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La verità è enormemente sopravvalutata: la diagnosi differenziale tra pseudologia fantastica e confabulazione

Da piccolo, avrò avuto tra i 5 e i 10 anni, mi trascinavano a comprare i vestiti (la biancheria immancabile regalo di Natale proveniva dalle bancarelle del mercato rionale) in un negozietto all’angolo di via Piave che si chiamava “La Madre di famiglia”.

 

Si andava lì sia perchè molto più economico dei grandi magazzini adiacenti (la lussuosa Rinascente di piazza Fiume con il suo avverinistico palazzo con le scale mobili, orgoglio della ricostruzione del dopo guerra che aveva aperto da poco) e sia perché i gestori regalavano ai clienti bambini un palloncino gonfiato con l’elio con il nome del negozio. Era esattamente per questo secondo motivo che si aggiungeva alla più generale insofferenza di ogni bambino alle prove degli indumenti, che cercavo in ogni modo di evitare “La madre di famiglia”.

Potrei proporre argute interpretazioni psicoanalitiche sulla mia avversione, collegando la perdita di mia madre e il nome del negozio. Sarebbe bello e commovente ma falso come una moneta da 3€. Non era ciò che mi dicevo allora almeno coscientemente, anzi quello era il tempo in cui dell’essere orfano di madre avvertivo soprattutto gli innumerevoli vantaggi sociali che mi hanno poi indirizzato alla efficace strategia relazionale del “poveretto me!!”.

Il fatto è che durante il percorso verso casa il palloncino legato con un filo al mio polso sinistro si librava guizzante proteso verso il cielo (talvolta il filo si spezzava e mi struggeva vederlo scomparire in quell’infinito azzurro dove mi dicevano, senza che li abbia mai creduti, si collocavano gioiosi tutti gli assenti insieme agli angeli, i babbi natali e le befane della compagnia del bambinello sempre vigilante e pronto a lacrimare ad ogni mia disobbedienza), ma una volta giunti a casa veniva staccato dal polso e raggiungeva il soffitto nello sgabuzzino in fondo al corridoio. Siccome spettava un palloncino per ogni capo di abbigliamento acquistato di importo superiore alle cinquemila lire a volte tornavo a casa anche con tre e persino quattro palloncini di colori diversi tanto più sbiaditi quanto più gonfiati e con la superficie tesa. Gagliardi si spalleggiavano affollandosi verso il soffitto ed immaginavo si tenessero compagnia l’un l’altro, soprattutto la notte con la luce spenta. Col passare dei giorni (metafora della vita?) perdevano turgidità, si ammosciavano e la superficie si increspava di rughe. La visione di questo progressivo avvizzimento mi procurava una melmosa malinconia in cui mi pareva di sprofondare specialmente al tramonto. Almeno due volte, mosso da pietas raggiunsi con uno sgabello il filo del palloncino più sgonfio – e dunque più calato degli altri- per porre fine con uno spillo da balia di nonna a quelle che reputavo le sue indicibili sofferenze. Ero evidentemente fin da allora favorevole all’eutanasia.

Quando compravo un nuovo disco in vinile a 45 o 33 giri lo facevo ascoltare a tutti gli altri che già avevo perché non si sentissero trascurati e lo accogliessero benevolenti tra loro. Procedura analoga quantunque più sbrigativa valeva anche per i libri: la presentazione si limitava alla lettura della copertina e ad un rapido sfogliare per tre volte le pagine in cui sarebbe stato facile intuire la tendenza ossessivo-compulsiva in seguito perfezionatasi.

Alle elementari durante la ricreazione la maestra Maria Eleonora Vincenti mi chiamava alla cattedra a raccontare una storia che dovevo inventare in diretta con due o tre elementi che mi forniva lei per tenere buoni gli altri bambini. Il giorno successivo la storia continuava come in una serie tv aggiustata secondo le richieste degli amichetti e soprattutto delle ragazzine più carine.

Dopo un intenso apprendistato autoerotico su zie, cuginette, domestiche e insegnanti con l’aiuto del catalogo di intimo di postal market e qualche esplorazione omosessuale, avevo quasi 15 anni quando la mia ragazza di allora venne a trovarmi accompagnata da un’altra compagna di classe al campo scout nel parco nazionale d’Abruzzo e, sperando che avrebbe dormito nella mia tendina canadese, mi feci insegnare a baciare da un altro caposquadriglia che millantava una maggiore esperienza, dimostratasi inconsistente la notte stessa proprio con la compagna di classe accompagnatrice. Della notte ho ricordi confusi quantunque vi abbia collocato convenzionalmente il mio primo rapporto sessuale (quante date fondamentali nel percorso di una vita e della Storia stessa sono di fatto convenzionali perché la maggior parte delle transizioni sono un continuum senza soluzioni e gradini netti). Molto più nitida è l’immagine della lambretta 125 bianca con l’odore della miscela al due per cento che mio padre mi comprò a patto che lasciassi quella ragazza che giudicava una poco di buono. Cedetti immediatamente al ricatto ma poiché non mi sembrava corretto rispettare gli accordi con un bieco ricattatore utilizzai poi la Lambretta stessa per andare più rapidamente da lei. Non insegnano anche i “Promessi sposi” che persino i voti fatti alla Vergine non sono validi se assunti in stato di necessità?

Il giorno della mia laurea in pieno luglio sono stato rimandato dalla commissione a cambiarmi perché non ero in giacca, tornato a casa ho indossato un abito invernale di mio padre e sono dovuto tornare in università a piedi di corsa perché era finita la miscela nella suddetta lambretta.

Ma tutto quanto scritto sopra sarà vero o è solo nella mia fantasia?

Potrei continuare pagine e pagine con brandelli di ricordi tutti rappresentati con sequenze di parole ma privi di componenti sensoriali ed emotive e inoltre cronologicamente completamente confusi. Macchie oleose confuse e mutevoli galleggianti in un mare di amnesia che mi fa dubitare di aver fatto le elementari e persino il liceo. Ad esempio neppure un piccolo barlume riguardo all’esame di maturità che sento dire ricorra non di rado nei ricordi e persino nei sogni di molti. Dell’ingresso alla scuola di specializzazione o del primo giorno di lavoro a Civita Castellana ricordo il racconto che tante volte ne ho fatto ma nulla di più tangibile o sensoriale. Questo oblio mi insegue. Angosciato lo sento sempre più sopraggiungere al galoppo alle mie spalle e l’allarmante deterioramento cognitivo ovviamente non aiuta. Inghiotte vorace ogni cosa e trasforma in fantasmi inodori, insapori e inconsistenti luoghi, avvenimenti e persone. L’incalzare dell’oblio lo sento più veloce dello scorrere del tempo ed ho il timore che ad un certo punto metta la freccia, mi sorpassi e divori anche il presente. Forse sarà questa la demenza: la working memory di un pesce rosso che ci appiattisce in un’unica dimensione di presente puntiforme e assoluto in cui è rappresentato solo l’ultimo bite informativo. Non è detto che sia poi così male, vedremo!

Sono convinto che la verità sia enormemente sopravvalutata.

Ho sempre detto un sacco di bugie, alcune per perseguire i miei scopi e dunque avere dei vantaggi, e queste mi sembrano le più “ sane” e persino indice positivo di una buona costruzione della mente altrui e delle strategie per manipolarla. Altre per esaltare la mia immagine agli occhi degli altri e soprattutto ai miei. Ricordo da ragazzino che raccontavo di avere una flotta di piccoli aerei telecomandati che facevo volare in formazione su tutta l’Italia. Il loro utilizzo era direttamente proporzionale alle frustrazioni reali. Erano né più né meno che delle fantasie consolatorie come quella che immaginavo nel mio letto se una giornata era stata particolarmente dolorosa. Quella in cui ero un pilota di formula uno che, costretto a partire in ultima fila e con il muletto per le ingiustizie degli arbitri di pista, vinceva il gran premio sebbene si fosse fermato due volte a far pipì a bordo pista ed una volta persino per un picnic.

Credo che per queste mi meriti la diagnosi ormai poco usata di “pseudologia fantastica” o “ mitomania” o “ bugiardo patologico” considerato che la pseudologia fantastica è una categoria nosografica descritta per la prima volta da Anton Delbrück nel 1891, caratterizzata dal ricorso abituale alla bugia che può riguardare i più disparati eventi o argomenti (per esempio: luoghi diversi, avventure galanti, situazioni improbabili, ecc.), talora amplificati parossisticamente fino a raggiungere gradi altissimi di inverosimiglianza. Viene giudicata un prodotto diretto dell’immaginazione le cui caratteristiche principali sono:

  • Le storie raccontate sono di solito avvincenti e fantasiose, ma non vanno mai oltre la realtà. La possibilità di verità è la chiave di sopravvivenza del bugiardo patologico.
    Durante il confronto il bugiardo patologico può ammettere che le storie non sono vere, anche se controvoglia e vergognandosi un po’ mentre si arrampica sugli specchi per giustificarsi, il che lo porta a sviluppare notevoli doti dialettiche
  • La tendenza ad inventare storie è cronica; non è provocata dalla situazione immediata o da pressioni sociali, ma più da un innato tratto della personalità.
    Un motivo totalmente personale, e non esterno, serve a discernere la patologia clinicamente: es., situazioni pericolose o di stress possono indurre una persona a mentire ripetutamente, ma in questi casi non si può considerare patologico
  • Le storie raccontate tendono a dipingere come positiva la persona del narratore. Il bugiardo “decora la sua stessa persona” raccontando storie che lo presentano come eroe o come vittima. Per esempio, la persona si presenta nelle storie come estremamente coraggiosa, dice di conoscere persone importanti e famose o di guadagnare più soldi di quanti ne guadagni in realtà. In un verso o nel verso opposto comunque “esagera”.

Un ulteriore motivo del mio mentire che peraltro lo giustifica ai miei occhi come un semplice adeguamento per meglio comunicare è il bisogno di ingigantire i fatti per renderli all’altezza dell’intensissima emozione che mi hanno suscitato e che altrimenti l’interlocutore non capirebbe. E’ come se per far davvero capire il mio vissuto interiore, ciò che più conta, debba ingigantire i fatti per renderli ad esso proporzionali. Si tratta dunque di ricercare una comunicazione davvero autentica e sincera attraverso la menzogna.

Al di là delle diverse cause che giustificano il mentire, una delle conseguenze più allarmanti è che non riesco più a distinguere il vero dal falso, ciò che è davvero accaduto da ciò che ho e mi sono raccontato. Inizio ad avere il dubbio che proprio la circostanza che alcuni fatti sembro ricordarli sia la prova certa della loro irrealtà e costruzione per via della pseudologia fantastica mentre la realtà vera sia l’assoluto nulla. A volte mi chiedo se sia mai nato o tutto questo sia il farneticare di un feto ancora al calduccio nel ventre materno.

In questo vuoto pneumatico della mia esistenza che cresce con l’aumentare dell’età si espande rigogliosa la tendenza alla confabulazione, sintomo frequente in alcune malattie psichiatriche, dovuto alla falsificazione dei ricordi per cui il malato colma lacune di memoria con invenzioni fantastiche e mutevoli, oppure trasforma in modo non intenzionale i contenuti della memoria stessa. E’ frequente in alcune forme di schizofrenia, nella sindrome di Korsakov, nella lue cerebrale, durante l’uso di droghe e nella sindrome da astinenza da esse (la totale sospensione di ogni forma di alcolico non ha per nulla mutato la situazione). Nella demenza senile è associata a falsi riconoscimenti di persona, perché è assente la memoria dei fatti recenti: ai ricordi perduti il paziente sopperisce con invenzioni fantastiche.

La confabulazione subentrante, intrecciandosi con la preesistente pseudologia fantastica, crea non pochi problemi di diagnosi differenziale quantunque entrambe non siano che due obbedienti orchestrali agli ordini del direttore d’orchestra: il maestro “narcisismo”.

Autoinganno – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 35

Teniamoci stretto Autoinganno, fedele servitore, capace di non alzare lo scontro e mantenere leggere coerenze.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Autoinganno Nr. 35

 

Spesso e volentieri la realtà è davvero disturbante e viene avanti con i suoi cosiddetti “fatti” a rompere le uova nel paniere, volendo affermare la sua indipendenza dai nostri desideri, come se avesse esistenza autonoma senza che qualcuno la pensi: la sua arroganza è intollerabile.

Per fortuna un robusto buttafuori vigila l’ingresso e lo consente solo a chi è gradito al padrone di casa e sa come dargli sempre ragione, cosa cui il capo tiene molto non tollerando incertezze o peggio disconferme.

L’ autoinganno è un signore deciso ma educato che accompagna i respinti nella cantina dell’oblio da dove eventualmente ritirarli fuori in caso di radicale conversione, talvolta nel grande parco della disattenzione dove possono fare ciò che vogliono senza che nessuno vi badi oppure nel recinto della sterilizzazione dove ognuno viene castrato con una ipotesi ad hoc a sua misura.

Così dentro si respira un clima sereno, in un ambiente raffinato dove tutto torna senza sbavature e contraddizioni.

Unica modesta incombenza per gli invitati, la recita delle lodi del padrone con la cadenza della preghiera delle ore.

Alcune parti del salmo restano le stesse per tutta la vita, altre sono transitorie; e non si creda che si tratti sempre di lodi. C’è chi preferisce essere denigrato, svalutato, l’importante è che il ritornello sia stabile e riconoscibile, quale che sia.

L’ambiente interno è protetto dalla vigilanza sulla soglia che quando sente crescere il tumulto dei fatti che protestano e spintonano per entrare a turbare le stabili armonie interne, come alla prima della Scala a Sant’Ambrogio, chiama prontamente i rinforzi con la campanella dell’angoscia che allerta tutti per la difesa dell’identità personale.

Il primo ad accorrere è il fratello maggiore del signor autoinganno un armadio di due metri che tutti chiamano confidenzialmente “Del” non si sa se per “delete= eliminare” o per “delirio” – ammesso che ci sia differenza. Del è molto meno garbato del fratellino e del resto è chiamato solo in situazioni di minaccia grave. Volano gli insulti e poi gli schiaffoni, i pugni e i calci. Il padrone di casa che non riusciva a dormire per il suono continuo della campanella si affaccia alla finestra per seguire apprensivo l’esito della rissa. Quando le truppe comandate da Del sembrano sul punto di prevalere e consegnare tutto il potere alla dittatura del desiderio del padrone ecco spuntare tutto intorno le milizie infinite del senso comune formate da empiristi fanatici dei fatti. In un attimo gli equilibri in campo si ribaltano.

Il padrone, Del e Autoinganno vengono portati via con una camionetta camuffata da ambulanza in modernissimi centri dove solertissimi medici li riporteranno alla ragione.

In un momento di disattenzione Del e il padrone sono saltati oltre il davanzale. Autoinganno invece si è messo al servizio del primario del reparto e ora vivono insieme con reciproca soddisfazione.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Daniel Kahneman: come si prendono le decisioni – Introduzione alla Psicologia

Daniel Kahneman vinse il Nobel per i suoi studi sui processi decisionali, che sono diventati dei capisaldi anche in ambito economico.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Daniel Kahneman nasce il 5 marzo 1934 a Tel Aviv. Trascorre la sua infanzia a Parigi dove si era trasferito con la sua famiglia, di origine ebraica, dalla Lituania.

Daniel Kahneman: l’infanzia e gli studi che gli valsero il Nobel

Negli anni ’40, con l’avanzata nazista, il padre viene arrestato durante il primo rastrellamento degli ebrei francesi e rinchiuso nel campo di concentramento di Drancy. Successivamente viene rilasciato, per merito del suo datore di lavoro.

Durante gli anni della guerra Daniel Kahneman e la sua famiglia si spostano da un paese all’altro, riuscendo a sopravvivere e nel 1948 si trasferiscono in Palestina, prima della creazione dello Stato di Israele.

Nel 1954 Daniel Kahneman si laurea presso la Hebrew University di Gerusalemme in Psicologia. Nel 1958 si trasferisce negli Stati Uniti presso l’università della California a Berkeley per conseguire il dottorato di ricerca in psicologia (1961-70) e in seguito presso lo stesso ateneo fu nominato professore di psicologia.

Nel 1993 ricevette la nomina come professore alla Princeton University, dove ancor oggi insegna come Professore emerito di psicologia.

Kahneman è il secondo psicologo al mondo ad aver ottenuto il Premio Nobel, grazie alle ricerche svolte che aiutarono a comprendere e a individuare i processi decisionali in ambito economico.

Tramite la collaborazione con Tversky e alla formulazione di teorie microeconomiche, riuscì a spiegare come il comportamento decisionale non derivi da processi razionali finalizzati al raggiungimento di uno scopo utile per l’individuo.

Kahneman: le teorie su bias e euristiche

Daniel Kahneman iniziò a lavorare per le Forze Armate Israeliane, dove valutava l’idoneità dei candidati. In questi anni notò di aver commesso errori di giudizio nella selezione dei candidati. Per questo, si interessò ai meccanismi alla base dei processi che dal giudizio portano alla presa di decisione.

Nel 1968, cominciò a lavorare con Tversky sulle modalità decisionali in campo economico. Partendo dalla psicologia cognitiva e dai processi mentali, Daniel Kahneman intendeva comprendere come si sviluppino i giudizi e quali siano i processi che portino a prendere delle decisioni piuttosto che altre.

Kahneman e Tversky realizzarono una serie di esperimenti aventi lo scopo di comprendere cosa induce a una scelta in contesti dominati dall’incertezza e con limitate risorse individuali.

Secondo Daniel Kahneman la mente umana esegue due tipologie di pensiero: razionale e intuitivo. Il pensiero razionale funziona in maniera lenta, sequenziale, faticosa e controllata, mentre il pensiero intuitivo è veloce, automatico, senza sforzo, associativo e difficile da controllare (Kahneman & Egan, 2011).

I risultati delle loro ricerche in questo ambito hanno portato all’individuazione di percorsi mentali utili a giungere a delle conclusioni. Si tratta delle euristiche o scorciatoie mentali che suppliscono i processi di pensiero razionale.

Le euristiche consentono di creare una prima impressione, e di arrivare in maniera rapida, veloce e senza sforzo a delle conclusioni. Le euristiche sono processi mentali intuitivi, che consentono di giungere a un’idea in fretta e senza fatica. Sono, dunque, delle scorciatoie molto utili in determinati ambiti, ma pericolose in altri perché possono produrre errori di giudizio chiamati bias cognitivi.

I bias cognitivi interferiscono con il funzionamento del pensiero intuitivo, alterando la percezione di molti eventi. Questi errori di giudizio dipendono, sostanzialmente, da meccanismi universali che presiedono il recupero di conoscenze razionali, e agiscono secondo automatismi mentali che portano a prendere decisioni velocemente, ma il più delle volte sbagliate perché fondate su pregiudizi o percezioni errate o deformate. Insomma, sono decisioni prese a partire da un errore di giudizio.

Nel 2002 Kahneman Shane  sostennero che l’euristica cognitiva funzioni per mezzo di un sistema chiamato “sostituzione dell’attributo“, che si attiva senza essere consapevoli. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso, lo si sostituisce con un attributo euristico calcolato più semplicemente e rapidamente accessibile, perché legato a ragioni cognitive o affettive.

L’eurisma, invece, è lo schema mentale, che impedisce il corretto svolgimento del procedimento euristico. Esso comporta, dunque, una sorta di ancoraggio a ciò che appare più visibile, impedendo di leggere più in profondità e di attivare la parte creativa e intuitiva della mente.

Daniel Kahneman: la teoria del prospetto

Successivamente, Kahneman e Tversky ampliarono i loro studi ed estesero le loro ricerche spostandosi all’ambito economico. Inizialmente, criticarono la teoria dell’utilità attesa (Von Neumann e Morgenstern, 1944; 2007), che stabilisce le condizioni secondo cui una decisione può essere definita razionale, e fornisce una descrizione di come effettivamente si comportano gli individui di fronte a una presa di decisione.

La teoria del prospetto, proposta dai due scienziati, differisce dalla teoria dell’utilità attesa, poiché nella formulazione della teoria il concetto di valore, sostituisce quello di utilità. Tutto questo porta a un vero e proprio cambiamento di prospettiva nella determinazione del processo volto a individuare la scelta da compiere.

Quindi, mentre l’utilità è considerata in termini di benessere raggiungibile, il valore è definito in termini di guadagni o di perdite non riferito alla posizione finale del soggetto, ma alle variazioni della ricchezza. Per questo, le persone tendono a valutare i due eventi separatamente, e a considerare più importante la perdita rispetto al guadagno.

La teoria del prospetto evidenzia come in una condizione di rischio, si possa giungere in maniera probabilistica a una data soluzione basandosi su evidenze empiriche. Attraverso numerosi esperimenti, Kahneman e Tversky dimostrarono come le scelte fatte violano sistematicamente i principi della razionalità economica.

In particolare si verificano i seguenti fenomeni psicologici:

  • Effetto contesto: il contesto o frame in cui avviene la scelta, influenza la scelta stessa. Quindi, il modo in cui il problema è formulato influisce sul modo in cui l’individuo valuta le proprie azioni. Per cui formulazioni diverse di uno stesso problema portano a prendere decisioni differenti
  • Effetto certezza: la volontà a evitare una perdita è superiore alla motivazione a realizzare un guadagno. Per questo, la stessa decisione può dare origine a scelte opposte se gli esiti sono rappresentati al soggetto in termini di perdite piuttosto che come mancati guadagni
  • Effetto di isolamento: consiste nella tendenza a isolare probabilità consecutive, invece di trattarle insieme. Nella fase di valutazione, si tende a individuare un valore sulla base dei risultati potenziali e sulle probabilità di avere l’utilità maggiore. Quindi, spesso ci si focalizza sulle soluzioni non adeguate, che portano a scelte incoerenti o isolate, ma la probabilità di ricevere un lauto guadagno incrementa l’attrattiva di questa opzione.

Secondo Kahneman e Tversky la Teoria del Prospetto ha una duplice valenza:

  • le persone ragionano in termini di guadagni e di perdite, piuttosto che guardare alla ricchezza
  • le decisioni sono determinate dai risultati che derivano dalla verificabilità della scelta. In particolare, nel caso di scelte positive la persona dimostra un’avversione alle perdite, invece in presenza di premi negativi il soggetto tende ad effettuare un “Reflection Effect” cioè a invertire l’ordine delle preferenze individuando solo la soluzione finale senza considerare le perdite. Quindi, se la persona non ama rischiare in questo caso lo farà.

Kahneman e Tversky sostennero che le scelte soggettive derivino da operazioni di semplificazione, annullamento e considerazione dell’influenza del contesto. Quindi, la stessa persona può compiere scelte diverse di fronte allo stesso problema proprio a causa della presenza di un processo alla base poco scientifico e difficilmente ripetibile.

Per questo, il comportamento assunto dalle persone non corrisponde a ciò che tradizionalmente è descritto dai modelli economici, poiché si tende a non massimizzare l’utilità attesa seguendo regole razionali, ma il tutto è determinato da credenze soggettive cognitive.

Questa rivoluzionaria teoria fu pubblicata sulla rivista Econometrica nel 1979 nell’articolo “Prospect Theory: An Analysis of Decisions Under Risk”, e divenne il lavoro più importante, che portò a Daniel Kahneman il Premio Nobel per l’Economia nel 2002. Tversky, purtroppo, decedette nel 1996.

Negli anni ’90 Daniel Kahneman si è dedicato allo studio della psicologia edonica e nel 2011 ha pubblicato il suo best-seller “Thinking, Fast and Slow”. Inoltre, il giornale Foreign Policy lo ha inserito nella lista dei migliori studiosi al mondo.

Nel 2015 The Economist lo introduce al settimo posto nella classifica degli economisti più influenti al mondo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La terapia dei due cartellini – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 33

Affrontare i disturbi d’ansia significa mettere in atto la terapia dei due cartellini e imparare a muoversi all’interno di due momenti che potremmo definire uno in “levare” e l’altro in “mettere”. Con questi termini intendiamo rispettivamente la critica delle proprie credenze irrazionali e l’accettazione di ciò che potrebbe succedere e non è possibile cambiare.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La terapia dei due cartellini (Nr. 33)

 

La terapia dei due cartellini: non si tratta di nulla di innovativo ma della simpatica definizione data da un mio paziente per il proprio personale utilizzo alla terapia dei disturbi d’ansia che, gli avevo spiegato, prevede sostanzialmente due momenti: uno in “levare” e l’altro in “mettere”.

Quello in “levare” corrisponde alla rassicurazione, ovvero cerca di convincere l’interessato che l’evento temuto non è così probabile come da lui stimato. È quello che fanno tutti, amici e parenti, pur senza essere specializzati. Non è molto originale, spesso non risolutivo perché le rassicurazioni sono come le ciliegie, una tira l’altra e non bastano mai e non si giunge alla madre di tutte le rassicurazioni.

Una mia paziente ipocondriaca che ogni volta portava le proprie preoccupazioni di avere malattie mortali suffragate da ricerche su internet guidate dall’attenzione selettiva, un giorno giunse in terapia con aria trionfante dicendomi “dottore questa volta non mi tiri fuori scuse: ho un tumore al rene”. Chiedendole quali sintomi e che prove avesse mi rispose “ho visto su internet che il tumore renale può essere completamente asintomatico”.

Ho chiamato movimento del “levare” quello della rassicurazione perchè si tolgono prove a sostegno del verificarsi dell’evento temuto e dunque esso è molto meno probabile di quanto appaia al paziente.

Disturbi d’ansia e bias cognitivi: a cosa servono i cartellini?

Dicevo prima che questo lo fanno già amici e conoscenti e dunque per meritarci la nostra ricompensa dobbiamo farlo in modo più efficace e penso che tale efficacia non debba risiedere nella presunta nostra autorità o autorevolezza “è così perchè glielo dico io che sono esperto” ma fondato sulla ragionevolezza e deve dunque evidenziare tutti quei bias cognitivi che portano ad una sovrastima della probabilità:

  • better safe than sorry
  • euristica della rappresentabilità
  • attenzione selettiva
  • errato calcolo delle probabilità multiple
  • pensiero magico
  • ecc
  • ecc
  • ecc

Il paziente va abituato a riconoscerli e immunizzarli tornando ad un ragionamento corretto.

Il primo cartellino, giallo come quello dell’ammonizione nel gioco del calcio, è dunque quello dell’improbabilità che tuttavia non è mai impossibilità. Anche le cose più improbabili possono verificarsi.

Il secondo cartellino ideato dal mio paziente corrisponde alla più profonda pratica dell’accettazione, lo volle rosso come quello dell’espulsione e lo chiamò “e sti cazzi?” .

Mi piace chiamarlo il movimento del “mettere” perchè si tratta di popolare con previsione l’ignoto, l’area temuta proprio perchè ritenuta impensabile. L’ignoto, come il buio, si popola di mostri. Ellis molti anni prima aveva chiamato tale pratica, più elegantemente decatastrofizzazione, cercando di far vedere al paziente gli effetti reali dell’evento negativo non aggiungendovi ulteriori terribili e improbabili catastrofi.

Essere bocciati ad un esame comporta aver perso alcune settimane o mesi di studio, non il non valere niente, essere la feccia dell’umanità e finire abbandonato da tutti.

Nel mio sfrenato ottimismo ho pensato di arricchire questo secondo cartellino con le nuove possibilità che il temuto fallimento può aprire. Ad esempio, solo chi perde i genitori può andare alle gite per gli orfani, solo le vedove possono ritrovare nuovi sollazzi senza sentirsi in colpa, gli invalidi hanno la pensione e il parcheggio sotto casa.

Con il mio paziente abbiamo arricchito il cartellino giallo dell’ammonizione dell’ansia elencando sul retro tutti i bias con cui si finisce per sovrastimare le probabilità. Sul retro del cartellino rosso “e sti cazzi?”, il suo preferito, abbiamo messo una schedina per l’immaginazione guidata su come sarebbe esattamente la sua esistenza nella condizione temuta, che invita a guardare ad altri che la stanno vivendo con una particolare attenzione e ad elencarne anche opportunità e vantaggi.

Il mio paziente va fiero con i suoi cartellini nel taschino.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Oltre le risposte: in ricordo del Prof. Gerald Francis Morris Russell (1928-2018), pioniere nella ricerca e nel trattamento dei disturbi alimentari

Il prof. Gerald Francis Morris Russell, un pioniere nella ricerca e nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, è morto a 90 anni il 26 luglio 2018, circondato dall’affetto dei cari.

 

Studente al George Watson’s College di Edimburgo, si è laureato in medicina nel 1950 presso l’Università di Edimburgo dove, nel 1957, ha ottenuto un dottorato di ricerca in neurologia. Dal 1971 al 1979 è stato professore e psichiatra consulente presso il Royal Free Hospital di Londra e dal 1979 al 1993 è stato professore presso l’Institute of Psychiatry del Maudsley Hospital di Londra, dove ha fondato il reparto dei disturbi dell’alimentazione che ha preso il nome il suo nome. Dal 1993 al 2014 ha lavorato presso il Priory Hosp Hayes Grove, a Bromley, nel Kent.

Nella sua lunga carriera lavorativa, durata fino a 86 anni, il Prof. Gerald Russell ha pubblicato numerosi articoli scientifici e libri che hanno esplorato le cause, le conseguenze e il trattamento dei disturbi dell’alimentazione.

Gerald Russell e la bulimia nervosa

Il suo successo accademico più notevole è stato la pubblicazione nel 1979 su Psychological Medicine del seminale articolo “Bulimia nervosa: An ominous variant of anorexia nervosa” in cui ha descritto, in uno studio longitudinale, 30 pazienti selezionati per la presenza di due caratteristiche: (i) l’irresistibile bisogno di mangiare troppo, seguito dal vomito auto-indotto o da condotte purgative e (ii) la paura d’ingrassare.

La maggior parte di questi pazienti, affetti da un disturbo a cui diede il nome di “bulimia nervosa”, riportava una precedente storia di anoressia nervosa “vera” o presunta e utilizzava il vomito e le condotte purgative per contrastare gli effetti dell’eccesso di cibo assunto e prevenire l’aumento di peso. Nell’articolo, il Prof. Gerald Russell ha sottolineato che i comportamenti di compenso erano pericolosi per la salute, perché creano assuefazione e determinano perdita di potassio e altre gravi complicazioni fisiche. In comune con l’anoressia nervosa, i pazienti descritti dal prof. Gerald Russell erano determinati a mantenere il loro peso al di sotto di una soglia autoimposta, ma a differenza dei pazienti affetti da anoressia nervosa, erano a un peso normale, sessualmente più attivi e mantenevano, con più frequenza, la funzione ovarica e la fertilità. Inoltre, soffrivano di gravi e angoscianti sintomi depressivi che li portavamo ad avere un alto rischio di suicidio. Nell’articolo viene descritto anche un modello teorico, in cui si sottolinea l’interdipendenza dei vari sintomi e il ruolo dei meccanismi auto-perpetuanti nel mantenimento del disturbo. Inoltre Gerald Russell ha suggerito che gli obiettivi principali del trattamento dovrebbero essere quelli di interrompere il circolo vizioso di eccesso di cibo e vomito auto-indotto (o condotte purgative) e di convincere i pazienti ad accettare un peso maggiore. L’articolo si conclude affermando che la prognosi sembra essere meno favorevole rispetto a quella dell’anoressia nervosa non complicata.

Dopo la pubblicazione di questo articolo, la bulimia nervosa è stata rapidamente assimilata come nuova forma di disturbo dell’alimentazione. Il disturbo è stato incluso nella terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico della Malattie Mentali (DSM-III), dapprima con il termine di bulimia e poi, nelle versioni successive, con quello di bulimia nervosa coniato dallo stesso Gerald Russell. Inoltre, nel 1992, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con la pubblicazione dell’ICD-10, riconosce la bulimia nervosa come una malattia distinta. È da sottolineare che, sebbene i criteri diagnostici della bulimia nervosa siano stati raffinati dalle varie versioni del DSM, essi sono ancora molto simili a quelli descritti elegantemente e con grande intuizione clinica dal prof. Gerald Russell.

La sua descrizione dettagliata dei criteri diagnostici positivi della bulimia nervosa ha permesso di eseguire studi epidemiologici sulla prevalenza e sull’incidenza di questa patologia e di far luce sulla presenza di trattamenti non adeguati. Per far fronte a questo problema negli anni ottanta e novanta del 900 sono stati sviluppati trattamenti specifici per la bulimia nervosa, come la terapia cognitivo comportamentale, che prendendo spunto dal modello teorico e dai suggerimenti sul trattamento forniti da Russell, hanno dimostrato di essere in grado di guarire un’ampia proporzione di pazienti, sconfermando la sua stessa ipotesi sull’intrattabilità di questo disturbo.

L’anoressia nervosa e la terapia familiare

Il secondo importante traguardo raggiunto dal prof. Gerald Russell è stato la progettazione e la direzione di uno studio controllato e randomizzato che ha confrontato due trattamenti finalizzati a prevenire la ricaduta dei pazienti affetti da anoressia nervosa dopo la dimissione da un ricovero ospedaliero. In questo studio è stata confrontata la terapia familiare (il modello di Maudsley – oggi chiamato dagli americani Family-Based Treatment) con la terapia individuale. Nel progettare lo studio, Russell ha riconosciuto l’importanza della stratificazione dei pazienti decenni prima che il termine fosse inventato e ha ipotizzato che la durata della malattia moderasse l’effetto del trattamento. Lo studio ha permesso di scoprire che la terapia familiare (il modello di Maudsley) ha ridotto il tasso di ricaduta nei pazienti di età inferiore ai 18 anni con una durata del disturbo inferiore a tre anni.

Questa scoperta (con forme varianti di coinvolgimento della famiglia) è stata replicata in molti studi e oggi l’approccio Maudsley di terapia della famiglia è raccomandato per l’anoressia nervosa degli adolescenti. Questo lavoro del Prof. Gerald Russell, non solo ha aiutato a definire un trattamento che ha funzionato, ma ha anche dimostrato come fosse possibile eseguire delle sperimentazioni randomizzate e controllate dei trattamenti psicologici, elemento che ha determinato una rivoluzione fondamentale nello studio di trattamenti basati sull’evidenza nel campo della psicoterapia e della psichiatrica.

Lo stesso Prof. Gerald Russell ha da sempre sostenuto il ruolo cruciale dei clinici alla ricerca scientifica, affermando che ogni nuovo disturbo necessita di essere osservato e descritto accuratamente prima di essere accessibile agli epidemiologi. In questo modo questi ultimi potranno riconoscere che anche i clinici sono, tra le altre cose, capaci di oggettività nelle loro osservazioni. Gerald Russell è stato anche l’unico psichiatra fino ad ora ad avere una condizione medica che porta il suo nome e cioè il “Segno di Russell”, che definisce la presenza di calli o erosioni sulle nocche o sul dorso della mano provocati da tentativi ripetuti e prolungati di indursi il riflesso del vomito, tipico proprio nei pazienti con bulimia nervosa.

Chi ha avuto il privilegio di conoscere il Prof. Gerald Russell, oltre ad aver apprezzato il suo rigore scientifico e il suo atteggiamento da vero gentleman inglese, è sicuramente rimasto affascinato dalla sua inesauribile voglia di conoscere, che lo spingeva in prima fila ad ogni congresso, con carta e penna per gli appunti. Proprio la sua umiltà ed attenzione all’ascolto gli hanno permesso, dapprima di cambiare idea sulla sua teoria che ipotizzava l’origine ipotalamica dell’anoressia nervosa, riconoscendo l’efficacia della terapia familiare, e poi, ascoltando attentamente le storie dei pazienti, di intuire la presenza di un nuovo disturbo dell’alimentazione a cui ha dato il nome di bulimia nervosa.

Il Prof. Gerald Russell ci lascia un’importante eredità come scienziato clinico e come uomo. La sua vita lavorativa è stata una continua ricerca per migliorare la comprensione dei disturbi dell’alimentazione. Non si è mai accontentato di di aver trovato “la risposta” e ha ispirato coloro che hanno imparato da lui a mantenere sempre la curiosità scientifica e l’umiltà.

 

Compassion Focused Therapy, il “potere” della compassione – Intervista al Dott. Nicola Petrocchi

La Compassion Focused Therapy integra l’approccio cognitivo comportamentale accogliendo al suo interno concetti derivanti dalle discipline orientali, principi appartenenti alla psicoterapia evoluzionistica e alla teoria dei sistemi motivazionali interpersonali, fino ad arrivare ai più moderni studi di neuroscienze e neurofisiologia.

 

Qual è la definizione di “compassione” secondo la Compassion Focused Therapy?

In quali situazioni cliniche la terapia focalizzata sulla compassione può aiutarci ad alleviare la sofferenza delle persone che seguiamo in terapia?

A queste e altre curiosità ci ha risposto Nicola Petrocchi, psicologo psicoterapeuta, dottore di ricerca in psicologia e neuroscienze sociali, trainer e supervisore Compassion Focused Therapy (CFT).

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO.

Nicola ci ha raccontato della prima volta in cui è entrato in contatto con questo modello terapeutico, ideato da Paul Gilbert, psicologo psicoterapeuta britannico e ci ha accompagnato alla scoperta delle caratteristiche che lo contraddistinguono e differenziano dalla CBT standard. La CFT viene descritta da Nicola come una cornice terapeutica entro la quale possono integrarsi con successo anche altri approcci e modelli psicoterapeutici.

La Compassion Focused Therapy è un approccio che si inserisce tra le cosiddette terapie di “terza ondata”.
 Integra l’approccio cognitivo comportamentale, e lo espande, accogliendo al suo interno concetti derivanti dalle discipline orientali, come la compassione, la mindfulness e le tecniche meditative oltre a principi appartenenti alla psicoterapia evoluzionistica e alla teoria dei sistemi motivazionali interpersonali, fino ad arrivare ai più moderni studi di neuroscienze e neurofisiologia.

Questo approccio, ci racconta Nicola, risulta particolarmente utile nelle terapie con i pazienti che soffrono di alti livelli di autocritica e che sembrano rispondere in maniera solo parziale al disputing dei pensieri automatici e alla successiva generazione di pensieri alternativi.

La Compassion Focused Therapy cerca di spiegare il funzionamento umano alla luce di 3 sistemi che regolano l’emotività e il comportamento e che condividiamo anche con le altre specie in natura: 
il sistema di protezione della minaccia, il sistema di ricerca di risorse e il sistema calmante. Lo sbilanciamento di questi 3 sistemi, in particolare una insufficiente attivazione del sistema calmante, può esporre a vulnerabilità e sofferenza emotiva come alti livelli di rimuginio, ruminazione, autocritica e conseguenti emozioni di ansia, vergona, depressione, rabbia. 

L’obiettivo della CFT è utilizzare il “potere strutturante delle motivazioni”, favorendo, attraverso diverse tecniche ed esercizi (pratiche immaginative, lavoro sul corpo, trascrizione di lettere e diari ecc.), uno “switch” verso uno stile motivazionale differente, caratterizzato da aiuto, cooperazione, compassione, che conduce a una miglior regolazione emotiva e a sperimentare un dialogo interno e interpersonale caratterizzato da maggior validazione e benevolenza.

Tale approccio, conclude Nicola, può migliorare e potenziare altri interventi psicoterapeutici che hanno già mostrato la propria efficacia, oltre ad avere delle interessanti potenzialità nei contesti di terapia di gruppo, negli interventi che utilizzano il biofeedback, nonché in contesti che vanno oltre l’ambito della psicopatologia, come il mondo del business e dell’istruzione.

Cooperazione: tra i successi e i fallimenti del comportamento cooperativo

La cooperazione è un meccanismo che ci garantisce vantaggi in coppia, nei gruppi, in società. Gli studiosi hanno analizzato cosa la favorisce e cosa la ostacola.

 

L’integrazione tra diversi approcci (antropologia, economia, neuroscienze, ecologia, psicologia sperimentale ed evoluzionistica) potrebbe essere molto utile alla comprensione dei meccanismi e delle ragioni che portano ad una cooperazione di successo o al suo fallimento, in vista dei diversi cambiamenti globali di natura socio-politica e religiosa.

Cosa motiva la cooperazione?

Cosa motiva la cooperazione, perché si sviluppa, come si verifica e perché in certi casi fallisce?

Queste sono solo alcune domande dedicate al fenomeno della cooperazione umana a cui cerca di rispondere il nuovo editoriale della rivista Nature Human Behaviour, combinando insieme contenuti provenienti da diversi campi.

Perché cooperiamo tutti insieme quando, al contrario, una scelta egoista individualista sembrerebbe quella più vantaggiosa, logica e remunerativa, all’interno di un mondo così competitivo come il nostro, in cui è necessario primeggiare?

Cooperazione e rivalità: uno studio indaga le ragioni alla base di queste tendenze

Una recente review di Hilbe e colleghi (2018) ha preso in considerazione il concetto teorico di “partnership” e quello di rivalità nei dilemmi sociali, mostrando come la competizione tenda a svilupparsi nei gruppi più piccoli di persone con un numero molto limitato di interazioni, mentre interazioni più frequenti e un contesto sociale più stabile sono in grado di incoraggiare comportamenti di cooperazione tra gli individui.

Tuttavia, per comprendere le ragioni e i meccanismi che sottostanno la cooperazione, è necessario che si osservino le dinamiche e i comportamenti quando questi si verificano nella pratica e in un contesto il più possibile veritiero.

A tal proposito Ferh & Schurtenberger (2018) si sono concentrati sull’individuazione di norme sociali fisse che condizionano in modo pervasivo i comportamenti cooperativi basate in particolare su principi di preferenza sociale, reciprocità ed equità, che in aggiunta forniscono le basi per la propensione alla punizione tra pari quando queste norme vengono violate.

Gli autori inoltre affermano che in future ricerche sarebbe interessante precisare i meccanismi che motivano gli individui a “rispettare” queste norme sociali fisse, anche osservando direttamente le loro risposte neurali mentre sono coinvolti in compiti di cooperazione o competizione.

Una cooperazione che sia di successo richiede non solo la scelta di cooperare, ma soprattutto una buona modalità comunicativa che segnali al potenziale partner la propria intenzione a cooperare.

Cooperazione: le manifestazioni comportamentali

Bird, Ready e Power (2018) hanno analizzato il comportamento delle cacciatrici Marthu, con l’intento di indagare come l’intenzione di cooperare sia comunicata agli altri, anche attraverso i gesti e i comportamenti più sottili e meno evidenti. Hanno così riscontrato come le cacciatrici di maggior successo fossero quelle che, in modo più discreto e implicito, condividevano con tutti la cacciagione rafforzando così i loro reciproci legami e distribuendo tra tutte, in modo uguale, l’onere dei rischi di mancanza di risorse (Bird, Ready & Power, 2018).

Sulla stessa scia, Aktipis e colleghi (2018) hanno evidenziato come il concetto di “interdipendenza conveniente”, cioè la dipendenza reciproca con lo scopo di sopravvivere o riprodursi, come accade tra i partner, potrebbe essere adottato come fil rouge tra le varie discipline per comprendere il motivo per cui la cooperazione è così radicata e naturale nel nostro essere umani. L’esempio dei Martu è di un sistema di condivisione del rischio e di fiducia nella necessità di decidere insieme e poi mettere in atto gli opportuni provvedimenti.

Koomen & Herrmann (2018) hanno recentemente sottolineato come i bambini, già dai sei anni, possono spontaneamente trovare delle modalità per prevenire la mancanza di risorse generando delle regole per condividere equamente i premi e distribuire equamente l’onere del mantenimento delle risorse in compiti decisionali; in aggiunta già nel 2017 McAuliffe, Blake e colleghi avevano offerto evidenze per le quali i bambini acquisiscono precocemente nozioni di imparzialità ed equità.

Cooperazione: perchè non sempre ci riusciamo

Tuttavia nel mondo reale di frequente il coordinamento e la cooperazione falliscono.

Dannenberg & Barrett (2018) hanno notato come la cooperazione tra individui adulti spesso fallisce a causa del fatto che gli individui sono incerti circa l’importanza del loro effetto su una situazione ambientale; di conseguenza è compito delle istituzioni stabilire un’opzione di collaborazione più attraente con effetti più marcati. Gli individui adulti tendono maggiormente a collaborare quando hanno in precedenza stabilito la presenza di una ricompensa o di un bene comune, mentre tendono a scontrarsi nel momento in cui è necessario mantenere una risorsa o beni già esistenti (Gächter, Kölle & Quercia, 2017).

Vado in terapia. Voglio cambiare ma non ci riesco. Perché?

Un’iniziale resistenza al cambiamento in un percorso di psicoterapia è qualcosa di naturale, spesso i pazienti si dimostrano ambivalenti rispetto al loro desiderio di cambiare. Perché sia possibile avviare un reale processo di cambiamento, un buon terapeuta dovrà essere capace di comprendere e rispettare quest’ambivalenza ed accogliere con empatia e accettazione quanto portato dal paziente.

Cinzia Borrello – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare.

(Carl Rogers)

 

Quando arriva questo fatidico momento, saremmo tutti pronti ad accoglierlo? Ad abbandonare vecchi schemi e buttarci in un abisso sconosciuto? Davvero richiediamo un cambiamento? O desideriamo sia l’altro a cambiare? E chi ci accompagnerà in questo, è in sempre in grado di poterci aiutare?

Rendere esaustivo il tema della resistenza al cambiamento in terapia psicologica appare alquanto illusorio. Ciò impone, in questa sede, il concentrarsi principalmente sul tema della resistenza ad esso, nel tentativo di porre un confine, seppur apparente, ad una trattazione tanto ampia.

Psicoterapia: quali fattori generano una resistenza al cambiamento?

Nel definire cosa si intende per resistenza al cambiamento, ci si imbatte in una definizione nella quale l’angoscia emotiva causata dalla possibilità di cambiamento assume il ruolo di cartina tornasole.

Come però sottolinea Bruno Bara (2007), la resistenza al cambiamento è attribuibile a molteplici fattori che non sono prevedibili. Alcuni fattori che potrebbero entrare in gioco in un percorso di psicoterapia e ostacolare il fluire del cambiamento sono: il contributo del paziente, la personalità del terapeuta e l’alleanza terapeutica, in aggiunta, la metodologia di intervento e altri fattori contestuali (eventi imminenti, cultura, rete sociale, etc.).

Prendendo in considerazione il contributo del paziente, Bara (2007) propone alcuni esempi di possibili impedimenti. Ad esempio, alcuni soggetti, pur essendo motivati al cambiamento, sembrano auto-boicottarsi, come avviene nella sindrome del sopravvissuto, non riconoscendosi il diritto né il permesso di poter cambiare. Altri tipi di difficoltà possono essere: le difficoltà cognitive, che portano la persona a non avere consapevolezza della necessità del cambiamento o di quanti già messi in atto; le difficoltà nel gestire la condivisione, nel definire i confini di sé e i problemi relazionali; la paura connessa al cambiamento che rende preferibile il persistere dello status quo; il non accogliere come evento possibile le ricadute, percependo come un fallimento il riproporsi di vecchi meccanismi e infine il dropout nel quale il paziente abbandona il trattamento per rifuggire nel suo passato.

Leiper (2001), distinguendo le diverse tipologie di crisi che possono avvenire in psicoterapia, sottolinea la presenza delle crisi intrinseche. Tali crisi si presenterebbero nel momento in cui il paziente percepisce una pressione emotiva suscitata dalla terapia; la sensazione di discontinuità nel senso di sé viene percepito come fonte minacciosa. Di conseguenza, nel tentativo di proteggere la propria identità, si potrebbero scatenare condizioni di agitazione, ansia, depressione o episodi psicotici.

Altri autori, come Hall e Duvan (2004), sottolineano che un ulteriore contributo apportato dal paziente potrebbe essere quello di percepire il cambiamento troppo difficile per le proprie risorse; di non avere conoscenze e strumenti adeguati a raggiungere il risultato prefissato, non essere sufficientemente motivato e spesso essere spaventato dal cambiamento stesso. Questi soggetti sembrerebbero avere una scarsa apertura al cambiamento.

Lorenzini e Sassaroli (2000) hanno sottolineato come l’essenza della patologia risieda nel blocco del processo di cambiamento, che solitamente si attiva al mancato raggiungimento di uno scopo a causa di una o più credenze che impediscono la modifica della strategia di perseguimento dello scopo e la rinuncia allo scopo stesso. Gli ostacoli consistono in credenze ben radicate che sembrano al paziente come immodificabili per scarsità di risorse personali, per abitudine o per mancanza di alternative alle credenze stesse.

Ulteriore fattore inerente al contributo apportato dal paziente potrebbe essere riconducibile alle teorie psicologiche naives (Lorenzini, Sassaroli, 2000) in quanto spesso contribuiscono a mantenere circoli viziosi che generano sofferenza e disagio. Attribuire ad esempio dei propri stati d’animo a fattori esterni deresponsabilizza il paziente, ed egli appare totalmente in balia degli altri.

Engle e Arkowitz (2006) evidenziano l’esistenza di schemi disadattivi frutto di strategie di coping messe in atto per raggirare la sofferenza data da essi. Tali stili di coping consistono sostanzialmente nell’evitamento (fuggire dalle situazioni attivanti) e la compensazione (tendenza ad assumere comportamenti tesi a ricercare ed ottenere approvazione). Evitamento e compensazione utilizzati in psicoterapia sarebbero fonte di resistenza. L’evitamento potrebbe tradursi in scarsa partecipazione e risposte dissociate, mentre la compensazione può definirsi con l’eccessivo legame e idealizzazione del terapeuta, come ad esempio spesso accade con il paziente dipendente.

Nel testo “Superare la resistenza: un approccio integrato della Teoria Razionale Emotiva Comportamentale” (2002), Ellis elenca le possibili cause della resistenza al cambiamento insite nella personalità dei pazienti. Egli evidenzia l’importanza del tenere in considerazione la gravità del disturbo, maggiore gravità corrisponderebbe ad una maggiore probabilità di resistenza. Ellis sottolinea come paura dello svelamento, bassa tolleranza alla frustrazione, autopunizione, sfiducia, pessimismo, mancanza di assunzione del rischio, perfezionismo, grandiosità, timore del cambiamento e spirito di ribellione si presentino nei diversi pazienti e siano elementi da tenere in considerazione come resistenza al cambiamento.

Le caratteristiche del terapeuta

Abbandonare credenze apprese in un contesto in cui esse risultavano adattive e funzionali, confermate da anni e anni di esperienza e volgersi in un mondo imprevedibile senza aver una credenza migliore, farebbe desistere molti di noi. Ed è qui che interviene la psicoterapia con il suo aspetto relazionale.

La relazione tra paziente e terapeuta gioca un ruolo fondamentale nel processo di cambiamento così come ovviamente nella sua resistenza.

Oltre ai fattori inerenti al paziente, quali le aspettative di aiuto, la gravità dei sintomi, la capacità di affidarsi agli altri e al terapeuta, le esperienze passate con le figure di riferimento, la motivazione al cambiamento e gli schemi cognitivi, nell’influenzare l’alleanza terapeutica e condurre al cambiamento in psicoterapia intercorrono le caratteristiche del terapeuta.

I terapeuti devono focalizzare meno sull’analizzare le resistenze del paziente e più sull’analizzare le proprie. Infatti, ogni volta che i terapeuti diventano consapevoli di una resistenza del paziente, dovrebbero cercare la controresistenza prima di cercare di interpretare la resistenza del paziente. Spesso, quando il terapeuta ha superato la controresistenza, la resistenza del paziente sarà facile da risolvere. (Schoenewolf, 1993, p. 18)

Il terapeuta deve essere in grado di sintonizzarsi emotivamente con il paziente, esprimere empatia, essere in grado di cogliere e accogliere le rotture e rendere la propria personalità compatibile con quella del paziente. Il terapeuta deve porre attenzione al controtransfert, sentimenti innescati nel terapeuta in terapia a fronte di tal paziente. Un terapeuta potrebbe sentirsi frustrato e affaticato dinnanzi la distanza emotiva e l’atteggiamento formale di un paziente con Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità. Il paziente potrebbe mostrare una diffidenza falsamente compiacente, inducendo noia e fatica nel terapeuta che non cogliendone gli aspetti di utilità può portare ad una chiusura prematura della terapia (Giusti, 2014).

L’eccessiva adesione ai protocolli, la rigidità, la mancanza di autenticità e di capacità empatiche assieme alle aspettative negative del terapeuta sono catalogabili come errori del terapeuta che non agevolano il cambiamento in psicoterapia.

Fondamentale risulta essere il non riconoscere i propri errori. A volte potrebbe capitare di proporsi eccessivamente accudenti nei confronti dei pazienti, non riconoscendo così di star contrastando la promozione di un atteggiamento collaborativo e una maggiore autonomia del paziente stesso. Ulteriore errore risulta essere quella della collusione con il tema del paziente. Tale atteggiamento non aiuta il paziente a superare il proprio scoglio e a mettere in discussione la propria credenza disfunzionale. Il terapeuta rischia di non cogliere aspetti fondamentali oscurati dalle proprie credenze, fattori personali, presenza di eventi stressanti, insicurezza di sé e molteplici altre variabili che caratterizzano la persona al di sotto del ruolo professionale. Affinché si possa avere un successo della terapia risulterebbe necessario che il terapeuta sappia riconoscere i propri meccanismi di funzionamento (Giusti, 2014).

Ulteriore ostacolo potrebbe risultare la sensazione di non essere abbastanza formato per affrontare un caso “grave” e la relativa sensazione di impotenza e fallimento. Ciò potrebbe portare al burnout del terapeuta o uno stallo in terapia. Pensieri catastrofici nel terapeuta non aiutano il paziente, risulta così necessario riprendere in mano la situazione chiedendo supervisione e ritrovando il giusto equilibrio.

La rottura dell’allenza terapeutica

Ulteriore variabile da considerare come resistenza al cambiamento ed ostacolo alla psicoterapia qualora non fosse sufficientemente buona, è l’alleanza terapeutica.

Per alleanza terapeutica si intende quella serie di scambi tra paziente e terapeuta organizzati dal sistema motivazionale cooperativo e caratterizzato dall’esperienza della pariteticità nell’impegno verso un obiettivo condiviso. Le crisi e le rotture dell’alleanza vanno considerate come una diminuzione di scambi regolati dal sistema cooperativo (Liotti, Monticelli, 2014).

Le possibili rotture dell’alleanza terapeutica costituiscono fattori di resitenza al cambiamento nel paziente. Le fratture dell’alleanza rappresentano disaccordi circa gli obiettivi della terapia, nei compiti o problematiche relative al legame terapeuta-paziente. La relazione e una minore incidenza di fattori interpersonali negativi rappresenta un fattore affidabile del risultato terapeutico. Perciò la gestione e il superamento dei processi interpersonali negativi e la risoluzione delle rotture relazionali rappresentano il fondamento del cambiamento in psicoterapia.

Le rotture che si presentano a fronte di un’attivazione di un sistema relazionale mal adattivo offrono un’opportunità per la comprensione delle credenze, aspettative e valutazioni sulla propria persona che il paziente utilizza mettendo in atto cicli disfunzionali. Fondamentale per il terapeuta e per permettere un cambiamento, accorgersi di essere coinvolto in un ciclo disfunzionale, comprenderne il proprio contributo e quali azioni scegliere che permettano di uscirne (Liotti, Monticello, 2014).

Tra le tipologie di frattura dell’alleanza che possono interferire con la terapia ci sono la frattura da ritiro e le fratture da confronto. Nelle fratture da ritiro il paziente non parla di sé, intellettualizza, racconta aneddoti o di altri, mentre le fratture da confronto vedono il paziente esprimere rabbia, risentimento nei confronti della terapia o del terapeuta stesso.

A volte potrebbe capitare di intercorrere nella rottura “proprio sulla strada presa per evitarla”, come citato per il destino nel film “Il mio nome è Nessuno”. Il terapeuta potrebbe falsare la propria condotta, sforzarsi in atteggiamenti volti a voler evitare a tutti i costi la rottura, caricandosi di una non tollerabilità dell’idea della rottura stessa, portando inevitabilmente in un clima non collaborativo e rilassato che indurrà a tal esito. Accanto al non tollerare la rottura, il terapeuta potrebbe non coglierla, ignorarla e/o negarla, portando inevitabilmente ad un atteggiamento di resistenza del paziente e alla fine della psicoterapia (Giusti, 2014).

Ulteriore variabile che potrebbe indurre alla rottura potrebbe essere attribuire al paziente la totale la colpa di un cattivo esito o colpevolizzare se stessi, questo non porta ad istaurare una sufficientemente buona alleanza.

Infine tra le cause di una rottura possono esserci il non ascolto del paziente, il non adattamento degli interventi alle esigenze del paziente e in particolare il non gestire come un’opportunità terapeutica la rottura (Giusti, 2014).

L’importanza del colloquio motivazionale

Nel colloquio motivazionale la resistenza al cambiamento viene considerata come aspetto inevitabile e ricco di informazioni.

L’ambivalenza dà indicazioni sui desideri del paziente/cliente e i relativi timori di fallire o assumersi nuove responsabilità. Il terapeuta dovrà comprendere e rispettare i lati dell’ambivalenza, accogliere con empatia e accettazione.

Essere ascoltati in modo comprensivo e acritico quando si esternano i vantaggi di un problema può essere per il paziente un’esperienza significativa. Così la resistenza al cambiamento tenderà a ridursi, invece di ampliarsi (Arkowitz, 2016).

Come afferma Giusti (1987) “Proprio la capacità di utilizzare le resistenze al cambiamento a vantaggio del cambiamento stesso, distingue la psicoterapia dalle altre forme di scambio umano”.

Per concludere

Come rispondere dunque alle domande che ci siamo posti all’inizio di questa analisi relativamente alla possibilità di cambiare? Saremmo tutti pronti ad accoglierlo? Ad abbandonare vecchi schemi e buttarci in un abisso sconosciuto? Davvero richiediamo un cambiamento? O desideriamo sia l’altro a cambiare? E chi ci accompagnerà in questo, è in sempre in grado di poterci aiutare?.

Ciò che ci sentiamo di dire è che no, quando arriva il cambiamento non siamo tutti ugualmente disposti a coglierlo e ad accoglierlo. “Non posso cambiare”, “non voglio cambiare”, “sono gli altri che devono cambiare”, ”vorrei cambiare, ma per me è impossibile”, “cambiare mi spaventa” sono frasi ricorrenti. Non tutti riusciamo a metterci in gioco, non tutti riusciamo ad affidarci, ad abbandonare quegli schemi che ci sono stati utili e funzionali fino a quel momento, non tutti abbiamo bisogno degli stessi tempi. Non tutti selezioniamo il professionista migliore e pronto anche lui a mettersi in gioco.

Ma in tutti ci dovrebbe essere la speranza che il cambiamento sia possibile, ad ognuno il suo.

Bullismo: chi mette in atto comportamenti aggressivi non è sempre un bullo

Il dr. J. Ostrov, psicologo della Buffalo University, tra le principali autorità americane in materia di aggressione, bullismo e vittimizzazione tra pari, ha condotto uno studio per esplicitare ulteriormente le sottili differenze presenti tra comportamento aggressivo generale e bullismo, aprendo nuove direzioni per l’intervento.

 

È importante per noi realizzare questa distinzione, in parte perché ogni comportamento aggressivo che vediamo non è bullismo – afferma Jamie Ostrov – Certamente i comportamenti aggressivi sono di per sé problematici e meritano la nostra attenzione, ma riconoscere le differenze nei due comportamenti significa che possiamo iniziare una discussione sul fatto che dobbiamo fare qualcosa di diverso con gli interventi relativi all’aggressione generale.

Bullismo e comportamenti aggressivi: le differenze

Ostrov descrive i comportamenti aggressivi come atti pensati per ferire o danneggiare. Concettualizza, invece, il bullismo come comportamento ripetitivo caratterizzato da uno squilibrio di potere tra due parti (ad esempio un gruppo contro un solo soggetto o un ragazzo contro un bambino).

A questo proposito sono stati condotti due studi nell’ambiente scolastico, allo scopo di sviluppare la definizione di bullismo e testare empiricamente se l’aggressività generale sia diversa dai comportamenti caratterizzanti il bullismo, rappresentato solitamente in letteratura come un sottotipo del comportamento aggressivo.

Nel primo studio gli insegnanti hanno completato analisi relazionali su 124 studenti, rispetto alle variabili aggressività fisica e relazionale, atti di bullismo e vittimizzazione dei pari.

A sostegno delle ipotesi, i risultati di questo primo studio hanno rivelato che l’aggressività relazionale aumenta i livelli di vittimizzazione relazionale, mentre il bullismo relazionale non è correlato alla vittimizzazione relazionale. Per gli autori dello studio è importante che sia emersa una distinzione tra atto aggressivo e bullismo.

Bullismo e comportamenti aggressivi: i risultati dello studio

Il secondo studio è stato condotto su 105 studenti in modalità simili a quelle dello studio appena illustrato, aggiungendo alle precedenti due nuove variabili: la direzionalità relazionale e il disadattamento sociale. I risultati emersi da questo secondo studio combaciano con i risultati ottenuti al primo studio. In aggiunta è emerso che la direzionalità della relazione tende ad esser negativamente associata ad aumenti dei problemi di disadattamento sociale. Questi dati suggeriscono che, relativamente al bullismo relazionale, l’aggressività relazionale tende ad essere associata ad aumenti di problemi di disadattamento sociale.

Questi risultati forniscono supporto per distinguere tra sottotipi di comportamento aggressivo e bullismo (cioè fisico e relazionale) nella letteratura sullo sviluppo.

Il bullismo può essere fisico (colpire, calciare o portare via le cose a qualcuno) o relazionale (escludere qualcuno, ad esempio), ma

La vittimizzazione si riceve, l’aggressività si manifesta e il bullismo aggiunge a ciò lo squilibrio di potere e la reiterazione degli atti

afferma Ostrov.

Le difficoltà cognitive nelle persone con Disturbo Bipolare: il possibile legame a lungo termine con la demenza

I disturbi dell’umore comprendono un ampio gruppo di condizioni psicopatologiche il cui quadro clinico è dominato non solo da un’alterazione del tono affettivo ma anche da sintomi psicomotori, cognitivi e neurovegetativi, per giungere, in rare occasioni, a manifestazioni psicotiche.

Roberta Sciore – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Nello spettro diagnostico della sintomatologia umorale sopra menzionata, individuiamo il Disturbo Bipolare che si differenzia dalle sindromi unipolari per la presenza della polarità maniacale oltre a quella depressiva.

Disturbo bipolare (DB): classificazione del DSM-5

Nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) il Disturbo Bipolare, che per la prima volta si presenta distinto dalle sindromi depressive, viene articolato in diverse possibilità diagnostiche:

  • il Disturbo Bipolare I
  • il Disturbo Bipolare II
  • il disturbo ciclotimico
  • il Disturbo Bipolare e disturbi correlati ad altre sostanze e farmaci
  • il Disturbo Bipolare dovuto ad altra condizione medica e a disturbi correlati con o senza altra specificazione.

I criteri per il Disturbo Bipolare I rappresentano la versione moderna del disturbo maniaco-depressivo. Essi prevedono la presenza di almeno un episodio maniacale della durata di una settimana, sufficientemente grave da compromettere la funzionalità quotidiana ed avere cinque o più sintomi di tipo depressivo per almeno due settimane. La maniacalità è solitamente caratterizzata da un umore anormale ed elevato, espanso o irritabile e da un aumento persistente dell’energia e dell’attività per la maggior parte della giornata. La persona, durante questo periodo, può impegnarsi in molteplici e nuovi progetti, avere un’autostima ipertrofica insieme a deliri di grandezza, necessitare di un ridotto bisogno di sonno e/o di alimentazione e l’eloquio può essere rapido e prevaricante.

Il Disturbo Bipolare II invece è caratterizzato da un decorso clinico con ricorrenti circostanze di alterazione dell’umore che consistono in uno o più episodi depressivi maggiori della durata minima di due settimane ed almeno un episodio ipomaniacale della durata di quattro giorni. L’ipomania non deve risultare sufficiente per compromettere il funzionamento sociale e lavorativo della persona. Tuttavia, quando si propende per una diagnosi di tipo II, non si deve pensare ad un disturbo “più lieve”, in quanto tale diagnosi comporta per la persona un’importante e pervasiva depressione spesso causa di ritiro e di necessità di assistenza.

Disturbo bipolare: difficoltà cognitive

Indipendentemente dalla tipizzazione, il Disturbo Bipolare (DB) si associa ad una significativa riduzione dell’aspettativa di vita e della sua qualità in termini di compromissione funzionale e sociale (Rise et al., 2016). In tale prospettiva, i disturbi cognitivi presenti in tale sindrome sono una delle espressioni fenomeniche del Disturbo Bipolare con maggior impatto sull’outcome funzionale. Il pattern di compromissione cognitiva in questo disturbo è analogo, anche se meno grave, a quello che si riscontra nella schizofrenia. Nel Disturbo Bipolare riscontriamo, nella valutazione testistica neuropsicologica, un’eterogeneità di sottogruppi con livelli di funzionamento cognitivo molto differenti, in un continuum che va da elevate performance (alto funzionamento) a situazioni di compromissione molto severe. Nella pratica clinica, trovarsi di fronte ai deficit cognitivi nei pazienti bipolari è molto frequente, non solo negli episodi critici, ma anche nelle fasi intercritiche. Tali difficoltà sono spesso presenti nei soggetti con un’acuita vulnerabilità genetica e nei familiari in cui il disturbo non si è espresso. In letteratura, è possibile rintracciare un grande numero di lavori in cui è stato possibile identificare tali deficit nei pazienti con Disturbo Bipolare mediante test neuropsicologici (Bourne et al., 2013, Kurtz e Gerraty, 2009; Robinson et al., 2006). Le disfunzioni cognitive riscontrate con maggior frequenza riguardano domini quali: la memoria, l’attenzione, le funzioni esecutive, la velocità di elaborazione e il problem solving. Queste diminuite potenzialità hanno un impatto molto importante per la persona sul funzionamento globale, lavorativo e socio-relazionale. I problemi cognitivi sono già presenti prima e all’esordio del disturbo bipolare, ma spesso incrementano con il decorso della patologia, soprattutto se non trattata, per diverse cause quali: effetti neurotossici degli episodi affettivi, progressivo aumento dell’età, terapie farmacologiche ed abuso di alcool e droga come tentativi di automedicamento. Il profilo neuro-cognitivo è inoltre influenzato dalla storia clinica del paziente: sintomi psicotici presenti in anamnesi, sommatoria degli episodi affettivi critici e durata della malattia e precocità dell’esordio.

Disturbo bipolare: le ultime ricerche

Un numero esiguo di ricercatori si è interessato invece all’individuazione di differenze nei profili cognitivi tra persone con diagnosi di Disturbo Bipolare I e persone con diagnosi di Disturbo Bipolare II. Le conclusioni che possiamo trarre da questa scarsità di studi portano ad affermare che i pazienti con Disturbo Bipolare II hanno deficit cognitivi simili, ma meno pervasivi di quelli con Disturbo Bipolare I (Bora et al., 2011). Nel dettaglio, tali differenze di potenzialità sono state riscontrate per le seguenti abilità: la memoria verbale, la memoria visuo-spaziale, la velocità di elaborazione e le misure di valutazione complessiva del funzionamento cognitivo.

I dati non hanno invece documentato discrepanze significative tra le due categorie diagnostiche per attenzione, memoria di lavoro e funzioni esecutive (shifting ed inibizione). Tali diversità potrebbero essere spiegate sicuramente facendo appello alla dissimile gravità e pervasività della malattia, ma anche e soprattutto agli effetti dei farmaci antipsicotici che sono più comunemente prescritti per il Disturbo Bipolare I rispetto al Disturbo Bipolare II. Le conseguenze neurotossiche di tale categoria farmacologica per la memoria verbale e la velocità di elaborazione sono infatti note in letteratura (Balanzá-Martínez et al., 2010). Sebbene sia i sintomi depressivi che quelli maniacali correlino con una performance più bassa nei test cognitivi (Kurtz e Gerraty, 2009) e nel funzionamento misurato mediante strumenti self report (Peters et al., 2014), resta molto importante valutare la possibilità che tali deficit permangano anche dopo la remissione e in che termini, se a breve e a lungo termine ma anche se questi rappresentino una possibile vulnerabilità rispetto al decadimento cognitivo.

La metanalisi di Kurtz e Gerraty del 2009 suggerisce come le persone con Disturbo Bipolare trattati e stabilizzati, comparati con soggetti sani, hanno difficoltà maggiori nella memoria verbale e non verbale, nell’attenzione e nella memoria di lavoro. Una più recente meta-analisi (Bourne et al., 2013) ha confermato i medesimi pattern, supportando l’ipotesi che tali difficoltà permangano anche dopo la compensazione dei sintomi. In linea con tali evidenze, gli studi longitudinali documentano come la fluttuazione sintomatologica non sembra spiegare tali deficit cognitivi. In una di queste ricerche, le persone che sono state ritestate con le medesime prove mostravano, nonostante l’alternanza delle polarità maniacali e depressive, lo stesso pattern cognitivo per l’attenzione e la velocità di elaborazione; al contrario delle difficoltà per la fluenza verbale che erano maggiori quando i sintomi depressivi erano presenti (Chaves et al., 2011). Alle medesime conclusioni sono arrivati gli studi di Szmulewicz et al., 2015 e di Santos et al., 2014: i deficit della cognizione, seppur in un quadro di estrema soggettività, persistono nelle persone con diagnosi di Disturbo Bipolare anche a distanza di tempo, quando i sintomi sono in remissione grazie alla compensazione farmacologica e al supporto psicoterapeutico e psicoeducazionale. Inoltre, le difficoltà cognitive possono essere un’utile cartina di tornasole, quando si vuole fare prevenzione ed identificare i possibili soggetti a rischio.

Disturbo bipolare e diagnosi precoce

È ben noto in letteratura come il modello attualmente considerato valido di spiegazione eziologica dei disturbi psicopatologici sia quello vulnerabilità-stress. Avere quindi l’opportunità di individuare i soggetti a rischio di bipolarismo in cui sono presenti prima dell’esordio umorale aspetti anomali nella cognizione permetterebbe ai professionisti della salute mentale, ma anche e soprattutto alle famiglie, di poter intervenire provando a “mettere in sicurezza” il bambino o l’adolescente a rischio. I risultati di più ricerche indicano come i deficit cognitivi possono essere osservati già nelle prime fasi di vita, in figli bambini o adolescenti di persone con Disturbo Bipolare, anche se tali difficoltà non sono così gravi come quelli riscontrati nella schizofrenia (Olivet et al., 2013). In uno studio, le performance nelle funzioni esecutive, valutate mediante il Wisconsin Card Sort Task (Berg, 1948), risultavano più scadenti in figli di madri con Disturbo Bipolare che in quelli che avevano madri con disturbo Depressivo Maggiore (KlimesDougan et al., 2006). Tali differenze erano inoltre state individuate per l’indice di funzionamento globale (QI) e a lungo termine. In un secondo studio (Maziade et al., 2009), i ricercatori si sono concentrati su 45 adolescenti a rischio Disturbo Bipolare o schizofrenia, identificato dalla presenza di almeno un membro della famiglia di primo grado con tale diagnosi. I 23 figli di famiglie bipolari hanno dimostrato performance significativamente inferiori per: funzioni esecutive, problem solving, memoria verbale, memoria visuo-spazile. Nel dettaglio, un deficit specifico per l’inibizione cognitiva è stato riscontrato nei ragazzi che avevano un parente con Disturbo Bipolare I.

In breve, più studi indicano come un’ampia gamma di domini cognitivi sono compromessi anche in tenera età se si ha familiarità con il Disturbo Bipolare. Di norma però emerge che un profilo di maggiore rischio è rappresentato da coloro che da giovanissimi fanno maggiore fatica nel controllo dell’inibizione e dell’impulsività. Tali deficit risultano infatti essere indicatori di un robusto rischio di maniacalità. Se vi sono tutte queste evidenze che individuano deficit cognitivi, definiti nelle persone con Disturbo Bipolare prima dell’esordio, alla comparsa dei sintomi e durante la stabilizzazione, è forse importante chiedersi se il Disturbo Bipolare possa rappresentare un fattore di vulnerabilità per la demenza. Considerando la variabile dell’età, a lungo termine la frontiera tra disturbi dell’umore e demenza è molto incerta sul piano fisiopatologico, neurobiologico e di accertamento diagnostico.

Disturbo bipolare e difficoltà cognitive: evoluzione

L’esperienza clinica riporta come percentuali molto elevate, circa il 40%, di persone con diagnosi di disturbo bipolare, evolvono poi in forme di deterioramento cognitivo significative. I meccanismi che mediano questo viraggio sono molteplici, alcuni ancora poco trasparenti, e possono essere così sintetizzati: dalle ipotesi di anomalie genetiche comuni, agli effetti neurotossici degli episodi emotivi forti, l’utilizzo massivo di psicofarmaci, l’alterato metabolismo spesso scompensato e poi ricompensato chimicamente nelle diverse ciclicità sintomatologiche e l’utilizzo di alcool e droghe come modalità di auto-medicamento. Soprattutto se si considera la polarità negativa, e se ci riferiamo alla popolazione anziana, risulta spesso molto complesso distinguere la compromissione cognitiva da aspetti depressivi associati a demenza, soprattutto nelle fasi iniziali. La depressione può rappresentare il primo sintomo della demenza prima che si presentino in modo vistoso i disturbi neurologici e cognitivi, oppure questa può comparire contestualmente o successivamente ad essi. In generale, tra depressione e demenza vi è un rapporto bidirezionale. Infatti, il deterioramento cognitivo, soprattutto nelle fasi iniziali in cui la persona è consapevole dei primi fallimenti funzionali, può far precipitare o rendere più pervasivo un disturbo dell’umore; così come l’umore alterato in maniera importante può determinare la presenza di deficit cognitivi, come discusso prima. Ad ogni modo, la depressione in sé può essere causa di modificazioni cognitive tali da “mimare” una demenza (si parla in questo caso di pseudodemenza); così come un danno strutturale ed organico può simulare sintomi umorali quali l’ipomania o il rallentamento.

Disturbo bipolare e demenza

In letteratura, sono numerosi gli studi scientifici che si sono interessati alla correlazione tra Disturbo Depressivo Maggiore e demenza e all’individuazione della diagnosi long-life di Disturbo Bipolare come fattore di rischio per il deterioramento cognitivo (Kessing et al., 2003; Wu et al., 2013). Quest’ultima evidenza non è stata tuttavia spesso valutata negli esiti a lungo termine mediante l’utilizzo di disegni di ricerca longitudinali (Aprahaman et al., 2014).

La conferma di un legame a lungo termine tra Disturbo Bipolare e demenza favorisce l’ipotesi della “neuroprogressione” per cui la demenza viene vista come la conseguenza finale di profili diversi di psicopatologie con danno cerebrale. La prima ed ampia meta-analisi che si è occupata di analizzare le evidenze che riportano il rischio acuito di demenza nelle persone con storia clinica di Disturbo Bipolare è quella di Diniz et al., 2017. Questi ricercatori (che hanno incluso nella meta analisi 6 studi di settore, con un campione complessivo di 3026 persone con Disturbo Bipolare) hanno scoperto che avere avuto nel corso della vita una diagnosi di Disturbo Bipolare aumentava significativamente il rischio di demenza da anziani. Questa review supporta con solide evidenze che i disturbi dell’umore in genere e non solo il Disturbo Depressivo Maggiore sono associati ad un rischio acuito rispetto alla popolazione di decadimento cognitivo (Diniz et al. 2013; Ownby et al., 2006).

Tale relazione è presente negli studi condotti in diverse parti del mondo e considerati nella meta-analisi e supportano quindi l’idea che tale associazione sia indipendente dagli aspetti culturali e dalle linee di trattamento contesto-specifiche. Sempre l’analisi di Diniz et al., del 2017 riporta un rischio maggiore di demenza per le persone con diagnosi di Disturbo Bipolare rispetto a coloro che hanno ricevuto una diagnosi di Disturbo Depressivo (con stime di rischio che vanno da 1,65 a 2,0). Questo dato solleva l’ipotesi che potrebbero esserci mediatori diversi a seconda della presenza di una sola polarità umorale o meno. I pazienti con Disturbo Bipolare, che vivono quindi nella loro vita esperienze maniacali o ipomaniacali, esperienze queste con basi neurobiologiche peculiari, possono avere propri fattori di rischio che si sommano a quelle solitamente collegate con la depressione. Il Disturbo Bipolare è infatti una malattia grave, con comune comorbilità con problemi medici quali obesità, diabete ed apnee del sonno e con un più alto rischio di condotte teratogene per la salute come esercizio fisico compulsivo, comportamento sessuale a rischio, diete estreme, tabagismo e tossicodipendenze. Tutti questi fattori risultano essere molto lesivi per la salute del nostro cervello. Possono abbassare infatti quella “riserva cognitiva” che il nostro sistema nervoso centrale possiede per provare a fronteggiare il decadimento cognitivo (Hunt et al., 2016; Gildengers et al., 2012).

Anche i fattori intrinseci del Disturbo Bipolare ed in particolare la suscettibilità bio-genetica possono rendere le persone maggiormente vulnerabili ai cambiamenti cerebrali e ai mutamenti cognitivi comuni negli anziani sani, ma che diventano clinicamente significativi negli individui con storia di Disturbo Bipolare (Sullivan et al., 2012). Un altro aspetto da considerare è che le persone con Disturbo Bipolare hanno un rischio di morte aumentato, rispetto alla popolazione di riferimento, per condizioni mediche o per suicidio (Schaffer et al., 2015; Weiner et al., 2011). Le persone che hanno tentato il suicidio, i così detti “sopravvissuti”, hanno un maggiore rischio di ricevere una diagnosi di demenza da anziani così come riportato da Bredemeimer et al., 2015 e Richard-Devantoy et al., 2015. Tutte queste evidenze mostrano come la relazione tra disturbi dell’umore (Disturbo Depressivo Maggiore e Disturbo Bipolare) e demenza sia estremamente complessa. L’interazione tra sintomi dell’umore, deficit cognitivi e le conseguenti limitazioni quotidiane hanno un forte impatto nella qualità di vita della persona, ma anche nel caregiver, ossia nel familiare che se ne prende cura.

Disturbo bipolare e approccio di cura

Le disfunzioni cognitive sono una caratteristica comune dei Disturbo Bipolare e ne influenzano l’outcome sociale e funzionale, da giovani così come da anziani. Il trattamento dei deficit cognitivi dovrebbe essere uno degli obiettivi chiave, target della strategia globale di trattamento. Questa modalità d’intervento precoce sugli aspetti neuropsicologi può essere una prima strategia d’intervento per provare a moderare la correlazione tra il disturbo dell’umore e la demenza. Nella pratica clinica vi è una generale mancanza di valutazione delle funzioni cognitive. Le buone prassi nella prevenzione della demenza in una popolazione peculiare quale quella dei soggetti con Disturbo Bipolare dovrebbe prevedere: un buon assessment cognitivo che si ripeta ciclicamente nei vari momenti della vita della persona; l’individuazione di adeguate strategie di cura che vadano oltre il consueto trattamento terapeutico-riabilitativo; l’azione mirata sui fattori di rischio per il deterioramento cognitivo (polifarmacoterapia, disturbi metabolici, abuso di sostanze). Il Disturbo Bipolare è una patologia complessa e complicata e necessita pertanto di una équipe multidiscplinare che affianchi lo psichiatra e che preveda: lo psicologo psicoterapeuta, il neuropsicologo, il cardiologo, il diabetologo e il nutrizionista. Oltre che ad una collaborazione con i neurologi o i geriatri, lì dove la compromissione cognitiva assuma rilevanza clinica significativa. L’intervento per le persone con Disturbo Bipolare che vuole considerare importanti il trattamento dei deficit cognitivi deve inoltre prevedere: una diagnosi precoce, una buona aderenza al piano farmacologico con terapia stabilizzante dell’umore life-time, l’utilizzo di psicofarmaci che abbiamo un minore impatto sulla cognizione, gli interventi psicoeducazionali (individuali, di gruppo e familiari), il supporto psicologico alla persona, le modificazioni ad hoc sullo stile di vita, un eventuale programma di trattamento per le dipendenze se presenti e moduli specifici di potenziamento e trattamento delle abilità cognitive. Questi ultimi prevedono: la prescrizione di inibitori dell’acetilcolinesterasi (galantamina) ed integratori vitaminici (DHA, omega3, vitamina D), l’utilizzo della Cognitive Remediation, intesa come insieme di tecniche e strategie per superare le difficoltà cognitive nella vita quotidiana e il Functional Remediation come programma di apprendimento che si focalizza sulla metacognizione e sulle abilità sociali (Miskowiak et al., 2016). Nel complesso, un approccio finalizzato alla valutazione, alla compensazione e al potenziamento delle abilità cognitive nelle persone con Disturbo Bipolare può offrire la possibilità non solo di limitare gli effetti negativi che i deficit cognitivi hanno ad oggi sulla qualità di vita del soggetto, ma anche essere una potente arma di prevenzione a lungo termine per la probabile demenza futura.

Autoefficacia del terapeuta – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 32

Obiettivo di questo articolo è quello di proporre un possibile punto di vista sulla questione di come ciascun terapeuta possa valutare il proprio senso di autoefficacia rispetto al proprio lavoro in terapia, portando l’attenzione su alcuni criteri di valutazione che forse è bene non dimenticare.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Autoefficacia del terapeuta (Nr. 32)

 

Se devo costruire una sedia, la risposta alla domanda “Quanto sono stato bravo?” è facile e dipende dal collaudo: se regge ho fatto un buon lavoro, altrettanto se devo montare un mobile di Ikea e alla fine non avanzano pezzi.

Fin qui, almeno in apparenza, il compito di valutare la propria autoefficacia, che sia più o meno connessa nella mente del soggetto al valore personale, sembra piuttosto facile e sposta immediatamente il problema sulla valutazione del risultato, per cui si tratta di stabilire i criteri molteplici per definire una buona sedia o una buona scrivania. Più complesso è fare la stessa valutazione rispetto ad una psicoterapia, per due motivi.

Il primo motivo è che il risultato (riduzione dei sintomi e/o benessere del paziente) è decisamente più impalpabile di una sedia e difficile la messa a punto di strumenti di misura.

Il secondo è che trattandosi di un lavoro tra due persone il risultato dipende da entrambi.

Questa seconda constatazione può portare, all’estremo, a due posizioni opposte. Da un lato in terapeuti affetti da sicumera perniciosa ad attribuire la responsabilità delle difficoltà e degli insuccessi al paziente grazie a quel costrutto salva stima, non a caso condiviso da quasi tutti gli approcci, che è “la resistenza”, il cui utilizzo può diventare iatrogeno scaricando colpe sul paziente. Dall’altro in terapeuti iperresponsabili a ritenere che aver attivato una resistenza nel paziente è comunque segno di non averne previsto adeguatamente il funzionamento il che è compito precipuo del terapeuta. Questi terapeuti pensano di essere o, peggio, che si potrebbe e dovrebbe essere onnipotenti trascurando il fatto che l’ora di terapia è soltanto uno dei fatti che capitano al paziente durante la settimana e infinite sono le altre perturbazioni che possono attivare o impedire un cambiamento.

La valutazione della propria autoefficacia come terapeuta

Fin qui ci siamo mossi nel dominio della valutazione reale di efficacia che è ormai da anni oggetto di studio e dibattito nel mondo della psicoterapia dopo l’avvento della EBM (Evidence-Based Medicine). Talmente vasto l’argomento che ce ne distanziamo immediatamente per rifugiarci in un molto più ristretto e “intimistico” argomentino che riguarda “la sensazione soggettiva di efficacia”.

Ci chiediamo cosa ci faccia a volte dire “oggi ho fatto proprio un buon lavoro” e ci accompagni fino a casa soddisfatti e desiderosi di ampliare la nostra attività ed altre volte ci faccia sentire “di essere un disastro, di aver danneggiato il paziente” impegnandoci nottetempo in defaticanti rimuginii sul senso della nostra professione e sulla necessità di rilevare il negozio di frutta e verdura sottocasa per occuparsi più di broccoli e rape che di cristiani.

Credo che questo vissuto, positivo o negativo che sia, abbia ben poco a che fare con l’ autoefficacia reale e quindi possa essere studiato distintamente da essa.

È esperienza comune avere netta l’impressione di aver risolto brillantemente un importante nodo problematico del paziente e di ritrovarselo di fronte tale e quale senza neppure una scalfittura mentre eravamo ancora impegnati nel complimentarci con noi stessi per la genialata. Di contro talvolta i pazienti ci ringraziano per un nostro intervento che reputano decisivo nel loro cambiamento e che ricordano minuziosamente tanto lo ritengono significativo mentre noi ne abbiamo alcuna memoria.

Dunque, in primo luogo dobbiamo tenere distinto il campo della valutazione di autoefficacia da quello della sensazione di efficacia che riguarda queste poche righe. Se il primo è molto studiato anche perché coinvolge importanti aspetti economici (ad es. assicurativi) e si cerca di andare verso una sempre maggiore oggettività, il secondo merita più attenzione, soprattutto come acquisizione di consapevolezza del terapeuta sui propri criteri interni che necessariamente finiscono per influenzare il suo operato. Una ricerca descrittiva avrebbe, a mio avviso, lo scopo di sollecitare questo tema all’attenzione del formatore e del supervisore.

Un esempio: alcuni criteri di valutazione della propria autoefficacia come terapeuta

Per dare il buon esempio cerco di elencare cosa mi fa sperimentare la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro in seduta o meno, consapevole che ciò, nei contenuti specifici, vale solo per me mentre il metodo può essere utile per tutti. Da qui in avanti dunque mi riferisco a me stesso e mi rendo conto di quanto questi criteri siano perniciosi. Comunque meglio saperlo che lasciarli agire indisturbati.

In primo luogo è importante l’impressione di aver capito, di aver risolto un rompicapo. Lo stesso piacere lo provo nel trovare la soluzione ad un problema di matematica, un indovinello complicato o nell’individuare l’assassino in un giallo. Per me è una vera goduria quando si fa luce, quando tutto torna, quando finalmente ho capito. Mi rendo conto che tale vissuto è molto simile all’eureka dell’esordio delirante e che per non rinunciare a questo piacere epistemico rischio di trascurare i dati incongruenti che rovinerebbero la festa. Per non imbrattare la limpidezza della soluzione metto sotto al tappeto quanto mi costringerebbe ad una spiegazione meno semplice ed elegante ma più complessa e vera.

In secondo luogo mi sembra importante che il paziente stia bene, o meglio, non soffra nel tempo che sta con me. Quanto questa attenzione a non provocargli disagio immediato sia dannosa mi sembra inutile argomentare, basterà pensare ai disastri che causerebbe un chirurgo mosso dalla stessa preoccupazione. Forse per dare dignità teorica a questo atteggiamento sono anche vistosamente contrario all’idea di molti terapeuti e anche pazienti che una terapia per essere efficace e profonda debba comportare lacrime e sangue. In proposito ricordo come la stessa convinzione in campo medico porti spesso a preferire la terapia iniettiva rispetto a quella orale anche quando ciò non ha alcun razionale e addirittura le aziende farmaceutiche tendono ad aggiungere sostanze urticanti nelle fiale secondo la regola della fata turchina a Pinocchio che “la medicina se è cattiva e fa male vuol dire che è efficace”.

In terzo luogo, attenzione perché questo è gravissimo e pericolosissimo, mi sembra importante e credo di darmi da fare perché si realizzi che il paziente mi trovi simpatico, in gamba e, in estrema sintesi, mi voglia bene. È facile spacciare ciò come l’attenzione alla creazione di una positiva relazione terapeutica e avere il consenso in quanto ciò compare sempre tra gli obiettivi terapeutici ma se devo essere sincero credo che la mia motivazione sia prevalentemente autoreferenziale. Voglio intendere che lo farei anche se fossi alla cassa del negozio di frutta e verdura che prima o poi mi deciderò a rilevare dai pakistani sotto casa. È interessante notare quanto poco conti nella mia sensazione di essere stato bravo la riduzione sintomatologica a meno che il paziente non me la riferisca con gratitudine. Sembra infatti che basta che capisco, loro non soffrono e ci stiamo simpatici che tutto va bene.

Sulla riduzione sintomatologica, il primo motivo per cui viene in terapia, devo mettere consapevolmente l’attenzione perché spesso il paziente continua a portare ciò che non va, poco importa se comunque è ridotto rispetto ad un tempo.

Attendere con interesse la  prossima seduta e magari lavorarci mentalmente per prepararla al meglio è indicatore del fatto che con quel paziente mi sento bravo perché se vogliamo, come topini da esperimento, premere spesso la leva di quel paziente vuol dire che esso ci dà una gratificazione validando la nostra identità professionale. Se al contrario facciamo novene perché non venga e alla notizia di una buca esultiamo scompostamente con lingue di Menelik e nacchere evidentemente quel paziente ci rimanda che non siamo un bravo terapeuta.

Se poi, piuttosto che liquidare la faccenda dicendoci che “è uno stronzo, non collaborativo, traboccante di resistenze”, ci dicessimo che lui fa solo la sua parte da matto potremmo prendere in considerazione l’ipotesi che magari davvero non siamo stati bravi con lui e potremmo vedere perché.

Se si volesse fare una ricerchina in proposito chiederei ad un gruppo di colleghi:

Ogni settimana prova a compilare questa scheda

Autoefficacia del terapeuta quali criteri utilizzare per l'autovalutazione1

 

E poi una volta ogni sei mesi

 

Ndr: una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata su State of Mind il 7 febbraio 2017, la trovi qui.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Psicologia e ambiente: affrontare il problema del cambiamento climatico

Un recente studio, pubblicato su Current Directions in Psychological Science, indaga l’apporto che le scienze psicologiche possono offrire al fine di trovare soluzioni efficaci al problema ambientale dei cambiamenti climatici.

 

Il cambiamento climatico è ormai un problema reale che comporta conseguenze irreversibili ed esponenziali e che appare causato, almeno in parte, dal comportamento umano. La domanda fondamentale diventa dunque: in che modo la psicologia può contribuire suggerendo soluzioni che migliorino la situazione del nostro ambiente?

Psicologia per l’ ambiente: cosa può fare contro i cambiamenti climatici?

Un team interdisciplinare composto da ricercatori provenienti da Paesi Bassi, USA e Germania ha cercato di rispondere alla domanda. Il problema dei cambiamenti climatici viene definito in termini di dilemma sociale, ovvero una questione riguardante l’interesse collettivo con una prospettiva di miglioramento a lungo termine.

Le parole dell’autore dell’articolo Paul van Lange, professore di psicologia all’Università di Amsterdam chiariscono meglio il concetto

Per ridurre efficacemente gli effetti dei cambiamenti climatici è necessario promuovere una prospettiva più a lungo termine indirizzata alla collettività rispetto a soluzioni immediate e personali oltre, ovviamente, a una buona campagna di sensibilizzazione affinché ci si renda conto che i mutamenti climatici sono reali.

Un modo per convincere la collettività della realtà dei cambiamenti climatici potrebbe essere affidata ai governi dei vari stati che potrebbero personalizzare le informazioni sulle circostanze ambientali locali in modo da renderle più concrete e di conseguenza più significative per i cittadini; lo afferma Jeff Joireman, professore di marketing e business internazionale alla Washington State University:

L’inondazione è un esempio chiave che potrebbe essere di interesse per le persone che vivono in paesi a bassa quota; al contrario l’aumento di temperatura potrebbe essere maggiormente rilevante per le persone che vivono in climi più caldi.

Psicologia e ambiente: il coinvolgimento dei bambini

Tuttavia il dilemma è complicato poiché l’astrattezza della questione, il coinvolgimento della collettività e l’estensione nel tempo di risultati osservabili tendono a scoraggiare azioni che aiutino a ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici. In che modo dunque si promuove una prospettiva di cambiamento a lungo termine? La risposta chiama in causa le nuove generazione o meglio l’importanza di lasciare un mondo migliore per i propri figli che vivranno nel futuro prossimo. La raccomandazione suggerita è quella di includere i bambini nelle campagne di educazione pubblica per aumentare la consapevolezza sui rischi dei mutamenti climatici che potrebbero compromettere il futuro di questa generazione attivando il senso di protezione e assistenza della popolazione adulta verso l’ ambiente.

Sempre sulla promozione di un cambiamento orientato al futuro, il professore van Lange aggiunge

Alcune decisioni sui cambiamenti climatici devono includere il giudizio di consulenti esperti in materia di pianificazione urbana e infrastrutture, questo perché la ricerca ha dimostrato che gli esperti sono più attenti alle conseguenze a lungo termine, il che comporta un beneficio futuro maggiore.

In conclusione, gli autori sottolineano il ruolo fondamentale rivestito dai rappresentati nazionali per quanto riguarda gli accordi ambientali. Ad esempio suggeriscono l’istituzione di un “premio per la città sostenibile” che potrebbe aiutare i leader a sviluppare una politica locale che riduca l’uso delle automobili nelle città e promuova uno sviluppo maggiore della rete dei trasporti pubblici.

Disprassia e disgrafia: quale correlazione?

La disprassia ha un’incidenza del 5-6% nei bambini tra i 5 e gli 11 anni di età; nei bambini di 7 anni l’1,8% ha la diagnosi di disturbo dello sviluppo della coordinazione grave e il 3% di disturbo dello sviluppo della coordinazione probabile.

Luisana D’Alessandro – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

Secondo il DSM- 5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) il
 termine disprassia può essere utilizzato per descrivere il quadro del disturbo 
dello sviluppo della coordinazione motoria, il cosiddetto DCD (Developmental coordination disorder).

I criteri diagnostici sono:

  • L’acquisizione e delle abilità motorie coordinate risultano notevolmente inferiori rispetto a quanto atteso considerando l’età cronologica dell’individuo e l’opportunità che ha avuto di apprendere ed utilizzare tali abilità. Le difficoltà si manifestano in goffaggine (per es. cadere o battere contro oggetti) così come imprecisione nello svolgimento delle attività motorie (ad es. afferrare un oggetto, usare forbici o posate, scrivere a mano, guidare la bicicletta o partecipare attività sportive)
  • Il deficit delle abilità motorie indicate nel criterio A interferisce in modo significativo e persistente con le attività della vita quotidiana adeguate all’età cronologica (per es. nella cura e nel mantenimento di sé) e ha un impatto sulla produttività scolastica, sulle attività pre-professionali e professionali, sul tempo libero e sul gioco)
  • L’esordio dei sintomi avviene nel primo periodo dello sviluppo (non viene di solito diagnosticato prima dei 5 anni di età)
  • I deficit delle abilità motorie non sono meglio spiegati da disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) o da deficit visivo e non sono attribuibili ad una condizione neurologica che influenza il movimento (per es. paralisi cerebrale, distrofia muscolare, disturbo degenerativo)

Alcuni bambini mostrano un’attività aggiuntiva, di solito repressa, come movimenti coreiformi del bacino o movimenti speculari. Questi movimenti “parassitari” vengono considerati come immaturità del neurosviluppo o segni neurologici lievi piuttosto che anomalie neurologiche.

Disprassia: caratteristiche e fattori di rischio

La disprassia ha un’incidenza del 5-6% nei bambini tra i 5 e gli 11 anni di età (nei bambini di 7 anni l’1,8% ha la diagnosi di disturbo dello sviluppo della coordinazione grave e il 3% di disturbo dello sviluppo della coordinazione probabile).

I maschi sono più colpiti rispetto alle femmine con un rapporto maschio/ femmina tra 2:1 e 7:1.

Il decorso è variabile ma stabile fino ad 1 anno di follow up; in adolescenza possono presentarsi miglioramenti, ma i sintomi permangono nel 50-60% dei soggetti.

I fattori di rischio della disprassia sono classificati in ambientali, genetici e modificatori del decorso. Tra i fattori ambientali sono annoverati l’esposizione prenatale all’alcol e il parto prematuro, con basso peso dei bambini alla nascita. Per i fattori genetici sono state ipotizzate disfunzioni cerebellari, ma le basi neuronali del disturbo rimangono poco chiare. Inoltre, gli individui con Disturbo da deficit di attenzione/ iperattività (ADHD/ DDAI) e disturbo della coordinazione motoria mostrano una maggior compromissione rispetto agli individui con DDAI senza disturbo dello sviluppo della coordinazione motoria (modificatori del decorso). Infine, spesso vengono riscontrati problemi durante la gravidanza o al parto ed un’alta incidenza della disprassia, come già accennato, nei bambini prematuri e/o a basso peso alla nascita.

Conseguenze funzionali

Le conseguenze funzionali associate alla disprassia possono essere:

  • Ridotta partecipazione a giochi di squadra e attività sportive
  • Scarsa autostima e valutazione di sé
  • Problemi emotivi e del comportamento
  • Rendimento scolastico compromesso
  • Scarsa forma fisica
  • Ridotta attività fisica e obesità

A tal proposito va fatta un’attenta diagnosi differenziale escludendo una compromissione dovuta ad un’altra condizione medica generale, oppure a disabilità intellettiva, DDAI, disturbo dello spettro dell’autistico o sindrome da ipermobilità articolare.

È bene ricordare inoltre che la disprassia si presenta spesso in comorbilità con disturbi del linguaggio e dell’eloquio, disturbi specifici dell’apprendimento, disturbo dello spettro autistico e con ipermobilità

La disprassia secondo la classificazione dell’ICD-10

L’ ICD-10 (International Classification of Diseas) inserisce la disprassia fra i Disturbi Evolutivi Specifici della Funzione Motoria (DESFM).

La prassia viene definita come “un movimento intenzionale compiuto con
 destrezza” (Sabbadini, 2005), la disprassia si presenta dunque come un “disturbo dell’esecuzione di un’azione intenzionale” e più in particolare come la “difficoltà a rappresentarsi, programmare, ed eseguire movimenti intenzionali in serie o in sequenza, finalizzati al raggiungimento di un preciso scopo ed obiettivo”.

I soggetti disprattici non riescono ad acquisire e quindi ad automatizzare movimenti intenzionali finalizzati al raggiungimento di specifici obiettivi predefiniti e necessitano di pensare alla pianificazione dei movimenti (Sabbadini, 2005).

Nello stesso bambino è possibile riscontrare una o più tipologie di disprassia, di cui una tipologia è preminente rispetto ad altre. Si può avere: disprassia verbale, orale, dell’abbigliamento, degli arti superiori, della scrittura, di
sguardo, della marcia, del disegno, costruttiva.

Ne derivano le varie difficoltà nelle attività della vita quotidiana, (vestirsi, svestirsi, allacciarsi e slacciarsi le scarpe), l’usare gesti espressivi per comunicare particolari stati d’animo o veri e propri deficit durante le attività scolastiche.

Tra le varie problematiche che si possono incontrare in ambito scolastico, analizzeremo le difficoltà di scrittura, mettendo in evidenza la correlazione esistente tra disprassia e disgrafia.

Perchè la disprassia viene definita anche come disturbo dell’integrazione neurosensoriale?

Interessante, è il fatto che la disprassia è stata definita già molti anni fa come disturbo dell’integrazione neurosensoriale, in particolare negli aspetti visivi e tattili, interpretabile in tal senso come possibile componente eziologica (Ayres, 1972; Dewey & Kaplan, 1994; Dunn et al, 1986).

I bambini disprattici, sin dal primo anno di vita, risultano molto sensibili al tatto, alla luce, a rumori intensi e spesso presentano difficoltà alimentari in quanto sono molto selettivi nel tipo di alimentazione.

Disprassia e Disgrafia

La scrittura è una prassi complessa, ovvero un atto motorio finalizzato all’uso di un oggetto (penna, matita, etc.). Scrivere, richiede un input, ossia una rappresentazione mentale dell’attività, una processazione e una programmazione dell’azione con successiva esecuzione e verifica; il tutto è regolato dal sistema attentivo esecutivo.

La disprassia si trova spesso in comorbidità con la disgrafia, ma le disgrafie non derivano necessariamente da una disprassia (Mazeau, 2005).

La disgrafia, definita nel DSM-5 come “perdita di espressione scritta”, 
è un disturbo specifico dell’apprendimento, correlato alla difficoltà di riprodurre graficamente segni numerici ed alfabetici. La scrittura risulta deficitaria per velocità, leggibilità e qualità della grafia.

Di seguito analizzeremo alcune caratteristiche che contraddistinguono la disgrafia su base disprattica: la lentezza, la fluttuazione della performance e la scarsa strutturazione delle lettere (Mazeau, 2016).

  • La lentezza nella scrittura, con impossibilità a velocizzare, è sintomo della mancata automatizzazione della scrittura
  • Nella fluttuazione della performance, il bambino realizza la stessa lettera in modi diversi a seconda del contesto grafico e dei momenti e mette in pratica modi diversi di indovinare e sbagliare
  • Ultima caratteristica è la scarsa strutturazione delle lettere, le quali vengono realizzate per tratti con un aggravamento del disturbo nel corsivo

Nessuno di questi segni, preso in maniera isolata, è sufficiente a fare una diagnosi; la presenza di un disturbo o di un ritardo delle competenze grafiche significativo, va attestato con test standardizzati e con una diagnosi differenziale (Mazeau, 2008). Accertata la disprassia il bambino verrà preso in carico per eventuale trattamento della disgrafia.

Ora, invece, ci concentreremo sulle difficoltà prassico motorie che si ripercuotono sulla disgrafia. Un bambino con disprassia, incontra delle difficoltà nell’equilibrio, nell’oculomozione, nell’organizzazione degli arti superiori, delle mani e delle dita. A tali difficoltà si associano deficit nelle abilità sequenziali, grafico-motorie e manuali.

  • Le difficoltà nell’equilibrio e nei movimenti delle mani e delle dita, si ripercuotono sulla scrittura, in quanto determinano una postura non ergonomica con eccessiva vicinanza al foglio, poca fluidità e rigidità del polso, accompagnati dalla errata impugnatura dello strumento grafico e dalla difficoltà di separazione delle dita
  • L’oculomozione è importante nel momento in cui il bambino deve copiare dalla lavagna, gestire lo spazio e l’andare a capo sulle righe del foglio
  • Le abilità sequenziali, grafico-motorie e manuali, determinano difficoltà nell’orientamento sinistra-destra, inversione dei grafemi e continue interruzioni del tratto grafico con una scrittura dismetrica, poco o troppo marcata. Il bambino disprattico incontra notevoli difficoltà nel tagliare a causa dell’impugnatura sbagliata delle forbici (Pratelli, 1995)

Tale correlazione tra disprassia e disgrafia è riconosciuta da tempo in lavori di ricerca a livello internazionale e nazionale, ma le difficoltà su base prassico motorie sono correlate anche ad altri disturbi dell’apprendimento (Sabbadini, 2016).

Lettera aperta al mio corpo. Finalmente ti voglio bene.

Si dice che la psicoterapia è il percorso dei coraggiosi, di chi ha voglia di guardarsi dentro, di guardare in faccia le proprie paure ed insicurezze più profonde.. è un percorso faticoso, lungo e tortuoso ma che porta poi ad una vera e propria rinascita che con gratitudine e felicità condivisa è bello ascoltare quando ci viene raccontata dai nostri pazienti.

 

Oggi E. I. è una donna di quasi 40 anni ma ha iniziato a controllare ossessivamente il suo corpo prima ancora di compierne 20, quando ha deciso di liberarsi di quei chili di troppo che immaginava fossero alla base della sua percezione di inadeguatezza.
 Solo recentemente, dopo 3 anni di psicoterapia resi possibili dal giusto mix di curiosità e forza di volontà, E. I. ha capito che il suo corpo di bambina e poi di ragazza mangiava in eccesso per proteggerla da pericoli e dolori più grandi. E. I. sta quindi gradualmente imparando a volergli bene, liberandolo dal controllo e concedendogli quel diritto di parola necessario per comprendere chi è lei e cosa le piace fare.
 Oggi E. I. è un’appassionata  escursionista e un’esploratrice che sta restituendo al suo corpo la funzione di bussola che gli ha negato per la maggior parte della sua vita.

Siccome ha riscoperto anche la passione per la scrittura, lo racconta in questa lettera scritta proprio al suo corpo. 

Ilaria Cosimetti

 

Caro Corpo,

innanzitutto voglio dirti che ti voglio bene. Che ti sento mio e che non voglio essere in nessun altro corpo se non in te. Una dichiarazione d’amore in grande stile in poche parole. Non sei perfetto, ma abbiamo lasciato per troppo tempo il permesso che altri sottolineassero la tua imperfezione; è ora che riprendiamo la consapevolezza del tuo valore.

È una bugia dirti che ti ho sempre voluto bene. Ti ho odiato. Ti ho disprezzato. Ho tentato di distruggerti in ogni modo. Con la mia rabbia, con il cibo, con l’allenamento, con la mia disperazione, con la mia malattia.

E tu, caro Corpo, sei sempre risorto e mi hai sempre urlato in faccia che tu volevi vivere, che tu esistevi. Ti ho fatto ammalare eppure tu, anziché ribellarti, mi hai perdonato e mi consenti una seconda possibilità. La possibilità di vivere le mie passioni e di fare tutto ciò che amo.

Oso dire che, a dispetto di tutto quanto ti è stato detto quando eri piccino e di quanto ti ho detto io una volta cresciuta, sei davvero forte, più forte di quanto avessi mai immaginato. Dopo tutto quello che ti ho fatto passare ti sottopongo ad altre fatiche: camminate, peso dello zaino, alzate all’alba ecc… 
E tu mi segui, ti spingi oltre i tuoi limiti, oltre a quanto ti ho fatto ammalare.

Ti voglio ringraziare. Sappi che tutte queste fatiche vengono dall’amore, dalla gioia, dalla felicità, dalla pace. Non aver più paura, lasciati andare. Nessuno ti farà più del male. Nemmeno io. Desidero che tu sia libero di essere quello che sei. Sai che ti controllo un po’ ancora ma ti voglio bene e sono pronta ad ascoltarti e a mollare il colpo se ti sento borbottare. Mi raccomando tu borbotta se faccio qualcosa che non ti piace. Io sono qui e ci sono per te, come mai prima d’ora.

Ti voglio bene corpo mio, grazie per tutta la tua forza, determinazione, energia. Grazie per tutte le camminate ed avventure, per le uova con speck e patate ed i grappini che hai ingurgitato senza fiatare… eh lo so che erano proprio buoni. Grazie di aver resistito con convinzione al freddo dei 3000 metri, di aver folleggiato sull’altalena in mezzo ai monti, di aver sopportato bene il poco sonno e le poche comodità.

Ti svelo anche un segreto: ti ricordi che le gambe non mi piacevano per nulla perché erano belle “strutturate”. Persino quando sono stata anoressica le vedevo grasse. Ora io le amo perché grazie alla loro struttura sono forti e fanno di me una camminatrice di tutto rispetto. Vanno bene così. Andiamo bene così. Dobbiamo imparare a non continuare a valutarci. Ci hanno e ci siamo valutati e misurati abbastanza. Viviamo e lasciamo che sia.

Un miracolo di alta nutrizione – La dipendenza dal gusto del cibo: quando sale, zucchero e grassi sono troppi

La genetica dell’uomo può rivelarsi spietata con coloro che tentano di stravolgerne la logica: per migliaia di anni l’uomo è stato attivo, dinamico (una circostanza che odiernamente può essere mimata con l’attività fisica) e nutrizionalmente focalizzato solo su determinati alimenti, quelli disponibili in natura. Cosa succede se mangiamo cibi alterati?

 

Attualmente, siamo di fronte a nuovo paradigma alimentare: consumare un buon cibo (e spesso lo si intende come “artefatto”) è un’esperienza emblematica dell’uomo odierno. Nulla di male, se non fosse per il fatto che i cibi di oggi hanno più presa sui centri di ricompensa del cervello portandoci spesso a sviluppare una dipendenza dal gusto del cibo.

Questo potrebbe significare aver bisogno di mangiare di più per trovare maggiore soddisfazione, portando quindi a maggior rischio di obesità.

Gusto per i cibi: si influenza nei primi 18 mesi di vita

L’esperienza nutrizionale che inizia con lo svezzamento porta l’individuo a consolidare, e in qualche modo “congelare”, scelte alimentari abbastanza rigide, rafforzate dall’esperienza (Greco, Morini, 2010). Successivamente, quando il bambino inizia a camminare sviluppa gradualmente una resistenza a nuovi alimenti, denominata neofobia: egli non vuole modificare le sue certezze, la sicurezza degli alimenti. Questo meccanismo innato ha permesso ai bambini che iniziavano a camminare in un ambiente pieno di pericoli alimentari (erbe pericolose, alimenti deteriorati ecc) di limitare l’esposizione ad alimenti che non erano già stati registrati durante i primi 18 mesi di vita, sotto la tutela materna (Cooke et al., 2007). Di conseguenza chi non ha conosciuto vegetali fin dallo svezzamento – con la loro componente moderatamente amara legata a polifenoli, flavonoidi, terpeni glucosinolate e altre molecole benefiche – tenderà a respingerli con forza nel secondo anno di vita. Se non si cambia comportamento, la divisione tra gli alimenti diventa con il tempo sempre più netta e sarà sempre più difficile far sperimentare al bambino nuovi piatti poco invitanti o prodotti salutari che “bisogna mangiare”, come, tipicamente, le verdure (Hendy et al., 2009) e la frutta.

Dipendenza dal gusto: perché cerchiamo alcuni cibi

L’industria alimentare investe molte risorse per produrre cibi che sollecitino il piacere fino ad una vera e propria dipendenza. Gli ingredienti che maggiormente legano il consumatore a determinati cibi sono il contenuto di sale, grassi e zuccheri. Questo fenomeno viene definito bliss point. Alla base di quest’ultimo ci sarebbe un mix di ingredienti – come quelli citati – in grado di alterare i nostri sistemi percettivi. In natura, infatti, tendiamo a preferire quegli alimenti dolci o salati, ricchi di grassi, con un’alta densità energetica. Da alcuni studi è risultato che, nelle cavie, i neuroni del globo pallido ventrale vengono attivati quando si sottopongono rapide sequenze di impulsi in presenza della presentazione ed assunzione di stimoli alimentari piacevoli come lo zucchero (Tindell et al. 2006). Ne deriva, altresì, una maggior produzione di dopamina e di endorfine, le quali vengono considerate oppioidi endogeni, che ci conducono verso la preferenza di cibi con un’alta palatabilità. Ad essere coinvolto in questo meccanismo, dunque, vi è il nostro sistema dopaminergico e il sistema limbico.

Secondo alcune ricerche si è ipotizzata l’esistenza di un meccanismo attraverso cui alcune ricompense, come il cibo in questo caso, rinforzano particolari comportamenti: questo è dovuto da neuroni dopaminergici dell’area ventrale tegmentale che si attivano inizialmente all’arrivo del cibo. In altri termini lo scopo è suscitare una vera e propria dipendenza dal gusto di determinati alimenti.

Dipendenza dal gusto: si guarisce

La scelta dei cibi è in riferimento principalmente al nostro passato (educazione gustativa) e all’intervento di terzi nella produzione di artefatti alimentari (Bliss point).

La buona notizia è che nel giro di poche settimane, mangiando in maniera più sana, le nostre sensazioni gustative si assoggetterebbero ad un cambiamento, così che gli alimenti con quantità minore di sale, zucchero e grassi apporterebbero al nostro palato un sapore migliore (Greger 2014). Le sperimentazioni hanno fornito le prove che dimostrano che se evitiamo per qualche settimana il cibo “spazzatura” e i prodotti di origine animale dalla nostra dieta, i nostri gusti cominciano a cambiare.

Inserire, ad esempio, gradualmente frutta e verdura, oltre a depurare il nostro organismo, permetterà di eliminare la dipendenza dal gusto di cibo dai sapori forti.

Quanto più a lungo si consumano cibi più sani, migliore sarà il sapore che verrà percepito dai nostri sensi successivamente (Greger 2014).

 

Sesso e felicità: è il sesso a renderci più felici? O sono le persone felici a fare più sesso?

Il sesso, secondo questo recente studio, fa parte a tutti gli effetti dei fattori che ci rendono più felici. Non conterebbe se all’interno o meno di una relazione stabile.

 

In seguito alle numerose ricerche condotte nell’ambito del benessere, ad oggi le teorie psicologiche affermano che per condurre una vita felice siano necessarie tre caratteristiche:

  • Avere relazioni (non solo sentimentali)
  • Avere un senso di appartenenza
  • Avere degli obiettivi.

Sesso e felicità: quale relazione

A queste tre caratteristiche fondamentali, alcuni studiosi aggiungono il perdono, la gratitudine, la generosità e la compassione. Secondo un team di psicologi della Georg Mason University, in tutte queste ricerche è sempre stato tralasciato il sesso. Spesso è trattato come un argomento tabù, viene preso in esame raramente e in molti articoli viene ignorato.

I ricercatori, con uno studio di tre settimane (Kashdan et al., 2018), hanno cercato di ridare importanza al sesso e di correggere questa visione.

Nello studio sono state osservate le associazioni tra frequenza e qualità del sesso, umore e significato della vita. I partecipanti, 152 studenti universitari (116 donne, età media 24,63% in una relazione monogama), per tre settimane hanno dovuto annotare su un diario ogni giorno i propri stati d’animo, quanto sentivano importante la loro vita e qualsiasi tipo di attività sessuale avuta (dal bacio al rapporto completo), incluso il piacere e l’intimità provata.

Nelle precedenti ricerche sono state trovate correlazioni tra sesso e felicità, ma nessuno è riuscito ad individuare il rapporto di causalità; ovvero non è chiaro se è il sesso a rendere felici, o l’essere felici che porta ad avere più rapporti sessuali.

Sesso e felicità: i risultati dello studio

Gli autori di questo studio invece hanno individuato causa ed effetto. Dalla ricerca è emerso che chi ha rapporti sessuali riporta stati d’animo positivi il giorno dopo il rapporto ed un senso d’importanza della propria vita maggiore.

Non risulta vero il contrario: un maggiore senso della propria vita e sentimenti positivi non portano ad avere più rapporti sessuali. I risultati non cambiano da maschi a femmine.

In termini di natura dell’esperienza sessuale, un maggiore piacere, ma non intimità, è associato ad un umore positivo il giorno dopo.

Per quanto riguarda l’essere in una relazione o meno, non ci sono state grandi differenze. Secondo gli autori essere semplicemente in una relazione non è sufficiente per trarre benefici da attività piacevoli.

L’unica eccezione tra i benefici derivanti dal sesso, riguarda i ragazzi che avevano una relazione da poco tempo. Per loro infatti, il giorno dopo il sesso non era migliore in termini di stati d’animo, anzi questi erano più negativi. Gli autori giustificano questo risultato suggerendo che chi è in una nuova relazione, nel giorno in cui si hanno rapporti sessuali, i sentimenti negativi sono minori e quindi nel passaggio al giorno dopo la differenza è maggiore.

Lo studio presenta alcuni limiti:

  • i partecipanti erano tutti ragazzi universitari, le cui vite sessuali tendono ad essere diverse rispetto alle persone adulte
  • uno studio di tre settimane rappresenta solo una piccola parte della vita di una persona.

Gli autori ritengono comunque che il loro studio sia di grande importanza per la ricerca sul benessere ed è necessario effettuare ulteriori ricerche sul comportamento sessuale.

Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – Un commento di Giovanni Maria Ruggiero

Parte bene la risposta di Giuseppe Magistrale all’articolo di Valentina Davi, in cui erano commentati i risultati di uno studio di Poulsen e collaboratori (Poulsen et al., 2014) in cui sembrerebbe esserci un netto vantaggio a favore della terapia cognitivo comportamentale rispetto a un trattamento psicoanalitico a lungo termine per la bulimia. Parte bene ma finisce male, almeno dal mio punto di vista. Finisce male per le prospettive della psicoterapia…

 

Parte bene la risposta di Giuseppe Magistrale all’articolo di Valentina Davi del 16 luglio su State of Mind in cui erano commentati i risultati di uno studio di Poulsen e collaboratori (Poulsen et al., 2014) in cui sembrerebbe esserci un netto vantaggio a favore della terapia cognitivo comportamentale rispetto a un trattamento psicoanalitico a lungo termine per la bulimia.

Parte bene perché accetta la sfida empirica e risponde in maniera non ideologica, ma riportando dati significativi. Parte bene ma finisce male, almeno dal mio punto di vista. Finisce male per le prospettive della psicoterapia: in questo mio breve commento a Magistrale mi limito a sottolineare alcuni aspetti del tipo di analisi empirica di solito utilizzata dai fautori della relazione, aspetti che –lo ribadisco: a mio parere- rischiano di attribuire al paradigma relazionale una vittoria di Pirro, un tipo di vittoria in cui i costi sono superiori ai benefici e che a loro volta rischiano di danneggiare l’intero movimento psicoterapeutico.

La risposta di Magistrale utilizza una serie di obiezioni più o meno forti e interessanti contro il dato riportato da Poulsen et al. (2014) a favore della superiorità tecnica della terapia cognitivo comportamentale (da questo momento: la TCC) per la bulimia non per additare una incoraggiante direzione alternativa alla TCC, ovvero una terapia relazionale separata e distinta dalle altre psicoterapie e in grado di promettere nel tempo un significativo incremento di efficacia che dipenda da specifiche abilità professionali –relazionali appunto- che una volta imparate e migliorate nel tempo ci facciano diventare tutti terapisti migliori, ovvero più efficaci.

Efficacia della psicoterapia: il rischio insito nel relazionalismo

Purtroppo non è così. La conclusione di Magistrale è invece, come spesso accade con i relazionalisti, conservativa, difensiva e non promettente di nuovi sviluppi. Il relazionalismo predicato da Magistrale è quello solito: non un nuovo paradigma distinto dagli altri e onestamente in competizione con le altre psicoterapie, ma una qualità aspecifica, già presente in tutte le altre psicoterapie e in grado di spiegare indistintamente l’efficacia di tutte le psicoterapie, efficacia che sarebbe sempre e costantemente uguale per tutte le psicoterapie. Quindi non un fattore che promette sviluppi ma che spiega l’esistente e lo spiega in una maniera deprimente e in ultima analisi estremamente squalificante per un secolo di modelli e teorie psicoterapeutiche: tutti gli sforzi teorici e clinici fatti finora per migliorare la psicoterapia, dalla psicoanalisi freudiana ai suoi mille e più superamenti, dal cognitivismo beckiano ai suoi superamenti (avviati anch’essi a diventare mille e più) sono stati equivoci teorici che non spiegavano nulla, fantasie non più scientifiche di tante mitologie, teologie e filosofie del passato –da Zeus a Hegel- mentre il vero fattore era lì: la relazione. Primo motore immobile e già in sé perfettissimo, funzionante già prima di ogni procedura o protocollo, addirittura funzionante prima che fosse descritto, insegnato o raccomandato, e in grado di far funzionare qualunque psicoterapia anche nel caso che in essa non si faccia mai menzione di relazione e non ci si sogni di trattarla, o anzi la si concepisca come un ostacolo, come in certe forme primigenie di psicoanalisi.

Verdetto del dodo o strategia del cuculo?

Più che verdetto di Dodo, io parlerei di strategia del cuculo. Come il cuculo deposita le sue uova nei nidi degli altri uccelli e fa allevare i suoi pulcini a spese altrui, così la relazione si insedia negli altri paradigmi e lascia crescere la sua reputazione di unico e vero fattore di cambiamento a spese degli altri modelli, trasformandoli in fantasie metafisiche. Questo modo di concepire la relazione, che è poi quello dei fattori comuni di Lambert (Lambert e Barley, 2001), conferisce a chi lo adotta una vittoria di Pirro, in cui pur di impedire all’avversario di invocare un successo ci si accontenta di descrivere la psicoterapia come un processo che funziona fondamentalmente da solo, in base ad abilità intuitive, sofisticate nella costituzione ma immediate nell’applicazione. Una deriva che rischia di andare incontro ai peggiori istinti dei terapisti, in quanto trasforma la nostra professione in una facoltà intuitiva che va eseguita senza troppi controlli empirici e senza troppa disciplina tecnica. Una deriva dilettantesca che spesso è tamponata con un rimedio che è peggiore del male: celandosi dietro la solita raccomandazione di tipo sapienziale e non scientifico, la raccomandazione della necessità di una generica e fumosa crescita personale difficile da definire se non nei termini della solita analisi personale didattica. Perdonate la cattiveria: è l’analista didatta relazionalista esperto in fattori comuni in ultima analisi il beneficiario finale, il cuculo che ha depositato le sue uova nei nidi degli altri.

Beninteso, i dati di Magistrale sono reali, anche se a loro volta non conclusivi come quelli di Poulsen et colleghi, del resto. Sarà una lunga lotta alla fine della quale se e quando dovessero essere definitivamente confermati, essi ridurranno la psicoterapia a un placebo leggermente più efficace dell’assenza di cure, come ha già dimostrato Cuijpers (Cuijpers, van Straten, Andersson, e van Oppen, 2008; Cuijpers, Driessen, Hollon, van Oppen, Barth e Andersson, 2012). Se fosse confermato che questa è la realtà ne prenderemo atto, come è giusto che si faccia con ogni dato concreto.

Nel frattempo continuiamo a sperare in un più onesto avversario al posto della relazione intesa come fattore comune alla Lambert: non un fattore già presente che rende tutto uguale e rende ognuno vincitore di una gara strampalata e inquietante, ovvero il croquet di Alice nel Paese delle Meraviglie giocato con fenicotteri per mazze e porcospini come palle alla fine della quale chi perde rischia di essere decapitato per decisione della Regina di Cuori. A proposito: ci siamo mai chiesti, psicoanaliticamente, il significato simbolico della scelta del verdetto del dodo? Ovvero la psicoterapia come gioco surreale, inquietante e assurdo in cui vincono tutti e si rischia la morte? Per decapitazione?

Speriamo in una paradigma relazionale diverso, ovvero distinto e in competizione per la palma di vincitore onesto e non parassitario, fattore non comune ma specifico e in grado di promettere risultati migliori e quindi un maggiore benessere per i nostri pazienti. Basta con le metafore ornitologiche, basta con i dodo, i fenicotteri e il cuculo.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo!

Partendo da un articolo pubblicato su The Guardian nel 2014, vengono messe a confronto la terapia cognitivo comportamentale (CBT) e la terapia dinamica nel trattamento dei disturbi alimentari. I risultati non sono così facili da interpretare ed è bene fare attenzione nel definire una terapia più efficace dell’altra.

 

In un articolo pubblicato il 16 luglio su State of Mind vengono riportati i risultati di uno studio di Poulsen e collaboratori (Poulsen et al., 2014) in cui sembrerebbe esserci un netto vantaggio a favore della Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) rispetto a un trattamento psicoanalitico a lungo termine per la bulimia messo a punto dai primi autori dello studio, due psicoterapeuti a orientamento analitico.

Risultato ancor più sorprendente, il vantaggio della CBT sarebbe straordinario, dato che secondo l’articolo a praticarla sarebbero due psicoanalisti, e non terapeuti cognitivo comportamentali. Se fosse così questo risultato sarebbe sicuramente degno di nota, dato che in molti studi che comparano diversi trattamenti per un singolo disturbo è presente il cosiddetto “allegiance effect”: in altre parole, se gli autori dello studio sono di orientamento psicoanalitico, è più probabile che la spunti una terapia analitica, se invece gli autori dello studio sono sbilanciati per la CBT, il risultato dello studio sarà probabilmente altrettanto sbilanciato in favore della CBT. In questo caso lo studio sarebbe stato condotto da due terapeuti analitici che avrebbero anche somministrato di persona la CBT, a seguito di un training condotto con Christopher Fairburn, l’ideatore della CBT-E, la variante della CBT per i disturbi del comportamento alimentare.

Peccato che in questo caso le cose non stiano affatto come descritto nell’articolo, tratto da un pezzo di Freeman & Freeman pubblicato nel 2014 sul The Guardian.

Prima di farci prendere dall’entusiasmo nella rincorsa al sacro graal della psicoterapia, è bene leggere con attenzione lo studio, che è ben lontano dal dimostrare che il dodo è morto o che c’è un trattamento migliore di un altro per la bulimia, per quanto i risultati dello stesso, all’epoca, sembrassero promettenti. Ecco una lista di diverse inesattezze riportate nell’articolo e di buone ragioni per prendere con le pinze questo risultato, e qualche ragione pratica per prenderlo in considerazione a prescindere dal proprio orientamento teorico.

  1. In nessuna parte dello studio è scritto che a somministrare la CBT sono stati degli psicoanalisti, né che Poulsen e Lunn (i primi due autori, terapeuti di orientamento analitico) si siano fatti addestrare da Christopher Fairburn, l’ideatore del trattamento transdiagnostico CBT-E per la cura dei disturbi alimentari. Traduco parola per parola ciò che è invece scritto nello studio di Poulsen et al. per correggere questa inesattezza (abbastanza grave) presente nell’articolo apparso sul The Guardian:

    Sono stati usati due gruppi di terapeuti, uno per trattamento. Il trattamento psicoanalitico è stato somministrato da sei psicologhe cliniche e due psicologi clinici. In media, i terapeuti avevano 17 anni di esperienza psicoterapeutica. I terapeuti avevano almeno 2 anni di training in varie modalità di trattamento psicoanalitico o psicodinamico, e tutti erano supervisionati bisettimanalmente dal primo e dal secondo autore, che hanno elaborato il trattamento. La CBT è stata somministrata da uno psicologo uomo, due psicologhe donne e una psichiatra. In media, i terapeuti avevano 8 anni di esperienza terapeutica. Tutti i terapeuti avevano completato un training generico di 1 anno in CBT e tutti hanno partecipato in un workshop iniziale di 2 giorni fornito dall’ultimo autore (Christopher Fairburn). I terapeuti erano supervisionati bisettimanalmente via videoconferenza dall’ultimo autore, che ha elaborato il trattamento.

  2. La presenza di Christopher Fairburn come ultimo autore dello studio dovrebbe bastare per mettere a tacere qualsiasi presunzione di “allegiance effect”. Tra gli autori è infatti presente l’ideatore del principale trattamento in voga in ambito CBT per i disturbi alimentari, mentre i primi due autori sono gli ideatori del trattamento psicodinamico somministrato nel trial. Questo non rende l’articolo sbilanciato per una delle due terapie.
  3. Rimane il fatto che, in effetti, le proporzioni di sintomi in remissione nei due gruppi siano diverse. La CBT ottiene risultati migliori in questo studio. Questo è un risultato reale ed è importante. Tuttavia, non basta uno studio per asserire che una terapia è migliore di un’altra e pensarlo significa avere poca esperienza nella ricerca clinica, o forse essere vittime in prima persona del famigerato “allegiance effect”. La ricerca empirica sulla validità della terapia dinamica nella bulimia nervosa è agli albori e all’epoca della sua pubblicazione questo era l’unico studio in cui la CBT-E veniva comparata con una psicoterapia analitica. In un altro studio recente (Stefini et al., 2017) pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry viene comparata con la CBT una versione della terapia dinamica più focalizzata sui sintomi. I risultati hanno mostrato una sostanziale equivalenza tra le due forme di terapia, con piccole differenze a vantaggio dell’una o dell’altra nella cura della bulimia. Un risultato molto diverso dal precedente, nonostante gli autori sottolineino come i due trattamenti siano radicalmente diversi, e che l’unica cosa ad accomunarli sia una maggiore strutturazione.
  4. Una importantissima meta-analisi condotta nel 2013 pubblicata su Clinical Psychology Review che esamina le comparazioni dirette tra CBT e altri trattamenti attivi in 53 studi non ha trovato alcun supporto all’idea che ci sia specificità del trattamento per Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder (Spielmans et al., 2013). Questa meta analisi era presente al tempo in cui Freeman & Freeman hanno scritto l’articolo per il Guardian, ma curiosamente non riportata.
  5. Un altro studio recente che compara CBT-E (anche qui, i terapeuti hanno ricevuto il training da Fairburn in persona) e terapia dinamica focale nel trattamento dell’anoressia nervosa, mostra che le proporzioni di pazienti in remissione sono a favore della terapia dinamica (Zipfel et al., 2013). Questo basta per dire che la terapia dinamica è meglio della CBT nel trattamento dell’anoressia nervosa e dire addio all’effetto dodo? Ovviamente no. Nessun ricercatore sognerebbe di dire una cosa del genere. Il dodo sarà pure qualunquista, ma ad oggi rimane uno degli effetti più replicati in psicologia. Probabilmente verrà smantellato, ma non possiamo ucciderlo solo perché ci sta antipatico.

Terapia dinamica o CBT? Conclusioni

Allora in che direzione ci porta la letteratura corrente? Quello che forse un clinico può dedurne, è che quando il paziente è d’accordo e la relazione terapeutica lo permette, focalizzarsi attivamente sulla sintomatologia secondo la propria formazione di riferimento è preferibile, come lo psicoanalista relazionale Philip Bromberg ci spiega in un bellissimo articolo sulla bulimia nervosa e la dissociazione (Bromberg, 2001). Bisogna stare però molto attenti: gli studi sulla relazione terapeutica, sia di matrice dinamica che di matrice cognitivo comportamentale, dicono che è da preferire la relazione terapeutica al focus sui sintomi, qualora l’interesse dei pazienti non sia basato sul sintomo.

Nel recente libro a cura di Liotti, Fassone e Monticelli “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali”, basato sul paradigma teorico della terapia cognitivo evoluzionista, viene presentato un caso curioso: una paziente anoressica continuava a lasciare i percorsi in cui i terapeuti tentavano di farle notare un vistoso sottopeso. La paziente riesce a completare finalmente una terapia solo grazie a un terapeuta che non parla mai del suo stato fisico rispettando i tempi della paziente, che dopo molto tempo tira fuori l’argomento peso di sua iniziativa.

Per concludere, mentre dire che la CBT ha più studi di efficacia alle spalle è corretto, dire che la CBT è superiore alla psicoterapia dinamica è precoce e un po’ di parte ed è proprio la materia di cui è fatto l’allegiance effect: un ragionamento di parte. L’assenza di evidenza non è evidenza di assenza.

A proposito di Allegiance Effect, l’articolo del The Guardian è scritto da Jason Freeman, un giornalista, e suo fratello Daniel Freeman, un forte sostenitore della terapia cognitivo comportamentale. Non esattamente un articolo privo di allegiance, insomma.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

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