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Comportamenti autolesivi: strategie per sopravvivere

I comportamenti autolesivi sono frequenti nei pazienti con disturbo borderline di personalità e si associano alla disregolazione emotiva - Psicoterapia %%page%%

Di Ivana Bernardotti, Chiara Polizzi

Pubblicato il 30 Ott. 2015

Aggiornato il 05 Dic. 2018 11:46

Chiara Polizzi, Ivana Bernardotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

L’atto autolesionista assolve a funzioni differenti: le più accreditate concernono una strategia di regolazione emotiva, una forma di autopunizione “appresa” a causa di un contesto di vita criticista e invalidante, e ancora, un tentativo di uscita da stati dissociativi.

[blockquote style=”1″]Stavo in piedi nel bagno, mi guardavo allo specchio, ma non mi riconoscevo. Era la mia faccia quella che mi guardava ma la mia anima non c’era. Per me quello era solo un corpo e non sentivo di farne più parte. Sentivo di aver perso il controllo dei miei pensieri, delle mie azioni e delle mie emozioni. E quando perdi del tutto controllo, cosa ti resta? Vidi i rasoi che i miei tenevano nell’armadietto dei medicinali. Sembrava avere senso allora anche se non so esattamente perché. In seguito, più tagliavo e più capivo perché.[/blockquote] Da “Un urlo rosso sangue” di Marilee Strong.

Tagliarsi, bruciarsi, grattarsi o graffiarsi fino a far uscire il sangue. Sono solo alcuni esempi di quello che oggi sembra essere un fenomeno largamente e pericolosamente diffuso, soprattutto in fascia adolescenziale. Se ne parla sui blog, sui social network e si pubblicano video su youtube. Non appaiono i volti, appaiono scritte, pensieri, grida di aiuto con l’intento, forse, di condividere quella che è per lo più una sofferenza privata, tenuta segreta, per la paura di essere giudicati, non capiti, presi in giro.

Che cos’è l’autolesionismo?

Gli ultimi 15 anni hanno conosciuto un’esplosione di ricerche sull’argomento dell’autolesionismo. L’autolesionismo non suicidario, in generale, può essere definito come la deliberata e diretta alterazione o distruzione dei propri tessuti corporei in assenza di un reale intento suicidario (Favazza,2012).

Si individuano, in letteratura, diverse forme di comportamenti autolesivi, le quali si differenziano soprattutto per la gravità dell’atto verso se stessi; esclusi i rari casi di mutilazione grave (tipica, appunto, di pazienti con diagnosi nell’area psicotica o con severo ritardo mentale), le forme più frequenti concernono l’autolesionismo definito “leggero” (che si manifesta col tagliarsi, bruciarsi, strapparsi i capelli, ferirsi, ecc.) e il cosiddetto autolesionismo “latente”, il più subdolo in quanto nascosto e presente in ulteriori forme di sofferenza psicologica (tossicodipendenza, bulimia, attività fisica eccessiva, ecc.).

L’autolesionismo sembrerebbe coinvolgere fino al 20/30 % degli adolescenti (nonostante il sommerso possa essere molto più elevato), con esordio intorno ai 12-14 anni e in proporzione quasi equivalente tra i due sessi (Whitlock, Eckenrode, Silverman, 2006; Klonsky, 2011) sebbene a differenziarsi siano i metodi d’elezione: le donne sono difatti più propense a tagliarsi, gli uomini preferiscono colpirsi o bruciarsi (Klonsky, Muehlenkamp, 2007). La letteratura sembra dimostrare che l’adolescente ricorra più frequentemente rispetto che all’adulto a metodi multipli (Briere e Gil, 1998; Herperts, 1995). Si rileva inoltre una significativa associazione fra l’autoferirsi e la presenza di emotività negativa, ansia, depressione e, in particolare, disregolazione emotiva.

Autolesionismo, Self-Harm: come viene diagnosticato?

Negli ultimi anni, si è compiuto il tentativo di sviluppare modelli concettuali e clinici per poter meglio comprendere e trattare tale problematica.
Ci si è domandati se l’autolesionismo non suicidario possa essere considerato un sintomo, parte di un quadro di personalità più ampio, o se si debba invece considerare come una categoria diagnostica a sé.

Nel DSM-IV (APA, 2000) l’autolesionismo è incluso fra i sintomi del disturbo borderline di personalità: “ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento auto mutilante”. Tuttavia, sebbene alcune ricerche abbiano confermato l’esistenza di una forte relazione fra l’autolesionismo e questo disturbo di personalità (Klonsky, Oltmanns e Turkheimer, 2003; Stanley, Gameroff, Michalsen e Mann, 2001; van der Kolk, Perry e Herman, 1991; Zlotnick, Mattia e Zimmerman, 1999), anche pazienti che ricevono altre diagnosi sembrano procurarsi ferite in modo intenzionale e deliberato.

In particolare, soggetti affetti da depressione maggiore, disturbi d’ansia, abuso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare, disturbo da stress post-traumatico, schizofrenia ed altri gravi disturbi di personalità (Haw, Hawton e Townsend, 2001; Herpertz, Sass e Favazza, 1997; Klonsky et al. 2003; Zlotnick et all. 1999).

In aggiunta, studi recenti hanno indagato l’esistenza o l’assenza di un’associazione fra l’autolesionismo intenzionale e i gesti parasuicidari e suicidari. È stato inizialmente ipotizzato che tali comportamenti possano collocarsi lungo un continuum. Tuttavia, i gesti autolesionistici non suicidari ed i gesti parasuicidari sembrerebbero differire per alcuni punti importanti, fra cui il ricorso a metodi differenti, gli esiti fisici di diversa gravità (maggiore per i gesti parasuicidari e suicidari) e la diversa intenzionalità (l’autolesionismo non suicidario è frequentemente messo in atto in assenza di ideazione suicidaria).

Tale distinzione risulta essere il punto di partenza per la proposta avanzata nell’attuale manuale diagnostico (DSM-5, 2013): l’autolesività non suicidaria potrebbe essere concepita come una categoria diagnostica a sé stante. I criteri proposti nell’attuale manuale diagnostico difatti includono:

A. Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).
B. L’individuo è coinvolto in attività autolesionistiche con una o più delle seguenti aspettative:
1. Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi
2. Risolvere una difficoltà interpersonale
3. Indurre una sensazione positiva
C. L’autolesività intenzionale è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:
1. Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.
2. Prima di compiere il gesto, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere
3. Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto.

Ulteriori ricerche si rendono, pertanto, necessarie per confermare o meno questa recente proposta.

Autolesionismo: perchè ci si autoferisce?

Nel 2007 Klonsky passa in rassegna diciotto studi, comprensivi di self-report e studi di laboratorio, sulle motivazioni e sulla fenomenologia dell’autolesionismo al fine di meglio comprendere il fenomeno e le funzioni cui risponde (ne individua 7). I risultati suggeriscono il ricorso all’autolesionismo primariamente come strategia di regolazione emotiva, al fine di alleviare emozioni negative acute e ridurne l’arousal. I risultati ottenuti da Klonsky rimandano al seguente modello di funzionamento:
– un’emozione negativa acuta tende a precedere la messa in atto del gesto autolesivo;
– l’autoferimento determina una riduzione dell’emozione negativa ed una sensazione di sollievo;
– l’intenzione principale della messa in atto del gesto è il fronteggiamento e la riduzione dell’emozione negativa;
– la riduzione dell’emozione negativa e dell’arousal, conseguente al gesto autolesivo, emerge anche negli studi di laboratorio.

Uno studio condotto nel 2012 da Martorana si propone inoltre di indagare il ruolo che i vissuti traumatici, l’attaccamento, oltre che la disregolazione emotiva, hanno nello sviluppo di comportamenti di autoferimento: l’esito della ricerca sembra dimostrare che, a compromettere le capacità di regolazione delle emozioni, siano soprattutto esperienze a contenuto traumatico vissute durante l’infanzia, nonché uno stile di attaccamento di tipo insicuro o disorganizzato, che comporterebbe anche l’insorgenza di sintomatologia dissociativa e tratti alessitimici; un quadro sintomatologico che, spesso, può essere inscritto all’interno di una diagnosi di disturbo borderline di personalità.

A tale proposito, Marsha Linehan teorizza, all’interno della propria teoria bio-sociale del disturbo borderline di personalità, che l’invalidazione precoce da parte del proprio ambiente di crescita, (l’ “ambiente invalidante”), può farsì che il bambino non sia in grado di apprendere strategie funzionali di coping finalizzate al riconoscimento e alla conseguente regolazione delle emozioni, o apprenda strategie inadeguate. Forti evidenze empiriche vanno a sostegno degli interventi che hanno come specifico focus il miglioramento delle abilità di regolazione emotiva, come appunto la DBT (Linehan, 1993).

Nel 2014, Andover e Morris hanno pubblicato una review finalizzata a raccogliere le evidenze empiriche che vanno a sostegno della funzione di regolazione emotiva dei gesti autolesivi. Gli autori mettono in luce come non solo l’autolesionismo contribuisca alla riduzione di un’emozione negativa, ma tenda parallelamente a produrne una positiva. Tali effetti rinforzano il ricorso al comportamento stesso (Jenkins e Schmitz, 2012).
Inoltre, coloro che si ingaggiano in condotte autolesive, riportano maggiori tratti di disregolazione emotiva alla DERS e ciò emerge tanto in campioni clinici quanto nella popolazione generale (Bedi et al, 2013; Gratz et al., 2010).

[blockquote style=”1″]Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi. [/blockquote] scrive Marilee Strong in “Un urlo rosso sangue”.

Vi sono, parallelamente, evidenze a favore di una funzione autopunitiva assolta dall’autolesionismo. Sulla base dell’analisi condotta, Klonsky rileva, talvolta, la presenza di rabbia auto-diretta e desiderio di autopunizione in coloro che si procurano lesioni.

Uno studio condotto da Glassman et al. nel 2007 ha messo in evidenza l’esistenza di una relazione fra abusi emotivi subiti nell’infanzia ed il successivo ricorso a condotte autolesive. Tale relazione sembrerebbe essere mediata dallo sviluppo di uno stile cognitivo di auto-criticismo. Gli autori ipotizzano che adolescenti che hanno sviluppato tale stile cognitivo potrebbero ingaggiarsi in condotte autolesive come forma di autopunizione. Le limitazioni metodologiche dello studio condotto rendono, tuttavia, necessarie ulteriori ricerche in tale direzione.
Un’evidenza modesta emerge, infine, per funzioni quali: uscita da stati dissociativi, tentativo di influenzare il contesto interpersonale, evitamento del suicidio, ricerca di sensazioni intense e definizione dei confini interpersonali.

La relazione fra le differenti funzioni non è tuttora stata chiarita.

Autolesionismo: un’ ipotesi di trattamento

Sintetizzando quanto descritto sul fenomeno, l’atto autolesionista assolve a funzioni differenti: le più accreditate concernono una strategia di regolazione emotiva, una forma di autopunizione “appresa” a causa di un contesto di vita criticista e invalidante, e ancora, un tentativo di uscita da stati dissociativi.
Queste evidenze portano a interrogarsi sulla forma di trattamento più funzionale in presenza di condotte analoghe.

Stando a quanto sostenuto nella ricerca condotta da Harrington & Saleem (Harrington, R., Saleem, Y, 2002), l’approccio cognitivo comportamentale sembra essere élitario per la progressiva riduzione e, addirittura, per la prevenzione di sintomi autolesivi nei pazienti di Asse I che presentano questi tratti (ad esempio, gravi depressi, pazienti con DCA, ecc.).
Questo perché la CBT non solo pone attenzione sugli aspetti irrazionali e cognitivi dei pensieri negativi che precedono l’atto autolesivo, ma si compone anche di moduli prettamente comportamentali: le tecniche di problem solving possono essere utili nell’aiutare gli adolescenti ad affrontare gli stress che si associano al Deliberate Self Harm, mentre le tecniche cognitive possono essere particolarmente utili nel caso in cui al tentativo di suicidio sia associata una diagnosi in Asse I.
Nonostante questo, nei pazienti con disturbo di personalità, un approccio “razionalistico” non è affatto sufficiente: nel 1993, Marsha Linehan propone un modello che, attingendo da varie tecniche trattamentali, punta a migliorare le competenze di problem solving e regolazione emotiva del paziente, ponendo l’accento sui principi di accettazione e cambiamento. Si tratta della Dialectical Behaviour Therapy (DBT); tale approccio è stato validato tramite ulteriori ricerche: James e altri (James et al., 2008) hanno osservato come la dialettica comportamentale diminuisca il ricorso a gesti autolesivi in pazienti adolescenti di entrambi i sessi. Ancora, Klonsky (2007), nella sua review, dimostra come le terapie che si fondano sull’empatizzare con le difficoltà nella regolazione emotiva del paziente e sull’incremento di strategie di problem solving, risultino maggiormente efficaci nel trattamento del self-harm.

Il modello DBT prevede, nello specifico, il ricorso a setting multipli di trattamento: individuale, gruppo di skill training (alla presenza di conduttore e co-conduttore), coaching telefonico e gestione del caso in équipe.
Secondo M. Linehan la partecipazione alla terapia individuale è requisito fondamentale per il trattamento ed il terapeuta individuale si configura come il principale referente del paziente all’interno dell’équipe di lavoro; la terapia di gruppo, dall’impronta maggiormente psicoeducazionale, vi si affianca. Le procedure di skill training vengono utilizzate nei casi in cui il paziente non possieda nel suo repertorio comportamentale le abilità necessarie per risolvere un problema (Linehan, 2011) e si articolano in quattro moduli:
–   abilità nucleari di Mindfulness, considerate essenziali nel perseguire l’integrazione di quelle che Linehan definisce “mente razionale” e “mente emotiva” e nel pervenire in modo dialettico alla “mente saggia”;
–   abilità di regolazione emotiva;
–   abilità di efficacia interpersonale;
–   abilità di tolleranza della sofferenza mentale e dell’angoscia, tesa al perseguimento della capacità di percepire il proprio ambiente senza pretendere che sia diverso, di esperire il proprio stato emotivo senza tentare di modificarlo e di osservare i propri pensieri e le proprie azioni senza cercare di controllarli.

Numerosi studi sembrano inoltre confermare che approcci psicoterapici strutturati e focalizzati sulla relazione terapeutica cooperativa, sulla motivazione e sulla spinta al cambiamento, sembrano essere i più efficaci per il trattamento dei comportamenti autolesivi nella popolazione clinica (Turner et al., 2014).

Pare dunque certificato che questi presupposti siano essenziali allo scopo trattamentale, vengano essi inscritti in un quadro DBT, o siano invece parte di approcci differenti: tra questi, si annoverano la Dynamic Decostructive Psychotherapy, gruppi di auto-mutuo aiuto incentrati sulla regolazione delle emozioni, alcune terapie farmacologiche che intervengono sugli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.
Altri approcci, tra cui quello cognitivista improntato sulla regolazione emotiva proposto da Gross (1998) hanno una buona applicabilità nel trattamento del comportamento autolesivo: il modello prevede molti degli aspetti tipici della DBT standard, integrati con tecniche immaginative e specifici training mirati non solo alla riduzione della carica negativa di eventi spiacevoli, ma anche all’incremento e all’intensificazione dell’emozione piacevole in caso di eventi di vita altrettanto positivi (Andover et al., 2014).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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