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EABCT 2013 – Paul Salkovskis, workshop sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Report dal Congresso di Marrakesh EABCT 2013. Workshop di Paul Salkovskis sull'intervento cognitivo nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 27 Set. 2013

Aggiornato il 17 Set. 2014 12:42

EABCT 2013 MARRAKESH

Paul Salkovskis: workshop sul disturbo ossessivo compulsivo al congresso EABCT

EABCT 2013 Partecipare a un workshop di Paul Salkovskis sul trattamento dell’OCD qui a Marrakech, durante il congresso europeo della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), consente di capire meglio come avviene la terapia. E consente di farsi qualche domanda.

Per esempio, nel workshop emerge con chiarezza che l’intervento cognitivo tipico di Salkovskis è una lenta e accurata scoperta guidata del circolo vizioso dell’ossessivo, il quale è ossessivo perché guarda ai suoi pensieri  con già in mente la sua stessa responsabilità.

Questo lo sapevamo in astratto. E in concreto? In concreto Salkovskis fa una sorta di ABC (ma senza mai dire la parola “ABC” attenzione; in area Beck non si dice mai “ABC”) partendo da situazioni ossessive e poi, in maniera paziente (e ossessiva) disegnando molti schemi con il paziente su fogli e/o lavagne luminose, o utilizzando cartoncini e freccette (ci ha mostrato i video) e così lo induce lentamente (e un po’ anche per sfinimento) dapprima a volgere la sua attenzione dallo stimolo ossessivo di tipo contaminativo (“mi chiedo se i rubinetti siano puliti”) ai pensieri che sorreggono la valutazione di contaminazione (“potrebbero esserci germi e questi potrebbero uccidermi”), poi a spostarsi sulla compulsione (“devo pulire perfettamente”), poi a passare dalla compulsione al pensiero che la sorregge (“faccio questo per controllare/espiare/rimediare”) quindi dal pensiero che la sorregge alla valutazione di sé (“devo sempre controllare/espiare/rimediare perché sono responsabile”) e infine da questo pensiero auto-valutativo tornare alla situazione iniziale (“quindi appena vedo un rubinetto mi sento responsabile della sua pulizia”).

Sembra facile. In realtà il meccanismo va memorizzato in ogni sua parte e occorre addestrarsi a somministrarlo senza farsi distrarre dalle digressioni personali del paziente o di noi stessi. Capirlo leggendo un articolo o ascoltando una plenaria di un’ora è del tutto insufficiente.

Da questa insufficienza del capire sono nati sia il sempre maggiore irrigidimento addestrativo delle scuole di terza ondata, tutte molto focalizzate su corsi strutturati per livelli successivi a cui si accede preparando sedute registrate di cui si valuta l’aderenza al modello, sia il parallelo irrigidimento delle vecchie scuole di Ellis e Beck, anch’esse molto più severe di una volta e volte all’aderenza concreta, misurata su sedute registrate e non su lezioni teoriche frontali.

Mi chiedo: e la generazione di mezzo? I Salkovskis, i Fairburn, i Clark? Ho l’impressione che siano rimasti in una condizione intermedia. La loro natura di ricercatori universitari puri (a differenza di Beck, per non parlare di Ellis) rende loro difficile fondare delle scuole pratiche e addestrative secondo il modello di Ellis/Beck o, oggi, di Young o Wells.

L’Università, anche all’estero, rimane un centro di ricerca, non una scuola pratica e non sa e non può addestrare terapeuti. Non ci credete? Me lo conferma Maurice Topper, olandese. Mi ha detto oggi: dall’anno prossimo devo decidere se continuare a fare ricerca o diventare un vero terapeuta. Se faccio ricerca non posso, letteralmente, vedere pazienti. Voi in Italia come diamine fate? Mi chiede. Gli spiego che Studi Cognitivi non è un’università e mi sono beccato una lagna sul fatto che in Olanda le scuole di psicoterapia vere non  fanno ricerca, ecc. (gli studenti si lagnano sempre e sognano sempre paradisi all’estero, a quanto pare).

Ma torniamo a Salkovskis, Fairburn e Clark. I loro protocolli non sono diventati corsi addestrativi dettagliati alla Beck (o alla Young). La generazione di mezzo rischierà di rimanere schiacciata tra i grandi terapeuti del passato (Beck ed Ellis) e una nuova generazione che intende superare certi limiti scolastici della ricerca universitaria? Non per rinnegare la ricerca, ma per farne una più collegata a quello che davvero accade in seduta? Può darsi.

Intanto nel Workshop di Salkovskis c’erano varie cose non misurate nei suoi articoli. Non parlo solo dell’aderenza feroce e robotica (questa la ha misurata). Parlo anche del continuo pazientare, incoraggiare, motivare, stimolare. Qualcosa che va dalla “good practice” alla costruzione della relazione. Non è terapia? Può darsi. Intanto in un altro workshop mi dicono che Gilbert insiste su queste qualità del terapeuta cognitivo: attivo e paziente, tenace e incoraggiante, accogliente e motivante, in una parola: compassionevole. Qualità che per lui sarebbero il vero fattore terapeutico (ognuno si focalizza su un pezzo e dice che è l’unico che conta; vabbè).

Ma non c’è solo accoglienza. Alla domanda su cosa fare con il paziente ossessivo che capisce e non migliora, Salkovskis risponde: una forte analisi dei pro e dei contro dell’essere ossessivo e del non esserlo. Una feroce disanima dei danni economici, sociali e affettivi dell’essere ossessivo. Feroce sul serio. Un’aggressiva e vivida rappresentazione di quel che deve passare un figlio o un coniuge di un ossessivo, dei danni sul lavoro e degli amici persi per le proprie ossessioni. Fino a fare piangere il paziente. Per poi raccoglierlo, piangendo con lui (parole sue).

Ora, tutto questo è un’intervento di attivazione emozionale e di rottura/riaccoglimento interpersonale non da poco. Non è solo CBT. Che dice Salkovoskis di farci un po’ di ricerca sopra? Perché non basta lo schemino? Perché occorre, come dice lo stesso Salkovskis, andare “from head to heart”? Cos’è questa testa e questo cuore in termini scientifici? Delle due l’una. O si fa ricerca su tutto (e a maggior ragione su cose che si insegnano e si fanno in prima persona, e che quindi si pensa che partecipino all’efficacia dell’intervento). Oppure si costruisce un modello parzialmente vero, ma incompleto, e si sostiene che quel pezzo funziona, confermandolo con una ricerca inevitabilmente un po’ troppo confermativa.

Infine ci sarebbero altre considerazioni su come in Salkovskis il lavoro sul circolo vizioso prevalga sul lavoro alla Beck sulla distorsione della valutazione della realtà, e su come questa attenzione al circolo vizioso porti a un intervento neutro rispetto al contenuto dell’ossessione, e –infine- su come tutto questo vada in direzione di una terapia (e una teoria) del processo  e non del contenuto. Insomma dalle parti di Wells. Ma non del tutto. Salkovskis non ammetterà mai di essere un precursore di Wells, da lui cordialmente odiato. Anche l’aplomb inglese fallisce di fronte alla forza delle passioni. Questo mi dicono un paio di  millenni di saggezza mediterranea.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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