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Il cervelletto – Introduzione alla Psicologia

Il cervelletto, osservandolo a livello macroscopico, può essere paragonato a una farfalla, avente un corpo centrale ed allungato, definito verme, e due parti laterali, chiamate emisferi cerebellari, con avanti 2 piccole formazioni, una per lato, denominate flocculi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il cervelletto è un organo non simmetrico, dall’aspetto grossolanamente ovoidale, dal peso di circa 130-140 g, che varia da una persona all’altra, ed è posizionato nella fossa cranica posteriore, dorsalmente al ponte del tronco encefalico.

Il cervelletto fa parte del sistema nervoso centrale ed è collegato al tronco encefalico tramite 3 coppie di peduncoli cerebellari: inferiori, che si dirigono alla parte posteriore del bulbo, medi, che proiettano verso il ponte; superiori, che vanno verso il tetto del mesencefalo.

Anatomia del cervelletto

Il cervelletto, da un punto di vista filogenetico, si può dividere in tre aree diverse:

  • Archicerebello, formato dal nodulo (lobulo del verme) e dai due flocculi (lobuli degli emisferi) ed è l’area più ancestrale
  • Paleocerebello, costituito dalla restante parte del verme e dall’area paravermina
  • Neocerebello, caratterizzato dalla porzione media e laterale degli emisferi cerebellari

Il cervelletto, osservandolo a livello macroscopico, può essere paragonato a una farfalla, avente un corpo centrale ed allungato, definito verme, e due parti laterali, chiamate emisferi cerebellari, con avanti 2 piccole formazioni, una per lato, denominate flocculi.

Nel cervelletto è presente:

  • una parte inferiore costituita dalla presenza di una fessura lungo la linea sagittale, la vallecula del Reil
  • una parte superiore, dove è presente un rilievo mediano detto verme superiore
  • una parte laterale, costituita dall’estensione dei 2 emisferi cerebellari

La superficie del cervelletto è caratterizzata da strutture trasversali dette solchi o scissure cerebellari, aventi profondità diverse. Inoltre, i solchi meno profondi separano tra di loro le lamelle cerebellari, quelli profondi circoscrivono gruppi di lamelle e quelli più profondi delimitano i lobuli del cervelletto. Il più profondo tra i solchi cerebellari è definito grande solco circonferenziale che separa il verme superiore dal verme inferiore. Un altro importante solco è il solco primario o anteriore, così chiamato perché è il primo solco che compare durante lo sviluppo del cervelletto.

Il solco più profondo è il solco orizzontale di Vicq d’Azyr che divide le facce superiore e inferiore degli emisferi cerebellari e del verme. Altro importante solco è il solco primario che divide il cervelletto in un lobo anteriore e in un lobo posteriore I restanti solchi formano lobuli vermiani e lobuli emisferici sulla faccia superiore e sulla faccia inferiore del cervelletto.

I lobuli del cervelletto comprendono i lobuli del verme superiore che sono: lingula, lobulo centrale, culmen, declive, e quelli del verme inferiore sono: nodulo, uvula, piramide e tuber.
I lobuli della faccia superiore dell’emisfero cerebellare invece sono: frenulo della lingula, ala del lobulo centrale, lobulo quadrangolare, lobulo semplice e lobulo semilunare superiore. Infine, a livello della faccia inferiore troviamo la tonsilla, il lobulo biventre e il lobulo semilunare inferiore.

Internamente, il cervelletto è formato dalla sostanza grigia e dalla sostanza bianca, in cui sono presenti formazioni di sostanza grigia che costituiscono i nuclei del cervelletto.

La corteccia cerebellare, inoltre, presenta tre diversi strati:

  • strato dei granuli, formato da cellule piccolissime dette appunto granuli la cui funzione è aumentare gli stimoli eccitatori che afferiscono in questa zona
  • strato molecolare, costituito dalle cellule stellate, poste in superficie e dalle cellule dei canestri (o stellate interne) che si dispongono nella parte più profonda dello strato molecolare
  • strato centrale, formato principalmente dalle cellule del Purkinje, che si estendono in superficie attraverso i pirenofori formando lo strato molecolare, mentre in profondità si trovano i granuli

I nuclei del cervelletto afferiscono nel corpo midollare del cervelletto e sono: il nucleo del tetto, facente parte dell’archicerebello, i nuclei globoso ed emboliforme, inerente al paleocerebello, e il nucleo dentato, localizzato nell’emisfero cerebellare, appartenente al neocerebello.

Caratteristiche funzionali

Il cervelletto costituisce una parte della via motoria indiretta, o via cortico-ponto-cerebello-rubro-reticolo-spinale, che origina dalla corteccia motoria secondaria e dalla corteccia temporo-parieto-occipitale-emisferica. Da qui partono le fibre ponto-cerebellari che giungono alla corteccia cerebellare del neocerebello.

Nel cervelletto esistono tre aree funzionalmente differenti:

  • Il paleocerebello o spinocerebello o somato cerebello, area, filogeneticamente antica, che si connette al midollo spinale, si estende davanti al solco primario e si prolunga in una zona cospicua del verme. Questa area regola il tono muscolare e la postura
  • Il vestibolocerebello o archicerebello, caratterizzata dal nodulo, estremità anteriore del verme inferiore e dai flocculi. Questa area è connessa ai nuclei vestibolari dell’orecchio interno, responsabili dell’equilibrio
  • Il neocerebello o corticocerebello o cervelletto medio, è formato da lobi laterali e da una piccola parte del verme. Esso è connesso alla corteccia cerebrale attraverso la via cortico-ponto-cerebellare ed è il centro regolatore dei movimenti volontari e automatici

Quindi, la principale funzione svolta dal cervelletto è la coordinazione delle uscite motorie. Di conseguenza se si verificassero lesioni cerebellari si avrebbe una compromissione della coordinazione dei movimenti degli arti e degli occhi ma anche dell’equilibrio.

La corteccia cerebrale riceve un comando motorio del movimento volontario da seguire e dagli arti riceve informazioni circa l’effettivo svolgimento dello schema. Qualora sussistano differenze tra il movimento programmato e quello effettivamente realizzato, il cervelletto può correggere il movimento durante la sua attuazione, attraverso un meccanismo di feedback negativo.

Il cervelletto, inoltre, svolge un ruolo importante anche per le emozioni e per le cognizioni.

È stato dimostrato che lesioni acquisite al cervelletto possono determinare una serie di disturbi definiti cerebellar cognitive affective syndrome e sono caratterizzati dalla riduzione delle competenze cognitive generali con specifiche cadute di tipo neuro-psicologico, disordini del linguaggio espressivo e disturbi dell’affettività.

Inoltre, è stato osservato il coinvolgimento del cervelletto nel controllo di alcuni compiti cognitivi e neuropsicologici, come il linguaggio, l’interazione interpersonale, il controllo e la modulazione dell’affettività, lo sviluppo e l’apprendimento in generale, nella patogenesi di alcune forme di autismo (Tavaso et al., 2007).

Recentemente è stato documentato che, le cellule di cui principalmente è formato il cervello, ovvero i granuli, rispondono allo stimolo della ricompensa oltre a svolgere funzioni motorie. Tutto questo suggerisce che il cervelletto possa svolgere un ruolo importante nei processi cognitivi (Wegner et al., 2017).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

L’ipotesi del narcisismo maligno alla base dell’acting-out di Matthias Schepp

Attraverso il racconto del caso Matthias Schepp cerchiamo di ripercorrere e comprendere quali sono le caratteristiche del disturbo narcisistico di personalità in una delle sue forme più gravi: il narcisismo maligno.

Carmen Garofalo

 

Nel 2011 la cronaca ci ha reso partecipi della crudeltà di un uomo, marito e padre, che prima porta via le sue bambine di sei anni, Alessia e Livia, facendole scomparire nel nulla e poi si uccide gettandosi sotto i binari di un treno al termine di un lungo e apparentemente incomprensibile viaggio.

Quest’uomo si chiamava Matthias Schepp, all’epoca dei fatti aveva 41 anni, figlio di genitori separati, ingegnere presso una multinazionale del tabacco.

Nel 2015 la giornalista e scrittrice Concita De Gregorio dà voce alla madre di Alessia e Livia, Irina Lucidi, attraverso la pubblicazione del libro “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli Editore), in cui la donna fa un ritratto granitico dell’uomo, del marito e del padre, nonché della loro storia.

Sono state dette tante cose su Matthias Schepp: i familiari, dopo l’accaduto, lo hanno definito malato, affetto da schizofrenia, il personale del centro donne maltrattate, a cui si rivolse Irina prima del fatto, lo aveva definito “psico-rigido”, mentre poi, dopo l’accaduto, i termini “folle” e “criminale” hanno riempito le testate giornalistiche e l’opinione pubblica.

Chi era davvero, Matthias Schepp? Cosa c’era sotto l’immagine dell’uomo “gentile, educato, premuroso e allegro” che Irina aveva conosciuto durante il loro primo incontro in un fine settimana organizzato dall’azienda presso la quale lavorava anche lei, e che poi, nella loro relazione, si era rivelato sempre più controllante, intransigente, mostrando allo sguardo della moglie occhi che lei stessa definisce “pozzi ciechi”, occhi chiari che sembravano vuoti nei quali riferisce di aver incontrato la “negazione della compassione”?

Ritratto dell’uomo, del marito, del padre

Alessia e Livia nacquero il 7 ottobre del 2006.

Con le bambine Matthias sembrava un padre attento, Alessia e Livia si divertivano molto con lui, racconta Irina. Vivevano in una casa grande, scelta da Matthias.

Irina parla spesso, nel libro della De Gregorio, della subdola violenza del marito: dice che aveva imparato ad avere paura delle sue manie e dei suoi silenzi, di quella che lei prima chiamava cura e prendersi cura, che con il passare degli anni era diventata un’ossessione.

La loro casa, con il tempo, era diventata un covo di post-it gialli con le sue istruzioni, persino le più elementari; erano attaccati alla lampada sul comodino con direttive su come accendere la luce del bagno “prima chiudere la porta, poi accendere la luce”, in cucina con le dosi di cereali da versare, quale tipo di latte usare e a quale temperatura “il latte deve essere scaldato nel bricco e non nel forno a microonde, deve essere versato dopo che i cereali sono stati messi nella tazza e non prima”, dietro la porta d’ingresso con scritto “rientrando chiudere a una o tre mandate, sempre comunque in numero dispari, e lasciare la chiave nella serratura”, dietro l’anta dell’armadio con la lista degli abiti delle bambine da indossare, in due elenchi verticali con i nomi di Alessia e Livia in alto e in stampatello, persino con l’ordine con cui gli indumenti dovevano essere indossati; non doveva mai capitare che, anche per sbaglio, le bimbe avessero lo stesso paio di calze, perché Matthias non sopportava che fossero vestite allo stesso modo.

Queste istruzioni, con gli anni, sono diventate veri e propri ordini, dal “non chiudere” al “chiudi!”, tanto che Irina si era rivolta a un centro per donne maltrattate dove le avevano consigliato di lasciarlo.

Ma al prendere questa decisione per lei drastica, Irina aveva scelto di proporre a Matthias di andare da una terapeuta di coppia; lui aveva accettato alla condizione che fosse tedesca. Dopo alcuni incontri, Matthias decise di voler andare da una psicologa diversa, da solo.

Dopo circa sei anni di vita insieme, dopo un breve percorso di terapia fallito e quando le bambine avevano cinque anni, Irina decise per la separazione.

All’inizio Schepp era contrario, non tanto per la separazione in sé, quanto per il fatto che fosse stata Irina a prendere l’iniziativa senza prendere in considerazione il suo parere. Poi smise di combattere e accettò. Si separarono nell’agosto del 2010: Matthias avrebbe visto le bambine una sera a settimana e un week end ogni due settimane. Nei mesi successivi alla separazione, Matthias aveva cercato più volte un riavvicinamento con Irina, usando anche le bambine per inviarle dei messaggi e supplicarla di tornare insieme.

Avrebbe voluto l’affidamento congiunto delle bambine ma Irina glielo negò.

Nell’ultima mail che Irina scrisse a Matthias, datata 26 gennaio 2011, la donna gli anticipò che nelle settimane successive sarebbero stati pronti i documenti per il divorzio.

Dal 30 gennaio 2011 iniziò, concretamente, il suo viaggio più crudele.

Dinamica dei fatti: cosa accade dal 30 gennaio 2011 al 3 febbraio 2011

L’ultimo week end del gennaio 2011 spetta a Matthias Schepp tenere le bambine, come da accordi.

A questo punto, però, è necessaria una precisazione: nel periodo immediatamente precedente a quel week end, per le vacanze di Natale, Schepp aveva insistito per portare le bambine con sé per tre settimane in barca con alcuni loro amici e, anche se questo non era negli accordi, Irina accettò poiché anche le bambine insistevano per fare quella vacanza. Apparentemente durante quelle tre settimane non successe nulla, anzi, Irina ricevette foto di loro tre insieme e felici.

Dopo quella vacanza Alessia e Livia ritornano a casa da Irina per altre due settimane fino al venerdì 28 gennaio quando Matthias prende con sé le bambine per passare il week end insieme.

La mattina di domenica 30 gennaio, intorno alle undici, lascia le bambine a un vicino di casa perché giochino insieme al figlio di quest’ultimo per poi andarle a riprendere due ore dopo.

Di quelle due ore si sa soltanto che telefona a Irina per dirle di non venire a riprendersi le bambine quel giorno, come da accordi, per riportarle da lei la sera stessa, avvisandola che stavano giocando dai vicini di casa e stavano bene, e di andarle a riprendere a scuola all’uscita il giorno dopo perché le avrebbe accompagnate lui all’indomani.

Come già scritto sopra, Schepp va a riprendere le bambine dai vicini intorno all’una di domenica 30 gennaio 2011. Il vicino di casa racconta che intorno alle 14:30 si reca nuovamente a bussare a casa Schepp perché suo figlio desiderava ancora giocare con le bambine ma nessuno gli risponde.

Non si sa se Matthias Schepp e le bambine, a quell’ora, fossero ancora in casa. Quello che si conosce di questo folle viaggio lo si può riscontrare solo attraverso i frammenti del navigatore recuperati dalla polizia giudiziaria di Foggia scavando tra le pietre dei binari della ferrovia di Cerignola, luogo dove Schepp ha posto fine alla sua vita, le celle agganciate dal suo cellulare fino al momento in cui questo viene spento e la testimonianza resa agli atti di alcune persone (per le fonti riguardanti la seguente ricostruzione del percorso e le informazioni a disposizione si fa riferimento al sito cronaca-nera.it, ai giornalisti Claudio Del Frate del Corriere della Sera, Alessia Ripani de La Repubblica e Manila Mancini di fanpage.it, oltre alla testimonianza della stessa Irina nel libro di Concita De Gregorio).

Tappe ed orari:

  • alle 15:50 di domenica 30 gennaio 2011 il cellulare di Matthias Schepp aggancia la cella di Morges, un paese a 5 km da Saint-Sulpice che a sua volta dista 10 km da Saint-Simon, il piccolo paese dove vivevano
  • alle 18:04 passa il confine con la Francia: qui c’è un buco di circa un paio d’ore, in quanto da Saint-Sulpice al confine bastano circa 45 minuti
  • alle 18:21, all’uscita dell’autostrada all’altezza di Annecy, invia l’ultimo sms alla moglie, in risposta al suo inviato alle 17:50 in cui gli chiede di riportarle le bambine. In quest’ultimo sms Schepp rassicura la moglie dicendo che le avrebbe riaccompagnate lui stesso a scuola il giorno dopo
  • alle 19:38 si trova a Lione, impiegando più di un’ora per fare meno di 50 km. Da questo momento Matthias spegne il suo cellulare. Una testimone giudicata attendibile ha detto di aver visto le bambine questo stesso giorno insieme al padre nei pressi dell’aeroporto di Lione (De Gregorio, 2015)

Occorre inserire alcune note riguardo il ruolo di Irina in queste ultime ore. La donna non risponde all’ultimo messaggio del marito e decide di assicurarsi personalmente che le bambine stiano bene; pertanto accorre a casa di Schepp quello stesso giorno senza trovare nessuno, recandosi anche dai suoi vicini di casa che le confermano di aver visto le bambine intorno all’una e di aver sentito il motore della macchina di Schepp intorno alle 16.

A quel punto Irina decide di chiamare la polizia che perquisisce la casa e in un cassetto chiuso a chiave trova il testamento di Matthias Schepp, scritto in tedesco, datato “Saint Sulpice 27 gennaio 2011”, all’interno del quale si ravvisa un campanello d’allarme nelle parole “qualora le mie figlie Alessia e Livia non siano più in vita”. In casa, vicino alla porta d’ingresso, Irina trova anche i peluches dai quali le bambine non si separavano mai per dormire.

Il 31 gennaio Schepp preleva 7.500 € a Marsiglia e qui acquista tre biglietti per la Corsica, direzione Propriano. Schepp, da Marsiglia, spedisce una cartolina raffigurante un coniglio in un prato verde alla moglie, la quale la riceve il giorno 3 febbraio (vedi allegato 2): l’uomo le scrive che “ormai è troppo tardi”.

A questo punto è necessaria un’altra precisazione riguardo al ruolo di Irina: quando la donna riceve questa cartolina (il successivo 3 febbraio) parte verso Marsiglia e lascia la sua deposizione alla polizia insieme all’avviso di furto di macchina in quanto l’Audi sulla quale viaggiava Schepp era di sua proprietà.

Il primo febbraio, alle 6:30 del mattino, Schepp sbarca al porto di Propriano.

Il giornalista Claudio Del Frate sul numero del 12 febbraio 2011 del Corriere della sera, rivela che una donna, Olga Orneck, dice di aver visto Schepp con le gemelline insieme ad una signora bionda intorno alle 9:30 del mattino, ma non si hanno certezze sull’attendibilità di questa testimonianza.

Le tracce dell’uomo si perdono fino a quando alcuni testimoni lo avvistano a Bastia, nel nord della Corsica, nella serata di questo stesso giorno, senza le bambine

Dal porto di Bastia s’imbarca poi sulla tratta Bastia-Tolone a bordo del traghetto Sardinia-Ferries

Arrivato a Tolone spedisce una lettera alla moglie Irina, il cui contenuto non è stato reso pubblico (Ripani, 2011).

Il 2 febbraio, in macchina, si dirige verso l’Italia percorrendo la Costa Azzurra. La sua Audi viene fotografata all’ingresso di Ventimiglia.

Il 3 febbraio si ferma a Vietri sul Mare dove pranza da solo in un ristorante nel quale chiacchiera anche con il padrone del locale – testimonianza resa agli atti – di un quadro di Guido De Franceschi appeso alle pareti del luogo che dice assomigliare a sua moglie, informandosi anche sul prezzo che il ristoratore vorrebbe, qualora lui volesse comprare il quadro. Quello stesso giorno invia alla moglie 4.400 € suddivisi in sette buste ciascuna contenenti 50 euro e una lettera, intercettata dalla polizia cantonale, in cui dichiara di aver ucciso le bambine e di volersi uccidere; di seguito alcuni frammenti della stessa “Sarò l’ultimo a morire e ho già fatto morire le bambine; non le rivedrai più; loro non hanno sofferto e ora riposano in un luogo tranquillo”.

Poi, nei pressi della stazione di Cerignola, parcheggia l’auto e lascia il suo cellulare dentro, sul cruscotto. Nell’auto viene ritrovato anche il supporto per il navigatore, ma non l’apparecchio che porta con sé insieme alle chiavi della macchina. Quella stessa sera, a poca distanza dalla stazione, alle 22.45, si getta sotto l’Eurostar Milano-Bari.

Analisi dell’acting-out di Matthias Schepp alla luce dell’ipotesi del narcisismo maligno

I criteri diagnostici per l’inquadramento del disturbo narcisistico di personalità secondo il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) descrivono un pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

  • Ha un senso grandioso di importanza (per esempio, esagera risultati e talenti, si aspetta di essere considerato/a superiore senza un’adeguata motivazione)
  • È assorbito/a da fantasie di successo, potere, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale.
  • Crede di essere “speciale” e unico/a e di poter essere capito/a solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata
  • Richiede eccessiva ammirazione
  • Ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative)
  • Sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta delle altre persone per i propri scopi)
  • Manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri
  • È spesso invidioso/a degli altri o crede che gli altri lo/a invidino
  • Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti, presuntuosi

Quando si passa dalla patologia narcisistica meglio funzionante al disturbo narcisistico di personalità grave, l’intensità dell’aggressività aumenta raggiungendo il picco nella sindrome di narcisismo maligno (Kernberg, 1984) collocata in un’area al limite tra il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo antisociale di personalità e caratterizzata da: disturbo narcisistico di personalità, comportamento antisociale, aggressività egosintonica, sadismo rivolto verso gli altri o verso se stessi e un forte orientamento paranoide.

Kernberg descrive, in tal modo, una dimensione di comportamento antisociale che collega il disturbo narcisistico di personalità con il disturbo antisociale ma, a differenza dei soggetti con disturbo della personalità antisociale, questi possono avere un atteggiamento realistico verso il proprio passato e una pianificazione del proprio futuro (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012).

Questi soggetti sono dominati da precursori sadici del Super-Io a tal punto che i precursori successivamente idealizzati del Super-Io non possono neutralizzarli, per cui l’integrazione del Super-Io viene bloccata: aspettative realistiche o proibizioni provenienti da oggetti parentali sono state o svalutate o trasformate in minacce persecutorie (Kernberg, 1993).

Questa particolare forma di disturbo narcisistico di personalità porta il soggetto ad aggiungere al suo sé grandioso anche un aspetto di onnipotenza, come se il proprio mondo di relazioni oggettuali abbia esperito una trasformazione maligna (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012) che ha portato alla svalutazione di relazioni oggettuali interiorizzate potenzialmente buone da parte di un sé patologico, sadico e grandioso (Rosenfeld, 1971) che ha preso il posto dei precursori sadici del Super-Io assorbendo tutta l’aggressività e trasformando quelle che, altrimenti, sarebbero le componenti sadiche del Super-Io in una struttura anormale del sé, che poi combatte contro l’interiorizzazione di successive, più realistiche componenti superegoiche (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012).

Disturbo narcisistico di personalità e Relazioni oggettuali

Per questi soggetti, le relazioni oggettuali amorevoli non solo possono essere facilmente distrutte ma “contengono il seme di un attacco da parte dell’oggetto onnipotente e crudele” (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012): il primo passo è la sottomissione totale, il secondo è l’identificazione con l’oggetto stesso che dà un senso di potere, liberazione dalla paura e la sensazione che l’unico modo di comunicare con gli altri sia la gratificazione della propria aggressività (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012).

Il sadismo di questi soggetti si esprime nella loro volontà di “autoaffermazione assertiva” e spesso con tendenze suicidarie (Kernberg, 2004), che riflettono la fantasia di esercitare un controllo sadico sugli altri: togliersi la vita, per questi soggetti, significa affermare la propria superiorità o uscire da un mondo che sentono di non riuscire a controllare (Kernberg, 2004).

In questi soggetti “la critica costituisce una minaccia dissolutiva per l’identità e la risposta distruttiva sembra riaffermare in modo speculare una posizione di diritto e di potenza” (Cairo et al. 2008).

L’aspetto dell’orientamento paranoide nel narcisismo maligno, riflette la proiezione di precursori superegoici non integrati (Kernberg, 2004): ne consegue che gli altri vengono visti o come idoli o come persone stupide.

All’interno di questa cornice, dunque, gli oggetti buoni sono percepiti come deboli ed inaffidabili e quindi disprezzati, quelli cattivi sono invece potenti e necessari alla sopravvivenza ma sadici ed ugualmente inaffidabili. L’unica speranza di sopravvivenza e di evitamento del dolore e della sofferenza resta, quindi, il proprio potere e il sadismo che permettono di controllare gli oggetti, sia quelli buoni e sia quelli cattivi (Kernberg, 2004).

Alcune ricerche suggeriscono che “il narcisismo maligno può esprimersi in violenza apparentemente auto-giustificabile, crudeltà sadica o auto-distruttività laddove aggressività e sadismo si combinano con eccitazione e autostima accresciuta” (Ronningstam, 2005).

In casi estremi chi soffre di narcisismo maligno può diventare un omicida, in quanto considera “l’uccisione come un’azione giustificata di ritorsione, un tentativo disperato di prendere il controllo e di proteggere la propria autostima” (Ronningstam, 2005).

L’amore di sé patologico che si esprime in un’autoreferenzialità e in un’autocentratura eccessiva, si manifesta con una certa grandiosità che spesso si esprime in valori infantili come la capacità di attrarre con il proprio corpo, potere, ricchezza, modo di vestirsi, modi di fare (Kernberg, 2004); in ciò sembra riflettersi proprio quello che Irina racconta a proposito del suo primo incontro con Schepp e delle modalità da lui messe in atto per attirare la sua attenzione: Irina lo descrive come “bello, alto, sportivo e biondo” (De Gregorio, 2015); parlando del loro primo incontro, Schepp appare come un uomo all’antica che le apriva anche le porte delle stanze per farla entrare, serio e solare, “un uomo capace di farla ridere tutta la sera” (De Gregorio, 2015).

Lo stesso uomo, però, che col tempo rivela la sua estraneità e un senso di vuoto per tutto ciò che lo circonda; come quando Irina racconta dell’episodio sotto i portici di Bologna incontrando un bambino mendicante e descrivendo gli occhi di Schepp come “pozzi ciechi”: in quella che la donna chiama la “negazione della compassione” (De Gregorio, 2015) sembra riflettersi sia l’amore patologico di sé stessi in quanto i soggetti con disturbo narcisistico di personalità sono persone emotivamente superficiali soprattutto in relazione ad altre persone, e sia l’amore oggettuale patologico proprio della personalità narcisistica che consciamente si manifesta anche per una mancanza di interesse negli altri, un’incapacità di provare empatia (American Psychiatric Association, 2015) o attaccarsi realmente ad altre persone (Kernberg, 2004).

Altra manifestazione dell’amore patologico è la svalutazione degli altri (Kernberg, 2004). Le persone con disturbo narcisistico di personalità svalutano gli oggetti reali poiché hanno incorporato quegli aspetti degli oggetti reali che desiderano per sé stessi: dissociano da sé e rimuovono o proiettano sugli altri tutti gli aspetti negativi di se stessi e degli altri (Kernberg, 2004). La svalutazione altrui viene messa in atto nel tentativo di difendersi da potenziali sentimenti di invidia (Kernberg, 2004); come indicato anche dal criterio 8 del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015), i soggetti con disturbo narcisistico di personalità sono spesso invidiosi degli altri: a questo proposito è utile sottolineare che Irina ricopriva un ruolo di maggior prestigio nella multinazionale dove lavorava anche Schepp, era richiesta più di lui, viaggiava più di lui, guadagnava anche più di lui; la donna rivela che Schepp si sentiva spesso sottovalutato per questo, e anche se non ne avevano mai parlato apertamente, lei sentiva come una specie di risentimento nei suoi confronti (De Gregorio, 2015).

Per ciò che riguarda la svalutazione e le continue vessazioni, in tanti episodi raccontati da Irina riscontriamo la denigrazione che Schepp metteva in atto nei suoi confronti e nei confronti degli altri. L’episodio dell’imbianchino italiano, per esempio, in cui possiamo rilevare una doppia svalutazione: per Irina in quanto italiana e per Irina in quanto persona. Schepp non si fidava di questo imbianchino perché era “italiano”, perché gli “italiani non lavorano bene” (De Gregorio, 2015) e girava con uno specchietto per la casa per controllare bene tutto, anche gli angoli ciechi; in più, era stata proprio Irina a chiamarlo, a prendere questa decisione in prima persona, senza consultarlo: nella manifestazione del disprezzo verso l’imbianchino italiano, o anche nella scelta della psicologa di coppia che doveva essere obbligatoriamente tedesca altrimenti lui non ci sarebbe andato, sembra riflettersi il 3 criterio del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) secondo il quale i soggetti con disturbo narcisistico di personalità “credono di essere speciali e di dover frequentare persone o istituzioni speciali o di classe sociale elevata”; in questo caso l’essere speciale era riferito alla nazionalità tedesca. La svalutazione di Irina come persona, invece, che aveva osato prendere una decisione da sola, sembra rimandare a quel tentativo di difendersi da potenziali sentimenti di invidia che, come descritto nel capitolo precedente, si presenta come una forma speciale di odio, una delle manifestazioni affettive principali dell’aggressività (Kernberg, 2004), che può divenire così intenso da sfociare nella distruzione primitiva di ogni consapevolezza degli affetti, in un obnubilamento del normale funzionamento cognitivo e in una trasformazione degli affetti aggressivi in acting-out (Kernberg, 2004). In questo episodio si riscontra anche un atteggiamento di arroganza nei confronti della moglie, come indicato nel criterio 9 del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) e di prepotenza: davanti alle bambine che erano in macchina con loro fece scendere la moglie in strada costringendola a tornare a casa da sola e non dando sue notizie per le successive quattro ore (De Gregorio, 2015).

In questo contesto l’invidia è una forma di odio per un altro che è percepito come qualcuno che rifiuta di concedere qualcosa di molto desiderabile (Kernberg, 2004). Cosa c’era di desiderabile per Schepp in quell’episodio? Il controllo, il bisogno di potere, il prevalere sulla moglie, un disconoscere i diritti dell’altro poiché per conquistare il potere tali soggetti hanno necessariamente bisogno di sminuire gli altri (Filippini, 2016); senza il potere e il controllo sugli altri questi soggetti non potrebbero evitare l’invidia che altrimenti proverebbero per la capacità altrui di funzionare in maniera autonoma (Kernberg, 2004). Schepp ha spesso manifestato questa suo potere su Irina, questa “cosificazione” (Fornari, 2012) dell’altro che si rispecchia, ad esempio, nel non chiamarla mai per nome, ma di presentarla agli altri come “mia moglie”, nel parlare di Irina con Dolores, la baby-sitter delle bambine, riferendosi con un “lei deve partire” (De Gregorio, 2015) invece di Irina deve partire; o ancora, anche la madre di Schepp metteva in atto le stesse dinamiche del figlio, e tutti i suoi parenti, “un ruolo accanto ad un attributo di possesso” scrive la stessa Irina (De Gregorio, 2015): “mia nuora”, “mia cognata”. Mai, racconta Irina, ricorda di averli sentiti chiamarla per nome.

Il senso del controllo lo si può rilevare anche nel comportamento di Schepp di apporre post-it in ogni dove nella casa; suggerimenti che poi diventano indicazioni, indicazioni che poi diventano ordini: “prima chiudere la porta, poi accendere la luce”, “rientrando chiudere a una o tre mandate, sempre comunque in numero dispari, e lasciare la chiave nella serratura”, per poi passare dal “non chiudere” al “chiudi!” (De Gregorio, 2015).

Disturbo narcisistico di personalità e Tratti ossessivi

La presenza di tratti ossessivi nei soggetti con disturbo narcisistico di personalità viene vista non solo come fattore di controllo del disagio ma segnala anche l’incremento dell’angoscia che, essendo riferita alla dissoluzione del Sé, non sono in grado di arginare (Cairo et al., 2008). Il controllo riscontrabile è solo apparente e la tendenza a mettere in atto comportamenti perfezionistici è collegata all’idea che nessun altro sia in grado di risolvere l’angoscia emergente (Cairo et al., 2008).

Non era forse anche un segnale di imprevedibilità, per lui, la notizia della gravidanza? Irina racconta che Schepp non aveva reagito bene, parla proprio di un uomo che aveva perso il controllo, che balbettava, che “raschiava la gola come se dovesse tossire senza riuscirci” (De Gregorio, 2015): come se fosse impossibile da sopportare, e forse imperdonabile per lui non essere riuscito a controllare e a pianificare tutto.

Disturbo narcisistico di personalità e Deficit di mentalizzazione

Nei soggetti narcisisti gravi, inoltre, la carenza delle capacità di mentalizzazione, un sentimento sociale collassato e l’intolleranza alla sofferenza tendono ad innescare meccanismi compulsivi che spingono all’agito autodistruttivo (Cairo et al., 2008).

Il comportamento di Matthias Schepp

Kernberg (1984) afferma che lo sviluppo più drammatico del disturbo narcisistico di personalità si ha quando ad un sé grandioso si combina una forte dose di aggressività, che fa sì che a questo sé patologico si aggiunga un aspetto di onnipotenza in cui la grandiosità viene rafforzata dal senso di trionfo provato infliggendo dolore e paura agli altri (Kernberg, 1984). L’agito di Schepp nell’intraprendere quel lungo viaggio crudele, nel prendere le bambine e portarle via alla madre, nel farle sparire nel nulla senza che nessuno, tantomeno Irina, riuscisse a scoprire il “dove” e il “se” fossero morte, e poi nel togliersi la vita buttandosi sotto un treno, riflette appunto la combinazione esplosiva di un sé patologico e di una forte dose di aggressività auto ed eterodiretta e di sadismo, che fanno ipotizzare in lui la condizione più grave della patologia narcisistica, la sindrome di narcisismo maligno.

A seguito della decisione di Irina di separarsi da lui e della negazione dell’affidamento delle bambine, il sé grandioso patologico ed onnipotente di Schepp che “cosifica” gli altri (Fornari, 2012) ed è quindi incapace di sopportare che questi altri oggettivati e in suo potere possano prendere decisioni al posto suo, decidere per lui, togliere a lui qualcosa che lui stesso non vede come persone ma come sua proprietà, cioè le bambine, che Schepp non ha mai visto come esseri altri da sé ma come un suo possesso, bambine strumentalizzate per sopperire al suo bisogno di onnipotenza che Irina aveva osato scalfire, sfocia nell’acting-out distruttivo.

Si può ipotizzare che Schepp abbia usato i sentimenti di madre di Irina per sublimare il suo bisogno di potere: il settimo criterio del DSM 5 per la diagnosi di disturbo narcisistico di personalità indica come sintomo la mancanza di empatia (American Psychiatric Association, 2015); in questo caso, però, si può ipotizzare in Schepp un’empatia strumentale, propria dei soggetti con grave patologia narcisistica il cui sadismo permette di controllare l’altro (Kernberg, 2004) e quindi di capire l’altrui punto debole e riconoscere dove poter infliggere più dolore. Schepp ha riconosciuto il sentimento di madre in Irina, sapeva dove colpire per fare più male e ha usato questo riconoscimento per mettere in atto il suo piano distruttivo che si rivela nel suo “non le rivedrai mai più” nella lettera alla moglie. Si tratta di una pianificazione lucida: a rafforzare tale ipotesi c’è il ritrovamento del suo testamento datato 27 gennaio 2011, il giorno dopo l’ultima mail inviatagli da Irina nella quale lei gli scrive della sua convinzione per il divorzio e di tutti i documenti ormai pronti, nel quale Schepp scrive: “qualora le mie figlie Alessia e Livia non siano più in vita”; fermo restando che l’imprevedibilità della vita può sorprenderci sempre, pensare che le bambine potessero non essere più in vita all’età di sei anni se non per mano sua, appare inverosimile.

Dunque, la pianificazione lucida e maligna di questo soggetto non si è esplicitata nel togliere la vita alle sue figlie e poi nel suicidio, ma si è espressa in un atto di persecuzione post-mortem nei confronti della moglie, ottenendo, con la sparizione delle bambine e con la sua morte, il mantenimento di quella “relazione di potere che consiste nell’usare l’altro a proprio piacere, nel corrompere tale relazione mantenendone il controllo” (Filippini, 2016) in questo caso fino alla fine: Irina non avrà mai pace perché mai saprà dove sono finite le sue bambine e Schepp, con il suo pianificato suicidio da protagonista nel lanciarsi sotto i binari di un treno, ha definitivamente posto fine a qualsiasi speranza di ricevere da lui anche la più minima informazione.

Il suicidio di Schepp riflette la sua volontà di esercitare un controllo sadico su sua moglie: togliersi la vita, per i soggetti con patologia narcisistica grave, significa affermare la propria superiorità o uscire da un mondo che sentono di non riuscire a controllare (Kernberg, 2004): Schepp non riusciva più a controllare Irina che aveva deciso per la separazione, contro il suo volere, che aveva osato prendere una decisione da sola riguardo il loro rapporto nel quale doveva essere lui, invece, ad averne il controllo.

Si può ipotizzare che abbia manifestato lo stesso controllo sulla vita delle sue figlie, portandole via alla madre, facendole sparire, negando loro il diritto ad avere una madre e, probabilmente, una vita, e usandole come strumento, prima di ritorsione, e poi di persecuzione, nei confronti di Irina.

È stato proprio questo l’intento riuscito di Schepp: avere per tutta la vita il controllo di sua moglie anche dopo la sua morte, tenendola in scacco attraverso il dubbio più crudele per una madre.

Lei stessa scrive:

Io devo avere la certezza di aver fatto tutto il possibile […], non posso lasciare aperta la porta a nessun dubbio […], temo che siano morte ma non ho i loro corpi. Il lutto in assenza del corpo è un’emorragia misteriosa e inarrestabile: hai sempre nuova linfa da perdere, si rigenera, non arriva mai il giorno in cui si estingue (De Gregorio, 2015).

Ed è proprio in questo che si rivela il suo narcisismo maligno, in questo giorno che non arriverà mai per Irina, paralizzata dalla ritorsione di Schepp e dal suo tentativo diabolico e riuscito di “prendere il controllo” della sua vita (Ronningstam, 2005) fino alla fine.

Conclusioni

Questa è un’analisi ipotetica e personale su quello che può aver spinto Schepp ad intraprendere il suo viaggio e a compiere l’agito.

La lucidità e la pianificazione con la quale Schepp ha architettato tutto, anche giorni prima del suo viaggio (si ricordano le ricerche fatte su internet circa i veleni e i modi più o meno dolorosi per uccidersi, la scrittura del testamento datato 27 gennaio 2011 e quelle riga in riferimento all’eventuale scomparsa delle bambine), lascia intendere che Schepp comprendesse ciò che stava facendo e fosse consapevole delle conseguenze del suo gesto: laddove c’è strategia e pianificazione c’è capacità di intendere e di volere, al di là della struttura di personalità e dei disturbi riscontrabili in essa; non sempre un disturbo della personalità, come ipotizzato in questo caso, compromette la capacità di intendere e di volere.

Sono passati cinque anni da quel gennaio del 2011. Non si hanno ancora notizie delle due bambine e rimangono ancora molti i punti da chiarire, come espresso da Irina nel libro (De Gregorio, 2015) ed elencati qui di seguito: ad esempio, primo fra tutti, l’allarme rapimento, poiché la polizia svizzera non ha mai allertato i colleghi francesi e italiani nei giorni intercorsi tra il 30 gennaio e il 3 febbraio; la casa di Saint-Sulpice mai messa sotto sequestro, dove avrebbero potuto esserci degli oggetti o delle impronte che avrebbero potuto aiutare a fare luce sui fatti; le psicologhe che avevano seguito Schepp, prima in coppia con Irina e poi singolarmente, che non sono state mai ascoltate; le scarpe da trekking sporche di fango che i vicini di casa avevano visto addosso a Schepp la mattina del 30 gennaio e che Irina ha ritrovato in casa con ancora la terra infiltrata nelle suole e che nessuno ha mai analizzato; non sono state neanche esaminate tutte le chiamate in entrata e in uscita nella scheda telefonica di Schepp per sapere se, con chi e per quanto tempo ha parlato quel giorno della scomparsa delle bambine; infine, i borsoni da vela di cui Irina ha denunciato la scomparsa alla polizia: in quei borsoni Schepp conservava i suoi strumenti da vela poiché era un velista, ma a casa Irina trovò tutte le sue cose nell’armadio senza alcuna traccia dei due borsoni grandi.

Irina non si darà pace fino a quando non troverà la verità, forse per sempre o forse mai.

Schepp, nella sua lucida distruttività, è riuscito nel suo intento di controllarla per tutta la vita, come un persecutore post-mortem.

L’unica certezza è che Schepp si è ucciso, portando con sé tutti i suoi segreti: dove sono le bambine e chi era lui davvero.

Ansia del contraccambiare: quando ricevere favori crea disagio

Secondo un team di ricercatori, guidato da Xiling Xiong della Zhejiang University in Cina, esisterebbe una nuova forma di ansia: l’ ansia del contraccambiare.

 

Gli autori ritengono non sia solo uno stato, ma un tipo di ansia sociale, che alcuni di noi a volte possono provare. Per esempio, se entriamo in un negozio e ci vengono offerti drink e stuzzichini, questo potrebbe suscitare in noi ansia, in quanto ci sentiamo obbligati nel dover ricambiare gli omaggi offerti comprando qualcosa nel negozio.

I ricercatori hanno creato un nuovo questionario che permette di misurare questo tipo di ansia. La Reciprocity Anxiety Scale comprende undici item, ai quali può essere dato un punteggio di cinque punti sul grado di accordo/disaccordo.

Ansia del contraccambiare quando ricevere un favore ci mette a disagio immagine

From Xiong et al. (2018), Reciprocity anxiety: Individual differences in feeling discomfort in reciprocity situations

Ansia del contraccambiare: il questionario

Nella scala, l’ansia del contraccambiare è suddivisa in due fattori tra loro correlati:

  • Fattore 1: evitamento, che comprende il ricevere favori/aiuti/complimenti e il sentire il bisogno di ricambiare di conseguenza
  • Fattore 2: ansia, che comprende non solo quella relativa al non essere in grado di ricambiare, ma anche quella collegata a ciò che gli altri possono pensare se non ricambi il favore

I ricercatori ritengono che maggiore è il favore ricevuto, maggiore è l’ansia provata, soprattutto se avvenuto pubblicamente.

Inoltre, questo tipo di ansia dovrebbe essere oggetto d’interesse per le aziende, in quanto i programmi di fidelizzazione, i voucher o altri omaggi offerti dalle compagnie, potrebbero dunque non essere apprezzati da tutti i clienti, anzi in chi soffre di questo tipo di ansia potrebbe sortire l’effetto contrario.

Ansia del contraccambiare: lo studio

Nello studio, pubblicato sul Journal of Economic Psychology, Xiong e colleghi hanno chiesto a centinaia di volontari di completare il questionario, immaginando due tipi di situazioni:

  • nella prima un cassiere offre un voucher del 20% di sconto sull’acquisto e su eventuali ulteriori acquisti
  • nella seconda un cameriere da un coupon prima di consigliare un dolce costoso

Le persone con i punteggi più alti della scala, erano più propensi a dire che avrebbero rifiutato il voucher nel negozio e che si sarebbero sentiti obbligati ad ordinare il dolce costoso al ristorante.

In un follow up, è stato chiesto ai volontari di immaginare di essere in un negozio dove un commesso offre free drink ed un piatto con stuzzichini. I soggetti con un’alta ansia del contraccambiare, avevano assegnato punteggi bassi nella categoria soddisfazione del cliente ed inoltre erano meno propensi nel ritornare e nel diffondere una buona parola per quel negozio.

Secondo i ricercatori, la reciprocità e lo scambio di favori servono a stabilire un legame psicologico tra cliente ed azienda, ma in alcune persone questo provoca un disagio tale da favorire lo sviluppo di questa “ansia da contraccambio”, soprattutto se il ricambiare risulta complicato (circa il 18% dei soggetti nello studio ha ottenuto punteggi alti, il genere e l’età non sono risultati essere correlati).

Gli autori suggeriscono che nel futuro, attraverso l’osservazione di una serie di comportamenti sarà possibile determinare il livello di questo tipo di ansia nelle persone, cosicché le aziende possano adattare in modo appropriato le proprie strategie di marketing.

Lo studio presenta alcuni limiti in termini di validità ecologica, poiché é basato su risposte a situazioni ipotetiche mentre sarebbe auspicabile osservare il comportamento effettivo delle persone in contesti reali. Inoltre, potrebbe essere interessante analizzare questo tratto nelle relazioni sociali e non solo rapporti commerciali.

I disturbi acquisiti del sistema dei numeri e del calcolo: inquadramento clinico e spunti di riabilitazione

Negli ultimi decenni le neuroscienze hanno fatto significativi progressi nella comprensione di come il cervello si rappresenti le informazioni numeriche e come sostenga le computazioni matematiche (Marangolo & Carlomagno, 2007).

Francesca Fumagalli, Open School Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Henschen (1919) parlò di “acalculia” definendola come un disturbo acquisito del processamento numerico e nel calcolo dovuto ad una lesione cerebrale. Prima di Henschen, erano presenti in letteratura altre analisi e ipotesi di definizione dei disturbi di calcolo, anche se molti di questi casi furono interpretati come conseguenze di deficit della facoltà di linguaggio (Graziano, 2009). L’ acalculia venne descritta come una sindrome non unitaria, che può assumere forme diverse; è funzionalmente indipendente da altre funzioni cognitive (ad esempio dall’afasia). Berger nel 1926 introdusse la distinzione tra acalculia primaria o “pura”, corrispondente alla perdita di concetti numerici ed alla incapacità di capire o eseguire operazioni aritmetiche, e acalculia secondaria, che corrispondeva a difficoltà del calcolo derivante da altri deficit cognitivi (Graziano, 2009).

Acalculia: numeri e calcoli diventano una difficoltà

Gerstmann (1940) ipotizzò che l’ acalculia primaria fosse sempre associata a disgrafia, disorientamento destra-sinistra ed agnosia: tale sindrome è da allora conosciuta come sindrome di Gerstmann; studi più moderni hanno mostrato una correlazione tra la sindrome e danni parietali posteriori di sinistra (Mazzoni el al., 1990). Hécaen e collaboratori (1961) propongono una classificazione dell’ acalculia individuandone una forma con difficoltà di lettura e scrittura di numeri (isolate o associate a disturbi del  linguaggio); l’ acalculia spaziale, che risulterebbe associata a disordini spaziali generali; infine, proposero il termine “anaritmetia” per indicare un deficit selettivo delle abilità di  calcolo frequentemente associata a lesioni parietali sinistre. Tale classificazione classica non è tuttavia in grado di spiegare la varietà dei deficit di calcolo ed elaborazione numerica (Girelli & Seron, 2001).

Grazie a studi neuropsicologici clinici e di neuroimaging strutturale e funzionale è stato possibile osservare pazienti con lesioni cerebrali acute, croniche o degenerative che presentano specifiche difficoltà di processamento numerico e di calcolo che prendono il nome di acalculia acquisita (Hécaen & Angelergues, 1961; Semenza, 2008). Difatti, i disturbi acquisiti di numeri e del calcolo non sono infrequenti a seguito di una patologia neurologica diffusa o focale (Marangolo & Carlomagno, 2007). La frequenza dei disturbi acquisiti nell’uso dei numeri e del calcolo nei pazienti neurologici varia dal 10% al 90% a seconda della patologia sottostante e della localizzazione della lesione (Cappa et al., EFSN, 2011; Cappelletti et al., 2012). Nello specifico, l’incidenza di acalculia in pazienti con lesioni emisferiche sinistre è del 16-28%, in pazienti con demenza di Alzheimer in fase iniziale del 90% (Carlomagno et al.,1999). Anche lesioni emisferiche destre, in particolare parietali e a livello del giro angolare di destra, possono determinare deficit numerici/aritmetici, ad esempio fallimento nel recupero dei  fatti aritmetici, nell’applicare il riporto o il prestito, non necessariamente associati a disturbi visuo-spaziali o negligenza spaziale unilaterale (Benavides-Varela et al., 2014; 2016).

Tali disturbi possono presentarsi quindi associati ad afasia (prevalentemente per lesioni emisferiche sinistre), ma possono anche presentarsi in assenza di deficit linguistici; inoltre errori linguistici in persone afasiche (quali ad esempio le parafasie) possono mascherare in realtà abilità di calcolo pressoché integre (Marangolo & Carlomagno, 2007).

Per molto tempo trascurati, a partire dagli anni ’80 del Novecento l’analisi dei profili di soggetti cerebrolesi sinistri con deficit di calcolo ha permesso di sviluppare modelli che spiegassero la struttura e il funzionamento dei meccanismi e moduli cognitivi che sono alla base di tale abilità. Si alternarono differenti ipotesi e modelli di elaborazione, tutti caratterizzati dall’idea condivisa di un’indipendenza funzionale tra il sistema preposto a comprensione e produzione dei numeri e quello dedicato all’elaborazione del calcolo (Marangolo & Carlomagno, 2007).

Acalculia: modelli di funzionamento dei sistemi numerici e di calcolo

In particolare, secondo il modello del triplice codice di Dehaene (1992) la nostra mente rappresenta i numeri secondo tre diversi codici: uno visuo-arabico rappresenta i numeri come stringhe di cifre (125); uno uditivo-verbale li rappresenta come sequenze sintatticamente organizzate di parole (centoventicinque); infine il codice analogico di grandezza li rappresenta come porzioni di attivazione lungo un’ipotetica linea numerica e veicola informazioni semantiche. Ogni codice sarebbe deputato a compiti numerici specifici. Secondo questo modello l’uomo possiede una dotazione innata o senso numerico che gli permette di apprezzare gli aspetti quantitativi del nostro ambiente, che avrebbe sede neurale a livello del solco intraparietale (Girelli, 2013).

Da menzionare inoltre il modello di McCloskey (1992), il quale cercò di effettuare un’analisi funzionale presuppone l’esistenza di moduli di elaborazione indipendenti deputati a comprensione orale e scritta e produzione orale e scritta dei numeri in codice arabico (4), fonologico (quattro) e ortografico [QUATTRO], connessi tramite una componente centrale che conserverebbe la conoscenza semantica del numero ( ad esempio che 5 è maggiore di 4). Ogni sottocomponente poi prevede meccanismi lessicali e sintattici che determinano la produzione delle singole cifre che compongono il numero e i rapporti tra le cifre all’interno del numero. Lo studio degli errori commessi dai pazienti ha permesso di stabilire l’indipendenza tra meccanismi lessicali e sintattici: nel primo caso gli errori erano sostituzioni di una o più cifre dello stimolo il cui ordine di grandezza era sempre adeguato (ad esempio 357 al posto di 356); nel caso dei meccanismi sintattici lesi, errori tipici sono risposte di ordine di grandezza sbagliate ( ad esempio 356 > di 30056). Al modello si aggiunge un modulo indipendente preposto alle operazioni di calcolo, composto da sottocomponenti  con funzioni differenti: la componente dedicata al riconoscimento dei segni aritmetici, passaggio importante perché è il segno che stabilisce le procedure a cui sottoporre i numeri coinvolti nell’operazione (Capasso & Miceli, 2001); i fatti aritmetici, ossia problemi elementari alla cui soluzione si accede automaticamente tramite l’attivazione di sistemi di memoria procedurale; infine le procedure di calcolo, che consistono nella conoscenza dei passaggi che applichiamo nel risolvere un operazione. Un deficit delle procedure di calcolo si evidenza con errori dovuti alla mancata applicazione di una più regole quali ad esempio l’incolonnamento, il riporto o il prestito.

Altri studi hanno permesso caratterizzare meglio le conoscenze del sistema numerico, in particolare è stato dimostrato che i numeri rappresentano una categoria lessicale-semantica distinta dalle parole (Piras & Marangolo, 2009) e da altre conoscenze semantiche, ad esempio per i colori (Eger et  al., 2003)o le parti del corpo (Le Clec’ et al., 2000). I disturbi acquisiti nell’uso dei numeri e del calcolo rappresentano deficit in parte misconosciuti ma seriamente invalidanti (Marangolo & Carlomagno, 2007); inoltre , le abilità numeriche sono fortemente sensibili al danno cerebrale (Girelli & Seron, 2001). Molte delle nostre attività quotidiane richiedono di riconoscere, comprendere e produrre numeri o svolgere calcoli aritmetici. Difatti, usiamo i numeri per designare e così assumono la forma di numeri enciclopedici: etichette nominali, date familiari o storiche, informazioni numeriche autobiografiche; i numeri vengono utilizzati anche per ordinare, ossia mettere in una sequenza  logica i vari elementi, in questo caso si parla di numeri ordinali. Infine, con i numeri cardinali contiamo e confrontiamo, ossia calcoliamo una quantità. I numeri servono quindi a comunicare e condividere informazioni generali (ad esempio in che anno siamo) o personali (ad esempio età, quantità di figli, numero di scarpe), per gestire il tempo e gli appuntamenti, per fare acquisti usando i soldi, per cucinare, e ancora per assumere una terapia o prendere decisioni (comprendendo frequenze e percentuali).

Acalculia: come fare diagnosi

Alla luce dell’impatto che un deficit acquisito del calcolo può avere nella vita di tutti i giorni, la valutazione clinica delle abilità numeriche deve permettere di stabilire la presenza di un deficit, identificandolo, e stabilire l’impatto nelle autonomie quotidiane. Questo per programmare (laddove possibile) un intervento riabilitativo, usando la strategia di apprendimento ottimale. La natura degli errori, così come il punteggio totale, è una importante informazione diagnostica: è bene quindi documentare sempre le varie tipologie di errori.

Per la valutazione neuropsicologica si possono usare vari strumenti tra cui:

  • Test standardizzato per la diagnosi di acalculia (Basso e Capitani, 1979). Test clinico creato allo scopo di quantificare i disturbi di calcolo riscontrati nei soggetti cerebrolesi, non permette tuttavia una diagnosi funzionale. Il test presenta campione normativo.
  • Batteria per la valutazione dei disturbi del sistema di elaborazione dei numeri e del calcolo (Miceli & Capasso, 1991). E’ basata sul modello di McCloskey e valuta il sistema di elaborazione dei numeri e del calcolo con svariate prove, in varie modalità di input e output, con un elevato  numero di stimoli; non ha tuttavia un campione normativo di riferimento ma si rileva utile nella programmazione e nel follow-up di terapie mirate ad aspetti specifici del deficit discalculico.
  • Batteria EC 301 per la valutazione dei pazienti adulti cerebrolesi (Dellatollas et al., 1993). Batteria che aggiunge alle prove sopra menzionate anche compiti di conta, numerazione, posizionamento di numeri su scala visuo-analogica e prove volte ad indagare conoscenza numeriche precise ( ad esempio, quante ruote ha una macchina). È disponibile anche una versione semplificata (EC 301 R) che richiede minor tempo di somministrazione, entrambe le versioni non sono però commercialmente disponibili in Italia. La versione breve inoltre si è rilevata utile nel definire gli aspetti dei deficit di calcolo ed elaborazione numeri in pazienti con demenza di Alzherimer in fase iniziale (Carlomagno et al., 1999).
  • Number  processing  and calculation  battery – NPC (Delazer  et al., 2003). Consta di 35 prove tra le quali conteggio, comprensione dei numeri (giudizi pari/dispari,  comprensione di quantità), transcodifica numerica tra vari formati, calcolo (fatti, regole, procedure, a mente, approssimativo), ragionamento  aritmetico nella vita quotidiana e conoscenza concettuale (comprensione di principi aritmetici); ha un campione normativo di riferimento e permette dato il numero complessivo di item e subtest una deifinzione dettagliata del deficit del soggetto.
  • Numerical activity of daily life – NADL (Semenza  et al., 2014). Consente di valutare le abilità numeriche del paziente usando brevi prove di difficoltà crescente, valutando  come le attività della vita quotidiana dipendono da specifiche abilità numeriche. Fornisce le basi per un successivo intervento basato su specifici pattern di deficit. Ha un campione normativo.

Acalculia: strategie di riabilitazione e recupero

Per quanto concerne la fase riabilitativa, tuttora la conoscenza su strategie di recupero più efficaci è limitata, in particolare perché gli studi di riabilitazione sono pochi e basati su casi singoli o piccoli gruppi; inoltre spesso non è stato valutato l’outcome funzionale e solo in un limitato numero di casi la generalizzazione. Per impostare un trattamento specifico è fondamentale non solo effettuare una diagnosi approfondita a livello funzionale, ma anche considerare motivazione e aspettative del paziente, che spesso sono strettamente connesse con le modalità di utilizzo premorbose del sistema numerico: per coloro il cui ex lavoro richiedeva una costante manipolazione di numeri, come ad esempio cassieri o insegnanti, l’impatto del deterioramento nel calcolo può essere particolarmente drammatico (Rizzi, 2014).

Fondamentalmente vengono usati due approcci: restitutivo e compensativo (Girelli & Seron, 2001).

  • L’approccio restitutivo consiste nel ri-apprendimento tramite pratica intensa (reimparare i fatti aritmetici o rendere nuovamente automatico il processo di recupero), alla cui base vi è l’ipotesi che la pratica così strutturata possa favorire il recupero di funzionalità delle componenti lese (Girelli & Seron, 2001). Per esempio, pensiamo ad un deficit specifico nel recupero dei fatti aritmetici: si assume che un adulto con capacità nella norma sia in grado di eseguire l’operazione “4 x 5” recuperandola rapidamente dal magazzino di memoria a lungo termine. Un paziente con compromessa abilità di recupero dei fatti aritmetici potrebbe fallire in tale recupero e quindi, dopo un’elaborazione numerica, rispondere sbagliato. A questo punto si può lavorare affinché il paziente re-impari l’informazione o ri-automatizzi il processo di recupero del fatto aritmetico. può essere sottoposto a problemi matematici a cui non sa rispondere correttamente in una modalità di “drill”, ossia frequente e intensa, finché l’associazione tra problema e risposta corretta viene recuperata.
  • La modalità compensativa prevede la promozione dell’uso di  strategie di “back-up” sulla base delle strategie residue del paziente. Pensando allo stesso paziente citato poco sopra, la riabilitazione potrebbe fondarsi su procedure di conteggio: 6×4 diventerebbe 6+6+6+6 o di decomposizione: 7+8 scomposto in 7+3=10 10 +5= ) (Cappa et al., EFSN 2011; Girelli & Seron, 2001).

Questa è solo una breve descrizione del deficit del sistema numerico e del calcolo e delle possibilità per individuarlo e valutarlo; data la ricaduta che tali difficoltà hanno nella quotidianità, diventa di cruciale importanza non solo la fase valutativa, ma anche la possibilità di impostare trattamenti riabilitativi specifici, impostati sul profilo di deficitarietà e di residualità di ciascun paziente.

La ripetizione dell’uguale – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 38

Da dove nasce quella sensazione di conforto, piacevolezza e in un certo qual modo di rassicurazione che spesso proviamo di fronte a ciò che si ripete sempre uguale giorno dopo giorno?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La ripetizione dell’uguale (Nr. 38)

 

Cosa spinge i bambini a rivedere sempre gli stessi cartoni e addirittura a privilegiare alcuni passaggi che conoscono a memoria senza non che si stanchino mai? Perché vogliono che gli sia raccontata sempre la stessa storia ed anzi richiedono un particolare punto della vicenda che appena finito vogliono sia ripetuto? E addirittura se il genitore introduce delle varianti anche solo lessicali, rispolverando la sua conoscenza dei sinonimi per vincere la noia, lo correggono prontamente e pretendono sia ristabilità la verità come si trattasse della traduzione di un testo sacro dove la parola di Dio è una e una sola?

Cos’è quel piccolo fastidio che si prova quando in una esecuzione dal vivo un cantante cambia, improvvisando, un verso di una sua canzone la cui sequenza abbiamo stampata nella mente?

Perché gli amici si ritrovano a recitare sempre lo stesso prevedibilissimo copione in cene dalla liturgia risaputa?

Perché gli anziani seduti al bar si scambiano secchiate di luoghi comuni sempre uguali che a guardarli da fuori verrebbe da pensare che non possono fare sul serio?

Perché negli ascensori ci affrettiamo a dire tre o quattro ovvietà sul tempo secondo un preciso spartito che prevede come apertura una constatazione circa il meteo (che sia il caldo, il freddo o la pioggia non importa), cui segue da parte dell’altro una solidale lamentela per terminare immancabilmente con la chiusura del primo con l’affermazione che “è il tempo suo, se non lo fa adesso…”? Poi si può prendere la strada dei proverbi con il classico e abusato “non ci sono più le mezze stagioni” ravvivandolo con la dichiarazione della consapevolezza che è un vecchio modo di dire ma che adesso è proprio vero che non ci sono più le mezze stagioni, e giù con i cambiamenti climatici, il surriscaldamento, Trump e via così a seconda del tragitto da percorrere. Oppure proporre una svolta psicologica più intimistica con un “è che non siamo mai contenti…”, cui far seguire a seconda dell’età degli interlocutori un amarcord del tipo “una volta, ai miei tempi (che sarebbe utile intanto stabilire una volta per sempre quale sia l’età cui ci si riferisce con “ai miei tempi” perché a rigor di logica anche gli attuali lo sono se si è ancora in vita – evenienza probabile se si sta in ascensore).

Dunque a fronte della ricerca della novità sbandierata dalla pubblicità come un bene in sé, sembra che si cerchi conforto nella “ripetizione dell’uguale” nella ripercorrenza del risaputo, del già detto.

Sarebbe da calcolare di quanto deve essere migliore una cosa nuova rispetto a quella vecchia per consentire di superare l’inerzia dell’abitudine. Gli amanti che rivaleggiano con i coniugi dovrebbero rifletterci di più.

Il fatto che avvenga soprattutto nell’infanzia e nella vecchiaia (tempi entrambi di fragilità) indica un significato rassicuratorio che credo riferibile alla stabilità del mondo esterno e soprattutto del sé.

È come se quei dialoghi apparentemente banali, quelle ripetitività stereotipate avessero come sottotitoli “tranquillo va tutto bene, il mondo è quello di sempre, tu sei in grado di prevederlo e di fronteggiarlo perché anche tu sei sempre lo stesso, ti riconosco perfettamente”.

Insomma, per illuderci di poter avere un minimo controllo sull’esistenza cerchiamo di fare previsioni e questo è possibile solo se il mondo, gli altri e noi stessi siamo ripetitivi.

Quei dialoghi sono la celebrazione della nostra identità (attenzione va bene pure se l’altro ci maltratta da sempre: l’importante è che non smetta).

Non essere riconosciuti – e peggio non riconoscersi più- deve essere un bel guaio, per cui togliti da davanti allo specchio.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Dizionario clinico di Psicoterapia: una lingua comune (2015) di S. Borgo, L. Sibilia e I. Marks – Recensione del libro

Il Dizionario Clinico di Psicoterapia di Stefania Borgo, Lucio Sibilia e Isaac Marks promette molto, promette una lingua comune per la psicoterapia

 

Una promessa impegnativa in questi tempi in cui è sempre più chiaro che il termine “psicoterapia” è un ombrello dentro il quale convivono approcci disomogenei e frammentati.

Non basta. La frammentazione è anche interna ai singoli approcci. Gli autori, ad esempio, sono di formazione cognitivo comportamentale. Ebbene, anche questo termine è ormai un ombrello troppo largo e al tempo steso pieno di buchi che raccoglie sotto di sé pratiche e teorie che spesso hanno poco in comune e talvolta sono tra loro del tutto incompatibili.

Troppa gente si affolla sotto un ombrello rotto che fa passare troppe fastidiose gocce di pioggia.

Il Dizionario Clinico di Psicoterapia: analisi dei singoli interventi terapeutici

Dopo queste premesse l’obiettivo di Borgo, Sibilia e Marks suonerebbe audace al limite dell’irrealizzabilità. Eppure i tre autori riescono nell’intento. Intendiamoci, non sono riusciti, e nemmeno volevano, creare una lingua comune che mettesse d’accordo le principali scuole e sottoscuole della psicoterapia e ne risolvesse le aporie teoriche e cliniche. Questo sarebbe stato davvero troppo ambizioso. Sono però riusciti a dare definizioni operative affidabili e credibili di una serie d’interventi terapeutici. E ci sono riusciti perché gli autori, umili e ambiziosi al tempo stesso, hanno evitato le secche della teoria e non hanno ambito a risolvere contrasti ormai secolari.

Partendo da un punto di vista ateorico, essi hanno compilato una serie di schede concise (in media un paio di pagine), agilmente consultabili e molto pratiche, in cui di ogni intervento è riportata una definizione operazionalizzata, i nomi degli autori che per primi l’hanno definita, una breve bibliografia che inizia con il lavoro in cui fu pubblicata per la prima volta, i presumibili ambiente ed epoca in cui fu utilizzata per la prima volta, le applicazioni principali e un breve caso clinico.

L’esame delle schede degli interventi che il recensore conosce meglio, ad esempio quelli che riguardano la terapia cognitivo-comportamentale standard, ha rivelato l’elevata qualità e precisione delle definizioni. Ad esempio la freccia verso il basso è correttamente definita come una tecnica che si conclude con l’accertamento di una credenza sul sé. Se lo stesso livello di qualità è sta rispettato anche per gli altri interventi siamo di fronte a un ottimo lavoro.

Non dimentichiamo poi che il Dizionario Clinico di Psicoterapia: una lingua comune è un testo che definisce interventi di tutte le scuole, dalla cognitiva comportamentale alla psicodinamica alla sistemico-familiare.

Insomma le perplessità iniziali si sono rivelate fortunatamente solo dei pregiudizi. Il lavoro di Borgo, Sibilia e Marks è di grande aiuto per mettere ordine e mappare il grande mare degli interventi psicoterapeutici. Una buona bussola che non ci salva dalle tempeste che ancora infuriano e infurieranno ancora per lungo tempo rendendo la navigazione difficile ma che può aiutarci a non affondare. Non è poco.

Olfatto e memoria: una connessione che potrebbe spiegare alcuni sintomi dell’Alzheimer

Esiste un circuito neurale tra Nucleo Olfattivo Anteriore (NOA) e ippocampo, la struttura cerebrale responsabile della nostra memoria e altamente implicita nella malattia di Alzheimer.

 

Una nuova ricerca canadese ha indagato il meccanismo responsabile della formazione della memoria episodica olfattiva.

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, offre una spiegazione del modo in cui il senso dell’olfatto viene rappresentato nella memoria e potrebbe spiegare perché la perdita di questo senso sia un sintomo precoce del morbo di Alzheimer.

I neurobiologi dell’Università di Toronto hanno indagato il modo in cui il cervello rivive esperienze sensoriali utilizzando l’olfatto; Afif Aqrabawi dottorando del Dipartimento di Biologia Cellulare e dei Sistemi, ha detto

[blockquote style=”1″]I nostri risultati dimostrano, per la prima volta, come gli odori che abbiamo incontrato nella nostra vita vengano ricreati nella memoria. Abbiamo scoperto il meccanismo che permette di ricordare il profumo della torta di mele quando si entra nella cucina della nonna.[/blockquote]

I ricercatori hanno indagato il legame esistente tra memoria e olfatto scoprendo che le informazioni spaziale e temporali, il dove e il quando si percepisce per la prima volta un odore, vengono integrate all’interno di una regione del cervello nota come nucleo olfattivo anteriore (NOA).

Olfatto, memoria e malattia di Alzheimer

Gli studiosi hanno scoperto l’esistenza di un circuito neurale tra NOA e ippocampo, la struttura fondamentale per i processi mnestici e altamente implicita nella malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno quindi ipotizzato di poter simulare, interrompendo la comunicazione tra le due strutture, i problemi legati alla memoria olfattiva osservati tipicamente nei pazienti affetti da Alzheimer.

Conducendo una serie di esperimenti sui topi si è scoperto che i roditori che presentavano una disconnessione tra ippocampo e NOA tornavano ad annusare più volte e per lunghi periodi odori già percepiti, al contrario i topi con una connessione integra non mostravano questo tipo di comportamento. Gli esperimenti hanno dimostrato l’incapacità negli animali lesionati di creare una memoria per gli odori basata sugli indizi spaziotemporali.

Il professor Junchul Kim del Dipartimento di Psicologia ha affermato

[blockquote style=”1″]I risultati ci hanno permesso di comprendere meglio quali circuiti cerebrali governano e creano la memoria episodica olfattiva. Le evidenze trovate appaiono utili da un lato per studiare meglio questo tipo di memoria nell’uomo e dall’altro per investigare i meccanismi sottostanti la perdita dell’olfatto osservata nelle condizioni neurodegenerative.[/blockquote]

Numerose ricerche in effetti riportano la disfunzione olfattiva, in particolar modo la perdita di memoria relativa agli odori, come sintomi della malattia di Alzheimer indicando come tale deficit preceda il declino cognitivo tipico del morbo e appaia correlato al grado di severità della malattia.

Kim ha precisato

[blockquote style=”1″]Vista la precoce degenerazione del NOA nella malattia di Alzheimer, il nostro studio suggerisce che i deficit di memoria olfattiva riscontrati in questi pazienti comportino difficoltà nel ricordare il quando e il dove sono stati percepiti gli odori.[/blockquote]

Ad oggi i test olfattivi utilizzati per l’individuazione della malattia di Alzheimer risultano imperfetti poiché rimane sconosciuta la causa sottostante i problemi olfattivi in questa malattia. I ricercatoti affermano che con una miglior comprensione dei circuiti neurale alla base della memoria olfattiva, si potrebbero sviluppare test migliori che esaminino efficacemente il corretto funzionamento di questi circuiti giungendo ad una diagnosi precoce della malattia.

Come alleggeriamo il nostro carico cognitivo: il Cognitive Offloading

Ci sono diversi modi in cui possiamo liberare la nostra mente dal carico cognitivo richiestoci nello svolgimento di un compito attraverso l’uso dell’azione fisica: il Cognitive Offloading può essere attuato agendo su noi stessi (sul nostro corpo), sul mondo e gli oggetti esterni oppure sugli altri esseri umani.

Giuseppe Rabini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Se pensassimo a quanto, nella quotidianità dei nostri giorni al lavoro, a scuola, a casa o con gli amici il nostro cervello sia impegnato a risolvere problemi, trovare soluzioni ed elaborare informazioni, ci renderemmo subito conto di una cosa: le nostre capacità cognitive hanno dei limiti.

Attenzione, percezione e memoria, come altre abilità cognitive, hanno un proprio quantitativo di saturazione che certamente può variare a livello individuale e contestuale, e che può essere alterato da condizioni fisiche, neuropsicologiche e psicologiche invalidanti, ma che nonostante ciò resta pur sempre presente.

Una delle peculiarità più affascinanti della mente umana risiede nella capacità di utilizzare il corpo e il mondo esterno per alleggerire il carico di elaborazione cognitiva richiesto per lo svolgimento di determinati compiti. Negli ultimi decenni un vasto numero di ricerche si è concentrato su queste tematiche e su una concettualizzazione più ampia della cognizione: ne sono un esempio le teorie sull’Embedded e Embodied cognition, Extended e Distributed cogntion.

Uno degli articoli scientifici di riferimento risale alla fine degli anni novanta (Andy Clark & David Chalmers,1998), in cui gli autori espongono chiaramente la linea teorica a cui ci si riferisce con Extended Mind. Gli autori sostengono infatti che la linea che separa la nostra mente dal mondo esterno sia così labile da poter concepire l’ambiente come facente parte della mente stessa. Una mente che opera manipolando il mondo esterno, e sul quale fa affidamento per compiere e facilitare le proprie operazioni, una ‘mente estesa’ appunto.

I temi e le argomentazioni che verranno presentate nel proseguo di questo articolo si possono ritrovare negli approcci teorici sopra riportati, il riferimento ad una concettualizzazione più ampia della cognizione umana accomuna infatti tali tematiche. Ciononostante, gli argomenti trattati cercherenno di riferirsi nello specifico ad un processo cognitivo chiamato Cognitive Offloading.

Cosa s’intende per Cognitive Offloading?

Con Cognitive Offloading generalmente si intende “l’utilizzo dell’azione fisica per alterare l’elaborazione dell’informazioni necessaria per lo svolgimento di un compito, in modo da ridurne la richiesta cognitiva” (Risko & Gilbert, 2016). Una traduzione letterale di Cogntive Offloading potrebbe identificarsi con “scaricamento cognitivo”: scaricare la nostra cognizione ci permette infatti di favorire l’attuazione del compito stesso, superare i nostri limiti e capacità di processamento, diminuire lo sforzo e l’impegno richiesti. Se nella vostra vita avete anche solo una volta contato con le dita, inclinato la testa per leggere un testo scritto con un particolare orientamento, appuntato note sui vostri quaderni a scuola, scritto gli appuntamenti della settimana sulla vostra agenda o se l’avete fatto segnandolo sui vostri smartphones, allora stavate agendo secondo quello che appunto chiamiamo Cognitive Offloading.

Risko e Gilbert (2016) evidenziano il fatto che, seppur la tematica sia presente in letteratura da decenni, solo recentemente essa sia diventata oggetto di sistematiche ricerche scientifiche, questo dovuto anche allo sviluppo esponenziale dei prodotti tecnologici che, come si può facilmente intuire, sono potenti strumenti sui quali poter scaricare la nostra cognizione.

Ma come viene studiato questo il Cognitive Offloading dal punto di vista scientifico? Guardiamo un esempio.

Nel loro studio, Risko e colleghi (2014) cercano di investigare come utilizziamo il nostro corpo, in particolare come incliniamo fisicamente la nostra testa, in un contesto di lettura di lettere o parole il cui asse di riferimento è ruotato. In una serie di tre esperimenti, gli autori hanno chiesto ai partecipanti di leggere ad alta voce, nel modo più accurato e veloce possibile, delle lettere (o parole) disposte su righe differenti e orientate in modo differente nelle diverse prove (gli stimoli venivano presentati sullo schermo di un computer). In diverse condizioni sperimentali veniva poi permesso, ristretto o incoraggiato il movimento della testa. I partecipanti venivano videoregistrati durante l’esperimento, in modo da poter osservarne l’eventuale comportamento attivo. I risultati principali indicano che le persone tendevano spontaneamente ad inclinare la testa tanto più aumentava il costo associato alla lettura del testo ruotato presentato. Questo era particolarmente evidente nella condizione in cui non venivano presentate sequenze di singole lettere ma quando venivano presentati a schermo dei brevi paragrafi di testo. In tale condizione non solo i partecipanti ruotavano maggiormente la testa, ma questo favoriva lo svolgiemento del compito, riducendone la compromissione dovuta alla rotazione dello stimolo.

Sembrerebbe quindi che le persone valutino la difficoltà e lo sforzo necessario per l’esecuzione di un compito per decidere quale strategia utilizzare, in questo caso utilizzare il proprio corpo per risolvere l’esercizio. Risko e collaboratori si riferiscono a questa strategia come ‘normalizzazione esterna’. Infatti, per risolvere il compito (lettura di lettere o frasi orientate i modo anomalo) si potrebbero utilizzare tre diverse strategie. La prima prevede di visualizzare il testo e ruotarlo mentalmente per favorirne la lettura (normalizzazione interna); la seconda e la terza prevedono di agire sull’ambiente esterno per favorire il compito (normalizzazione esterna), in questo caso si potrebbe quindi ruotare la propria testa per allineare il sistema di rifereimento del sistema visivo con quello del testo (come nell’esempio sopra riportato), oppure si potrebbe agire direttamente sullo stimolo, ruotandolo in modo da riportarlo all’orientamento canonico di lettura.

In quali modi possiamo quindi scaricare il nostro carico di lavoro mentale, quando lo facciamo e quali risultati porta questo comportamento?

Come accennato anche nell’ultimo paragrafo, possiamo solitamente effettuare Cognitive Offloading in tre modalità differenti: agendo su noi stessi (sul nostro corpo), sul mondo e gli oggetti esterni, e infine sugli altri esseri umani (Risko & Gilbert, 2016).

Per esempio, pressocchè in ogni conversazione utilizziamo dei movimenti delle mani e delle braccia, dei gesti, per esprimere al meglio ciò che stiamo dicendo e allo stesso tempo farci comprendere meglio dagli altri. Ci aiutiamo con le mani per figurare caratteristiche strutturali e relazioni spaziali tra oggetti, per esprimere fisicamente delle misure; se siamo impegnati al telefono e una persona ci chiede delle indicazioni stradali, possiamo utilizzare le mani per indicare il percorso da effettuare, senza dover esprimere alcuna parola e superando così la nostra capacità ‘limitata’ di parlare con una persona alla volta. E ancora, possiamo utilizzare i movimenti oculari e lo sguardo per riferirci a persone o cose anche distali nell’ambiente esterno.

Un esempio divertente a cui la maggior parte delle persone ha assistito almeno una volta è il gioco della morra. In questo gioco, molto brevemente, due persone mostrano contemporaneamente con le dita di una mano dei numeri, lo scopo è quello di indovinare la somma dei due. Il punto interessante è che ogni giocatore “conta con l’altra mano” il proprio punteggio. Questo gli permette di giocare senza dover continuamente memorizzare e aggiornare mentalmente i punti fatti.

Quando invece parliamo di scaricamento cognitivo nel mondo (into-the world) ci riferiamo a tutti quei casi in cui utilizziamo oggetti ed elementi esterni a noi come dei luoghi nei quali depositare le nostre rappresentazioni cognitive, in particolare riguardanti la memoria (Risko & Dunn, 2015).

Anche qui, la nostra esperienza quotidiana ci fornisce svariati esempi. In questa area rientra tutto ciò che riguarda la cosiddetta memoria prospettica (Brandimonte et al., 2014), cioè la memoria per eventi ed intenzioni future, come ricordarsi di andare all’appuntamento dal dentista il prossimo mese. Di conseguenza scriviamo i nostri appuntamenti sull’agenda, ci appuntiamo le cose che dobbiamo o non dobbiamo fare su post-it da attaccare sul frigo di casa, in generale troviamo stratagemmi utili per alterare in qualche modo l’ambiente esterno, in modo che funga da attivatore di memoria (Gilbert, 2015). Tali azioni vengono considerate nello specifico come esmpi di intention-offloading, perchè appunto l’oggetto dello scaricamento cognitivo riguarda un’intenzione futura.

Infine, possiamo utilizzare altre persone come depositi di memoria. Ancora una volta, come fonte di memoria prospettica, possiamo per esempio chiedere al nostro amico di ricordarci di andare ad un appuntamento particolare, o ad un collega di ricordarci di rispettare le scadenze di consegne lavorative. In questi casi possiamo dire che utilizziamo la memoria di altri individui come una nostra memoria esterna. Possiamo inoltre suddividere memorie e conoscenze all’interno di un gruppo e riferirci a livello teorico al filone di ricerca sulla memoria transattiva (transactive memory). Con questo termine si intende un sistema in cui le informazioni e le conoscenze vengono distribuite tra più individui, in modo che il gruppo (sistema) abbia delle capacità più elevate e abbia un livello di conoscenza più alto rispetto al singolo individuo (Harris et al., 2014; Risko e Gilbert, 2016).

Un ulteriore passo verso la comprensione delle modalità di attuazione di questi comportamenti e delle conseguenze che questi hanno a livello di prestazione, si ritrova nella concettualizzazione metacognitiva del Cognitive Offloading (Dunn & Risko, 2016; Risko & Gilbert, 2016). Gli autori propongono un modello metacognitivo nel quale, a fronte di un problema da risolvere, la decisione riguardante se affidarsi ad elaborazioni interne o scaricare questa elaborazione sul mondo esterno, si basa su una valutazione metacognitiva delle nostre capacità e delle capacità dei sistemi esterni a cui ci affidiamo (il nostro corpo o il mondo). Questa valutazione metacognitiva, sia chiaro, può anche essere errata e distorta e non portare alcun vantaggio a livello concreto. Essa può infatti dipendere dalla nostra pregressa esperienza sulle nostre capacità, sull’efficacia delle strategie comportamentali utilizzate in passato e sul possibile guadagno percepito a livello di tempo, sforzo ed impegno mentale richiesto.

L’accesa discussione su queste tematiche ha portanto anche i ricercatori a soffermarsi su come attualmente utilizziamo la tecnologia (Dror, 2008), sempre più pervasiva e onnipresente nella nostra vita quotidiana, come strumento di scaricamento cognitivo, aprendo ulteriormente diatribe sull’effetto di queste strategie comportamentali sullo sviluppo cognitivo (Carvalho & Nolfi, 2016). Tuttavia questo delicato argomento non verrà trattato nel presente articolo.

Alcuni spunti di riflessione rispetto all’ambito clinico

Dopo questo breve escursus sulla conoscenza di questa affascinante modalità di Cognitive Offloading che la nostra mente utilizza per affrontare la risoluzione di situazioni e problemi quotidiani, ci si potrebbe chiedere quali possibili applicazioni pratiche in campo clinico si possanno attuare.

Nel campo dei disturbi della memoria, a livello neuropsicologico, potremmo far rientrare tutte quelle tecniche che vengono identificate all’interno delle metodologie aspecifiche in campo riabilitativo, come l’adattamento delle condizioni ambientali, l’addestramento all’uso di ausili mnemonici esterni e attivi, che si avvalgono di tutta una serie di elementi (reminders) per “sostituire” e promuovere un funzionamento più funzionale a livello personale, domestico, sociale (Mazzucchi, 2006).

Anche nel campo della psicoterapia cognitivo comportamentale vengono sovente utilizzati strumenti come il diario personale o compiti che richiedono di annotarsi durante la settimana, a seconda dello stato di avanzamento della terapia, pensieri ed emozioni, frasi e appunti che aiutano a supportare processi mnemonici e favorire la persona nel percorso di miglioramento del proprio stato emotivo, cognitivo e sociale.

Ciò fa emergere quanto questi processi di utilizzo finalizzato del mondo esterno siano ormai integrati nel nostro comportamento e quanto siano potenzialmente efficaci, tanto da poter essere utilizzati come strumenti di riabilitazione.

Introduzione alla lettura e allo studio del pensiero di Carl Gustav Jung (2018) di L. V. Fabj – Recensione del libro

In questo lavoro appena pubblicato Fabj propone qualcosa di diverso da un ennesimo tentativo di sintesi del pensiero junghiano: non ci troviamo dunque tra le mani una delle tante ricapitolazioni dell’immensa opera di Jung. Siamo bensì di fronte ad un testo, breve ma denso e penetrante, in cui l’autore intende delineare le “premesse gnoseologiche fondamentali” utili anche solo per accostarsi alla lettura di Jung.

 

 Carl Gustav Jung ha difatti lasciato scritti – molti dei quali ancora non tradotti in italiano – che assommano a circa il doppio dell’intera Opera di Sigmund Freud. A differenza di quest’ultimo, però, egli si è espresso nei suoi scritti in maniera estremamente più complessa. Lo stile di Jung, ben descritto e analizzato nel lavoro di Fabj, è criptico, tortuoso, a volte ermetico, sicuramente non lineare e spesso persino tormentato.

Il confronto con Jung, in effetti, può spiazzare il lettore inesperto e disorientare anche psicoanalisti di altre scuole, che si accostano per la prima volta ai temi junghiani. In tal senso, alcune tra le reazioni più comuni suscitate da una prima lettura di Jung possono essere di rifiuto totale, o di entusiastica e acritica adesione.

Jung e l’uso dei suoi contributi teorici

La teoria archetipica, in particolare, è stata oggetto di critiche (da Freud a Lacan, senza citare altri autori contemporanei) che nascono per lo più da incomplete, o inesatte letture dell’Opera di Jung, quando persino da un’errata sistematizzazione del suo pensiero, che per essere compreso appieno – come mostra Fabj – deve essere necessariamente studiato in chiave tematica, trasversalmente allo sviluppo temporale dell’intera opera. Per non parlare degli studi sulla “sincronicità”, bollati da alcuni altri autori come scivolamenti da parte di Jung nel trascendentale. Il tentativo di Jung, era probabilmente di giungere a trascendere, ma non certo in senso metafisico – bensì fenomenologico – l’attribuzione soggettiva dei fenomeni alla logica duale caso-causa. Peraltro, Jung era sempre molto attento alle conseguenze cliniche delle proprie teorizzazioni, anche quando queste sembravano avventurarsi su terreni apparentemente molto astratti. Per inciso, tutto il filone della cosiddetta “teoria del campo” in psicoanalisi, si ispira forse inconsapevolmente, con similitudini non trascurabili, alle implicazioni cliniche delle concezioni junghiane sui fenomeni di sincronicità.

A questo proposito, l’opera a cui sta lavorando Fabj da ormai un decennio, che con questo piccolo volume prende corpo con sempre maggiore dettaglio, mostra quanto l’integrazione tra la Psicologia Analitica e la psicoanalisi delle relazioni oggettuali, ha fatto propri senza alcuna variazione significativa interi costrutti junghiani modificandone soltanto il nome. È il caso dell’identificazione proiettiva della Klein, esattamente analoga alla proiezione attiva teorizzata e descritta da Jung alcune decine di anni prima.

Insomma, un lavoro come questo di Fabj, può aiutare il lettore ad avvicinarsi a Jung senza aspettative di aperture “metafisiche” e al contempo, ci auguriamo, senza neppure quel pregiudizio di “non scientificità” che è altrettanto errato.

Jung oggi

Jung fu, a differenza dei luoghi comuni, sempre molto attento alla scientificità delle proprie conclusioni, pur collocandosi in un modello di riferimento proprio delle scienze psicologiche fenomenologico-sperimentali piuttosto che di quelle sperimentali-valutative.

Va subito precisato che, rispetto alla psicologia basata sul metodo sperimentale statistico, la psicologia analitica di Jung non rientra in essa. (…) E ciò spiega la cancellazione di Jung da questo mondo: oggi il vero e indiscutibile dogma “religioso” è la scienza quantitativa basata sul metodo statistico.

Affrontando direttamente e senza infingimenti di sorta anche il problema dell’occultismo, come

…un problema che ogni junghiano deve risolvere

Fabj, relativizza la questione, invitando a disgiungere aspetti personali della vita di Jung, da aspetti riguardanti le sue teorie, che dall’occultismo si tenevano ben distanti considerando, invece, i fenomeni paranormali come ierofanie all’interno della psiche.

…i contenuti simbolici dei vissuti delle esperienze occulte, proprio come gli altri contenuti degli strati profondi della psiche, possono divenire validi strumenti di esplorazione dell’inconscio e, se correttamente usati nel contesto clinico di una psicoterapia analitico-simbolica, anche terapeutici, senza doversi occupare dei loro possibili significati magici ed esoterici che non hanno il benché minimo interesse per lo psicologo medico.

Al contempo, nondimeno Fabj risparmia critiche proprio a un certo modo di intendere lo junghismo da parte di una moltitudine di sedicenti junghiani, che hanno esasperato e “reificato” – in tal modo assegnandogli davvero un’aria metafisica – gli innumerevoli richiami simbolico-esperienziali che Jung sottintendeva ai propri costrutti teorici. Per questo, le immagini archetipiche, l’“individuazione”, i paralleli tra la psicologia e le pratiche alchemico-religiose – sono concetti che – decontestualizzati dal rigore della complessa opera junghiana, sono stati del tutto travisati da schiere di poco attenti “seguaci” di Jung, i quali ne hanno completamente distorto il pensiero, ignorandone per intero il portato clinico ed empirico.

In definitiva, in circa 90 pagine, Fabj fornisce alcune necessarie chiavi interpretative per un confronto che non parta in maniera pregiudizievole – in nessun senso – con l’opera di uno tra i più ostici, prolifici e complessi pensatori del secolo scorso.

Curare i bambini abusati. Imparare a lavorare sul trauma infantile attraverso il racconto di casi clinici – Recensione del libro

Il volume Curare i bambini abusati affronta la tematica dolorosa dell’abuso sessuale infantile, descritto spesso come l’ “Everest dei traumi”.

 

I traumi sono alla base di una grande maggioranza di disagi psichici e fisici. Lo conferma lo studio ACE, ovvero l’ipotesi accertata che le esperienze sfavorevoli infantili siano fattore di rischio per lo sviluppo di malattie psichiatriche e malattie fisiche.

Disregolazione dell’arousal emotivo e sensoriale, difese dissociative, aumento patologico dei mediatori corticosteroidei dello stress e altri fattori sono i punti cardine da prendere in considerazione per la comprensione della sofferenza psichica.

Un numero cospicuo di studiosi è più orientato a considerare il trauma in termini esperienziali, ovvero in stretta associazione alle caratteristiche psicologiche e alle capacità di resilienza del soggetto: capacità che risultano non solo da una predisposizione biologica ma anche, e soprattutto, dalla storia evolutiva della persona. Da un punto di vista evolutivo-relazionale, infatti, il trauma rappresenta l’esito di uno “sviluppo traumatico” (Liotti, Farina, 2011) che indebolisce le abilità personali di gestione emotiva dello stress.

Siegel e il concetto di “finestra di tolleranza”

Siegel ha spiegato, nel testo “La mente relazionale”, che il trauma evolutivo, da intendersi come quel corredo di esperienze di trascuratezza emotiva a cui il soggetto è sottoposto sin dall’infanzia e che continua negli anni successivi, incide sulla tolleranza allo stress e sull’ampiezza della “finestra di tolleranza”. Come spiega Siegel, i margini di questa finestra non si mantengono fissi, in base a una predisposizione genetica e all’attaccamento che il soggetto ha intrattenuto con le sue figure di accudimento sin dai primi giorni di vita. Ciò sta a significare che una figura di accudimento, capace di sostenere le richieste sia fisiche che emotive del bambino, promuove in quest’ultimo una maggiore tolleranza allo stress. Di contro, le cosiddette relazioni di attaccamento di tipo insicuro incidono negativamente sullo sviluppo strutturale del cervello, determinando un abbassamento della soglia di tolleranza e un restringimento dei suoi margini tali da rendere i soggetti più vulnerabili agli eventi stressanti e più a rischio di sviluppare sindromi post-traumatiche.

Vulnerabilità al Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS)

Vi è, quindi, una maggiore vulnerabilità alla sindrome post-traumatica da parte di chi ha una storia di traumi (di tipo relazionale, a partire dall’infanzia) ovvero di emozioni traumatiche. Queste rappresentano il segno di una ferita causata da contesti relazionali poco, o per nulla, contenitivi, in cui sono stati ostacolati i processi di mentalizzazione.

La componente emotiva sarebbe, quindi, l’elemento chiave per comprendere il DPTS. A conferma di ciò, numerosi ricercatori hanno rilevato un ulteriore aspetto che rende complesso il quadro clinico del DPTS: la presenza di un deficit nella regolazione degli affetti (una condizione alessitimica) di origine traumatica. La condizione di alessitimia si può presentare in un’intolleranza verso le emozioni, in una difficoltà a leggere il proprio stato emotivo o in un distacco emotivo che è possibile riscontrare, ad esempio, quando il paziente è invitato a parlare delle dinamiche del trauma.

Le ricerche condotte da Pat Ogden sui soggetti con DPTS hanno messo in evidenza una condizione alessitimica caratterizzata da:

  • eccessiva responsività ad emozioni che si manifestano con rapidità e in maniera intensa
  • difficoltà ad identificare e differenziare le emozioni tra loro o da sensazioni corporee
  • difficoltà a modulare le emozioni in maniera adeguata rispetto al contesto in cui si presentano
  • vulnerabilità al dolore

Anche Van der Kolk riconosce l’esistenza di un’associazione fra DPTS e incapacità di cogliere la funzione di segnale delle emozioni. Negli individui con DPTS i sentimenti non sono utilizzati come indizi per occultare delle informazioni in entrata e l’attivazione ha grandi probabilità di causare delle reazioni di attacco-fuga. Dunque essi spesso passano immediatamente dallo stimolo alla risposta senza valutare psicologicamente la reale pericolosità dell’evento. Ciò causa, in questi individui, una tendenza a bloccarsi o, al contrario, a reagire esageratamente e intimidire gli altri in risposta a provocazioni minime e in cui manca spesso una reale intenzione di procurare un danno.

Henry Krystal, psicoanalista che ha per lungo tempo studiato le vittime dei campi di concentramento, sostiene che il trauma debba essere considerato un disturbo di natura emotiva. I pazienti traumatizzati sembrano infatti non essere capaci di differenziare le emozioni e di riconoscere la natura emotiva delle reazioni somatiche associate ad un evento traumatico. Il contribuito di Krystal non si riduce tanto alla valutazione della reazione emotiva al trauma, quanto alla constatazione che ricorsive esperienze di trascuratezza e/o maltrattamento (fisico o sessuale) minano gravemente i processi di differenziazione, verbalizzazione e desomatizzazione delle emozioni.

Fonagy ha proposto il costrutto di mentalizzazione, da intendere come la capacità di saper leggere gli stati mentali (desideri, sentimenti, intenzioni) che stanno dietro un comportamento proprio o altrui. Per l’autore, è nel contesto di una relazione di attaccamento sicuro che il bambino sviluppa un Sé riflessivo capace di identificare, nominare e modulare le emozioni. Storie di traumi precoci di natura interpersonale (ad esempio abusi sessuali, maltrattamenti fisici) determinano un indebolimento della mentalizzazione che può generare una seria vulnerabilità nella capacità di resilienza a traumi successivi: è quanto dimostrano, ad esempio, studi epidemiologici dai quali emerge una maggiore incidenza del DPTS fra i veterani del Vietnam con una storia di abusi fisici subiti in età infantile (Bremner et al, 1993).

I sintomi post-traumatici sarebbero quindi espressione di una ritualizzazione di stati psichici associati al trauma precoce. La tendenza alla riattualizzazione, al posto del ricordo, risulterebbe a sua volta dal fallimento della mentalizzazione. Proprio per questo motivo, obiettivo del trattamento del DPTS deve essere quello di aiutare la persona a sviluppare le capacità di mentalizzare il trauma (e i pensieri e le emozioni associati) e di sostituire il ricordo alla riattualizzazione del trauma.

Curare i bambini abusati : il trauma dell’abuso sessusale infantile

Il volume Curare i bambini abusati affronta la tematica dolorosa dell’abuso sessuale infantile.

Come dice James Rhodes (Le variazioni del dolore, 2016), dando una voce lucida al bambino dolente dentro di sé, l’abuso sessuale è l’ “Everest dei traumi”.

L’abuso sessuale ai bambini fa male e per lungo tempo. È un male specifico, pieno di sfaccettature che mancano in altre esperienze sfavorevoli infantili. Un bambino sessualmente abusato va accolto, ascoltato e protetto. Ma anche, e sempre, curato, per riparare i danni di quella violenza.

Curare i bambini abusati si apre con una rassegna aggiornata e puntuale della letteratura scientifica sul tema della terapia nell’abuso sessuale all’infanzia.

Alla rassegna introduttiva seguono tredici capitoli, a firme diverse, ciascuno dei quali declina nel dettaglio un singolo caso clinico, attraverso cui gli autori mostrano al lettore il metodo diagnostico e terapeutico adottato, nelle sue specificità, tecniche e strumenti.

L’intento è portare il lettore proprio lì, dove metodo scientifico ed umanità dello specialista si incontrano con il groviglio relazionale che quel bambino rappresenta, descrivendo passo dopo passo la loro avventura.

Gli autori disegnano in particolare il ragionamento clinico che li ha guidati a scegliere tra le varie tecniche nei vari momenti della terapia. Puntualmente vengono messi in luce anche difficoltà, ostacoli incontrati, errori compiuti, ma soprattutto colpisce il paragrafo dedicato alle reazioni controtransferali del terapeuta.

Struttura e contenuti del libro Curare i bambini abusati

Curare i bambini abusati si compone di diverse parti. I primi sei capitoli mettono a fuoco diverse sfaccettature del trauma quando esso si origina nel terreno familiare, dove è più duro il colpo inferto ai processi di attaccamento.

Talvolta il terreno è così infragilito e corrotto che la vittima, per salvarsi, deve affrontare una dolorosa rottura dei legami e ricercare delle alternative, senza mai dimenticare di valorizzare anche le briciole residuali sane dell’ambiente affettivo d’origine.

I successivi cinque capitoli affrontano abusi in cui il perpetratore è esterno alla famiglia.

Il penultimo capitolo riguarda poi le situazioni in cui la terapia avviene a distanza dall’ambito spazio-temporale in cui il trauma è avvenuto. Si affrontano storie e percorsi di bambini adottati e si propone come gestire il rischio che i loro modelli operativi, deformati dall’abuso subito nel luogo di origine, finiscano per incrinare la possibilità di attaccamento buono nella nuova famiglia.

Di particolare interesse è infine l’ultimo capitolo, in cui è rappresentata la possibilità di accogliere la domanda di terapia di bambini già curati da piccoli e che, diventati adolescenti, vivono nel corpo e nelle emozioni la riattivazione di quanto, con le risorse che avevano nell’infanzia, non hanno potuto compiutamente elaborare. Cioè come curare adulti che sono stati bambini abusati.

Terapia e obiettivi nel trattamento di pazienti che hanno subito abuso nell’infanzia

L’obiettivo della psicoterapia è, qualunque tecnica si utilizzi (i partecipanti avevano fruito di terapie diverse con tempi diversi, per quanto tutte focalizzate sul trauma), l’integrazione dei ricordi traumatici in una coerente narrazione autobiografica dotata di nuovi significati e connessioni.

In particolare, dal punto di vista degli schemi di attaccamento, l’obiettivo del paziente è l’esperienza di contenimento di sé e dell’altro e di essere “attore” della propria vita: questo può consentire un lutto e il perdono di sé invece di biasimarsi per il danno ricevuto.

Obiettivo del terapeuta è diventare il testimone riflessivo dei cambiamenti nella visione della propria storia da parte del paziente, per aiutarlo a metabolizzarli e a interiorizzarli, processo che può controbilanciare il dolore del processo di lutto.

Colpisce e conforta il fatto che i terapeuti, professionisti con diversa formazione di base e ciascuno facendo riferimento alla propria cassetta degli attrezzi (tra le terapia più efficaci, vengono citate la terapia metacognitiva, EMDR e terapia sensomotoria), effettuino molto spesso scelte cliniche sovrapponibili in aspetti cruciali.

Emozioni e Machine Learning: decodificare le espressioni emotive del volto tramite App

Le nuove tecnologie, si tratti di App, robot o semplici computer, stanno diventando sempre più efficaci anche in quei domini che fanno capo all’uomo e alla propria umanità, tra cui la capacità di riconoscere le proprie emozioni.

 

Feffer, Rudovic e Picard, ricercatori del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno sviluppato un modello di Machine Learning che consente di personalizzare in modo rapido ed efficace l’analisi e l’interpretazione delle emozioni umane come farebbero spontaneamente le persone umane tra di loro, modello recentemente presentato all’International Conference on Machine Learning and Data Mining in Pattern Recognition.

L’importanza dei nuovi sistemi di Machine Learning nell’ambito della salute mentale

Recentemente i sistemi di Machine Learning e le applicazioni nate all’interno del campo definito “affective computing” stanno sviluppando una crescente popolarità, soprattutto nell’ambito delle tecnologie, della robotica e dei computer in quanto essi sono in grado di analizzare, interpretare e decodificare una vasta e differenziata quantità di dati.

L’ambito dell’assistenza sanitaria e della salute mentale è interessata in particolare a poter usufruire e sfruttare tali sistemi tecnologici per monitorare lo stato di benessere delle persone, rendere le diagnosi più affidabili e rispondere alle necessità degli individui con specifici disturbi in modo personalizzato e accurato. Ne è un esempio, nell’ambito dell’autismo, il robot NEO (Rudovic, Lee, Schuller, Picard, et al., 2018).

La ricerca del MIT: perchè è importante riconoscere le proprie emozioni?

L’idea che ha portato alla realizzazione dello studio del MIT riguarda la possibilità di utilizzare i nuovi sistemi di Machine Learning per percepire e comprendere in modo efficace la metrica emotiva umana.

In questo modo i ricercatori ritengono di poter essere d’aiuto alle persone offrendo loro una corretta analisi delle proprie emozioni e guidandoli di conseguenza nell’evitare di mettere in atto comportamenti che potrebbero peggiorare il proprio stato emotivo, influenzandoli piuttosto ad agire in modo da ricercare il proprio benessere. Un esempio di ciò sono le nuove applicazioni sviluppate per richiamare i giovani a rischio di dipendenza da smartphone, che si basano sul calcolo delle ore giornaliere spese dai giovani sul dispositivo (Mussi, 2018).

Ancora, con l’avvento di nuove e potenti funzionalità di Machine Learning per dispositivi mobile, è oggi possibile eseguire l’analisi delle emozioni tramite le videocamere dello smartphone. Pertanto sarebbe possibile programmare un’applicazione in grado di rilevare in modo efficace le emozioni di un utente e raccomandargli strategie per affrontare le emozioni negative, monitorare il suo umore o tentare attivamente di migliorarlo (Feffer, Rudovic, Picard, 2018).

Un modello di Machine Learning per riconoscere le espressioni facciali correlate alle emozioni

I ricercatori del MIT Media Lab hanno dunque sviluppato un modello di Machine Learning in grado di catturare le piccole variazioni nell’espressione dei volti per valutare più efficacemente l’umore e lo stato emotivo delle persone.

Per la realizzazione di questo modello sono state utilizzate migliaia di immagini emotigene di volti, aggiornando anche i vecchi modelli computazionali che non riuscivano a cogliere le mille sfaccettature delle espressioni umane che dipendono da numerose variabili (ad esempio: la quantità di sonno, il momento della giornata in cui si trova una persona, il livello di familiarità che si ha con un partner con cui si è intrapresa una conversazione, la modalità tutta personale di esprimere rabbia, gioia, tristezza).

L’idea dei ricercatori del MIT è stata di ottimizzare le attuali tecnologie di “affective computing” rendendole più accurate e adattabili ad un numero sempre maggiore di popolazioni tra di loro estremamente diversificate per cultura e modalità di espressione delle emozioni.

Questo non è uno strumento intrusivo per monitorare il nostro umore, l’intento è quello di rendere ancora più sociali i nostri sistemi di intelligenza robotica, consentendo loro di rispondere in modo più naturale alle nostre emozioni e alle nostre variazioni di umore come farebbe una persona – afferma Rudovic, ricercatrice del MIT, co-autore della ricerca e dello studio presentato

Nel far questo, i ricercatori hanno combinato insieme la tecnica definita “mixture of experts” (MoE) con tecniche di personalizzazione per estrarre dati dalle espressioni facciali di singoli individui contenuti nel database RECOLA.

I MoEs, un numero di modelli di network neurali, definiti “esperti”, sono stati addestrati a specializzarsi in un compito di elaborazione dei dati estratti per produrre un unico output. Al contempo i ricercatori hanno incorporato ad essi una rete di controllo in grado di calcolare le probabilità dell’ “esperto” di rilevare uno specifico stato d’animo: in sostanza il controllo è stato in grado di fornire l’ “esperto” migliore per quell’immagine emotigena presa in analisi.

Ad ogni “esperto” sono stati sottoposti video di 18 individui contenuti nel pubblico database RECOLA.

Il modello combinato utilizzato in questo studio ha tracciato le espressioni facciali per ogni individuo a partire da singoli fotogrammi, in base al livello di valenza (piacevole vs spiacevole) e arousal (attivazione emotiva) comunemente utilizzati per codificare i diversi stati emotivi.

Separatamente, per valutare il grado di affidabilità, le analisi ottenute sono state sottoposte a sei esperti professionisti per accertare la corretta valenza e arousal.

Sviluppi futuri

L’applicazione futura secondo gli autori sarà quella di addestrare modelli di “affective computing” ad identificare in modo sempre più naturale anche le piccole variazioni nelle espressioni del volto e di farlo in diversi contesti, in modo giornaliero, per poter massimizzare gli effetti dei sistemi di Machine Learning per la salute mentale.

Ci stiamo avvicinando a sistemi che possono analizzare le immagini dei volti di persone reali e decodificarle su scale da molto positive a molto negative, da molto attive a molto passive; i segni emotivi di una persona non sono gli stessi di un’altra e pertanto un sistema di riconoscimento delle emozioni personalizzato sarà il più efficace e soddisfacente, maggiormente in grado di aggregare più giudizi insieme grazie alla rete combinata, anziché utilizzare un unico “super esperto – dichiara Roddy Cowie, professore emerito di psicologia alla Queen’s university di Belfast e studioso di affective computing.

Il Sé e lo sviluppo del Sé. Una panoramica storica sulle principali teorie

Il concetto di , nelle scienze psicologiche ed umanistiche, è stato da sempre oggetto di studio, rispetto al quale diversi autori si sono avvicendati. 

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Non è facile trovare una definizione condivisa da tutti gli autori e spesso il viene associato all’identità, creando confusione ed ambiguità. Esso può essere definito come una struttura centrale che racchiude una serie di componenti personali, consentendoci di auto definirci. Per tali motivi appare centrale nella costruzione dell’autostima.

Esiste un generale consenso riguardo al fatto che il si inizi a strutturare già durante l’infanzia e che questo sviluppo sia legato alle relazioni con il mondo esterno.

In questo contributo, verrà fornita una breve panoramica sulle principali teorie riguardanti il Sé, con particolare attenzione a quelle teorie che pongono l’accento sulla sua natura multidimensionale e sul suo sviluppo in età evolutiva ed adolescenziale.

William James – Io e Me

William James (1890) è stato tra i primi ad affrontare l’argomento, distinguendo due componenti del Sé: l’Io e il Me.

L’Io rappresenta l’istanza di consapevolezza, in grado di conoscere, organizzare l’esperienza, agire e riflettere sul . Esso conferisce unicità e continuità all’individuo.

Il Me rappresenta il modo in cui l’individuo si vede, quanto del è conosciuto dall’ Io. Esso si articola in tre sottocomponenti:

  • Me materiale: include il me corporeo e fisico in senso largo, la rappresentazione e la definizione di come appariamo
  • Me sociale: esso si definisce nelle relazioni ed interazioni sociali, nei rapporti con le persone e nei differenti contesti sociali nei quali siamo immersi
  • Me spirituale: essa è l’istanza capace di riflessione. Definito anche Me consapevole

Cooley – Looking glass self

Da queste premesse, si sviluppa la teoria del “looking glass self”, ovvero il Sé Rispecchiato, di C.H. Cooley (1902). L’autore descrive il come una struttura legata all’autoconsapevolezza che si fonda sulle esperienze sociali e relazionali.

Cooley afferma che il modo in cui ci vediamo e rappresentiamo non dipende solo da riflessioni personali sulle nostre caratteristiche, ma anche dalla percezione di come siamo percepiti dagli altri.

Questa self image si costruisce in diverse fasi: innanzitutto, immaginiamo come appaiamo agli altri. In questo senso non ci riferiamo solo agli altri significativi (familiari, amici, insegnanti, etc.) ma anche alle persone con cui entriamo in contatto e relazione durante la vita quotidiana. Successivamente, immaginiamo come gli altri ci possano valutare. Infine costruiamo e rivediamo l’immagine di noi in base al significato che attribuiamo alle osservazioni e valutazioni che gli altri possono avere di noi.

Un punto chiave di questa teoria risiede dunque nel fatto che la struttura del Sè non si costruisca direttamente a partire dall’immagine che gli altri hanno di noi, ma dal modo in cui ci prefiguriamo come potremmo apparire agli altri. Gli individui sono costantemente influenzati da ciò che immaginano che gli altri possano pensare di loro.

Mead – il Sé in relazione con il mondo

Così come Cooley, anche George Herbert Mead ha teorizzato che lo sviluppo del Sé è molto influenzato dalla relazione e dalla interazione con gli altri (Mente, Sé e Società, 1934).

Mentre il primo, tuttavia, ipotizza come qualsiasi individuo con cui interagiamo contribuisca a modificare il modo in cui ci vediamo e rappresentiamo, Mead sostiene che solo alcuni individui significativi possano avere questa influenza. Inoltre, Mead pone l’accento su alcune fasi evolutive specifiche, piuttosto che su tutto l’arco di vita.

Nell’infanzia ad esempio, in cui vi è una visione del mondo più egocentrica, l’altro è scarsamente considerato e – a causa di una Teoria della Mente non ancora sviluppata – l’individuo non è in grado di assumere il punto di vista degli altri.

Tuttavia, come anticipato, anche Mead sostiene che l’interazione con gli altri significativi sia fondamentale nella costruzione della propria identità in quanto crescendo l’individuo diventa sempre più attento ai comportamenti, alle attribuzioni ed alle opinioni degli altri. Nello specifico, secondo l’autore, ciò avviene attraverso 3 differenti fasi.

  • Nella prima fase (preparatory stage), in cui i bambini interagiscono con l’adulto principalmente attraverso l’imitazione, essi osservano le azioni dell’adulto e tentano di riprodurle in maniera speculare
  • Nella seconda fase (play stage) i bambini iniziano a comunicare con l’altro, piuttosto che imitarlo. Iniziano ad utilizzare un linguaggio simbolico che si andrà con il tempo raffinando. Inizia quindi ad assumere maggior importanza il ruolo delle relazioni sociali nella costruzione della propria identità. Il gioco in questa fase è caratterizzato dall’assunzione di specifici ruoli, in modo differente rispetto a quanto accadeva nella fase precedente in cui vi era una fredda imitazione di specifiche azioni. 
I bambini iniziano dunque a prestare attenzione anche ai comportamenti e ai pensieri degli altri significativi
  • Nell’ultima fase (game stage) questa attenzione si sviluppa ulteriormente. Anche se resta prioritario il ruolo dell’altro significativo, i bambini iniziano a prestare attenzione ai comportamenti e alle opinioni della società in generale, ciò che Mead definisce l’altro generalizzato. Ciò implica che le azioni non sono più influenzate dalle loro credenze personali, ma anche dai principi più vagamente sociali, dalle aspettative dal mondo esterno. Gli individui possono assumere più ruoli ed essi possono essere integrati in un’unica struttura.

Per quanto Mead descriva lo sviluppo del Sé in un’ottica sociale, egli sottolinea sempre il ruolo degli altri significativi (figure di attaccamento, insegnanti, pari, etc.) nel modificare i comportamenti, le attitudini e i pensieri dell’individuo.

L’autore giunge infine alla conclusione che questo processo conduce allo sviluppo di due aspetti distinti del Sé: il Me e l’Io, in cui il Me rappresenta il Sé sociale (come pensiamo di essere percepiti dall’altro generalizzato) e l’Io è la percezione di Sé basata sul Me. Il Sé finale dunque è costituito da un bilanciamento, una sintesi tra Me ed Io, tra come veniamo percepiti dagli altri e come noi ci vediamo in reazione alle opinioni sociali su di noi.

Shavelson – Sé multidimensionale e gerarchico

Se consideriamo il valore multidimensionale del concetto di Sé, un autore a cui è importante fare riferimento è Rich J. Shavelson. Anche egli, coerentemente con quanto postulato dai colleghi che lo hanno preceduto e che abbiamo trattato in questo testo, sottolinea come lo sviluppo del Sé abbia inizio dalla percezione di Sé in relazione con gli altri significativi e con il mondo in generale. Anche in questo caso dunque l’accento è posto in una prospettiva sociale, in quanto i giudizi degli altri e le regole del mondo influenzano il modo in cui noi valutiamo noi stessi (1976).

Secondo l’autore, il concetto di Sé è organizzato e strutturato, ovvero è risultato di una serie di informazioni su di Sé organizzate e collegate tra loro.

Due caratteristiche fondamentali nella teoria dell’autore sono rappresentate dal suo carattere multidimensionale e gerarchico.
Per multidimensionale, si intende che il concetto di Sé è organizzato in dimensioni specifiche relative ai vari ambiti di vita del soggetto. Esisterà dunque un modo specifico in cui ci rappresentiamo e valutiamo per ogni contesto in cui siamo inseriti, come a scuola, nello sport, nelle relazioni intime. Il modo in cui questa rappresentazione cambia può essere molto vario. 
Inoltre, ogni concetto di Sé risulta indipendente e differenziabile dagli altri costrutti a cui è legato.

Esistono quindi varie rappresentazioni specifiche di Sé collocate alla base di un concetto globale di Sé, il quale risulta gerarchicamente superiore agli altri. Tale concetto è inoltre maggiormente stabile, mentre gli altri sono più soggetti alle influenze ed agli avvenimenti specifici e dunque possono essere più labili.

Anche Shavelson inoltre sottolinea come il concetto di Sé si evolva coerentemente con lo sviluppo e con le conquiste evolutive dell’individuo.

L’autore individua nel concetto di Sé sia caratteristiche descrittive che valutative. Anche in questo caso, il ruolo della società è particolarmente forte nell’influenzare il modo in cui valutiamo noi stessi, basandoci sulle aspettative del mondo o dell’altro significativo, sui modelli ideali costruiti socialmente, sui confronti costanti con i pari.

Secondo l’autore dunque, il concetto di Sé ha una struttura piramidale, al cui apice si colloca il concetto di Sé generale e subordinatamente i concetti di Sé legati ai singoli domini. Shavelson, Hubner e Stanton (1976), individuano quattro principali concetti di Sé. Il concetto di Sé accademico, sociale, emozionale e fisico. 
Tali concetti di Sé specifici possono essere suddivisi in ulteriori aree. Ad esempio le singole materie nel sé accademico, il modo in cui ci vediamo in relazione ai pari o ad altri significativi nel sociale, l’espressione di determinate emozioni nell’emozionale e il modo in cui valiamo la nostra apparenza o le abilità nel concetto di sé fisico.

Susan Harter – Il concetto di Sé e l’ autostima

L’ultimo autore che consideriamo in questo contributo è Susan Harter.

Anche Susan Harter (1999) ha posto l’attenzione sugli aspetti evolutivi del Sé, sottolineando come esso inizi a svilupparsi dal momento in cui il bambino inizia a considerarsi come un’entità fisica distinta e con caratteristiche proprie. In tal senso, risulta importante in ottica evolutiva lo sviluppo della memoria autobiografica. Un ulteriore elemento che contribuisce allo sviluppo del Sé già dall’infanzia è la relazione di attaccamento con i genitori.

Nel corso dello sviluppo, ed in particolare durante l’adolescenza, il concetto di Sé acquisisce al suo interno il modo in cui l’individuo si valuta nelle delle differenti aree di vita. Le nuove sfide relative alla fase adolescenziale infatti portano gli individui ad identificarsi in ruoli sempre diversi e tali ruoli a loro volta rivestono un’importanza di volta in volta differente. Un chiaro esempio di ciò riguarda il passaggio da un sistema di relazioni squisitamente familiare ad uno più sociale, in cui il confronto con i pari risulta sempre più importante per autodefinirci e valutarci assumendo col tempo un ruolo prioritario. Ciò implica che in alcuni casi l’individuo può avere un concetto di Sé più positivo in talune aree rispetto ad altre, ad esempio nel ruolo amicale piuttosto che di figlio o di studente, o viceversa, il che può portare ad una percezione discontinua di . Lo sviluppo sociale e cognitivo dell’adolescenza porta l’individuo ad integrare questi ruoli e i diversi concetti di Sé relativi ad ognuno di essi in una struttura unica e coerente.

Abbracciando una teoria multidimensionale del concetto di Sé in quanto risultante dalla valutazione di sé in differenti aree di vita, Harter ipotizza come tali valutazioni conducano alla formulazione del valore di Sé (self-worth) e dell’autostima (self-esteem).

L’autrice inoltre sottolinea come queste aree possano avere un’importanza di volta in volta differente per gli individui, il che comporta che sentirsi competenti (self-worth) nelle aree che un individuo ritiene personalmente importanti contribuisca a strutturare un concetto di Sé più positivo.

Secondo Harter l’autostima è un concetto più globale, legato a come ci valutiamo, al valore che ci attribuiamo nei diversi contesti (Harter, 1993).

Il concetto di Sé è dunque strettamente legato all’autostima, ovvero al modo in cui ci valutiamo nelle diverse aree di vita. Sebbene siano due costrutti differenti e separati, risultano strettamente collegati tra loro.

Adolescenti e giovani adulti con disabilità intellettiva e autismo: una sfida che scienza e società devono raccogliere

Di Autismo e metodologia ABA si è parlato a Milano, a Febbraio, nella giornata Percorsi innovativi per adolescenti e giovani adulti con disabilità intellettiva. Di questo ha parlato nella Summer School di IESCUM a Rimini Patrick Mc Greevy, autore di Essential for Living. Di questi temi dobbiamo continuare a parlare nel prossimo futuro.

Roberto Cavagnola

 

L’azione combinata e congiunta del vertiginoso incremento della prevalenza della diagnosi di autismo, in tutti i paesi occidentali, e la pubblicazione di innumerevoli linee guida dei diversi sistemi sanitari, a partire dai primi anni duemila, ha certamente portato all’attenzione del mondo sanitario e socio-sanitario italiano della scienza del comportamento e, in particolare, della sua branca applicata: l’ ABA.

Per tutta l’Europa mediterranea, in particolare modo per l’Italia, questo ha voluto dire l’inizio di un cambio importante di paradigma sul piano dei trattamenti abilitativi e clinici. Questo ha rappresentato, da un lato un indubbio passo in avanti per l’affermarsi di una cultura scientifica, e quindi basata su evidenze, nel campo del disturbo autistico e, più in generale, all’interno dei disturbi del neurosviluppo, dall’altro ha voluto dire trattamenti efficaci per centinaia, e forse migliaia, di bambini in Italia.

ABA e Autismo: possibili criticità

Questo indubbio avanzamento mostra tuttavia, ad una più attenta lettura, alcune criticità. Riteniamo sia importante segnalarne almeno due.

La prima è probabilmente ascrivibile a una certa insensibilità, in alcuni ambienti ABA, verso quella che potremmo definire la naturale “apertura” della conoscenza scientifica. Ci riferiamo specificatamente ai contributi offerti dalla Relational Frame Theory, fondamento sperimentale di quella che potremmo definire la clinica di “terza generazione” e di programmi specifici, che da questa dipartono, e che hanno offerto significativi riverberi anche nel campo educativo ed abilitativo dell’ autismo e delle disabilità intellettive.

La seconda invece è riconducibile al focus, quasi esclusivo sulla prima infanzia, che gli interventi ABA hanno sin qui prevalentemente avuto, a fronte di una problematica, come quella dell’ autismo e della disabilità intellettiva, drammaticamente life span. A fronte di questo la scienza del comportamento non può sottrarsi alle sfide che tali condizioni pongono ad una scienza che ha come obiettivo precipuo quello di offrire risposte socialmente rilevanti.

Se assumiamo questa prospettiva, le sfide aperte per chi in Italia voglia ricercare attivamente un approccio che sia nel contempo, ecologico e rigorosamente scientifico possono essere riassunte, senza presunzione di esaustività, in alcuni temi:

  • Il progetto di vita. Costruire un percorso di senso per organizzare e pianificare le azioni cliniche ed abilitative nelle persone con disturbi del neurosviluppo giovani ed adulte assume una specificità rispetto a un progetto riabilitativo per l’infanzia. Non è questa forse la sede per dettagliare i diversi punti di distanza che necessariamente esistono tra questi due tipi di progettazione. Ci limitiamo a sottolineare come, per l’età adulta, ai tipici outcome funzionali e clinici, sia fondamentale affiancare specifici percorsi volti a realizzare obiettivi personali e un miglioramento relativo alla qualità della vita. Su questo versante quindi, quello che nella terminologia comportamentale viene comunemente definito choice assessment, assume un rilievo ed un’importanza inedita, unitamente alla necessaria contaminazione con i modelli di qualità della vita che dovrebbero informare tutti gli interventi
  • La psicopatologia. Scarsa attenzione è stata fin qui accordata nel sillabus dei master ABA per l’ autismo alla tematica dei quadri psicopatologici. Esiste ormai un robusto corpus di ricerche di carattere epidemiologico sulla prevalenza di tutti i quadri psicopatologici in questa popolazione che è tra le 4/5 volte superiori a quello della popolazione normotipica. Assumere tutta questa problematica e questa complessità nell’ambito della categoria dei challenging behavior è, oltre che riduttivo, assolutamente limitante sul piano dell’efficacia delle risposte
  • La psicofarmacologia comportamentale. La pervasiva tematica della psicopatologia ha come importante ricaduta, nell’ambito dei trattamenti, l’uso di farmaci psicotropi. La farmacologia comportamentale rappresenta da questo punto di vista una conoscenza irrinunciabile proprio perché capace di mostrare le specifiche alterazioni che questa tipologia di farmaci produce sui pattern di apprendimento e, di conseguenza, migliorare la prevedibilità del comportamento delle persone in trattamento farmacologico
  • L’inclusione sociale e lavorativa. L’esigenza di articolare nuovi e più articolati curricoli di insegnamento che riguardano sia il tempo libero nella comunità sia all’interno di luoghi di lavoro. Tutto questo ovviamente non può non considerare l’impatto delle nuove tecnologie e dei social network che tanto spazio ed importanza hanno all’interno della compagine giovanile ed adulta
  • Le demenze. L’incremento considerevole della speranza di vita in tutta la popolazione con disturbo del neurosviluppo ha determinato l’insorgenza di una condizione inedita fino a pochi anni fa. In particolare oggi, sempre di più, dobbiamo affrontare tematiche relative alle demenze che sembravano appannaggio solo della Sindrome di Down
  • Il fine vita. L’aumento della speranza di vita ha portato all’attenzione, anche grazie ad una nuova sensibilità verso i temi delle scelte e dell’empowerment, la tematica delle scelte sul fine vita. Si tratta di una frontiera inedita che richiede tuttavia un’attenta riflessione e ampliamento del codice dentologico unicamente allo sviluppo di procedure adeguate per insegnare e rendere possibili scelte importanti ed impegnative
  • OBM e problematiche organizzative. L’ambito dei servizi sanitari e socio sanitari presenta un grado di complessità che non è paragonabile a quello che tipicamente troviamo nei servizi ambulatoriali o domiciliari per la prima infanzia. L’esistenza di molti profili professionali di diversa estrazione, un’organizzazione del lavoro spesso basata su turni, complessità gestionali ed organizzative richiedono un contributo specifico ed uno spazio di ricerca che potrebbe essere ottimamente occupato da quella branca dell’analisi del comportamento che va sotto il nome di Organizational Behavioral Management
  • Motivazione del personale. Il lavoro continuativo con persone affette da autismo e disabilità intellettive in condizioni di cronicità, gravità e, non di rado con importanti problematiche del comportamento, ci pone un importante problema circa il mantenimento di elevato tenore della motivazione del personale educativo ed assistenziale
  • Stress familiare. La tematica dello stress familiare costituisce un tassello non irrilevante all’interno di un piano di trattamento che si fondi su basi contestualistiche. Da questo punto di vista il passaggio da interventi di parent training basati, in forma prevalente o esclusiva, sull’insegnamento di skills educative ad interventi sulla consapevolezza genitoriale dove viene accordato spazio per l’ascolto ed il fronteggiamento della dimensione emozionale, rappresenta un decisivo progresso verso la messa a punto di procedure di intervento verso i genitori e, più in generale, i familiari della persona disabile. Va ricordato in questa sede che esistono tematiche specifiche che ineriscono ai familiari delle persone con autismo e disabilità intellettiva in età adulta, si pensi al “dopo di noi” o a temi quali il diritto alla sessualità per il figlio con disabilità o problematiche comportamentali che assumono un’intensità ed una dirompenza inedita
  • Transizioni. L’età tardo adolescenziale ed adulta reca in sé una quantità di transizioni che, oltre che rappresentare una potenziale fonte di stress per la famiglia e per la persona con disabilità, rappresentano importanti snodi decisionali che possono fare la differenza in un progetto di vita. Dal termine della scuola dipartono infatti una serie di possibili percorsi, pensiamo ad esempio alla formazione professionalizzante o all’inserimento lavorativo o, a partire dal diverso livello di funzionamento o alle problematiche presentate, la complessa ed articolata rete dei servizio sociali, socio sanitari o sanitari. Temi quali l’orientamento e l’accompagnamento rappresentano pertanto argomenti non eludibili che devono trovare spazio all’interno di un curricolo formativo per operatori del settore

Di questi temi si è parlato a Milano, a Febbraio, nella giornata Percorsi innovativi per adolescenti e giovani adulti con disabilità intellettiva. Di questo ha parlato nella Summer School di IESCUM a Rimini Patrick Mc Greevy, autore di Essential for Living. Di questi temi dobbiamo continuare a parlare nel prossimo futuro.

L’ adozione, una risorsa inaspettata (2017) di A. Guerrieri e F. Marchianò – Recensione del libro

L’ adozione è considerata una risorsa per la coppia e la società nel libro scritto da Guerrieri e Marchianò. L’ adozione è un diritto per i minori, come afferma la Convenzione dell’Aja.

 

In Italia dal 2000 al 2015 sono entrati tramite l’ adozione internazionale circa 46.500 minori. Un numero rilevante di bambini che, dopo un passato di abbandono e trascuratezza alle spalle, si accingono a costruire una nuova vita in altrettante famiglie.

Adozione: protagonisti, diritti e significati

Se ad uno sguardo superficiale sembra essere la coppia la protagonista di tutto il percorso adottivo, destinataria di valutazioni psicosociali di idoneità e di gruppi di sostegno e formazione, non dobbiamo dimenticare che la realtà è ben diversa. Alla base dell’ adozione c’è il diritto fondamentale di ogni bambino ad avere una famiglia; la coppia di aspiranti genitori non ha alcun diritto, ma esprime semplicemente la propria disponibilità ad accogliere uno o più minori in difficoltà. L’ adozione internazionale è una misura estrema di tutela dei diritti del minore qualora non siano possibili misure alternative (per es. affido a parenti, adozione nazionale, altre forme di sostegno e cooperazione da attuarsi nel paese estero di origine del minore). A questo proposito è stata redatta nel 1993 la Convenzione dell’Aja per la protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale; adottare in un paese estero che ha ratificato questa convenzione è garanzia che vengano rispettati i diritti dei minori.

Adottare significa accogliere una persona “altra”,“diversa” da noi in tutti i sensi (diversa per origini, per fisionomia, per abitudini, per odori e sapori), quando ciò che ci verrebbe naturale sarebbe allontanarla proprio perché differente. I legami affettivi si costruiscono nel tempo, non sono scontati né immediati, occorre che avvenga prima un riconoscimento reciproco. Ma una volta instaurati sono legami forti al pari di quelli “di sangue” e, forse, con una marcia in più proprio perché costruiti giorno per giorno, passo dopo passo, con desiderio, pazienza e consapevolezza.

Adozione: di cosa ha bisogno la coppia adottiva

Il libro L’ adozione, una risorsa inaspettata esplora i bisogni delle coppie adottive, sottolineando come sia necessario un sostegno non solo prima dell’arrivo del minore ma soprattutto nel post adozione, quando la famiglia adottiva diventa una famiglia normale a tutti gli effetti. Il sostegno non deve essere un insegnamento (che implica un’asimmetria di potere), ma un confronto, uno stare a fianco della coppia senza sostituirsi a lei. Il rischio altrimenti è quello di non sentirsi mai pienamente genitori, mai una famiglia come le altre ma sentire la necessità di essere riconosciuti dall’esterno nel proprio ruolo genitoriale. In questo senso un utile strumento sono appunto i gruppi di mutuo aiuto (non necessariamente con la conduzione di operatori). Le famiglie possono così aprirsi e confrontarsi senza giudizio, imparando ad ascoltare l’altro e quindi il “diverso”, riproponendo all’interno del gruppo una capacità di apertura e confronto che si ripeterà durante l’incontro con il bambino.

Proprio dall’esperienza di questi gruppi organizzati dall’Associazione di famiglie “Genitori si diventa” sono esplorate all’interno del libro le tappe fondamentali di tutto il percorso: la valutazione per l’idoneità, l’attesa, i primi incontri con il minore adottato e la fase post adozione, corredate da stralci di commenti dei genitori e in alcuni casi anche dei minori coinvolti.

Durante l’indagine psicosociale per l’ottenimento del decreto di idoneità rilasciato dal Tribunale, le coppie si sentono giudicate dagli operatori e si giustificano dicendo che

il mestiere di genitore è qualcosa che si impara sbagliando strada facendo e non una capacità che può essere stabilità a priori

Le emozioni prevalenti sono quelle di rabbia e di frustrazione. Il contesto valutativo porta a uno squilibrio di potere tra la coppia e gli operatori che invece dovrebbero affiancare la coppia aiutandola a trovare dentro di sé le risorse e le capacità di fronteggiare le situazioni adottive. Se è vero che non c’è un modo per essere genitori perfetti occorre tenere presente tuttavia la realtà da cui provengono i minori adottati, i vissuti traumatici e di forte trascuratezza emotiva che si portano dietro e a cui occorre essere preparati per poter costruire un buon legame di attaccamento.

Durante la fase dell’attesa (dal conferimento del mandato ad un Ente autorizzato fino al momento dell’abbinamento con un minore) prevalgono invece le ansie e i timori: il senso di inadeguatezza, il timore di non essere amati dal figlio, il timore di non sapersela cavare nelle difficoltà.

Adozione: il legame in costruzione tra coppia e minori adottati

Ma i bambini che giungono in adozione cosa provano? Il loro è principalmente un vissuto di perdita, di abbandono a volte anche ripetuto nel tempo; non si fidano dell’altro, si aspettano punizioni e tradimenti a cui reagiscono spesso con rabbia e violenza. Dietro questa aggressività tuttavia, si nasconde un profondo bisogno di affetto e di attenzioni che pensano di non meritarsi.

La riflessione più rilevante si trova nella parte finale del libro, dedicata alle crisi e ai fallimenti adottivi. E’ proprio nella crisi dei legami affettivi che emerge l’idea della adozione come risorsa (che poi è il concetto contenuto nel titolo dell’opera). L’ adozione è una risorsa per conoscere non solo i propri punti di forza ma anche i propri limiti al fine di superarli; è una sfida a non mollare davanti alle difficoltà. Una crisi adottiva, come qualsiasi altra crisi di una relazione, comporta la rottura dell’equilibrio di un sistema; solo se i legami che si sono costruiti tra le persone sono forti allora lo stravolgimento di un sistema riporta a instaurare un nuovo equilibrio. Altrimenti nella crisi il figlio diventa nuovamente “altro” da sé e per questo respinto. Con la genitorialità biologica è più difficile disconoscere un figlio e spesso ci si limita a respingerlo con le parole (quando i genitori non parlano più di “nostro” figlio ma di “tuo” figlio, per indicare un distaccarsi dal problema e individuare la causa nell’altro). Nell’ adozione, dove i legami sono stati costruiti volontariamente tra estranei, questo distacco è più immediato perché più facile.

I legami interni alla famiglia adottiva sono quindi allo stesso tempo risorsa e fragilità: risorsa perché costituiscono un arricchimento per le persone coinvolte, ma allo stesso tempo sono un aspetto di fragilità proprio perché costruiti e non immediati. I fallimenti adottivi esistono, se ne deve parlare perché purtroppo costruiscono una realtà concreta. Se ne deve parlare né per colpevolizzare chi non ce l’ha fatta né per spaventare le coppie in attesa di adozione; si parla di crisi per sottolineare come anche gli eventi negativi e critici possono rivelarsi una risorsa per crescere.

Adozione come risorsa, quindi, non solo per le famiglie che decidono di intraprendere questo percorso ma anche per la società, che si deve confrontare con l’accoglienza, l’ascolto, il rispetto di chi è diverso da noi.

Disturbo borderline di personalità: un approfondimento interdisciplinare

Una recente review di Nature Disease Primers si pone come obiettivo un approfondimento interdisciplinare sul disturbo  borderline di personalità.

 

La review condotta dal dipartimento di Psichiatria di Harvard e dell’università di Heidelberg, Germania, di Oslo e dell’Arizona College of Medicine, ha lo scopo di sintetizzare i capisaldi fondamentali in atto nel disturbo relativi ai suoi meccanismi neurobiologici, i fattori di rischio ambientali, i fenotipi interpersonali, la disregolazione emotiva e comportamentale, nonché le alterazioni relative ai circuiti del dolore.

Disturbo di personalità borderline: epidemiologia e duffusione

Un’analisi di tredici studi epidemiologici di nazioni diverse ha evidenziato una prevalenza dallo 0 al 4,5 % con una media di 1,6% per il disturbo borderline di personalità (BPD), che ne fa il quarto disturbo di personalità più rappresentato tra i diversi disturbi della personalità, anche se la prevalenza lifetime di questo disturbo è certamente più rilevante (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018).

La National Epidemiologic Survey on Alcohol and related conditions (NESARC) negli Stati Uniti ha evidenziato una prevalenza lifetime del BPD del 5,9 % (Grant, Chou et al., 2008).

È bene precisare che, nonostante la prevalenza di disturbo borderline di personalità (BDP) nella popolazione generale non sia significativamente più alta rispetto alla media di prevalenza di altri disturbi di personalità, tuttavia questa risulta essere maggiormente prevalente nelle popolazioni cliniche-psichiatriche; infatti i pazienti con BPD costituiscono circa il 15-28 % di tutti i pazienti psichiatrici ricoverati nelle cliniche e negli ospedali, il 10-15% di tutte i servizi psichiatrici emergenziali (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018).

Disturbo borderline di personalità : i meccanismi neurobiologici

Un modello neurobiologico del BPD propone che i sintomi fenotipici che si riscontrano siano il prodotto dell’interazione tra influenze genetiche e ambientali che impattano sullo sviluppo cerebrale, delle vie ormonali e dei neuropeptidi del bambino in età precoce di sviluppo.

I maltrattamenti infantili e la scarsa qualità delle cure parentali durante l’infanzia possono determinare degli effetti epigenetici e alterare così lo sviluppo delle funzioni e della struttura cerebrale con il risultato di pattern di tratti stabili di comportamento lungo tutta la propria esistenza (Cattane, Rossi, Lanfredi et al., 2017).

In particolare sembra che disfunzioni nel circuito prefronto-limbico siano un fenomeno transdiagnostico legato ad un’affettività instabile e negativa in contesti di stress interpersonali e instabilità che si riscontra però anche in altri disturbi psichiatrici.

Disturbo di personalità borderline: i fattori di rischio ambientali

Tra i fattori di rischio ambientali più noti del BPD ci sono le esperienze di vita precoci; in particolare esperienze infantili negative come traumi, abusi fisici e sessuali, episodi ricorrenti di negligenza emotiva possono aumentare notevolmente il rischio di sviluppare un disturbo borderline di personalità .

Cure parentali inconsistenti, ipercoinvolgimento materno, comportamenti genitoriali avversivi o maltrattanti, contribuiscono allo sviluppo nel bambino di profili caratterizzati da alto nevroticismo, scarsa consapevolezza e bassa apertura all’esperienza che tendono a persistere e ad assomigliare ai tratti di personalità borderline dell’adulto.

In aggiunta, comportamenti genitoriali non conformi, come ad esempio la separazione precoce dal bambino o un ambiente di crescita poco stimolante e accogliente, messi in atto in specifiche finestre temporali di sviluppo sono implicati nella genesi di tratti di personalità patologici che determinano un impoverimento nella regolazione emotiva e nell’autocontrollo.

Un’alta reattività allo stress in un bambino e un pattern di attaccamento insicuro tra bambino e madre predice la comparsa di sintomi borderline nella popolazione di giovani adulti (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018).

Altri tipi di sintomi psicopatologici nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza come la depressione, l’ansia, l’abuso di sostanze, comportamenti oppositivi e disregolati, l’ADHD, comportamenti deliberati autolesivi, impulsività, scarsa capacità di pianificazione goal-directed, atteggiamenti aggressivi e risk-taking predispongono allo sviluppo del Disturbo di personalità borderline.

Disturbo di personalità borderline: l’attività dei circuiti neurali

Il presente articolo di Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini e colleghi (2018) ha evidenziato come alcune alterazioni in specifici circuiti neurali sottostanno i fenotipi del Disturbo borderline di personalità , in particolare nei circuiti relativi all’instabilità interpersonale che coinvolgono le funzioni di teoria della mente, dell’empatia, del pensiero referenziale e del senso di Sé.

Le strutture cerebrali mediali hanno un ruolo nella comprensione degli stati mentali altrui e propri, supportando il modello di Fonagy circa lo sviluppo del Sé a partire dalla risonanza e dalla contingenza dei comportamenti precoci del caregiver nei confronti del bambino (Fonagy, Luyten & Allison, 2015).

Queste strutture nello specifico comprendono la corteccia mediale prefrontale, il precuneo, la corteccia cingolata posteriore, la giunzione temporoparietale; strutture che si sovrappongono con la rete di default-mode che si attiva nel momento in cui non vi è attenzione o concentrazione verso l’ambiente esterno.

Gli individui con disturbo di personalità borderline hanno la tendenza ad iper-mentalizzare (sovra-attribuire intenzioni ed emozioni a Sé e agli altri) in un modo complesso e astratto (Sharp, Pane, Venta et al., 2011).

Studi che prevedono un compito di working memory mentre vi è l’interferenza di scene emotigene hanno evidenziato una forte associazione del circuito amigdala-corteccia prefrontale mediale-aree ippocampali nei pazienti piuttosto che nei soggetti di controllo.

Queste evidenze potrebbero essere legate ai problemi nello shifting attenzionale tra informazioni riguardanti il Sé e quelle esterne in questo tipo di compiti.

Un altro studio di Beeney e colleghi (2016) ha riguardato il processamento di questi due tipi di informazioni (auto-rappresentazioni vs rappresentazioni riguardo l’Altro) tramite la richiesta ai pazienti con disturbo borderline di personalità  di valutare i loro tratti di personalità e quelli di un loro amico, evidenziando in essi un’iperattivazione delle strutture mediali sia durante la valutazione del Sé che dell’Altro a confronto con un gruppo di controllo e dimostrando di conseguenza un overlap tra i correlati neurali legati ai deficit nella lettura del Sé e dell’altro.

Uno studio di New e colleghi (2012) ha altresì sottolineato che nonostante gli individui con BPD abbiano una compromissione nei circuiti legati alla teoria della mente, mostrano tuttavia delle performance maggiori in compiti di empatia rispetto ai soggetti di controllo e di conseguenza un’iperattivazione dell’insula associata all’arousal emotivo.

Queste evidenze sono sulla stessa linea con gli studi circa la predominanza di componenti affettive piuttosto che cognitive nei pazienti con disturbo di personalità borderline che sono pertanto più vulnerabili al cosiddetto “contagio emotivo”: essi infatti hanno una marcata incapacità a differenziare le emozioni altrui dalla proprie.

Essi inoltre mostrano un’iperattivazione ai segnali di allarme ambientali o sociali, come l’esclusione sociale, anche quando questi non sono presenti ma si trovano a partecipare al virtual ball-tossing game (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018)

Per quanto riguarda l’instabilità affettiva, molti studi hanno mostrato come siano correlati ad anormalità nella sincronizzazione tra processi bottom-up di detezione dello stimolo ambientale saliente e top-down, corticali di controllo, goal-directed e decision-making: i soggetti con BPD falliscono nelle strategie di regolazione ed elaborazione affettiva a seguito di segnali sociali di minaccia e rispondono in modo iperattivato ed emotivamente instabile agli stimoli negativi ambientali, mostrando un’iperattivazione amigdalica e un decremento dell’attività della corteccia orbitofrontale e della corteccia cingolata anteriore (Koenigsberg, Fan et al., 2009).

La disregolazione comportamentale è stata investigata tramite compiti di delay discounting, l’abilità cioè di rinunciare nell’immediato ad una ricompensa in attesa di un’altra maggiore ma a lungo termine.

I soggetti con BPD generalmente falliscono in questo genere di compiti in quanto mancano della capacità di inibire le proprie risposte emotive che interferiscono con il funzionamento cognitivo e la pianificazione (Turner, Sebastian et al., 2017).

Una componente che contraddistingue la disregolazione comportamentale nel Disturbo di personalità borderline è l’impulsività che si riscontra nei compiti go/no-go, nei quali i partecipanti sono istruiti a rispondere solo quando sono presenti determinati stimoli e a inibire la loro risposta quando non presenti.

Gli individui con BPD sono caratterizzati da alterazioni nella corteccia prefrontale ventrolaterale e orbitofrontale che indicano la presenza di un’interferenza tra i processi emotivi e i compiti di inibizione motoria, soprattutto quando sottoposti ad alti livelli di stress, come ad esempio a seguito dell’induzione della rabbia.

Disturbo boderline di personalità e processamento del dolore

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da comportamenti autolesivi messi in atto come strategia di coping emotivo disfunzionale.

Secondo alcuni studi riportati nella review, i pazienti con BPD hanno una soglia più alta del dolore rispetto ai soggetti di controllo e ciò potrebbe essere associato a due meccanismi: il primo meccanismo riguarda la deattivazione dell’amigdala e un’iperattivazione dei circuiti prefrontali-limbici che rifletterebbe una modulazione inibitoria corticale; il secondo meccanismo riguarda l’aumento dell’attività nei circuiti tra l’insula posteriore e la corteccia prefrontale dorso laterale che potrebbe riflettere un’anomala valutazione del dolore che contribuisce all’ipoanalgesia nel Distubo borderline di personaità (Niedtfeld, Kirsch et al., 2012).

Burocrafilia – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 37

Il padreterno creò la terra, non in sette ma in un solo giorno. Anzi i vecchietti che si sporgevano dal bordo dell’universo sul cantiere sostennero che prima di pranzo il caos aveva già perso la sua partita e tutto era in ordine, ma fece figurare che tirò fino a sera per una questione di cartellino.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Burocrafilia (Nr. 37)

 

Del resto o è onnipotenza o non lo è ed allora un giorno basta e avanza. I giorni successivi però non furono meno intensi ed è da allora che una schiera di satanassi coordinati da Lucifero gli diede una mano. Il secondo giorno si dedicò alle leggi generali (per esempio tutte quelle della fisica, dell’astronomia e della chimica) che gli scienziati avrebbero cercato di scoprire nei millenni a seguire. Il terzo furono le leggi sui rapporti umani e, a seguire quelle sui rapporti tra tutti gli oggetti creati animati e non, insomma un lavoraccio concettuale che aveva sottovalutato.

Ma le leggi non bastavano, troppo generali, e nei giorni successivi seguirono nell’ordine: i decreti attuativi, le normative generali, i regolamenti e tutta l’infinità modulistica che li accompagna. Una commissione si occupò di risolvere le incongruenze frequentissime che creavano delle situazioni di assoluta paralisi come quella per cui per prendere la patente speciale occorre fare l’esame con l’auto di propria proprietà, ma per comprare l’auto ci vuole la patente speciale. Dopo giorni di lavoro rinunciò a dipanare il groviglio normativo ed emanò una disposizione che recitava pressappoco così “Arrangiatevi”, segnando così definitivamente il vantaggio evolutivo degli italici.

La storia si è poi continuamente ripetuta. All’inizio prevale e soffia lo spirito, poi arriva immancabilmente la legge. Gli ebrei hanno ricevuto la thorà, ma poi si sono impiccati con il libro dei numeri normando ogni istante della vita. Noialtri siamo passati dal discorso della montagna alla santa inquisizione. Lo spirito di giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità ha prodotto prima la ghigliottina e il terrore e poi i gulag, KGB, la Stasi. Badare alle regole perdendo lo spirito è appunto come guardare al dito che indica la luna, ma ci viene proprio naturale. Sant’Agostino dice “ama e fa quello che vuoi”, il solito lassista, e la Chiesa ha minuziosi prontuari su tutte le minuzie illecite e non (quante volte?, fino a dove?, da solo o in compagnia?).

E’ chiaro che per ogni regola c’è un controllore, per ogni pratica un usciere o un maresciallo che può metterla in cima o in fondo alla pila e dunque ogni norma e ogni modulo, ogni timbro necessario rappresenta un possibile livello di corruzione. Si aggiunga, con lo stesso effetto, che l’enorme massa di regole e regolette fa sì che tutti siamo irregolari (tutti colpevoli= nessun colpevole) e dunque la sanzione è assoluta discrezione del controllore. Intendo che se una pattuglia vi ferma con la macchina e vuole multarvi certamente troverà un motivo, così come non esiste un locale che sia completamente a norma per la sicurezza (legge 626).

In casa nostra questa libido delle regole si esprime nella continua brama verso i protocolli, ma la ritroviamo in ogni campo. Fa sorridere l’aneddoto reale del vecchietto cui è stato chiesto di produrre ogni anno il certificato di esistenza in vita per avere diritto alla pensione, al quale è stato contestato che seppure era in regola per l’anno in corso non lo era per quello precedente. Meno sorridere fa il film “Io, Daniel Blake” di Ken Loack (2016) che lascia intravedere la fine dell’umanità non per il riscaldamento globale ma per il soffocamento da burocrazia.

Sarebbe interessante capire le ragioni evolutive di questa idolatria delle regole e questo compito spetterebbe a sociologi (appartenenza? Ordine?) o psicopatologi (identità? Incertezza? Fragilità? Perfezionismo?).

Incapace di ciò mi limito, scopiazzando l’idea di Roland Barthes, a rappresentare alcune figure, immagini, icone della paralisi da norme:

  • “Questa è la procedura”

E’ ciò che nella vita quotidiana si chiama abitudine e in psicopatologia, quando diventa rigida e immodificabile, rituale compulsivo. Nasce per raggiungere un obiettivo, è dunque strumentale rispetto ad un fine. 
Poi progressivamente perde il rapporto di strumentalità e diventa essa stessa un fine, rimanendo immutabile persino quando arriva ad essere un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo per cui era nata. Si tratta di un perverso ribaltamento del rapporto fini/mezzi, una sorta di rivolta degli schiavi. L’averlo messo in discussione con la famosa frase in cui ricordava che “è il sabato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” è costato carissimo al ribelle procedurale dalla bianca tunica.

  • Call center

Sono le invalicabili torri di guardia, la cintura protettiva lakatosiana a difesa dell’area impenetrabile del potere, che esso sia una ASL, una qualsivoglia istituzione, un gestore di servizi, un agenzia. E’ contro di essi che si scarica la furia e l’indignazione dei sudditi. Dai call center è stato mutuato il concetto di “scudi umani”. In trincea infatti col petto offerto alle pallottole nemiche, giovani ostaggi miti e gentili dalla barbagia, dal casertano o dall’Albania, non hanno risposte da dare, non sanno, non possono, non è di loro competenza. Sono come le prime truppe sul bagnasciuga della Normandia nel giugno del ’43, solo carne da macello, e scatta tra i marosi immancabile la solidarietà tra sconfitti. Ci si sente come Maramaldo dinnanzi a Fancesco Ferrucci morente, non si infierisce. Li si immagina giovani e carini, come i propri figli, universitari che vogliono arrotondare ed invece magari sono prepensionati, esodati con una famiglia a carico, un mutuo e la badante per la madre.

  • “Deve aspettare”

L’attesa è l’attività degli impotenti. Altri, gli adulti, fanno e disfano e intanto si attende senza sapere quanto, cosa e perché. L’ignoranza è ingrediente essenziale della passività che fa smarrire prima l’agentività e infine la dignità. Ma essere in balia di forze superiori che non hanno da render conto del proprio operato e celano i loro disegni non è forse metafora dell’esistenza umana?

  • “Dipende”

Un tormentone estivo del 1998 cantava “depende, da che depende?” perché è ovvio che “dipende” non è una risposta, in quanto sposta semplicemente la domanda al livello superiore, dal quale la cosa appunto dipende. Ma il non verbale che accompagna il “dipende” lascia intuire che i fattori sono troppi e la situazione è complessa per cui non è dato capire ai presuntuosi non addetti ai lavori e ci si sente impertinenti e indiscreti, come quando si chiese alla nonna come nascevano i bambini e la povera vecchia svenne.

  • “Stiamo facendo il possibile, guardi che non mi sto divertendo”

Il tono irritato che accompagna la frase fa venir voglia di autodenunciarsi immediatamente per comportamento antisindacale e ci si sente come il padrone della zolfara che punisce a nerbate sulla schiena i carusi che hanno portato in superficie il sacco più leggero o indugiato troppo a dissetarsi e detergersi il sudore impastato di zolfo.

  • “Abbiamo sempre fatto così”

E’ talmente radicato l’attaccamento degli umani alla tradizione che c’è da meravigliarsi che non si stia ancora nelle caverne e non ci si nutra di semi e piccoli animali. Ho l’impressione che le ragioni per cambiare debbano essere perlomeno doppie di quelle per mantenere lo status quo perché il cambiamento avvenga davvero e Kaneman lo spiega in termini del diverso peso emotivo che hanno le perdite e i guadagni. Siamo così abituati a questo primato, appunto, dell’abitudine che dire “abbiamo sempre fatto così” sembra una argomentazione che giustifica la prassi corrente, quando al massimo è una constatazione spesso solo della dilagante stupidità.

  • “Tutti gli operatori sono momentaneamente occupati”

Nella mente si aprono due scenari contrapposti. Da un lato un formicaio silente, organizzato e laborioso o, meglio, la fabbrica di cioccolato con gli instancabili Umpa Lumpa in perfetto coordinamento operativo. Dall’altro rumorose macchinette per il caffè e gli snack in fumose sale per la pausa, animate discussioni sul fuorigioco dell’ultimo derby, trucchi da riaggiustare e gonne da riposizionare dopo affannate sveltine e, naturalmente, italiche telefonate ai pupi fino a feste sui triclini intorno ai tavoli imbanditi con le pietanze provenienti dai confini dell’impero. A distogliere da queste fantasie l’invito a non riattaccare per non perdere la priorità acquisita. Ci si sente dei privilegiati, si sta in corsa, si sono acquisiti dei diritti, si conta dunque qualcosa. Taluni comunicano di tanto in tanto il posto in graduatoria e ci si sente orgogliosi quando si entra in zona punti o addirittura ci si avvicina al podio in zona medaglia. Quando si è secondi e ci si chiede cosa mai dovrà fare così a lungo l’utente che ci precede e telepaticamente lo si sollecita a tagliar corto, il suono improvviso dell’occupato per la linea caduta mischia le fantasie ed ora sono gli Umpa Lumpa a possedersi l’un l’altro sui triclini cibandosi di formiche abbrustolite.

  • “Doveva informarsi”, “Doveva essere lei”, “L’ignoranza non è ammessa”, “Mancano i seguenti documenti”

Il reato di lesa maestà non può restare impunito, a lasciar correre anche una sola volta si aprirebbe una falla fatale. L’errore è inammissibile, le scuse inimmaginabili, chi ha sventolato il vessillo del buon senso va punito come esempio per gli altri. Per additarlo colpevole è sufficiente un termine scaduto, un documento stantio, una precedente normativa abrogata ma non troppo, una fotocopia che non si legge bene, l’approssimarsi dell’orario di chiusura. E se ancora, novello Enrico Toti, non si arrende allora la minaccia: “Lei non sa cosa rischia!”

  • “Deve ritornare”

Non è una rottura definitiva, entrambi sanno di non poter fare a meno dell’altro, sono condannati a convivere. E torna alla mente quella sera di aprile su ponte Garibaldi a guardarle le spalle impiccolirsi in prospettiva, nelle orecchie “possiamo restare amici, no?”, nelle mani un mazzetto di roselline, negli occhi il tevere esondante. Ora nelle mani una pratica.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

La Terapia dell’Esposizione Narrativa: ridonare un significato alla vita e al dolore delle esperienze traumatiche attraverso la narrazione

La Terapia dell’Esposizione Narrativa (Narrative Exposure Therapy – NET) è una terapia a breve termine per individui che manifestano i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico a seguito di esperienze traumatiche. Il trattamento prevede l’esposizione emotiva ai ricordi degli eventi traumatici e la riorganizzazione di questi ricordi in una coerente narrazione cronologica di vita. Questo tipo di terapia è oggi utilizzata soprattutto con le persone vittime di violenza ripetuta, torture, calamità naturali e discirminazioni politico-religiose, come i migranti.

Violenza organizzata, PTSD e Terapia dell’Esposizione Narrativa

La Terapia dell’Esposizione Narrativa è una tecnica oggi utilizzata soprattutto nel trattamento di persone vittime di violenza organizzata e ripetuta. Con l’espressione violenza organizzata si fa riferimento a quei fenomeni violenti alla base dei quali vi è una strategia sistematica messa in atto da membri di gruppi con struttura centralizzata o con specifico orientamento politico (organizzazioni di ribelli, organizzazioni terroristiche, organizzazioni paramilitari e unità militari). Tale violenza viene agita nei confronti di individui con differenti orientamenti politici o differenti nazionalità e/o diversi background culturali, etnici e razziali. La violenza organizzata è caratterizzata dalla sistematica violazione dei diritti umani.

Il carattere prolungato e ripetuto di questo tipo di violenza mette le vittime di fronte a un continuo stato di stress e allarme che la mente umana difficilmente può tollerare a lungo. Si sviluppano così delle strategie di sopravvivenza che restano attive anche dopo molto tempo dall’esposizione a stimoli traumatici o a situazioni di pericolo: allerta persistente, flashback e ricordi intrusivi, intense reazioni emotive (soprattutto di collera) anche a stimoli ambientali lievemente pericolosi. Si va così incontro allo svilupparsi di un vero e proprio Disturbo da Stress Post-Traumatico e agli effetti negativi sulla salute mentale e fisica che da questo derivano.

Come intervenire, dunque, in questi casi? Uno dei metodi attualmente utilizzati è la Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) sviluppata da Schauer, Neuner, Elbert.

La Terapia dell’Esposizione Narrativa si basa sulla narrazione degli eventi traumatici come strumento terapeutico per raggiungere due importanti obiettivi clinici: ridurre i sintomi correlati al trauma e favorire una ricostruzione coerente della propria storia, utile a recuperare la propria identità e la dignità personale.

La Terapia dell’Esposizione Narrativa: come nasce

Neuner, Schauer, Elbert, & Roth (2002) hanno sviluppato la Terapia dell’Esposizione Narrativa come approccio standardizzato a breve termine, basandosi sui principi della terapia espositiva utilizzata nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, adattandola ai bisogni degli individui traumatizzati sopravvissuti a guerre e torture.

Nella terapia espositiva viene chiesto di parlare ripetutamente del peggior evento traumatico, nel dettaglio, portando il paziente a rivivere tutte le emozioni associate all’evento. Attraverso questo processo, la maggior parte dei pazienti subisce un “abituarsi” alla risposta emotiva scatenata dalla memoria traumatica, che di conseguenza, col tempo, porta a una remissione dei sintomi del PTSD.

A volte però la maggior parte delle vittime di violenza ha sperimentato molti eventi traumatici ed è spesso impossibile identificare l’evento peggiore prima del trattamento. Per superare questa difficoltà, Neuner, Schauer, Elbert, & Roth hanno integrato al loro approccio alcuni aspetti della terapia della testimonianza, un metodo di terapia creato da Lira e Weinstein (pubblicato sotto gli pseudonimi Cienfuegos e Monelli, 1983) per curare i sopravvissuti traumatizzati dal regime di Pinochet in Cile. In questo caso, infatti, invece di definire un singolo evento traumatico come bersaglio della terapia espositiva, il paziente costruisce una narrazione della sua intera vita, dalla nascita fino alla situazione attuale, mentre si concentra su una relazione dettagliata delle esperienze traumatiche.

L’obiettivo della procedura della Terapia dell’Espositizione Narrativa è duplice: come con la terapia espositiva, il primo obiettivo è ridurre i sintomi del PTSD, facendo confrontare il paziente con i ricordi dell’evento traumatico. Tuttavia, teorie recenti sul PTSD e sull’elaborazione emotiva, suggeriscono che l’assuefazione delle risposte emotive è solo uno dei meccanismi per il miglioramento dei sintomi. Altre teorie suggerisco che la distorsione della memoria autobiografica esplicita degli eventi traumatici porta a una narrativa frammentaria di ricordi traumatici, che si traducono nel mantenimento dei sintomi del PTSD (Ehlers & Clark, 2000).

Quindi, la ricostruzione della memoria autobiografica e una narrazione coerente dovrebbero essere utilizzate in concomitanza con la terapia di esposizione. La Terapia dell’Esposizione Narrativa pone l’accento su entrambi i metodi, cioè l’assuefazione della risposta emotiva al richiamo di eventi traumatici e la costruzione di una narrativa dettagliata dell’evento e delle sue conseguenze (Neuner, Schauer, Elbert, & Roth, 2002).

Il trauma infatti rende la memoria frammentata e questo rischia di alterare i ricordi o la loro precisa collocazione nel tempo, generando inevitabile confusione nella vittima, dubbi sulla veridicità degli eventi e sulle responsabilità degli stessi, elementi che sul piano clinico possono mantenere e peggiorare il malessere psicologico.

Nella Terapia dell’Esposizione Narrativa il paziente parla ripetutamente di ogni evento traumatico in dettaglio, mentre fa di nuovo esperienza delle emozioni, delle cognizioni, delle sensazioni fisiologiche e sensoriali e dei comportamenti associati all’evento. Allo stesso modo il paziente racconta le esperienze positive. Con l’aiuto e la guida del terapeuta, il paziente costruisce una narrazione della sua vita, focalizzandosi sui dettagli del contesto relativi alle esperienze traumatiche, così come sugli elementi importanti delle reti emozionali e su come tutte queste parti siano tra loro connesse. Il processo narrativo permette di riconoscere che la rete della memoria incentrata sulla paura, che nel presente provoca i sintomi di allerta, viene da esperienze passate e che la sua riattivazione nel racconto è nient’altro che un ricordo di quelle esperienze. Attraverso la narrazione ripetuta i pazienti perdono la risposta emotiva al ricordo degli eventi traumatici, il che porta alla lenta remissione dei sintomi post-traumatici. Allo stesso tempo guadagnano l’accesso ai ricordi passati e sviluppano un senso di coerenza, controllo e integrazione.

Terapia dell’Esposizione Narrativa: i principi teorici

Lo stress attiva prevalentemente due aree del cervello: l’ippocampo, coinvolto nei processi di memoria, con l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene – HPA- che regola il rilascio di cortisolo, e l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione delle emozioni (Schauer at al, 2011). Dinnanzi a un evento traumatico, nelle persone che sviluppano un PTSD, l’alterazione del funzionamento di queste aree cerebrali porta al formarsi di memorie persistenti e invasive e a un recupero compromesso della memoria.

Il modello di elaborazione cognitiva postula che il PTSD derivi da una narrativa frammentata mantenuta da una memoria autobiografica del trauma distorta e distaccata. (Schauer at al, 2011; Ehlers e Clark, 2000) La teoria dell’elaborazione emozionale del PTSD, inoltre, postula che traumi ripetuti danneggiano l’amigdala responsabile della regolazione emotiva (Schauer at al, 2011). Di conseguenza, a seguito di un trauma, la memoria emotiva e autobiografica si frammentano e ciò porta a un funzionamento alterato che provoca iperarousal, dissociazione, flashback, evitamento e depressione (Volpe et al, 2017).

La Terapia dell’ Esposizione Narrativa si mostra promettente per il trattamento del PTSD e della depressione correlata all’esperienza di traumi multipli (Schauer at al, 2011; Robjant e Fazel 2010; McPherson, 2012) in quanto mira a ricostruire i ricordi e la regolazione emotiva associata, inclusi gli eventi traumatici, fornendo dei significati alle esperienze vissute e un’integrazione sensoriale, in un contesto sicuro quale quello della relazione terapeutica (Schauer at al, 2011). La Terapia dell’Esposizione Narrativa opera focalizzandosi sull’intera vita dei pazienti (Schauer at al, 2011): le sessioni di terapia individuale consentono al paziente di rivedere tutti gli eventi positivi e negativi significativi nella propria vita, rallentando e soffermandosi nell’esposizione dei ricordi traumatici più problematici. Il terapeuta assiste il paziente nell’integrare memorie frammentarie in un’autobiografia coerente e contestualizzata in accordo con una risposta emotiva adattiva (Schauer at al, 2011).

La Terapia dell’Esposizione Narrativa, seguendo i principi della CBT, mira a cambiare il comportamento e le emozioni, affrontando il pensiero disfunzionale attraverso la ricostruzione della memoria autobiografica (Schauer at al, 2011). In particolare, cerca di ridurre i sintomi del PTSD ricostruendo il modo in cui la persona pensa e reagisce ai traumi e agli stimoli ad essi collegati. In questo senso, la Terapia dell’Esposizione Narrativa segue il modello dell’ elaborazione cognitiva e il terapeuta guida il cliente a correggere la narrativa frammentata mantenuta attraverso la memoria autobiografica distorta e distaccata del trauma (Schauer at al, 2011; Ehlers e Clark, 2000). D’altra parte, la Terapia dell’Esposizione Narrativa si basa anche sulla teoria dell’elaborazione emotiva, sostenendo che l’esposizione ripetuta favorisce l’assuefazione alle risposte emotive riducendo così i sintomi del PTSD (Schauer at al, 2011).

Il processo terapeutico nella Terapia dell’Esposizione Narrativa

La Terapia dell’Esposizione Narrativa è un trattamento a breve termine; tipicamente si conclude in 8-12 sessioni (Schauer at al, 2011), anche se, recenti studi hanno mostrato l’efficacia di questa Terapia anche con un numero inferiore di sessioni, dalle 3 alle 6 (Schaal et al, 2009; Neuner et al. 2008; Zang et al., 2013; Hijazi et al. 2014; Bichescu et al. 2007). Tuttavia è sempre bene che sia il terapeuta a determinare il numero di sessioni in base alla gravità e alla quantità degli eventi traumatici subiti.

Gli elementi della Terapia dell’Esposizione Narrativa (Schauer et al. 2014) che risultano efficaci nel trattamento del trauma sono:

  1. Ricostruzione cronologica attiva della memoria autobiografica/episodica;
  2. Esposizione prolungata ai “punti caldi” della memoria e piena riattivazione dei ricordi dolorosi per modificare la rete emotiva attraverso il racconto (es. imparare a distinguere memoria traumatica dalla sua risposta emotiva condizionata, separare piani temporali, comprendere che gli stimoli sono solo temporaneamente associati alla sofferenza attuale);
  3. Associazione significativa e integrazione delle risposte fisiologiche, sensoriali, cognitive ed emotive all’ interno del proprio contesto di vita spazio-temporale (es. comprensione del contesto originario di acquisizione e del riemergere delle risposte condizionate nel corso della vita);
  4. Rivalutazione cognitiva del comportamento (es. distorsioni cognitive, pensieri automatici, credenze, risposte);
  5. Rivisitazione delle esperienze di vita positive per un supporto (mentale) e per aggiustare le assunzioni di base su di sé e sulla propria storia;
  6. Recupero della dignità personale attraverso la soddisfazione del bisogno di riconoscimento e attraverso l’orientamento sui diritti umani alla “testimonianza”.

La Terapia dell’Esposizione Narrativa con bambini e adolescenti

La Terapia dell’Esposizione Narrativa è applicabile anche con bambini e adolescenti. In questo caso il protocollo a cui si fa riferimento è quello illustrato nel manuale kidNET, una versione modificata del manuale NET, che include l’uso di materiali illustrativi tra cui disegni e giochi di ruolo per aiutare i bambini a ricostruire i ricordi. Inoltre, il terapeuta estende la narrazione oltre il presente per discutere le speranze e le aspirazioni future (Onyut, 2005). Gli studi hanno mostrato come la Terapia dell’Esposizione Narrativa abbia risultati positivi anche nei bambini e negli adolescenti (Catani et al. 2009; Ertl et al. 2011)

La Terapia dell’Esposizione Narrativa ha il vantaggio di essere un protocollo standardizzato e organizzato in fasi ben precise. La procedura per fasi e la presenza delle evidenze empiriche positive, rende il protocollo di Schauer e colleghi un validissimo riferimento per gli operatori e i terapeuti che lavorano pazienti sopravvissuti a violenze organizzate di diverso tipo ma anche a storie costellate da esperienze traumatiche ripetute.

Condividi ma non condivido: analfabetismo emotivo ed empatia nell’era dei social

L’ analfabetismo emotivo si diffonde online? Le emozioni che frequentemente traspaiono online su temi molto dibattuti nel web sono emozioni di rabbia e frustrazione ma non è l’emozione in sé a preoccupare, oltre all’emozione c’è di più: c’è una mancata regolazione emotiva, c’è una tendenza all’azione, c’è una totale cecità verso l’altro.

Leoni da tastiera: quando la rabbia è online

Nell’ultimo periodo lo scorrere delle bacheche dei social si fa sempre più prevedibile e, tra i selfie di amici che non vedi da una vita dei quali ti fermi a osservare le inspiegabili rughe chiedendoti se anche su di te l’età sta avanzando in quel modo così inesorabile, è facile trovare numerose e fantasiose fake news condivise con tanto di post personale degli utenti che commentano l’articolo (o il più delle volte solo il titolo!) urlando allo scandalo con un trasporto emotivo tale da far invidia al grido “Adriana!” del caro vecchio (e malconcio) Rocky. Leggendo i commenti il quadro non cambia: si difende la propria posizione con le unghie e con i denti, anche al costo di offendere pesantemente chi espone un punto di vista diverso o mostra la falsità della notizia. Non è solo il fenomeno fake news a preoccupare (esatto, preoccupare), altrettanto degni di nota sono i post scritti da persone con un forte impatto mediatico (e sì, mi riferisco anche e soprattutto ai politici) su temi ben prevedibili: vaccini e immigrazione tanto per fare un esempio. I commenti a questi post? Leggasi sopra: “si difende la propria posizione con le unghie e con i denti, anche al costo di offendere pesantemente chi espone un punto di vista diverso”.

Lungi dal difendere uno o più di quei punti di vista sui temi di cui tanto si dibatte sui social, il punto della situazione è un altro. Se fin qui, dei commenti inappropriati e aggressivi verso persone sconosciute (ma forse non abbastanza per credere di sapere quale appellativo sia più o meno appropriato per offendere) non preoccupano, dovrebbero preoccupare le altre manifestazioni comportamentali a cui tutto questo porta. Sono infatti molto frequenti i casi in cui chi ha mostrato un’opinione diversa nel coro di commenti che all’unisono difendono un’idea, è stato letteralmente invaso da centinaia (a volte migliaia) di messaggi privati sul proprio profilo. Il contenuto di questi messaggi? Non certo un invito a confrontarsi sulla tematica pomo della discordia in maniera civile e aperta, ma una sfilza di parolacce, turpiloqui, offese e addirittura minacce (al solo commentatore fuori dal coro se si è fortunati, all’intera sua famiglia se si è un po’ meno fortunati). E non è tutto: la veemente difesa così tanto portata avanti sui social a volte sconfina dallo schermo e i leoni da tastiera si fanno strada nella vita reale. Appoggiati da quei personaggi amati e famosi che tanto scrivono su quel tema e supportati da centinaia di altri impetuosi commentatori, ci si sente quasi giustificati a difendere le proprie convinzioni anche con l’altro che si palesa davanti a noi, al supermercato per esempio, al parco, in piscina o sul treno!

Le uniche emozioni che traspaiono in questo quadro sono emozioni di rabbia e frustrazione. Non è l’emozione in sé a preoccupare, tutti possiamo provare rabbia dinnanzi a una frase dai contenuti per noi non condivisibili. Oltre l’emozione c’è di più: c’è una mancata regolazione emotiva, c’è una tendenza all’azione, c’è una totale cecità verso l’altro.

Spesso si è parlato, a questo riguardo, di analfabetismo funzionale, riferendosi soprattutto alla condivisione di post e false notizie derivate da una comprensione poco chiara di ciò che si legge, ma come si spiega la deriva comportamentale a cui spesso si assiste e che si fa largo, per l’appunto, attraverso attacchi scritti nei commenti e successivamente attraverso attacchi verbali e dal vivo? A questo riguardo si può citare un altro tipo di analfabetismo che potrebbe essere alla base di tutto ciò: l’ analfabetismo emotivo.

Dall’ Intelligenza emotiva all’analfabetismo emotivo

Definita per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come: “La capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il prorio pensiero e le proprie azioni”, l’ Intelligenza Emotiva racchiude al suo interno quelle capacità di consapevolezza e padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nelle gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano.

L’ intelligenza emotiva viene definita come quell’abilità di riconoscimento e comprensione delle emozioni sia in se stessi che negli altri e di utilizzo di tale consapevolezza nella gestione e nel miglioramento del proprio comportamento e delle relazioni con gli altri.

L’ autore che resta più influente in tema Intelligenza Emotiva è Goleman che, alla base dell’intelligenza emotiva, individua due tipi di competenze, ognuna caratterizzata da specifiche caratteristiche:

La prima competenza è quella Personale, ovvero come controlliamo noi stessi. Essa si caratterizza per:

  • Consapevolezza di Sé: capacità di riconoscere le proprie emozioni, i propri limiti e le proprie risorse ed avere sicurezza nelle proprie capacità;
  • Padronanza di Sé: saper dominare i propri stati interiori, saper guidare gli impulsi e sapersi adattare e sentirsi a proprio agio in nuove situazioni;
  • Motivazione: spinta a realizzare i propri obiettivi sapendo cogliere le occasioni che gli si presentano, impegnandosi nonostante le possibili avversità.

La seconda competenza è quella Sociale: ossia il modo in cui gestiamo le relazioni con l’Altro. Questa capacità è caratterizzata da:

  • Empatia, intesa come la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui.
  • Abilità sociali, ossia tutte quelle abilità che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili. Si va dall’utilizzo di tattiche di persuasione efficienti, al saper comunicare in maniera chiara e convincente, così da saper guidare il gruppo sia in un eventuale cambiamento, sia nel risolvere eventuali disaccordi. Rientra inoltre nell’abilità sociale il cercare di favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Lo stesso Goleman afferma che questi concetti vanno appresi in tenera età: possono essere insegnati ai bambini, mettendoli nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro (Goleman, 1995).

Cosa accade quando non si sviluppa l’ Intelligenza Emotiva? Si corre il rischio di diventare analfabeti emotivi (o analfabeti emozionali), ovvero si diventa incapaci di riconoscere e controllare le proprie emozioni, e si ha difficoltà a riconoscere anche le emozioni altrui, il che rende incapaci di provare empatia e compassione; un analfabeta emotivo è quindi freddo, imprevedibile.

Secondo Goleman, la consapevolezza delle proprie emozioni diventa piuttosto bassa: le dinamiche emotive sono scarsamente conosciute e risulta arduo, se non impossibile, attribuire a sé stessi il potere di influenzare i propri stati emotivi. E’ in questa inadeguatezza che ha radice l’ analfabetismo emotivo (Pacchin, 2011).

Umberto Galimberti, uno tra i più noti e influenti filosofi italiani dei nostri tempi, ha approfonditamente analizzato il fenomeno dell’ analfabetismo emotivo, soprattutto tra i più giovani. Come egli stesso scrive:

Nel nostro tempo caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e da carenza di comunicazione, si avvertono i segnali di quella indifferenza emotiva per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte a fatti a cui si assiste o a gesti che si compiono (Galimberti, 2009).

La violenza diventa pratica normale, è aggressività indefinibile, futile, casuale. Manca una educazione emotiva e quindi un’educazione ai comportamenti e alle relazioni (Pacchin, 2011; Galimberti, 2009).

E così, estendendo tale visione anche agli adulti a cui è mancata un’adeguata educazione emotiva, è facile spiegare come mai si assiste a una sempre più rabbiosa e aggressiva difesa verso chi mostra pensieri contrari ai nostri, a partire dai social network fino alla vita reale.

Facile il rimando al bullismo, spesso relegato a fenomeno manifesto tra i più piccoli, che si caratterizza per comportamenti aggressivi, intenzionali e ripetitivi di tipo verbale, fisico, psicologico e, sopresa, anche cibernetico (Pacchin, 2011) ma che nulla ha di diverso da ciò a cui noi oggi assistiamo online. Di fondo si assiste alla difficoltà della vittima di difendersi e alla volontà del bullo di nuocere per ottenere dei vantaggi o semplicemente per il piacere emotivo di umiliare l’altro (Roland, 2001).

Galimberti, analizzando famosi casi di cronaca nera in cui i fautori di gesti violenti sono i più giovani, si chiede se il mondo emotivo non sia oggi vissuto come un ospite sconosciuto a cui non si sa dare neppure un nome.

Chi mostra analfabetismo emotivo si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico (Galimberti, 2002).

Analfabetismo emotivo e empatia

Chi è dotato di alti livelli di Intelligenza Emotiva sa riconoscere le emozioni in se stesso, le sa padroneggiare e gestire e questo consente di mettere in atto comportamenti più funzionali alle situazioni sociali. In particolare, alti livelli di Intelligenza Emotiva ci consentono di essere empatici verso gli altri, capirli e saperci mettere nei loro panni.

Abbiamo visto come per Daniel Goleman l’educazione delle emozioni porta a sviluppare l’ empatia intesa come capacità di percepire le esigenze dell’altro, mostrandosi pronti a soddisfare le sue esigenze e aiutarlo cercando di mettere in risalto quelle che sono le sue risorse. L’ empatia, per Goleman, è anche la capacità di individuare e coltivare le opportunità che vengono offerte dall’incontro con persone di diverso tipo, e il saper interagire all’interno di un gruppo sulla base dell’interpretazione delle correnti emotive e dei rapporti di potere esistenti nel gruppo stesso.

Per Galimberti, l’ analfabetismo emotivo porta a un timore eccessivo e quindi a un atteggiamento aggressivo verso l’altro, percepito spesso come un potenziale nemico.

Quindi, se già dalla più tenera età, non si ha accesso a un’adeguata educazione emotiva, ciò che se ne ricava è una poco sviluppata empatia verso l’altro, unita al timore della diversità delle persone e alla scarsa capacità di regolare le proprie emozioni: tutti effetti dell’ analfabetismo emotivo dunque.

Analfabetismo emotivo e il ruolo del corpo

Riva (2010) ha sottolineato come un eccessivo uso delle piattaforme social possa favorire il disinteresse emotivo dei soggetti legato ad un loro deficit di lettura delle emozioni altrui. Comunicando tramite un post, una foto, un link, una notifica, etc. la mancanza del corpo toglie tutta una serie di informazioni presenti nell’interazione face-to-face. Anche l’attività dei neuroni specchio diventerebbe deficitaria in assenza di un corpo. Quando gli interlocutori sono privati della presenza del corpo e interagiscono assiduamente attraverso un medium, aumenta il rischio di favorire l’ analfabetismo emotivo (Goleman, 2011).

Cosa fare per contrastare il dilagare dell’ analfabetismo emotivo?

L’ analfabetismo emotivo è dunque alla base di un mancato riconoscimento delle proprie emozioni e della capacità di gestirle, nonché della scarsa empatia verso l’altro e dunque dei comportamenti irrispettosi verso chi non la pensa come noi. Quel che spesso accade sui social potrebbe dirsi la manifestazione di questo: vedo un post su un argomento che mi indigna, provo rabbia, frustrazione, commento con toni forti mostrando la mia opinione. Ma accade altro: una persona mi dice che ho torto, la rabbia aumenta e la gestisco offendendo l’altro, andando sul suo profilo personale, vedendo le sue foto in modo da cercare altri spunti per rendere le offese più dirette, magari in un messaggio privato. E forse, forte di un’altra schiera di commentatori che la pensa come me e usa i miei stessi mezzi per far capire le ingiustizie (e qui si potrebbe aprire un’altra parentesi di psicologia sociale sull’identità sociale), mi sento autorizzato a estendere questi comportamenti al di fuori, anche nella vita reale.

Sembra mancare, oggigiorno, l’ educazione emotiva. L’ educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti, perché prive di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare.

La famiglia è il primo contesto in cui si apprende la conoscenza e la gestione della vita emotiva, non solo attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate al bambino, ma anche attraverso i modelli che gli offrono mostrandogli come gestiscono i loro sentimenti e la propria relazione coniugale. Avere dei genitori intelligenti, sotto il profilo emotivo, è una fonte di beneficio per il bambino.

I bambini che imparano a gestire le proprie emozioni e a controllare i propri istinti tollerano meglio le situazioni stressanti, imparano a comunicare meglio i propri stati emozionali e sono in grado di sviluppare relazioni positive con la famiglia e gli amici e ottengono maggiori successi a scuola.

Tra i programmi più efficaci, di cui anche Goleman parla nel suo libro Intelligenza emotiva, vi sono i programmi di alfabetizzazione emotiva che si attuano nelle scuole; si richiede che “gli insegnanti e gli studenti si concentrino sul tessuto emozionale. Si sceglie un “argomento del giorno” che può andare dalle tensioni ai traumi presenti nella vita dei bambini, e se ne parla facendo riferimento a questioni concrete: del dolore di sentirsi esclusi, dell’invidia e dei contrasti che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola (Goleman, 1995).

Nel contrasto alla scarsa lettura delle emozioni dell’altro, un famoso blog americano sembra aver fatto dei notevoli passi avanti: Brendon Stanton, mosso dall’intento di promuovere comportamenti funzionali alla crescita della competenza emotiva sui social network, ha pensato di predisporre nel suo blog quella dose di informazioni in grado di favorire la lettura efficace delle emozioni altrui. Humans of New York, questo il nome del blog, è nato da un progetto personale di fare un censimento fotografico di New York: camminare per le vie della città, chiedere ai passanti di poterli fotografare, pubblicare le foto categorizzandole per borghi. L’incontro con lo sconosciuto e l’inevitabile scambio di parole, ha portato Brendon a integrare una variante alla sua idea originaria: associare alla fotografia pubblicata, una didascalia che ripercorresse uno stralcio di conversazione con il soggetto della fotografia stessa. I fans e i followers vedono, leggono, commentano, condividono, ma soprattutto sembrano esperire le storie raccontate come proprie: tra le righe dei commenti si possono trovare parole di supporto per storie tristi, di approvazione per quelle di successo, di stupore per quelle bizzarre e così via.

Nel ruolo di operatori della salute mentale è nostro dovere sensibilizzare le persone, i genitori e gli insegnanti in primis, all’importanza di un’adeguata educazione emotiva e contrastare così l’espandersi dell’ analfabetismo emotivo e dei fenomeni a cui spesso oggi, purtroppo, siamo abituati ad assistere online e dal vivo.

Nella vita quotidiana ci si trova spesso di fronte a idee poco condivisibili, che si possono controbattere o meno, l’importante è farlo nel pieno rispetto di chi espone tali idee, sia che si trovi davanti a noi, vis-à-vis, sia che si trovi dall’altra parte dello schermo.

 

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