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Depressa da morire: è concepibile l’eutanasia per casi di depressione?

Dal 2002 in Belgio è stata legalizzata l'eutanasia e oggi ci si chiede se sia concepibile prevedere l'eutanasia anche per casi di depressione - Psicologia

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 29 Giu. 2015

Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo.

Entro la fine dell’estate una ragazza di 24 anni che chiameremo Elena morirà di depressione. In Belgio. Non si parlerà di tentato suicidio perché non ci sarà nulla di tentato, ci sarà anzi un’iniezione letale che le verrà somministrata in una stanza che Elena ha già scelto, così come i funerali e la bara.
Elena ha avuto una brutta storia, una brutta vita, niente di promettente. Come purtroppo se ne sentono diverse. Papà alcolista e violento, genitori separati e assenti, infanzia con i nonni e primi pensieri suicidari a soli 6 anni.

Elena però, intervistata, dice che non se la sente di attribuire le sue difficoltà alla sua storia familiare: secondo lei, semplicemente non ha mai voluto vivere e questo sarebbe successo a prescindere dalle difficoltà in casa. La vita di Elena prosegue poi costellata di ricoveri in diverse cliniche, tutti per depressione, tutti senza buon esito. Al chè, la ragazza inizia a pensare di avere dentro di sé qualcosa di strano, che non le permetterà mai di stare bene, o anche solo di stare meglio: di guarire non se ne parla neanche. Un giorno Elena viene a conoscenza della possibilità di praticare l’eutanasia non solo sui malati terminali, ci pensa e consulta diversi professionisti; dichiara che è stanca di combattere, che combatte quotidianamente da una vita, che questi 24 anni sono stati un’eternità, che è stanca. Tre diversi medici danno il loro parere favorevole a questa proposta e valutano Elena come perfettamente in grado di prendere questa decisione serenamente, come “persona equilibrata”, e secondo le procedure stabilite dalla legge le aprono le porte verso questa ultima decisione.

Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo. Negli anni i criteri della legge sull’eutanasia si sono aggiustati fino a consentire la morte non solo delle persone gravemente malate e in fin di vita, ma anche di quelle che “soffrono in modo insopportabile”.

Il problema è: cosa vuol dire “insopportabile”? La valutazione di “sopportabilità” fatta da una persona depressa è attendibile? D’altro canto, può una persona esterna valutare quanto una situazione emotiva interna a un altro individuo sia sopportabile? Quella di una persona depressa è una scelta libera o è dettata dall’umore?

Sono interrogativi difficili, che da una parte muovono la coscienza civile e morale e dall’altra ci spaventano perché ci fanno sentire la morte davvero molto a portata di mano. Quante volte un paziente depresso ci ha parlato di idee suicidarie o ha addirittura tentato di uccidersi? Quante volte poi abbiamo visto lo stesso paziente stare prima meglio, poi addirittura bene, aiutato dalla psicoterapia, dai farmaci e da un contesto di vita diverso?

E se lo stesso paziente avesse deciso per l’eutanasia proprio nel momento più nero, cosa sarebbe successo? Avrebbe gettato la spugna forse troppo presto, avrebbe seguito la mancanza di speranza e la difficoltà di progettazione che sono tautologicamente parte dello stato depressivo. Forse scegliere l’eutanasia per una persona depressa è frutto della patologia stessa, come per un paziente maniacale avere un senso esagerato di onnipotenza. E questo è un dato.

Poi però ci vengono in mente anche tutti quei pazienti che sono depressi in modo cronico, che nell’ipotesi migliore hanno un periodo di “minore sofferenza”, ma che davvero non possono dire di stare bene. Ecco, questi pazienti ci mettono più in crisi, perché non reagiscono in modo significativo alla terapia, come ai farmaci e a tutti i tentativi che i familiari o chi per loro possono fare. Per loro ha senso gettare la spugna? Soffrono in un modo diverso da come soffre un malato terminale?

Forse la parte che andrebbe maggiormente chiarita è quella che si riferisce alla lucidità della persona gravemente depressa, che ci porterebbe a valutare come attendibili le scelte compiute in uno stato emotivo che di per sé non porta all’attendibilità. Diciamo spesso ai pazienti che la depressione è una specie di occhiale scuro, che ci fa vedere tutto nero, cerchiamo di insegnare ai pazienti a prendere le distanze dalle proprie valutazioni, a non credere troppo ai loro pensieri che sono appunto frutto di una distorsione negativa e pessimista. Nel massimo rispetto della libertà individuale, bisognerebbe forse tenere a mente che anche la decisione di farla finita una volta per tutte, tramite l’eutanasia, è frutto dello stesso sistema di valutazione e decisione, e che gli occhiali neri ancora sono sul naso.

 

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Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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