontani nel tempo e nello spazio: Spinoza, appunto, e il gerarca nazista Rosenberg. Lo spunto è offerto da un fatto storico reale: Rosenberg sequestrò personalmente in Olanda la biblioteca Spinoza. Yalom lo dipinge alle prese con un interrogativo che avrebbe potuto essere imbarazzante per un seguace di Hitler: possibile che la mente più profonda del Seicento (e uno dei più grandi pensatori della storia) appartenesse a un ebreo? Yalom immagina come Spinoza fosse giunto nel corso della vita alle sue posizioni panteiste (che gli costarono la possibilità di mantenere contatti col mondo ebraico) e come Rosenberg potesse cercare un aiuto psicoanalitico (naturalmente inficiato da notevoli ambivalenze).

Le lacrime di Nietzsche

Costruisce l’ipotesi di un incontro tra Joseph Breuer, ancora emotivamente coinvolto dal rapporto con Anna O., e Friedrich Nietzsche, già sull’orlo della crisi psicotica. Auspice dell’evento, che sarebbe stato probabilmente epocale, risulta Lou Andreas Salomé, che realmente fu musa di Nietzsche e in seguito divenne un personaggio non secondario del movimento psicoanalitico (come testimoniano il carteggio col padre della psicoanalisi e Il mio ringraziamento a Freud). La Salomé, per inciso, fu tutt’altro che un’acritica seguace di Freud, dato che sconsigliò vivamente a Rainer Maria Rilke di entrare in analisi e il poeta la ringraziò di cuore, comprendendo infine, secondo le sue parole, che se avesse scacciato i suoi demoni gli angeli li avrebbero seguiti per non fare più ritorno.

 

La cura Schopenhauer

Vede il protagonista, un brillante psichiatra, alle prese con la scoperta di avere un tumore ben difficilmente curabile e alla ricerca di una pace con se stesso che sembra trovare nelle parole del geniale filosofo irrazionalista tedesco.

Cambiare è vitale: lettura cognitivo-comportamentale del romanzo “Per dieci minuti”

Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il libro prende il via nel momento della presentazione, sotto forma di gioco, del trattamento psicoterapeutico e prosegue raccontando i trenta giorni successivi, costellati da trenta esperienze di novità, per terminare con il resoconto in seduta di tale percorso.

Per dieci minuti, romanzo di Chiara Gamberale (2014), racconta vicende in prima persona della scrittrice trentaseienne Chiara, alter ego dell’autrice, in piena crisi esistenziale, se così si può chiamare. Lasciata dal marito, col quale aveva condiviso fin dal liceo un rapporto ai limiti della simbiosi, privata della rubrica settimanale che teneva con passione e bloccata nella scrittura del suo romanzo, abbandonata in una casa estranea, in una città troppo grande e troppo sconosciuta rispetto al paesino campagnolo nel quale era vissuta fino a un anno prima, la giovane donna si trova a vivere una vita che non le appartiene più. Come emerge dalle parole riportate nelle prime pagine [blockquote style=”1″]Unica a non avercela più, una vita, ero io. Al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico perno su cui girare aveva lo smarrimento.[/blockquote]

Chiara si scopre in una condizione di confusione dove sono andati in pezzi alcuni importanti capisaldi attorno ai quali si era costruita la propria esistenza. Focalizzata su se stessa e sul suo dolore, la protagonista manifesta evidenti segni depressivi, che rimandano a quei sensi di vuoto e di brancolamento nel buio, a quella mancanza motivazionale e di voglia che spesso portano a pensare che non ci sia più alcuna speranza di serenità. È proprio in questa situazione che si colloca la proposta terapeutica della Dottoressa T., psicoterapeuta di Chiara. Gli antecedenti descritti, in quanto fattori di enormi e destabilizzanti cambiamenti che tendono a incrinare le idee e le certezze su cui si fonda la propria vita, possono infatti rappresentare input a intraprendere un percorso psicologico, esattamente come accade per la protagonista.

[blockquote style=”1″]Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto. […] Una cosa qualunque. Basta che non l’abbia mai fatta in trentacinque anni.[/blockquote]

Il libro prende quindi il via nel momento della presentazione, sotto forma di gioco, del trattamento psicoterapeutico e prosegue raccontando i trenta giorni successivi, costellati da trenta esperienze di novità, per terminare con il resoconto in seduta di tale percorso. Al di là dell’apprezzabilità del romanzo, scritto con stile coinvolgente, sentimentale e ironico al contempo, è possibile utilizzare una chiave di lettura del racconto in termini più strettamente psicologici, in particolare facendo riferimento alla scuola di pensiero cognitivo-comportamentale.

La sfida proposta dalla Dottoressa T. può essere interpretata come una “scossa” che permetta alla protagonista di uscire dalla situazione di empasse in cui si trova, una sorta di spinta al cambiamento, un allargamento mentale che apra uno spiraglio nei muri rigidi degli schemi di pensiero. Quelli di cambiamento e di flessibilità cognitiva sono concetti centrali nella psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT, Cognitive Behavioural Therapy). Studi (Shafeian e Hatami, 2013) hanno infatti indagato l’efficacia di una terapia, basata su tale scuola, su donne in fase di divorzio con sintomi depressivi, trovando risultati confirmatori. Altri autori (Butler, Chapman, Forman e Beck 2006) hanno condotto una rigorosa meta-analisi sugli esiti della CBT, sostenendone gli effetti positivi sui disturbi e sui sintomi concernenti la depressione.

Facendo solo un rapido accenno al razionale teorico, tale approccio può essere considerato come un’unione della psicologia cognitiva (Neisser, 1962) e della psicologia comportamentale (Watson, 1913). Riassumendo i pensieri di coloro ritenuti i padri fondatori, Beck (1984) e Ellis (1989), Hofmann et al. (Hofmann, Asnaani, Vonk, Sawyer e Fang, 2012) i disturbi mentali e il disagio psicologico sono mantenuti da fattori cognitivi. Secondo Beck (1984) eventi esterni o interni a una persona generano sempre in essa, più o meno consapevolmente, pensieri volti a interpretarli che influenzano lo stato emotivo e il comportamento. Tali valutazioni automatiche si organizzano in veri e propri schemi di significato, modelli di pensiero che guidano l’esistenza degli individui e che generano salde credenze su di sé, sugli altri e sul mondo (Semerari, 2000). Il pensiero è quindi una rappresentazione della realtà (Ruggiero, 2011), che può però essere imperfetta a causa di errori di elaborazione cognitiva propri del funzionamento mentale umano.

Come spiegato da Ruggiero (2011), la sofferenza emergerebbe qualora un individuo utilizzi sistematicamente e rigidamente tali modelli di significato della realtà. Ellis (1989) definisce pensieri irrazionali queste convinzioni disfunzionali, che si traducono in “sciocche frasi” che le persone ripetono a loro stesse generando immediatamente disagio e sofferenza, nonché guidandone, di conseguenza, il comportamento. La terapia cognitivo-comportamentale agisce proprio su queste cognizioni maladattive che, in quanto pensieri erronei generati dalla persona stessa, possono essere verbalizzati, padroneggiati, cambiati (Hofmann, Asnaani, Vonk, Sawyer e Fang, 2012).

Errori di ragionamento, pensieri irrazionali e credenze disfunzionali, col passare del tempo, creano schemi che portano a un’interpretazione della realtà rigida e assoluta. Si attiva quindi un circolo vizioso per cui, avendo un’unica visione del mondo, si tende solo a confermare le proprie idee, aumentandone il determinismo e alimentando quindi emozioni e comportamenti dannosi per la propria salute psichica. Tali concetti sono trattati nel romanzo specificatamente durante una delle sedute psicoterapeutiche:
[blockquote style=”1″]-Basta davvero un attimo no?- -Per fare cosa, dottoressa?- -Perché i nostri schemi emotivi e mentali […] si rivelino in realtà dei limiti.[/blockquote]

Un altro momento importante in cui si rimanda a tali argomenti è quando l’autrice parla di Egoland. Accennando a un racconto scritto dalla protagonista, viene presentata questa idea di città dove ogni persona vivrebbe rinchiusa nel suo palazzo, costruito con mura più o meno spesse formate dalle proprie cognizioni, dal quale può essere difficile uscire, per paura o per abitudine. Afferma la Dottoressa T.:
[blockquote style=”1″]Sa, Chiara: ci abitiamo quasi tutti. Se Egoland è la cittadina dei retaggi, dell’infanzia, delle coazioni a ripetere e degli attaccamenti, è difficile evadere.[/blockquote]

Da sottolineare anche il rimando alla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1972; 1975; 1983) e, in particolare, al concetto di modelli operativi interni (IWM, Internal Working Models). Questi sarebbero dei modelli relazionali che un individuo si crea a partire dalle prime esperienze di interazione con le figure di accudimento primarie (solitamente la madre), degli assunti di base (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1987) su sé e sugli altri che permettono di fare previsioni sul mondo, guidando di conseguenza il proprio comportamento. Gli IWM sono mantenuti nel corso della vita e generalizzati alle nuove realtà, influenzando continuamente le interazioni e la formazione di legami dell’individuo. Bowlby (1977) utilizza i modelli operativi interni anche per spiegare le varie forme di disagio emotivo, compresa la depressione, che riguardano la separazione e la perdita, tra cui quelle relative al rapporto matrimoniale, in quanto forniscono indicazioni su se stessi all’interno e all’esterno della relazione. Nel romanzo, Chiara si trova catapultata fuori dal legame con il marito, perdendo così parte, per lei integrante, della propria rappresentazione personale. Da qui il senso di disorientamento e la tendenza all’autocolpevolizzazione, che Ellis (1989) considera come fonte di sofferenza e che collega all’autovalutazione negativa, consistente nell’attribuzione della negatività della situazione in cui ci si trova a propri difetti.

Guardando bene la condizione di Chiara, tuttavia, non si possono ignorare le effettive difficoltà e fonti di stress cui la protagonista è sottoposta. Come spiegato da Ruggiero (2011), in uno scenario negativo il pensiero più razionale può essere proprio quello negativo. In certi momenti non è possibile falsificare una visione pessimistica della realtà. In questo caso, uno degli aspetti che fa pendere la bilancia verso il benessere o il malessere psicologico è la capacità di stare dentro tali situazioni, di sopportarne l’incertezza e le emozioni derivanti. Riprendendo i precedentemente accennati pensieri disfunzionali (Ellis, 1989), quelle convinzioni che le persone si ripetono continuamente e che determinano emozioni e comportamenti, Ellis (1989) parla di intolleranza alla frustrazione per indicare appunto la convinzione che le delusioni che ci infligge la realtà siano insopportabili e che non sia normale e accettabile soffrire così tanto.

Ciò spesso porta al così detto evitamento esperenziale, definito da Hayes (Hayes, Wilson, Gifford, Follette e Strosahl, 1996) come quel fenomeno che si verifica quando una persona non è disposta a rimanere in contatto con particolari esperienze private, che possono essere ad esempio emozioni, pensieri, sensazioni corporee, e provvede quindi a controllarne l’espressione, nonché a sottrarsi ai contesti che potrebbero evocarle. A lungo andare, il tentativo di evitare sentimenti e pensieri conduce a limitare notevolmente le proprie esperienze, sia quelle nel mondo esterno sia quelle introspettive, per non correre il rischio di incappare nel dolore. Ancora, utilizzare l’evitamento esperenziale come una strategia sistematica per controllare aspetti interiori ​​indesiderati può portare ad una incapacità di affrontare tali contenuti e ad una impossibilità di trovare strategie più funzionali (Hayes, Strosahl e Wilson, 1999), con il risultato di incrementare il disagio psicologico e le sensazioni di essere disarmati e senza difesa, in un circolo vizioso autoconfirmatorio senza fine. Ellis (1989) sostiene l’importanza per le persone dell’imparare a tollerare la frustrazione, del provare a stare nell’emozione, come spiegato anche nel libro dall’esortazione fatta a Chiara
[blockquote style=”1″]E allora prova a guardarlo negli occhi una buona volta, il vuoto[/blockquote]
e si sostiene l’idea che la situazione è sì negativa ma sopportabile, non così terribile, come richiamato dalle parole della stessa protagonista
[blockquote style=”1″]Ma poi è arrivata quella mattina. Dove misteriosamente ho sentito che non faceva più così tanto male là dove faceva male. O che forse, ormai, a quel dolore mi stavo abituando. E che, in un modo o nell’altro insomma, potevo andare avanti. Forse lo stavo addirittura già facendo.[/blockquote]

Qui si collocano le terapie cognitive di terza generazione sviluppate a partire dagli anni ‘90, che prendono origine dalla volontà di trattare stati psicologici non direttamente modificabili a livello cognitivo. In particolare, in riferimento al romanzo, vi è una ripresa di tecniche comportamentali, ovvero esercizi da effettuare praticamente nel contesto quotidiano, come stimolatori di nuovi processi emotivi e affettivi, come vere e proprie esperienze emozionali correttive che possono rompere quei circoli viziosi di evitamento (Ruggiero, 2011). In questo scenario assume particolare rilievo la Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, 2004). Hayes (Hayes, Strosahl e Wilson 2012) illustra i due concetti cardine di questo approccio: l’accettazione delle emozioni e l’impegno a cambiare. Il concetto di base è che la sofferenza umana nasce dall’inflessibilità psicologica (rigidità nel pensiero e nel ragionamento) e dall’evitamento emotivo (fuga dalle esperienze emozionali dolorose). Per farvi fronte sarebbe necessario prendere consapevolezza e vivere le esperienze private ritenute inaccettabili e ingaggiarsi attivamente nel modificare il proprio comportamento (Hayes, Strosahl & Wilson 2012). Secondo alcuni autori (Garcia, Archer, Moradi, e Andersson, 2010), inoltre, l’ACT risulterebbe strettamente collegata a una serie di costrutti quali la soddisfazione per la propria vita, l’autostima, l’affettività positiva. Studi (Forman, Shaw, Goetter, Herbert, Park e Yuen 2012) hanno rilevato esiti positivi di tale psicoterapia nel trattamento della depressione. In particolare, Qena-ati e Pirani (2015) ne hanno verificata l’efficacia per donne sull’orlo del divorzio che manifestavano disagi psicologici.

In conclusione, dalla sommaria lettura in termini terapeutici cognitivo-comportamentali fatta del romanzo “Per dieci minuti”, emerge l’importanza assunta dal perseguimento di percorsi psicologici integrati, che prendono forma attorno alle peculiari esigenze, caratteristiche e risorse dell’individuo in quel preciso momento. L’obiettivo principale dovrebbe essere sempre favorire il benessere psicologico, tendere verso una maggiore salute psichica. Come afferma Ellis (1989), può essere frustrante e perfino dannoso puntare esclusivamente verso quadri rosei e ottimali, qualora non si possano o non si riescano a raggiungere. Molto più concreto, invece, ricercare la condizione migliore possibile date specifiche, determinate circostanze. Per fare ciò assume fondamentale importanza il processo di cambiamento. Aprire la propria visione, accantonare le credenze, rompere gli schemi rigidi di elaborazione della realtà, provare emozioni, modificare i comportamenti: tutti aspetti che possono fare paura e causare sofferenza, ma che sono l’essenza dell’evoluzione umana. Permettono cioè di concepire l’esistenza di differenti modi di vivere, alternative che l’individuo, volontariamente e consapevolmente, può decidere di abbracciare. Come afferma la Dottoressa T:
“-Cambiare è mortale-
-Chiara?-
-Si?-
-Cambiare è vitale-“.

Fragilità emotiva e disagio psicologico: confronto tra popolazione psichiatrica e soggetti sani

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Autrice: Manuela Bianchi

 

ABSTRACT

Le emozioni sono una parte centrale della nostra vita. Sebbene non esista una definizione concorde della fragilità o instabilità emotiva, questa viene considerata come un costrutto multi-dimensionale caratterizzato da oscillazioni intense e frequenti di emozioni che possono presentarsi in presenza o meno di eventi esterni piacevoli o spiacevoli. Il presente studio si propone di indagare come la presenza di fragilità emotiva incida sul benessere psicofisico in un campione di soggetti sani e di effettuare un confronto tra questi ultimi e un campione di pazienti psichiatrici per quanto riguarda i punteggi ottenuti sia nella scala per la misura della Fragilità Emotiva, sia nelle schede A e B del CBA-H (Cognitive Behavioural Assessment-forma hospital). In particolare, si è ipotizzato che i soggetti sani avessero un punteggio medio significativamente inferiore rispetto ai pazienti psichiatrici sia nella scala per la misura della Fragilità emotiva (e nelle sue due sottoscale), sia nelle due schede A (tre sottoscale) e B (due sottoscale) che compongono la batteria CBA-H e un punteggio significativamente superiore nella sottoscala B2 del CBA-H che valuta il Benessere psicofisico. Inoltre, si è voluto valutare se ci fosse un’associazione fra alti punteggi nella scala di Fragilità Emotiva e bassi punteggi nella scala per il benessere psicofisico, tenendo presenti anche altre variabili quali età, il gruppo di appartenenza, il sesso e i punteggi ottenuti nelle altre scale del CBA.

 

The emotions are a central part of our lives. Although there is no agreed definition of fragility or emotional instability, this is considered as a multi-dimensional construct characterized by intense and frequent swings of emotions that may arise in the presence or absence of external events, pleasant or unpleasant. The aims of the present study is to investigate how the presence of emotional fragility impinges on psychological well-being in a sample of healthy subjects and to make a comparison between them and a sample of psychiatric patients with regard to the scores obtained both in the scale for measuring Fragility of Emotional both scales A and B of the CBA-H (Cognitive Behavioural Assessment-form hospital). In particular, it is assumed that healthy subjects had a mean score significantly lower compared to psychiatric patients both in the scale for measuring the emotional Fragility (and in its two subscales), both in the two boards A (three subscales) and B (two subscales) that make up the battery CBA-H and scored significantly higher in the B2 basement of the CBA-H evaluates the physical and mental wellness. In addition, we wanted to assess whether there was an association between high scores on the scale of Emotional Fragility and low scores on the scale for the psychological well-being, taking into account other variables such as age, group, sex and scores obtained in the other scales of the CBA.

 

PAROLE CHIAVE: Fragilità emotiva, regolazione emozionale, psicopatologia, benessere psicofisico, ansia di stato.

La TV via internet: come cambia le abitudini degli utenti

 

I risultati sembrano essere tranquillizzanti: l’enorme e improvvisa varietà di programmi a cui abbiamo avuto accesso grazie alla TV satellitare non ha aumentato la quantità del nostro tempo davanti alla televisione, ma ne ha solo migliorato la qualità.

L’intrattenimento televisivo e cinematografico è da sempre fortemente legato alle tecnologie che ne permettono la diffusione e dunque non c’è da stupirsi che l’avvento di Internet abbia radicalmente cambiato molti aspetti della nostra vita, tra cui il nostro rapporto con il cinema e la televisione.
Se in principio è stata, sorprendentemente, la pirateria a monopolizzare la diffusione di film e programmi TV sul web, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una proliferazione di servizi di diffusione del tutto legali: provider come Netflix e Hulu (che richiedono una sottoscrizione mensile a pagamento) o Itunes e Google Play (che adottano un sistema pay-per-view: paghi solo ciò che vuoi vedere) stanno pian piano rubando spazio agli host pirata, in virtù della migliore qualità dei prodotti che offrono.

Che siano legali o no, senza dubbio la disponibilità di film e programmi TV a cui lo spettatore può avere accesso è aumentata a dismisura con la diffusione di Internet: ma in che modo questa esagerata varietà può influire sulla qualità della nostra esperienza di spettatori e sulla quantità di tempo che decidiamo di dedicarle?

E’ quello che si sono chiesti i ricercatori Liebowitz e Zentner dell’Università di Dallas, in un recente articolo apparso sul Journal of Cultural Economics. Poiché, però, i dati effettivi sulla fruizione della cosiddetta Internet Television non saranno disponibili prima di un decennio, gli autori hanno tentato di inferire cosa stia accadendo oggi basandosi su ciò che è accaduto in passato. Liebowitz e Zentner hanno, infatti, analizzato i dati statistici sulla qualità e quantità d’utilizzo della televisione in diverse nazioni, dal 1996 al 2008: questo periodo è stato particolarmente significativo, poiché ha segnato il passaggio dalla TV analogica alla TV satellitare.

Come ricordiamo, questa svolta tecnologica ha aumentato drasticamente l’offerta di programmi televisivi disponibili per lo spettatore, che di colpo non si è trovato più a scegliere cosa guardare tra i soliti dieci canali, ma tra centinaia e centinaia di possibilità! L’idea degli autori dello studio è dunque di assumere tale passaggio di consegne come analogo a quello odierno tra televisione satellitare e Internet poiché, sostengono Liebowitz e Zentner,[blockquote style=”1″] l’aumento della disponibilità dei programmi apportato ieri dalla diffusione della TV sul satellite è assimilabile a quello apportato oggi dalla diffusione della TV su Internet.[/blockquote]

I risultati sembrano essere tranquillizzanti: l’enorme e improvvisa varietà di programmi a cui abbiamo avuto accesso grazie alla TV satellitare non ha aumentato la quantità del nostro tempo davanti alla televisione, ma ne ha solo migliorato la qualità. Lo stesso Liebowitz, infatti, afferma che [blockquote style=”1″]I consumatori hanno sempre e comunque 24 ore in una giornata e l’aumento dell’offerta di programmi non può dunque modificare le loro abitudini quotidiane, ma può invece aiutarli a trovare un prodotto più vicino ai loro desideri, così da trarre maggior piacere dall’esperienza televisiva.[/blockquote]

In conclusione, secondo gli autori, così come è accaduto dopo l’avvento della TV satellitare, la diffusione dell’Internet Television non ci terrà incollati più a lungo ad uno schermo, ma migliorerà semplicemente il nostro rapporto con lo schermo, ammesso che di rapporto si possa parlare.
Ora, senza dubbio il limite principale di tale ricerca – che gli autori stessi suggeriscono – è insito proprio nella plausibilità del paragone tra lo spettatore post-satellite e lo spettatore post-internet. L’unica variabile assunta nello studio, infatti, è la varietà dell’offerta televisiva proposta e quindi la possibilità che questa ha di colmare lo scarto tra programma ideale (desiderio del consumatore) e programma reale (offerta dell’emittente).

Ciò che non va dimenticato è che la Internet Television, a differenza del satellite, non ha aumentato solo la varietà dell’offerta, ma ha introdotto – per la prima volta nella storia dell’uomo – la portabilità dell’offerta televisiva: spaziale e temporale. Portabilità spaziale perché grazie a tablet e smartphone (strumenti di navigazione web preferenziali) possiamo vedere film e trasmissioni TV ovunque vogliamo. Portabilità temporale perché nella TV online non esiste più palinsesto: non si è più vincolati ad alcun orario né ad alcuna diretta, qualsiasi programma viene registrato e reso disponibile (legalmente e non) in qualunque momento.

Ed è proprio questa esacerbazione estrema della portabilità spazio-temporale della comunicazione, prima ancor che della televisione, che in questi anni sta radicalmente cambiando le abitudini delle persone, e purtroppo non sempre positivamente. Questa stessa rivista, infatti, si trova sempre più di frequente a parlare di problemi come Cyberdipendenza e Nomofobia, ovvero cambiamenti nuovi ed inediti nel comportamento dell’uomo, direttamente derivati dalla nascita di una relazione con Internet che è per natura sempre e ovunque.

Per queste ragioni, dunque, i risultati della ricerca di Liebowitz e Zentner non possono che esser intesi come provvisori e – ci auguriamo – precursori di nuovi studi che prendano in esame anche l’influenza che la portabilità può avere sulla quantità e la qualità del tempo che passiamo davanti a film e programmi TV. Perché oggi la televisione è uscita dal televisore e ci accompagna per tutto il giorno.

L’accettabilità del contatto fisico tra le persone e come varia nel mondo

 

Un importante studio aiuta a tirarsi fuori dalle situazioni sociali imbarazzanti: potete abbracciare i finlandesi, per esempio, gli inglesi meglio di no

 

 

Pochi giorni fa il sito di Proceedings of the National Academy of Sciences, un’importante rivista scientifica statunitense, ha pubblicato uno studio sulla disponibilità di persone di varia nazionalità a essere “toccati” da altre persone con cui hanno vari gradi di confidenza. Il magazine online Quartz l’ha definito il più importante studio mai realizzato sul tema: cinque esperti di neuroscienze e psicologia provenienti da quattro università diverse hanno contattato 1.368 persone fra francesi, finlandesi, italiani, britannici e russi per chiedere quanto si sentissero a loro agio con persone come i propri genitori, parenti stretti o il proprio partner... (Il Post)

Indice 1 donne indice 2 uomini

 

Uno dei dati più interessanti riguarda gli italiani che sembrano essere a disagio con il contatto fisico almeno quando gli inglesi. Mentre russi e finlandesi, popoli nordici, risultano essere molto più rilassati nei confronti del contatto fisico:

There wasn’t a significant amount of cultural differences of where participants would allow family, friends and strangers to touch them; but some nationalities were less enthusiastic about touching than others. True to their stereotype, British participants were right at the bottom on the touchability index. To the researchers’ surprise, Italians were less comfortable with being touched than Russians.

“We hadn’t expected the Finns to turn out to be the most cuddly people,” Dunbars says, “or that the Italians are almost as uncuddly as the Brits.”(Quartz)

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Il gruppo musicale come strumento riabilitativo – Report dal Workshop di Modena, 24 Ottobre 2015

Il potere di aggregazione della musica è noto: numerosi sono i gruppi musicali costituiti da operatori ed utenti, sia nell’ambito della psichiatria che nell’ambito dell’handicap e della disabilità. A Modena un momento di incontro per presentare le esperienze locali di speciali gruppi musicali e per stimolare una riflessione sulle loro potenzialità terapeutiche e riabilitative.

Giovedì 24 Ottobre presso ‘La Tenda’ di Modena, nell’ambito della Settimana della Salute Mentale Màt, si è svolta la mattinata di studio dal titolo ‘Il gruppo musicale come strumento riabilitativo’, promossa dall’Associazione Escomarte e dall’Ospedale Privato Villa Igea (Segreteria scientifica: Dr. Gaspare Palmieri).

Il potere di aggregazione della musica è ben noto e ormai sono numerose le esperienze di gruppi musicali costituiti da operatori ed utenti, organizzati in complessi musicali ed orchestre, sia nell’ambito della psichiatria che nell’ambito dell’handicap e della disabilità. La mattinata ha avuto l’obiettivo di presentare alcune importanti esperienze locali di questi speciali gruppi musicali e di stimolare una riflessione sulle loro potenzialità terapeutiche e riabilitative.

Dopo il saluto delle autorità (il direttore di Villa Igea Dr. Giovanni Neri e il presidente di Escomarte Pietro Paganelli), ha introdotto la mattinata il Professor Simone Vender, Ordinario di Psichiatria presso l’Università Insubria di Varese, che ha illustrato i fattori terapeutici della terapia di gruppo in generale, sviluppatasi inizialmente nell’ambito delle prime comunità terapeutiche inglesi negli anni 50 (spesso destinate ad accogliere reduci traumatizzati dalla Seconda Guerra Mondiale), dove venivano organizzati gruppi di discussione sulla realtà (reality confrontation). Ha sottolineato come il gruppo in certi casi possa aiutare a ridurre la frammentazione individuale, diluendo la malattia del singolo, citando i celebri studi di Yalom secondo cui i fattori terapeutici gruppali includono l’informazione, l’infusione di speranza, l’universalità, l’altruismo e le tecniche di risocializzazione. Da non sottovalutare anche l’aspetto catartico del gruppo, per il quale il cambiamento può passare attraverso una via emotiva.

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Professor Simone Vender

Successivamente l’operatrice Rossana Lusvardi e la cantautrice Barbara Rosset hanno presentato l’esperienza del gruppo Fermata Fornaci, nato all’interno del Day Hospital di Villa Igea. La band, che comprende utenti e operatori, si è formata alcuni anni fa in occasione del concorso Oltre il muro (organizzato dal Comune di Modena) e ha prodotto in questi anni oltre venti canzoni originali, esibendosi in concerto in diverse occasioni. Hanno mostrato alcuni testi delle canzoni, come ‘Una paglia e un cappuccino’, che spesso hanno un tono ironico e di sdrammatizzazione.

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Rossana Lusvardi e Barbara Rosset

La psichiatra Lucia Zanni e il cantautore Tommy Togni hanno invece raccontato il lavoro con i gruppi musicali e teatrali nati nell’ambito della residenza psichiatrica Sole e Luna di Sassuolo. La Dr.ssa Zanni ha sottolineato come la scelta di far condurre i gruppi a un artista (in questo caso un cantautore), invece che a un operatore formato (tipo musicoterapeuta), abbia consentito di avere un approccio ai pazienti meno filtrato da certi pregiudizi che si possono instaurare, come deformazione professionale, in chi lavora per tanto tempo nella salute mentale. L’operatore viene comunque supportato durante i gruppi dalla presenza di un membro dell’equipe. E’ stato sottolineato come questi tipi di gruppo favoriscano lo sviluppo di un forte senso di appartenenza che ha una valenza terapeutica. Hanno poi presentato un video davvero interessante, costituito da tanti frammenti raccolti durante i laboratori, con momenti di recitazione, di songwriting, di karaoke e di performance decisamente rock.

La psicoterapeuta e musicoterapeuta Roberta Frison ha illustrato l’attività dell’Orchestra Ologramma, nata nel 2010 al di fuori dell’ambito istituzionale e che accoglie musicisti professionisti, volontari e più di cinquanta ragazzi con diverse forme di disabilità. Il gruppo tiene concerti regolarmente da cinque anni su palchi importanti e Roberta ha mostrato un paio di video straordinari delle ultime esibizioni proprio nell’ambito di Màt. La Dr.ssa Frison ha sottolineato come il gruppo rappresenti un fattore aggregante anche per le famiglie, contribuendo a creare un senso di comunità e che ha avuto importanti ricadute sulla qualità della vita dei partecipanti.

Ha concluso la mattinata il musicista Enrico Zanella, che coordina l’Orchestra Scià Scià, nata all’interno della Cooperativa Sociale Nazareno di Carpi, che organizza ogni anno il Festival delle Abilità differenti. Anche in questo caso il gruppo è costituito da una ventina tra operatori, volontari e persone con disabilità e si avvale della tecnologia Sound Beam, che rende accessibile il fare musica anche a persone con gravi problemi motori. La strumentazione comprende pad e sensori, collegati a un computer con un software per cui i movimenti rilevati possono essere tradotti in suoni. Ha mostrato inoltre un bellissimo video di alcuni brani originali eseguiti con questa metodica.

“Non essere cattivo” di Claudio Caligari (2015) – Cinema & Psicologia

Non si parla solo di ragazzi con un problema di tossicodipendenza, si parla di ragazzi intrappolati in un mondo dove l’alterazione della coscienza sembra l’unica soluzione alle disgrazie della vita.

“Occhi.” Così ho risposto a chi mi ha chiesto cosa mi è piaciuto di più in questo film.
Lo sguardo dei personaggi del capolavoro di Caligari, così intenso, come esattamente dovrebbe essere; sono occhi fatti, lucidi, malati, tristi, felici, nascosti dietro un paio di occhiali; spesso sono spalancati, ma spenti.
Ci troviamo a Ostia, anni ’90. Non è il solito racconto sulla droga in borgata, ma molto di più.

Non si parla solo di ragazzi con un problema di tossicodipendenza, si parla di ragazzi intrappolati in un mondo dove l’ alterazione della coscienza sembra l’unica soluzione alle disgrazie della vita.

Cesare è un personaggio geniale, un ragazzo come tanti; da Cesare emerge la caratteristica tipica di chi soffre di una tossicodipendenza, ovvero l’impossibilità di gestire le emozioni, soprattutto quelle negative.
E lui, con questi bellissimi occhi chiari, questo bambino intrappolato nel corpo di un uomo, ne ha vissute di situazioni critiche: Cesare non ha un padre, vive con la madre, una donna che dimostra molti più anni di quelli che ha, totalmente distrutta dalla morte della figlia, la sorella del nostro protagonista. Come se non bastasse i due si prendono cura della bambina della sorella defunta, malata gravemente.

Cesare non è mai presente dentro casa, sempre così preso dalla sua vita di pasticche, rapine, alcool, cocaina, risse… ma le poche apparizioni sono sempre commoventi; il suo rapporto con questa bambina è di una dolcezza straziante. E’ talmente diverso quando è in casa con la bambina e la madre, che il pubblico vede due personaggi differenti ma all’interno dello stesso corpo; e Caligari non poteva meglio rappresentarlo, in questo contrasto tra la troppa sofferenza e la troppa alienazione.

Poi c’è Vittorio. Il personaggio già dalla prima inquadratura mi ricorda molto Mark Renton, il protagonista di Trainspotting, una lacerante storia di eroina, capolavoro indiscusso di Danny Boyle.
Vittorio è come Cesare. Anche lui vive a Ostia e frequenta lo stesso giro del suo migliore amico; le giornate passano tra una tirata, una birra e qualche ragazza facilmente disponibile.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM:

Vittorio però comincia a guardare fuori e, soprattutto, a guardarsi dentro; questo tipo di vita comincia ad andargli stretta. Conosce una donna che diventerà la sua compagna, trova un lavoro presso un cantiere e si allontana da quel giro dove ormai non si riconosce più. Ma Vittorio vuole salvare Cesare, compagno di pianti e risate, suo fratello; non riesce a vederlo così ed è disposto a giocarsi il suo stesso lavoro per aiutarlo. Anche qui il pubblico può notare un’interessante ambivalenza; l’interesse per se stesso, per la sua vita, il giusto allontanarsi da quel mondo, l’indifferenza, a volte l’odio, verso quella gente; tutto questo in contrasto con l’amore indiscusso verso quel ragazzo che tanto assomiglia a lui fino a poco tempo prima, a cui lui proprio non può rinunciare.

Un film quindi consigliatissimo, per chi vuole avvicinarsi non al mondo della droga inteso come denuncia sociale, ma al mondo della droga inteso da un punto di vista psicologico. Adatto a chi vuole approfondire la psicologia più perversa e nascosta dietro la figura del malato tossicodipendente, di colui che si rifugia; non dagli altri, ma lontano da se stesso.

L’apprendimento delle abilità (skills training) nella terapia dialettico-comportamentale

Rosario Privitera, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

La terapia dialettico-comportamentale (DBT, Dialectical Behavior Therapy) è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato per soggetti affetti da disturbo borderline della personalità, oggi considerato uno dei trattamenti più specifici ed efficaci.

Il modello di Linehan (2011) afferma che il nucleo del disturbo risiede in un grave deficit di regolazione delle emozioni che tendono così a manifestarsi con eccessiva intensità nell’esperienza del soggetto.

Il paziente vive spesso con rabbia immotivata e intensa, oscillazioni dell’umore, confusione dei legami affettivi, paura esagerata dell’abbandono. Queste esperienze emotive intense e caotiche rendono il soggetto vulnerabile e lo stato di malessere derivante può portarlo a far ricorso alle droghe, all’alcool o alle abbuffate di cibo, oppure può riuscire ad inibire totalmente, in alcuni casi, l’intera esperienza delle emozioni, con la conseguenza di sperimentare inquietanti sensazioni di vuoto e di annichilimento (Linehan, 1993a, 1993b). Secondo la teoria di Linehan, il deficit del sistema di regolazione delle emozioni è causato dall’interazione fra variabili legate al temperamento, che comportano una risposta emotiva intensa e rapida (vulnerabilità emotiva), e variabili legate all’apprendimento sociale da cui deriva il valore e il significato delle emozioni che il soggetto sperimenta.

Queste variabili apprese prendono il nome di “invalidazione dell’esperienza emotiva“: l’ambiente interpersonale entro cui il paziente sviluppa la conoscenza di sé e degli altri sarebbe tale da indurlo a destituire di significato e di valore le emozioni che percepisce in sé e che osserva negli altri (Linehan, 1993a, 1993b).

Il protocollo DBT prevede due tipologie di percorso terapeutico che vengono svolte contemporaneamente e che sono inscindibili l’uno dall’altro:
– un percorso terapeutico individuale in cui terapeuta e paziente discutono questioni sorte durante la settimana, riportate su un apposito diario, e seguono una gerarchia di obiettivi comportamentali. I comportamenti suicidari hanno la priorità, poi vi sono i comportamenti che interferiscono con la terapia, e i comportamenti autolesivi. Dopodiché si passa alle problematiche sulla qualità di vita per lavorare per il miglioramento globale della vita del paziente. Durante la terapia individuale, terapeuta e paziente lavorano per potenziare l’uso delle abilità, ponendo l’attenzione sulle difficoltà nell’uso delle abilità medesime.
– una modalità di gruppo che prevede lo svolgimento di una seduta di psicoterapia di gruppo una volta alla settimana: per circa due ore o due ore e mezza si impara in gruppo ad utilizzare abilità specifiche suddivise in quattro moduli: abilità chiave mindfulness, abilità di efficacia interpersonale, abilità di regolazione emotiva e abilità di tolleranza della sofferenza mentale o angoscia.

Nessuna delle due componenti terapeutiche è utilizzata senza l’altra: la componente individuale è ritenuta necessaria anzitutto per affrontare individualmente gli impulsi suicidari e altri comportamenti problematici disfunzionali (e affinché non interferiscano in modo distruttivo con le sedute del gruppo), mentre la terapia di gruppo insegna le abilità caratteristiche della DBT e sono un terreno di prova per mettere in pratica la regolazione di emozioni e comportamenti in un contesto sociale.

La DBT integra tecniche cognitivo-comportamentali tradizionali con pratiche mindfulness finalizzate agli obiettivi di:
– regolazione emotiva;
– esame di realtà: possono essere presenti derealizzazione, depersonalizzazione. Il soggetto viene messo in condizione di correggere tali distorsioni cognitive;
– consapevolezza del proprio disagio;
– tolleranza della sofferenza e dell’angoscia.

La DBT ha dimostrato diverse prove di efficacia: ad esempio nello studio di Linehan, Comtois, Murray e altri (2006) i pazienti sottoposti a DBT hanno avuto maggiori riduzioni dei tentativi di suicidio, giorni di ricovero psichiatrico, minor rischio suicidario; parimenti hanno dimostrato una riduzione del comportamento aggressivo, e del numero di visite al pronto soccorso, comparati a pazienti trattati con TBCE (Treatment- By-Community-Expert) durante il trattamento di 12 mesi e il periodo di follow-up di 12 mesi.
In uno studio condotto da Linehan, Armstrong e Suarez et al. (1991) sono stati sottoposti a psicoterapia standard CBT (Cognitive Behavioral Therapy) e DBT due diversi gruppi di pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità dal quale è emerso che i soggetti trattati con terapia DBT presentavano minori comportamenti parasuicidari e un minor numero di ricoveri. Inoltre uno studio successivo da parte degli stessi autori (1999) ha messo in evidenza che la terapia risultava efficace anche con pazienti borderline con problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti, mettendo in luce che la psicoterapia DBT è stata in grado di ridurre l’uso di tali sostanze.

Di seguito vengono presentati i quattro moduli contenuti nel protocollo DBT, che mirano a raggiungere tali obiettivi. Tali moduli vengono presentati durante le sessioni di terapia di gruppo e vengono ripresi nella terapia individuale.

I QUATTRO MODULI PER L’APPRENDIMENTO DELLE ABILITA’ (SKILLS TRAINING) NELLA DBT

 

Mindfulness

La consapevolezza è uno dei concetti centrali che permea tutti gli elementi della DBT. La Mindfulness è la capacità di concentrare l’attenzione, in modo non giudicante, sul momento presente. La Mindfulness si gioca tutta nel vivere il momento presente, sperimentando pienamente le proprie emozioni e sensazioni, con prospettive per il futuro. È considerata un fondamento per tutte le altre abilità insegnate nella DBT, perché aiuta le persone a riconoscere, accettare e tollerare le emozioni (a volte anche devastanti) che generalmente provano nel mettere in gioco le loro abitudini o nell’esporsi a situazioni difficili. Il concetto di Mindfulness e gli esercizi di meditazione usati per insegnarla sono derivati dalla tradizionale pratica buddista, ma la versione che si impara in DBT non implica nessun concetto o aderenza religiosa.

 

Efficacia interpersonale

I modelli di risposta interpersonale insegnati come abilità nella DBT sono del tutto simili a quelli insegnati in molti corsi di assertività e di problem-solving. Includono le strategie efficaci per chiedere secondo i propri bisogni, per dire di no, e per gestire i conflitti interpersonali.
I pazienti spesso possiedono buone abilità relazionali in senso generale. Il problema sta nell’applicare queste abilità a situazioni specifiche oppure nell’incrementarle. Una persona può essere capace di descrivere sequenze comportamentali efficaci quando parla di un’altra persona che si trova in una situazione problematica, ma può essere completamente incapace di ricordare o mettere in atto tali comportamenti quando analizza la propria situazione.

Il modulo dell’efficacia interpersonale si focalizza su situazioni in cui l’obiettivo è di cambiare qualcosa (per esempio, chiedere a qualcuno di fare qualcosa) oppure di resistere ai cambiamenti che qualcun altro sta cercando di attuare (per esempio, dire di no). Le abilità insegnate intendono massimizzare le probabilità che in una certa situazione l’individuo raggiunga i propri scopi, senza allo stesso tempo né danneggiare se stesso o l’altro, né rinunciare al rispetto di se stesso.

 

Regolazione delle emozioni

Le persone con disturbo borderline di personalità spesso vivono emozioni disregolate che le portano ad essere arrabbiate, frustrate, depresse o ansiose. Ciò fa pensare ovviamente che questi pazienti possano trarre beneficio da un aiuto su come regolare le proprie emozioni. Le abilità della DBT per la regolazione delle emozioni prevedono che il soggetto sia in grado di identificare le emozioni, circoscriverne la vulnerabilità e aumentare gli eventi che portano emozioni positive, e regolarle in maniera efficace.

 

Tolleranza della sofferenza mentale/angoscia

Molti approcci dei moderni trattamenti psicologici si focalizzano sul tentativo di cambiare gli eventi e le circostanze stressanti. Poca attenzione è data all’ accettare, al trovare significati, al tollerare le situazioni altamente negative e la sofferenza ad esse correlata. La terapia dialettico-comportamentale pone enfasi sull’importanza di imparare a sopportare il dolore e l’angoscia con le opportune abilità.
Le abilità di tolleranza della sofferenza e dell’angoscia sono un naturale sviluppo delle abilità di Mindfulness che hanno a che fare con la capacità di accettare, in modo non giudicante e non valutante se stessi e le situazioni. Benché si parli di modalità non giudicante, ciò non significa che si approvi tutto o che ci si rassegni. L’obiettivo è acquisire la capacità di riconoscere le situazioni negative e il loro impatto, invece di esserne sopraffatti o di nascondersi da esse. Questo rende le persone in grado di prendere decisioni sagge su se stessi e come entrare in azione, invece di ricadere nelle reazioni emotive disperate e spesso deleterie che sono tipiche del disturbo borderline di personalità. I partecipanti imparano anche delle abilità per sopravvivere alle crisi, per riuscire a gestire subitanee reazioni emotive che sembrano travolgenti: l’abilità di distrarsi, di calmarsi, di migliorare il momento e di pensare ai pro e ai contro delle loro azioni.

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