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Alzheimer e suicidio assistito: togliersi la vita prima che sia la malattia a farlo

Viene narrata la storia di Sandy Bem, statunitense affetta da Alzheimer che vorrebbe andarsene alle sue condizioni. Psicologia

Di Valentina Davi

Pubblicato il 01 Giu. 2015

Tratto dall’articolo del New York Times “The last day of her life

 

La commovente storia di Sandy è stata pubblicata sul NY Times e vi consiglio di leggerla. È terribilmente simile a tantissime altre storie di chi si ritrova a dover fare i conti con una malattia mentale che in maniera inesorabile lo svuoterà lentamente e che vorrebbe andarsene alle proprie condizioni.

[blockquote style=”1″]Quando Sandy Bem scopre di avere l’Alzheimer decide che prima che la malattia le rubi completamente la mente si ucciderà. La domanda è: quando?[/blockquote]

Sandy Bem sta guardando un documentario della HBO, “The Alzheimer’s Project”, quando decide di provare su se stessa un semplice test di memoria proposto dall’esaminatore; il test consiste nell’ascoltare 3 parole, scrivere una frase su un foglio e poi ripetere le 3 parole. “Mela, tavolo, penny”, scandice l’esaminatore. Sandy scrive su un pezzo di carta “Sono nata a Pittsburgh”. Poi prova a ripetere le tre parole: “Mela, tavolo, …” Il vuoto.
Da 2 anni Sandy si è accorta di alcune stranezze cognitive: dimentica i nomi, confonde parole simili…

Un mese dopo le viene diagnosticato un moderato deterioramento cognitivo della memoria, spesso purtroppo anticamera dell’Alzheimer.
Sandy, 65 anni, una mente acuta sempre al lavoro, è terrorizzata. Non vuole diventare un guscio vuoto, incapace di ricordarsi nulla della propria vita; non vuole che la sua mente diventi una lavagna su cui pensieri e riflessioni si cancellano come con un colpo di spugna un attimo dopo. Sandy promette a se stessa che sarà lei a togliersi la vita prima che sia la malattia stessa a portargliela via.

Ma quando sarebbe stato il momento giusto? Sandy non vuole farlo né troppo presto né troppo tardi, bensì quando sarà ancora se stessa. Il dramma di Sandy infatti è che quando l’Alzheimer sarà conclamato, non sarà più in grado di farlo. D’altro canto, togliersi la vita quando ancora si è pienamente coscienti significa trovare il coraggio di compiere un gesto in un momento in cui si è ancora in grado e si ha ancora il tempo per godersi la vita e i propri cari. Sebbene l’Alzheimer abbia un andamento prevedibile, non è possibile sapere quanto tempo durerà ogni singolo stadio della malattia. L’unico desiderio di Sandy Bem è di scegliere quando andarsene, cercando di vivere la vita che le rimane il più intensamente possibile, ma senza procrastinare troppo in là il momento dell’addio con il rischio che poi sia troppo tardi per poterlo fare.

La vita si trasforma in un calvario, scandita da visite mediche, medicine e nuovi trattamenti costosissimi non coperti dall’assicurazione, nel vano tentativo di rallentare l’avanzata dell’Alzheimer. Passano quasi 5 anni e Sandy Bem è cambiata: lei che amava tanto leggere testi complessi ora non riesce più a seguire trame che non siano lineari. I film con flashback la confondono, ora riesce a guardare solo Mary Poppins. Suonare il piano diventa sempre più complicato fino a diventare impossibile, seduta sulla seggiola a fissare stranita i misteriosi tasti bianchi e neri. Un giorno la trovano in cucina: “Ho fame. Cosa faccio quando ho fame?

Il momento è giunto, Sandy lo sa e anche la sua famiglia, ma stabilire una data seduti attorno ad un tavolo è quanto di più straziante si possa fare. Come decidere quando dire addio alla propria mamma? Alla propria moglie?
“Quando ho detto che l’avrei fatto?” domanda Sandy.
“A giugno” Risponde il marito.
“Perché non le hai risposto agosto?!” urla la figlia.
“Quando ho detto che l’avrei fatto?” domanda Sandy, di nuovo.
“A giugno” Risponde il marito.
“…”
“Quando ho detto che l’avrei fatto?”

Due giorni prima della data stabilita amici e parenti si ritrovano a ricordare con Sandy la sua vita. Sandy Bem era una mente: psicologa americana, ricevette numerosi premi per le sue ricerche pionieristiche nel campo dell’androginia e degli studi di genere, tra cui l’American Psychological Association Distinguished Scientific Award per il suo contributo alla psicologia nel 1976, il Distinguished Publication Award dell’ Association of Women in Psychology nel 1977 e lo Young Scholar Award of the American Association of University Women nel 1980. Nel 1995 fu eletta “Eminent Woman in Psychology” dalla Divisione di Psicologia Generale e di Storia della Psicologia dell’APA, ma Sandy non lo ricorda. È una vita di cui lei ormai non ha più memoria, l’Alzheimer l’ha cancellata. “L’ho fatto davvero?” esclama compiaciuta ad ogni evento ricordato dai presenti. “L’ho fatto davvero?”

Sandy ha pianificato tutto per anni. Ha preparato un documento in cui scagiona amici, parenti e medici da eventuali accuse di complicità, un foglio su cui oltre ad apporre la propria firma avrebbe voluto scrivere le proprie riflessioni su quell’ultimo coraggioso, disperato gesto, ma l’Alzheimer si è portato via anche quei pensieri. Si è informata sui vari modi per togliersi la vita, perché negli USA l’eutanasia è legale in pochissimi stati, ma non per i casi di demenza. Sandy ha scelto una morte dolce, si è procurata dei barbiturici da accompagnare con un bicchiere di vino, per accelerarne l’effetto. Ma una volta preparati i 2 bicchieri non ricorda qual è la medicina e qual è il vino. Glielo indica con la morte nel cuore il marito. E così Sandy se ne va, scivolando in un sonno incosciente in cui il respiro rallenta finché alla fine si ferma.

Il dibattito attorno all’eutanasia e al suicidio assistito è argomento complesso e delicato. C’è chi per motivi etici, religiosi e di fede non vi ricorrerebbe mai, e chi invece non esiterebbe un solo istante, proprio come Sandy, la cui commovente storia, che vi consiglio di leggere, è stata pubblicata sul NY Times.

La sua storia è terribilmente simile a tantissime altre storie di chi si ritrova a dover fare i conti con una malattia mentale che in maniera inesorabile lo svuoterà lentamente e che vuole andarsene alle proprie condizioni.

Spesso le motivazioni che giocano un ruolo importante nella scelta di porre fine alla propria vita nei pazienti affetti da demenza riguardano le scarse prospettive di miglioramento, il prolungamento di una vita senza senso, la scarsa qualità di vita e la prevenzione di future sofferenze. Ma la capacità di decision making raramente è conservata nei pazienti con demenza in stadio avanzato; pertanto il momento in cui realizzare la volontà di morire spetterebbe ai familiari o ai medici (Chambaere K., 2015) con tutto il fardello, la responsabilità e le difficoltà legate all’eutanasia. Invece nei casi di demenza precoce ci si ritroverebbe a dover assecondare la volontà di morire di una persona che si trova nel momento presente in condizioni “non gravi”, ma che in futuro, quando lo sarà, non sarà più in grado di compiere tale scelta.

A febbraio il Journal of Medical Ethics (Bolt E.E. et Al., 215) ha pubblicato un sondaggio condotto tra il 2011 e il 2012 su un campione casuale di 2500 medici nei Paesi Bassi, in cui suicidio assistito ed eutanasia sono legali anche in caso di malattia mentale. Dal sondaggio è emerso che più dell’80% dei medici prenderebbe in considerazione l’eutanasia per casi di tumore o malattia fisica, ma solo il 30% per malattie mentali. Inoltre 4 su 10 sarebbero pronti ad aiutare a morire persone affette da demenza ad uno stadio precoce, ma solo 1 su 3 lo farebbe per qualcuno in fase di demenza avanzata, anche nel caso in cui il paziente abbia lasciato precedenti indicazioni in merito.

Se eutanasia e suicidio possono apparire gesti comprensibili nei casi di malattie terminali quali cancro oppure malattie fisiche, in cui si tratta di anticipare una fine inevitabile alleviando così la sofferenza e il dolore del paziente che lo richiede, nei casi di malattie mentali il dibattito si fa molto più complesso e si incontrano molte più resistenze.

Considerando che “la popolazione anziana è in continua crescita nel mondo e la speranza di vita aumenta con ritmo costante” e che “numerosi studi epidemiologici internazionali prevedono, nel 2020, un numero di casi di persone con demenza di oltre 48 milioni, che potrebbe raggiungere, nei successivi venti anni, una cifra superiore agli 81 milioni di persone” (Fonte: Ministero della Salute), è plausibile pensare che in futuro dovremo confrontarci sempre più con casi simili a quello di Sandy che non potranno essere più a lungo ignorati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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Valentina Davi
Valentina Davi

Coordinatrice di redazione di State of Mind

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