expand_lessAPRI WIDGET

Togli peso alla tua vita (2017): il racconto di un team di specialisti nella gestione di interventi di chirurgia bariatrica – Recensione del libro

Togli peso alla tua vita è un testo adatto a chiunque sia interessato ad approfondire le proprie conoscenze sul tema della chirurgia bariatrica e su tutto ciò che sta intorno a quello che non è soltanto un semplice intervento.

 

La chirurgia dell’obesità (chirurgia bariatrica o metabolica) ha fatto enormi passi avanti nelle ultime decadi ed è ad oggi il trattamento più efficace per i pazienti con obesità severa. Spesso però questo approccio è considerato come un’ultima spiaggia o una scorciatoia per il paziente, alimentando lo stigma che colpisce l’obesità e chi ne è affetto.

Questo tipo di interventi non possono essere ridotti ad un singolo atto chirurgico ma vanno visti, nell’ottica multifattoriale dell’obesità, come un lavoro di squadra in cui il chirurgo insieme all’endocrinologo, dietista, psicologo e altri professionisti collabora in sinergia sia nel pre che post operatorio per capire cosa è meglio per il paziente in una visione dello stesso a 360 gradi.

Togli peso alla tua vita : racconto di un team di chirurgia bariatrica

Nonostante sia riconosciuta l’efficacia della chirurgia bariatrica nel calo di peso e nel miglioramento delle comorbidità associate al peso e dell’aspettativa di vita, se la persona non modifica il proprio stile di vita, il recupero del peso, o una cattiva qualità di vita, sono inevitabili.

A questo proposito, Andrea Formiga (chirurgo), Zaira Benini (endocrinologa), Alessandra Freda (dietista) ed Emanuel Mian (psicoterapeuta) descrivono nel libro Togli peso alla tua vita, Mind edizione, come, in un team di chirurgia bariatrica, le diverse figure professionali interagiscono verso un obiettivo comune che è “la scelta del percorso più idoneo ed efficace per la persona che richiede un intervento di chirurgia bariatrica”.

Togli peso alla tua vita è suddiviso in 4 parti in cui ogni professionista fa da padrone di casa alla sua specializzazione e al suo ruolo all’interno del team. Ecco come psicologia, dietetica, endocrinologia e chirurgia si susseguono passandosi il testimone prima dell’arrivo al traguardo che è fare conoscere meglio al lettore la chirurgia dell’obesità e l’importanza, e funzione, dell’equipe multidisciplinare.

Un libro attento a mettere la persona al centro perché il primo passo per la cura e gestione di questa condizione complessa è il rispetto verso chi ne soffre. Proprio per questo motivo, a chiusura del testo viene dato spazio alle voci di chi ha scelto questo tipo di percorso.

Togli peso alla tua vita è un testo utile per chi vuole approfondire le proprie conoscenze verso la chirurgia bariatrica (che comprende diverse tipologie di tecniche) e il ruolo che le diverse figure professionali hanno all’interno di un team multidisciplinare, adatto sia a professionisti sia a persone che vogliono avere informazioni utili sulla chirurgia metabolica.

La lettura è una finestra verso la complessità di una malattia cronica e multifattoriale, troppo spesso detronizzata per colpa o scarsa forza di volontà, che invece merita la giusta attenzione e il giusto peso.

Il conformismo in squadra: come i rapporti che si creano in un team sportivo influenzano il comportamento dei singoli atleti

Il crearsi di relazioni positive tra atleti e tra questi ultimi e allenatore, è fondamentale per raggiungere risultati soddisfacenti. Un recente studio, condotto con atleti provenienti da diverse discipline sportive, come calcio, pallavolo e lacrosse, ha messo in evidenza la tendenza di alcuni individui, che si identificavano maggiormente con il proprio team, a conformarsi al comportamento dei propri compagni di squadra.

 

Graupensperger, uno studente di dottorato presso l’Università della Pennsylvania, sostiene che, all’interno delle squadre, la pressione dei pari tende a manifestarsi in modi più o meno sottili e gioca un ruolo fondamentale in questo processo.

Rapporti interpersonali nella squadra: la ricerca

Gli studiosi hanno reclutato 379 atleti, appartenenti a 23 squadre in 8 sport differenti. Ogni team aveva tra gli otto e i quaranta compagni di squadra che partecipavano alla ricerca.

Inizialmente, i partecipanti hanno compilato un questionario progettato per misurare la loro autostima e il modo in cui si sentivano strettamente connessi alla loro squadra e ai compagni di gioco. I ricercatori hanno anche posto una serie di domande ipotetiche rispetto a come gli atleti si sarebbero comportati in situazioni che riguardavano la messa in atto di comportamenti a rischio, come il binge drinking, e di comportamenti positivi, come aiutare gli altri.

Dopo aver compilato i vari questionari, ogni partecipante ha visualizzato una presentazione che mostrava dei dati su come i propri compagni di squadra avevano risposto agli scenari ipotetici, precedentemente presentati. All’insaputa dei partecipanti i dati sono stati manipolati per far sembrare che i loro compagni di squadra avessero messo in atto comportamenti a rischio con maggiore probabilità, rispetto a quanto effettivamente riportato. Graupensperger ha affermato:

Volevamo che pensassero che i loro compagni di squadra stavano assumendo comportamenti più rischiosi, di quanto non stessero facendo in realtà.

Alla fine della sessione, i partecipanti hanno avuto la possibilità di compilare un secondo questionario, in cui hanno risposto di nuovo alle stesse domande; l’obiettivo era verificare se vi fosse o meno un incremento della messa in atto dei comportamenti rischiosi, dopo aver conosciuto le risposte dei loro compagni di squadra.

Rapporti interpersonali e comportamenti

I ricercatori hanno scoperto che i partecipanti che si sentivano più strettamente connessi ai loro compagni di squadra e che si erano identificati fortemente con il gruppo, presentavano una maggiore probabilità di intraprendere comportamenti rischiosi come binge drinking e uso di marijuana, se pensavano che i loro compagni di squadra stessero già svolgendo queste attività. Allo stesso tempo, i ricercatori hanno trovato che tale processo si applica in modo simile per i comportamenti positivi. A tal proposito, Graupensperger afferma:

La nostra sfida, in futuro, sarebbe quella di cercare di ridurre le pressioni per conformarsi ai comportamenti negativi, favorendo nelle squadre la possibilità di trovare modi positivi per incoraggiare il legame tra i giocatori.

Inoltre, ha affermato che il prossimo obiettivo della ricerca è quello di individuare le tipologie di persone più sensibili all’influenza dei pari. Il suo obiettivo è quello di esplorare in che modo la posizione sociale, all’interno di un gruppo, agisce sull’influenza dei pari.

La Stanza: crowdfunding per un cortometraggio sulla sofferenza psicologica

La Stanza è un progetto ideato e portato avanti da alcuni giovani cinefili provenienti da Milano e Modena e determinati a mettere anima, corpo e videocamere per raccontarvi una storia di emozioni e psicologia.

Federico Paglia

 

Che impatto può avere nella nostra vita un dolore?

Quante volte ci è capitato di dover affrontare un evento traumatico e di dover ricercare in noi stessi la forza per superarlo?

Parlando coi nostri coetanei, sempre più spesso veniamo a sapere che molti di noi si rivolgono ad uno psicoterapeuta per capire cos’è che in certi momenti ci procura pensieri negativi, ci fa sentire inadeguati e ci blocca nella vita quotidiana.

Nella maggioranza dei casi riscontriamo un beneficio dal percorso psicoterapeutico e a parer comune risulta utile nel darci gli strumenti chiave per capire da dove nasca il nostro malessere. Inoltre è d’aiuto nel trovare la consapevolezza necessaria a credere in noi stessi e nelle potenzialità che abbiamo per superare tale sofferenza.

La stanza: cosa racconteremo

Vorremmo raccontare la storia di Giacomo, un ragazzo quasi ventenne che si trova a dover affrontare un dolore nato in età adolescenziale e causato dalla perdita di un famigliare. Deciderà di affrontare il “mostro”, che come un parassita negli anni si è insediato in lui, iniziando ad andare da uno psicologo.

La Stanza è un progetto ideato e portato avanti da alcuni giovani cinefili provenienti da Milano e Modena e determinati a mettere anima, corpo e videocamere per raccontarvi una storia di emozioni e psicologia.

Il cortometraggio nasce dalla volontà della regista, Camilla Pez, di fondere i suoi studi universitari di psicologia e l’esperienza da paziente di psicoterapia con la passione per il Cinema, per riuscire a raccontare una situazione a lei cara e comune a tutti noi.

Il tema della storia è il rapporto che ognuno di noi ha, ha avuto o avrà con un proprio dolore.

Una delle particolarità del cortometraggio è quella di mostrare tale relazione da un insolito punto di vista. Con esso vorremmo invitare lo spettatore a riflettere sul rapporto che ha con la propria sofferenza e sui suoi aspetti positivi e negativi.

L’obiettivo finale che ci siamo posti è quello di far partecipare il cortometraggio a festival nazionali ed internazionali e di distribuirlo a varie associazioni, organizzazioni ed enti che incoraggiano la psicoterapia come percorso d’aiuto.

Di seguito forniamo i link per sostenerci e dare forma al nostro progetto:

La stanza cortometraggio su Facebook

La stanza crowdfunding

La faccia nascosta dell’obesità

Una delle conseguenze più dannose dell’ obesità, spesso poco considerata e conosciuta, è data dallo stigma sociale.

 

Milioni di persone di ogni età e ceto sociale possono essere vittime di pregiudizio e discriminazione a causa del loro peso.

Lo stigma basato sul peso fa riferimento ad atteggiamenti negativi, che possono essere espressi sotto forma di stereotipi, pregiudizi e discriminazione verso alcuni individui a causa del loro peso.

Questa visione negativa dell’ obesità è un problema sociale diffuso, difficilmente modificabile e in aumento nelle ultime decadi.
Basti pensare che negli USA nel decennio tra il 1995 e 2005 la prevalenza della discriminazione a causa del peso è aumentata del 66% tanto da avere raggiunto, soprattutto tra le donne, percentuali vicine a quelle della discriminazione razziale.

Essere discriminati per il proprio peso: quali sono le conseguenze?

Il peso è tra le principali cause di prese in giro e atti di bullismo tra i giovani e può avere, anche per gli adulti, un impatto negativo sul benessere fisico, psicologico e sociale con ripercussioni negative nei domini più importanti della vita.

La ricerca ha evidenziato come il peso possa essere correlato a stipendi più bassi, meno possibilità di assunzione, valutazioni più scarse a scuola, atteggiamenti negativi da parte del personale scolastico e coetanei, meno tempo dedicato da parte dei medici, meno amici, minore coinvolgimento in relazioni sentimentali e difficoltà a muoversi in modo confortevole nell’ambiente di tutti i giorni “es. sedie strette o equipaggiamento medico non idoneo”.

È diffusa la credenza che criticare qualcuno per il proprio peso possa motivarlo a cambiare e riflettere sulla propria condizione.

Questo modo di pensare è errato. La ricerca scientifica ha evidenziato l’esatto contrario dimostrando come subire questo tipo di stigma possa portare a mangiare di più, non chiedere un aiuto professionale, evitare l’attività fisica, comportamenti alimentari disfunzionali, diete estreme e pericolose e, in casi estremi, soprattutto tra i giovani, a suicidio o tentato suicidio.

Recenti e interessanti ricerche hanno dimostrato come lo stigma ponderale sia fonte di stress sia nelle persone con sovrappeso che normopeso.

Lo stress porta all’aumento del cortisolo (l’ormone dello stress) e alti livelli di quest’ormone portano a stimolare l’appetito, preparare il corpo a immagazzinare grasso e alla preferenza di cibi palatabili (ricchi di zuccheri e grassi).

Le cause di questi atteggiamenti negativi sono da ricercare nell’ideale culturale della magrezza, vista come sinonimo di bellezza, controllo e successo a differenza del peso in eccesso considerato come un fallimento personale risultato da pigrizia e debolezza di carattere. Obesità quindi considerata come una scelta e non una malattia cronica nonostante sia risaputo che questa condizione non è una scelta di vita, ma l’interazione complessa di fattori ambientali, genetici, biologici e comportamentali.

L’ obesità è una malattia cronica difficile da gestire tanto che circa il 97% di persone con obesità che perde peso lo riacquista entro 5 anni.

È importante, nella lotta e nella sensibilizzazione all’ obesità, smascherare questo aspetto nascosto, ma sotto gli occhi di tutti.

Perché la percezione di essere ritenuti responsabili della propria condizione pesa… ma non parliamo di chilogrammi… parliamo di sofferenza.

 

Testo ispirato dalla lettura di Weight stigma: What it is, why you should care.

Il neuromarketing – Introduzione alla Psicologia

Il neuromarketing è una nuova disciplina che origina dall’applicazione delle teorie neuroscientifiche al marketing. Lo scopo del neuromarketing è analizzare i processi di pensiero utilizzati del consumatore nell’effettuare delle scelte di acquisto.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il termine neuromarketing è stato usato per la prima volta nel 2002 da Ale Smitds, con il quale intendeva identificare quell’area in cui si applicano le tecniche neuroscientifiche per generare delle strategie efficaci di marketing, che fossero volte a individuare i meccanismi messi in atto dal consumatore per giungere a una scelta.

Si tratta, sostanzialmente, di un settore che agisce in maniera complementare a quello tradizionale, in cui si cercano di individuare strategie centrate principalmente sulle esigenze emotive del cliente. Per questo, spesso, è necessario l’ausilio e l’intervento di altre discipline, quali l’economia comportamentale, la psicologia cognitiva e sociale e le neuroscienze. L’interazione tra questi settori disciplinari consente di ottenere maggiori informazioni sui processi che veicolano le scelte che portano a effettuare acquisti.

Il neuromarketing consente, dunque, di individuare i processi cognitivi coinvolti nelle scelte facilitando i marketer nell’individuazione di brand o pubblicità di successo.

L’obiettivo è trovare nuovi metodi per invogliare le persone a comprare nuovi prodotti. E proprio a questo punto entra in gioco il cervello, da cui dipendono tutte le scelte effettuate quotidianamente. Quindi, studiare le risposte del cervello agli stimoli può aiutare a comprendere ciò che funziona per avere un prodotto che attiri sempre più acquirenti.

Il neuromarketing fa proprio questo: valutare l’efficacia comunicativa del prodotto, misurando le reazioni degli acquirenti a stimoli pubblicitari specifici.

Le neuroscienze

Il modello neuroscientifico principalmente usato nel neuromarketing è quello del Triune brain o cervello trino. Questa teoria, è stata formulata originariamente da Paul MacLean negli anni ‘60, e consiste nel considerare il cervello come formato dalla sovrapposizione di tre strutture semi-indipendenti, in competizione tra loro:

  • il cervello rettiliano, detto anche R-complex o vecchio cervello, associato all’aggressività, all’istinto territoriale, e responsabile degli impulsi istintivi associati alle funzioni vitali e di sopravvivenza
  • il cervello limbico o cervello mammifero emotomentale, invece, costituito da amigdala, ipotalamo e corteccia cingolata, collegate alla gestione delle emozioni e degli affetti
  • il neocervello o nuovo cervello, associato alle funzioni cognitive di ordine superiore, quali il linguaggio, il ragionamento astratto, l’uso di strumenti e l’autoconsapevolezza

Il neuromarketing, dunque, ha lo scopo di arrivare, attraverso le comunicazioni pubblicitarie, direttamente al cervello rettiliano responsabile della presa di decisione che guida scelte non del tutto razionali. Quindi, bisogna puntare alla dimensione inconsapevole e istintiva del consumatore per poter creare messaggi pubblicitari accattivanti.

In ogni caso, però, i processi d’acquisto per quanto inconsapevoli o automatici sono comunque legati a scelte effettuate frettolosamente, ma determinate e regolate da emozioni o sensazioni (cervello limbico).

Martin Lindstrom, uno dei più grandi esperti nel settore del neuromarketing, sostiene che alla base della buyology o acquistologia ci sono le emozioni e i desideri che guidano le decisioni di acquisto eseguite quotidianamente.
Per far sì che un prodotto colpisca o un messaggio raggiunga il destinatario giusto, bisogna puntare sull’intensità del coinvolgimento emotivo e sul tipo di emozione che suscita nei consumatori.

Le emozioni, quindi, sono un driver di grande rilievo nel processo decisionale.

Infatti, gli spot pubblicitari spesso contengono elementi che evocano emozioni molto forti, in grado di produrre una forte reazione nell’acquirente, fino a portarlo a scegliere un prodotto piuttosto che un altro.

Le emozioni sono reazioni a uno stimolo e il cervello, di conseguenza, le associa a un’esperienza vissuta, attribuendo loro una funzione di rinforzo, che consente di fissare nella nostra memoria l’informazione acquisita. Quindi, durante un processo decisionale, la nostra mente richiama le emozioni archiviate unitamente allo stimolo e questo consente di attuare scelte che massimizzano i benefici e minimizzano le perdite. Inoltre, se la decisione, che si sta per prendere, richiama un’emozione negativa, si mette in atto un meccanismo automatico o inconsapevole volto a ignorare lo stimolo.

Tecniche e metodi utilizzati

Grazie alle tecniche di indagine neuroscientifiche è stato possibile studiare e individuare le aree cerebrali che si attivano quando il consumatore decide di acquistare qualcosa.

Il decidere di acquistare un prodotto deriva da un processo cognitivo che genera dalle regioni profonde del cervello, come a esempio il sistema limbico. Al contrario, sono meno coinvolti i lobi frontali e la neocorteccia.

Gli strumenti e i metodi neuroscientifici usati nel neuromarketing sono:

  • Eye tracking: tecnica che consente di registrare la dilatazione e la contrazione delle pupille in relazione alle diverse emozioni provate
  • Elettroencefalografia: permette di misurare e registrare l’attività elettrica cerebrale in relazione alla presentazione di determinati stimoli pubblicitari
  • fMRI o risonanza magnetica funzionale: individua le aree che si attivano in relazioni a stimoli specifici presentanti
  • Misurazione della risposta galvanica della pelle (GSR) o attività elettrodermica: misura la variazione della sudorazione in seguito alla visione di stimoli relativi al prodotto
  • Rilevazioni Biometriche: misurano il battito cardiaco, in relazione alle risposte emotive
  • Facial coding o codifica delle espressioni facciali: permette di interpretare la mimica facciale relative alle emozioni esperite in relazione a determinati stimoli

Utilizzo del Neuromarketing

Il neuromarketing risulta essere particolarmente utile nelle seguenti aree:

  • Vendita nei negozi, per valutare in che modo la collocazione e la visibilità del prodotto influenza la scelta
  • Branding, per valutare la reazione emotiva del consumatore in relazione a un determinato prodotto aziendale
  • Design, per misurare come i consumatori reagiscono a particolari prodotti e innovazioni
  • Pubblicità, individuare come il consumatore reagisce alla presentazione video di un prodotto
  • Esperienza online, verificare come un sito web influenza le emozioni del visitatore
  • Social network, per condividere un brand rendendolo sempre più accattivante

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Iperattivi. Dalla diagnosi alla terapia della sindrome ADHD in una prospettiva life span (2018) di Angela Ganci – Recensione del libro

Iperattivi. Dalla diagnosi alla terapia della sindrome ADHD in una prospettiva life span è un testo dettagliato, appassionante e aggiornato sulle cause, le caratteristiche e le terapie possibili per il trattamento della Sindrome ADHD.

 

Aspetto innovativo del libro è costituito dal fatto che Angela Ganci, giornalista e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, oltre a definire la teoria, approfondisce la pratica educativa e clinica (prima parte del libro), arricchendo altresì i risultati della letteratura attraverso i risultati di uno studio pilota sulle possibili correlazioni tra prematurità e sindrome ADHD, corredati dall’ipotesi della ricerca, dagli strumenti testologici adottati (Test di Bayley II) e da grafici riassuntivi dei risultati raggiunti sia dal gruppo sperimentale che di controllo (parte seconda del volume).

Iperattivi: il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD)

Ecco che Iperattivi si offre come un valido supporto, sia per chi lavora nell’ambito della prevenzione e cura della patologia, sia per chi vuole semplicemente documentarsi.

Descrivendo la prima parte di Iperattivi, nel primo capitolo viene opportunamente riportato come il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, sia un disturbo evolutivo dell’autocontrollo le cui caratteristiche essenziali si possono riassumere in difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività (arousal).

Si tratta di problemi che derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente e che, in favore di un’efficace diagnosi, non devono considerarsi esito di stili educativi anomali o inefficaci, non derivando in alcun modo da una supposta cattiveria o indisciplinatezza o cattiva educazione del bambino da correggere e punire.

Iperattivi: eziopatogenesi e cura dell’ADHD

Di seguito il volume si occupa delle diagnosi spesso associate al Disturbo ADHD come il Disturbo della condotta o i Disturbi Specifici di Apprendimento, per poi indagare, nel terzo capitolo, l’eziopatogenesi del disturbo e i suoi molteplici fattori, in particolare ambientali (l’utilizzo di alcool e fumo in gravidanza) e genetici, nonché gli aspetti legati alla compromissione neuronale, con il ruolo deficitario, tra gli altri, della corteccia prefrontale destra, coinvolta nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé e del tempo.

Il quarto capitolo, si occupa della descrizione dei dibattuti interventi farmacologici e di quelli psicoterapeutici e psicoeducativi che devono essere multimodali, coinvolgendo tutte le agenzie educative in un progetto collaborativo.

Ecco la necessità di un’integrazione di tecniche individuali sul bambino di matrice cognitiva e comportamentale (come le autoistruzioni verbali), di programmi di formazione rivolti alla famiglia (il parent training) e alla scuola (con un focus sulle buone prassi scolastiche individuate nel Piano Didattico Personalizzato per gli alunni con ADHD).

Se il volume Iperattivi analizza nel dettaglio l’infanzia, il pregio del libro è di estendere tale disamina all’età adulta, sottolineando l’importanza di una diagnosi precoce, a fronte delle specifiche complessità del disturbo in età adulta, come la maggiore eterogeneità dei sintomi. Complessità per cui si prospettano le più moderne tecniche di intervento, come la meditazione Mindfulness o la Terapia Metacognitiva, con uno sguardo attento al colloquio diagnostico, fonte di raccolta della storia di vita del paziente, dei tentativi passati di cura del problema e momento importante per l’instaurarsi di un’alleanza terapeutica, propedeutica all’efficacia di ogni intervento psicologico e riabilitativo.

La formazione degli insegnanti influisce sul benessere psicologico degli studenti

Gli insegnanti devono essere formati in maniera adeguata alla gestione di contesti scolastici oggi sempre più complessi che includono bambini e adolescenti con diversi disturbi del comportamento.

 

All’interno dei contesti scolastici, i bambini che presentano dei disturbi del comportamento possono rendere più complessa e impegnativa l’esecuzione delle normali attività.

In particolare, tra i bambini che presentano un elevato livello di attività all’interno delle classi, vi sono coloro che presentano:

  • Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD): caratterizzato da inattenzione, ad esempio è facilmente distraibile dagli stimoli esterni; iperattività, in classe si alza spesso quando dovrebbe stare seduto; e impulsività, interrompe o si intromette in attività di coetanei o adulti
  • Disturbo oppositivo provocatorio: caratterizzato da umore arrabbiato o irritabile, ad esempio spesso perde il controllo; e comportamenti polemici/sfidanti o vendicativi, ad esempio, litiga spesso con adulti, bambini e adolescenti
  • Disturbo della condotta: caratterizzato da una tendenza stabile alla violazione delle regole e dei diritti altrui, come aggressione a persone o animali

Un nuovo programma di formazione per gli insegnanti per affrontare contesti scolastici complessi

In questo contesto, tutt’altro che semplice da gestire, una nuova ricerca condotta dall’Università di Exeter Medical School, pubblicata su Psychological Medicine, ha studiato l’applicazione di uno specifico programma di formazione chiamato Incredible Years Teacher Classroom Management Program.

I principi fondamentali, su cui esso si basa, includono la costruzione di solide relazioni sociali tra insegnanti e bambini e l’importanza di ignorare i comportanti lievemente negativi che spesso sono presenti all’interno delle classi, per focalizzare maggiormente l’attenzione sui comportamenti corretti.

Lo studio

Lo studio STARS (Supporting Teachers and Children in Schools) è stato finanziato dal National Institute for Health Research (NIHR) con lo scopo di promuovere un maggior benessere sociale ed emotivo, dato che precedenti ricerche mostravano che circa il 10% dei bambini presentava uno stato di salute mentale a rischio. In particolare, la condizione più comune e persistente è rappresentata dai gravi problemi comportamentali dei bambini con disturbi della condotta.

I risultati dello studio sono stati misurati tramite una combinazione di questionari compilati da insegnanti, genitori e bambini stessi; in più, una serie di osservatori indipendenti hanno partecipato alle lezioni in un quarto delle scuole incluse nella ricerca, senza sapere se gli insegnanti avessero intrapreso o meno il percorso di formazione.

Il professor Tamsin Ford, presso l’University of Exeter Medical School, ha affermato:

Dai nostri risultati è emerso che questo percorso di formazione favorisce uno stato di benessere psicologico in tutti bambini, ma è particolarmente importante aver osservato un beneficio maggiore sui bambini che inizialmente presentavano delle difficoltà comportamentali, cognitive, relazionali etc..

Inoltre, a parte i miglioramenti della salute mentale, del comportamento e della concentrazione, gli insegnanti hanno particolarmente apprezzato il percorso di formazione e l’hanno ritenuto molto utile. Ad esempio, alcuni insegnati come Sam Scudder, presso la scuola Withycombe Raleigh di Exmouth, e Kate Holden, della scuola elementare di Ipplepen, hanno messo in evidenza che ignorare i comportamenti lievemente negativi, che interrompono spesso le attività curriculari, e lodare i comportamenti corretti come, ad esempio, i bambini che ascoltano in silenzio, generava un miglioramento del clima di classe, e permetteva anche che questi bambini non venissero ignorati dagli insegnanti, troppo spesso occupati a interrompere i comportamenti lievemente scorretti e disturbanti messi in atto da altri bambini.

Una vita come tante (2015) di Hanya Yanagihara – Recensione del libro

Questa recensione di Una vita come tante di Hanya Yanagihara è un po’ uno spoiler. Avete il tempo di fermarvi qui e non procedere oltre, se siete convinti che in un racconto la sorpresa del colpo di scena sia irrinunciabile. Oppure potete proseguire fino alla fine o solo ancora un po’, vi sarà un secondo avvertimento a metà recensione, dove alcune svolte del romanzo saranno raccontate nei dettagli.

 

Su State of Mind abbiamo già recensito Una vita come tante perché ha un interesse sia psicologico oltre che letterario e sa intrecciare tra loro i due interessi. Il bello di questo romanzo è che il suo particolare gusto letterario illumina la visione contemporanea che si ha del trauma e viceversa.

Nell’altra recensione pubblicata di Una vita come tante su State of Mind si sostiene, a ragione, che questo romanzo è importante perché ci aiuta a capire quale fenomeno estremo e particolare sia il trauma. La forza del libro risiederebbe nella sua capacità di farci capire cosa significa davvero subire un trauma e correre un pericolo di vita. Non una facile e consolatoria identificazione ma l’orrore verso un’esperienza estrema e inimmaginabile.

Infatti il trauma è al centro del romanzo e colpisce ripetutamente e crudelmente il suo protagonista, Jude. Un trauma –lo ripetiamo- estremo, eccessivo, incredibile e multiplo. Lasciando da parte i meriti letterari del romanzo (che comunque non è nostra competenza valutare) la trama sconvolgente del romanzo può svolgere una funzione positiva: un lavoro che fa capire cosa sia davvero un trauma. Ovvero un evento o una serie di eventi violentissimi e distruttivi che lasciano la vittima con un profondo senso di pericolo e mancanza di protezione.

È un’operazione di cultura psicologica importante. Viviamo in un’epoca in cui la definizione di trauma si sta dilatando e diventa onnicomprensiva. In questa linea ci sono opportunità e rischi. L’opportunità di far crescere la nostra conoscenza di questa importante area clinica, studiando i rapporti tra trauma e disturbi dissociativi; ma anche il rischio di appiattire l’intero campo clinico al trauma: siamo tutti traumatizzati e abbiamo tutti bisogno di una terapia specifica del trauma.

Tuttavia, leggendo le varie recensioni di Una Vita come Tante, l’impressione è che il romanzo abbia generato reazioni contrarie. Malgrado l’estremismo delle esperienze di Jude, i recensori sembrano essersi identificati con lui. Identificati non solo in termini letterari -il che è giusto: la letteratura deve generare identificazione- ma anche personali. Le recensioni internazionali parlano del romanzo come di uno strumento fondamentale per comprendere un certo malessere moderno che riguarda tutti. Ad esempio il Guardian o il New Yorker sostengono che la grandezza del romanzo stia tutta nella possibilità di identificarsi con Jude e con le sue sofferenze. In un certo senso, tutti noi siamo come Jude e tutti noi abbiamo sofferto episodi simili ai suoi. Non uguali in termini di ripetitiva efferatezza ma simili in termini di intensità della sofferenza emotiva. Siamo tutti gettati in una realtà violenta ed estranea che ci malmena e ci sopraffà, traumaticamente. E questo romanzo ce lo farebbe capire.

È possibile che sia così. L’umanità è sofferente e noi tutti ci consideriamo dei maltrattati meritevoli di consolazione e riconoscimento –sempre insufficiente- e ricordiamo le sconfitte piuttosto che le gratificazioni. E questo romanzo ci conferma questa visione che abbiamo di noi stessi. E di noi stesse.

Tuttavia vi è un caso in cui Una Vita come Tante ha generato una reazione diversa. La recensione di Daniel Mendelsohn sulla New York Review of Books fa riflettere. Fa riflettere prima di tutto sulla struttura del romanzo, molto ben costruita secondo le regole del thriller. Forse fin troppo ben costruita, per un romanzo che intende essere così coinvolgente in termini di identificazione personale e non di suspense tra il giallo, il nero e l’horror (e qui iniziano gli spoiler, ultimo avvertimento).

Il primo “trucco” narrativo usato dalla Yanagihara per incatenarci alle sue pagine è centellinare per tutto il romanzo la rivelazione di cosa esattamente sia capitato a Jude. È geniale come l’autrice nelle prime duecento pagine ci inganni facendoci credere che si tratti di un intenso ma non inquietante romanzo di formazione giovanile, quattro amici che fanno carriera a New York e hanno successo dopo i difficili inizi –il bellissimo Willem, futuro attore che sbarca il lunario facendo il cameriere, JB nero haitiano, sovrappeso, gay e futuro grande artista d’avanguardia che fatica a piazzare le prime opere, il futuro avvocato (Jude stesso) e il futuro architetto -Malcolm, mezzosangue bianco e nero di ottima famiglia- che fanno un frustrante tirocinio in grandi studi. Piccioncini che devono spiccare il volo, che hanno qualche esperienza difficile alle spalle al tempo stesso commovente ma non traumatica: i genitori freddi e distanzianti di Willem (di etnia scandinava; le etnie contano in questo romanzo) o la madre e le zie impiccione e invischianti di JB, viziatissimo fin dall’infanzia. Negli Stati Uniti questo tipo di romanzo è stato reso popolare da Mary McCarthy nel 1963 col suo best seller The Group: la traiettoria di vita di un gruppo di amiche dall’università in poi.

È un trucco. Dopo le prime duecento pagine il passato di Jude conquista il primo piano. Pian pano emerge che il suo passato è ben più spaventoso e terribile di quello degli altri tre, le cui sofferenze troppo normali iniziano a sbiadire. Perfino i problemi di droga di JB diventano banali. Il lettore è spiazzato, passando da un’atmosfera di romanzo di formazione all’horror. E l’autrice è abilissima nel non far capire subito non solo cosa sia capitato a Jude, ma anche a come sia ridotto nel presente. Man mano che le pagine scorrono, Jude diventa sempre più storpio e deforme ma mai in termini chiari. A volte è in carrozzella, a volte cammina ma zoppicando. Zoppica ma non si capisce quanto: è un fatto evidente o poco percettibile? L’autrice gioca a non farcelo capire. Poi apprendiamo che si lesiona, si taglia le carni profondamente quasi quotidianamente procurandosi una perversa anestesia per dimenticare qualcosa. Che cosa? Un ricordo traumatico di qualcosa che gli è capitato di terribile. Anzi di disgustoso e di cui si vergogna profondamente.

Le rivelazioni arrivano (ultimo avvertimento) con la tempistica di uno strip tease sanguinario che ci fa prigionieri costringendoci ipnoticamente a girare le pagine. Le prime rivelazioni sono scioccanti. Jude è un orfano abbandonato, cresciuto in un monastero di monaci che lo hanno violentato a turno per anni costringendolo ad atti di sesso orale. Il sesso orale è un tema ricorrente ed è alla base del disgusto di Jude. L’atmosfera gotica e psicopatica del monastero degli orrori è –a mio non professionale parere- letterariamente un’acme del romanzo.

Jude poi fugge dal monastero con un monaco, fratello Luke, l’unico che fino a quel momento l’aveva trattato bene e non aveva abusato di lui. Anzi lo aveva stimolato a studiare e gli aveva insegnato moltissime cose, avendo intuito le eccezionali qualità scolastiche di Jude e gettando le basi intellettuali della sua futura enorme capacità di preparazione giuridica. Il sollievo però è di breve durata: la fuga con il monaco, che si spoglia del suo abito religioso, diventa un pellegrinaggio per l’America profonda, quella dei motel e dei fast-food sulle route sterminate, in cui la coppia si guadagna da vivere con la prostituzione di Jude. Il monaco vende i servizi sessuali di Jude, che adesso ha all’incirca una decina di anni, in tutti i motel dello sconfinato midwest. I clienti lo usano sessualmente e lo disprezzano apertamente chiamandolo con epiteti ignobili (“troia”, “puttana”), instillando in Jude un profondissimo senso di disgusto e vergogna di se stesso e la convinzione di essere corresponsabile di quel che accade e quasi di desiderarlo. È una riproposizione catastrofica del viaggio di Lolita e Hubert, e questa è solo una delle tante allusioni letterarie della Yanagihara, la quale non si limita affatto a essere una semplice narratrice di sofferenze ma è una coltissima conoscitrice della letteratura, delle sue tecniche e delle sue allusioni.

Questa sezione on the road mi è parsa letterariamente altrettanto intensa di quella del monastero. Anzi superiore, perché il personaggio del monaco, che è anche perversamente innamorato del piccolo Jude e lo convince ad avere rapporti sessuali con lui illusoriamente consenzienti e al tempo stesso continua a farlo studiare intensamente trasmettendogli una enorme cultura, è particolarmente riuscito nel suo sentimentalismo criminale. La psicologia del monaco è talmente raccapricciante da mescolare insieme estrema empatia ed estrema manipolazione: è lui a insegnare a Jude a procurarsi dei tagli nelle carni per anestetizzarsi.

A questo punto Jude è liberato dalla polizia, che era da tempo sulle tracce del monaco lenone e pedofilo. Dopo una drammatica scena di arresto in uno dei motel (durante la quale il monaco si chiude in bagno e si impicca!) Jude è affidato ai servizi sociali. Sembrerebbe il lieto fine, ma purtroppo non è possibile: siamo appena a metà romanzo. E adesso il lettore si chiede: siamo solo a metà, cosa diamine deve ancora accadere? Cosa diamine può ancora accadere?

Accade che a Jude accade ancora di tutto. Oppure no, non di tutto: accade che a Jude accadono di nuovo le stesse cose. Gli infermieri e gli operatori del servizio sociale sono anch’essi dei perversi e iniziano anche loro a stuprare Jude. L’atmosfera stavolta è ospedaliera e a me ha ricordato quella di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Jude scappa di nuovo, questa volta da solo. Vaga per giorni tra i campi e i boschi, finisce poi nella regione degli Appalachi, la provincia dei bianchi più poveri, più campagnoli e più perversi, quelli che si svegliano un mattino con il fucile e sterminano i clienti di un fast food o di un supermercato. Jude si riduce a mendicare come un hobo nelle cittadine in un’atmosfera di horror provinciale e metafisico alla Stephen King. E alla Stephen King finisce: Jude è rapito da un serial killer e sequestratore di schiavi sessuali che lo reclude nella sua spaventosa e isolata casetta di campagna e lo sottopone a pratiche di sesso sadico. A questo punto sembra che per Jude –che ora ha 15 anni e quindi ha trascorso anni vagando da una casa degli orrori all’altra- non possa esserci altro che la liberazione della morte.

E invece misteriosamente Jude si salva. Effettivamente è un miracolo, proprio nel senso che non si non si capisce bene come avviene questa salvezza. Il suo ultimo aguzzino ha ormai deciso di farlo fuori, lo porta in campagna di notte e poi lo lascia libero di fuggire a piedi mentre lui lo insegue in auto e lo investe, ripetutamente. Gli passa proprio sopra con l’auto. Poi qualcosa è accaduto. Sarà arrivata la polizia, questo non ci viene rivelato dalla furbissima Yanagihara che ci incatena con questi trucchi alla trama. Si, ormai furbissima ma un po’ meno artista, perché questa terza parte dei vagabondaggi infernali di Jude rischia di diventare solo ammirevole tecnica del thriller e scarsa sostanza poetica e letteraria. L’orrore degli operatori sociali e poi del sequestratore e probabile serial killer (quanto ne aveva già attirati e uccisi negli anni nella sua casetta?) è spaventoso ma non è originale, è coinvolgente ma è anche letterariamente vuoto. Il serial killer è solo un mostro terrificante e non ha la complessità di fratello Luke, il monaco lenone e innamorato, colto, sentimentale e perverso. E forse proprio per questo il sequestratore non è nemmeno così terrificante come lo era invece il monaco. Insomma, a mio parere il romanzo dopo la morte del monaco forse perde colpi e si riduce a una macchina volta pagina (turning page novel, come dicono gli americani) che ipnotizza il lettore ma rischia di non dirgli nulla.

Oppure si, gli dice qualcosa, ma in termini molto diversi dall’apparenza. Forse l’autrice scopre le sue carte nell’ultima parte e dietro la traumatica emotività del libro rivela la sua natura di autrice cerebrale e iper-letteraria. E questo si rivela nell’ultima sezione della storia, quella in cui le rivelazioni finalmente finiscono e si torna al presente.

È un presente apparentemente rasserenato e tranquillo. Jude ha fatto una eccezionale carriera come avvocato –e anche i suoi amici hanno raggiunto il pieno successo: Willem è diventato una stella di Hollywood, Malcolm un’archistar e JB un grande artista- e ha fatto (quasi) pace con i suoi fantasmi che gli impedivano di avere una vita sentimentale normale. Per buona parte del romanzo, infatti, Jude investe nel lavoro e nell’amicizia, ma non ha mai una relazione. Pian piano emerge che è gay ma si astiene da qualsiasi relazione potenziale, provando vergogna e disgusto per quel che ha fatto e per le sue deformità, che rimangono sempre non ben definite: abbiamo capito che Jude è storpio e ha la pelle in vari punti coperta di cicatrici. Eppure al tempo stesso l’autrice non fa in modo che in mezzo agli altri la sua deformità venga notata, generi disagio o reazioni. Jude è un mostro ma è normale, forse come tutti noi? Questo ancora una volta suggerisce che l’autrice non ha inteso raccontare la storia di un mostro, ma ha voluto far identificare tutti noi con il protagonista.

L’ultima parte del romanzo presenta un inizio di lieto fine che è l’ennesimo inganno della Yanagihara, la quale ormai gioca col lettore come il gatto col topo: Jude supera i suoi blocchi emotivi e, dopo un’ennesima disavventura violenta (frequenta per un po’ un certo Caleb il quale lo molla naturalmente gettandolo dalle scale con la carrozzella, ma ormai Jude è un pupazzo indistruttibile) nasce l’amore con Willem, l’ex cameriere diventato una stella di Hollywood. La svolta positiva è anch’essa una furbissima sorpresa perché nulla faceva presagire la presenza di desideri gay in Willem che fino a quel momento della storia era ortodossamente eterosessuale. Willem è stato però fin dall’inizio il più vicino a Jude, un vero fratello intimissimo e gentile, e fin dagli anni universitari ha diviso l’appartamento con Jude.

Potrebbe essere il lieto fine, ma non lo è. Jude ha un ultimo nemico, un ultimo aguzzino che non riuscirà a sconfiggere. Dopo il monaco e il sequestratore sadico e serial killer tocca alla Yanagihara. Si, è lei la vera e ultima tormentatrice di Jude. L’idea non è mia, ma del recensore della New York Review of Books Daniel Mandelsohn, recensore che mi ha fatto guardare al romanzo con occhi diversi. Yanagihara colpisce Jude nella maniera più efficace e terribile facendo morire Willem in un incidente automobilistico proprio quando le porte del lieto fine si stavano per aprire. Per soprammercato nell’incidente muoiono anche Malcom l’architetto e la sua compagna, che erano in auto con Willem. Il colpo naturalmente distrugge psicologicamente Jude, al quale non resta che il suicidio dopo alcune pagine. Alcune pagine significano comunque molte decine e decine di pagine; il ritmo della Yanagihara rimane pachidermico.

È difficile valutare il significato di questa catastrofe finale. Forse il lieto fine sarebbe stato troppo banale. Dopo tanto dolore, riesce difficile credere alla possibilità di una vita felice. Fatto sta che tuttavia il colpo finale non avviene, come negli altri casi, a causa della perversità umana o di una certa tendenza autodistruttiva di Jude. Avviene per caso, il caso di una sciagura come l’incidente automobilistico. Significa qualcosa? Forse non significa niente, forse è semplicemente un finale debole a conclusione di una seconda metà del romanzo che potrebbe essere effettivamente debole, non all’altezza della prima metà.

Oppure no. Oppure il finale è forte e il suo significato sta nel fatto che il colpo finale a Jude glielo rifila la sua vera aguzzina: Hanya Yanagihara. La disgrazia finale e senza redenzione di Jude -per questo si chiama Jude: Giuda, non c’è redenzione per lui- avviene per precisa volontà della scrittrice, la quale ha voluto così esprimere il vero messaggio del romanzo, che non è il romanzo di formazione in cui Jude e i suoi amici che crescono e diventano adulti (non lo diventano) e nemmeno l’analisi psicologica del trauma insuperabile di Jude, ma è un messaggio catastrofico e metafisico: non vi è speranza, non vi è significato, non vi è un Dio (e nemmeno un dio) che garantisca un senso e dia un significato alla sequela di sciagure, disgrazie e sofferenze e tutto accade per caso, per puro caso, comprese le perversità e i traumi, senza che nessuno ne sia davvero responsabile. Questo lo dice la romanziera esplicitamente nelle prime pagine, quando scrive –presentando i quatto amici- che a New York nessuno credeva in niente e in nessuno (figuriamoci in un dio) e tutti pensavano solo a se stessi.

E soprattutto Yanagihara lo dice con la sequenza di disgrazie che fa capitare a Jude. La madre che lo abbandona, il monastero gotico dei monaci stupratori e pedofili, il road movie col monaco lenone e innamorato, gli operatori sociali uguali ai monaci (e già il sospetto doveva nascere che questo è un romanzo diverso da quel che sembra: non è un romanzo psicologico e realista ma è una distopia) e infine il sequestratore che è la versione estrema del monaco lenone. Non è finita: Caleb l’amante picchiatore e infine la Yanagihara in persona che come un dio crudele fa fuori Willem, il redentore di Jude.

A questo punto suggerisco il vero predecessore letterario di Una vita come tante. La somiglianza è fortissima, anche se l’autrice fa in modo che emerga lentamente. Il vero modello di Una vita come tante non è Oliver Twist o David Copperfield ma è Justine o le disavventure della virtù del divin marchese de Sade. Per chi non l’avesse letto (scusate lo spoiler) “Justine” è un romanzo che narra le vicissitudini di una ragazza di nobile lignaggio -appunto Justine- la quale rimasta orfana è sistematicamente stuprata, violentata e abusata sessualmente in tutte le istituzioni che avrebbero dovuto accudirla nella sua crescita. Anche Justine, come Jude, viene inizialmente accolta in un monastero e proprio li iniziano gli stupri e le orge e anche Justine, dopo una serie sempre più inverosimile di violenze successive in ognuno dei luoghi dove viene accolta, si salva un attimo prima di essere giustiziata, così come Jude si salva misteriosamente quando ormai è certo che il suo ultimo aguzzino ha deciso di ucciderlo arrotandolo sotto l’auto. Justine infatti sta per essere giustiziata per un omicidio che naturalmente non ha commesso ma viene salvata miracolosamente sul patibolo da sua sorella Juliette che, al contrario di Justine (e di Jude), ha assecondato felicemente per tutta la vita vizi e perversioni, facendo fortuna e acquisendo addirittura un titolo nobiliare e un potere tale che le consente di sottrarre la sorella alla morte. Le somiglianze non finiscono qui. Anche Justine, arrivata alla salvezza finale e accolta dalla sorella che finalmente le può dare i mezzi e la protezione per una vita serena e tranquilla, muore per uno scherzo del destino: colpita da un fulmine mentre è affacciata alla finestra!

D’accordo, in Sade tutto è presentato in maniera sarcastica e cinica. L’autore non simpatizza con Justine ma quasi la deride, sommergendola di disgrazie inquietanti. In ogni luogo in cui capita Justine si è dediti a stupri, orge e omicidi. Eppure a uno sguardo retrospettivo anche Yanagihara ha uno sguardo apparentemente partecipe e invece, man mano che le pagine scorrono, sempre più distaccato mentre a Jude succede di tutto. Le disgrazie si susseguono e l’autrice fa in modo che noi non ci rendiamo conto dell’improbabilità di una simile sequenza di disgrazie: passi il monastero (con tutta la cronaca degli scandali sessuali dei religiosi di questi anni in USA, è letterariamente verosimile) ma poi anche gli operatori sociali, il sequestratore in stile Stephen King e infine il picchiatore Caleb. E la morte di Willem nell’incidente automobilistico è come il fulmine che ammazza Justine.

Che dire? Il mio giudizio finale –per quel che vale, non sono un critico letterario- rimane sospeso. Il romanzo Una vita come tante rimane li, nella mia memoria, come un oggetto strano. In fondo non riesco a credere che sia un romanzo fallito. E però nemmeno mi sembra sia quello che dice di essere: la dolorosa storia di un uomo e della sua sofferenza. Più passa il tempo e più mi appare come una macchina letteraria consapevolmente fredda e perfettamente funzionante il cui messaggio di fondo è che tutto è privo di senso. E lo dice non con il sarcasmo esplicito del Marchese de Sade, il sarcasmo di chi ha appena perso la propria fede e non riesce ancora a esprimere la sua disperazione con calma ma vuole urlartela in faccia, quasi sperando di essere smentito. No, lo esprime con la calma di una verità acquisita.

Regolazione emotiva: lo sviluppo durante le prime interazioni del bambino

I bambini alla nascita non sono capaci di comprendere le proprie sensazioni corporee, né di attribuire il significato psicologico agli stati affettivi emergenti. L’accudimento primario adeguato agisce come regolatore dello stato interno del bambino e favorisce la comprensione dei vari pattern di attivazione associati ad uno stato emotivo.

 

Tale funzione regolatrice esterna può essere interiorizzata diventando la base della capacità di autoregolazione autonoma.

Regolazione emotiva, caregiving e sviluppo del sé

Nelle prime fasi dello sviluppo fisico e psicologico i bambini sono privi di un senso del sé corporeo e incapaci di attribuire delle spiegazioni mentali e simboliche alle proprie esperienze, vivono degli stati di attivazione fisiologica difficili da interpretare o da collegare al senso della fame, del sonno o del dolore; solitamente le madri svolgono per i loro piccoli il ruolo di organizzatore esterno di tali sensazioni indifferenziate (Lemma, 2011).

Secondo Bion (1962), il bambino molto piccolo si difende dagli stati emotivi soverchianti e dagli aspetti di sé intollerabili proiettandoli all’esterno e introiettando al loro posto oggetti buoni e piacevoli; grazie alla funzione di rêverie materna, il bambino può introiettare un oggetto buono, accogliente e regolatore che si stabilisce come base per lo sviluppo dell’autoregolazione e della capacità di pensare. La capacità della madre di sostenere e confermare i bisogni del bambino alimenta il suo senso di onnipotenza, con il tempo, la madre però deve fornire anche una giusta dose di frustrazione, dando il via al processo di separazione tra madre e figlio: il bambino deve sentirsi amato e al sicuro, ma un eccessivo contatto può dare origine ad un legame invischiante e dipendente.

Un altro concetto molto studiato nell’ambito dello sviluppo del sé del bambino è quello del rispecchiamento. Secondo Winnicott (1967) quando il bambino viene allattato al seno, ciò che vede mentre guarda sua madre è se stesso. Questo è possibile perché una buona madre è in grado di identificarsi con ciò che prova il suo bambino, restituendogli, proprio come farebbe uno specchio, l’immagine di se stesso e di ciò che sta provando, attraverso espressioni del volto congrue al suo stato emotivo. Questa madre sufficientemente buona svolge anche una funzione di handling ovvero di contenimento, sia dal punto di vista mentale che fisico, come quando tiene in braccio il piccolo e il corpo del bambino acquisisce il senso di coesione alla base della formazione dello schema corporeo (Winnicott, 1996).

Per capire come il rispecchiamento da parte della madre possa modulare l’esperienza affettiva del piccolo e dare origine ad un senso del sé si può fare riferimento alla teoria del biofeedback sociale del rispecchiamento affettivo genitoriale di Gergely e Watson (1996). Dato che appena nati i bambini non sono capaci di differenziare e comprendere le proprie emozioni, essi devono affidarsi alle informazioni provenienti dal mondo esterno per capire quello che sta accadendo dentro di loro. Alla nascita, le emozioni sono vissute come insiemi di stimolazioni fisiologiche e viscerali, ma grazie alla ricettività del neonato verso gli stimoli esterni, il rispecchiamento del genitore, con le espressioni facciali, il tono della voce e il contatto fisico, funge da regolatore dello stato del bambino che potrà imparare a distinguere i vari pattern di attivazione fisiologica associati ad uno stato emotivo.

Quando il rispecchiamento è congruente, si verifica una downregulation dell’emozione che alimenta sensazioni piacevoli di controllo ed efficacia. Questo accade perché il bambino impara a collegare l’effetto che lui ha sul comportamento del genitore con le sensazioni piacevoli e la modulazione dello stato emotivo, sviluppando un senso di autoregolazione: il rispecchiamento fornito dalla madre viene interiorizzato e diventa una rappresentazione simbolica dello stato interno (Gergely e Watson, 1996).

Secondo Bateman e Fonagy (2006) esperienze inadeguate di rispecchiamento impediscono la formazione di rappresentazioni simboliche degli stati affettivi e rendono più difficile distinguere la realtà fisica da quella psichica, ripetute interazioni deficitarie possono dare origine a marcate difficoltà nella capacità di tollerare e regolare le emozioni autonomamente.

Anche gli studi di Cohn e Tronick (1983) sono degli ottimi esempi della funzione regolatoria che le espressioni materne possono svolgere durante le interazioni madre-bambino. Quando la madre assume un volto depresso o inespressivo (Still Face), a 3-4 mesi il bambino risponde intensificando le sue vocalizzazioni, dirigendo lo sguardo verso la mamma e sorridendole, se tale inespressività continua, il piccolo allontana lo sguardo, diventa inespressivo e si concentra su se stesso (Cohn e Tronick, 1983); nei mesi successivi compaiono altre risposte all’inespressività materna, risposte fisiologiche come la riduzione del tono vagale ed un aumento della frequenza cardiaca che si ristabilizzano nel momento in cui la madre riprende ad interagire (Weinberg e Tronick, 1996).

Il valore fondamentale dell’accudimento materno è stato dimostrato anche attraverso studi sugli animali, le ricerche di Hofer (1994) sui ratti hanno dimostrato l’impatto positivo del calore materno, degli stimoli olfattivi, della poppata e della stimolazione materna su diversi parametri fisiologici dei cuccioli, compresi i livelli di ormone della crescita. Hofer ha dimostrato anche che la separazione precoce tra la madre e i cuccioli di ratto provoca una riduzione della loro reattività, un rallentamento dei movimenti e aumenta la suscettibilità all’ulcera come risposta allo stress. Questi processi regolatori nascosti mediano un controllo comportamentale, metabolico, sensomotorio, autonomico e interocettivo anche nella diade madre-bambino, dove la madre svolge la funzione di regolatore biologico esterno, favorendo la crescita fisiologica del piccolo e l’internalizzazione della funzione regolatrice mediata dall’esterno (Hofer 1994).

Regolazione emotiva: attaccamento e mentalizzazione

Se per la Psicoanalisi classica il bambino agisce soltanto in funzione delle sue pulsioni e ricerca la madre solo per soddisfare i suoi bisogni biologici, Bowlby mette in primo piano l’aspetto relazionale dell’essere umano, sottolineando che il bisogno fondamentale del bambino è quello stabilire una relazione che solo secondariamente garantisce la sua crescita e la sua sopravvivenza. Bowlby (1973) ha osservato alcuni comportamenti umani ed animali che garantiscono la vicinanza al caregiver (solitamente la madre), oltre che un senso di sicurezza e accudimento, questi comportamenti di attaccamento come piangere, ridere, seguire o aggrapparsi si attivano in particolar modo quando il caregiver si allontana.

Le relazioni di attaccamento si stabiliscono con poche persone (Ainsworth e Bowlby, 1991) e i pattern di interazione ripetuti tra caregiver e bambino nel tempo danno origine a dei modelli operativi interni (Bowlby, 1969), ovvero delle rappresentazioni mentali stabili e durature che il bambino ha di sé, degli altri e del legame che li unisce, rendendo prevedibili i risultati delle future interazioni.

Ainsworth e Bowlby (1991) e Main e Solomon (1990) identificano 4 fondamentali tipi di relazioni di attaccamento in base alla qualità dell’accudimento fornito: i bambini con uno stile di attaccamento sicuro che utilizzano l’adulto come base sicura per esplorare l’ambiente circostante, tipico di bambini con madri sensibili e sintonizzate sui loro bisogni; i bambini con un attaccamento insicuro-evitante, rifiutanti verso madri insensibili e distaccate; i bambini con un attaccamento insicuro-ambivalente che cercano il contatto evitandolo al tempo stesso, con madri incoerenti ed imprevedibili nelle risposte; infine, i bambini insicuri-disorganizzati, confusi e incontrollati, non raramente vittime di maltrattamenti e trascuratezza con madri emotivamente distaccate o troppo intrusive.

Secondo Bateman e Fonagy (2006) nel contesto di un attaccamento sicuro e sulla base dei modelli operativi interni (MOI) ripetuti nelle interazioni precoci, i bambini diventano capaci di comprendere i propri desideri, le emozioni, le credenze e le motivazioni, distinguendole da quelle altrui.

Le relazioni di attaccamento sicuro favoriscono lo sviluppo cognitivo e dell’intelligenza sociale, nonché di una funzione interpretativa interpersonale (IIF) costituita dai meccanismi attentivi, dalla regolazione emotiva e dalla capacità di mentalizzazione. La mentalizzazione rappresenta la massima espressione dell’autoregolazione e si riferisce alla capacità di comprendere implicitamente o esplicitamente i propri ed altrui comportamenti sulla base degli stati mentali che li sottendono, dando loro un significato (Bateman e Fonagy, 2006).

La capacità di mentalizzare facilita l’esistenza perché permette di prevedere quale sarà il comportamento degli altri in certe circostanze ed elicita la comprensione dei propri stati interni a partire dall’esplorazione di quelli altrui (Fonagy e Target, 1997). Essa rende più competenti nelle relazioni e capaci di affrontare le situazioni stressanti in modo adeguato, grazie alla possibilità di regolare gli stati emotivi e le componenti corporee che dipendono da essi.

Esiste una relazione tra il controllo inibitorio e la presenza di un attaccamento sicuro: secondo Bateman e Fonagy (2006), una madre capace di dirigere l’attenzione su specifici stimoli presenti nel campo percettivo del piccolo, distogliendolo da stimoli stressanti, riduce i suoi stati di arousal e media l’inibizione di risposte impulsive, in favore di altre più adeguate. Un fallimento nell’acquisizione della mentalizzazione può compromettere non solo la comprensione della mente dell’altro, ma anche dei propri stati interni, con la conseguente esperienza di vissuti emotivi incomprensibili, difficili da gestire e marcate difficoltà nel controllare le risposte impulsive che dominerebbero quelle più riflessive. L’operazionalizzazione del concetto di mentalizzazione con quello di funzione riflessiva (Fonagy e Target, 1997) ha permesso di indagare la relazione tra l’attaccamento sicuro e la mentalizzazione, dimostrando che la funzione riflessiva è in grado di prevedere la qualità sicura dell’attaccamento tra bambini e madri con vissuti di deprivazione infantile (Fonagy et al., 1994) e che i genitori con maggiori livelli di funzione interpretativa valutati con l’Adult Attachment Interview tendono a stabilire delle relazioni di attaccamento sicuro con i loro figli (Bateman e Fonagy, 2006).

Regolazione emotiva: neuroscienze e sviluppo emotivo

Una serie di studi neuroscientifici suggeriscono che le relazioni precoci hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo dei sistemi cerebrali connessi alla regolazione delle emozioni, all’empatia, alla capacità riflessiva e alla mentalizzazione. Schore (2000) ha messo in evidenza lo stretto legame tra lo sviluppo della relazione di attaccamento, la maturazione dell’emisfero destro e la regolazione affettiva, sottolineando come le esperienze primarie influenzino l’organizzazione di alcuni circuiti cerebrali particolarmente plastici nei primi mesi di vita, capaci di condizionare il comportamento socio-emotivo presente e futuro di un individuo (Schore e Schore, 2008). Altri studi mostrano che le esperienze precoci stimolano il rilascio di ormoni in grado influenzare l’espressione dei geni e in grado di plasmare la costituzione e le funzioni delle strutture cerebrali (Schore, 2001). In condizione di stress per il bambino, il genitore adeguatamente sintonizzato sui suoi stati affettivi è in grado di ristabilire uno stato di attivazione fisiologica ottimale, ripristinando i livelli di energia metabolica e favorendo la produzione di ossitocina, catecolamine e oppioidi endogeni, importanti per lo sviluppo cerebrale e per la comparsa di sensazioni piacevoli associate all’accudimento e all’immagine del caregiver.

Secondo Schore (2000) i modelli operativi interni di Bowlby si inscrivono a livello dell’emisfero destro sotto forma di memoria procedurale implicita, influenzando le strategie di regolazione emotiva e le risposte degli individui alle difficoltà. Il risultato di una buona relazione di attaccamento dovrebbe essere il raggiungimento di un livello di esperienza e di maturazione neurobiologica tale da acquisire la capacità di regolazione emotiva autonoma, ma anche interattiva e condivisa quando ci si trova in contesti sociali.

Lo sviluppo di queste capacità promuove anche la maturazione dell’emisfero sinistro, importantissimo per le funzioni linguistiche e narrative e quindi per l’espressione verbale e la condivisione sociale delle emozioni. I compiti di mentalizzazione implicita ed esplicita e la comprensione sociale coinvolgono l’attività delle aree orbitofrontali e mediali della corteccia prefrontale (Bateman e Fonagy, 2006), stress e sofferenza eccessivi possono alterare l’attività neurotrasmettitoriale a livello prefrontale e causare la perdita temporanea del controllo da parte delle aree corticali su quelle sottocorticali (Arnsten, 1998). Lo spostamento del controllo dalle aree esecutive prefrontali alle aree profonde del cervello, automatiche e impulsive, provoca una regressione dal pensiero riflessivo alla messa in atto di comportamenti non mentalizzanti e reazioni somatiche primitive. I bambini molto piccoli, per rassicurarsi in assenza della loro mamma, utilizzano degli oggetti “prediletti” come una copertina o un peluche, tali “oggetti transizionali” (Winnicott, 1996) permettono al bambino di modulare i suoi stati emotivi.

La tendenza ad utilizzare dei regolatori esterni per calmare le proprie emozioni permane nell’età adulta sotto forma di comportamenti, come agitare una parte del corpo, fare sport, ballare, bere tisane calmanti, leggere o scrivere e possono avere la funzione di sedare uno stato di agitazione oppure di respingere la noia e la tristezza. Quando le risposte somatiche e comportamentali prendono il sopravvento danno origine a modalità primitive e spesso disadattive ed estreme di regolazione emotiva, come l’autolesionismo, l’abuso di alcool o droghe, comportamenti aggressivi e violenti, sesso compulsivo o attività pericolose che provocano cambiamenti a livello emotivo e corporeo, fungendo da regolatori esterni di stati emotivi indesiderati (Baldoni, 2014). L’utilizzo di queste condotte disadattive predispone ad una serie di disturbi fisici e mentali ed è tipicamente presente nei disturbi di personalità, in varie forme di dipendenza e nei disturbi del comportamento alimentare.

Regolazione emotiva e sviluppo di psicopatologie

I neonati percepiscono ed esprimono ogni loro esperienza attraverso il corpo, quindi la presenza di cure genitoriali adeguate, il rispecchiamento affettivo congruente, la funzione di contenimento e lo stabilirsi di un attaccamento sicuro diventano la conditio sine qua non per l’integrazione di corpo e mente, per la nascita del Sé psicologico e l’acquisizione dell’autoregolazione emotiva (Fonagy e Target 1997). In sostanza, la capacità di mentalizzare può essere considerata come il risultato di una buona riuscita di tutte le funzioni di caregiving sinora citate. Raggiungere tale traguardo permette di comprendere e prevedere il comportamento degli altri e di riflettere sui propri stati interni aumentando le capacità di regolazione autonoma. L’internalizzazione della funzione regolatrice mediata dai caregivers facilita il fronteggiamento adattivo delle situazioni stressanti, favorisce il benessere psicologico e sociale, riducendo il rischio di ricorrere a condotte disadattive.

Mio figlio ha un Disturbo Specifico dell’Apprendimento. Cosa vuol dire? Cosa posso fare per aiutarlo?

Negli ultimi anni si sente parlare molto di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) ma cosa sono e cosa vuol dire per un genitore avere un figlio al quale è stata posta questa diagnosi?

 

DSA è l’acronimo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento e sta ad indicare una specifica categoria di disturbi che si manifestano con significative difficoltà nell’acquisire ed utilizzare abilità di ascolto, espressione orale, lettura e ragionamento matematico, pur conservando intatto il funzionamento intellettivo generale.

Specificità del deficit

Molto importante è il principio di specificità in quanto i DSA si riferiscono ad uno specifico dominio di abilità. Alla base di questi disturbi ci sono disfunzioni neurobiologiche che interferiscono con il normale processo di acquisizione delle capacita di lettura, scrittura e calcolo. Si distinguono, a seconda delle abilità compromesse: dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia.

Oltre alle disfunzioni neurobiologiche non bisogna tralasciare fattori ambientali quali la famiglia e la scuola, che insieme contribuiscono a determinare difficoltà più o meno marcate nelle aree interessate.

DSA si evidenziano fin da quando il bambino è chiamato all’acquisizione di nuove abilità quali appunto lettura, scrittura e calcolo. Segni precursori fin dalla scuola dell’infanzia possono essere difficoltà del linguaggio come per esempio la capacità di imparare filastrocche o la difficoltà di attenzione.

Molto importante sottolineare che il funzionamento intellettivo è intatto. Spesso i genitori pensano che il proprio figlio abbia un ritardo avendo una diagnosi di DSA. Colpevole in questo caso anche la società che spesso tende a giudicare ma non a comprendere le reali cause della natura di questo disturbo.

Il contributo dei fattori emozionali nell’evoluzione dei DSA

Molto importanti nel processo di crescita sono i fattori emozionali che contribuiscono ad evidenziare un disturbo. Si pensi ad un bambino con difficoltà di lettura posto di fronte la lettura ad alta voce in un contesto quale la classe dei pari o altro luogo pubblico frequentato. L’ansia prestazionale, la paura, la demotivazione e la poca autostima investiranno il bambino tanto da evidenziare maggiormente la performance. In fase di valutazione per un clinico è molto importante valutare tutti gli aspetti che concorrono ad evidenziare un disturbo.

Attualmente ci si trova spesso di fronte bambini iperstimolati, caricati di mille informazioni il cui processamento richiede tempo e comprensione e a cui il genitore, complice la freneticità, quotidiana non riesce a dar conto.

Come si sente un genitore dinanzi a tutto questo? Cosa può fare per essere di aiuto al proprio figlio?

La legge 170 del 2010 tutela i bambini e ragazzi con DSA a scuola e nel contempo propone linee guida di aiuto per i genitori.

La legge 170 riconosce espressamente l’importanza del ruolo della famiglia all’art. 6 “Misure per i familiari” che recita

Fino al primo grado di studenti del primo ciclo dell’istruzione con DSA impegnati nell’assistenza alle attività scolastiche a casa, hanno diritto di usufruire di orari di lavoro flessibili.

La famiglia deve provvede, di propria iniziativa o su segnalazione del pediatra, sia esso di libera scelta o della scuola, a far valutare l’alunno o lo studente secondo le modalità previste dall’Art. 3 della Legge 170/2010 così da consegnare alla scuola la diagnosi di cui all’art. 3 della Legge 170/2010. Successivamente condivide le linee elaborate nella documentazione dei percorsi didattici individualizzati e personalizzati ed è chiamata a formalizzare con la scuola un patto educativo/formativo il PDP nel quale vengono specificate quali sono le strategie e gli strumenti che la scuola utilizza per aiutare il bambino nell’apprendimento. Si parla quindi di misure compensative e dispensative utilizzate secondi le necessità del bambino.

Questo è il primo passo da fare per tutelare il proprio figlio.

Ma i genitori? Le famiglie di bambini DSA, soprattutto nella prima fase, hanno bisogno di essere guidate alla conoscenza del problema, non solo in ordine ai possibili sviluppi dell’esperienza scolastica, ma anche informate con professionalità e costanza sulle strategie didattiche che di volta in volta la scuola progetta per un apprendimento quanto più possibile sereno e inclusivo, sulle verifiche e sui risultati attesi e ottenuti e sulle possibili ricalibrature dei percorsi posti in essere.

Scoprire che il proprio figlio ha una problematica inerente l’ambito scolastico non è facile da accettare ed è comprensibile che i genitori possano essere spaventati all’inzio. Uno degli aiuti per i genitori è il parent training.

Parent training, una risorsa per i genitori

Il parent training rappresenta una risorsa fondamentale nel processo di riabilitazione di un bambino con difficoltà. L’importanza di questa tecnica di sostegno è data dal fatto che non si rivolge al bambino, ma ai suoi familiari.

Si tratta di un modello di intervento la cui caratteristica principale è quella di coinvolgere i genitori quali agenti di primaria importanza nello sviluppo dei figli, offrendo un aiuto specialistico a coloro che desiderano cambiare il modo di interagire con loro e promuovendo lo sviluppo di comportamenti positivi.

I gruppi consentono ai genitori di affrontare i compiti e le difficoltà educative aumentandone le competenze ma anche favorendo, in un clima collaborativo, la condivisione delle esperienze individuali.

Nei casi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, il Parent Training ha come obiettivo principe quello di sostenere la genitorialità al fine di favorire la risposta emotiva e l’atteggiamento educativo ottimali per la promozione delle competenze e del benessere del bambino in difficoltà.

Il Parent Training si pone inoltre come obiettivo quello di facilitare la comprensione dei genitori in merito alle difficoltà scolastiche del figlio; solo con un’opportuna consapevolezza del problema, infatti, saranno capaci di aiutarlo a fare i compiti e migliorare l’apprendimento.

Un altro scopo importante è quello di favorire il confronto tra realtà ed esperienze simili, promuovendo così un clima sereno in cui i genitori hanno la possibilità di rendersi conto di non essere i soli ad avere problemi educativi.

Il gruppo consente infine di incrementare la fiducia nei confronti delle procedure che vengono suggerite, constatando che altri le utilizzano con soddisfazione.

Sia il bambino che i genitori hanno bisogno di trovare ascolto ed essere compresi, in modo da avere consapevolezza e intraprendere il percorso di crescita del bambino con serenità.

Inconsapevolezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 39

Ogni giorno ognuno di noi si muove nel mondo svolgendo un’infinità di azioni differenti, prende decisioni, interagisce con altre persone.. Ma cosa guida il nostro comportamento? Siamo davvero consapevoli di tutto ciò che facciamo? E soprattutto, siamo sicuri che la prospettiva che stiamo adottando sia proprio quella giusta?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Inconsapevolezza (Nr. 39)

 

Per fortuna o purtroppo…” Così cantava Giorgio Gaber nella sua ultima canzone con la voce già incespicante per la malattia. E chissà se se ne rendeva conto, non della morte che da sempre aveva evidentemente avvistato, ma del cambiamento che il suo approssimarsi spesso comporta; chissà se qualcuno a lui vicino glielo avrà detto e se lui ci avrà creduto.

Perché “per fortuna o purtroppo” noi siamo il centro del nostro mondo e da un lato non riusciamo a valutarci dall’esterno, dall’altro le valutazioni che facciamo sul mondo variano nel tempo con il variare del centro stesso. Il centro degli assi cartesiani dal quale descriviamo tutto è esso stesso in continuo cambiamento a diversi livelli.

Il punto di vista dal quale facciamo qualsiasi affermazione (e che è a noi stessi invisibile in quanto dato per scontato e ovvio) è esso stesso in mutamento e dunque produce nel tempo valutazioni diverse dello stesso fenomeno, senza però rendersene conto perché è lui stesso ad essere cambiato. Metaforicamente possiamo immaginarci un predicatore che si alza in piedi e si siede su un pulpito nella cappella di una nave che sale e scende sulle onde di un oceano che s’alza e s’abbassa per via delle maree su di un pianeta che contemporaneamente ruota quotidianamente su se stesso, rivoluziona annualmente intorno al sole mentre oscilla come una trottola intorno al suo asse.

Quando stiamo guidando tutti quelli che vanno più lentamente di noi ci sembrano un incomprensibile intralcio, mentre quelli che ci chiedono strada e ci sorpassano ci sembrano dei folli immotivati frettolosi con noi al centro che andiamo alla velocità giusta.

Noi vecchi siamo caratterizzati principalmente dalla lentezza, nel movimento, nei riflessi, nel ragionamento, ma ciò appare evidente ad un osservatore esterno e non a noi stessi che andiamo, come a diciott’anni al massimo della velocità consentita: per questo non è facile convincerci che dobbiamo smettere di guidare e di fare tante altre cose: noi siamo sempre gli stessi, semmai è il mondo che con tutte queste diavolerie moderne corre troppo.

Di questo fenomeno di traslazione del punto di vista occorrerebbe tener conto quando si scrive il testamento biologico: chi ci dice che il modo di valutare l’opportunità dell’esistenza di un demente, di un ritardato mentale gravissimo o di un tetraplegico sia lo stesso di un vent’enne surfista californiano? E a quale dei personaggi in cui ci siamo trasformati nel corso dell’esistenza spetta il diritto di decidere per tutti? Perché, attenzione, una volta fatto “rien va plus”, qualche zelante infermiere o qualche radicale intollerante di quella che immagina una condizione inaccettabile, lo si trova sempre (e in quelle condizioni non è neppure facile difendersi ed è indecoroso sperare nella difesa d’ufficio di Santa Romana Chiesa prima tanto avversata).

Detto questo il senso del “per fortuna” è evidente perché non esistendo nessuna consapevolezza al di fuori di sé, ci si reputa sempre nel giusto mezzo, a posto, OK.

Il “purtroppo” dipende dal fatto che certi della nostra prospettiva giudichiamo quale sia il bene o il male per gli altri e mossi da velleità salvifiche non ci limitiamo ai consigli ma bruciamo sui roghi, rieduchiamo nei gulag e stacchiamo le spine. Naturalmente a fin di bene, ci mancherebbe.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Quando il tempo vola: come si genera l’esperienza soggettiva del tempo

La memoria episodica è un tipo di memoria autobiografica in cui la persona è protagonista, che si forma a seguito di un evento specifico (cosa e dove) avvenuto in un momento temporale ben preciso (quando).

 

Un nuovo studio recentemente pubblicato su Nature e condotto da Albert Tsao e collaboratori del Kavli Institute for Systems Neuroscience in Trondheim, Norvegia, ha esplorato e messo in luce i meccanismi neurali che presiedono la codifica soggettiva del tempo.

Perché in alcune situazioni ci sembra che il tempo scorra molto velocemente e in altre occasioni ci sembra al contrario che non passi mai, che sia eterno, e ci accorgiamo di guardare con impazienza l’orologio sperando che sia passato almeno una buona mezz’ora dall’ultima volta che l’abbiamo fatto, cioè cinque minuti prima?

Accade altresì molto spesso che le situazioni in cui il tempo “vola” e quelle che consideriamo “infinite” siano definite piacevoli per la prima condizione e noiose per la seconda, tanto da chiedersi se esista una relazione tra spazio e tempo e come questa si concretizzi a livello neurale nella memoria autobiografica.

Lo studio mostra quali aree cerebrali sono coinvolte nella memoria episodica

Lo studio di Tsao e colleghi (2018) ha mostrato come la memoria episodica, cioè una memoria autobiografica in cui la persona è protagonista e che si forma a seguito di un evento specifico (cosa e dove) avvenuto in un momento temporale ben preciso (quando), si generi in aree cerebrali vicine che processano informazioni spaziali e che sono responsabili dell’esperienza del tempo.

Uno studio precedente di Moser & Moser (2005) aveva messo in luce nella corteccia entorinale mediale, una porzione dell’ippocampo, un gruppo di neuroni chiamati “grid cells” contenenti una mappa neurale dello spazio ambientale direzionalmente orientata e topograficamente organizzata, che si attivava ogniqualvolta la posizione dell’animale nello spazio coincideva con qualsiasi vertice di una griglia (grid) di triangoli equilateri che costituivano la superficie dell’ambiente. Pertanto da questo studio è apparso evidente come la codifica dello spazio ambientale fosse a carico della corteccia entorinale mediale.

Tsao e colleghi hanno ipotizzato che esistesse ugualmente una regione cerebrale adiacente alla corteccia entorinale mediale, dove sono state scoperte le grid cells, responsabile della codifica del tempo.

Inizialmente i ricercatori erano alla ricerca di un pattern di neuroni simili alle grid cells ma hanno incontrato notevoli difficoltà a causa del fatto che il segnale dei neuroni della corteccia entorinale laterale (LEC) si modificava nel tempo.

[…] il tempo è qualcosa di unico e di dinamico; se questo network è responsabile della codifica del tempo, il suo segnale dovrebbe cambiare nel tempo con il fine di registrare, come memorie uniche, esperienze di vita (Moser, autore dello studio)

Per tale ragione, Tso e colleghi (2018) hanno deciso di registrare l’attività neurale della LEC per diverse ore durante le quali i topi erano impegnati in una serie di esperimenti: il primo, che consisteva nel correre all’interno di un box le cui pareti cambiavano colore lungo un arco temporale, è stato sottoposto ripetutamente agli animali per 12 volte in modo tale che essi potessero stabilire i cosiddetti “contesti temporali multipli”.

I ricercatori in questo modo hanno potuto esaminare l’attività neurale della regione LEC differenziando i momenti in cui i neuroni stavano codificando i cambiamenti nei colori delle pareti da quelli che si occupavano della codifica della progressione del tempo durante l’esperimento (Tsao, Sugar, Lu, Wang et al., 2018).

Questo primo esperimento ha determinato come effettivamente l’attività dei neuroni della LEC siano possibili fonti di informazioni per l’animale circa il contesto temporale in cui si verifica un certo evento di cui egli è protagonista, informazioni necessarie affinché si possa formare una memoria episodica.

In aggiunta a questo, il secondo esperimento prevedeva che i topi esplorassero liberamente degli spazi scegliendo quali azioni mettere in atto per riuscire a raggiungere del cioccolato.

L’unicità del segnale neurale degli animali durante questo [secondo] esperimento suggerisce che gli animali hanno un’ottima capacità nel registrare il tempo e la sequenza temporale degli eventi nel corso delle due ore che hanno costituito la durata dell’esperimento, e pertanto siamo stati in grado di estrarre, dai dati registrati, la codifica temporale, tracciando esattamente i momenti in cui l’animale ha scelto quell’azione o si è verificato quell’avvenimento (Jørgen Sugar, co-autore dello studio)

Infine nel terzo esperimento, gli animali sono stati costretti a seguire un tracciato ben preciso, con opzioni d’azione più limitate e poche esperienze; in particolare essi dovevano o girare a destra o girare a sinistra per raggiungere il cioccolato.

I ricercatori, nell’analizzare i dati provenienti da questo terzo esperimento, si sono accorti che l’attività neurale responsabile della codifica temporale passava da una sequenza unica (come era successo nel secondo esperimento) ad una ripetitiva e maggiormente prevedibile (Tsao, Sugar, Lu, Wang et al., 2018).

Conclusioni

Lo studio ha pertanto dimostrato come le popolazioni neurali di LEC rappresentino il tempo in modo inerente alla codifica dell’esperienza, fungendo da “neural clock”, cioè organizzando l’esperienza in una precisa sequenza di eventi distinti, dando così un senso al tempo.

L’attività neurale infatti non rappresenta la misura precisa del tempo oggettivo ma di un tempo soggettivo derivato dal flusso delle esperienze in corso, interpretate come piacevoli o spiacevoli.

In conclusione, l’ippocampo è in grado di immagazzinare una rappresentazione omogenea di cosa, quando e dove.

Lo psicologo a scuola: come viene percepito dai docenti?

In numerosi Paesi Europei, tranne che in Italia, la figura dello Psicologo a Scuola ha un ruolo fondamentale nel supportare il sistema educativo e contribuisce al miglioramento delle prestazioni del sistema scolastico. L’esigenza di una specifica risposta professionale quale quella offerta dallo psicologo scolastico non costituisce affatto il tentativo di creare “nuovi posti di lavoro” da parte di una categoria professionale, ma piuttosto la possibilità di rispondere in maniera appropriata e competente ai vari problemi che emergono all’interno del sistema scolastico.

Gruppo di Lavoro Nazionale di Psicologia Scolastica

 

Negli ultimi anni, i profondi cambiamenti avvenuti dal punto di vista sociale, culturale, politico, economico, hanno esercitato una significativa influenza anche all’interno delle istituzioni scolastiche, contribuendo all’emergere di nuove e specifiche esigenze.

Si è in particolare assistito ad un cambiamento nella concezione dei processi di apprendimento, di cui oggi si riconosce la stretta interconnessione con le componenti emotive, affettive e relazionali.

Inoltre, come testimoniato da recenti casi di cronaca, stiamo assistendo allo sviluppo di un crescente malessere, individuabile a più livelli – dagli alunni, ai genitori, agli insegnanti – nonché di una difficoltà di relazione tra i vari protagonisti.

Alla luce di tali considerazioni, per una scuola in continuo mutamento che è chiamata a rispondere ad esigenze diversificate e complesse, occorre ripensare ad una Psicologia in azione dentro la scuola secondo un intervento rinnovato, nel quale si rivela essenziale e necessaria una risposta proveniente da una specifica professionalità: quella dello psicologo scolastico.

Lo psicologo a scuola

La continuità operativa che l’intervento richiede mira al raggiungimento di una presenza dello psicologo a scuola che sia costante, attiva e partecipante.

L’obiettivo è quello di poter realizzare uno specifico piano d’azione mirato alla prevenzione, alla promozione del benessere e all’intervento in aree di disagio conclamate. Lo psicologo scolastico si pone dunque come sostenitore del cambiamento, operando in collaborazione e in sinergia con tutti gli attori del sistema scolastico.

Al di là delle specificità che i singoli interventi messi in atto possono perseguire rispetto alle diverse aree della Psicologia, è sempre più opportuno considerare la Scuola come sistema complesso in cui la crescita didattica e personale degli studenti sono intimamente e inevitabilmente connesse e su cui è utile, nonché doveroso, operare un cambiamento che integri il ruolo educativo al benessere psico-sociale di ogni soggetto che lo compone.

Osservare questo sistema complesso significa, in primis, ascoltare e ridare voce a chi svolge quotidianamente il proprio operato all’interno della scuola, affinché le esigenze espresse diventino per lo Psicologo una guida con cui orientare il suo lavoro.

Un’indagine esplorativa: somministrazione del questionario “Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti”

Da qui è nata l’idea di effettuare un’indagine esplorativa, attraverso la costruzione e la somministrazione del questionario “Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti”, compilato da un campione di 440 docenti, provenienti da tutta Italia ed operanti in asilo nido, scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di primo e di secondo grado.

Il campione analizzato si suddivide secondo le seguenti ripartizioni: l’area geografica di appartenenza vede la maggiore percentuale al centro (35,1%), seguita dal sud (33%) e, infine, dal nord (31.9%), con una netta predominanza di personale femminile (91,8%) rispetto a quello maschile (8,2%). Più del 50% dei docenti intervistati lavora all’interno della scuola da almeno 10 anni, di questi il 27% da più di 20.

La lunga permanenza all’interno del settore scolastico dei docenti che hanno risposto al questionario offre un’idea strutturata e consapevole del “vissuto” della propria professione, nonché delle aree maggiormente problematiche e della richiesta di risorse specifiche per possano lavorare ad una risoluzione.

Dai dati raccolti è emerso che la problematica maggiormente evidenziata dagli insegnanti risulta essere la gestione delle classi difficili (60,5%), seguita dalla gestione degli alunni con un “bisogno educativo speciale” o un “disturbo dell’apprendimento” (13,6%) che richiedono un’adeguata formazione degli insegnanti. Vengono inoltre evidenziati problemi relativi alla scarsa comunicazione fra scuola e famiglia (9,3%) ed in ultimo una mancata organizzazione del lavoro di rete tra insegnanti e tra insegnanti e dirigenti scolastici (7,7%).

Un’altra tematica esplorata nell’indagine riguarda gli aspetti maggiormente apprezzati degli interventi psicologici sperimentati durante la propria attività scolastica, che risultano essere:

  • la gestione dei conflitti del gruppo classe
  • la mediazione tra insegnanti e famiglie
  • il miglioramento dell’autostima e della consapevolezza delle emozioni negli studenti
  • la formazione del corpo docente sul riconoscimento precoce di varie problematiche e delle modalità per affrontarle

I risultati dell’indagine: qual è il ruolo dello Psciologo scolastico secondo i docenti?

Emerge una percezione dello Psicologo come risorsa (51%) e, per il 21,3% dei partecipanti, la sua presenza viene vista come una vera e propria necessità per il benessere scolastico. Per la quasi totalità dei partecipanti (97,3%) lo Psicologo rappresenta la figura più preparata per migliorare l’intero ambiente scolastico.

Alla luce dei dati emersi risulta fondamentale continuare a percorrere la strada del riconoscimento della figura dello Psicologo Scolastico come professionista che può operare attraverso svariate modalità, ben oltre l’attività dello “sportello d’ascolto”, intervento peraltro già ripensato dal GdL Nazionale di Psicologia Scolastica in un’ottica interattiva e dinamica.

Come si evidenzia dal nostro campione di riferimento, solo il 12% considera la prevenzione come un’attività importante, confermando l’idea ancora diffusa che la presenza dello psicologo a scuola sia necessaria prevalentemente in condizioni di emergenza, per intervenire clinicamente in situazioni di disagio sfociate in comportamenti disadattivi.

La proposta di intervento del GdL Nazionale di Psicologia Scolastica: il ruolo proposto per lo psicologo a scuola

La proposta di intervento di cui il GdL si fa portatore si fonda sull’idea di una presenza sistematica dello Psicologo scolastico al fine di poter attivare servizi più complessi e strutturati a vari livelli per le diverse aree di intervento. Tali aree comprendono: attività di prevenzione e di promozione del benessere, contrasto del disagio e prevenzione di comportamenti disfunzionali.

Al fine di un miglioramento di qualsiasi tipo di intervento scolastico risulta però fondamentale condividere e chiarire, a inizio attività, le aspettative e gli obiettivi realmente perseguibili a seconda del tempo e dei finanziamenti a disposizione, nonché effettuare una valutazione dell’intervento stesso sia in itinere che al termine per monitorare costantemente l’andamento del percorso e potenziarne l’efficacia.

I dati osservati nell’indagine superano il pregiudizio infondato di alcune categorie professionali che tendono a mostrare la Psicologia a Scuola come un intervento ancora in fase di sperimentazione.

I dati ci mostrano non solo come la Psicologia a scuola è una realtà già esistente ma, soprattutto, che l’esigenza di una specifica risposta professionale non costituisce affatto il tentativo di creare “nuovi posti di lavoro” da parte di una categoria professionale, ma piuttosto la possibilità di rispondere in maniera appropriata e competente ai vari problemi emersi.

La psicologia per la scuola è una realtà, esistente da anni attraverso collaborazioni, progetti, successi, vantaggi e sviluppi che sono ampiamente documentati in letteratura (Francescato, Putton, Cudini 2000; Gelli e Mannarini 1998, 1999; Pellai A. 2005; Gavazzi, Ornaghi, Antoniotti 2011). L’indagine N.E.P.E.S. del 2010 (cit. in Matteucci M.C., 2016), ad esempio, mette in evidenza che in tutti i paesi Europei, tranne che in Italia, lo psicologo a scuola ha un ruolo fondamentale nel supportare il sistema educativo e contribuisce al miglioramento delle prestazioni del sistema scolastico.

L’indagine del GDL Nazionale di Psicologia Scolastica offre un ulteriore e recente dato a sostegno di questa realtà, mettendo in luce la necessità di dare risposta alla richiesta di ben-essere globale di cui, oggi più che mai, i protagonisti del sistema scolastico sono portatori.

Alla luce dei dati emersi, che evidenziano un bisogno sempre maggiore dell’intervento dello psicologo rispetto alle dinamiche e alle problematiche presenti nel contesto scolastico, il GdL di Psicologia Scolastica è impegnato nel mettere a disposizione le sue competenze in progetti ed attività psicosociali di prevenzione primaria, secondaria e terziaria che, in stretta collaborazione con docenti e famiglie, possano contribuire al reale miglioramento del benessere a scuola.

Recensionde del libro “Nati a perdere” di G. Salvatore – Un esperimento narrativo basato su storie reali

Nati a perdere è un libro che propone una sequenza rapida, implosiva, di personaggi-racconti.

 

Chi fa lo psicoterapeuta come me sceglie di bere dolore più volte a settimana. Se è condito di speranza non avvelena. Un dolore curabile, che può recedere. A fine giornata lo abbiamo ridotto di una tacca, torniamo a casa pacificati. Chi fa lo psicoterapeuta e diventa scrittore spilla veleno umano.

Nati a perdere è questo: storie del Sud dove “troneggiante, moribondo, c’era Gesù inchiodato a una croce di legno spesso”. E si fa i fatti suoi, non offre antidoto.

Al suo cospetto Giorgio, timido da stare appiccicato con l’adesivo alle pareti della chiesa. Unica gloria della sua vita i cross perfetti per Carmine che segnava in mezza rovesciata. Careca passa a Maradona. Quello che fa Giorgio il parroco non lo sa.

Alice mena mazzate tremende a Jenny, Carlotta e Alice piccola. Fossimo a El Paso e non a Salerno sarebbe Alice junior. Figlie? No, le sue bambole. Che però si comportano bene, sanno evitare la furia di Alice grande. Una bambina così, che mamma ha alle spalle?

Uno psicoterapeuta che diventa scrittore sa che Gesù non risponde, e racconta sconfitte. Senza redenzione. Noi possiamo ingoiare dolore perché nelle nostre vene scorre una sorta di onnipotenza curativa, noi quella pena la facciamo passare.

Ma non è vero. Siamo utili solo a chi entra nel nostro studio con la speranza accesa. Se proviamo ad ascoltare le stesse storie lì fuori usciamo pazzi, finiamo nella terra perfida di Céline, Palahnuk, Di Monopoli. La speranza appare in un calcio circolare. Giovanni lo impara dal maestro di karate, per puro assorbimento. Di nascosto dalla madre mediterranea paralizzante e onnipresente, capace di invadere lo spazio sacro del tatami esegue il calcio insieme al kiai, l’urlo rituale: “Un kiai vero, fatto di vita e di morte”

 

 

 


 

Nati a perdere (2015) di Giampaolo Salvatore – Anteprima –

L’intolleranza dell’incertezza nelle malattie reumatiche

Secondo quanto riportato dall’ISTAT (Istat, 2017), nel 2016 in Italia tra le malattie o condizioni croniche più diffuse, ossia tra i problemi di salute di lunga durata e generalmente di lenta progressione, spiccavano al secondo posto, subito dopo l’ipertensione (17,4 per cento), malattie reumatiche quali l’artrosi e l’artrite (15,9 per cento). 

 

L’artrosi e l’artrite appartengono al più ampio gruppo delle patologie reumatiche. Le malattie reumatiche sono una categoria di condizioni croniche che coinvolgono il sistema muscolo-scheletrico. Esse possono portare ad una perdita della produttività, ad un aumento dei costi per il servizio sanitario e ad una ridotta qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie (Chopra & Abdel-Nasser, 2008).

L’importanza di prestare una maggiore attenzione all’incremento della qualità di vita dei soggetti con disturbi muscolo-scheletrici è stata sottolineata, negli ultimi anni, dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) (Franco-Aguirre, Cardona-Tapias, & Cardona-Arias, 2017).

Ciò anche alla luce del fatto che i sintomi principali di queste malattie – la fatica ed il dolore – essendo per lo più non visibili (Geenen & Finset, 2012), vengono spesso mal riconosciuti e non compresi dalle altre persone (Cameron, Kool, Estevez-Lopez, Lopez-Chicheri & Geenen, 2018) e sottovalutati dai professionisti sanitari (Franco-Aguirre, Cardona-Tapias & Cardona-Arias, 2017). A volte, si assiste infatti ad un vero e proprio divario tra le misure più oggettive di gravità della malattia (ad esempio, la radiografia) e quello che i pazienti riportano circa il loro dolore e la loro disabilità (Finan et al., 2013; Wolfe et al., 2014).

Il dolore nelle malattie reumatiche: la componente psicologica

Il dolore, sintomo debilitante di malattie reumatiche come l’artrite reumatoide, la fibromialgia e la spondiloartrite, può essere influenzato da una serie di fattori, inclusi quelli psicologici (Hadjistavropoulos & Craig, 2004; Knotek & Knotkova, 2008; Linton, 2005; Simons, Elman & Borsook, 2014).

L’ansia, l’ipervigilanza e la catastrofizzazione hanno infatti dimostrato di avere un peso sulla percezione del dolore (Hollins et al. 2009; McDermid, Rollman & McCain, 1996; Ruscheweyh, Albers, Kreusch, Sommer & Marziniak, 2013; Spielberger, Gorsuch & Lushene, 1970; Sullivan et al., 2001).

Un altro costrutto che sembrerebbe contribuire a configurare l’esperienza del dolore ed il modo in cui l’individuo la affronta è l’intolleranza dell’incertezza (Bélanger et al., 2017).

L’intolleranza dell’incertezza

Negli anni sono state proposte diverse definizioni di intolleranza dell’incertezza. Una delle più recenti risulta essere la seguente: “un’incapacità disposizionale da parte dell’individuo a tollerare una risposta avversiva innescata dall’assenza percepita di informazioni salienti, chiave, o sufficienti e sostenuta dalla percezione associata
 di incertezza” (Carleton, 2016b).

Come si evince dalle parole di Carleton (2016b), la caratteristica centrale dell’intolleranza dell’incertezza è la paura dell’ignoto (Carleton, 2016a; Carleton, Mulvogue, Thibodeau, McCabe, Antony & Asmundson, 2012), emozione condizionata probabilmente sia da predisposizioni individuali (ad esempio, il temperamento) che dall’apprendimento (Oglesby, Allan, & Schmidt, 2017).

L’intolleranza dell’incertezza deriva da un bias cognitivo che influenza il modo in cui un soggetto percepisce, interpreta e risponde a situazioni incerte o ambigue. Più specificatamente, tale costrutto psicologico fa riferimento alla tendenza a rispondere, a livello emotivo, cognitivo e comportamentale, a situazioni o eventi che sono incerti percependoli ed interpretandoli come negativi o minacciosi (Dugas, Schwartz & Francis, 2004).

L’ intolleranza dell’incertezza è stata descritta come un fattore di rischio per emozioni negative quali l’ansia, la preoccupazione ed il panico (Fischerauer, Talaei-Khoei, Vissers, Chen & Vranceanu, 2018).

Tuttavia, all’ incertezza non seguono necessariamente sempre reazioni spiacevoli. Secondo la teoria della gestione dell’incertezza (Brashers, 2001; Brashers, Neidig, Haas, Dobbs, Cardillo & Russell, 2000), quando l’ incertezza include la speranza, i soggetti desiderano rimanere incerti circa il problema ed evitare l’informazione. Quando invece l’ incertezza viene letta come una minaccia, si genera un’emozione di ansia legata all’esposizione all’informazione (Brashers, 2001). Ciò è proprio quello che succede agli individui con alta intolleranza dell’incertezza, i quali – lo ripetiamo – hanno la tendenza ad aspettarsi eventi negativi a partire da situazioni incerte (Dugas, Hedayati, Karavidas, Buhr, Francis & Phillips, 2005).

Intolleranza dell’incertezza e Piscopatologia

Benchè i primi lavori abbiano considerato l’intolleranza dell’incertezza esclusivamente come un elemento di vulnerabilità per il disturbo d’ansia generalizzato (Dugas, Gagnon, Ladouceur & Freeston, 1998), le evidenze degli ultimi anni indicano che essa potrebbe essere importante per lo sviluppo ed il mantenimento di tutti i disturbi d’ansia (Carleton, 2012; Carleton et al., 2012; Mahoney & McEvoy, 2012a, 2012b; McEvoy & Mahoney, 2012).

Nonostante correli con elevati sintomi ansiosi (Oglesby, Allan, & Schmidt, 2017), l’intolleranza dell’incertezza pare essere fortunatamente malleabile ed un suo decremento si associa ad esiti positivi di trattamento. Ad esempio, in alcune evidenze, diminuzioni nell’intolleranza dell’incertezza hanno previsto miglioramenti nel disturbo ossessivo-compulsivo (Kyrios, Hordern & Fassnacht, 2015; Manos, Cahill, Wetterneck, Conelea, Ross & Riemann, 2010), nel disturbo d’ansia sociale, nell’ansia generalizzata e nella gravità del pensiero negativo ripetitivo (McEvoy & Erceg-Hurn, 2016).

L’intolleranza dell’incertezza nelle malattie reumatiche

Gli studi che esplorano il legame tra intolleranza dell’incertezza e percezione del dolore sono scarsi in letteratura (Bèlanger et al., 2017). Tuttavia, ricerche passate hanno dimostrato che persone intolleranti all’incertezza sono sia più ansiose (Nelson & Shankman, 2011) sia più attente a situazioni potenzialmente pericolose (Gole, Schäfer & Schienle, 2012), due predisposizioni che incrementano l’esperienza soggettiva del dolore (Spielberger, Gorsuch & Lushene, 1970; Wiech, Ploner & Tracey, 2008).

Inoltre, uno studio recente (Bélanger et al., 2017) suggerisce che alti livelli di intolleranza dell’incertezza predicono un peggioramento nella percezione del dolore, quando il dolore è inaspettato.

Pertanto, se la ricerca futura confermerà l’associazione tra intolleranza dell’incertezza ed amplificazione del dolore, la variabile psicologica dell’intolleranza dell’incertezza potrà essere considerata uno dei possibili target di indagine e di intervento in persone con malattie reumatiche che soffrono di dolore cronico.

Nelle sindromi reumatologiche, le caratteristiche fisiopatologiche del dolore possono cambiare nel corso del tempo e quindi non essere facilmente prevedibili. Nell’artrite reumatoide, ad esempio, quando l’infiammazione colpisce inizialmente le articolazioni, il dolore è probabilmente nocicettivo, ovvero evocato dalla stimolazione dei recettori del dolore (nocicettori), attivati da danno o infiammazione ai tessuti. Tuttavia, esso diviene gradualmente centralizzato, ossia mantenuto principalmente dal sistema nervoso centrale, piuttosto che dal sistema nervoso periferico, nel momento in cui si diffonde nel corpo (Atzeni, Cazzola, Benucci, Di Franco, Salaffi & Sarzi-Puttini, 2011; Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012).

Uno dei modi più immediati per identificare quei soggetti il cui dolore è per lunghi periodi di tempo sia nocicettivo che centralizzato consiste nel cercare clusters di sintomi somatici (ad esempio, fatica, dolore, problemi di memoria e disturbi del sonno) in co-morbilità (Goesling, Clauw & Hassett, 2013; Stisi et al., 2008). Questo perché i neurotrasmettitori ad azione centrale, presenti a livelli anomali, che plausibilmente rivestono un ruolo chiave nel causare il dolore (ad esempio, bassi livelli di norepinefrina, GABA o serotonina, ed alti livelli di glutammato o sostanza P), sono implicati anche nel controllare il sonno, l’umore e lo stato di vigilanza (Goesling, Clauw & Hassett, 2013).

Pertanto, in individui che sviluppano il dolore centralizzato non è inusuale osservare l’occorrenza di dolore in associazione con altri sintomi, mediati a livello centrale (Alciati et al., 2012; Goesling, Clauw & Hassett, 2013), che di frequente non rispondono alle terapie standard (Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012; Stisi et al., 2008).

Per proporre un esempio, pazienti con osteoartrite al ginocchio, disturbo articolare diffuso soprattutto tra la popolazione over 50, provano spesso una fatica funzionalmente limitante (Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012; Goesling, Clauw & Hassett, 2013) ed un dolore intenso non solo nell’articolazione del ginocchio e nelle strutture circostanti ma anche in zone non colpite direttamente dall’osteoartrite (Atzeni, Cazzola, Benucci, Di Franco, Salaffi & Sarzi-Puttini, 2011; Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012).

Malattie reumatiche e gestione del dolore cronico

Nelle malattie reumatiche, il dolore cronico viene di frequente gestito in modo non appropriato (Cherubino, Sarzi-Puttini, Zuccaro & Labianca, 2012).

Un trattamento inadeguato del dolore cronico rischia di non consentire la partecipazione alle attività della vita quotidiana, di influenzare negativamente le capacità lavorative e di contribuire ad un elevato indice di ansia (Sarzi-Puttini, Atzeni & Salaffi, 2014), effettivamente riscontrato spesso nelle persone con condizioni croniche dolorose (Asmundson & Katz, 2009; Bair, Robinson, Katon & Kroenke, 2003; Edwards, Cahalan, Mensing, Smith & Haythornthwaite, 2011; McCracken & Vowles, 2014). Di conseguenza, un opportuno sollievo dal dolore, benché complesso, si rivela di fondamentale importanza.

Essendo un fenomeno influenzato da variabili biologiche, psicologiche e sociali, il dolore richiede, per essere trattato efficacemente, l’adozione di un approccio multidisciplinare che prenda in considerazione interventi farmacologici e non farmacologici basandosi sul tipo di disturbo, sulle caratteristiche del dolore stesso, sulle abilità psicologiche di coping e sullo stile di vita (Cunningham & Kashikar-Zuck, 2013; Sarzi-Puttini, Vellucci, Zuccaro, Cherubino, Labianca & Fornasari, 2012).

Tra le strategie non farmacologiche, la terapia cognitivo comportamentale, il biofeedback, la meditazione e la mindfulness, ed il rilassamento sono risultati essere in grado di aiutare i pazienti con dolore reumatico (Cazzola, Atzeni, Salaffi, Stisi, Cassisi & Sarzi-Puttini, 2010; Sarzi-Puttini, Buskila, Carrabba, Doria & Atzeni, 2008; Sarzi-Puttini, Vellucci, Zuccaro, Cherubino, Labianca & Fornasari, 2012).

Considerata la relazione – preliminare – tra intolleranza dell’incertezza ed aumento dell’esperienza soggettiva di dolore, un intervento che si ipotizza essere altrettanto utile è un training cognitivo mirato all’intolleranza dell’incertezza. Insieme ad altre tecniche, esso potrebbe servire a trattare e, se possibile, a prevenire gli aspetti centralizzati del dolore in quei pazienti affetti da malattie reumatiche che alla valutazione clinica risultano essere alti in intolleranza dell’incertezza.

Purtroppo, non esistono ancora markers clinici, di laboratorio o di neuroimaging capaci di stabilire perché in certi pazienti, a differenza di altri, il dolore rimane localizzato, senza diffondersi (Warren, Langenberg & Clauw, 2013), e perché (e quando) il dolore localizzato in una specifica articolazione o zona del corpo si trasforma in cronico e diffuso (Sarzi-Puttini, Atzeni & Salaffi, 2014).

Data questa incertezza relativa al timing, all’intensità ed alla localizzazione del dolore, i pazienti reumatologici con il bias dell’intolleranza dell’incertezza possono essere più a rischio – per via del legame preliminare tra intolleranza dell’incertezza e peggioramento dell’esperienza soggettiva di dolore – di sviluppare un dolore cronico. Il dolore cronico, a sua volta, può contribuire ad innalzare il livello dei sintomi ansiosi che possono intensificare ulteriormente la percezione del dolore (Edwards, Dworkin, Sullivan, Turk & Wasan, 2016), in un vero e proprio circolo vizioso.

Di conseguenza, individui affetti da malattie reumatiche con il fattore di vulnerabilità psicologica dell’intolleranza dell’incertezza potrebbero – in via ipotetica – beneficiare di un breve training cognitivo orientato a facilitare interpretazioni neutre/non minacciose delle sensazioni dolorose provenienti dal danno nocicettivo periferico. Questo tipo di intervento, anche se testato finora solo su un campione di 79 studenti di psicologia, sembra promettente: è riuscito a ridurre in modo significativo l’intolleranza dell’incertezza (Oglesby, Allan & Schmidt, 2017).

Obesità e problemi ponderali: il peso dello stigma e lo stigma del peso negli uomini

Un nuovo studio di Himmelstein, Puhl e Quinn pubblicato su Obesity rileva che una significativa parte degli uomini adulti riferisce di essere stato bistrattato a causa del peso.

 

In tema obesità e problemi ponderali si tende spesso a credere che siano soprattutto le donne ad essere vittime dello stigma legato al peso. Questo, se da un lato tende ad alimentare l’idea errata che il dover essere in forma è un problema per lo più femminile, d’altro lato potrebbe rendere difficile comprendere la sofferenza che anche gli uomini con obesità provano quando si sentono stigmatizzati.

Per questo motivo, la ricerca di Himmelstein, Puhl e Quinn pubblicata su Obesity, tra le prime a studiare il problema dello stigma legato al peso esclusivamente negli uomini, fornisce dati interessanti per capire in che modo gli uomini vivono lo stigma percepito.

I risultati suggeriscono che gli uomini potrebbero sperimentare lo stigma basato sul peso in percentuali simili alle donne. Gli atteggiamenti negativi verso le persone con obesità sono diffusi e possono essere causa di problematiche fisiche ed emotive.

 

Obesità negli uomini: ne soffrono come le donne?

Le precedenti ricerche su questo tipo di stigma si sono focalizzate prevalentemente sulle donne lasciando intendere che fosse più diffuso in queste ultime. Questo studio tuttavia mostra come il divario tra uomini e donne sia minore.

Lo studio ha coinvolto un campione di 1513 uomini di cui il 40% ha riferito di avere sperimentato stigma a causa del proprio peso.

Gli uomini che hanno riportato esperienze di stigma erano più giovani, meno coinvolti in una relazione matrimoniale, più facilmente in una condizione di obesità e avevano tentato di perdere peso l’anno precedente.

Lo stigma basato sul peso é risultato occorrere maggiormente nell’infanzia e adolescenza, in forma di maltrattamenti verbali e prese in giro, mentre i coetanei, famigliari ed estranei sono risultati le più comuni fonti di stigma.

Stigma del peso per gli uomini

A differenza delle donne che tendono a sperimentare maggiormente lo stigma ponderale all’aumentare del peso corporeo, gli uomini in questo studio sperimentavano maggiormente lo stigma in una condizione di sottopeso od obesità rispetto a quelli in una condizione di normopeso e sovrappeso.

É importante per la ricerca sullo stigma coinvolgere maggiormente gli uomini, e visto che i soggetti che cercavano di perdere peso erano maggiormente coinvolti, inserire nei programmi di gestione del peso strategie per fronteggiare questa forma di stigma purtroppo diffusa e socialmente accettata.

Freud Promenade: passeggiare tra i monti respirando psicoanalisi

Camminare tra i boschi e le montagne respirando psicoanalisi; viaggiare tra i paesaggi dell’ Alto Adige, da Soprabolzano a Collalbo, sulle parole e sulle teorie di Sigmund Freud; discutere di Es, Ego e Superego all’ombra dei meli o ripensare ad Anna O. tra l’odore di campanule…non c’è nulla di allegorico in tutto questo, ma una vera e propria prassi viva dal 2006 grazie all’idea del Dott. Francesco Marchioro.

 

Il Dott. Francesco Marchioro, psicoanalista e storico della psicoanalisi, ha fondato nel 2006 una passeggiata “Freud promenade” vicino a Bolzano (sul Renon – Alto Adige): un progetto nato in collaborazione con il Comune di Renon con l’associazione Imago Ricerche di psicoanalisi applicata di Bolzano, per celebrare i 150 anni dalla nascita di Sigmund Freud (1856 – 6 maggio – 2006).

Al fondatore della Psicoanalisi è stato dedicato il sentiero principale, nr. 35, che va da Soprabolzano a Collalbo, con il nome di “Passeggiata – Freud – Promenade”.  La Freud Promenade è il primo e unico sentiero al mondo dedicato al Maestro viennese. Il progetto è stato arricchito il 23 settembre 2016 con l’apposizione di 13 panche artisticamente disegnate dagli architetti David e Verena Messner. Ciascuna panchina è caratterizzata da un aforisma scelto dal Dott. Marchioro dalle Opere di Freud.

L’auspicio dell’ideatore della Freud-Promenade è quello di creare un contatto tra i professionisti e proporre incontri sulla psicoanalisi, proprio a partire da quei paesaggi di cui lo stesso padre della psicoanalisi si è innamorato, come ben ci ricorda suo figlio Martin nel libro di memorie “Mio padre Sigmund Freud“:

ogni anno vagava come un esploratore per le montagne in cerca del posto più bello dove soggiornare

 

Per saperne di più: www.freudpromenade.it

IMMAGINI DELLA FREUD PROMENADE:

 

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 2

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 3

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 4

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 5

Neuroni specchio: storia della scoperta e teorie a confronto

Gli esseri umani sono animali sociali capaci di elaborare e capire le azioni e le intenzioni degli altri, questa capacità è di primaria importanza per poter agire ed interagire correttamente e in maniera adattiva con il mondo, qual’è il ruolo dei neuroni specchio?

Beatrice Agostini – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Immaginiamo di camminare per strada e di vedere un signore che si avvicina muovendo una mano. Essere in grado di capire se quel movimento è un movimento di saluto o se il signore in questione ci sta per lanciare addosso qualcosa è di primaria importanza per pianificare correttamente il nostro comportamento (ricambiare il saluto nel primo caso, scappare o attaccare nel secondo).

Neuroni specchio: la scoperta

Negli anni ’90 i ricercatori iniziarono ad interrogarsi su come il nostro cervello riconosce le azioni altrui. Nel 1992, di Pellegrino e colleghi studiarono un gruppo di neuroni localizzati nella parte rostrale della corteccia premotoria ventrale del cervello della scimmia (area F5) ed osservarono come questi neuroni si attivavano non solo quando la scimmia faceva un movimento, ma anche quando osservava lo stesso movimento eseguito dallo sperimentatore (Rizzolatti et al., 1996). Questi neuroni vennero chiamati “neuroni specchio”, in inglese “mirror neurons”, proprio per enfatizzare questa loro capacità di rispecchiare una specifica azione motoria nel cervello dell’osservatore.

Studi più approfonditi hanno dimostrato che l’osservazione di azioni altrui determina anche negli esseri umani, e non solo nelle scimmie, l’attivazione delle regioni precentrali (Gallese et al., 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004; Keyser e Gazzola, 2009). Questo risultato è stato immediatamente interpretato come parte cruciale del processo di riconoscimento delle azioni: un osservatore comprende le azioni delle altre persone perché le rappresenta nel proprio cervello, proprio come se lui stesso stesse eseguendo quell’azione. Rizzolatti e colleghi (2001) non si fermano qui, ma ipotizzano anche l’esistenza di un network (mirror neuron system), che comprende aree parietali, frontali inferiori e premotorie, che è deputato al riconoscimente delle azioni non solo quando le osserviamo ma anche quando leggiamo un verbo o ascoltiamo una parola associata ad una azione. Ad esempio, un concetto come saltare (indipendentemente se osserviamo una persona che salta, se la immaginiamo o se leggendo un libro incontriamo questa parola) verrebbe compreso grazie alla riattivazione dello stesso programma motorio che si attiverebbe se stessimo effettivamente facendo un salto.

Neuroni specchio: come funzionano?

Iniziò così, verso la metà degli anni ’90, a prendere piede l’idea che le rappresentazioni concettuali riferite alle azioni (ovverso le rappresentazioni semantiche, il significato) siano rappresentate all’interno del nostro sistema sensorimotorio (embodied cognition hypothesis o teoria della cognizione incarnata). In particolare, il concetto di simulazione come il “processo attraverso il quale i concetti rievocano gli stati percettivi e motori presenti quando percepiamo e agiamo nel mondo” (Chatterjee, 2010 –p.80) divenne il focus delle ricerche nell’ambito dell’osservazione e del riconoscimento di azioni (review: Martin, 2007; Mahon e Caramazza, 2008; Kiefer e Pulvermüller, 2012). Lo stesso concetto è stato utilizzato per speculare su altri domini cognitivi come ad esempio l’empatia e il riconoscimento delle emozioni (Spaulding, 2012), la teoria della mente (Gallese e Goldman, 1998, Schulte-Ruchter et al., 2007), e sulla natura di diversi disturbi come l’autismo (Dapretto et al., 2005; Oberman et al., 2005; Hadjikhani et al., 2006).

Ad oggi, non tutti i ricercatori condividono questa interpretazione. Il dibattito su quale sia il ruolo di questo processo di simulazione mentale nel riconoscimento delle azioni è ancora aperto. In particolare ci si domanda: è davvero necessario simulare un’azione nel nostro sistema motorio per comprenderla? Ovvero, l’informazione motoria è fondamentale per comprendere un concetto? In alternativa: è possibile comprendere il significato di una azione solo utilizzando una rappresentazione simbolica, senza il contributo del circuito motorio necessario per metterla in atto? E se si, dove si trova, nel cervello, questa rappresentazione simbolica? Queste sono le domande chiave che caratterizzano il dibattito tra teoria motoria e teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni (in qualche misura sovrappoinibili alle embodied/disembodied cognition hypothesis).

Neuroni specchio e teoria motoria del riconoscimento delle azioni

La teoria motoria del riconoscimento delle azioni concorda con la teoria dei neuroni specchio e quindi con la teoria della embodied cognition hypothesis, la quale afferma che la cognizione dipenda anche da caratteristiche di tipo corporeo (nel nostro caso l’informazione contenuta nel sistema motorio). Questa teoria sostiene che l’abilità di capire o riconoscere il significato di un’azione è situata nel nostro sistema motorio. Come si diceva prima, è possibile riconoscere un’azione solo se vi è una simulazione dell’azione osservata nel sistema motorio dell’osservatore.

La maggior parte degli studi comportamentali citati a favore della teoria motoria cercano di dimostrare come le rappresentazioni motorie e le rappresentazioni concettuali interagiscono tra loro, e, soprattutto, come le prime sono in grado di influenzare le seconde. In un esperimento per dimostrare che le parole automaticamente attivano la rappresentazione motoria, Glover e colleghi (2004) mostrarono ai partecipanti il nome di un oggetto grande o piccolo (ad esempio mela o uva). Il compito dei partecipanti era quello di leggere il nome dell’oggetto e subito dopo raggiungere ed afferrare un oggetto target presente sul tavolo (grasping movement). I risultati mostrarono che l’apertura della mano durante il movimento di grasping era influenzato dalla parola che veniva letta in precedenza: se veniva letto il nome di un oggetto grande, i partecipanti aprivano la mano di più rispetto a quando leggevano il nome di un oggetto piccolo. Questo indipendentemente dalla dimensione dell’oggetto target che dovevano afferrare. Questo esperimento, insieme a molti altri (Glenberg e Kaschak, 2002; Brass et al., 2001, Craighero et al., 2002; Tucker e Ellis, 2004; Bub et al., 2008) vennero utilizzati come prova del fatto che il nostro sistema motorio si attiva automaticamente quando leggiamo determinate parole.

Studi più recenti hanno utilizzato la stimolazione magnetica transcranica (TMS) per investigare in maniera più diretta il ruolo del sistema motorio nel riconoscimento delle azioni. Quando si utilizza la TMS si va ad interferire con la normale attività di un’area cerebrale e questo genera un cambiamento nel comportamento del partecipante (Rossini et al., 2015). Solitamente, a seconda della procedura seguita, si può osservare un aumento o una diminuzione dei tempi di reazione del partecipante oppure si possono osservare delle variazioni in alcuni parametri elettrofisiologici, come, ad esempio, nei potenziali motori evocati (MEP). Ad esempio, se applichiamo un elettrodo su un muscolo della mano e poi applichiamo un impulso TMS sull’area motoria (M1) che controlla la mano, osserveremo una contrazione del muscolo della mano. L’intensità della contrazione cambia a seconda dell’eccitabilità corticale: più l’attività dell’area motoria è intensa, maggiore sarà la contrazione. MEP è dunque una misura non invasiva dell’eccitabilità del sistema cortico-spinale e quindi una misura della sensibilità di M1. Utilizzando questo metodo è stato dimostrato che osservare il movimento di una mano provoca nei soggetti un aumento dei MEP nel muscolo della loro mano (Fadiga e Rizzolatti, 1995; Strafella e Paus, 2002; Maeda et al., 2002). Questo significa che l’area motoria dell’osservatore era “attiva” mentre osservava il movimento e che quindi osservare azioni determina una modulazione del sistema motorio.
Altri studi hanno dimostrato che M1 è sensibile non solo all’osservazione ed esecuzione di azioni, ma anche quando abbiamo a che fare con un linguaggio associato ad un’azione (ad es. “spegni la luce”). In un esperimento del 2005, Buccino e colleghi applicarono la TMS sull’area motoria della mano o del piede del partecipante, mentre questo ascoltava delle frasi che si riferivano ad azioni manuali o che coinvolgevano l’uso dei piedi. Durante la stimolazione venivano registrati i MEP. I risultati mostrarono che l’intensità dei MEP del muscolo della mano era diversa quando i partecipanti ascoltavano frasi contenti azioni manuali rispetto a quando ascoltavano frasi che coinvolgevano l’uso dei piedi. L’osservazione che l’area motoria si attiva in maniera specifica quando comprendiamo un’azione, venne interpretata come evidenza del suo coinvolgimento nel riconoscimento semantico delle azioni e venne utilizzata in supporto delle teorie motorie.

Non da ultimo, studi di risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno mostrato che stimoli che fanno riferimento ad azioni motorie (come ad esempio osservare un movimento) portano all’attivazione, tra le altre aree, del giro precentrale (per una review: Martin, 2007; Puvermuller e Fadiga, 2010).

E’ tuttavia importante notare come gli studi sopracitati mostrino una certa variabilità nei risultati. Ad esempio, negli studi di TMS a fronte dello stesso stimolo alcuni studi trovano un aumento dell’intensità dei MEP, altri una diminuzione. In entrambi i casi il risultato è significativo ma la direzione dell’effetto è opposta ed è dunque difficile compararlo o interpretarlo (review: Papeo et al. 2013). Non solo, gli studi di fMRI citati a favore della teoria motoria mostrano sì che il giro precentrale (l’area premotoria) risponde quando elaboriamo il significato delle azioni, ma non è il solo. Molte altre aree sono attive quando osserviamo un’azione (vedi Figura 1). Il ruolo delle altre aree e in particolare della corteccia temporale viene spesso sottostimato dai sostenitori della teoria motoria e relegato ad una funzione di mera analisi visuo-motoria di basso livello.

Neuroni specchio dalla scoperta al dibattito scientifico sul funzionamento immagine

Aree che fanno parte dell’action-observation network (AON). Casper et al., 2010

Neuroni specchio e teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni

I sostenitori della cosiddetta teoria cognitiva offrono una visione alternativa riguardo a come il nostro cervello associa i significati alle azioni. Punto chiave di questa ipotesi è che le rappresentazioni concettuali sono immagazzinate in aree prettamente concettuali che si trovano al di fuori del sistema sensorimotorio (Mahon e Caramazza, 2008; Papeo et al., 2009; Hickok, 2009). In altre parole, l’informazione semantica riguardante le azioni non dipenderebbe da un programma motorio specifico ma è astratta e si trova in regioni non-motorie.

Come abbiamo visto nel precedente paragrafo, le regioni motorie rispondono durante compiti che coinvolgono l’elaborazione di azioni. Rizzolatti e collaboratori (2001 p.6610) affermano che una

azione è compresa quando la sua osservazione causa una risonanza nel sistema motorio dell’osservatore.

I sostenitori della teoria cognitiva non negano che ci sia un’attivazione delle regioni motorie, ma rispondono che questa risonanza potrebbe essere la conseguenza di una connessione associativa con aree concettuali, o avere comunque altre funzioni meno specifiche. Questo significherebbe che quando osserviamo un’azione, prima viene attivata l’area concettuale non-motoria che contiene tutte le informazioni relative al significato dell’azione e che ci permette di comprendere l’azione, e solo in un secono momento, tramite connessioni associative, viene attivata l’area premotoria.

Studi neuropsicologici hanno esaminato le conseguenze di lesioni all’emisfero sinistro durante lo svolgimento di compiti in cui veniva chiesto di elaborare il significato di azioni. Se il riconoscimento e l’esecuzione di un’azione si basano sullo stesso meccanismo neurale, come sostiene la teoria motoria, allora entrambe le abilità dovrebbero essere compromesse quando le strutture neurali motorie e premotorie sono danneggiate (Pazzaglia et al., 2008). Al contrario, numerosi studi mostrano doppie dissociazioni tra riconoscimento di azioni e esecuzione di azioni (Rumiati et al., 2001; Negri et al., 2007; Kalénine et al., 2010; Urgesi et al., 2014). Questo significa che ci sono pazienti che non sono in grado di eseguire correttamente un’azione, ma sono però in grado di comprendere e interpretare le azioni altrui (Vannuscorps e Caramazza, 2016) e viceversa. Questi risultati vanno in direzione opposta rispetto a coloro che sostengono la teoria pura dei neuroni specchio. Questi studi, esaminando la connessione tra luogo della lesione e performance hanno individuato nella corteccia temporale e in particolare nel giro temporale mediale posteriore (pMTG) l’area concettuale dove sarebbe immagazzinata l’informazione concettuale delle azioni.

Questo risultato viene confermato da studi di fMRI che non solo mostrano l’attivazione di pMTG durante l’elaborazione di azioni, ma, tramite tecniche più avanzate, come il multivoxel pattern analysis (MVPA) mostrano come la corteccia occipito-temporale contenga informazione più astratta (e quindi la rappresentazione dell’azione distaccata dalla sua componente motoria), mentre il giro precentrale informazione di più basso livello (come può essere la chinematica di un movimento, la sua direzione ecc… – Wurm e Oosterhof, 2013; Lingnau, 2015; Wurm et al., 2015). Inoltre, in un recente studio di TMS, è stato dimostrato che la perturbazione di pMTG (collocato nella corteccia occipitotemporale) porta ad una interruzione del processo di riconoscimento semantico dei verbi (Papeo et al. 2014) e un’interruzione delle connessioni tra pMTG e l’area premotoria.

Neuroni specchio: spazio alle teorie moderate

Gli studi sopracitati suggeriscono quindi che l’informazione concettuale delle azioni è astratta ed è rappresentata nel lobo temporale e non nelle aree motorie e premotorie come sostiene le teoria motoria.

Si è visto come la teoria motoria e la teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni si basino su due diverse assunzioni: la teoria motoria sostiene che il contenuto concettuale è costituito dall’informazione che è rappresentata nel sistema sensorimotorio e che quindi l’attività dei neuroni specchio è fondamentale per riconoscere il significato di un’azione. La teoria cognitiva, invece, sostiene che le rappresentazioni concettuali sono simboliche e astratte e che sono immagazzinate in aree concettuali al di fuori del sistema sensorimotorio e più in particolare, nella corteccia occipitotemporale e che quindi l’attività dei neuroni specchio non è necessaria per riconoscere il significato di un’azione. Queste due teorie si collocano a due estremi opposti e tendenzialmente una esclude l’altra. Tuttavia, tra questi due estremi si trovano altre teorie più moderate che, sbilanciandosi più verso un estremo o verso l’altro, cercano di conciliare queste due visioni.

cancel