expand_lessAPRI WIDGET

Ricordo di Bernie Carducci

È mancato domenica 22 settembre Bernardo “Bernie” Carducci, professore di psicologia all’Università dell’Indiana Southeast e studioso della timidezza, di cui aveva disegnato un modello cognitivo rigoroso e diffuso in un libro pubblicato nell’anno 2000 con Susan Golant.

Nel 1997 aveva fondato lo “Shyness Research Institute”, sempre nella sede dell’Indiana University Southeast, per promuovere la comprensione psicologica della timidezza.

Il modello di Bernardo Carducci si muoveva nell’area della psicologia dell’accettazione –anche se la terminologia che lui usava era più tradizionale- e infatti il suo scopo era di aiutare i timidi a diventare “successful shy”, timidi di successo, ovvero senza negare la loro natura ma valorizzandola. Valorizzando quindi la tendenza all’introversione come sensibilità introspettiva e la difficoltà a relazionarsi come capacità di stabilire contatti intimi e profondi, sebbene meno abbondanti rispetto agli estroversi. Il suo lavoro psicologico aveva anche dei correlati clinici nell’area dell’ansia sociale.

Oltre il suo libro principale sulla timidezza aveva poi scritto numerosi altri volumi e manuali di auto-aiuto, sempre nell’area della timidezza. Inoltre Carducci era anche uno studioso della personalità e aveva scritto un volume di teoria generale della personalità pubblicato nel 2009.

Timidezza definizione componenti cognitive e trattamento - Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia
Prof. Bernardo Carducci con alcuni colleghi di Studi Cognitivi, Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), Milano 2015

Ricordiamo “Bernie” Carducci anche perché aveva collaborato con noi e con gli istituti dove lavorano molti colleghi del nostro gruppo professionale. Proprio questa estate abbiamo concluso un articolo scritto con lui –naturalmente sulla timidezza- in quella che forse potrebbe essere stata la sua ultima pubblicazione scientifica.

Lo avevamo conosciuto a Honolulu, al congresso del 2013 dell’American Psychological Association, l’APA, e lo avevamo intervistato. Oltre a condividere con noi gli interessi scientifici, Carducci era anche appassionatamente affezionato a noi come recupero di quelle che lui chiamava le sue “roots”, essendo lui molto orgoglioso delle origini italiane della sua famiglia. Scherzosamente diceva anche che la sua speranza era di essere un discendente di Giosuè Carducci.

 


Articoli di Bernie Carducci per State of Mind:

Shyness – Is being introverted the same of being shy? – A lesson from Bernardo Carducci

 

Bernardo Carducci on the distinction between shyness and social anxiety

Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti – Recensione del libro

È legittima la contraccezione e l’uso di pratiche anticoncezionali per limitare il numero di nascite e giovare al benessere fisico, psichico ed economico della società? Se sì, come mai in passato è stato considerato illegittimo?

 

Indossare un preservativo o assumere la pillola anticoncezionale sono gesti che oggi ci appaiono a dir poco scontati. In realtà condom, pillola, spirale, diaframma sono molto più che semplici mezzi contraccettivi: sono simbolo di emancipazione femminile e sociale. Rappresentano l’emancipazione della donna dall’unico ruolo riconosciutole per molto tempo dalla società, quello di madre, e rappresentano la possibilità di vivere una vita sessuale libera e (si spera) appagante, svincolata dalla procreazione.

In Italia la diffusione dei mezzi anticoncezionali è il risultato di una lunga battaglia iniziata a cavallo tra Ottocento e Novecento all’interno di una società profondamente bigotta e moralista. Matteo Loconsole nel suo breve saggio Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti ne ripercorre le origini, approfondendo in maniera molto accurata, anche grazie a una corposa ricerca bibliografica, gli accesi dibattiti che infiammarono il nostro Paese su temi quali igiene sessuale, contraccezione, controllo responsabile delle nascite, prevenzione sessuale, evidenziandone le contraddizioni e le ipocrisie.

Storia della contraccezione in Italia: il saggio si articola in tre capitoli

Il primo capitolo è dedicato alla cosiddetta questione neomalthusiana che interessò l’Italia risorgimentale: rispetto alle classi sociali più abbienti quelle più povere tendono a mettere al mondo più figli, determinando un peggioramento della propria qualità di vita, già minata da peggiori condizioni economiche, igieniche, sanitarie, limitato accesso alle risorse, ridotte prospettive lavorative, aumentato tasso di mortalità, ecc. Da qui il quesito: è legittimo l’uso di pratiche anticoncezionali per limitare il numero di nascite e giovare al benessere fisico, psichico ed economico della società? Se sì, come mai in passato è stato considerato illegittimo?

La risposta la troviamo nel secondo capitolo del saggio Storia della contraccezione in Italia. Loconsole analizza le contraddizioni e le ipocrisie che hanno caratterizzato il dibattito in Italia, mostrandoci come qualsiasi tipo di “indagine scientifica del corpo e della sessualità umani, imperando una morale di stampo spiritualista, fosse additata come oltraggiosa, immorale e, soprattutto, anticristiana”, tanto da considerare l’educazione sessuale alla stregua della pornografia; inoltre ci illustra come i risultati della scienza venissero piegati alla morale del tempo per dimostrare l’inferiorità della donna rispetto all’uomo e ribadirne il ruolo di sola “fattrice”.

Il terzo capitolo, infine, si concentra sulla fondazione nel 1913 de “L’educazione sessuale”, la rivista di divulgazione neomalthusiana rivolta al popolo, che osò “sfidare la morale consolidata” del tempo, “facendosi però scudo di un discorso che fosse il più scientifico possibile”. Tale rivista ebbe infatti il merito di rendere libera e pubblica la discussione sulla sessualità, sulla procreazione consapevole e il controllo delle nascite; un dibattito che abbiamo la possibilità di rivivere grazie a stralci di articoli che riportano le riflessioni e i punti di vista di orientamenti di pensiero differenti, un vero e proprio tuffo nel passato.

L’importanza della pedagogia sessuale e di un’istruzione sessuale scolastica, così come la promozione di un cambiamento culturale che riconoscesse alle donne “gli stessi diritti concessi all’uomo dalla cultura” (affrontando tematiche quali l’adulterio, il divorzio, la libertà di procreazione) sono solo alcuni degli interessanti temi trattati.

Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti non solo ci restituisce un pezzo di storia dell’Italia poco conosciuto, ma ci spinge inevitabilmente a riflettere sulla situazione italiana odierna:

[…] potremmo, nel momento presente, dire con sincerità di esserci del tutto emancipati da quell’ingombrante bagaglio di pregiudizi culturali che, tra Otto e Novecento, ostacolarono una libera e pubblica discussione scientifica? – si domanda Loconsole.

In un paese in cui l’educazione sessuale resta ancora un tabù, la risposta, purtroppo, appare scontata.

Il caso LumiDolls – Ci si può innamorare di una bambola?

Creata da una società catalana, LumiDolls ha in programma di espandersi all’estero ed ha già attivato una nuova filiale a Mosca.

 

“La chiamavo Arisa. E di quella bambola mi ero innamorato”. Inizia così la lettera scritta da Alfredo e pubblicata da CronacaQui Torino.

La storia di Alfredo è passata quasi sotto silenzio: nelle testate giornalistiche nazionali non c’è traccia di questa piccola notizia, forse di poca importanza rispetto agli articoli acchiappalike su gattini e scie chimiche ai quali siamo abituati. A parte il giornale locale di Torino, le parole commosse di Alfredo sono state lette da Giuseppe Cruciani – durante una puntata del suo talk show, La Zanzara – con un velo di ironia, certamente, ma dimostrando la sua attenzione alle notizie nemiche della banalità.

Ma parliamo di Alfredo e cerchiamo di contestualizzarlo.

Lunedì 3 settembre è stata inaugurata, nel quartiere Mirafiori del capoluogo piemontese, LumiDolls, la prima casa di appuntamenti in Italia con le bambole del sesso. Creata da una società catalana, LumiDolls ha in programma di espandersi all’estero ed ha già attivato una filiale a Mosca. Nel nostro Paese, invece, oltre a Torino, ha ricevuto domanda di aprire case di appuntamenti per bambole in più di altre 150 città italiane. Dopo poche settimane – nonostante il boom delle prenotazioni che ha portato il tutto esaurito fino a novembre – LumiDolls Torino è stata chiusa per esercizio abusivo dell’attività di affittacamere. Gli ispettori dell’Asl, inoltre, hanno giudicato insufficiente il livello di igienizzazione delle bambole.

Perchè ha avuto tanto successo LumiDolls? Da dove nasce il bisogno di una sex doll?

Mettendo da parte problematiche legali ed amministrative, ci interessa capire perché oggi molti di noi abbiano bisogno di una sex doll, perché sia un fenomeno in aumento, perché si preferiscano loro agli esseri umani.

La lettera scritta da Alfredo ad una di queste bambole prosegue così:

Mi ricordava tanto la mia adorata moglie. Lei è malata. Io cercavo un po’ di felicità. Arisa aveva gli occhi dolcissimi, i capelli folti e ondulati che le cadevano quasi a nascondere i seni. Timida, timidissima. Mi sembrava quasi imbarazzata nel trovarsi lì, di fronte a me. Eravamo in una stanza con le pareti bianche, anonima e un po’ fredda. Me ne sono innamorato all’istante perché mi ricordava lei, giovanissima, quando ci parlavamo d’amore, tanto tempo fa. Lei che adesso è un povero passero ferito, che la malattia sta divorando.

Istintivamente, quando leggiamo queste parole, pensiamo che Alfredo sia un folle. Non è possibile innamorarsi di un oggetto. È vero, ma la storia di quest’uomo è significativa.

Quando una coppia smette di comunicare, smette di amarsi. Un dipinto di Magritte, intitolato Gli amanti, raffigura due innamorati che si baciano con il volto coperto da un panno bianco. È un amore muto incapace di un linguaggio diverso da quello del corpo.

“Tutti ci sentiamo soli, uomini e donne, in coppia e non”, sostiene la giornalista Antonella Boralevi, che suggerisce un’antica soluzione, sempre efficace: parlare. Anche quando sembra di aver detto tutto, il confronto verbale è terapeutico.

Alfredo, come tanti altri, cercava un intrattenimento sessuale, ma non solo. E sono sempre più numerosi gli uomini che si sentono a disagio quando hanno di fronte una vera donna. La bambola allora diventa un sostituto perfetto: non fa domande, non giudica, non tradisce e non perde neppure tempo, perché non lavora e non si concede svaghi. Ma c’è di più. La bambola non invecchia, non ingrassa, insomma, non cambia mai. Ed è forse del cambiamento e dell’emancipazione che gli uomini hanno più paura oggi.

Secondo la dottoressa Laura Cacicco, iscritta all’Ordine degli Psicologi della Lombardia:

La riduzione delle interazioni e della condivisione, ed anche dello scontro che la vita di coppia comporta, sembra essere positivo per queste persone che ricercano una relazione unilaterale, dove emerge la necessità di espressione dei loro bisogni ed esigenze, senza che vi sia un confronto con l’altro.

Ma la vita richiede sempre un pizzico di coraggio. Relazionarsi con una persona in carne ed ossa può comportare inquietudini, paura di non essere all’altezza, scontri per opinioni diverse. Ma ne vale la pena. Come diceva il grande filosofo Giacomo Leopardi, “L’ansia è della vita, la quiete è della morte”.

Ridurre a vizio un bisogno dell’uomo, affettivo o sessuale, sarebbe comunque riduttivo. Via via che la società va avanti – è convinta la sessuologa Rosamaria Spina – le parafilie aumentano. Ne nascono sempre di nuove, legate alle tecnologie. E ormai sappiamo che parafilia non vuol dire sempre patologia. Non è detto che chi usufruisca di questo servizio abbia necessariamente dei disagi psicologici. Si può fare per curiosità, per divertimento, per ravvivare un menage diventato monotono. Oppure, come nel caso di Alfredo, per solitudine.

Oggi avevo prenotato due ore con lei e le avevo portato un piccolo dono: un foulard colorato per il suo viso pallido – così si conclude la lettera, apparsa sul giornale locale e commentata da Cruciani – e invece sono qui, a vagare per strada, dopo il sequestro che mi ha straziato il cuore. Vorrei ritrovare il mio amore silenzioso. Per me non è un oggetto.

Spoiler – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 41

Attenzione! Spoiler, spoiler, spoiler! Il rischio di spoiler oggi sembra essere una delle minacce più pericolose che possano capitarci… ma in realtà poi cosa succede?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Spoiler (Nr. 41)

 

La mia avversione per i termini inglesi mi ha tenuto finora lontano dalla comprensione del termine spoiler che restava nell’area indefinita ma densamente popolata delle cose che non s’hanno da fare e che, essendo in qualche oscuro modo collegato al parlar troppo, mi riguardava direttamente.

L’orgoglio mi tratteneva dal chiederne il significato ai figli, sempre in agguato con lo sberleffo sulla pronuncia anglosassone, e così ho riesumato il metodo prepuberale quando per cercare di capire come nascessero i bambini azzardavo ipotesi a partire dalle barzellette e dalle allusioni degli adulti. Con il risultato allora di sottrarmi agli sbaciucchiamenti dei parenti in nome di una paternità responsabile. In seguito neppure i sei anni di medicina hanno connesso saldamente il trombare, attività dalle molte cause e dai molti scopi, con la gravidanza, che continua a sembrarmi un effetto collaterale più o meno desiderato.

Le prime intuizioni partirono dall’affermazione del figlio più grande rivolta al piccolo “in questa puntata Karl muore!” fatta con la faccia soddisfatta da dispetto definitivo. Per la cronaca Karl non morì affatto ma da allora “Karl muore” è diventato una sorta di tormentone che segnala la volontà di rovinare un godimento tanto atteso.

Col tempo il termine spoiler è entrato nel linguaggio pubblicitario di “Cielo a richiesta” ( trad. it.) e non ho potuto non capire che significasse rovinare la sorpresa di come andranno le cose svelandone l’esito. Ho anche scoperto che su internet esiste anche una sorta di galateo su ciò che si può e non si può dire rispetto a film, libri, serie tv (le più a rischio), eventi sportivi, con anche una serie di consigli maligni di “come dire senza dire”, “come utilizzare il non verbale e lasciar intuire”.

Perchè lo spoiler ci dà così fastidio?

Tornando in un terreno più familiare mi chiedo quale sia il danno che produce lo spoiler per rilevare quanto diversi, se non opposti, possano essere gli atteggiamenti umani.

Personalmente sapere come va a finire non mi priva di alcun piacere ed anzi, eliminando quella piccola quota d’ansia legata all’incertezza mi permette un godimento estetico più pieno. Per non parlare  del fatto che, ad esempio in un giallo, sapendo già chi è l’assassino mi accorgo per tempo di tutti gli indizi in tal senso e mi sento perciò se non intelligente almeno furbo perché, si sa, agli storici tutto torna perfettamente e colgono nessi di causalità e necessità che invece non sono affatto evidenti prima, quando si fanno previsioni che non tengono conto di quel signore che vorremmo ignorare perché sfugge al nostro controllo e si chiama “Caso”.

Lo spoiler più importante dell’esistenza pone fine all’età dell’innocenza quando a motivo di un animale domestico, di un nonno, o peggio, scopriamo come la vita va a finire sempre e comunque.

Da allora parte l’atteggiamento ambiguo di voler sapere e non sapere contemporaneamente. Vogliamo sapere altrimenti non avrebbero senso gli oroscopi, le zingare che leggono la mano, i veggenti, tutte le religioni, ma anche le analisi cliniche, le risonanze magnetiche, Standard &Poors, Fitch, Moody’s. Però nessuna deve essere assolutamente certa, lasciandoci l’illusione che le cose andrebbero in quel modo se non ci fossimo noi, che invece sapendolo preventivamente faremo in modo… di scongiurarlo o di accelerarlo? Ci vorrebbe un’altra previsione per saperlo.

Questa prospettiva dello spoiler ci fornisce anche un’altra chiave di lettura dei conflitti generazionali

Noi vecchi siamo lo spoiler dei nostri figli che vedono in noi come andranno a finire (mio nonno, che mi sembrava vecchissimo quando era più giovane di me adesso e al quale allora non mi sembrava affatto di somigliare e adesso sono uguale, diceva che prima di fidanzarsi bisognava andare a vedere la madre e la nonna della ragazza perché “se tanto mi da tanto…”). Al contrario, da parte nostra anche vedere il prequel dalle mille promesse e speranze che non saranno mantenute può essere irritante o triste.

Ora mi viene da immaginare una storia dove un gruppo di terroristi riesce a penetrare nel cavau al centro della terra dove sono custoditi gli spoiler della vita di ciascuno (mi rendo conto solo ora che un racconto sullo stesso tema lo scrissi a vent’anni, lo ricopio alla fine) e con in mano quest’arma tenta di asservire l’umanità. Naturalmente fallisce sia perché i cattivoni non devono vincere mai, almeno nelle realtà che ci inventiamo, e secondo perché la conoscenza del finale suscita reazioni diverse.

C’è chi si dispera e vuole lasciarsi morire o uccidersi ma ovviamente non riesce perché altrimenti contraddirebbe lo spoiler stesso.

C’è chi diventa un eroe e sprezzante di ogni pericolo si batte per cambiare il mondo, o non perde nessuna occasione di godimento, certo che nulla potrà fargli male, e non sa che sarà una stupida salmonella nel tiramisù dell’Hotel Splendid di Amalfi a scioglierlo a 85 anni suonati nella tazza del cesso dove alloggerà col prestigioso “centro anziani parioli di Roma”.

I più continuerebbero la vita di tutti i giorni  assaporando la ciccia e sputando le spine e ai terroristi riderebbero in faccia dicendo “lo sapevamo già”.

In effetti  questa è una vicenda reale avvenuta nel 987 in Turchia quando l’umanità era presa dalle paure millenaristiche e se ne è ritrovata traccia solo nel 1945 quando furono scoperti i corpi dei terroristi nella meravigliosa Cisterna basilica di Istanbul. Sembra che trovato l’archivio per prima cosa iniziarono a spoilerarsi reciprocamente l’esistenza ma, al contrario dei miei figli, erano armati.

Comunque Karl è morto come è inveterata usanza di tutti i viventi.

Ma sì, certo, tranne noi.

Ecco il racconto dei vent’anni: Lo scherzo di Calcantera

I  primi anni del regno del giovane Carlo corsero felici e rapidissimi, come quei periodi di serenità di cui ci si avvede soltanto quando sono passati.

Tutta la corte viveva in un clima di festa nell’attesa di un futuro sempre migliore che sembrava a portata di mano; lo stesso Carlo sembrava aver dimenticato le parole del padre morente che lo avevano, per la prima volta, messo al corrente della leggenda (ma sarà poi solo leggenda?) che tutti sapevano e tacevano e solo lui, principe ereditario, ignorava fino a quel momento.

Del resto Carlo era sì un re ma era soprattutto un ventenne ed a quell’età non si pensa a tali cose se non in certi pomeriggi piovigginosi di novembre, quando, il freddo e la morte ti afferrano, magari solo per un istante, lo stomaco.

La leggenda che il re padre aveva raccontato a Carlo sul letto di morte voleva che per ogni regnante che succedeva sul trono, esisteva un suddito che era a conoscenza della data esatta della morte del nuovo re. Il padre disse ancora a Carlo che lui aveva per tutta la vita allontanato questo pensiero, anche se negli scantinati dell’anima era sempre rimasto come un tumore non debellato che non gli aveva permesso di assaporare appieno il gusto di una vita giusta e piena di soddisfazioni.

Ancora più improbabile era stato il confuso racconto che il padre aveva fatto circa l’origine di tutta la vicenda; egli sosteneva infatti che tale maledizione provenisse direttamente da un demonio, detto Calcantera, piuttosto altolocato nella gerarchia infernale, che circa quattrocento anni prima albergava in una grotta sul fondo del fiume Tinna che attraversa tutto il regno, dalla quale venne fatto brutalmente sloggiare, con grande sollievo della popolazione tutta, grazie ad un’idea geniale del loro avo  Agostino III che fece benedire il fiume trasformandolo in un fiume di acqua santa e il lago Tuttatinna in una sorta di gigantesca acquasantiera. Calcantera che per poco non morì sul colpo, conservò addosso un tale odore di acquasanta che divenne insopportabile a tutti gli altri diavoli e, persi tutti i suoi privilegi, fu relegato ai più umili servizi infernali tra la derisione generale.

Lucifero tuttavia, memore dei meriti del suo sfortunato collaboratore, ormai per sempre inutilizzabile dato quell’orribile odore di sacrestano che aveva, gli concesse di organizzare questo scherzetto ai danni dei successori di AgostinoIII, ben sapendo quanto gli uomini temano di conoscere l’ora della propria morte pur essendo questa l’unica certezza della vita. Tuttavia non poteva, neppure Lucifero in persona, andare contro la regola generalesche il Buon Dio aveva messo, sapendo quanto penosa sarebbe stata la vita dei suoi figli se avessero conosciuto il tempo esatto che è dato loro: tale regola vieta all’uomo di sapere quando sarà il suo momento. Lucifero, però, aggirò l’ostacolo perché la data della morte del re sarebbe stata conosciuta da un altro.

Carlo, con la sfrontatezza dei giovani che credono di essere quelli che finalmente risolveranno ogni problema, decise di prendere il toro per le corna e inviò i suoi gendarmi per tutto il reame a rintracciare con la lusinga di una grossa ricompensa, “colui che sapeva”. Furono necessari mesi e mesi di ricerche, e non ci fu affatto, come re Carlo temeva, chi si facesse avanti, magari pur non sapendo un bel niente: alla gente questa storia non piaceva, anzi aveva paura e cercava in ogni modo di allontanare da sé qualsiasi sospetto.

La grossa ricompensa si trasformo in una taglia; iniziarono le spiate, Re Carlo non sopportava più che “colui che sapeva gli sfuggisse, ciò era una ulteriore riprova delle sue cattive intenzioni.

Quando glielo portarono in catene Carlo provò un senso enorme di sollievo e quasi rise delle sue passate preoccupazioni. Si trattava di Arturo, un carrettiere basso, giallognolo, grasso a tal punto da muoversi con difficoltà e soprattutto quasi analfabeta.

Re Carlo volle rimanere da solo con Arturo e gli spiegò come lui stesso in persona si sarebbe occupato con amore del mantenimento dei suoi figli dopo che la sua testa fosse caduta sotto l’ascia del boia mettendo fine a questa incresciosa storia.
Carlo spiegò al carrettiere che non ce l’aveva affatto con lui personalmente che anzi era conosciuto per essere un suddito fedele, ma che era costretto ad ucciderlo perché se Arturo, magari per cattiveria o per trarne vantaggio, o anche solo perché impazzito o ubriaco avesse parlato con altri, i suoi oppositori si sarebbero enormemente avvantaggiati dal conoscere il tempo della sua morte; se invece avesse parlato con il re stesso gli avrebbe rovinato l’esistenza, oscurandola con quella consapevolezza tanto gravosa all’animo umano.

Arturo con calma e umiliandosi della sua misera condizione spiegò al Re come lui fosse l’unico suddito della cui salute sua maestà si sarebbe dovuto preoccupare per prolungargli al massimo la vita, Infatti se la maledizione di Calcantera voleva che ci fosse sempre un suddito a conoscenza della data della morte del re evidentemente tale suddito, lasciò intendere con un certo imbarazzo e quasi scusandosi, doveva vivere sicuramente più del re; altrimenti quel “sempre almeno uno” non sarebbe stato rispettato.

Arturo aggiunse che sua maestà poteva certamente fargli tagliare la testa, ma, per non morire anch’egli un istante prima, doveva prima permettere a lui di comunicare il suo segreto ad un altro e così il problema non sarebbe stato risolto ma solo spostato, a meno che uno dopo l’altro non avesse tagliato la testa a tutti i suoi sudditi; fino a rimanere in vita solo lui e l’ultimo dei suoi sudditi, detentore del segreto e destinato a vivere più del re e probabilmente desideroso di vendicarsi per la strage e con un’arma terribile a disposizione: la parola.

Da quel momento qualcosa si ruppe definitivamente dentro l’animo spavaldo di re Carlo e sul suo viso iniziarono a marcarsi i segni degli anni: si era cacciato in una situazione da cui non poteva tornare indietro, la spensieratezza era irrimediabilmente perduta.

Arturo intanto si stabilì a corte ed era oggetto di ogni cura per ordine dello stesso re Carlo, che voleva essere costantemente informato sulla sua salute e sul suo umore. In poco tempo perse i modi da carrettiere, acquistò un linguaggio forbito e, rivestito dal sarto reale, non sembrava più lo stesso: sì, sempre piuttosto basso, ma quasi bello. Di giorno in giorno le sue richieste al re aumentavano. Aveva iniziato col chiedergli un cavallo ed il re gli aveva dato il migliore, ma lui, non contento, quasi per un capriccio, aveva preteso quello del re stesso. Intendiamoci nel chiedere non aveva affatto modi arroganti, anzi si scherniva, si scusava ed il più delle volte non chiedeva neppure ma si limitava a far capire che si, insomma, avrebbe gradito. Il cavallo era stato il primo passo, poi volle palazzi e ville in campagna, le donne più belle e persino la preferita di re Carlo. Voleva partecipare a tutte le manifestazioni a fianco del re e Carlo non osava mai dirgli di no sebbene la sua esistenza fosse divenuta un inferno insopportabile dal quale non vedeva via d’uscita e che reputava la meritata punizione per il suo orgoglio giovanile.

Un giorno la possibile via d’uscita gliela suggerì involontariamente lo stesso Arturo che ormai despota incontrastato del palazzo reale chiese a Carlo di fargli provare la corona durante una festa di gala. La notte stessa Carlo mise a punto il suo piano che gli parve geniale. In piena notte svegliò personalmente il primo ministro ed il suo vecchio confessore, un vecchio frate che aveva battezzato Carlo ed era stato per lui un secondo affettuosissimo padre. Si trattava in sostanza di abdicare in favore di Arturo con la sola clausola  che alla morte di questi la corona sarebbe tornata sul capo di Carlo. Arturo diventato re, avrebbe conosciuto l’ora della sua morte e tale insopportabile pensiero l’avrebbe rapidamente condotto a morte per crepacuore.

I tre ragionarono attentamente per cogliere eventuali falle del piano; non c’era dubbio che Arturo era destinato a conoscere l’ora della morte del re, cioè di colui che regnava in quel momento e quindi in quel caso di se stesso. Il frate sollevò perplessità circa il fatto che la morte di Arturo potesse essere anticipata proprio dalla conoscenza della data di tale morte: come era possibile che un evento fosse causa della modificazione di se stesso? Come sarebbe potuto morire subito Arturo per aver saputo che sarebbe morto tra tre anni? Infatti, se fosse morto subito si sarebbe dimostrata falsa la sua conoscenza circa la data della morte e dunque egli effettivamente non sapeva esattamente quando sarebbe morto, ma solo che ciò sarebbe accaduto come tutti noi.

La mattina Arturo che dormiva nella stanza più bella di tutta la reggia fù svegliato dal rullio del tamburo del banditore che proclamava ad ogni angolo, nelle piazze, nelle frazioni del regno sparse sulle colline come margherite in un prato che re Carlo aveva abdicato in suo favore. Nello stesso momento in cui si rendeva conto di essere diventato Re Arturo I, la primavera che prepotentemente entrava dalla sua finestra si raggelò e perse di significato e colore e con lo sguardo fisso in cielo che gli parve per sempre grigio, Arturo vide con certezza quando a lui toccava morire.

Un altro al suo posto sarebbe sicuramente morto di crepacuore, ma il suo animo di carrettiere, abituato alla fatica e al dolore, il suo passato di offese e umiliazioni lo avevano temprato anche a vivere con la morte nel cuore. E così visse.

Carlo costatato il fallimento del suo piano e la sua cattiveria per aver prima rifiutato l’insegnamento del padre, poi sfidato Calcantera ed alla fine aver rovinato la vita al carrettiere, si pentì amaramente e rinunciato al diritto di rientrare in possesso del suo regno, si ritirò in preghiera in una grotta del monte Sutinna dove fu presto dimenticato da tutti.

Per trent’anni Arturo regnò con la morte a fianco e tutto il reame divenne triste e lugubre: non più feste, non più allegria. Tutte queste cose erano punite con ferocia estrema dal re che invidiava con malvagità ogni suo suddito che poteva sorridere ignaro della propria morte.

Dopo trent’anni Arturo sentì di essere enormemente stanco e chiese aiuto al giovane cappellano di corte: era disposto a tutto pur di togliersi quel pensiero che lo tormentava.

Il giovane prete disse che personalmente non poteva far nulla ma sapeva di un vecchio eremita che viveva da sempre sulla montagna ed a cui erano attribuiti tanti miracoli.

Re Arturo si vestì da penitente e da solo si avviò alla montagna. Quando furono faccia a faccia i due vecchi non si riconobbero ma provarono entrambi un enorme struggimento.

L’eremita sedette, prese tra le mani la testa di Arturo in ginocchio di fronte a lui e asciugandogli le lacrime lo invitò a confessare a Dio ogni sua pena per liberarsene. Arturò singhiozzo e parlo per ore e solo quando disse a Carlo la data della sua morte si senti liberato, dimenticò tutto, gli sembrò persino che quei trent’anni di sofferenza non fossero mai esistiti.

Passarono alcuni mesi felici e rapidissimi di cui ci si avvede solo quando sono passati. Una mattina il cappellano per rassicurare ancora di più re Arturo disse che doveva star certo  che il vecchio eremita non avrebbe rilevato a nessuno la data della morte del re e che… Arturo impallidì, non capiva… quale eremita?

Si fece spiegare tutto dal riluttante cappellano che si era nel frattempo reso conto di aver combinato un guaio gravissimo: il re non ricordava più perché l’uomo non può sapere di aver saputo una cosa che non sa più.

Ascoltato tutto il racconto piombò su di lui l’inferno, non trovando più pace inviò i suoi gendarmi per tutto il reame a rintracciare “colui che sapeva”; gli avrebbe fatto tagliare la testa e tutto si sarebbe sistemato.

Quando gli condussero dinanzi in catene il vecchio Carlo, questi si mostrò calmissimo ed iniziò a spiegargli perchè non gli avrebbe mai fatto tagliare la testa ed anzi…

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Disturbi della coscienza e grave cerebrolesione acquisita: classificazione e strumenti di valutazione

Con il termine Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) si intende un danno cerebrale dovuto a trauma cranio-encefalico o ad altre cause quali di tipo vascolare, anossico, infettivo o comunque da noxae acquisito, che determina una condizione di coma più o meno protratto, con durata superiore alle 24 ore. I pazienti in seguito a GCA presentano spesso alterazioni dello stato di coscienza

Francesca Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

William James (1980) definisce la coscienza come la “consapevolezza di sé e dell’ambiente che ci circonda”; circa tre quarti di secoli dopo Jannett e Plum (1972) scindono il concetto di attivazione dalla consapevolezza e coniano il termine “stato vegetativo persistente”.

Con “stato vegetativo persistente” riferirsi alla stato di veglia senza consapevolezza (wakefulness without awarness); Plum (1994) aggiunge alla definizione la dimensione temporale “una consapevolezza temporalmente ordinata del sé e dell’ambiente interno ed esterno”.

La coscienza: cos’è

La definizione di coscienza di Cohadon e Salvi (2003) la caratterizza come la

consapevolezza di sé, degli altri, dell’ambiente che ci circonda, quindi essere ‘presenti’ per sé e per gli altri, rispondere agli stimoli.

Essa è riferita sia alla qualità soggettiva dell’esperienza (e in quanto tale non risulta esplicitamente accessibile all’osservazione) che alla consapevolezza di sé e dell’ambiente, e quindi valutabile dal comportamento da essa determinato. La coscienza comprende due componenti:

  • lo stato di veglia, identificato dall’apertura degli occhi
  • il contenuto, identificato con i processi superiori: intelligenza, linguaggio, memoria, affettività.

Lo stato di veglia può essere presente in assenza di qualsiasi contenuto, mentre il contenuto richiede lo stato di veglia per poter essere operativo (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

La Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA)

Con il termine Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) si intende un danno cerebrale dovuto a trauma cranio-encefalico o ad altre cause quali di tipo vascolare, anossico, infettivo o comunque da noxae acquisito (Regione Lombardia, 2011), che determina una condizione di coma più o meno protratto, con durata superiore alle 24 ore, espresso con un punteggio globale alla Glasgow Coma Scale iniziale uguale o inferiore a 8. A tale stato si associano menomazioni sensitivo-motorie, cognitive o comportamentali che possono determinare una disabilità severa (Apolone et al., 2007).

I pazienti in seguito a Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) presentano spesso alterazioni dello stato di coscienza e il cammino verso il recupero presenta modalità e tempistiche molto variabili tra un caso e un altro: per alcuni soggetti il recupero procede molto lentamente, per altri invece emerge una fase di stabilizzazione in seguito ad un iniziale periodo di miglioramento; altri ancora modificano la condizione di coma ma non danno segni di coscienza (Regione Lombardia, 2011). Ne deriva una doverosa necessità di stabilire dei criteri che consentano di definire i possibili scenari e margini di miglioramento: nonostante vi siano evidenze di recupero tardivo superiore ad un anno, non è possibile stabilire dei confini temporali precisi oltre i quali un paziente è da ritenersi in una condizione di non ulteriore evolutività (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

La coscienza nel coma

Si parla di stato di Coma come condizione clinica caratterizzata da assenza di apertura degli occhi, assenza di produzione verbale comprensibile, assenza di risposta al comando (Teasdale & Jennett, 1974). Il coma rappresenta quindi lo stato contrario alla coscienza e in questo stato entrambe le sue componenti, ossia stato di veglia e contenuti, sono assenti (Inzaghi & Sozzi, 2011) .

La condizione di Stato Vegetativo (SV) viene definita dalla Consensus Conference di Verona 2005 e ripresa nelle “Linee di indirizzo sugli stati vegetativi e di minima coscienza”, approvate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 5 maggio 2011. Lo Stato Vegetativo è quindi una condizione clinica di recupero della vigilanza (apertura degli occhi) senza capacità di interazione con l’ambiente circostante. Vi è quindi recupero dell’arousal ma non della consapevolezza di sé e dell’ambiente (Bodart et al., 2013). Il passaggio tra coma e SV è dato dall’apertura degli occhi (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

Come da linee guida Nazionali sopra richiamate, la condizione di Stato Vegetativo è caratterizzata da:

  • nessuna evidenza di coscienza-consapevolezza di sé o dell’ambiente e incapacità ad interagire con gli altri
  • nessuna evidenza di risposte sostenute, riproducibili, finalizzate e volontarie, a stimoli visivi, uditivi, tattili o nocicettivi
  • nessuna evidenza di comprensione del linguaggio altrui o produzione verbale
  • veglia intermittente manifestata da cicli sonno; veglia sufficiente
  • funzionamento del sistema autonomo ipotalamico e vegetativo che consente la sopravvivenza in presenza di adeguate cure mediche e assistenza infermieristica
  • incontinenza urinaria e fecale
  • preservazione variabile dei riflessi spinali dei nervi cranici (pupillare, oculocefalico, corneale, vestibolo oculare, del vomito)
  • assenza di evidenza di importanti funzioni cognitive

La persona in Stato Vegetativo quindi giace, apparentemente incosciente, anche se può presentarsi ad occhi aperti; mostra in genere funzioni cardiocircolatorie e respiratorie, termoregolazione, funzioni renali e gastrointestinali sufficientemente conservate, sono possibili alterazioni anche marcate ma generalmente dovute a insufficienza d’organo per verosimili complicanze correlate; la persona necessita di supporto nell’alimentazione, che avviene in genere per via enterale o parenterale; mostra alla TC e alla RMN correlati neuronali descrivibili come segni più o meno marcati di danno focale o diffuso (Regione Lombardia, 2011). Monti, Laureys e Owen (2010) parlano di SV persistente se della durata superiore ad un mese, SV permanente se la durata è superiore a sei mesi nel caso di lesioni cerebrali non traumatiche, superiore ad un anno per lesione traumatiche. Recenti lavori hanno proposto di sostituire il termine di SV con quello di “sindrome da vigilanza senza risposta” (Unresponsive wakefulness syndrome) che meglio descrive la condizione clinica, allontanando dall’associazione paziente-vegetale (Bodart et al., 2013).

Lo stato di minima coscienza

Per Stato di Minima Coscienza (SMC) si intende una severa alterazione della coscienza in cui sono documentabili, anche se in modo incostante, comportamenti che esprimono consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante (Giacino et al., 2002). Gli autori propongono i segni su cui si basa la presenza di coscienza, per la quale devono essere presenti uno o più dei seguenti segni:

  • risposta a ordini semplici, risposte verbali o gestuali (indipendenti dall’accuratezza della risposta)
  • verbalizzazione comprensibile comportamenti finalizzati che occorrono in risposta a stimoli ambientali rilevanti
  • appropriato riso e pianto
  • vocalizzazioni o gesti significativi in diretta risposta a stimoli verbali o domande raggiungimento di oggetti con presa adeguata alla dimensione e alla forma dell’oggetto
  • movimenti oculari di inseguimento o fissazione sostenuta in diretta risposta a stimoli salienti o in movimento

Nel lavoro di Bodart e collaboratori (2013) viene inoltre proposta una suddivisione tra SMC “plus”, in cui sono presenti segni di coscienza di alto livello come esecuzione di comandi, verbalizzazioni intellegibili e risposte gestuali o con codice binario si/no, e SMC “minus”, le cui risposte più elementari sono rappresentate dall’osservazione di movimenti oculari di inseguimento in risposta a stimoli salienti, capacità di orientarsi verso gli stimoli nocivi, presenza di movimenti o risposte emozionali appropriate allo stimolo ambientale (sorriso o pianto in risposta a stimoli o temi emotivi oppure vocalizzazioni o gesti in risposta al contesto linguistico o a domande). Il gruppo di lavoro Aspen individua la presenza di una possibile borderzone tra SV e SMC, data dall’osservazione dei primi segni di fissazione e accenno inseguimento (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

La Locked-in Syndrome

Si parla di emergenza dallo stato di minima coscienza quando è possibile rilevare segni di comunicazione funzionale ed efficiente, quindi appropriata, e l’uso degli oggetti con finalità funzionale, comportamenti finalizzati e in generale dimostrazione consistente di comportamento volitivo (Bodart et a., 2013). La comunicazione può manifestarsi con verbalizzazioni, scrittura, segni di uso di codice binario si/no, uso di strumenti di comunicazione aumentativa (Giacino et al., 2002). In particolare, alla valutazione clinica effettuata tramite la scala Coma Recovery Scale – Revised (Lombardi et al., 2007) vengono rilevate risposte accurate si/no alle sei domande di orientamento rispetto alla situazione, appartenenti al protocollo per le valutazione della comunicazione.  L’uso funzionale degli oggetti richiede un uso corretto di due differenti oggetti per due valutazioni consecutive, in cui i movimenti eseguiti dal soggetto devono essere compatibili con la funzione specifica di ciascuno dei due oggetti (ad esempio, il pettine è portato alla testa o vicino ad essa) (Lombardi et al., 2007). L’esito può comportare una grave disabilità acquisita o evolvere in un buon recupero funzionale (Bodart et a., 2013).

Una situazione critica è rappresentata dalla sindrome Locked-in (LIS Locked-In Syndrome): classicamente i pazienti in questa condizione presentano la maggior parte delle funzioni cognitive preservate, ma output motori pressoché nulli a causa della lesione a livello del tronco encefalico, fatta eccezione per i movimenti oculari (Bodart et a., 2013; Gosseries et al, 2009). Il paziente è “bloccato” nel suo corpo, capace di  percepire l’ambiente circostante ma estremamente limitato nell’interagirvi. Bauer e collaborati (1979) hanno inoltre suddiviso una forma classica di LIS, in cui si riscontra una totale immobilità fatta eccezione per movimenti oculari lungo l’asse verticale e di ammiccamento; una forma incompleta, in cui sono preservati alcuni movimenti volontari e una forma totale, in cui il soggetto si trova completamente immobilizzato compresi i movimenti oculari, con consapevolezza preservata. Questi pazienti sono difficili da diagnosticare, spesso vengono erroneamente considerati in coma o SV: difatti clinicamente è complicato identificare chiari segni di percezione cosciente dell’ambiente, spesso i movimenti oculari possono essere erroneamente interpretati come movimenti riflessi.

Grave Cerebrolesione Acquisita: l’importanza della diagnosi corretta

Nonostante la presenza di raccomandazioni, linee guida e criteri clinici per la classificazione diagnostica, la valutazione del livello di responsività dei gravi cerebrolesi risulta ancora problematica, con percentuali di errore e misdiagnosi che possano variare fino al 48% (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).  Per valutare il livello di responsività è necessario difatti che il soggetto non sia in grado di rilevare e comprendere quello che gli viene richiesto, ma che possegga altresì repertorio motorio e/o comunicativo sufficiente per elaborare una riposta adeguata. Questi due processi di analisi dell’input e produzione a qualsiasi livello di un output possono essere ostacolati dalla presenza di deficit sensoriali (vista/udito), motori, cognitivi (afasia) o da terapie farmacologiche in atto, cui si aggiungono le fluttuazioni nei livelli di vigilanza e di attenzione; tutto ciò può confondere nella valutazione (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).  Studi recenti dimostrano l’efficacia di affiancare alla valutazione clinica anche altri strumenti di indagine, per esempio la tomografia a emissione di positroni (PET) sembra essere uno strumento promettente nella valutazione delle possibilità di recupero dello stato di coscienza in pazienti gravemente cerebrolesi (Mancioppi, 2014).

Per quanto concerne le scale cliniche di valutazione, Inzaghi, Sozzi e collaboratori (2012) le suddividono in 4 gruppi sulla base delle loro caratteristiche. Al primo gruppo appartengono le scale descrittive, facili e rapidi da somministrare e caratterizzate da criteri tassonomici da applicare all’osservazione clinica del paziente; tali scale si dimostrano tuttavia poco sensibili ai cambiamenti minimi dello stato di coscienza e non sono in grado di evidenziare le sottili modificazioni del quadro nel passaggio tra i vari stati di coscienza alterata a causa di un’eccessiva ampiezza delle categorie di punteggio. Tra queste le più utilizzate in Italia sono:

  • Glasgow Coma Scale (GCS) (Teasdale & Jennet, 1974; Jennet & Teasdale, 1981)
  • Levels of Cognitive Functioning Scale (LCFS) (Hagen et al, 1972; Hagen 1997)
  • Disability Rating Scale (DRS) (Rappaport, et al., 1982)

Per quanto concerne la Glasgow Coma Scale (GCS) essa fornisce in brevi tempi indici del livello di vigilanza del soggetto su tre livelli di osservazione che sono l’apertura degli occhi, la risposta motoria e il comportamento verbale. Il punteggio massimo assegnabile con questa scala per indicare la condizione di SV è 10.

Attraverso la Levels of Cognitive Functioning Scale (LCFS) è possibile effettuare una buona descrizione durante il monitoraggio del paziente, sebbene presenti ridotta sensibilità nella variazione dei cambiamenti.

Attraverso la Disability Rating Scale (DRS) è possibile valutare la presenza di disabilità su una scala di punteggi da 0 (nessuna disabilità) a 29 (stato vegetativo grave) suddivisa per 4 categorie di cui vigilanza e responsività, abilità cognitive per la cura di sé, dipendenza dagli altri e partecipazione sociale

Al secondo gruppo appartengono quelle scale che implicano la somministrazione di stimolazioni e l’analisi delle risposte, che tuttavia non consentono di diagnosticare il passaggio da SV a SMC e da SMC a stato di coscienza:

  • Coma/Near Coma Scale (C/NC Scale) (Rappaport et al, 1992)
  • Western Neuro-Sensory Stimulation Profile (WNSSP) (Ansell & Keenan, 1989)
  • Lowenstein Communication Scale for the Minimally Responsive Patient (LCS) (Borer-Alafi et. al, 2002)
  • Disorders of Consciousness Scale (DOCS) (Pape et al., 2005a; 2005b)
  • Sensory Modality Assessment and Rehabilitation Technique (SMART) (Gill-Thwaites, 1997)

In particolare, focalizzandosi sulla Coma/Near Coma Scale (C/NC Scale) essa valuta in tempi ridotti e con minimo impegno del paziente le risposte del paziente con stimolazioni riguardanti diverse modalità sensoriali (verbali, uditive, visive, tattili, nocicettive, olfattive). Nonostante rappresenti un buono strumento per il monitoraggio, utilizza definizioni desuete e soprattutto non risulta adeguata in presenza di deficit cognitivi ‘focali’ e/o motori. La condizione di SV corrisponde ai livelli 2, 3 e 4, mentre i criteri diagnostici per lo SMC coincidono con il livello 1 della scala.

Al Terzo gruppo fa parte l’unica scala che tiene conto delle raccomandazioni dell’Aspen Workgroup, ossia la scala Coma Recovery Scale – Revised (Giacino et al., 2004, versione italiana Lombardi et al., 2007), che attualmente si configura come l’unico strumento che includa i criteri diagnostici attuali (SV-SMC). È costituita da subscale indaganti le funzioni uditiva, visiva, motoria, oro-motoria e verbale, di comunicazione e di vigilanza. Non esistono punteggi totali che permettano una diagnosi di stato ma punteggi parziali. Per ciascuna scala poi è possibile individuare comportamenti compatibili con SV, SMC o Emergenza da SMC.

Al quarto gruppo appartiene l’unica scala reperita, Preliminary Neuropsychological Battery – PNB (Cossa et al. 1999), somministrabile ai pazienti già responsivi ma che per la loro gravità ancora non sono valutabili con test psicometrici strutturati.

Come sintesi di questa approfondita analisi, gli autori concludono che attualmente la CRS-R consente di diagnosticare in modo attendibile le variazioni del paziente, ciononostante anche tale scala  la presenza di deficit cognitivi, motori e sensoriali può inficiare la rilevazione dei dati; sarebbe quindi opportuno sviluppare strumenti cale che contengano indicatori utili per la fase acuta ma che possano esaminare l’evoluzione nel tempo e che consentano diagnosi anche in presenza di potenziali deficit motori, sensoriali e cognitivi (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

Coscienza e grave cerebrolesione acquisita classificazione e valutazione Tabella

Fonte: LINEE DI INDIRIZZO PER IL PERCORSO DIAGNOSTICO DELLA CONDIZIONE DI STATO VEGETATIVO. In: BOLLETTINO UFFICIALE Serie Ordinaria – Lunedì 22 agosto 2011. Disponibile su: http://www.eupolis.regione.lombardia.it/shared/ccurl/922/483/burl%2022agosto2011.pdf

Lacrime di coccodrillo o lacrime reali? Gli psicopatici potrebbero non riconoscere la differenza

Secondo i risultati di un recente studio, le persone con alti livelli di psicopatia non rispondono alle emozioni genuine allo stesso modo della maggior parte delle persone e si dimostrano meno inclini ad aiutare qualcuno che sta esprimendo un vero disagio.

 

La ricercatrice Dawel, della Research School of Psychology dell’Australian National University (ANU) ha indagato come le persone con alti livelli di tratti psicopatici hanno difficoltà a capire quando qualcuno è sinceramente spaventato o turbato, basandosi sulle espressioni facciali delle persone.

Si tratta del primo studio che ha compiuto questa indagine; nello specifico si è cercato di capire come i tratti psicopatici possono influenzare le risposte al disagio genuino (ad esempio un’autentica tristezza) versus disagio finto (ad esempio una finta tristezza volta a manipolare le altre persone).

Lo studio sperimentale

Lo studio è stato condotto su 140 soggetti non clinici, concentrandosi sulle caratteristiche affettive della psicopatia (insensibilità, scarsa empatia, affetto superficiale). Ai partecipanti veniva richiesto di osservare le fotografie di volti che esprimevano un ventaglio di emozioni diverse. Alcuni dei volti fotografati mostravano vere emozioni, mentre altri le fingevano.

I risultati mostrano come le persone con alti livelli di tratti psicopatici non rispondono alle emozioni genuine allo stesso modo della maggior parte delle persone:

molte persone quando vedono qualcuno che è veramente turbato, si sentono male per loro e questo li motiva all’aiuto – ha detto Dawel – Le persone con uno spettro molto elevato di psicopatia non mostrano questa risposta.

È emerso che le persone con alti livelli di tratti di psicopatia mostrano una ridotta capacità di discriminare le espressioni di disagio autentiche da quelle finte; inoltre le persone con bassi livelli di tratti psicopatici riportano una maggiore intenzione di aiutare le persone il cui volto mostra un genuino disagio, propensione che si indebolisce, tendendo a scomparire, quando i tratti di psicopatia aumentano: le persone con alti tratti psicopatici non sono disposte ad aiutare qualcuno che sta esprimendo un vero disagio, così come invece lo è la maggior parte delle persone.

Il dato più interessante emerso è che questi deficit nell’individuazione e nella risposta alle emozioni altrui sembrano esser presenti solo nel caso di emozioni di tristezza o paura.

Nel caso di emozioni quali la rabbia, il disgusto e la gioia, le persone con tratti di psicopatia elevati non hanno mostrato alcun deficit nel comprendere se qualcuno stesse o non stesse fingendo.

Conclusioni e prospettive future

La dott.ssa Dawel auspica che i risultati del suo studio possano portare ad una migliore comprensione della psicopatia e di conseguenza a migliori trattamenti e interventi volti ad una promozione dello sviluppo morale.

Successivi studi andrebbero condotti su un campione di bambini, in quanto la ricercatrice ipotizza un possibile contributo genetico alla presenza di tratti psicopatici: uno studio condotto all’inizio dell’infanzia potrebbe aiutare a far più chiarezza anche su questo punto.

Come si può abbracciare un porcospino? Gli interventi di Anger Management per il discontrollo della rabbia

Gli interventi di Anger Management sono di notevole aiuto per i pazienti con discontrollo della rabbia. Diversi sono i protocolli di Anger Management a disposizione dei clinici. Tali protocolli, per dirsi efficaci, devono prestare attenzione ad alcuni fondamentali elementi.

 

La rabbia rientra tra le emozioni di base individuate da Ekman nel 1972, ciò significa che è un’emozione innata, che si può riscontrare in qualsiasi popolazione e anche in altre specie animali (Darwin, 1872), la rabbia quindi è un’emozione universale.

Come qualsiasi altra emozione, la rabbia è generata da una valutazione cognitiva di un’esperienza, una situazione o un evento (sia interni che esterni) che l’individuo vive. Essa deriva da un senso di ingiustizia: quando qualcosa intorno a noi va come non dovrebbe andare o come non ci aspettiamo che vada, allora proviamo rabbia.

La rabbia, al pari delle altre emozioni, ha un valore adattivo: ci aiuta a ristabilire il senso di giustizia venuto a mancare. Essa quindi, in alcune circostanze, può essere funzionale al benessere dell’individuo. Esistono tuttavia dei casi in cui la rabbia può diventare problematica e disfunzionale, è bene in questi casi intervenire con protocolli di Anger Management.

Il discontrollo della rabbia

La rabbia è un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione), accompagnate da cambiamenti fisiologici e comportamentali che, come abbiamo visto, possono avere una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente. I cambiamenti fisiologici li conosciamo, tra questi troviamo l’aumento della pressione sanguigna e il battito cardiaco accelerato. Vi sono anche dei cambiamenti comportamentali che variano da individuo a individuo. Mentre per alcuni è più facile gestire e controllare questo stato emotivo, per altri non si riscontra la stessa facilità e spesso si manifesta un discontrollo della rabbia che può sfociare in comportamenti aggressivi e violenti verso cose, verso se stessi e verso gli altri.

Facile comprendere come gli individui con discontrollo della rabbia possono andare incontro a problemi psicologici e relazionali: la rabbia è di solito descritta come sgradevole e problematica da chi la prova (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002; Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005), porta le persone a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile per se stessi e per chi sta loro vicino.

Anche da un punto di vista fisico, il discontrollo della rabbia ha i suoi effetti negativi, provocando in particolare ipertensione e malattie coronariche (Suls & Bunde, 2005).

Anger Management: il protocollo di Brandolo, DiGiuseppe e Tafrate

Tra i più autorevoli esperti in tema rabbia e Anger Management è giusto citare Raymond DiGiuseppe, autore, insieme ad altri, di innumerevoli studi sull’argomento. Uno dei più completi protocolli di Anger Management è quello proposto da DiGiuseppe, Brondolo e Tafrate nel 1997. Le fasi del protocollo sono le seguenti:

  • Alleanza terapeutica e presentazione delle tecniche

La rabbia non stimola empatia. Nessuno abbraccerebbe un porcospino! (DiGiuseppe e Tafrate, 2001) Inoltre, i pazienti arrabbiati spesso vogliono solo sfogarsi per le ingiustizie di cui si sentono vittime e vogliono cambiare i comportamenti degli altri piuttosto che la loro reazione emotiva. Ciò può influire negativamente sul raggiungimento di un accordo sugli obiettivi della terapia, aspetto importante dell’alleanza terapeutica. Pertanto, i terapeuti devono convalidare vissuto emotivo dei clienti arrabbiati (ma non la loro reazione) all’inizio del processo di Anger Management.

Per favorire l’alleanza terapeutica e l’inizio della relazione, si può stimolare la speranza “accentuando il positivo”. Ad esempio si può iniziare ogni sessione con “Mi dica qualcosa di positivo che è successo questa settimana. Un evento che l’ha fatta arrabbiare ma in cui è riuscito a gestire la rabbia in modo efficace”. Nel caso in cui il paziente non riporti alcun esempio, potrebbe anche essere utile “accentuare il negativo” evidenziando i costi della rabbia eccessiva, in questo modo potremmo generare la motivazione al cambiamento.

  • Analizzare i trigger

Obiettivo di questa componente è la valutazione completa degli stimoli che causano rabbia, a partire da un’analisi attenta degli aspetti di una situazione (il tono, i gesti, le parole o l’ambiente) che hanno dato il via allo scatenarsi della reazione disfunzionale. La prima volta, se lo desiderano, i pazienti possono raccontare l’intera storia senza fermarsi. Successivamente li fermiamo durante alcuni passaggi del racconto e chiediamo loro di identificare e valutare l’intensità dei loro sentimenti.

  • Focus sui valori

La ristrutturazione cognitiva può essere una componente importante degli interventi di Anger Management. Bondolo, DiGiuseppe e Tafrate (1997) ricorrono al concetto di “valori fondamentali” per identificare gli schemi cognitivi che organizzano la risposta delle persone ai trigger scatenanti la rabbia. I valori (cioè dignità, cura, uguaglianza, fiducia, fratellanza, comunità, integrità, realizzazione, ecc.) sono un modo positivo e facilmente accessibile di etichettare un insieme di credenze e idee interne che ogni persona possiede. Un’analisi dei pensieri, effettuabile tramite la tecnica dell’ ABC, può chiarire i valori della persona. Una certezza comune sostenuta dalle persone arrabbiate è che il non esprimere rabbia di fronte a una provocazione equivale a dare il permesso all’altra persona di continuare a comportarsi in modo provocatorio. Per affrontare obiezioni come questa, il terapeuta può evidenziare l’integrità dei valori delle persone (es. la dignità), restituendo il fatto che questi siano positivi e vantaggiosi. La terapia ha lo scopo di aiutare a cambiare il modo in cui si difendono questi valori ma non i valori stessi: il terapeuta deve aiutare a distinguere tra il valore e i metodi per far fronte alle violazioni di questo valore. In questo caso bisogna stare attenti a non trasmettere ai pazienti l’idea che un abuso vada subito, perché potrebbe portare a un drop-out. Va invece sottolineato che il controllo emotivo è un prerequisito fondamentale per elaborare una risposta efficace a contrastare l’ingiustizia. Una buona metafora da usare è quella delle arti marziali: il buon allenamento alle arti marziali inizia con l’allenamento al controllo emotivo.

  • Ridurre l’eccitazione fisiologica

Un modo per insegnare le abilità di rilassamento è iniziare con un semplice esercizio di respirazione addominale, e quindi adattare molti degli esercizi forniti nel Rilassamento Progressivo (Jacobson, 1974) e praticarli anche a casa. I partecipanti possono iniziare con brevi sessioni di pratica, da 2 a 3 minuti di respirazione addominale lenta 3 o 4 volte al giorno, in macchina o prima di dormire. Durante la sessione, viene fornito un feedback pratico fino a quando i partecipanti non sono in grado di ridurre il loro livello di tensione di circa la metà. Esempi di feedback includono lodi e istruzioni specifiche sulle parti corporee da rilassare (ad es. “Prova a rilassare la mascella” “stai respirando magnificamente”). È importante che i partecipanti siano in grado di ottenere una riduzione del 50% della tensione corporea nella sessione prima di iniziare gli esercizi di esposizione. Alcuni individui possono farlo subito; altri hanno bisogno di più pratica.

  • Esposizione

La maggior parte delle sessioni in un intervento di Anger Management è dedicata alle tecniche di esposizione. Durante l’esposizione, al paziente vengono presentate una serie di provocazioni per un periodo prolungato di tempo, e gli si chiede di provare a calmarsi mentre è esposto alle provocazioni. Questa esposizione prolungata è progettata per consentire alla risposta emotiva di estinguersi. Le parole vanno dette con un’inflessione neutra, i pazienti spesso lo sperimentano come divertente e l’umorismo li aiuta a leggere i commenti attraverso una prospettiva migliore. Un tono piatto aiuta le persone a capire rapidamente cosa li preoccupa del commento. Si può avere anche l’esposizione a un gesto: il terapeuta semplicemente fa il gesto senza altre verbalizzazioni. Se necessario, il terapeuta può fare il gesto più lentamente, diminuendo l’aspetto della minaccia. Il terapeuta aumenta via via l’intensità degli stimoli fino a quando il paziente resta calmo. I pazienti sono incoraggiati a guardare direttamente la persona che provoca (cioè, la persona che li schernisce), senza fare commenti o intraprendere alcuna azione. Un trigger che produce una forte risposta di rabbia può richiedere più sessioni di esposizione.

E’ importante fornire maggiore supporto ai clienti durante le esposizioni alla rabbia. Nello specifico, le persone possono avere convinzioni molto forti sulla necessità di rispondere con aggressività alle ingiustizie percepite, e mettere in discussione queste convinzioni può risultare molto difficile per il paziente. Un modo in cui fornire supporto è quello di dire al paziente cosa esattamente accadrà durante la sessione di Anger Management. È utile descrivere l’intera procedura nel dettaglio e indicare in che modo verrà fornito il supporto (per es: “Se ti agiti troppo ti aiuterò a calmarti ricordandoti di respirare, puoi fermarti in qualsiasi momento”). Durante l’esposizione vanno forniti feedback positivi e frasi che aiutino a rilassarsi come “Continua a respirare, calma te stesso”

Durante le procedure di esposizione e desensibilizzazione, i terapeuti tengono il passo con lodi costanti e incoraggiamenti. Gli autori di questo protocollo di Anger Management suggeriscono di fornire circa dieci commenti positivi per ogni singolo feedback correttivo dato al paziente. L’obiettivo è che i clienti arrabbiati abbandonino la loro convinzione che l’aggressività sia l’unica difesa necessaria contro l’insulto. Il feedback positivo infonde coraggio e porta le persone a riflettere sulla situazione prima di rispondere impulsivamente.

  • Consolidamento del supporto

Il passaggio finale di un intervento di Anger Management dovrebbe essere quello di allenare il paziente all’ascolto attivo e all’assertività. Questo, negli interventi sistemici o di gruppo, è un passaggio di notevole importanza se esteso anche gli altri membri del gruppo o ai familiari: allenare all’ascolto e all’assertività, consente di ottenere uno strumento in più per contenere la rabbia del paziente, nel caso in cui venga nuovamente provocato. Se l’individuo ha una storia significativa di aggressioni fisiche incontrollate, sarebbe utile allenare all’ascolto più di una persona significativa per aiutarlo a calmarsi durante situazioni provocatorie.

Sebbene il programma illustrato possa dirsi di facile applicazione, va posta particolare attenzione in alcuni casi: una valutazione dello stato mentale dei pazienti può essere d’aiuto per riconoscere quei casi in cui l’esposizione potrebbe diventare problematica: è il caso di pazienti psicotici o pazienti che fanno regolare uso di droghe o alcool.

Per i pazienti che presentano altri disturbi, tra cui il disturbo da deficit di attenzione o i disturbi dell’umore, è importante assicurarsi che stiano seguendo un trattamento adeguato e appropriato per queste condizioni sottostanti prima di valutare se i metodi basati sull’esposizione aiuteranno a gestire la loro rabbia (DiGiuseppe, 1995; Tafrate, 1995).

Organizzare lo spazio fisico nel proprio studio è un passo importante. Se vi è la preoccupazione che gli individui possano diventare aggressivi durante un’esposizione in-vivo, si raccomanda di collocare le sedie relativamente distanti tra loro, con il terapeuta seduto tra i due partecipanti (nel caso in cui il protocollo venga applicato alla coppia o al gruppo). Il terapeuta deve sentirsi a proprio agio nel toccare i partecipanti e dovrebbe tenere ogni persona nel suo posto se inizia a sollevarsi.

Gli interventi di Anger Management per aumentare le capacità di mettersi nei panni dell’altro

Feedback visivo

Attraverso questo metodo (Storms, 1979; Önder e Öner-Özkan, 2003) si permette ai pazienti di rivedersi nei filmati ripresi durante delle conversazioni con altre persone (o col terapeuta) mentre si simulano alcune situazioni che hanno scatenato rabbia. Coerentemente con l’effetto attore-osservatore (Jones e Nisbett, 1971), i pazienti, rivedendosi, aumentano la loro capacità di ricondurre sempre meno la rabbia alla situazione (attribuzione situazionale) e sempre più a un loro tratto personale (attribuzione disposizionale). Allo stesso modo, le reazioni dell’altro attore, assumono più carattere situazionale e meno disposizionale. Le attribuzioni situazionali sembrano, non a caso, correlate allo stile di elaborazone cognitiva degli individui antisociali (Mohr et al, 2008), mentre le attribuzioni disposizionali incoraggerebbero una maggiore responsabilità personale per il proprio comportamento.

La tecnica delle sedie

Tecnica molto utilizzata nella Terapia Gestaltica, è utilizzata per aumentare la consapevolezza di sé. La tecnica della sedia aiuta il paziente a rielaborare diversi conflitti, tra sé e con gli altri, poiché incoraggia a usare una prospettiva alternativa per analizzare gli eventi conflittuali e aiuta i pazienti con discontrollo della rabbia ad attribuire delle spiegazioni alternative a quel comportamento che hanno interpretato come provocatorio. Questa tecnica risulta particolarmente utile nei percorsi di Anger Management per quei casi in cui i pazienti sembrano “bloccati” in una situazione confilttuale (Mohr et al., 2007).

Terapia del perdono

La terapia del perdono promuove la risoluzione del conflitto facilitando la presa di prospettiva altrui. Il perdono si ottiene attraverso quattro fasi (Enright e Human Development Study Group, 1996):

  1. una fase di scoperta in cui vengono analizzati i vissuti emotivi (es. analizzare le difese psicologiche, confrontarsi con la rabbia, ecc.);
  2. una fase che analizza le vecchie strategie messe in atto dal paziente (ad es. discutere della visione alterata di un “mondo giusto” secondo il paziente);
  3. una fase di apprendimento nuove risposte (compassione, empatia nei confronti del colpevole, accettazione del dolore);
  4. una fase finale del consolidamento (prendere consapevolezza della diminuzione degli effetti negativi, dell’aumento delle emozioni positive e della liberazione emotiva interna) (Denton and Martin, 1998).

Questo tipo di approccio è più utile per quei pazienti che hanno reagito con rabbia eccessiva a eventi in cui sono stati vittimizzati.

Interventi di Anger Management: le componenti principali

Col passare degli anni alcuni interventi di Anger Management sono stati perferzionati e diversi sono i protocolli da poter utilizzare per la gestione della rabbia. Tuttavia, ci sono degli elementi fondamentali (alcuni già visti) che, a detta di DiGiuseppe e Tafrate (2001), non devono mai mancare in un percorso di Anger Management:

  • Coltivare l’alleanza terapeutica: convalidare il vissuto emotivo dei clienti arrabbiati, ma non la loro reazione
  • Accrescere la motivazione per il cambiamento: aiutare a distinguere tra rabbia funzionale e disfunzionale e diventare consapevoli delle conseguenze negative della rabbia disfunzionale
  • Gestire l’eccitazione fisiologica
  • Favorire il cambiamento cognitivo: aiutare i clienti a promuovere percezioni realistiche e accurate, attraverso degli interventi di ristrutturazione cognitiva, porta a cambiamenti emotivi e comportamentali.
  • Favorire il cambiamento comportamentale: i pazienti con problemi di rabbia spesso hanno dei repertori comportamentali carenti e un certo grado di automaticità associato alle reazioni eccessive. L’apprendimento e la pratica di nuove risposte aiutano i pazienti a introdurre comportamenti alternativi nel loro repertorio comportamentale.
  • Insegnare a prevenire le ricadute: ai pazienti con discontrollo della rabbia va insegnato come porre rimedio a un’eventuale ricaduta nei comportamenti disfunzionali di rabbia.
  • Il ruolo del perdono: bisogna far comprendere al paziente che perdonare non equivale a dimenticare: il perdono si verifica quando le persone imparano che ricordare e ad accettare ciò che è stato fatto loro.
  • Considerare un intervento sistemico: valutare la possibilità di sedute con gli altri significativi per il paziente ed esaminare in che modo questi valutano la sua rabbia, o lasciare che condividano con lui le loro percezioni sulle conseguenze negative di tale emozione.
  • Ambiente di rinforzo: chi ha problemi di rabbia frequenta spesso altre persone che validano le sue reazioni e condividono lo stesso modo di esprimere rabbia (Robins & Novaco, 1999). Ciò può comportare un ambiente che rinforza il discontrollo. Gli interventi di Anger Management devono aiutare il paziente a prendere consapevolezza dell’influenza del proprio ambiente di vita sull’espressione della rabbia e promuovere relazioni con altre persone che possiedono una gestione migliore delle proprie emozioni.

Il discontrollo della rabbia è un problema spesso incontrato dai professionisti della salute mentale. Eppure esso risulta un argomento su cui la ricerca ha fatto molta fatica a decollare: per ogni articolo sulla rabbia presente in letteratura negli anni 90, ne venivano pubblicati 10 sulla depressione e 7 sull’ansia (Kassinove & Sukhodolsky, 1995). Le strategie delineate sono delle proposte da cui attingere per sviluppare programmi di Anger Management ad hoc per il singolo paziente. Sebbene l’elenco di tali strategie non sia esaustivo, esse derivano dai più promettenti dati di ricerca disponibili.

 

Incontrare le persone LGB (2018) di C. Cavina, S. Cavina Gambin, D. Ciriello – Recensione del libro

Incontrare le persone LGB è un testo teorico-applicativo molto attuale e chiaro sui temi delle persone e famiglie LGB, portatrici di domande, richieste, necessità e specificità, che qualsiasi specialista (degli ambiti psico-socio-sanitario, giuridico, educativo) impegnato nelle professioni d’aiuto, ha elevate probabilità d’incontrare nel corso della propria attività lavorativa.

 

Le persone lgb, ovvero lesbiche, gay e bisessuali, nonostante siano ancora oggetto di forti discriminazioni e ostilità sociale, fanno sempre più spesso la scelta di essere visibili. Questa aumentata visibilità, inevitabilmente, si manifesta anche nel contatto con i servizi, siano essi pubblici o privati, e con gli operatori e le operatrici.

Incontrare le persone LGB: l’accettazione per entrare in relazione

Peculiarità del testo Incontrare le persone LGB è il tentativo delle autrici, a mio avviso riuscito, di trasmettere un messaggio di accettazione della specificità nell’uguaglianza: affrontare quello dell’omosessualità come “un tema fra gli altri”, per conferire dignità di esistenza alle persone con orientamento non eterosessuale. Infatti, nonostante siano passati quarant’anni dalla derubricazione dell’omosessualità dalle malattie mentali, esistono ancora persone e professionisti/e che considerano l’omosessualità una “condizione non desiderabile”, e tutti i temi ad essa riconducibili soffrono di categorizzazioni emarginanti. Questo libro invece offre al lettore una prospettiva positiva, mettendo in luce le possibilità di crescita, e l’uscita definitiva dagli assolutismi ciechi sostenuti dai vari tentativi di arretramento ai quali abbiamo assistito (come l’invenzione dell’ideologia gender).

Attraverso un approccio multidisciplinare (psicologico, educativo e legale) e un chiaro linguaggio adatto ad ogni lettore, il libro Incontrare le persone LGB affronta i punti cardine della consulenza alle persone e alle famiglie LGB (lesbiche, gay, bisessuali). Si spazia allora dai temi portati in consulenza, alle specificità e alle aree di intervento, dagli strumenti di lavoro ai linguaggi possibili, espliciti ed allo stesso tempo non offensivi. Dall’adolescenza, alla coppia, alla genitorialità, ecco quindi le storie, le tematiche e le vulnerabilità specifiche portate in consulenza dalle persone LGB. Vi è un capitolo dedicato agli aspetti legali rilevanti della consulenza psico-socio-sanitaria, con riferimenti chiari ai cambiamenti apportati dalla legge sulle unioni civili e alla genitorialità.

Incontrare le persone LGB: rispetto e attenzione fin dalla scuola

Molto interessante il capitolo che riguarda gli interventi in ambito educativo, indispensabile per affrontare il tema dell’orientamento sessuale a scuola: a partire dall’asilo nido, vengono presentati suggerimenti per l’accoglienza e l’inserimento scolastico, con particolare rilievo dato al ruolo dell’insegnante. Incontrare le persone LGB è un libro chiaro ed aggiornato che ogni professionista potrebbe leggere per ottenere utili spunti di riflessione e suggerimenti, al fine di assistere adeguatamente la propria utenza, con rispetto e con la giusta competenza, partendo dal presupposto, precedente e indipendente dalla comunicazione dell’orientamento sessuale del paziente, di dover assumere un linguaggio neutro e domande inclusive rispetto ai generi di riferimento. La sfida è quella di

accogliere la complessità del linguaggio accanto alla possibilità di doversi sempre interrogare sui cambiamenti

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO LIBRO:

Incontrare le persone LGB (2018) di Ciriello, Cavina e Cavina Gambin: una guida alla consulenza educativa, psicologica e legale – Recensione del libro

Incontrare le persone LGB (2018): recensione ed intervista alle autrici del libro sulla consulenza clinica per persone lesbiche, gay, bisessuali

Guarire i traumi dell’età evolutiva (2018) di Laurence Heller e Aline LaPierre: elaborare il passato col modello NARM – Recensione del libro

Bisogni emotivi e biologici fondamentali, frustrazione e traumi, stili di sopravvivenza adattivi e conseguenze disfunzionali: questi i temi trattati dal libro Guarire i traumi dell’età evolutiva scritto da Aline LaPierre e Laurence Heller.

 

Gli autori utilizzano la cornice teorica del “Modello NARM” (Modello Relazionale Neuroaffettivo) per elaborare il passato alla luce delle difficoltà attuali, comprendere i circoli viziosi in cui si è intrappolati, e superare il disagio emotivo attraverso i canali dell’attaccamento, della mindfulness e dell’esperienza somatica, mettendo in pratica i concetti fondamentali della regolazione del sistema nervoso.

È soprattutto quest’ultimo elemento a essere messo in risalto: il bisogno di entrare in contatto con sé stessi, con il proprio corpo e di sviluppare fiducia e sicurezza interiori.

Modello NARM: i 5 bisogni fondamentali

Il modello NARM ci parla di 5 bisogni fondamentali a base biologica: connessione, sintonizzazione, fiducia, autonomia e amore-sessualità. La frustrazione di uno o più bisogni compromette l’autoregolazione, il senso di sé e lo sviluppo di una sana autostima. Tali frustrazioni possono essere legate a svariate situazioni di vita e ambientali e spesso coinvolgono il rapporto genitori-figli, da cui si sviluppa lo stile di attaccamento predominante.

In base a quanto tali bisogni risultano soddisfatti nelle fasi precoci di vita, l’essere umano sviluppa capacità essenziali per il benessere, che possono tuttavia rivelarsi dei puri “stili di sopravvivenza”, ovvero modalità adattive per un certo periodo di vita ma controproducenti nel lungo periodo a causa della loro rigidità e cristallizzazione.

Il Modello NARM lavora su tali disregolazioni del sistema nervoso, sulle interruzioni nel processo di attaccamento e sulle distorsioni dell’identità. Una forma di psicoterapia somatica da integrare alla classica psicoterapia esplorativa sul passato e di stampo cognitivista. Una psicoterapia incentrata sul sostenere la capacità dell’individuo di aumentare la connessione e la vitalità. Non ignora il passato, ma si concentra sul mettere in risalto i punti di forza, le capacità, le risorse e la resilienza. Esplora la storia personale per capire fino a che punto gli stili di sopravvivenza appresi in fasi precoci della vita interferiscono con la capacità di sentirsi vitali e connessi al momento presente.

Modello NARM: la terapia

Il processo NARM aggiunge due nuovi elementi alla pratica tradizionale della consapevolezza, o mindfulness,: la consapevolezza somatica e la consapevolezza dei principi organizzativi dei propri stili di sopravvivenza adattivi. Il trauma impedisce di essere presenti nel proprio corpo. Esso disconnette dal corpo trasformando le persone in individui troppo cognitivi o particolarmente insensibili. La consapevolezza somatica sostiene progressivamente la nuova regolazione del sistema nervoso attraverso l’uso di alcune tecniche di esperienza somatica, quali radicamento, orientamento, titolazione, pendolazione, finalizzate ad affrontare gli stati di alta attivazione e shock.

Il fine è quello di far riemergere rabbia e dolori inesprimibili senza farsi travolgere da essi, rievocando esperienze positive, fornendo feedback compassionevoli sul modo di sentirsi e agire, sostenendo modalità più funzionali di espressione emotiva, nonché la vitalità, l’espansione e la regolazione del sistema nervoso. I ricordi positivi di qualcuno che è stato in grado di offrire accoglienza, calore e rassicurazione o il focalizzarsi sulla relazione terapeutica caratterizzata da empatia e accettazione, promuove l’autoconsolazione e si concentra sulle capacità residue e sui punti di forza del paziente, piuttosto che rimarcarne difficoltà e mancanze. Il modello NARM si prefigge infatti lo scopo ultimo di superare i problemi di vita attuali, dando la possibilità di conoscersi e accettarsi al di dà dei traumi passati, e sviluppare un’immagine di sé degna, autonoma e fiduciosa.

Prime linee guida per la valutazione e il trattamento della depressione associata alla perimenopausa

Sono state pubblicate sul Journal of Women’s Health le prime linee guida per la valutazione e il trattamento della depressione nel periodo di transizione verso la menopausa.

 

Durante la perimenopausa, il periodo che precede la vera e propria menopausa, gli ormoni subiscono un naturale calo, ciò porta alla manifestazione di diversi sintomi quali irregolarità del ciclo, vampate di calore, aumento del peso e disturbi del sonno.

È ormai risaputo da diversi anni che le donne hanno un rischio maggiore di sviluppare depressione durante il postpartum a causa del cambiamento ormonale, tuttavia poco si sa sul rischio depressivo associato al periodo di transazione verso la menopausa. Finora, anche dal punto di vista clinico, le raccomandazioni circa la diagnosi e la terapia di questo tipo di depressione sono state alquanto carenti.

L’importanza di avere delle linee guida per il trattamento della depressione nel periodo che porta alla menopausa

Un team di esperti convocato dalla North American Menopause Society e dal Network on Depression Centers Women and Mood Disorders Task Group e approvato dalla International Menopause Society ha redatto le prime linee guida per la valutazione e il trattamento della depressione durante la perimenopausa.

Pauline Maki, professoressa di psicologia e psichiatria all’Università dell’Illinois, ha affermato:

Le linee guide sono necessarie perché la depressione durante questo particolare periodo è difficile da identificare, la perimenopausa infatti può facilitare l’insorgenza di nuovi sintomi depressivi in molte donne.

La letteratura scientifica sull’argomento spiega l’associazione tra i sintomi della perimenopausa e il disturbo depressivo: sintomi quali vampate di calore e disturbi del sonno iniziano in questo momento e possono coesistere e sovrapporsi ai sintomi della depressione. In particolar modo quando le vampate di calore avvengono durante la notte, la così detta “sudorazione notturna”, il sonno può essere interrotto; i persistenti disturbi del sonno causati da questo sintomo possono contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi depressivi.

In aggiunta c’è da considerare che spesso le donne a questa età hanno molte responsabilità e affrontano diversi fattori di stress: si prendono cura dei figli, della casa, dei genitori anziani o di richieste di lavoro sempre più crescenti. Tutti questi fattori stressanti, il basso livello di sostegno sociale e i problemi fisici possono essere strettamente correlati all’insorgenza della depressione in questo periodo.

Tuttavia il processo diagnostico è particolarmente ostico perché le cause scatenanti la depressione possono essere difficili da identificare, inoltre molte volte i sintomi esperiti non soddisfano i criteri per una diagnosi piena di depressione. Anche i sintomi depressivi lievi però possono abbassare la qualità di vita, ciò che appare veramente importante quindi è un’analisi dettagliata dei sintomi per giungere ad una diagnosi e identificare la miglior cura possibile.

Le conclusioni a cui sono giunti gli esperti per la stesura delle linee guida permettono di affermare che:

  • la perimenopausa è un periodo di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi depressivi lievi con la possibilità di comparsa di un disturbo depressivo maggiore
  • il rischio di sviluppare sintomi depressivi è elevato anche nelle donne senza precedenti episodi
  • diversi sintomi della perimenopausa si sovrappongono alla presenza della depressione complicandone l’individuazione
  • i fattori stressanti della vita possono influenzare negativamente l’umore, aumentando il rischio di depressione in questo particolare periodo
  • i trattamenti terapeutici per la depressione (terapia farmacologia antidepressiva e interventi di psicoterapia) dovrebbero rimanere i gold standard in casi di depressione associata a perimenopausa

Ragione e Sentimento… Seconda e terza giornata al XIX congresso SITCC

Si è chiuso oggi domenica 23 settembre il XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). In quest’ultima comunicazione da Verona, città del congresso, scriveremo però anche della giornata di ieri. Tra i maggiori eventi di queste due giornate ci sono stati gli ospiti stranieri: Julian Thayer sabato 22, professore al dipartimento di neuroscienze dell’università dell’Ohio e Luiz Pessoa professore e direttore del Maryland Neuroimaging Center domenica 23. Entrambi hanno parlato degli aspetti più viscerali, esperienziali, emotivi e affettivi dell’attività neurologica.

Julian Thayer si è concentrato sul funzionamento adattivo e flessibile non solo cognitivo ma anche corporeo nel senso più vero e viscerale del termine ovvero dell’attività cardiovascolare e della funzione del nervo vago, misurate per mezzo della variabilità della frequenza cardiaca, per Thayer vero e proprio segnalatore delle prestazioni cognitive, delle sequenze affettive e delle variabili comportamentali. Invece Luiz Pessoa ha illustrato, mediante metodi di risonanza magnetica comportamentale e funzionale, lo studio delle interazioni tra i sistemi cognitivi ed emotivi del cervello e tra cognizione e motivazione tentando al tempo stesso di approfondire e di superare queste classificazioni, sempre a rischio di rigida dicotomizzazione.

Questo tentativo di superamento di dicotomie tra emozione e ragione è stato un po’ la cifra dell’intero congresso, che ha visto stimolanti incontri scientifici un tempo non facilmente pensabili. Intrigante, ad esempio, assistere a un simposio significativamente intitolato “La matrice relazionale del cognitivismo italiano” e patrocinato da Francesco Mancini come chair mentre Benedetto Farina agiva da discussant. Titolo quanto mai azzeccato per caratterizzare culturalmente e scientificamente il progetto di un intero movimento, autobiografia di una casa comune quale indubbiamente è la SITCC. Gli autori del simposio hanno correttamente intuito che il movimento cognitivo comportamentale internazionale sta vivendo una fase di crisi e poi hanno legittimamente proposto che l’uscita dalla crisi possa essere l’adozione del modello cognitivo evoluzionista di Liotti, sia pure con l’aggiunta di alcuni opportuni correttivi processuali che lo rendano più internazionalmente commestibile e compatibile con la svolta processualista promossa da Steven Hayes e Stefan Hofmann nel loro “Process based CBT” di quest’anno. Correttivi che consistono nel modello metacognitivo interpersonale di Semerari.

LA MATRICE RELAZIONALE DEL COGNITIVISMO ITALIANO TRA STORIA E FUTURO DELLA PSICOTERAPIA - SITCC 2018

Analoghe conclusioni sono state tratte dal simposio sui “Fattori di cambiamento nelle terapie cognitive”, presieduto dalla presidente della SITCC Rita Ardito (peraltro confermata nella sua carica: complimenti!) e ravvivato dalla partecipazione di Francesco Mancini, Antonio Semerari, Fabio Monticelli e Giancarlo Dimaggio mentre Andrea Bassanini fungeva da discussant. Si tratta di un progetto ambizioso e audace al quale si devono fare i migliori auguri di riuscire a conquistare il proprio spazio vitale e il proprio posto al sole. Un modello che potrebbe chiamarsi relazionale procedurale, come proposto da un triumvirato di colleghe e colleghi: Antonio Onofri, Cecilia La Rosa e Giancarlo Dimaggio.

FATTORI DI CAMBIAMENTO NELLE TERAPIE COGNITIVE TEORIA E CASI CLINICI - SITCC 2018

Più defilati rispetto a questa grandiosa convergenza se ne stanno i vecchi post-razionalisti, sempre inguaribilmente affezionati alle care organizzazioni di personalità, sia pure protetti dall’egida della scienza cognitiva imbracciata da Bruno Bara.

E in posizione differente ci sono quelli che potremmo chiamare i processualisti estremi (ma il termine non è nostro: lo abbiamo rubato), capitanati da Sandra Sassaroli e il suo gruppo tra i quali milita anche chi scrive qui e qui si scusa per il conflitto di interesse di essere pittore e dipinto, a scapito dell’affidabilità del quadro che si tenta di rappresentare. Processualisti estremi a volte tacciati di essere paleoconservatori, arcaici cultori della vecchia e screditata CBT, rimprovero invero contradittorio (come poter essere passatisti e futuristi?) ma non privo di una sua sbilenca verità.

Questi processualisti estremi poi, forse sentendosi un po’ soli, hanno invitato alcuni guastatori esterni provenienti dalle arcaiche caverne della modificazione comportamentale, come il prof. Ezio Sanavio, o transfughi della psicoanalisi e approdati nei porti ben accettanti del modello dialettico-comportamentale come il prof. Cesare Maffei, o battitori liberi e inclassificabili ma sempre un po’ improfumati di psicoanalisi come il prof. Nino Dazzi, o infine ambasciatori esotici del modello dell’acceptance and committment therapy come alcuni allievi del prof. Paolo Moderato (purtroppo assente, ma giustificato). Per non parlare dell’orientalismo dei seguaci della mindfulness e degli algidi e anaffettivi seguaci della metacognizione alla Adrian Wells. Un bel mazzo di desperados oscillanti tra conservatorismo neobeckiano e futurismo iperprocessualista, non senza qualche nostalgia per il costruttivismo a ulteriore arricchimento di un quadro già complesso.

Per ora finisce qui e proseguiremo a Bologna nel 2020, sede della prossima edizione del romanzo della SITCC.

 


DAL CONGRESSO SITCC 2018:

Tra convergenze e differenze: la prima giornata del XIX congresso SITCC a Verona

 

Giornata inaugurale del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC): in memoria di Gianni Liotti – SITCC 2018, Report dall’evento

 

 

Silvia Marchesan: la ricercatrice eletta da Nature tra le più promettenti sarà a Trieste Next 2018

Silvia Marchesan dirige il Superstructures Lab all’Università di Trieste. Il riconoscimento della prestigiosa rivista Nature, arriva in un ambito, quello scientifico, in cui le donne in Italia faticano ancora troppo ad emergere.

 

Silvia Marchesan, professoressa dell’Università di Trieste, dove dirige il Superstructures Lab, è stata inserita fra gli 11 i ricercatori emergenti che secondo Nature stanno “lasciando il segno”. Per la prestigiosa rivista scientifica questi ricercatori hanno letteralmente il mondo ai loro piedi.

Il riconoscimento è arrivato anche a un altro italiano: Giorgio Vacchiano, dell’Università Statale di Milano. Insieme a Silvia Marchesan, come la rivista Nature ha sottolineato, sono ricercatori che stanno lasciando il segno. Che sia un segno che va oltre la scienza? Un segno che motiva i tanti ricercatori, in tutti i campi, ad andare avanti anche in contesti, quale quello italiano, in cui alla ricerca non è dato il giusto peso? E che quello della Marchesan in particolare sia un segno rivolto alle ricercatrici donne, che ancora spesso faticano a essere viste nel ruolo di scienziato? Quello di Nature è senza dubbio un riconoscimento che, oltre a promuovere un senso di orgoglio verso gli scienziati nostri connazionali, ci dovrebbe far riflettere.

La notizia del riconoscimento alla Marchesan accende anche i riflettori su Trieste, riconfermandola centro di eccellenza nella ricerca biotecnologica a livello mondiale in attesa del 2020, anno in cui sarà Capitale Europea della Scienza.

Il Trieste Next 2018, che quest’anno ha titolo NatureTech: il sottile confine fra biologico e biotecnologico si svolge dal 28 al 30 ottobre prossimi e vedrà l’intervento della stessa Marchesan, che illustrerà le ricerche che l’hanno portata alla creazione di uno speciale idrogel biocompatibile (quindi ben tollerato dai tessuti dell’organismo) e con proprietà antimicrobiche.

Le sue molecole sfruttano il principio della chiralità. Cos’è la chiralità? Una molecola che possiede questa proprietà non può essere sovrapposta alla sua immagine speculare, come un guanto della mano destra non può essere indossato dalla sinistra. Questa proprietà ha degli effetti sull’attività biologica delle molecole, che Silvia Marchesan ha saputo sfruttare in questo materiale innovativo: il suo idrogel può trasportare farmaci in alcune zone dell’organismo individuate come obiettivi e fungere da sostegno ai tessuti organici in via di guarigione dopo una lesione.

L’articolo sull’idrogel e le sue potenzialità è stato pubblicato dalla rivista Chem, del gruppo Nature, lo scorso agosto: ha riscosso immediatamente molto interesse nella comunità scientifica, tanto da valere il riconoscimento alla Marchesan.

Dal canto nostro, oltre a congratularci con Silvia Marchesan e Giorgio Vacchiano, come non poterci augurare che in un futuro sempre più prossimo, non sia più così raro veder riconosciuto e valorizzato il lavoro dei nostri ricercatori e delle nostre ricercatrici?

 

Il programma di Trieste Next 2018 è consultabile al sito: www.triestenext.it

Nuovo Teatro Orione: in scena una diversa interpretazione del teatro contemporaneo…e della Psicologia, con il progetto Corti da Legare

Teatro Orione Logo

 

Il Nuovo Teatro Orione porta in scena, per la nuova stagione artistica, una diversa interpretazione del teatro contemporaneo.

Comunicato Stampa

 

Una moltitudine di progetti nuovi, eclettici, giovani, inediti che portano l’arte teatrale a rinnovarsi continuamente.

“Diversa interpretazione”, questo il claim della stagione 2018-2019 del Nuovo Teatro Orione, un’affermazione forte che non intende di certo nascondere la voglia di trasmettere una totale eterogeneità artistica.

La prosa, la commedia, la fotografia, la musica, l’intrattenimento per i più piccoli e l’informazione scientifica animano una disparata programmazione che la direzione artistica presenterà al pubblico e alla stampa il 26 settembre 2018 alle ore 12.00.

Dopo essersi confermato lo scorso anno come “Nuovo davvero!”, il Teatro di via Tortona a Roma, punta quest’anno a spiccare il volo e ad affermarsi come realtà poliedrica che intende fare e diffondere arte nella sua totalità e con una propria interpretazione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Nuovo Teatro Orione nella nuova stagione la Psicologia incontra il Teatro

 

Corti da legare: l’incontro tra teatro e psicologia

Il progetto Corti da legare prende vita dal felice incontro di due mondi: il teatro e la psicologia.

Giovani professionisti di entrambi i settori hanno unito competenze e passioni allo scopo di tradurre nell’idioma del dramma le conoscenze che la scienza psicologica ha acquisito negli ambiti di alcuni disturbi mentali. Ne nasce una serie di corti teatrali di natura al contempo narrativa e didattica, al termine dei quali è previsto un approfondimento, con l’ausilio di esperti del settore, sul disturbo di volta in volta messo in scena.

L’obiettivo del progetto è gettar luce sul pregiudizio relativo al disturbo mentale; mettere a nudo l’infondatezza di credenze diffuse su disturbi quali l’autismo, l’alcolismo, la dipendenza sessuale; turbare l’abitudine di rimettersi a etichette diagnostiche di cui sappiamo poco e niente.

Dopo il successo ottenuto dalla rassegna nella passata stagione, quest’anno si affronteranno nuovi disturbi e patologie:

Inoltre, verranno messi in scena tre matinée appositamente pensati per le scuole, nel tentativo di avvicinare i ragazzi a tematiche tanto delicate quante drammaticamente vicine al loro immaginario:

 

Info e prenotazioni:

Nuovo Teatro Orione
Via Tortona, 7 – 00183 Roma – 06 77 206 960 – www.teatroorione.it[email protected]

Curare i bambini abusati (2018) a cura di Marinella Malacrea – Recensione del libro

Marinella Malacrea, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, fa il punto su quello che sappiamo e sappiamo fare per trattare i bambini abusati. Nel libro Curare i bambini abusati che ha curato per Cortina, raccoglie anche casi clinici trattati da colleghi di diversi orientamenti teorici.

 

Nel 1993 nasce in Italia il CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia): un primo, storico passo secondo M. Malacrea, che si occupa di bambini maltrattati e abusati fin dagli anni ‘80. Questo libro ripercorre le scoperte teoriche e cliniche della comunità scientifica e offre numerosi spunti di riflessione e confronto per i colleghi specializzati nel trattamento di questi pazienti o per tutti coloro che vogliono approfondire le conseguenze ed il trattamento dei traumi legati all’abuso in infanzia nella pratica clinica.

Curare i bambini abusati: dai primi studi alle scoperte più recenti

La prima parte del libro Curare i bambini abusati, di M. Malacrea, offre una ricchissima rassegna della letteratura scientifica sulla terapia per bambini e adulti che hanno subito abusi nell’infanzia.

Una tappa fondamentale è la prima pubblicazione, nel 1998, del lavoro di Felitti e Anda che, coinvolgendo oltre 17.000 pazienti, ha portato alla creazione dell’ACE (Adverse Childhood Experience).

Da allora è cresciuta l’attenzione alla patologia post-traumatica degli adulti vittime nell’infanzia, sostenuta dal crescente bagaglio di conoscenze sulla neurobiologia del trauma (neuroimaging, mediatori chimici).

Attualmente il trattamento più efficace per gli adulti che hanno subito traumi nell’infanzia sembra essere la terapia cognitivo-comportamentale e l’EMDR. Altre tecniche utili al trattamento del trauma sono la terapia sensomotoria, le tecniche di mentalizzazione (Mentalizing-Based-Treatment, MBT) ed il neurofeedback.

Curare i bambini abusati: trattare il PTSD complesso

L’ISTSS (International Society for Traumatic Stress Studies) si è occupata della definizione di trauma PTSD complesso: include i sintomi del PTSD classico (intrusione di ricordi traumatici, evitamento/obnubilamento e iperarousal) insieme a una gamma di disturbi nella capacità di autoregolazione. Nel 2012 l’ISTSS ha prodotto le linee guida per il trattamento in terapia individuale degli adulti; consta di 3 fasi principali:

  1. Stabilizzazione e rinforzamento delle competenze, per mettere il paziente in sicurezza
  2. Rivisitazione dei ricordi traumatici
  3. Consolidamento delle competenze emotive, sociali e relazionali

Per quanto riguarda i bambini, la rassegna composta dalla Malacrea conferma l’utilità delle psicoterapie centrate sul trauma che includono i genitori nel trattamento (ove possibile) e che si prefiggono di promuovere resilienza oltre al miglioramento dei sintomi.

L’autrice dedica un focus specifico agli studi che si sono dedicati alla terapia per bambini con abuso sessuale, citando il lavoro di meta-analisi del 2015 di Benuto e O’Donohue, da cui estrae delle conclusioni generalizzabili: tra queste che la CBT pare superiore ad altri modelli teorici nel garantire una migliore risoluzione di problemi comportamentali, di autostima, di sintomi da PTSD ed il migliore impatto sul caregiver. Nel concludere la parte teorica, l’autrice auspica che le recenti e nuove scoperte sul trattamento del trauma non perdano di vista la specificità richiesta nel trattamento dell’abuso sessuale.

Curare i bambini abusati: i casi clinici

Dopo la parte iniziale, i successivi 13 capitoli, scritti da altrettanti terapeuti, raccontano 13 casi clinici illustrandone il metodo diagnostico e terapeutico adottato. In apertura di ogni caso viene esplicitato l’approccio terapeutico che caratterizza il lavoro del terapeuta/equipe/centro in cui è stato trattato il minore e questo facilita il lettore nella comprensione delle scelte e della logica che ha guidato la terapia. Questa parte può diventare per ogni collega un’occasione stimolante e molto utile di confronto e riflessione sul proprio operato, dal momento che sono illustrate anche le tecniche, gli strumenti e gli approcci (dallo psicodramma alla mindfulness) che sono stati usati nelle diverse fasi del percorso.

Più nello specifico:

  • i primi 6 capitoli parlano di piccoli pazienti che hanno subìto questi traumi in ambito famigliare e delle gravi ripercussioni per i loro processi di attaccamento
  • i pazienti dei successivi 5 capitoli sono stati abusati da persone esterne al nucleo famigliare, ad esempio all’asilo o a scuola
  • il penultimo capitolo riporta i percorsi di 2 bambini adottati: a ben vedere, il fatto che per molto tempo, se non anche adesso, non si guardasse ai bambini in adozione come, di default, a bambini traumatizzati, ha dell’assurdo
  • l’ultimo capitolo tratta la terapia di adolescenti che, anche se trattati da bambini, tornano in terapia per affrontare ciò che non lo era anni prima.

I casi descritti includono le difficoltà incontrate: ad esempio nel doversi interfacciare con gli organi istituzionali, come i Tribunali, oppure nella gestione e coordinazione di diversi attori e professionisti in interventi, come questi, di elevatissimo grado di complessità e delicatezza. Vengono analizzati gli errori commessi e viene fatta una riflessione rispetto ai risultati raggiunti finora se la terapia è ancora in corso.

Colpisce molto e fa riflettere, nel leggere i casi clinici, la gestione della forte risonanza emotiva che i terapeuti si sono trovati a gestire: un aspetto fondamentale nel trattamento di ogni paziente, che ha a che fare anche con l’ascolto empatico e l’accettazione di quanto accaduto.

In alcuni casi è il paziente che tende a difendersi […]Ma in altri casi il paziente non c’entra. C’entra piuttosto la tendenza difensiva del terapeuta, che ha fretta di allentare l’attenzione nei confronti della sofferenza traumatica vissuta dal bambino. È il terapeuta che vuole allontanare da sé il calice amaro della messa a fuoco di qualche aspetto impensabile, mentalmente insopportabile, della particolare vittimizzazione subita dal paziente.

ADHD e instabilità emotiva: cosa ci dice il nostro cervello a riguardo?

Sia in pazienti con ADHD che in soggetti che mostrano tratti di instabilità emotiva, sembrerebbero essere presenti alterazioni a livello cerebrale molto simili. Tutto ciò porta ad interrogarsi sulla possibilità che esista una correlazione tra queste due condizioni, o almeno è quello che hanno cercato di scoprire alcuni ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia in uno studio poi pubblicato su Molecular Psychiatry

 

L’attenzione clinica ha dimostrato che le persone con ADHD presentano diverse difficoltà nella gestione delle risposte emotive, ad esempio reagiscono con risposte caotiche, ansia e depressione. Non è stata tuttavia ancora rilevata in modo chiaro quale relazione esista tra ADHD e deficit di regolazione emotiva, sebbene siano state proposte teorie dove entrambe le condizioni siano radicate in una disfunzione nel modo in cui il cervello controlla l’elaborazione delle informazioni.

In questa direzione si è orientato anche lo studio condotto presso il Karolinska Institutet, che sembrerebbe confermare l’ipotesi secondo la quale sia l’ADHD sia forme di instabilità emotiva presente nei disturbi del comportamento infantile possano essere associati ad alterazioni simili o persino sovrapponibili a livello cerebrale.

Lo studio, che ha coinvolto più di 1.000 adolescenti, ha studiato le immagini strutturali del cervello di questi pazienti riscontrando come sia in soggetti con ADHD sia in soggetti con disturbi del comportamento caratterizzati da instabilità emotiva fosse presente un volume cerebrale ridotto in aree del cervello che generalmente coincidevano.

In conclusione, obiettivo dello studio è stato quello di fornire una migliore comprensione di come si sviluppano il cervello e il comportamento.

La speranza è che ciò porti non solo a diagnosi migliori ma anche a trattamenti migliori, in cui le persone con una diagnosi di ADHD possano ricevere una terapia adeguata in grado di consentirgli una gestione più efficace delle proprie emozioni.

Tra convergenze e differenze: la prima giornata del XIX congresso SITCC a Verona

La prima giornata del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) è stata un’occasione per confrontare i diversi orientamenti di vari esponenti della nostra società. Ho potuto ascoltare colleghi interessati alla mindfulness (Bassanini, D’Angerio, Donatella Fiore e Minniti), al modello metacognitivo interpersonale (Semerari, Carcione, Dimaggio e Nicolò), al modello post-razionalista (Mario Reda, Dodet, De Riso, Frassi, Fiori, Goretti, Mangini e Merigliano) e a quello cognitivo evoluzionista (Farina, Fassone, Ivaldi, Ruberti e Brasini).

 

Come ha notato Saverio Ruberti, in questo congresso l’esposizione delle proprie opinioni e dei propri modelli è accompagnata da una minore, o anzi assente, tensione personale rispetto a quanto accadeva un tempo. Questo è vero ed è un segnale, oltre che di un benedetto ingentilirsi dei costumi, anche forse di una crescente convergenza dei due modelli probabilmente più popolari della SITCC, quello metacognitivo interpersonale e quello cognitivo evoluzionista, sulla variabile chiave della relazione terapeutica, pur tra le inevitabili differenze.

Il modello metacognitivo interpersonale conserva un interesse per il funzionamento mentale non interpersonale e per un lavoro di analisi consapevole mentre quello cognitivo evoluzionista sembra accentuare sempre più il proprio interesse per la relazione, declinandola sempre più come esperienza emotiva intensa. Questo aspetto è apparso particolarmente evidente nel simposio in cui Nicolò, Mario Reda, Cecilia la Rosa e io stesso ci siamo cimentati in una seduta simulata di accoglimento di una paziente grave e suicidaria, recitata da Elena Prunetti, organizzatrice del congresso. Gli interventi di la Rosa e Reda hanno puntato molto sul coinvolgimento emotivo, mentre Giuseppe Nicolò ha lavorato sulla definizione degli stati mentali. A mia volta nella mia prova simulata ho tentato di lavorare sulla formulazione condivisa del caso e quindi sull’accertamento condiviso del funzionamento come fondamento e contratto del trattamento. In questo senso la relazione, nel nostro orientamento, diventa accertamento formalizzato delle barriere al trattamento e anch’essa diventa una formulazione condivisa e non un’esperienza emotiva che agisce correttivamente, come forse sembrano invece concepirla i cognitivo evoluzionisti e, in misura minore, i metacognitivo interpersonalisti.

SITCC 2018 Simposio TERAPEUTI E MODELLI TEORICI DIFFERENTI IN AZIONE

Queste differenze e convergenze si sono confermate anche negli altri simposi. I post-razionalisti che usano le organizzazioni di personalità per formulare il caso, sia in una maniera condivisa che potrebbe avvicinarli a noi che per relazionarsi col paziente in modalità che li avvicinano ai cognitivo evoluzionisti; questi ultimi che accentuano sempre più la componente teorica darwiniana e un interesse crescente per l’emotività e affettività; i metacognitivo interpersonalisti nella loro consueta posizione intermedia ma, a mio parere, sempre più o meno comunque sbilanciati verso il polo evoluzionista, visto il ruolo significativo che presso di loro gioca la componente relazionale. E la nostra posizione processualista fin dai tempi in cui Sandra Sassaroli iniziò a studiare il rimuginio invitando in Italia Tom Borkovec, sia pure senza dimenticare il vecchio interesse per la storia di vita, e la sfida è oggi riuscire a declinare questo aspetto evolutivo (e non evoluzionista) in termini processuali. È interessante poi come questo processualismo porti a riscoprire certi tesori metodologici del comportamentismo, storicamente incarnati nella SITCC da Stefania Borgo e Lucio Sibilia.

La psicoterapia Cognitiva nel servizio pubblico

Accanto a queste presentazioni è stato poi interessante seguire le analisi sulla diffusione e l’applicabilità della psicoterapia cognitiva nel servizio pubblico e privato della professoressa Mirella Ruggeri in plenaria e del simposio di Gabriele Caselli, Bravi, Paolo Michielin, Alessia Offredi, Daniela Rebecchi, e Michele Simeone. Il nocciolo di questa esperienza è sempre la dialettica tra bisogno di formalizzare gli interventi in procedure controllabili e replicabili e rischi di forzature artificiali, insomma la dialettica tra evidenze based practice e practice based evidence.

SITCC 2018 - Simposio VALUTAZIONE DEGLI ESITI NELLA PRATICA CLINICA

Giornata inaugurale del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC): in memoria di Gianni Liotti – SITCC 2018, Report dall’evento

Elena Prunetti, organizzatrice insieme a Francesco Mancini del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), ha aperto l’evento con la commossa e doverosa commemorazione di Gianni Liotti, mancato purtroppo quest’anno.

 

Una sessione inaugurale a suo modo attiva e propositiva e non funebre, aperta da Roberto Lorenzini co-autore dell’ultima opera di Gianni Liotti, un articolo sul narcisismo apparso su Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, la rivista ufficiale della SITCC, in cui i due autori hanno interpretato il narcisismo in termini evoluzionistici. E in questi termini ne ha parlato Lorenzini, raccontandoci anche come questo loro lavoro sia nato insieme al fiorire di un’amicizia più intima tra i due autori che per decenni era rimasta allo stato potenziale, un seme che non attecchiva e che infine è sbocciato.

Nella stessa linea anche gli interventi di Farina e Lambruschi, allievi affezionati di Liotti i quali, però, a evitare un rischio di eccesso di miele, hanno parlato anche di qualche contrasto sia caratteriale che scientifico. E tuttavia era chiara la linea della continuità tra il loro lavoro e quello del loro mentore.

Forse più scientificamente intensi gli ultimi due interventi, quelli di Antonio Semerari e Francesco Mancini, sia pure nei limiti di un momento giustamente commemorativo e non adatto a elucubrazioni troppo sottili. E tuttavia si è trattato di un momento anche scientificamente interessante. È da anni in atto una convergenza tra il modello della terapia metacognitivo interpersonale (TMI) di Semerari e quello cognitivo evoluzionista di Liotti e i sui allievi.

Tuttavia sul tema del narcisismo, cavallo di battaglia della TMI, Semerari ha voluto marcare un confine rispetto a Liotti, esponendo la sua posizione clinicamente più salda e meno propensa ai voli teorici dell’evoluzionismo psicologico. Analoga la posizione di Mancini, la cui collaborazione con il cognitivismo evoluzionista appare del resto meno convinta e più strumentale rispetto a Semerari. Continueremeo a seguire le svolte di questa convergenza, convergenza che potrebbe essere la griglia d’interpretazione dell’attività scientifica di questo congresso.

Queste puntualizzazioni cliniche di Semerari e Mancini sono state smagliature limitate nel tessuto di un pomeriggio che ha mantenuto un tono di rispettoso ricordo dell’opera di Liotti, ricordo che ha poi assunto toni commossi nella parte finale con la laudatio di Bruno Bara e poi l’invito sul palco della figlia di Liotti, venuta a ritirare un premio forse tardivo al padre.

SITCC 2018 la giornata inaugurale in ricordo di Gianni Liotti - Report IMM1Imm.1 – SITCC 2018: La figlia di Gianni Liotti ritira il premio al padre

 

Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare (2018): i DCA attraverso gli occhi di chi ne ha sofferto – Recensione del libro

In Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare, l’autrice Sandra Zodiaco racconta la sua esperienza e convivenza con il disturbo alimentare. Dal sentirsi in trappola, allo stare in bilico, al sentirsi in equilibrio con sé stessi e il mondo: sono queste le tappe principali che scandiscono il suo vissuto emotivo e che rappresentano le tre fasi in cui è suddiviso il testo.

 

Non è una narrazione di fatti ed episodi puramente descrittivi, non è un racconto in cui troverete personaggi che interpretano ruoli e maschere da decifrare.

È un libro di emozioni, di impressioni, è una storia scritta da dentro, che parla di sensazioni, di convivenza con la malattia, di un disagio a cui all’inizio non si sa dare nome e che ingloba tutto, facendo il vuoto intorno.

Oltre: il disturbo alimentare raccontato da dentro

Sandra ha scelto di spalancare le porte della sua interiorità, di ciò che ha provato, sentito e pensato per tutto il tempo in cui ha convissuto e lottato con(tro) il disturbo alimentare. Lo ha fatto nella maniera più diretta e vera possibile, con parole crude, mirate, precise, che vibrano forte. Lo ha fatto volendo spingersi Oltre la malattia, verso la Vita, verso la rinascita, verso la scoperta dei suoi veri bisogni e necessità.

Parole che per tanto tempo sono rimaste dentro di lei, nella sua mente, nel suo cuore, senza essere condivise, esplorate, risolte. Perché è proprio dell’accoglienza e dell’ascolto che la sua anima aveva bisogno. E non solo, non in primis, dell’accettazione e dell’ascolto da parte degli altri quanto piuttosto del rivolgersi a se stessa. Il bisogno di prendersi cura di sé, come esplicitato nel paragrafo introduttivo del volume: “DCA: Dona-ti Cure e Amore”.

In Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare, Sandra ci porta nel lungo viaggio dalla “prigione” alla visione della luce in fondo al tunnel. Lo fa parlando dei più forti sentimenti che hanno caratterizzato questo percorso: il senso di inadeguatezza, il vuoto, la solitudine, la paura, la depressione, il senso di impotenza, i rituali ossessivi, il perfezionismo, il timore della perdita di controllo.

Oltre: accettazione e responsabilità per uscirne

Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare non è un testo scientifico e non si parla di cause e di strategie risolutive. Si parla di presa di responsabilità, la responsabilità di prendere in mano la propria vita, il proprio futuro e il proprio benessere affidandosi a mani esperte e in grado di curare questa malattia. Perché di questo si tratta: il disturbo alimentare non è un capriccio, non è una scelta, non è mancanza di forza di volontà o energia.

Il libro può essere visto come supporto per i pazienti che si affacciano alla terapia, o che non sono ancora sicuri di voler intraprendere un percorso psicoterapeutico, per la possibilità di identificarsi con l’autrice e sentirsi meno soli. Può essere un valido mezzo di sostegno anche per i genitori di persone con DCA, per capire meglio il vissuto dei propri figli e stargli accanto nel miglior modo possibile. È infine un testo che può aiutare ad espandere l’informazione e la comprensione dei DCA in generale, per andare Oltre il pregiudizio e sensibilizzare la popolazione.

cancel