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Professor George Bonanno: lectio magistralis su perdita, trauma e resilienza – Sigmund Freud University, Milano

Ho avuto il piacere di ospitare Il Professor George Bonanno alla Sigmund Freud University, dove ha tenuto una lectio magistralis dal titolo Loss, Trauma e Human Resilience: An Elementary Approach

Mattia Ferro

 

Il Professor George Bonanno è uno dei massimi studiosi di lutto, trauma e resilienza (intesa come la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà), porta avanti le sue indagini integrando più punti di vista (“come salire su una montagna e guardare l’orizzonte” dirà durante la sua lecture a proposito del suo approccio scientifico): quello della psicologia clinica, della psicologia sociale, delle neuroscienze, della biologia e della gentica.

È professore di psicologia clinica, direttore del Loss, Trauma, and Emotion Lab, e direttore del Resilience Center for Veterans and Families alla Columbia University di New York, USA.

Stress, trauma e resilienza

Nella sua lezione, ha passato in rassegna i suoi numerosi lavori che si sono concentrati sull’indagine degli effetti di stress, trauma e resilienza in differenti categorie di persone: soggetti colpiti da patologie mediche acute (infarti) e croniche (lesioni spinali), persone che sono state esposte a forti shock (il crollo delle torri dell’11 settembre, disastri ambientali come terremoti così come militari reduci della guerra in Afganistan/Iraq) fino ad arrivare ai modelli animali di stress.

L’idea base del Prof. Bonanno è che la resilienza è la reazione più comune e “geneticamente determinata” alla perdita o al trauma che ha descritto (per la prima volta) come una naturale, appunto, capacità di recupero come componente principale delle reazioni di dolore e trauma nelle persone che subiscono gravi perdite, come la morte di un coniuge, la perdita di un figlio, o in situazioni di forte stress come le precedenti descritte. Tali ipotesi sono state sviluppate introducendo metodi scientifici di ricerca rigorosi, necessità che Bonanno ha ripetuto più volte essere necessaria in qualunque indagine di ordine psicologico che si intenda portare avanti.

Le risposte di George Bonanno alle nostre domande

Ho potuto rivolgere alcune domande al Professor Bonanno, che ho voluto riportare per State Of Mind in questa mini-intervista, al fine di aiutare a delineare il pensiero di questo celebre ricercatore.

Intervistatore: Ciao George, mi interessa sapere come è nato il tuo interesse per la psicologia e perché ti sei concentrato sul trauma e sulla resilienza.

Professor George Bonanno: Sono entrato nel mondo della psicologia per caso. Non ero ancora andato all’università. Ho ritardato la mia educazione universitaria, esplorando prima un po’ il mondo. Avevo 25 anni e ancora non avevo una laurea quando sono stato assunto per aiutare a deistituzionalizzare un ospedale statale. Vidi persone che erano state rinchiuse lì per anni, chiaramente psicotiche, improvvisamente diventate molto più sane semplicemente perché erano state portate fuori dall’ospedale. Questo mi ha stupito e ho deciso di andare all’università a studiare psicologia.

Diversi anni dopo, dopo aver conseguito la laurea e poi un Ph.D alla Yale University, stavo lavorando come ricercatore post-dottorato a San Francisco (University of California). Lì ho avuto modo di progettare un ampio studio di persone affette da lutto e abbiamo deciso di seguire queste persone nel corso del tempo, raccogliendo i dati nel modo più preciso possibile. Volevo anche assicurarmi di avere tutti le “tipologie” di persone nello studio, non solo le persone che mostravano una sintomatologia luttuosa molto importante. In quello studio, e in molti studi successivi, abbiamo visto molte persone che sembravano affrontare molto bene i loro eventi luttuosi. Diventavano evidentemente turbati quando veniva loro chiesto di parlare della loro perdita, senza però mostrare crolli emotivi, riuscivano comunque ancora a “funzionare bene” nelle loro vite. Mentre questa ricerca andava avanti, iniziai a studiare altri tipi di eventi traumatici, cercando di creare modi formali per mappare i risultati e costruendo delle traiettorie che potessero rappresentare l’andamento di tali processi. Abbiamo definito quindi la resilienza come una traiettoria stabile di funzionamento sano che inizia subito dopo l’evento potenzialmente traumatico.

Intevistatore: Quale scoperta che hai fatto consideri la più importante?

Professor George Bonanno: La maggior parte delle persone, ho trovato, erano resilienti anche dopo eventi traumatici molto duri e difficili. Ora abbiamo replicato questa scoperta in molti studi. Per me questa è la scoperta più importante, perché mostra che la resilienza è la normale e tipica risposta ad un potenziale trauma.

Intervistatore: In che modo pensi che i risultati dei tuoi studi possano essere utili alla comunità?

Professor George Bonanno: Abbiamo scoperto che la maggior parte delle persone rimane sconvolta, disorientata e ansiosa, dopo un potenziale trauma. questo è normale e naturale, ma è importante per le comunità sapere che nella maggior parte delle persone questa reazione iniziale è di breve durata, di solito non più di pochi giorni o al massimo qualche settimana, e che alla fine la maggior parte delle persone starà bene, in grado di andare avanti in modo sano in quello che è il proprio percorso di vita, anche dopo eventi orribili e terribili. In genere dopo circa un mese appare evidente che la maggior parte delle persone recupera, un sottogruppo di persone più piccolo (10%) però non si riprenderanno neanche dopo questo periodo di tempo. Per queste persone un aiuto professionale può essere utile e importante potendo probabilmente trarre beneficio da quei supporti, dalle reti sanitarie e da quelle figure presenti nelle comunità sociali.

Intervistatore: Cosa consiglieresti oggi ad uno studente che è al suo primo anno di psicologia?

Professor George Bonanno: Consiglierei ai nuovi studenti di dare un’occhiata molto critica alle ipotesi presenti nelle diverse teorie della psicologia. Uno dovrebbe sempre chiedersi, qual è la prova per questa assunzione o questa conclusione? È proprio vero? C’è un altro modo col quale possiamo pensare a ciò? Possiamo mettere insieme le prove di ricerca disponibili per suggerire un’idea alternativa? In breve, pensa sempre in modo critico alle idee della psicologia.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE.

George Bonanno - Lezione Magistrale Resilienza SFU Milano

George Bonanno ha 68 anni pur dimostrandone 18 in meno. Ho una foto scattata da una collega della SFU, che mi ritrae intento a parlare con lui, che ho mostrato ad un mio amico. Mi ha detto che sembriamo coetanei, pur avendo 33 anni di differenza. La resilienza rende (anche) giovani?

Depressione in età pre-scolare: riconoscerla e trattarla con la terapia genitore-bambino

La prevalenza del disturbo depressivo maggiore nei bambini in età pediatrica è pari a circa 1-2%. In questo periodo evolutivo, la depressione si manifesta diversamente rispetto agli adulti, per la minore presenza di sintomi della sfera cognitiva.

 

In particolare, i bambini depressi possono presentare: tristezza, irritabilità, scarso interesse per il gioco, lamentele somatiche, disturbo del sonno e/o dell’appetito, aggressività, tendenza all’evitamento sociale, apatia/rallentamento etc..

Depressione prescolare: la terapia genitori-bambini

Una recente ricerca, svolta da Washington University School of Medicine in St. Louis, ha dimostrato che una terapia interattiva, che coinvolge i genitori e i bambini depressi, può ridurre i tassi di depressione e la gravità dei sintomi dei bambini. Joan L. Luby, direttore del programma di sviluppo emotivo precoce dell’università, sostiene l’importanza di identificare precocemente i sintomi depressivi; e successivamente, di aiutare i bambini a modificare il modo in cui elaborano le loro emozioni. In questo modo, secondo l’autore, sarebbe possibile migliorare la sintomatologia depressiva e, forse, ridurre o prevenire attacchi ricorrenti del disturbo nel corso della vita.

Luby e collaboratori hanno adattato un trattamento noto come Parent-Child Interaction Therapy (PCIT), sviluppato negli anni ’70 per trattare il comportamento dirompente nei bambini in età prescolare. A questo trattamento sono state aggiunte una serie di sessioni incentrate sulle emozioni; infatti gli autori concettualizzano la depressione come una compromissione della capacità di sperimentare e regolare le emozioni.

In altre parole, l’obiettivo del programma di trattamento consiste nel miglioramento dello sviluppo emotivo del bambino. Una delle modalità per raggiungere quest’obiettivo consiste nell’insegnare ai genitori come gestire le risposte emotive del bambino a determinate situazioni stressanti.

Depressione nei bambini: i risultati dello studio

Il team di Luby ha preso in esame 229 coppie genitore-figlio. I bambini nello studio, di età compresa tra i 3 e i 7 anni, avevano avuto una diagnosi di depressione. Solo la metà di questi ha usufruito della terapia adattata, denominata PCIT-ED.

Rispetto ai bambini che sono stati inseriti in una lista di attesa e che non avevano ancora iniziato la terapia, quelli che avevano ricevuto l’intervento sin da subito, presentavano tassi di depressione più bassi dopo 18 settimane e un complessivo miglioramento. Per i bambini trattati, se la depressione continuava dopo il trattamento, tendeva ad essere meno grave rispetto a quella osservata nei bambini che non avevano ancora usufruito della terapia.

Luby ha affermato che i bambini nello studio saranno seguiti nel tempo per misurare la durata degli effetti della terapia. In particolare, i ricercatori sperano di poter seguire i bambini fino all’adolescenza, allo scopo di osservare se l’intervento, svolto nella prima infanzia, fornisce benefici a lungo termine.

Infine, è interessante notare che gli studiosi, al termine della ricerca, hanno scoperto che i sintomi della depressione clinica, non solo sono migliorati nei bambini, ma sono anche migliorati nei genitori che hanno lavorato con i propri bambini durante lo studio.

Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo

Il cosiddetto verdetto del dodo asserisce che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni, primo fra tutti la relazione terapeutica.

Tratto dall’articolo di Freeman & Freeman pubblicato nel 2014 sul The Guardian

 

“Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”.

Per chiunque abbia studiato psicologia questa frase non è una semplice citazione tratta da Alice nel Paese delle Meraviglie: il verdetto del dodo è il simbolo di uno dei più grandi terremoti che abbia mai sconquassato il mondo della psicoterapia.

Infatti, nel 1936 Saul Rosenzweig suggerì che tutte le psicoterapie fossero ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni; nessuna tecnica specifica rendeva un approccio psicoterapeutico più efficace di un altro.

Quasi 40 anni dopo, Luborsky et Al. (1975) pubblicarono uno studio i cui risultati supportavano la tesi di Rosenzweig, ipotizzando che il fattore aspecifico determinante potesse essere la relazione terapeutica.

Da allora, si sono susseguiti una miriade di studi di outcome volti a confermare o smentire il verdetto del dodo psicoterapeutico.

Sebbene i risultati sembrino in realtà asserire che no, non è vero che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci, è anche vero che tendenzialmente gli studi vengono condotti nel tentativo di dimostrare l’efficacia e la superiorità del proprio approccio sugli altri e quindi potrebbero essere non proprio imparziali.

Ed è proprio alla luce di quest’ultima considerazione che uno studio del 2014 pubblicato sull’American Journal Psychiatry assume particolare rilevanza all’interno del dibattito.

Questo studio clinico controllato randomizzato, condotto da Poulsen e colleghi su 70 soggetti, aveva come obiettivo il confronto tra psicoterapia psicoanalitica e psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) nel trattamento della bulimia nervosa.

I pazienti furono divisi in due gruppi: a un gruppo fu assegnata una psicoterapia psicoanalitica una volta a settimana per due anni, all’altro 20 sedute di CBT nell’arco di 5 mesi.

Entrambi i gruppi mostrarono miglioramenti, ma i risultati ottenuti per il gruppo trattato con CBT furono nettamente maggiori: dopo 5 mesi il 42% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate, contro il 6% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica; dopo 2 anni il 44% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate (a distanza di un anno e mezzo dal termine del trattamento), contro il 15% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica.

Perché questo studio è così importante per la discussione sull’efficacia delle psicoterapie?

Perché i terapeuti che hanno condotto il trial e che hanno somministrato la CBT erano… psicoanalisti! Per l’occasione infatti Stig Poulsen e Susanne Lunn hanno seguito per due giorni un training CBT per i disturbi del comportamento alimentare condotto niente meno che da Christopher Fairburn, oltre a essere costantemente supervisionati nel lavoro terapeutico durante i 5 mesi di psicoterapia.

E nel probabile tentativo di dimostrare l’efficacia del proprio approccio sono giunti alla conclusione opposta, tanto da auspicare lo sviluppo di una versione della psicoterapia psicoanalitica per la bulimia più strutturata e focalizzata sul sintomo.

Il verdetto del dodo risulta quindi ormai superato; è invece importante riconoscere che esistono trattamenti maggiormente indicati per determinati disturbi e che è necessario muoversi in questa direzione per identificare e migliorare sempre più interventi e protocolli specifici, così da indirizzare i pazienti verso il miglior trattamento evidence based disponibile ed efficace per la loro condizione; con buona pace di Rosenzweig, Luborsky e del dodo.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Compassion Focus Therapy – Report dal workshop con Nicola Petrocchi

Che cos’è la compassione? “Una particolare sensibilità alla sofferenza di sé stessi e degli altri, unita ad un forte desiderio, motivazione ed impegno ad alleviarla.” (Aristotele).

 

Già secondo Aristotele, la Compassione era intesa come una emozione che riguarda la sofferenza che colpisce le altre persone.

Compassione: cos’è

Essa si baserebbe, sempre secondo il grande filosofo, su tre requisiti cognitivi:

  • La credenza, o valutazione, che la sofferenza sia seria e non banale
  • La convinzione che la persona non meriti tale sofferenza
  • La consapevolezza che ciò che capita all’altro, un giorno potrebbe capitare a noi stessi.

Nella giornata del 30 giugno e 1 luglio si è svolto un workshop formativo ed esperienziale in collaborazione con l’Associazione “Centro di Psicologia e Psicoterapia Funzionale” di Padova avente come tema centrale la Compassion Focus Therapy, tenuta da Nicola Petrocchi.

Nicola Petrocchi è Psicologo e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, Ph. D. in psicologia e neuroscienze sociali; rappresentante italiano dell’approccio terapeutico della Compassion Focus Therapy, fondatore e presidente insieme a Paul Gilbert dell’associazione Compassionate Mind Italia; traduttore e curatore del libro “La terapia focalizzata sulla compassione.” Di Paul Gilbert, edito da Franco Angeli.

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Compassione e regolazione delle emozioni Compassion Focus Therapy foto 2

Imm. 1 – Nicola Petrocchi parla della Compassion Focus Therapy

Compassione e Compassion Focus Therapy (CFT)

La CFT rappresenta un nuovo approccio psicoterapeutico nato nell’ambito della terapia cognitivo comportamentale di terza generazione, sviluppata nel 2005 da Paul Gilbert, psicologo e psicoterapeuta cognitivo comportamentale, il quale durante il suo lavoro con i pazienti, notò come in alcuni di questi, soprattutto pazienti con disturbi depressivi, fosse più forte la resistenza al cambiamento e che la stessa non riusciva ad essere risolta facendo ricorso esclusivamente al lavoro sulla credenza disfunzionale e le distorsioni cognitive.

Tale osservazione, in linea con i contributi provenienti dalle Teorie dell’Attaccamento che sottolineano come il primo terreno affettivo all’interno del quale noi nasciamo e cresciamo, sia in grado di incidere sulle future modalità che adotteremo con noi stessi, nei confronti degli altri e degli eventi che incontreremo nella vita, unite alle teorie evoluzionistiche che sempre di più mettono in luce l’evoluzione del nostro cervello e il suo funzionamento, da quello più arcaico che ci rende più simile ai mammiferi, fino alla sviluppo della neocorteccia e relativo funzionamento, si comincia a concettualizzare che nella nascita della psicopatologia e nel suo mantenimento possono essere rintracciate nelle dinamiche di attivazione di alcuni sistemi di regolazione emotiva presenti nel nostro cervello. E grazie anche contributi delle neuroscienze si cominciano a distinguere tre sistemi di regolazione affettiva:

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Compassione e regolazione delle emozioni Compassion Focus Therapy foto 1

Imm. 2 – Nicola Petrocchi parla dei tre sistemi di regolazione affettiva

  • Sistema di protezione della minaccia (threat system) o sistema rosso come lo chiama Petrocchi, responsabile del sistema attacco-fuga, volto a garantirci la sopravvivenza, mobilitandoci di fronte a una possibile minaccia, al fine di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza (safety). Responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna. Si accompagna, oltre ad una maggiore attenzione selettiva di fronte a una potenziale minaccia, un tipo di ragionamento conservatorio e comportamenti di evitamento e protettivi.
  • Sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive and excitement system) o sistema blu, legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al circuito dopaminergico che ci consente di sperimentare sensazione di benessere e piacere. Ne sono un esempio come ci sentiamo dopo un esame finito positivamente, l’ottenimento di una promozione al lavoro, il vincere una gara… Ma in tale sistema emotivo, il soggetto è fortemente autocentrato e viene meno la motivazione verso l’altro; il soggetto è più propenso a credere che la sensazione di benessere sia legata al fare. Per certi versi, in tale sistema “stiamo bene finché le cose ci vanno bene” e in perfetta sintonia con le nostre aspettative, bisogni e desideri.
  • Sistema di regolazione emotiva, quello definito da Paul Gilbert sistema calmante (soothing system) o sistema verde. Un sistema responsabile di emozioni piacevoli e di benessere ma ben distinte da quelle prodotte dal sistema blu. Caratterizzato da stati emotivi come la calma, la tranquillità, l’appagamento ed il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo in pericolo; sembrerebbe strettamente connesso all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi connessi agli altri, ed inoltre connesso anche a un maggior rilascio nell’organismo dell’ossitocina, una sostanza in grado di produrre sensazioni appaganti e calmanti. Diversi studi infatti, concordano sul fatto che una maggiore presenza di tale sostanza nel sangue, sia strettamente connessa ad un aumento della sensazione di fiducia nei confronti di se stessi e negli altri, dovuto anche all’azione inibente che l’ossitocina svolge in alcune zone cerebrali associate alla paura.

Compassion Focus Therapy: riequilibrare i sistemi di regolazione emotiva

La Compassion Focus Therapy pone dunque la sua attenzione e cerca di intervenire proprio sullo squilibrio che alcune persone presentano fra questi tre sistemi, cercando di sviluppare ed allenare il sistema verde, ossia il sistema calmante, che in molti pazienti risulta ipoattivo. Infatti, la tesi portata avanti dalla CFT, è legata alla convinzione che aumentando e fortificando il sistema verde, un eventuale squilibrio negli altri due sistemi, il sistema blu e il sistema rosso, sia meglio gestito dal soggetto.

La CFT, a tal proposito, ha sviluppato una serie di tecniche volte a coltivare e sviluppare il Sé compassionevole, che abita il sistema verde, in grado da accogliere e stemperare altri aspetti caratteristici della specie umana come l’autocritica, la vergogna ed il senso di colpa, per renderli più funzionali per la persona che li sperimenta.

Ne sono esempi la mindfulness, la respirazione profonda e calmante, tecniche di immaginazione, dove la persona è invitata a provare a visualizzare un suo luogo sicuro; la visualizzazione del Sé compassionevole, provando a creare l’immagine di una figura, un soggetto, in grado di calmarci e rassicurarci, che ci trasmetti un messaggio di accettazione incondizionata, di fronte alla quale sentiamo di essere i benvenuti ed accolti così come siamo; ed ancora la lettera compassionevole e tante altre tecniche, la cui finalità non è quella di eliminare il dolore e la sofferenza, ma di aumentare la fiducia in noi stessi circa la sensazione di poter disporre di abbastanza risorse per affrontare, tollerare e reagire “agli urti della vita” (strettamente connesso al concetto di resilienza).

 

Studenti con disabilità e DSA nelle lauree e nei percorsi abilitanti: criticità e prospettive – Report dal convegno

Purtroppo oggi si fa ancora molta fatica ad accettare di avere un medico con disabilità. Su questo fronte nessuna riforma sanitaria o universitaria può essere sufficiente, occorre piuttosto recuperare l’empatia che un tempo legava medico e paziente.

 

Il rapporto medico-paziente è da sempre al centro del dibattito pubblico. Nell’immaginario collettivo il medico è il primo degli eroi, colui che fa nascere e accompagna per tutta la vita. La pubblicità, a sua volta, diffonde immagini di medici prestanti, capaci di scalare montagne, pur di arrivare a salvare uomini in difficoltà.

Ma cosa succede nella realtà quando il medico si ammala? Come reagiscono pazienti e colleghi davanti ad uno specialista con disabilità?

Se ne è discusso al convegno “Studenti con disabilità e DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) nelle lauree e nei percorsi abilitanti: criticità e prospettive”, organizzato dal CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati per la Disabilità) e dal CALD (Coordinamento degli Atenei Lombardi per la Disabilità), presso l’Auditorium Testori di Milano.

Sono paraplegica da più di vent’anni e ancora oggi molti pazienti, quando varcano la soglia del mio ambulatorio, rimangono perplessi. Alcuni mi domandano come possa lavorare! Il mio carattere forte mi consente di non avere complessi, ma conosco specialisti con disabilità che, nonostante il loro talento, sono stati esclusi dalla possibilità di fare carriera – ha testimoniato Pasqualina Bardino, medico chirurgo, mediatore civile e commerciale di Sassari.

Il diritto di accesso ai livelli superiori dell’istruzione per le persone con disabilità e DSA – hanno sottolineato i promotori del convegno – è riconosciuto e garantito dalle Università italiane.

Per le lauree abilitanti, che consentono l’accesso al lavoro alla fine del percorso di studio, la Costituzione impone di considerare le condizioni fisiche e psichiche del neolaureato. Ecco perché gli Atenei dovrebbero formare professionisti in grado di svolgere compiutamente il proprio ruolo professionale. È in gioco la responsabilità che il mondo accademico si assume nei confronti dei soggetti terzi.

Ma è in gioco anche la dignità dei laureati portatori di handicap. Come risolvere il problema?

All’incontro, che si è svolto con il contributo di Lisa Meeks, presidente di Coalition for Disability Access in Health Science and Medical Education, tutti sono apparsi concordi nel ritenere che il rafforzamento del lavoro d’équipe possa essere la risposta.

Un medico con disabilità può essere affiancato da un infermiere, purché il rapporto sia paritario. Laddove si pensasse di dare un aiuto al medico, si porrebbe quest’ultimo in uno stato di umiliante passività. Medico ed infermiere sono entrambi professionisti con ruoli diversi, ma complementari.

Sono già tanti, per fortuna, i buoni esempi.

Resta un po’ di strada da fare sul fronte culturale. I pazienti stentano ad accettare un medico cieco o in sedia a rotelle. Su questo fronte nessuna riforma sanitaria o universitaria può essere sufficiente. Occorre, allora, recuperare l’empatia che un tempo legava il medico al paziente.

Oggi, attraverso l’uso delle tecnologie digitali, gli specialisti possono monitorare i malati 24 ore su 24, tramite un semplice device. Senza dubbio, ciò è una conquista. Purché non si dimentichi che il buon medico non cura soltanto il sintomo, ma l’uomo nella sua interezza, anima compresa.

La mindfulness: defizione e applicazione nei disturbi d’ansia

Pazienti che soffrono di disturbi d’ansia possono trarre benefici, sia psicologici che fisiologici, dalla pratica della mindfulness anche dopo una singola sessione di esercizi.

 

Con il termine mindfulness ci si riferisce a un modo di entrare in contatto, esplorare e comprendere i propri contenuti mentali, essa consente di osservare e descrivere la propria esperienza interiore senza giudicarla, correggerla, modificarla. In altre parole, la mindfulness permette di essere consapevoli dei propri stati mentali, dei propri pensieri, favorendo nelle persone il raggiungimento di un maggior grado di conoscenza di se stessi.

Perché la mindfulness è importante?

Spesso le persone non sono consapevoli dei propri contenuti mentali e questo le porta ad essere vittime passive di strategie cognitive disfunzionali, come la ruminazione e il rimuginio, o anche di dialoghi interni negativi o pensieri autoinvalidanti. Un esempio di frase che è spesso utilizzata nel momento in cui tali modalità cognitive vengono messe in atto potrebbe essere: “Non riesco proprio a smettere di pensare a…”

Rispetto alle strategie cognitive disfunzionali, è importante distinguere tra:

  • Ruminazione: si riferisce a pensieri ripetitivi rivolti verso eventi passati per cui le persone ricercano spiegazioni e risposte, ed è spesso associta al disturbo depressivo maggiore
  • Rimuginio: si riferisce a pensieri ripetitivi rivolti verso eventi futuri, al fine di prevedere delle conseguenze negative. Questa tipologia di pensiero ripetitivo è spesso associata ai disturbi d’ansia

Mindfulness e Disturbi d’ansia

Rispetto ai disturbi di tipo ansioso, una nuova ricerca ha messo in evidenza che i pazienti con disturbi d’ansia possono trarre benefici, psicologici e fisiologici, dalla pratica mindfulness anche dopo una singola sessione.

Nello specifico, i ricercatori hanno reclutato quattordici partecipanti che presentavano alti livelli di ansia al fine di sottoporli ad una sessione guidata di mindfulness della durata di 60 minuti, in cui i partecipanti venivano aiutati a concentrarsi sulla respirazione e ad aumentare la consapevolezza dei propri pensieri.

I risultati della ricerca hanno dimostrato che anche un singolo intervento breve di mindfulness può produrre miglioramenti misurabili nelle persone con disturbi d’ansia. In particolare, gli studiosi hanno messo in evidenza una chiara riduzione dell’ansia, che è stata misurata un’ora dopo la sessione di meditazione. Durocher, autore principale dello studio, sostiene che:

La maggior parte dei partecipanti ha riferito di continuare a utilizzare le pratiche mindfulness, anche dopo la sessione svolta; inoltre, i loro livelli di ansia si erano abbassati in modo significativo anche ad una settimana di distanza dalla sessione di mindfulness.

Social network e salute: la qualità dell’uso conta di più della frequenza d’uso

L’uso dei social network, e Facebook ne è l’esempio principale, ha un ruolo significativo nella vita soprattutto degli adolescenti e dei giovani adulti (Kuss & Griffiths, 2011). 

Claudia Marino – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Mediante i social network gli utenti soddisfano bisogni importanti, tra i quali la costruzione della propria identità sociale e il bisogno di appartenenza a una comunità (Marino, Vieno, Pastore et al., 2016). Tuttavia, in alcuni casi l’uso di Facebook può diventare problematico.

Anche se nella letteratura scientifica non è ancora riconosciuto come vera “dipendenza” comportamentale alla stregua del gioco d’azzardo (Marino, Vieno, Altoè & Spada, 2017; Ryan, Reece, Chester, & Xenos, 2014), l’uso dei social network può pervadere la vita quotidiana dell’utente e portare a conseguenze negative per il benessere psicosociale degli utenti (per esempio determinando scarsa concentrazione e più elevati conflitti interpersonali). Negli ultimi anni, dunque, è cresciuto esponenzialmente l’interesse dei ricercatori per le cosiddette “dipendenze online” a livello internazionale (Billieux et al., 2017). In particolare, molti articoli giornalistici e scientifici si sono interrogati sulle ragioni e sugli effetti per la salute dell’uso delle nuove tecnologie e dei social network, soprattutto tra i giovani. Ma cos’è che rende realmente problematico l’uso dei social?

L’obiettivo del presente articolo è di proporre una visione aggiornata e d’insieme sull’uso problematico di Facebook e dei social media in generale, con particolare riferimento alle caratteristiche distintive del fenomeno, ad alcuni dei correlati psicologici più frequentemente studiati e alle implicazioni pratiche per l’intervento clinico e preventivo.

Social network: chi li usa in modo problematico?

In linea con il modello cognitivo-comportamentale dell’uso problematico di internet proposto da Caplan (2010), l’uso problematico dei social network e di Facebook in particolare, è caratterizzato dalla preferenza per le interazioni sociali online rispetto a quelle faccia-a-faccia, da un’eccessiva preoccupazione per quanto succede online e da un uso “compulsivo” del social network che creano difficoltà nelle relazioni sociali quotidiane ma anche nella vita scolastica e lavorativa (Marino et al., 2017). Gli utenti problematici, infatti, sembrano avere bassi livelli di benessere psicologico e fare un uso in generale più problematico di internet.

Su questo argomento, sono state recentemente pubblicate le prime due meta-analisi, in cui sono stati analizzati i risultati di numerosi studi che hanno coinvolto oltre 27.000 utenti di Facebook residenti in Europa, Nord America e Asia (Marino, Gini, Vieno, & Spada, 2018a; Marino, Gini, Vieno, & Spada, 2018b). Tali studi evidenziano che gli utenti che utilizzano Facebook in maniera più problematica sono più a rischio di riportare segnali di distress psicologico, quali maggiori livelli di ansia e depressione (r = .35). Inoltre, gli stessi mostrano livelli più bassi di felicità e soddisfazione per la propria vita (r = –.19; Marino et al., 2018a) e autostima (r = -.23; Marino et al., 2018b). Sorprendentemente, i risultati indicano anche che i tanto studiati tratti di personalità hanno un ruolo del tutto marginale nel determinare la problematicità dell’uso: infatti, solo gli utenti con bassi livelli di stabilità emotiva (r = .22) e alti livelli di coscienziosità (r = -.16) sembrano essere più problematici. Inoltre, l’uso problematico di Facebook sembra essere soltanto leggermente più frequente tra le ragazze ed è risultato associato e ad una maggiore quantità di tempo spesa online. Quest’ultimo risultato, che evidenzia un’associazione media tra tempo speso online e problematicità (r = .32), indica che la quantità del tempo speso su internet e sui social è, come prevedibile, un aspetto importante, sebbene non esaustivo, dell’uso problematico dei social (Marino et al., 2018b).

Uso problematico dei social network: una questione di quantità?

A questa domanda, la ricerca scientifica sembra rispondere “no”. Infatti, se verosimilmente chi fa un uso problematico dei social passa anche molto tempo online, l’associazione tra quantità e qualità dell’uso di Facebook trovata nella meta-analisi non è grande abbastanza da sostenere l’idea che la frequenza d’uso e l’uso problematico siano comportamenti completamente sovrapponibili. È infatti verosimile che la maggior parte delle persone che usano molto spesso internet e i social ne facciano un uso positivo e funzionale (ad esempio, per ragioni accademiche e lavorative) e non soffrano dei sintomi tipici delle dipendenze (Pontes, Kuss, & Griffiths, 2015).

Inoltre, se da un lato spendere molto tempo sui social può essere considerato un comportamento normale e adattivo nell’attuale panorama della comunicazione 2.0, soprattutto per i più giovani (Griffiths & Kuss, 2017), dall’altro lato quando il coinvolgimento nei social diventa incontrollabile può avere un impatto negativo per una minoranza di utenti, per esempio, su qualità del sonno, obesità o rendimento scolastico (Carbonell & Panova, 2017; Griffiths, Fernadez, Pontes, & Kuss, 2018). Per questa ragione sembra particolarmente importante distinguere la quantità dell’uso dei social dagli effetti della qualità dell’uso problematico degli stessi.

In un recente studio, Twenge e colleghi (2018a) sostengono che l’aumento di sintomi depressivi tra le ragazze americane dal 2010 ad oggi possa essere imputabile, insieme ad altri fattori, a un uso sempre più massiccio dei nuovi media e in particolare dei social media. In particolare, però, gli autori riportano correlazioni basse tra l’uso di dispositivi elettronici e ideazioni suicidarie (r = .12) e associazioni ancora più basse tra uso dei social media e depressione (r =. 05).

In un altro articolo, Twenge e colleghi (2018b) riportano, inoltre, un’associazione molto piccola tra la diminuzione dei livelli di felicità dei giovani e l’aumento del tempo passato sui social media (r = -.01). Questi risultati sostengono l’idea sempre più condivisa nel panorama scientifico internazionale che usare frequentemente i social sia ormai lo status quo ma che non sia necessariamente un problema per la maggior parte degli utenti (Griffiths et al., 2018). Infatti, in un momento storico in cui essere sempre connessi è la normalità, è sempre meno utile per i ricercatori conoscere l’entità della quantità del tempo speso online. Sembra, invece, che sia la qualità dell’uso dei social a rendere l’uso problematico e ad essere associato con sintomi depressivi e ansiosi (Griffiths & Kuss, 2017; Marino et al., 2018a). Per questa ragione, comprendere l’impatto dell’uso problematico dei social sul benessere psico-sociale sembra essere attualmente la via più utile per intervenire e prevenire questo fenomeno.

Su questi aspetti molti ricercatori a livello nazionale e internazionale si stanno attualmente interrogando, con l’obiettivo di fornire una più chiara definizione teorica del fenomeno dell’uso problematico dei social network e di proporre modelli di intervento coerenti e utili per la pratica clinica e la prevenzione (Kuss & Billieux, 2017).

Uso dei social network: prospettive di studio

Oltre a comprendere meglio i meccanismi sottostanti l’uso problematico di Facebook e gli altri fattori psicologici e sociali che possono influenzare un uso non positivo dei social network, le prospettive per la ricerca futura sono quelle di analizzare quali siano le specifiche attività svolte sui social network che possono indicare un uso più problematico e di verificare la possibile coesistenza di diversi problemi legati all’uso non positivo delle nuove tecnologie, come ad esempio l’uso problematico dello smartphone, la dipendenza da videogiochi o il cyberbullismo. La conoscenza di tali aspetti può, dunque, essere utilizzata concretamente in contesti clinici che mirino a ridurre gli effetti negativi dell’uso problematico delle tecnologie sul benessere degli utenti più o meno giovani (Spada, 2014).

Inoltre, poiché l’uso di Facebook e di altri social network occupa la vita quotidiana della quasi totalità delle persone, fin dalla prima adolescenza, i risultati degli studi analizzati suggeriscono la necessità, da un lato, di porre maggiore attenzione al riconoscimento dei primi segnali di un uso potenzialmente problematico e, dall’altro, di educare i ragazzi in modo tempestivo ed efficace ad un uso positivo e responsabile di internet. In quest’ottica, in linea con quanto sostenuto dai risultati qui presentati (Marino et al., 2018b), sarebbe importante proporre degli interventi nelle scuole che mirino a migliorare la qualità dell’uso dei social dei (pre)adolescenti, piuttosto che tentare di diminuire la quantità dell’uso.

Crescere offline e online: adolescenza, sviluppo del sé e identità virtuale nel mondo di oggi

Il tema della ricerca dell’identità è stato considerato il tema centrale dell’ adolescenza (Erikson, 1968). Come Erikson ha teorizzato, l’obiettivo fondamentale nello sviluppo dell’adolescenza è esplorare e risolvere la crisi di identità. Il percorso precedente viene come superato ed integrato.

 

Durante l’infanzia l’individuo tende ripetutamente ad avere una certa cristallizzazione d’identità e col passare del tempo, può facilmente entrare nell’illusione di sapere chi è. Ma le discontinuità dello sviluppo spesso frantumano le sue certezze. Si impongono così nuove ristrutturazioni, nelle quali tuttavia le fasi precedenti non vengono mai abbandonate, ma assimilate e riadattate.

Adolescenza: alla ricerca dell’identità

Con l’ adolescenza, l’identità comincia ad assumere un’organizzazione relativamente più stabile. L’adolescente comincia ad essere consapevole della propria individualità. Percepisce in modo più realistico potenzialità e limiti personali, gusti e tendenze.

Tuttavia quando la formazione della sua identità si avvicina all’essere completa, le identificazioni, soprattutto quelle infantili, finiscono per svanire ricomponendosi in una identità più matura. L’adolescenza comporta “naturalmente” il rischio di una severa crisi nella struttura del Sé.

La formazione del Sé implica un processo lungo e complesso nel quale intervengono molte variabili. Tuttavia, ciò che sembra importante è la possibilità di poter interagire con l’altro, il quale molto spesso ci fa da specchio. Attraverso tali reciprocità verbali e non verbali il Sé ha la possibilità di confrontarsi e quindi di crescere.

Adolescenza: sviluppo del Sé e identità virtuale

Parlando di mondo online e virtuale, questo tipo di interazione fisica non è possibile, così come non esiste la possibilità di avvalersi dei messaggi non verbali, che sono tanto importanti e che a volte fanno capire molto di più di un messaggio verbale. Internet può essere definito come un “laboratorio d’identità”. Molti ragazzi hanno riportato di far finta di essere qualcun altro in rete, spesso in compagnia di amici. Molti sostengono di fingere di essere qualcun altro nel mondo virtuale per scherzare, altri per proteggere la propria privacy e identità. Altri ancora hanno riportato di fingere per sperimentare con la propria identità.

I ragazzi e le ragazze passano molto tempo al giorno a comunicare in rete e ogni volta potrebbero presentarsi in modi diversi. Nel mondo di Internet, l’identità è solo un concetto perché è impossibile dimostrare fisicamente la sua presenza. L’anonimità che si sperimenta online ha il vantaggio di permettere sia l’espressione delle parti inesplorate del proprio Sé sia, nello stesso tempo, di sperimentare le proprie identità.

Fornendo un supporto “concreto” all’immaginazione, la rete permetterebbe anche di oltrepassare quei limiti che a volte consapevolmente non si supererebbero mai. Inoltre permette di sbarazzarsi dei fastidi di avere un corpo che, in adolescenza, cambia troppo spesso e che è difficile integrare nelle proprie percezioni.

La rete si configura quindi come uno spazio virtuale dove i giovani sperimentano varie identità anche contemporaneamente e come uno spazio potenziale dove possono auto-osservarsi prima di decidere come vogliono essere veramente.

C’è un consenso generale tra i ricercatori sul fatto che Internet possa offrire ai suoi utenti un enorme opportunità di sperimentare le loro identità (Katz e Rice, 2002; Rheingold, 1993; Smith e Kollock, 1999; Turkle, 2005; Wallace, 1999).

La comunicazione in rete ha diverse caratteristiche che possono stimolare le persone a intraprendere esperimenti d’identità.

In primo luogo, essa è caratterizzata da una riduzione uditiva e visiva, la quale può incoraggiare gli utenti a enfatizzare, cambiare o nascondere alcune caratteristiche fisiche di sé.
 In secondo luogo, questa è anonima (anche se sempre meno), specialmente durante le prime fasi di formazione dei rapporti. Questo anonimato potrebbe spingere le persone a sentirsi meno inibite e a divulgare informazioni personali più facilmente, in quanto non ci sarebbero ripercussioni nella vita reale (McKenna e Bargh, 2000).

Molti ricercatori (Brinthaupt e Lipka, 2002; Harter, 1999; Hogg e al. , 1995) si riferiscono al sé e all’identità con due costrutti differenti, ma collegati. Sostengono che, mentre gli individui posseggono un solo sé, dispongono invece di molte differenti identità. Queste identità variano tra i contesti relazionali, come la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari.

Finkenauer dà una definizione di identità:

L’ identità rappresenta l’aspetto di Sé che è accessibile e saliente in un particolare contesto e che interagisce con l’ambiente.

Il Sé e le sue identità partecipano alla vita sociale attraverso la presentazione di sé, definita come un tentativo delle persone di trasmettere informazioni, immagini, sé e la propria identità agli altri.

Jones e Pitmann (1982) hanno individuato diverse strategie di presentazione di sé:

  • La più frequente è l’Ingraziarsi, che può essere definita come una strategia per convincere gli altri circa la propria attrattiva e le proprie qualità.
  • Una seconda strategia di presentazione di sé è l’Intimidazione: l’intimidatore non vuole piacere, ma vuole essere temuto e creduto.
  • Una terza strategia è la promozione di sé. Un promotore di sé vuole convincere gli altri delle sue competenze e vuole essere rispettato.

Sia gli esperimenti di identità che le strategie di autopresentazione sono molto presenti durante l’adolescenza.

Un compito fondamentale di sviluppo in adolescenza è proprio trasformare queste identità inizialmente frammentate in un sé integrato (Josselson, 1994; Marcia, 1993).

Adolescenza e identità virtuale: sperimentazioni su Internet

Dai risultati di alcune ricerche (Valkenburg, Schouten e Peter, 2005) è emerso che gli adolescenti sperimentano con le loro identità più spesso rispetto ai ragazzi più grandi. Questo risultato è coerente con le teorie generali sull’identità dell’adolescente, che sostengono che la prima adolescenza sia un periodo critico per la considerazione di Sé e per l’identità.

I risultati hanno mostrato che i ragazzi e le ragazze non differiscono nella frequenza con la quale sperimentano con la loro identità, ma differiscono nelle strategie di presentazione di sé. Le ragazze si presentano più grandi dei ragazzi, forse perché di solito maturano prima e cercano quindi persone adulte con cui parlare (Allison e Schultz, 2001). Inoltre, mentre le ragazze fanno più spesso finta di essere più belle, i maschi fingono di essere machi (molto diffuso il fenomeno del machismo).

Il più importante motivo per impegnarsi in questi esperimenti è stato l’esplorazione di sé, seguito dalla compensazione sociale (es. per superare la timidezza) e dalla facilitazione sociale (es. facilitare la formazione dei rapporti).

Rispetto ai ragazzi, le ragazze hanno sperimentato più spesso con la loro identità per esplorare loro stesse e per indagare il modo in cui appaiono agli occhi degli altri. Le femmine sperimentano più facilmente declini nell’autostima durante l’adolescenza. Rispetto ai ragazzi, sono generalmente infelici con il loro corpo e preoccupate per i loro problemi (Harter, 1999).

Questa diminuzione nell’autostima potrebbe incoraggiare le ragazze a utilizzare Internet più frequentemente per esplorare e sperimentare alcuni aspetti di loro stesse.

Un compito importante per lo sviluppo degli adolescenti è quello di raggiungere un senso fermo e unitario di chi sono, esplorando nuove identità (Erikson, 1963; Marcia, 1993; Harter, 1999). Su Internet, gli adolescenti possono incontrare una grande varietà di persone, che offrono loro l’opportunità di scoprire sé stessi e accettarsi. Queste ulteriori opportunità (oltre alla famiglia, la scuola ecc.) potrebbero favorire lo sviluppo dell’unità del concetto di sé (Bruckman, 1992; Huffaker, 2006).

La variante negativa vede gli esperimenti di identità in rete come dannosi per lo sviluppo del concetto di Sé. Secondo questa ipotesi, gli adolescenti sarebbero sovraesposti a diverse relazioni e idee che potrebbero aumentare i dubbi circa il loro vero Sé.

Nikkè: lo psico-reggae per viaggiare nelle emozioni

Il crossover tra psicologia e musica si arricchisce di un nuovo rappresentante: Nikkè. Nel suo album la tracklist segue un percorso emotivo.


Dopo lo psicorock, ecco che arriva lo psico-reggae (ma quando arriverà lo psico-rap o ancora meglio lo psico-trap?)! Uscirà infatti il 17 luglio 2018 (su Spotify, iTunes, Google Play e Amazon Music) Tutti i Me, il nuovo album di Nikkè, al secolo Niccolò Venturini, dottore in psicologia, musicoterapeuta e cantautore, già attivo dal 2005 al 2009 come frontman della band Punklastite.

Dal 2013 propone il suo progetto solista dove mescola Hip-hop con influenze Reggae, Jungle, Funky, Punk e Pop cantautorale. Nikkè ha già all’attivo una consistente esperienza live avendo suonato in apertura di tanti artisti importanti della scena indie e avendo partecipato a numerosi festival.

Nikkè: una tracklist di emozioni

Come spiega l’artista, l’album Tutti i Me nasce dalla necessità di mettere insieme diverse emozioni, tradotte in parole e musiche giustamente diverse.

Da qui la strutturazione di una Tracklist che segua perlopiù un percorso emotivo: le prime 3 canzoni sono di rabbia, seguono 3 canzoni di tristezza, più profonde, prima di arrivare alla traccia La Culture, che funge da fine del primo tempo. Nella traccia in questione si sente la voce dello scrittore Daniel Pennac che parla (in francese) del concetto di cultura su una base di musica elettronica.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Nikkè: esprimere e prendersi cura delle emozioni con lo psico-reggae foto 1

Da qui in poi iniziano canzoni più “positive” o simpatiche fino ad arrivare a canzoni demenziali (Surrealism, Gisello & Gisella). In questa parte cambia anche il registro linguistico e la musica inizia ad essere più ”spinta”. Un Casino funge da ”resoconto finale” e La Scelta di Tutti i Me vuole essere un richiamo alla prima parte della Tracklist, chiudendo così il cerchio. Da qui, l’accostamento azzardato di generi musicali molto diversi tra loro, nonostante un’identità musicale forte che si percepisce durante l’ascolto del CD (hip-hop, reggae ed elettronica affine).

Nikkè: la scrittura e la musica per guarire

La copertina raffigura le emozioni delle canzoni (alle spalle) ed un’identità ”neutra” e più ”equilibrata” che si fa un selfie, richiamando anche il concetto di autoanalisi e autoguarigione (con il camice della figura in primo piano), alludendo al percorso della scrittura e composizione di canzoni visto come un processo curativo, omaggiato nel brano Sublimazione:

Questa è un’esortazione all’esplorazione, di nuove vie di compensazione, nel caso di penuria per umana condizione.

Diversi i riferimenti espliciti alla psicologia o i richiami a tematiche legate alla disciplina stessa

Il mio è un cerebralismo sadico visione troppo amorfa di un sentimento tossico; Troppo emisfero sinistro l’espressività mi scippa, ma appoggiando la penna su un foglio riesce il destro per ripicca.

Ascoltando i brani in anteprima mi ha colpito la freschezza degli arrangiamenti di brani che partono dal reggae per spaziare verso altri generi, con una notevole ricchezza di sonorità. Deve essere interessante assistere ad un concerto del Dottor Nikkè, magari cantando in coro…Uieie, Uieie, Uieie! Di seguito le date di presentazione del disco:

  • 18 agosto 2018 / Nikkè live con band / open act al concerto del Piotta @ Daltonicamente Festival (Sant’Omero, TE)
  • 19 agosto 2018 / Nikkè live showcase / chiusura al concerto dei Pop X @ Daltonicamente Festival (Sant’Omero, TE)
  • 7 ottobre 2018 / Nikkè live con band / DiversaMente @ Piazza dei Signori (Padova, PD) in collaborazione con Aulss 6 Euganea.
  • 10 ottobre 2018 / Nikkè live showcase / DiversaMente – Giornata Mondiale della Salute Mentale @ Centro Culturale San Gaetano (Padova, PD) in collaborazione con Aulss 6 Euganea.

 

VOGLIA DI NIENTE – ASCOLTA IL BRANO DI NIKKE’:

La rabbia: una delle caratteristiche dei disturbi dell’umore post-partum

Secondo una nuova ricerca dell’Università della British Columbia le donne nel periodo post-partum dovrebbero essere sottoposte ad uno screening per la rabbia oltre a quello per la depressione e per l’ansia.

 

La rabbia è stata riconosciuta come un elemento che provoca problemi di umore postpartum per alcune donne, ma al tempo stesso non è stata studiata bene e non è stata inclusa in nessuno strumento di screening postnatale. Sappiamo che le madri possono essere depresse e ansiose nel periodo postpartum, ma pochi sono stati i ricercatori che hanno prestato attenzione alla rabbia.

Per questo motivo i ricercatori dell’Università della British Columbia hanno condotto una review con l’intento di analizzare quanto l’ argomento rabbia nel periodo post-partum sia stato indagato nella precedente letteratura, cercando di comprendere in particolar modo cosa i risultati dei precedeni studi suggeriscono in merito a questa emozione.

Per l’analisi delle precedenti ricerche, i ricercatori si sono sono affidati ad archivi quali CINAHL, Ovid-Medline, PsycInfo e Web of Science, identificando sette documenti qualitativi e diciasette studi quantitativi sul tema rabbia materna e depressione postnatale. La review ha messo in luce come la rabbia sia un disturbo dell’umore saliente per alcune donne depresse nel post partum; il senso di impotenza sembra essere la componente principale di depressione e rabbia; la rabbia provata dalle neomamme si verifica a seguito di una mancata aderenza della realtà alle aspettative sull’essere genitore.

Rabbia e depressione post-partum

Alcuni studi indicano che la rabbia peggiora l’intensità e la lunghezza della depressione, e questo ha diversi effetti negativi sia sulla genitorialità che sulla relazione tra i genitori.

Inoltre, come già accennato, i sentimenti di impotenza e una mancata corrispondenza tra la realtà e le aspettative della maternità, possono contribuire all’aumento della rabbia nel contesto della depressione post-partum.

La rabbia infatti è una reazione alle aspettative infrante su come sarà la maternità. Le madri possono sentirsi giudicate, possono sentirsi poco supportate dal proprio partner, dai familiari o dagli stessi operatori sanitari. La rabbia che manifestano in alcune situazioni può anche essere legata alla difficoltà di affrontare il cambiamento che la maternità comporta.

Rabbia: emozione poco accettabile nella maternità

In molte culture, la rabbia non è vista come un’emozione accettabile, specialmente per le donne, e questa può essere una delle ragioni per cui quest’emozione postpartum non è stata esaminata attentamente.

Questa ricerca è un importante punto di partenza per identificare le conseguenze della rabbia postnatale e la sua espressione, e suggerisce quanto è importante che operatori sanitari e ricercatori esaminino quest’emozione materna nel periodo postnatale.

Ciò che si sa con certezza, infatti, è che i bambini esposti alla rabbia o alla depressione dei genitori corrono un rischio maggiore di sviluppare problemi emotivi.

Self Disorders: i Disturbi del Sé nella Schizofrenia, negli Stati Mentali a Rischio (UHR) e nell’Esordio Psicotico secondo una prospettiva fenomenologica

Disturbi del Sé: la prospettiva fenomelogica critica la prospettiva psichiatrica contemporanea e gli approcci Ultra High Risk (UHR), concentrandosi piuttosto sul disagio soggettivo

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

L’approccio fenomenologico

La fenomenologia è un approccio che nell’ultimo secolo ha fatto importanti passi per muoversi da un terreno filosofico fino ad integrare le moderne prassi in psichiatria. Essa si sviluppa a partire dalle intuizioni di vari autori come Husserl e Jaspers, i quali svolgono un tentativo di spostamento dell’attenzione e del cuore della pratica clinica e psicoterapica dalla “spiegazione” dei comportamenti dei pazienti alla “comprensione” dell’uomo nella sua essenza (Galimberti, 2006).

La posizione della fenomenologia, anche considerando i Disturbi del Sé, è ferma nel considerare come naturali tutte le esperienze e le sofferenze psicopatologiche apparentemente non comprensibili o spiegabili; questo può essere considerato un limite dal punto di vista della comprensione eziopatologica di alcuni disturbi. Tuttavia tale approccio si muove verso l’analisi attenta, la comprensione profonda e la descrizione delle esperienze di vita. Tale operazione risulta fondamentale, in ambito fenomenologico, per comprendere l’esperienza personale, interiore, soggettiva dei pazienti.

Critica fenomenologica alla psichiatria contemporanea e agli approcci Ultra High Risk (UHR)

Negli ultimi anni, l’approccio fenomenologico ha mosso delle importanti critiche all’approccio psichiatrico in ambito clinico, focalizzato principalmente sull’osservazione ed il trattamento dei sintomi manifesti o sottosoglia di una patologia, tralasciando i disturbi soggettivi. Particolare attenzione è stata posta allo studio delle schizofrenie, dove in ottica fenomenologica esiste un vero e proprio intaccamento del sé nucleare, centrale nell’esordio e nello sviluppo di tali disturbi. La critica fenomenologica ha dunque chiamato in causa anche l’approccio Ultra High Risk per la valutazione ed il trattamento degli stati mentali a rischio di esordio psicotico, sviluppatosi in Australia ed attualmente diffuso in tutto il mondo. La posizione degli studiosi in ambito fenomenologico tuttavia non critica in toto l’approccio UHR, ma tenta in qualche modo di completarlo (Nelson & Raballo, 2013).

L’approccio UHR si fonda sull’individuazione di una serie di fattori di rischio individuati attraverso lo studio delle fasi precedenti gli esordi psicotici. In tal modo vengono definiti una serie di prodromi, la cui occorrenza può determinare l’esistenza di uno stato mentale a rischio (At Risk Mental State – ARMS). Tuttavia, come sottolineano Nelson e colleghi (Nelson et al, 2008), i prodromi sono un concetto retrospettivo e di conseguenza lo sviluppo di un disturbo psicotico non può essere previsto con certezza, anche in presenza dei sintomi definiti secondo l’approccio UHR, ovvero sintomi psicotici sottosoglia o intermittenti e condizioni specifiche di rischio, inclusa la presenza di familiari con disturbi psicotici e la compromissione del funzionamento dell’individuo (Schultze-Lutter et al, 2015; Raballo et al, 2016; Yung & McGorry 1996, Cozzi, 2017).

Una prima critica concettuale verso l’approccio UHR consiste nel fatto che esso prende in considerazione le espressioni, piuttosto che la caratteristica essenziale della sofferenza psicotica.

Parnas (2005) nello specifico, critica da punto di vista teorico l’idea di utilizzare la presenza di sintomi psicotici attenuati e intermittenti per predire l’insorgenza e l’andamento clinico di un disturbo psicotico. Secondo l’autore ciò porterebbe i clinici a tentare di prevedere lo sviluppo di un disturbo franco in presenza di una sintomatologia lieve associata a quel disturbo. Questo processo dunque si fonda sul misurare le condizioni e i sintomi in atto di una condizione clinica mentre essa si sta instaurando ma risulta limitante in termini di comprensione di cosa determini tale esordio e l’evoluzione di tali sindromi.

Per chiarire ulteriormente, l’approccio UHR avrebbe il limite di concettualizzare una condizione di rischio a partire dai suoi sintomi. Tuttavia i sintomi dovrebbero essere considerati come la manifestazione di un disturbo, piuttosto che il nucleo centrale della vulnerabilità individuale per quel disturbo.

Per questo motivo, secondo la prospettiva fenomenologica, per valutare questi aspetti nucleari dei disturbi psicotici sarebbe più corretto studiare la sofferenza legata all’esperienza soggettiva.

Disturbi del Sé

Parnas individua dunque nelle anomalie e nei disturbi del Sé e della coscienza di sé il nucleo centrale delle esperienze e dei disturbi psicotici, con particolare riferimento alla sintomatologia positiva. Per comprendere meglio il terreno teorico sul quale stiamo camminando, è importante fare riferimento ai tre livelli su cui si struttura il Sé (Parnas & Handest, 2003).

  • Al primo livello, vi è il Sé pre-riflessivo o Sé minimo. Esso è riferito alla consapevolezza relativa all’esperienza. A questo livello, vi è l’implicita consapevolezza di essere noi a vivere una data esperienza. Secondo gli autori, è a questo stadio che il Sé diviene disturbato e si disorganizza dando origine a sintomi e disturbi psicotici.
  • Successivamente, vi è l’autoconsapevolezza riflessiva. A questo livello il Sé acquisisce carattere di invarianza, permettendo all’individuo di percepirsi continuo nel tempo ed in costante relazione con sé stessi e con il mondo esterno.
  • Ad un ultimo livello, il più evoluto, vi è il Sè sociale o Sé narrativo. Esso permette all’individuo di accedere ad una riflessione su sé stesso ad auto descriversi in quanto egli diventa in grado di percepirsi attraverso le proprie caratteristiche personali, acquisite negli anni, considerando sempre gli aspetti socioculturali nei quali egli è immerso, vive, si evolve.

Il gruppo di ricerca di Parnas ha dunque applicato tale teoria allo studio dei disturbi dello spettro schizofrenico e alle loro manifestazioni cliniche, descrivendole come anomalie dell’esperienza soggettiva, giungendo dunque alla definizione di una serie di specifici disturbi e distorsioni frequenti sia nelle fasi precedenti l’esordio, sia nelle fasi acute. Come accennato sopra, questi disturbi sin instaurano al livello della coscienza pre-riflessiva di Sé.

Disturbi del Sé e flusso di coscienza

L’individuo può esperire una discontinuità tra sé e i propri contenuti mentali. Pensieri e stati interni risultano quindi staccati dal soggetto, di conseguenza essi risultano non controllabili, vengono percepiti come estranei e intrusivi. Fenomeni di affollamento e fuga delle idee, così come il blocco e l’interferenza del pensiero sono legati a questo disturbo. Anche a livello espressivo e comunicativo possono manifestarsi difficoltà. La percezione può risultare alterata, con difficoltà a distinguere se alcune esperienze siano reali o immaginarie. La percezione spaziale e temporale può risultare intaccata. Si può manifestare un rallentamento cognitivo, con calo dell’attenzione, difficoltà a prendere iniziative e decisioni.

Disturbi del Sé: presenza – consapevolezza del Sé

La Presenza viene intesa come consapevolezza riguardo alla propria esperienza in relazione con il mondo e la realtà circostante. Parnas descrive due componenti della Presenza in maniera specifica, strettamente connesse ed integrate tra loro, inseparabili: la prima è la consapevolezza riguardo al fatto che siamo noi a vivere una determinata esperienza, chiamata “senso di Sé” ed ha carattere pre-riflessivo. La seconda componente della Presenza è il senso di immersione nel mondo, ovvero la percezione che la nostra esperienza individuale si inserisca e non sia estranea alla realtà che ci circonda e quindi sempre in relazione con il mondo. Disturbi in quest’area possono comportare sia un senso di vuoto individuale, sia un senso di estraneità dal mondo, dal quale il soggetto inizia a ritirarsi. Possono esserci difficoltà a riconoscere la propria identità e la propria esperienza, i contenuti mentali possono essere percepiti come fuori controllo e ciò può intaccare anche la percezione corporea. Possono esserci difficoltà nella percezione del mondo circostante ed in particolar modo sintomi dissociativi, come la derealizzazione e la depersonalizzazione. Il senso di estraneità può diventare pervasivo e portare ad una sensazione di distanza e distacco dalle relazioni e dal mondo fisico che può apparire irreale o distorto. Possono nascere nel pazienti stati di confusione e preoccupazione, scarsa motivazione, anedonia e abulia. Sono frequenti inoltre fenomeni di dispercezione temporale. Questi disturbi sono tra i primi prodromi delle sindromi schizofreniche (Parnas et al, 1998; Moller & Husby, 2000)

Disturbi del Sé: demarcazione e transitivismo

Essi sono strettamente connessi con i disturbi relativi alla Presenza ed alla Consapevolezza di Sé. Questi disturbi portano l’individuo a non riconoscere i confini tra Sé e il mondo circostante o le altre persone. Le sensazioni più comuni riguardano una percezione di invasione del mondo dentro il soggetto e la difficoltà a differenziarci dall’altro. Gli individui possono essere confusi riguardo all’origine di determinati pensieri e sensazioni. Anche questi disturbi possono portare il soggetto a non riconoscersi più, oltre a dubbi riguardo alla propria identità. Viene esperito un senso di passività nei confronti del mondo.

Disturbi del Sé: riorientamento Esistenziale

Una conseguenza dei disturbi appena citati consiste in una rottura forte tra l’individuo ed il mondo. Tale stato di rottura può essere estremamente angoscioso, spingendo i soggetti a tentare di dare un senso ed un significato alle proprie esperienze ed al mondo. Tale ricerca di significato assume spesso caratteristiche filosofiche e trascendentali e riguarda dubbi personali o temi esistenziali, con stati di preoccupazione o confusione. La necessità di dare un senso a tali esperienze può risultare, in termini cognitivisti, un tentativo di accomodamento della realtà circostante (che diventa di difficile lettura e comprensione) rispetto ai propri schemi e credenze personali, portando talvolta al pensiero magico (Nelson et al, 2008).

Disturbi del Sé: esperienze corporee

La percezione del proprio corpo può risultare alterata. Le manifestazioni più comuni a questo disturbo riguardano i sintomi da conversione (legati alla funzionalità del corpo), somatoformi e dismorfofobici (legati alla percezione ed al riconoscimento corporeo). I pazienti con questi disturbi possono sentire una profonda distanza tra sé e le esperienze corporee. Oltre ad una sensazione di distacco corporeo, possono esserci distorsioni a livello propriocettivo e dispercezioni sensoriali. La funzionalità del proprio corpo può essere intaccata fino a fenomeni di pesantezza, rigidità, rallentamento, assenza di forza, lievi paralisi, blocco motorio e mutismo. La percezione può risultare frammentata, le varie parti possono risultare estranee o sconnesse tra loro. La pianificazione degli atti motori può essere alterata ed in conseguenza di ciò possono risultare più difficoltose o lente tutte le attività quotidiane ed automatiche come anche il vestirsi e il lavarsi, richiedendo più concentrazione sui singoli atti motori.

È importante sottolineare a questo punto, che tutte le esperienze anomale descritte finora possono risultare invalidanti, ma non raggiungono al momento l’intensità psicotica. Esse sono estremamente diffuse nelle fasi premorbose anche in presenza di un residuo esame di realtà e della capacità di critica rispetto alle proprie esperienze. Tuttavia, il loro irrigidimento e la loro consolidazione può portare ad una rottura sempre più netta e marcata tra l’individuo e la realtà, favorendo la comparsa di veri e propri deliri ed allucinazioni. Tali disturbi inoltre possono essere fluttuanti nel corso della patologia ed affettare altre condizioni cliniche, come il Disturbo di Personalità Schizotipico (Bovet e Parnas, 1993; Parnas et al., 1998; Parnas, 1999; Nelson et al. 2009).

Disturbi del Sè: iper-riflessività e autoaffezione

Da un punto di vista teorico, Sass e Parnas (2003) sostengono come questi disturbi siano tutti implicati nella patogenesi della Schizofrenia, andando ad intaccare il Sé ad un livello pre-riflessivo e specificano come vi siano in particolare due componenti alla base di questi disturbi: l’iper-riflessività e l’autoaffezione. Gli autori sottolineano il ruolo di queste componenti e la loro complementarietà nei disturbi dello specchio schizofrenico.

L’iper-riflessività consiste in un’attenzione ed un’attività di monitoraggio costante ed eccessiva riguardo alle proprie esperienze interne, i propri stati mentali, i pensieri, le percezioni, ciò che era considerato tacito diventa esplicito stimolando dunque tale iper-riflessività. Quest’attività di riflessione eccessiva porta il soggetto a percepire tali contenuti come esterni, assumendo verso di essi una prospettiva in terza persona. I pazienti possono passare da una prospettiva in cui osservano la propria esperienza ad una prospettiva in cui osservano sé stessi che osservano la propria esperienza, innescando dunque la dissociazione tra sé, le proprie azione e i propri stati interni. Nelson et al (2008) utilizzano la metafora della centrifuga per chiarire il ruolo dell’iper-riflessività, che porta ad allontanare gli aspetti del sé fino a staccarli tra loro e far si che vengano percepiti come estranei e distanti.

L’autoaffezione consiste nella capacità di sentirsi presenti a sé stessi e al mondo, ovvero di percepirsi come soggetti consapevoli. La sua riduzione ed assenza instaurano il disturbo della Presenza. Ciò porta l’individuo a percepire un distacco dalla propria esperienza, ciò che era dato per scontato prima adesso non lo è più e stimola l’iper-riflessività come forma di compenso.

Parnas e colleghi (2005) hanno infine sviluppato la scala EASE (Examination of Anomalous Self-Experience), una checklist qualitativa e quantitativa fondata su un’intervista semi-strutturata per l’individuazione e la valutazione delle esperienze soggettive anomale.

In conclusione, la natura delle patologie dello spettro schizofrenico risiede in vari disturbi del Sé, legati all’intaccamento del Sé minimo, che riguarda l’esperienza ed il vissuto soggettivo ad un livello pre-riflessivo. Ciò porta successivamente a disturbi legati al Sé narrativo, come importanti modificazioni comportamentali e tratti di personalità comuni ad altre manifestazioni psicopatologiche (disturbi dell’umore o di personalità, ecc.), ma nelle sindromi psicotiche tali modificazioni risultano sempre la naturale conseguenza di un disturbo precedente. Nei disturbi estranei alla sfera psicotica infatti sono presenti i sintomi che si manifestano anche in organizzazioni psicotiche (dubbi su sé stessi, sintomi clinici, funzioni cognitive ecc.) ma non comportano un disturbo del Sé a livello pre-riflessivo. Infine Jasper sottolinea come, tuttavia, tale disturbo del Sé minimo non implica la sua perdita o completa dissoluzione, ma piuttosto lo pone in una posizione di costante minaccia (Henriksen & Parnas, 2017).

 

Ketamina: la storia, il meccanismo d’azione e gli effetti collaterali – Introduzione alla Psicologia

La ketamina è una molecola sintetica, completamente creata in laboratorio, a partire dalla sostanza cicloesilamina.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La ketamina se usata in ambiente clinico controllato, e a determinate dosi, produce effetti anestetici ed analgesici sia sull’uomo che sull’ animale. A basse dosi, invece, determina stati psichedelici, allucinazioni ed euforia. Proprio a causa di questi effetti, la ketamina è diventata una droga d’abuso, distribuita illegalmente. L’assunzione prolungata e costante può compromettere la salute, oltre a determinare dipendenza patologica.

Storia

La ketamina è stata scoperta nel 1962 dal chimico americano Calvin L. Stevens che cercava un’alternativa al PCP (droga degli angeli), anestetico dagli effetti eccessivamente dannosi. È stata brevettata nel 1963 e dopo due anni fu scoperto l’effetto ricreativo che produceva e per questo definita, dal prof. Edward Domino, un anestetico dissociativo.

Nel 1966 è stata commercializzata come anestetico rivolto sia agli uomini che agli animali. Nel 1970, però, la ketamina fu approvata dal governo degli Stati Uniti come anestetico generale e utilizzata nei campi di battaglia durante la guerra del Vietnam.

Al termine degli anni ’70, rapidamente si diffuse l’uso della ketamina come sostanza voluttuaria e cominciò a circolare fuori dall’ambiente medico, divenendo popolare sia negli Stati Uniti che in Europa. La sostanza si diffuse ulteriormente in seguito alla pubblicazione di due libri in cui erano descritti con precisione gli effetti prodotti: “Journeys into the bright world” di Marcia Moore e Howard Altounian e “The Scientist” di John Lilly.

Negli anni ‘80 si cominciarono a studiare le proprietà dell’anestetico per il trattamento dell’alcolismo e di altre dipendenze.

Attualmente, la ketamina continua a essere impiegata come anestetico generale, ma in particolar modo è utilizzata come droga d’abuso e, molto spesso, è assunta in associazione ad altri tipi di sostanze stupefacenti e/o allucinogene.

Nel 1999, è stata iscritta dall’agenzia federale antidroga statunitense nella Tabella III delle sostanze illegali al pubblico.
 La legge italiana stabilisce che la ketamina è una sostanza illegale.

Aspetto

La ketamina si trova sotto forma di liquido, capsule, polvere cristallina o in compresse vendute come ecstasy o come adulterante di altre droghe quali cocaina, amfetamine, eroina.

La ketamina, intesa come anestetico generale, è somministrata per via endovenosa e si presenta sotto forma di liquido incolore, dall’aspetto e dalla consistenza molto simile all’acqua.
 Tuttavia, quando è impiegata come sostanza voluttuaria, è sottoposta ad un processo di evaporazione in modo da ottenere una polvere bianca che, solitamente, è inalata, ma anche assunta per via orale attraverso pastiglie.

Meccanismo d’azione della Ketamina

L’effetto anestetico prodotto dalla ketamina è dovuto alle capacità antagoniste prodotte legandosi ai recettori NMDA del glutammato, implicati nell’eccitabilità cellulare, quindi, nel mantenimento dello stato di coscienza. Tuttavia, la ketamina è in grado di interagire anche con i recettori noradrenergici, serotoninergici, muscarinici e adrenergici.

Quindi, essa agisce sul Sistema Nervoso Centrale, influenzando i pensieri, la percezione del dolore, lo spazio e il tempo, etc.

La ketamina è soprannominata anestetico gentile in quanto promuove l’attività circolatoria e respiratoria anziché ridurla; per questo motivo, è impiegata come anestetico anche per i bambini.

Effetti

La ketamina produce effetti allucinatori di durata piuttosto breve. Infatti, solitamente, il meccanismo d’azione varia dai 10 minuti fino a qualche ora, a seconda della modalità di assunzione. La durata dell’effetto è molto variabile e, per prolungare gli effetti ricercati, spesso è assunta insieme a degli allucinogeni o amfetamine.

Gli effetti dipendono da numerose variabili, tra cui la quantità di droga assunta, il tipo di somministrazione, lo stato d’animo e i ricordi di chi la assume. Gli effetti prodotti, dunque, possono andare da un leggero stato di euforia, fino a produrre stati dissociativi con distacco corporeo e immedesimazione con l’ambiente circostante. Di conseguenza, si avrà una difficoltà nella coordinazione dei movimenti e nella percezione dei sensi, per questo le immagini saranno distorte, si avrà difficoltà a percepire il caldo dal freddo, l’asciutto dal bagnato, ecc.

Come tutti gli psichedelici, la ketamina amplifica gli aspetti emotivi interni del soggetto che la assume, per questo si potrebbero creare delle esasperazioni di stati mentali già presenti.

Sotto l’effetto della ketamina, si presentano difficoltà nel tradurre il pensiero in parole, dissoluzione parziale dell’ambiente circostante, estensione del tempo e dello spazio, dipanamento della memoria e percezione alterata del proprio corpo. 
Si verifica, inoltre, uno stato di separazione della mente dal corpo che può portare a stati allucinatori profondi, definite esperienze extracorporee, come la percezione di uscire dal proprio corpo e la near death experience, unitamente al viaggio verso la luce.

Effetti collaterali

La ketamina presenta numerosi effetti collaterali, tra cui: nausea, vomito, vertigini, ipersalivazione, aumento della sudorazione, innalzamento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, eruzioni cutanee, visione doppia, perdita della memoria a breve termine e ipotermia. L’uso frequente può comportare problemi digestivi e di minzione, deficit mnemonici e può compromettere l’equilibrio psichico.

I principali pericoli sono dovuti all’effetto anestetico poiché non percependo dolore, è possibile procurarsi ferite senza rendersene conto. Quindi, se si assume ketamina è necessario stare lontani dai posti sopraelevati e dall’acqua perché l’effetto sedativo, la dissociazione e la perdita di controllo del proprio corpo potrebbero determinare incidenti mortali.

Anche se gli effetti prodotti dalla ketamina sono brevi, possono, in ogni caso, essere molto travolgenti tanto da spaventare il consumatore al punto da fargli vivere un bad trip. 
L’assunzione prolungata e ripetuta induce effetti tossici sulla salute oltre e dipendenza, tolleranza e assuefazione.

La metossietamina

La metossietamina (MXE) è una nuova sostanza psicoattiva largamente diffusa negli ultimi anni.

La metossietamina, un analogo della ketamina, che presenza un metile al posto del cloro sull’anello aromatico e una etilamina al posto della metilamina. La metossietamina, esattamente come la ketamina, agisce come antagonista non competitivo dei recettori del glutammato, come inibitore della ricaptazione della dopamina e come agonista dei recettori dopaminergici D2, serotoninergici 5HT2, muscarinici colinergici, sigma-1 e kappa oppioidi.

La differente struttura chimica della metossietamina produrrebbe, a differenza della ketamina, un maggiore e duraturo effetto tossicologico e un minor effetto analgesico e anestetico. Inoltre, è ritenuta più sicura della ketamina poiché presentava meno effetti tossici a livello renale e vescicale.

La MXE produce effetti come euforia, empatia e aumento della socialità, ma al pari delle altre nuove sostanze psicoattive determina effetti collaterali cerebrali e simpaticomimetici.

Oltre a queste sostanze, sono stati sintetizzati altri analoghi aventi come struttura di base la ketamina, a esempio: la 2-MeO-ketamina, la Netilketamina e il bromo derivato della metaossietamina.

La rete di internet

Tramite internet è possibile accedere a numerosi siti di rivenditori di ketamina ed altre droghe. Alcuni rivenditori dichiarano di fornire qualsiasi quantità di ketamina in breve tempo e in qualsiasi parte del mondo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Ama il tuo smartphone come te stesso. Essere più felici al tempo dei social grazie alla digital mindfulness (2017) di P. Subioli – Recensione del libro

Paolo Subioli nel suo nuovo libro Ama il tuo smartphone come te stesso ci conduce attraverso 8 tappe in un viaggio di sempre maggiore e profonda consapevolezza del mondo digitale all’insegna di un approccio in pieno stile mindfulness.

 

Un imperativo categorico, un comandamento: è questo il rapporto che abbiamo oggigiorno con la tecnologia digitale. Smartphone e altri device (tablet, pc…) come estensioni ed appendici del nostro corpo e della nostra mente. L’intento dell’autore di Ama il tuo smartphone come te stesso, Paolo Subioli, è chiaro fin dal titolo: esplorare gli usi, i costumi e le modalità con cui la comunicazione mediata dalle tecnologie digitali pervade il nostro quotidiano e come rapportarsi ad esse in maniera costruttiva, proattiva e funzionale.

Subioli ci conduce attraverso 8 tappe in un viaggio di sempre maggiore e profonda consapevolezza del mondo digitale all’insegna di un approccio in pieno stile mindfulness.

Fin dalle prime pagine, Ama il tuo smartphone come te stesso si mostra scorrevole e mai banale, chiaro e mai superficiale, spostandosi agevolmente da concetti di matrice orientale ad altri squisitamente occidentali, puntellando una costellazione di collegamenti e sovrapposizioni che ci fanno capire come culture che ci possono apparire tanto lontane ed esotiche in realtà ci appartengono e ci rispecchiano.

L’autore propone un percorso nato per essere applicato in contesto di formazione aziendale in cui viene svolto in maniera più strutturata e secondo un iter delineato. Questo libro è uno strumento utile per estendere questi principi a tutti gli ambiti e a chiunque, a prescindere dal background lavorativo e da scopi specifici. Al termine di ogni capitolo, Subioli propone anche dei semplici esercizi per acquisire consapevolezza e attenzione focalizzata quando ci rapportiamo al mondo digitale.

Le 8 tappe del nostro viaggio nel mondo digitale

Abbiamo 8 punti: distrazione, disincarnazione, iperattivismo, ipernutrizione, virtualizzazione, precarietà, soluzionismo e nudità, che rappresentano degli aspetti problematici legati alla vita digitale, a cui fanno da contraltare altrettanti passaggi nel percorso verso la digital mindfulness.

Questi sono: assumersi la responsabilità, tornare al corpo, fermarsi, nutrirsi consapevolmente, essere consapevoli, accettare il cambiamento, sentirsi umani e dimorare online.

Quello che dipinge Subioli in Ama il tuo smartphone come te stesso è un quadro di un utente alle prese con una miriade di stimoli (ipernutrizione), spesso presenti contemporaneamente (distrazione), che lo sollecitano a fare sempre qualcosa se non addirittura a fare più cose nello stesso momento (iperattivismo). Il mondo digitale si confonde con quello analogico e verità e sé digitali vanno a offuscarsi (virtualizzazione) creando al contempo una situazione in cui possono essere rivelati aspetti di noi privati ed intimi (nudità). Quello digitale sembra un mondo dai contorni fluidi in cui ogni aspetto è mutevole e immateriale (precarietà) e speso finiamo per ‘dimenticare’ di sentire noi stessi e il nostro corpo (disincarnazione), presi dai device attraverso i quali esprimiamo perfino le emozioni, come con le emoticon. La possibilità di trovare pressoché qualsiasi prodotto, servizio o informazione nel mare magnum del mondo online ci porta ad una sorta di visione di questo strumento come onnipotente e in grado di supportare qualsiasi richiesta (soluzionismo).

Ama il tuo smartphone come te stesso: il messaggio dell’autore

Ma non è uno scenario catastrofico quello che ci raffigura l’autore in Ama il tuo smartphone come te stesso: questi 8 punti rappresentano potenziali difficoltà in cui possiamo incorrere se ci approcciamo a questi strumenti in maniera automatica e priva di consapevolezza di noi stessi, del mezzo, di ciò che ogni azione nel mondo virtuale può implicare anche per gli altri che, come noi, fanno parte di questo mondo.

Infatti Subioli parla anche di karma digitale, traslando con questa espressione l’idea di karma e di causa-effetto: karma significa “azione” ed ogni azione porta a degli effetti su noi stessi, sugli altri e sull’ambiente. Il futuro dipende dalle azioni passate, mentre il passato non esiste più e non lo si può cambiare: come dice efficacemente lo stesso Subioli “siamo eredi delle azioni compiute”. Per questo il presente diviene fondamentale: è proprio agendo qui ed ora che si gettano le basi per il futuro.

Subioli parla anche di karma digitale come identità ed eredità: l’incredibile mole di dati, i cosiddetti big data, che lasciamo qua e là come orme al nostro passaggio (basti pensare a tutte le informazioni che lasciamo nelle properties di Google o a quelle di Facebook, dalle password ai nostri dati personali), delineano la nostra identità e sono anche quello che lasciamo di noi agli altri.

Al di là e forse a monte di questi punti fondamentali, abbiamo una visione della mente come estesa (extended mind). Nella mente estesa i processi cognitivi sono determinati dalla reciproca interazione di mente, corpo, ambiente, per cui l’individuo non può ritenersi isolato da nulla di ciò che lo circonda, tecnologie comprese, e al contempo ne è parte attiva.

Il concetto di mente estesa segue quelli di mente incarnata (embodied mind) e mente integrata (embedded mind): se nel primo si evidenzia la mutua interazione tra mente e corpo, nel secondo si sottolinea come non si possa estraniare la mente dall’ambiente in cui nasce e si sviluppa. Un esempio di mente incarnata è sicuramente rappresentato dalle emozioni, che manifestano nel corpo specifiche alterazioni fisiologiche, tanto quanto i pensieri a loro volta possono far mutare stati fisiologici, sebbene meno immediatamente visibili. La mente integrata invece rappresenta tutti quei processi in cui mente e ambiente si co-creano reciprocamente di continuo, come nel linguaggio, ritenuto esempio per eccellenza di come una componente innata possa definire e a sua volta essere definita da alcune caratteristiche culturali.

Conclusioni

Il libro di Paolo Subioli apre la strada a nuove concettualizzazioni e applicazioni della mindfulness.

L’autore ci ricorda come sia impensabile concepire un mondo senza Internet, una grande rivoluzione della nostra epoca contemporanea al pari della stampa e di altre tecnologie che hanno definitivamente cambiato il modo di comunicare, tramandare e interagire.

Bisogna accogliere il cambiamento, ricordandosi che non è il mezzo ad essere dotato di accezione positiva o negativa ma le intenzioni e la consapevolezza che mettiamo noi nell’utilizzarlo. Fermarsi e tornare al qui ed ora, a noi nel nostro corpo e nel nostro contesto, essere consapevoli delle nostre azioni nei confronti di noi stessi, degli altri e dell’ambiente, è questo che può rendere più felici al tempo dei social.

Disturbi di personalità: auto-diagnosi dei pazienti e diagnosi dei professionisti a confronto

In passato i ricercatori hanno riscontrato l’esistenza di una discrepanza riguardo la diagnosi di disturbo di personalità effettuata dal terapeuta e l’autovalutazione del paziente stesso.

In un nuovo studio invece, condotto dai ricercatori della Purdue University e pubblicato sul Journal of Consulting and Clinical Psychology, è stato rilevato come questa discrepanza diminuisce se, sia paziente che psicologo, utilizzano gli stessi strumenti per fare la diagnosi. Per di più gli individui tendono a riportare un maggiore grado di patologia rispetto a quello rilevato dal terapeuta.

Personalità: lo studio effettuato

Nella ricerca sono state coinvolte 54 coppie terapeuta-paziente in un contesto ambulatoriale, alle quali sono state richieste valutazioni su tratti patologici di personalità. Attraverso il Personality Inventory per DSM-5 (PID-5), scala di valutazione creata dall’APA, i pazienti (52% donne, 94% di popolazione Caucasica, in media di 39.8 anni) hanno attribuito dei punteggi ai tratti di personalità patologici.

Il test fornisce un ampio sguardo sui diversi tratti di personalità, focalizzandosi principalmente su cinque dimensioni: affettività negativa, distacco, antagonismo, disinibizione e psicoticismo.

Anche i terapeuti (72% donne, 89% di popolazione Caucasica) hanno effettuato la loro valutazione utilizzando la stessa scala, ma in una versione differente (Informant Version).

Tratti di personalità patologici: i pazienti li sovrastimano

Emerge dai risultati che, a differenza di quanto previsto, cioè di una sottostima della patologia da parte del paziente, i pazienti hanno attribuito a sé stessi un maggiore grado di patologia rispetto ai terapeuti su quasi tutti i tratti, in particolare nella dimensione dello psicoticismo.

I ricercatori sostengono che la maggior parte dei precedenti studi si siano concentrati molto sui self-report e sulla sottostima dei pazienti, ma pochi di essi hanno confrontato i dati di pazienti e terapeuti.

I ricercatori concludono che, quando vengono utilizzati strumenti simili, le diagnosi di pazienti e terapeuti sono molto più in accordo di quanto è stato riportato nelle precedenti ricerche.

Cannabis: il confine tra benefici e danni

Per cinque millenni la Cannabis è stata utilizzata in tutto il mondo a scopo medico, ricreativo e spirituale. Il suo primo utilizzo in campo terapeutico avvenne probabilmente in Asia centrale per poi diffondersi in seguito in Cina, India, Egitto, Persia e Siria. Sue applicazioni sono state riscontrate anche tra i Greci e i Romani, con indicazioni (dolore, vomito, convulsioni e spasticità muscolare) sorprendentemente simili a quelle per cui viene attualmente utilizzata a scopo terapeutico.

Giada Costantini – OPEN SCHOOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La cannabis a scopo terapeutico (CTP) ha continuato ad avere un ruolo significativo nella medicina occidentale fino alla fine del diciannovesimo secolo (Bostwick, 2012; Mikuriya, 1969). Il suo utilizzo ha poi subito un lento declino fino ad essere fortemente ostacolato dalla Convenzione Unica sugli Stupefacenti adottata dalle Nazioni Unite nel 1961, che la inserì tra le sostanze della Tabella IV della convenzione, la categoria più severa e restrittiva, destinata a inquadrare le droghe particolarmente soggette ad abuso e responsabili di effetti dannosi per la salute, la cui soggettività non è compensata da sostanziali vantaggi terapeutici (in Petralia, 2009). I notevoli sviluppi in campo medico, la scoperta di nuove sostanze farmacologiche ritenute più sicure (Kalant, 2001; Zuardi, 2006), accanto a fattori sociali, economici e giuridici, hanno dato un importante contribuito al declino della CTP.

Cannabis: scoperte farmacologiche e cambiamenti sociali

Negli ultimi decenni alcune scoperte farmacologiche hanno portato una nuova ondata di interesse sulle proprietà strutturali e fisiologiche della cannabis, interesse che è aumentato anche a seguito della pubblicazione di numerosi studi sui benefici della cannabis (Campbell, et all.,2001; Lynch e Campbell, 2011), indicandola come un agente terapeutico promettente.

L’aumento dell’evidenza clinica della CTP è stato accompagnato in molti Paesi da un aumento delle pressioni sociali e politiche per cambiare i quadri normativi e legalizzarne quindi l’uso medico. Finora ventitre Stati americani e alcuni Paesi, tra i quali Israele, Canada e Paesi Bassi (Belle-Isle et al., 2014), hanno legalizzato la cannabis a scopo terapeutico, mentre altri, tra cui Nuova Zelanda e Australia (Shipton e Shipton, 2014), stanno seriamente valutandone la legalizzazione. Questi cambiamenti delle normative nazionali hanno acceso numerosi dibattiti scientifici e politici riguardanti i possibili effetti (positivi e negativi) della legalizzazione della cannabis a scopo terapeutico a livello sociale (Levinthal, 2008) e una recente revisione sistematica della letteratura ha provato a sintetizzare in modo critico tali effetti, concentrandosi in particolare sull’impatto della legalizzazione della cannabis a scopo terapeutico sull’uso illegale della cannabis, sulla criminalità e in termini di salute pubblica in generale.

Cussen e Block (2000) hanno analizzato gli effetti positivi di un’eventuale legalizzazione degli stupefacenti. Gli autori (ibidem) affermano che un mercato altamente competitivo alla ricerca dell’offerta di miglior qualità andrebbe a diminuire drasticamente la criminalità legata allo spaccio di sostanze stupefacenti e porterebbe benefici individuali e sociali.

Tuttavia, se gli effetti economici a breve termine potrebbero sembrare di primo impatto favorevoli, non bisogna sottovalutare le conseguenze a lungo termine dell’uso di cannabis, causate dagli effetti nocivi della sostanza.

Cannabis: effetti nocivi

Serpelloni et al. (2011) hanno evidenziato come l’uso precoce di cannabis può avere un ruolo importante nella sensibilizzazione cerebrale verso la ricerca e la sperimentazione di sostanze stupefacenti a più alto rendimento farmacodinamico. In molte persone, non in tutte, l’uso precoce può indurre e amplificare un comportamento di ulteriore sperimentazione evolutiva di droghe (ibidem).

Secondo uno studio longitudinale di coorte, eseguito per tre volte su 5468 soggetti di 14-16 anni (Kandel, 1975), il 26% delle persone che hanno consumato cannabis come prima droga di sperimentazione passa successivamente ad un uso di LSD, amfetamina, eroina. Tale valore si riduce all’1% in chi non ha usato cannabis. Similmente, uno studio di Kandel e Yamaguchi del 2002, condotto sulla popolazione generale, mostra che l’86% dei soggetti che usano droghe illecite ha prima usato la cannabis.

Anche uno studio multicentrico condotto sulla popolazione carceraria (Golub e Jhonson, 2001), ha evidenziato che il 91% dei soggetti consumatori problematici ha iniziato a usare droga con la cannabis. Solo l’1% dei soggetti usa direttamente e prematuramente una sostanza attivante (cocaina, eroina, anfetamina). L’effetto gateway è documentato in questi casi per tabacco, alcol e cannabis. La variabile “età di primo uso di marijuana” è quella che ha maggior peso nel passaggio all’uso di droghe più pesanti (Golub e Jhonson, 2002).

Tuttavia, l’effetto della teoria della Cannabis come gateway (Serpelloni et al., 2011) va associata alla teoria della vulnerabilità secondo cui alcune persone, per caratteristiche genetiche, individuali e ambientali, sono più esposte al rischio di sviluppare dipendenza se poste al contatto con sostanze stupefacenti. Alcune persone quindi, sensibilizzate con la cannabis, presentano un rischio evolutivo molto maggiore rispetto ad altre di assumere altre sostanze illecite nel futuro.

Secondo Ameri (1999), la tossicità della marjuana è stata sottovalutata per molto tempo: recenti studi hanno rilevato che il principio attivo della cannabis, il delta-9-THC, induce la morte cellulare con restringimento dei neuroni e la frammentazione del DNA nell’ippocampo.

In particolare, sembrerebbe che gli studi animali hanno riscontrato un aumento dei cambiamenti cellulari associati all’esposizione alla cannabis soprattutto durante l’adolescenza rispetto all’età adulta (Cha et al; 2006; Rubino et al., 2008; Scheinender et al., 1982).

Cannabis in adolescenza

Ad esempio, secondo uno studio (Zalescky et al., 2012) è stato dimostrato come l’uso prolungato di cannabis in adolescenza o nella prima età adulta è pericoloso per la materia bianca cerebrale. Nello specifico, l’autore (ibidem) ha indagato specificatamente il suo impatto sulla connettività delle fibre assonali attraverso la risonanza magnetica. È emerso che la connettività assonale risulta compromessa nelle seguenti aree cerebrali: fimbria destra dell’ippocampo (fornice), splenio del corpo calloso e fibre commissurali che si estendono fino al precuneo. È stata inoltre riscontrata un’associazione tra la gravità delle alterazioni e l’età in cui ha avuto inizio l’uso regolare di cannabis. L’uso precoce e prolungato di cannabis risulta quindi particolarmente pericoloso per la materia bianca del cervello in fase di sviluppo, portando ad alterazioni della connettività cerebrale che, secondo gli sperimentatori, potrebbero essere alla base dei deficit cognitivi e della vulnerabilità ai disturbi psicotici, depressivi e d’ansia dei consumatori di cannabis.

Altri studi epidemiologici e clinici documentano il comportamento impulsivo, i deficit sociali, i danni cognitivi, il consumo di sostanze d’abuso e i disordini psichiatrici quali la schizofrenia, la depressione e l’ansia, in individui adulti che erano stati esposti alla cannabis durante la vita intrauterina e all’inizio dell’adolescenza (Arsenault et al. 2002; Fried e Watkinson, 2001; Huinzik et al. 2006; Kandel 2003; Patton et al. 2002; Prath e Fried, 2005; Richardson et al., 1995).

Cannabis: cosa accade a livello cognitivo, neurofisiolofìgico e dell’umore

Le indagini sugli effetti delle alterazioni cognitive indotte dalla marijuana sono state valutate mediante compiti che richiedono al soggetto una capacità di controllo esecutivo, la capacità d’inibizione e il processo decisionale. In uno studio è stato osservato come le alterazioni di umore e di percezione spesso osservate nei fumatori di marjiuana potrebbero derivare da un alterato sistema di risposta neurale, così come è stato rilevato in uno studio con fMRI (Gruber S.A., 2009) in 15 fumatori cronici di marijuana (MJ) rispetto a 15 soggetti non fumatori (NC), durante la visione di espressioni emotivamente diverse (volti di persone felici o impaurite) mediante tecnica di mascheramento. I volti presentavano una maschera in modo da non rendere consciamente evidente lo stato espressivo. Sebbene le analisi delle misure cliniche e demografiche non evidenzino differenze significative tra il gruppo di fumatori e il gruppo di controllo, i fumatori di marjiuana hanno mostrato una diminuita attivazione neuronale sia nella corteccia cingolata anteriore, che a livello dell’amigdala, durante la visione di stimoli affettivi rispetto ai controlli. Questi ultimi al contrario, hanno mostrato un aumento relativo di attivazione nelle stesse regioni. I risultati indicano che i fumatori cronici di marijuana presentano un’alterata attivazione dei sistemi cerebrali frontali e delle strutture limbiche durante la visione di volti emotivamente espressivi. Le aree cerebrali frontali e limbiche sono caratterizzate da un’alta densità di recettori cannabinodi CB-1. Questi dati suggeriscono differenze di elaborazione affettiva nei fumatori cronici di marjiuana rispetto ai non fumatori, anche quando gli stimoli sono presentati sotto il livello di elaborazione cosciente, e pongono l’accento sulla probabilità che i fumatori di marijuana elaborino le informazioni emotive in modo diverso da quello dei non fumatori. Tale fenomeno può portare a conseguenze negative per la capacità di elaborazione dell’informazione emozionale nei soggetti consumatori di cannabis.

Cannabis: quali coseguenze su attenzione e memoria?

Si sta diffondendo un forte interesse scientifico sulla permanenza dei deficit di attenzione e di memoria descritti in soggetti forti consumatori di marijuana. Alcuni ricercatori si sono chiesti se tali effetti potessero essere reversibili dopo un’astinenza prolungata dalla sostanza. In particolare, non è chiaro se la reversibilità dei deficit cognitivi possa essere considerata un indice di mancata alterazione della droga sul funzionamento dei circuiti cerebrali oppure se, nonostante tali alterazioni, il cervello sia in grado di adattarsi ai cambiamenti indotti dalla sostanza. In uno di questi studi (in Serpelloni, 2011) è stata misurata la variazione del segnale BOLD (stato di ossigenazione del sangue) mediante l’utilizzo di una Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) in 24 consumatori cronici di marijuana (12 astinenti e 12 consumatori attivi) confrontati per età, sesso ed educazione e 19 soggetti di controllo. I partecipanti dovevano eseguire durante la scansione RM in una serie di compiti di visuo-attentivi suddivisi per livelli di difficoltà. L’esame prevedeva inoltre la somministrazione di test neuropsicologici per la valutazione delle funzioni cognitive. I due sottogruppi di soggetti consumatori di cannabis (astinenti e consumatori attivi) non mostravano differenze nel modo di utilizzo della sostanza (frequenza, durata e età di primo utilizzo, consumo medio totale > 2000 assunzioni) o di esposizione totale stimata di Δ-9-tetraidrocannabinolo (THC) (media 168 ± 45 vs 244 ± 135 grammi). Nonostante le simili prestazioni ai test cognitivi e al compito visuo-attentivo rispetto ai soggetti di controllo, i consumatori di marijuana sia astinenti che attivi hanno mostrato una diminuita attivazione della corteccia prefrontale destra, della corteccia parietale dorsale e media e del cervelletto mediale, ma una maggiore attivazione in diverse regioni frontali, parietali e occipitali durante l’esecuzione del compito visuo-attentivo.

Tuttavia, il segnale BOLD rilevato nella corteccia frontale destra e cerebellare mediale si normalizzava quando correlato alla durata dell’astinenza nel sottogruppo di consumatori. I consumatori attivi di marijuana, con test delle urine positivo per il THC, hanno invece mostrato una maggiore e più ampia attivazione delle regioni cerebrali frontali e del cervelletto mediale rispetto agli astinenti, suggerendo un maggiore utilizzo di circuiti neurali di riserva (effetto neuro adattativo). Tra le variabili considerate dallo studio, una precoce età di primo utilizzo della sostanza e una maggiore esposizione cumulativa al THC, si sono dimostrate correlate a segnali funzionali (BOLD) ridotti nella corteccia prefrontale mediale destra e nel cervelletto. Proprio questo pattern alterato di attivazione funzionale, in particolare delle aree coinvolte nel processo attentivo, e l’ipoattivazione del cervelletto suggerisce processi neuro adattativi o addirittura alterati processi di sviluppo cerebrale nei consumatori cronici di marijuana. Questi cambiamenti potrebbero essere legati a fenomeni di alterazione indotti dalla marijuana stessa a livello del volume/flusso ematico cerebrale o dei recettori cannabinoidi (CB1). La maggior attivazione neurale registrata nei consumatori attivi, rispetto ai soggetti astinenti, dimostra la presenza di uno stato neuro adattativo cerebrale durante il consumo attivo di marijuana.

Le conclusioni della ricerca suggeriscono come le modifiche funzionali indotte dalla sostanza possano essere reversibili dopo un periodo prolungato di astinenza dal consumo della sostanza.

Cannabis terapeutica: dal 2013 anche in Italia

Dal 2013, in Italia è possibile prescrivere cannabis terapeutica – sempre a pagamento – in tutte le regioni. La prescrizione a carico del Servizio Sanitario Nazionale, unicamente per uso terapeutico, è praticabile solo in Toscana, Puglia, Liguria, Campania e in Veneto, ma con limitazioni ulteriori rispetto alle regole nazionali. La prescrizione di cannabis a uso medico in Italia riguarda, tra gli altri: il dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla e a lesioni del midollo spinale; la nausea e il vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per Hiv; la stimolazione dell’appetito nella cachessia, anoressia o in pazienti oncologici o affetti da Aids e nell’anoressia nervosa; l’effetto ipotensivo nel glaucoma; la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella Sindrome di Tourette.

Le prescrizioni si effettuano quando le terapie convenzionali o standard sono inefficaci. Tuttavia, le evidenze scientifiche sui benefici, i dosaggi, le modalità di allestimento, la stabilità del preparato somministrato sono solo alcuni dei dubbi che ancora restano sul corretto utilizzo della cannabis a scopi medici: sono necessari nuovi studi sulla questione poiché i farmacisti che si occupano dell’allestimento necessitano di avere punti fermi sulle modalità di preparazione, mediante protocolli rigorosamente standardizzati al fine di garantire la continuità terapeutica al paziente (dati certi sulla stabilità e sul quantitativo di principio attivo di ogni preparazione) e di conseguire un’organizzazione del lavoro più efficiente.

La causalità – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 29

La causalità sembra essere una modalità intrinseca del nostro modo di pensare, così preziosa per l’essere umano in quanto consente di mantenere un senso di controllo sulla propria esistenza. In realtà si tratta di un fortissimo bias di sopravvalutazione, essendo di fatto praticamente impotenti nel condizionare il corso degli eventi importanti che ci riguardano. 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La casualità (Nr. 29)

 

Forse perché mi sono svegliato alle 3,14 e il pi greco mi ha ricordato quando da adolescente mi interrogavo sui segreti del mondo con l’aiuto delle scienze e della filosofia. Forse perché oggi è il primo giorno della maturità ed avere un tema cui pensare mi fa sentire solidale coi ragazzi e soprattutto più giovane. Forse perché da un po’ di giorni mi sento particolarmente stupido e avevo bisogno di verificare lo stato di deterioramento dei neuroni per atrofia da non uso. Forse non so perché.

Ma ecco che ciò di cui volevo parlare si ripresenta come la peperonata già nella premessa dello stesso ragionamento ed è  identificabile in quel ricorrente “perché?”.

Un “perché?” da intendere sempre in senso deterministico e causale, rivolto al passato, nel senso di cosa ha causato…e non rivolto al futuro nel senso di “a quale scopo?”. Sta di fatto che di fronte a qualsiasi evento la sua stessa percezione è contemporanea o di poco seguita dalla domanda automatica sul perché è accaduto, che sia una guerra, un infarto, un’alluvione o la nascita di un amore. Capirne le cause ci dà la rassicurante impressione di poterlo controllare. Senso di controllo sulla nostra esistenza che tutti gli studi scientifici ci dicono essere frutto di un fortissimo bias di sopravvalutazione essendo di fatto praticamente impotenti nel condizionare il corso degli eventi importanti che ci riguardano.

La causalità

Penso che la causalità sia un apriori del nostro modo di pensare certamente divenuta predominante con l’illuminismo ma presente già da prima perlomeno nel pensiero occidentale. Poco importa se le spiegazioni degli eventi sono di carattere scientifico, magico o religioso a seconda dei paradigmi culturali che si sono succeduti nel tempo. Ciò che resta costante è la fede indiscussa nella causalità riassumibile nell’idea che ogni evento sia la conseguenza di qualcosa che lo ha preceduto.

Si potrebbe pensare che, se questo è un modo di funzionare della nostra mente, è possibile rispecchi il funzionamento reale dell’universo. In effetti è assolutamente possibile. Possibile. Ma potrebbe anche essere che gli eventi accadano, che il cambiamento sia la realtà più profonda delle cose e la causalità sia soltanto una lente degli occhiali con cui la osserviamo, essendo l’altra lente ora scientifica, ora religiosa, ora magica.

Come si traduce il concetto di causalità in Psicoterapia

Allontanandosi rapidamente oggi, primo giorno d’estate, i fantasmi delle 3.14 mi sono chiesto le conseguenze di questa tirannia della causalità sul nostro modo di fare in generale e di fare il nostro specifico lavoro di psicoterapeuti.

Mi sembra che la prima conseguenza della tirannia della causalità sia il metodo del progetto o, come si dice oggi, la necessità di procedere secondo un goal-setting ben definito, ovvero fissando anticipatamente gli obiettivi da raggiungere per poi cercare di creare quelle condizioni che hanno come conseguenza gli obiettivi stessi. È quello che ci insegnano fin da bambini e poi nelle aziende: “fissa degli obiettivi e poi il percorso per raggiungerli”.

Studi scientifici recenti dimostrano che  questo modo di procedere non produce affatto successi maggiori del “seguire gli eventi, sfruttare le circostanze, cogliere le opportunità”, ma in compenso genera molto più stress ed emozioni disturbanti come ansia di prestazione, delusione e autosvalutazione. I due diversi modi sono ben illustrati agli estremi dalla differenza tra uno chef più o meno stellato e un cuoco. Il primo ha stabilizzato una ricetta con ingredienti precisi e irrinunciabili, tempi e procedure studiate alla perfezione e ottiene sempre un ottimo risultato. Il cuoco e ancor di più la madre di famiglia procede in modo inverso: apre il frigo e a partire da quello che c’è organizza un ottimo pranzetto che non sarà mai identico a se stesso ma sempre gustoso.

Nel nostro campo gli aspiranti chef sono i fans dei protocolli, dei setting rigorosi e degli studi clinici controllati, le casalinghe gli affezionati al ragionamento clinico, alle situazioni disperate, che iniziano ogni giornata dicendosi “io speriamo che me la cavo”.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Abilità linguistiche: migliorano studiando musica

Frequentare lezioni di musica ha un effetto specifico sulle abilità linguistiche dei bambini in età prescolare.

 

Lo studio americano-cinese rivela che suonare il pianoforte migliora la capacità di distinguere le diverse tonalità e che questo si traduce in un miglioramento nell’abilità di discriminazione linguistica in bambini frequentanti la scuola dell’infanzia [La lingua cinese è una lingua tonale – NdR].

Abilità linguistiche: la musica ne favorisce lo sviluppo

In letteratura era nota, già da tempo, un’influenza della musica sulle abilità linguistiche, tuttavia non era chiaro se la competenza musicale migliorasse le abilità cognitive generali oppure se avesse un effetto specifico sull’elaborazione linguistica.

I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology hanno scoperto che l’abilità di riconoscere tonalità diverse in bambini pianisti portava ad una maggiore capacità di differenziazione tra le parole pronunciate. Al tempo stesso però non si è osservato alcun beneficio nelle capacità cognitive complesse quali attenzione e memoria di lavoro.

Lo studio condotto in collaborazione con colleghi cinesi della Beijing Normal University, è stato condotto a Pechino e ha visto la partecipazione di 74 bambini madrelingua cinese (mandarino) di 4 e 5 anni. I partecipanti sono stati assegnati casualmente a tre gruppi sperimentali: il primo che prevedeva la frequenza di lezioni di pianoforte della durata di 45 minuti 3 volte a settimana, il secondo in cui si svolgevano esercizi di lettura con uguale durata e frequenza del gruppo precedente e un ultimo gruppo di controllo esente da qualsiasi tipo di intervento.

Dopo 6 mesi, i ricercatori hanno testato i risultati nei piccoli partecipanti; in particolare la loro capacità di discriminazione delle parole in base alla differenza tra le vocali, le consonanti o il tono (molte parole in lingua mandarina differiscono anche solo per il tono con cui vengono pronunciate). L’abilità testata riflette quella che viene chiamata consapevolezza fonologica che risulta essere una delle componenti essenziali per l’apprendimento della lettura.

Musica: i risultati dello studio condotto con bambini

Ciò che ne è emerso è che i bambini del gruppo musicale hanno mostrato una maggiore capacità di riconoscere le consonanti rispetto al gruppo di lettura e che questi due gruppi hanno ottenuto risultati migliori, rispetto al gruppo di controllo, quando si trattava di discriminare le parole in base alle differenze vocaliche. Tuttavia i ricercatori non hanno trovato alcuna differenza significativa nei quozienti intellettivi e nelle abilità trasversali quali memoria e attenzione tra i gruppi sperimentali.

Inoltre la misurazione dell’attività cerebrale, tramite un elettroencefalogramma (EEG), ha indicato la presenza di una differente attivazione nei bambini musicisti dopo aver ascoltato suoni di diverse tonalità. Questo suggerisce che una maggior sensibilità alle differenze tonali ha facilitato questi bambini nei compiti di discriminazione fonologica.

In conclusione, le evidenze trovate portano a supporre che l’allenamento musicale possa essere un’utile strategia per migliorare le abilità linguistiche, addirittura migliore dei training di lettura.

La scuola cinese che ha ospitato il team di ricerca ha continuato a offrire lezioni di pianoforte ai piccoli alunni in quanto convinta degli effetti della musica sull’apprendimento generale; i ricercatori sperano che la scoperta possa incoraggiare altre scuole a creare o migliorare le loro offerte musicali.

Il terapeuta come genitore: il Reparenting e il Limited Reparenting

Il Reparenting è una forma di psicoterapia in cui il terapeuta assume attivamente il ruolo di una figura genitoriale nuova o surrogata per il cliente, al fine di trattare i disturbi psicologici causati da genitori difettosi o persino abusanti. L’ipotesi sottostante è che i disturbi psichici derivano principalmente da tale genitorialità difettosa.

 

Il Reparenting e le prime applicazioni con pazienti schizofrenici

Il Reparenting è un intervento derivato da una lunga esperienza clinica e di ricerca con i malati di schizofrenia, portata avanti per anni da J. e A. Schiff e il loro staff del Cathexis Institute di Oakland in California negli anni ’70 con i loro programmi terapeutici, di tipo ambulatoriale e intensivo (residenziale nei casi più gravi), che prevedevano la totale partecipazione dei pazienti a diverse attività quotidiane, comprese quelle psicoterapeutiche. Durante questo periodo, il paziente è totalmente immerso nel rivivere la propria infanzia e il terapeuta ad assumere tutte le funzioni genitoriali, fornendo le cure e il nutrimento di cui il paziente ha bisogno, con l’obiettivo di riformare totalmente lo stato dell’Io genitore difettoso.

Il loro intervento si basava su una visione del disturbo psicotico come espressione di una particolare struttura di personalità in cui i contenuti del genitore erano distruttivi nei confronti del bambino, degli altri e del mondo. Il bambino finisce nel rinchiudersi nella patologia come unica modalità di sopravvivere, modalità accettata dal Genitore. Il metodo degli Schiff consiste nel depotenziare lo stato dell’ Io Genitore patologico, sostituendolo con una struttura genitoriale più sana, assunta dal terapeuta.

Meccanismo del Reparenting

Derivando dalla teoria dell’analisi transazionale, il Reparenting cerca di trattare i problemi associati alla genitorialità difettosa. La teoria del Reparenting afferma che i problemi psicologici dovuti alla genitorialità difettosa possono essere superati riformando lo stato dell’Io Genitore del paziente. Ciò si ottiene portando il paziente a regredire verso lo stato mentale dell’Io bambino. Raggiunto questo stato, il terapeuta adotta intenzionalmente il ruolo di nuovo genitore, tentando di riparare agli errori commessi in passato dai genitori del paziente. La natura della riparazione da parte del terapeuta dovrebbe essere più positiva e influenzare il cliente nell’adottare uno stato dell’Io genitore più sano.

Diverse forme di Reparenting

Regressione totale

Sviluppato da Jaqui Lee Schiff, questa è la prima forma di Reparenting derivata dalla teoria dell’analisi transazionale, sviluppata poi presso l’Istituto di Cathexis. In genere, il paziente vive con il terapeuta fino a diversi anni presso un’istituzione. Durante questo periodo, il paziente è totalmente immerso nel rivivere la propria infanzia. Il terapeuta si pone come un vero e proprio genitore e fornisce tutte le cure e il nutrimento al paziente con l’obiettivo di riformare totalmente lo stato dell’Io genitore (Carrol, 2011)

Regressione limitata nel tempo

Thomas Wilson ha sviluppato un intervento di regressione limitato nel tempo allo scopo di trattare pazienti con schizofrenia. Ma a differenza della terapia di Schiff, al paziente è richiesto solo di partecipare a cinque sessioni di due ore con il terapeuta invece di vivere a stretto contatto con il terapeuta (Wilson, 1985).

Self-reparenting

Il Self Reparenting invece è un procedimento terapeutico messo in atto per ristrutturare lo stato dell’Io-genitore (James 1974), il processo richiede che il paziente sia consapevole di quali elementi del suo genitore interiore siano deficitari e non soddisfano i bisogni dell’Io Bambino. Nel Self Reparenting dunque è l’Adulto Paziente che, in alleanza con l’Adulto Terapeuta, costruisce nuovi aspetti dell’io genitore, più sani e funzionali (Filanti, Romanini, 2016).

Spot Reparenting

Dell’impianto originario del Self Reparenting viene oggi utilizzato lo Spot Reparenting, contratto formulato tra terapeuta e paziente nel quale si concorda che il primo lavori nelle vesti di figura genitoriale rispetto a una specifica area problematica del secondo, area in cui il genitore è risultato più disfunzionale.

Possibili rischi

La tecnica del Reparenting, soprattutto nella forma della regressione totale, richiede al terapeuta di sviluppare una stretta relazione con il paziente e dunque si potrebbe incorrere in evidenti rischi. Non esiste un protocollo, nella regressione totale, che fornisca il confine su ciò che il terapeuta può o non può fare. Molte volte, spetta al terapeuta determinare il piano d’azione da intraprendere di fronte a un dilemma durante il trattamento. Di conseguenza, c’è il rischio che il terapeuta diventi troppo estremo nei metodi, il che può mettere in pericolo il cliente e portare a nuovi problemi psicologici (Weiss, 1994). A causa del ruolo dominante del terapeuta nella relazione, il terapeuta ha un potere maggiore sul cliente e potrebbe abusare di questa autorità. Esiste anche un rischio nei confronti del terapeuta nel senso che può diventare troppo attaccato al cliente, il che può ostacolare il giudizio e il distacco professionale (Jacobs, 1994; Woods,1998). Le perplessità mostrate dalla comunità scientifica nei confronti del Reparenting riguardano soprattutto la forma di regressione totale proposta dagli Schiff. Il Reparenting conserva comunque degli aspetti che lo rendono un utile strumento terapeutico, come nel caso della Schema Therapy.

Il Limited Reparenting nella Schema Therapy

Uno dei punti cardine della Schema Therapy è il Limited Reparenting. La Schema Therapy è un approccio psicoterapeutico ideato da Jeffrey Young, che è riuscito ad integrare argomenti di modelli teorici molto differenti tra loro, quali ad es. la psicodinamica, la gestalt, la teoria dell’attaccamento e l’approccio cognitivo comportamentale. L’integrazione di differenti strategie e tecniche nasce per superare gli evidenti limiti che l’adozione di un approccio specifico comporta nel trattamento dei disturbi.

L’assunto di base della Schema Therapy è che l’insorgere dei disturbi mentali derivi dal non adeguato soddisfacimento di bisogni emotivi primari (cura, amore, attenzione, riconoscimento delle proprie emozioni, protezione, autonomia) negli anni cruciali dell’infanzia da parte delle figure di accudimento, come i genitori. Quando tali bisogni restano insoddisfatti, il bambino va incontro a una sofferenza ingestibile. Si creano così gli Schemi Maladattivi Precoci (SMP) che daranno un significato distorto alla visione di Sé e del mondo.

Scopo della Schema Therapy è modificare questi schemi maladattivi precoci, attraverso tecniche cognitive ed emotivo-esperienziali, ma soprattutto attraverso la relazione terapeutica, orientata a soddisfare quei bisogni primari insoddisfatti nell’infanzia del paziente, nel rispetto dei limiti del setting. Si crea così una relazione di accudimento in cui il terapeuta funge da genitore buono che cerca di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino paziente, prestando però attenzione al fatto che il terapeuta non acquisca potere nei confronti del paziente ma che validi e riconosca i suoi bisogni.

Questo tipo di rapporto tra paziente e terapeuta è conosciuto col nome di Limited Reparenting: oltre alle competenze possedute dal terapeuta, è il clima di sincera accoglienza che porta il paziente a costruire nuovi significati e, in quanto protetto e accolto, a sentire soddisfatti i suoi bisogni rimasti a lungo senza risposta.

Nella Schema Therapy, quindi, con Limited Reparenting si intende la tecnica specifica utilizzata per soddisfare i bisogni del paziente e accedere alle emozioni dell’infanzia tramite l’utilizzo dell’immaginazione. Gli esercizi immaginativi vengono vissuti come una specie di “macchina del tempo” che permette al paziente di ritornare ad essere quel bambino e rivivere le esperienze che hanno determinato la formazione degli schemi, questa volta in un contesto protetto e sicuro, vedendo finalmente soddisfatti i suoi bisogni, grazie all’intervento del terapeuta nella scena.

Il Limited Reparenting rappresenta probabilmente il punto di forza maggiore della Schema Therapy, in quanto non si limita ad agire a livello cognitivo ma interviene anche a livello emotivo.

L’importanza di agire con interventi a livello emotivo ha anche una spiegazione neurofisiologica: la codifica delle informazioni a livello cognitivo segue una via neurale diversa dalla codifica di informazioni a livello emotivo. Quando un evento a forte impatto emotivo (tra cui i traumi) ha luogo, la prima via cerebrale ad attivarsi è l’amigdala che registra le informazioni a livello automatico e involontario, connotandole però emotivamente. Solo successivamente le informazioni sono inviate alla corteccia cerebrale, che opera in modo più razionale. Lavorando, da terapeuti, sui soli contenuti cognitivi, si agirà solo sulla corteccia, senza incidere sull’amigdale e sulle emozioni registrate al momento dell’evento traumatico. Per questo l’accesso al mondo emotivo del paziente è indispensabile (Cirio, 2015).

Applicazione del Reparenting

L’approccio del Reparenting è particolarmente utile per qualsiasi tipo di problema psicologico che nasce da un’infanzia in cui i bisogni del bambino non sono stati soddisfatti o da un’infanzia in cui si sono subiti dei traumi. I disturbi con cui il Reparenting può essere applicato sono soprattutto:

Non sempre è necessario avere avuto un’infanzia chiaramente traumatica per beneficiare del Reparenting. Anche l’aver avuto un genitore distaccato, estremamente stressato o controllante può portare il bambino a non sentirsi sicuro e a sviluppare Schemi Maladattivi Precoci. Il Reparentig non è un modo, come spesso si è portati a pensare, di incolpare i genitori. Attraverso il suo utilizzo, invece, è più semplice comprendere il perché degli sbagli e delle mancanze dei propri genitori e provare empatia nei loro confronti.

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