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Pianto del bambino: fame, paura o rabbia?

Sarà capitato a tutte, o quasi, di porsi queste domande nel momento della prima gravidanza: capirò il pianto del bambino? Se non smette di piangere? Se non lo capisco? Ma realmente un neonato, quando piange, cosa sta chiedendo?

 

Winnicott, pediatra e psicologo, fa una sorta di classificazione del pianto dei bambini. Egli parte dal presupposto che, così come i bambini richiedono latte e calore, quindi cure primarie alle quali le soluzioni “casalinghe” di nonne e zie rispondono a pieno, hanno anche bisogno di amore e comprensione.

Pianto del bambino: le diverse funzioni

Winnicott descrive il pianto del bambino in quattro forme differenti a seconda dell’emozione suscitata:

  • il pianto di soddisfazione
  • il pianto di dolore
  • il pianto di angoscia
  • il pianto di rabbia

Ma è così semplice distinguerli e sapere cosa fare?

Pianto di soddisfazione e pianto di dolore

Il pianto di soddisfazione equivale secondo lo psicologo ad una esperienza positiva che il bambino fa del proprio corpo e delle proprie sensazioni. Nei primi mesi di vita il bambino si sperimenta, non solo nei confronti della madre e dell’ambiente, ma in primis verso sé stesso. Impara a conoscere il suo corpo e le sue reazioni, sperimentandole. Un bambino che piange di soddisfazione è un bambino che sta, per esempio, esercitando i propri polmoni e quindi il piacere può scatenare il pianto che a sua volta influenza tutte le altre funzioni somatiche.

Il bambino sperimentandosi fa una sorta di esercizio di crescita, che gli permette di acquisire le conoscenze necessarie per poter progredire nel suo percorso di crescita.

Analizziamo ora il pianto di dolore. Un bambino che sta male fa capire alla madre cosa gli fa male, per esempio se ha le coliche si contorcerà, se ha mal d’orecchio si metterà la mano vicino l’orecchio.

Dà alla madre dei segnali che le fanno capire che c’è qualcosa che non va. Il pianto scaturito da queste situazioni è un pianto definito di dolore. Un altro esempio del pianto di dolore è il bambino che piange quando ha fame.

Una madre “sufficientemente buona”, come la definisce Winnicott, sa capire il pianto del bambino. Il ‘sufficientemente’ non sta per madre brava, perché sostanzialmente una madre ama il proprio figlio quindi lo accoglie e lo ama accompagnandolo nel suo percorso di crescita, bensì la madre descritta da Winnicott è una madre in grado di essere il contenitore del proprio bambino, ossia in grado di accogliere le paure e le ansie del bambino in modo da tranquillizzarlo e lasciando che egli stesso sperimenti queste sensazioni senza rimanerne sopraffatto.

Bowlby parlerebbe di “base sicura” riferendosi a una madre in grado di sintonizzarsi sui bisogni del figlio, ciò si ricollega al concetto di madre sufficientemente buona capace di dare la sicurezza che “lei c’è” al il suo bambino.

A volte per esempio i bambini che piangono si tranquillizzano semplicemente sentendo la voce della madre, vedendola, o con una carezza.

Pianto d’angoscia e pianto di rabbia

Un terzo tipo di pianto è il pianto d’angoscia. Un esempio di questo pianto è dato da un bambino che piange perché al risveglio non vede la madre che probabilmente si trova solo nella stanza accanto. Successivamente, vedendo la madre o sentendo la sua voce il bambino si tranquillizza.

I bambini vivono tutta la gamma delle emozioni di base, sperimentano la tristezza, la frustrazione così come la gioia. Non potendoli esprimere a parole, piangono.

Infine c’è il pianto di rabbia. Il bambino arrabbiato piange e scalcia. Crescendo attuerà nuove modalità per sfogare la sua rabbia, come alzarsi e scuotere le sbarre della culla.

Si pensi ad un bambino nel seggiolone, stufo di stare lì seduto e che piange perché vuole andare in braccio alla madre, affaccendata in altro. Il bambino giustamente proverà rabbia, nel dover aspettare prima che il suo desiderio venga esaudito, e piangerà ancora più forte se non viene accontentato subito. Crescendo il bambino impara che questo tipo di pianto è “fastidioso” per l’adulto ma è un’arma per ottenere ciò che vuole. Di fronte a un bambino arrabbiato un genitore deve mantenersi calmo e fare da contenitore per la rabbia del bambino.

Il pianto del bambino ha dunque una complessa ma chiara dimensione relazionale, e dimostra come il neonato sia essenzialmente un essere sociale fin dalla nascita.

Religiosità nella terza età: il ruolo degli ormoni sessuali

Un nuovo studio condotto da Aniruddha Das della McGill University in Canada svela come oltre alla psicologia e all’educazione, anche la biologia potrebbe concorrere alla religiosità di un soggetto. In particolare, il livello di ormoni sessuali, quali il testosterone nel corpo di un uomo adulto, possono influenzare la sua partecipazione alla vita religiosa.

 

Il presente studio muove da precedenti conferme rispetto all’importante ruolo che la religione ha dimostrato di avere come influenza positiva sull’invecchiamento umano e mira a poter comprendere le radici della spinta religiosa umana: quali componenti concorrono all’instaurazione di particolari reti personali e affiliazioni sociali durante la terza età?

Das ha analizzato i dati emersi dal National Social Life, Health and Ageing Project (NSHAP, Waite, Cagney, Dale, Hawkley, Huang, Lauderdale, Laumann, McClintock, O’Muircheartaigh, 2017) uno studio americano longitudinale, istituito per raccogliere informazioni da circa 1000 adulti di età compresa tra i 57 e gli 85 anni.

Tra le varie domande alle quali i partecipanti hanno risposto, nei questionari veniva indagata la frequenza della loro partecipazione ai servizi religiosi, se un membro del clero faceva parte della loro rete sociale primaria, il loro stato di salute, il proprio peso e venivano inoltre raccolti campioni di saliva e sangue, esaminati in un secondo momento.

Più ormoni, meno religiosità

Dall’analisi dei dati, il ricercatore Das ha notato come gli uomini con livelli più elevati di ormoni sessuali (testosterone e deidroepiandrosterone) nel corpo avevano una più debole partecipazione religiosa.

A seguito dei risultati di questo studio emerge la necessità di concettualizzare l’integrazione dinamica tra fattori psicosociali e neuroendocrini nell’influenzare il ciclo di vita di una persona e le scelte di questa.

Senza l’esplorazione sistematica di questi collegamenti, la teoria del corso di vita rimane incompleta e potenzialmente inaccurata – afferma Das – Sono quindi necessarie ulteriori ricerche sulle ragioni per cui i livelli di androgeni influenzano le connessioni religiose di una persona e sul ruolo che gli ormoni svolgono nella strutturazione delle traiettorie di vita delle persone anziane.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

NAO: il robot umanoide a supporto della terapia con bambini affetti da autismo

Alcuni ricercatori del Massachussets Institute of Technology hanno sviluppato un tipo di machine learning in grado di stimare il coinvolgimento e l’interesse mostrati da bambini affetti da autismo.

 

I bambini affetti da autismo o disturbi dello spettro autistico hanno grandi difficoltà nell’identificare e nel riconoscere gli stati emotivi degli altri che interagiscono con loro in quanto non riescono a distinguere e decodificare in modo appropriato l’espressione di un volto felice, triste o spaventato (APA, 2013).

Autismo: i robot possono migliorare alcune difficoltà

Diversi professionisti, per cercare di migliorare i sintomi autistici legati ai deficit interpersonali nei bambini che ne soffrono e allo stesso tempo per implementare degli interventi che si adattino alle loro esigenze e alla loro giovane età, ricorrono all’uso di robot cosiddetti kid-friendly con lo scopo di coinvolgere il bambino in alcuni giochi; così lo si aiuta ad imitare e a rispondere in modo corretto alle emozioni altrui (Riek, 2017).

Questo tipo di terapia con l’ausilio di robot risulta efficace se quest’ultimo è in grado di interpretare facilmente il comportamento unico del bambino con il quale interagisce, cioè di comprendere se questo è interessato o eccitato e se sta prestando o meno attenzione al gioco durante la terapia.

Per tale ragione, il Media Lab del Massachussets Institute of Technology in collaborazione con il dipartimento di scienze robotiche e tecnologiche dell’università giapponese Kasugai, e il dipartimento di Computing dell’Imperial college di Londra, hanno ideato un robot umanoide in grado di apprendere e personalizzare le sue risposte sulla base dei dati che riceve e percepisce dal bambino con autismo, con una correlazione del 60%.

L’obiettivo a lungo termine di questo progetto non è quello di realizzare robot che possano sostituire il terapeuta umano, ma che il robot possa potenziare la raccolta delle informazioni cruciali sul comportamento del bambino tramite un’interazione reale e coinvolta con lui, in modo tale da aiutare e assistere il terapeuta a mettere in atto degli interventi su misura – Ognjen Rudovic, dottorando al Media Lab del MIT

Autismo: mille sfaccettature, che il robot NAO può registrare e analizzare

Nelle terapie per il disturbo dello spettro autistico, infatti, è cruciale la personalizzazione degli interventi sulla base dei deficit specifici che il bambino mostra nell’ingaggiarsi in relazioni interpersonali o nella manifestazione atipica dei propri stili affettivi e cognitivi.

A parere di Rudovic, Picard e colleghi (2018) i sistemi di machine learning e di intelligenza artificiale sono in grado di rispondere alle problematiche poste da questo particolare disturbo perché in grado di contenere ed elaborare una grande quantità di informazioni diverse tra loro come sono diversi ed eterogenei i bisogni di ciascun bambino affetto da autismo.

In una seduta, il terapeuta mostra al bambino delle foto con immagini di volti di altri bambini felici, tristi, arrabbiati o spaventati con l’intento di aiutare il bambino a riconoscere le emozioni e poi aiutarlo ad apprendere come imitarle a sua volta.

NAO, il robot umanoide descritto nella ricerca presentata (Rudovic, Lee, Dai, Schuller & Picard, 2018), costruito intorno ad un sistema di machine learning che usa un sistema gerarchico di processamento delle informazioni per migliorare i suoi compiti, interviene nella seduta e imita le stesse emozioni che il bambino ha osservato nelle foto e comincia ad interagire con il bambino cambiando di volta in volta il tono della sua voce e il movimento dei suoi arti.

Le modalità di comportamento del bambino nell’interazione con NAO, a parere dei ricercatori, rappresentano delle fonti importanti per ricavare informazioni su cui successivamente basare gli interventi.

NAO e i bambini affetti da autismo

I ricercatori, autori dello studio (2018) hanno “messo alla prova” NAO con 35 bambini con diagnosi di autismo, 17 di nazionalità giapponese e 18 di nazionalità serba.

Il punto fondamentale della ricerca risiede nel fatto che NAO è in grado di interagire con i bambini attraverso una modalità accattivante, che suscita curiosità e attira l’attenzione, come se per i bambini fosse una persona reale e non semplicemente un giocattolo e pertanto i dati che l’umanoide ricava dall’interazione naturale con il bambino sono assolutamente affidabili e spontanei.

In aggiunta a ciò, per i bambini l’interazione con un robot che si comporta all’incirca nella stessa maniera risulta meno frustrante rispetto ad una con un adulto umano che tende ad assumere diverse e più complesse espressioni del volto (Rudovic, Lee, Dai, Schuller & Picard, 2018).

Con il robot, il bambino può imparare in modo piuttosto strutturato e semplice come manifestare le proprie emozioni attraverso le espressioni del volto.

NAO: cosa lo rende unico nella comprensione dell’autismo

La caratteristica che rende NAO così unico è che può apprendere da dati acquisiti direttamente da ciascun bambino tramite i video delle loro espressioni del volto, movimenti del corpo, gesti e posture, file audio, registrazioni fisiologiche come la frequenza cardiaca, la temperatura corporea e le risposte di conduttanza cutanea ottenute grazie a degli apparecchi situati sul polso dei bambini (Rudovic, Lee, Dai, Schuller & Picard, 2018).

A seguito di queste acquisizioni, i ricercatori hanno codificato le registrazioni audio, video e le misure psicofisiologiche del bambino per fare una stima di quanto il piccolo affetto da autismo fosse contento, distratto, interessato o coinvolto durante la sessione.

La rete di “deep learning” (LeCun, Hinton, 2015) di NAO addestrata su questi dati lo “aiuta” successivamente a fare una stima del probabile comportamento del bambino nel corso di tutta l’interazione.

 

NAO: A STORY OF ROBOTS AND AUTISM – IL VIDEO:

https://www.youtube.com/watch?v=15nehf4AvsE&t=50s

Separazione conflittuale: la consulenza dello psicologo

L’uomo è, per natura, un essere profondamente relazionale. Filogeneticamente, vive all’interno di un sistema sociale organizzato, con il compito primario di tramandare il proprio codice genetico e manifestando esigenze di accudimento ed attaccamento. Tali bisogni si concretizzano all’interno di relazioni affettive e sentimentali che, nell’attualità, sembrano vivere un importante cambiamento.

Rachele Recanatini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Negli Stati Uniti, separazioni e divorzi hanno un rapporto di 1:2 rispetto ai matrimoni e, a partire dagli anni ’90, anche l’Europa si avvicina alle statistiche statunitensi. Ma quali sono le motivazioni che si celano dietro l’esponenziale aumento di separazioni? Sicuramente i molteplici cambiamenti sociali che stiamo vivendo: l’aumento dell’aspettativa di vita legata ad una relativa qualità, la riduzione del controllo sociale e familiare sulle scelte personali, la minore influenza delle credenze religiose in tema di matrimonio, il diversificarsi del mercato del lavoro, con famiglie definite “a doppia carriera”. Queste rappresentano soltanto alcune delle cause culturali che stanno provocando tale tendenza.

L’ondata narcisistica che spinge alla continua ricerca del benessere personale, l’aumento delle aspettative riguardanti l’esperienza matrimoniale ed i processi di autonomia ed autoconsapevolezza della donna sono fattori personali che si trovano alla base di molte separazioni conflittuali. Ad oggi in Italia ci si può separare di fatto o legalmente e, in quest’ultimo caso, le separazioni possono essere consensuali o giudiziali, ipotesi in cui la controversia si sviluppa in Tribunale. Nel nostro paese risultano consensuali l’86% delle separazioni e l’80% dei divorzi; le cause giudiziali hanno luogo maggiormente qualora il matrimonio sia duraturo, sia misto (tra persone di religione ed etnia diverse) e si presenti lo stato di disoccupazione di un coniuge (Vito, 2009).

Separazione conflittuale: le conseguenze

La separazione ed il divorzio sono avvenimenti che spesso vengono paragonati a veri e propri lutti, in quanto considerati eventi di vita critici e stressanti. Tali episodi, infatti, provocano lo scioglimento di un legame interpersonale ed emotivo importante, richiedono una revisione della routine quotidiana individuale ed un cambiamento nella propria identità e nelle ipotesi di prospettive future (Brodbeck et al., 2017). Superata la reazione di angoscia considerata normativa e fisiologica, la maggior parte degli individui riescono a far fronte alla separazione ed alla conseguente sensazione di perdita; alcuni, invece, sviluppano una reazione dolorosa prolungata, spesso dovuta alla mancata accettazione del distacco. Restare uniti, “finché morte non ci separi”: nei casi più drammatici l’impossibilità di riavvicinarsi alla persona desiderata sfocia in casi di omicidio e/o suicidio. Gesti disperati dettati da un vuoto affettivo che è vissuto come incolmabile, intollerabile, inaccettabile; da una spinta distruttiva che non lascia margini di recupero.

Nei casi di separazione conflittuale assistiamo spesso a desideri di vendetta, di rivalsa, caratterizzati da agiti aggressivi e violenti che non raramente coinvolgono i figli. Si assiste a delle vere e proprie patologie della relazione, con dinamiche disfunzionali che causano effetti critici e devastanti in tutti i protagonisti (Abazia, 2011).

Il ruolo dello psicologo nei casi di separazione non consensuale

Nelle separazioni non consensuali può essere prevista dal Tribunale una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), che contiene un’indagine psicologica e clinica delle parti in causa e che richiede al professionista – Consulente del Giudice – una specifica formazione e preparazione, vincolata ad un evento giuridico. La psicologia incontra in questo modo il diritto civile. Il CTU viene nominato in aula ed assume l’incarico di rispondere ad alcuni quesiti, previo giuramento di rito, per poter procedere allo svolgimento delle operazioni peritali. Nella maggior parte dei casi i quesiti riguardano il profilo della personalità genitoriale, qualora siano coinvolti minori, allo scopo di indagare il migliore regime di affidamento e domiciliazione in caso di separazione.

Lo psicologo ha quindi il compito di valutare la presenza di eventuali aspetti psicopatologici nel funzionamento interpersonale e relazionale dei genitori, le competenze genitoriali di ognuno di essi, le incidenze sullo sviluppo psicologico ed affettivo dei figli ed il soddisfacimento dei loro bisogni, allargando la valutazione a tutte le figure di riferimento significative ed indicando, altresì, le misure di intervento necessarie. Il padre e la madre possono avvalersi rispettivamente di un proprio Consulenze Tecnico di Parte (CTP), che opererà – alla luce dell’interesse superiore dei minori – esaminando le capacità del genitore valutato. La Consulenza – uno strumento per prevenire e per comprendere dettagliatamente la situazione familiare in atto – diventa così uno spazio per individuare le soluzioni più idonee alla risoluzione del conflitto. L’esperto, per rispondere ai quesiti, utilizzerà mezzi e strumenti attendibili, quali: il colloquio, per acquisire le informazioni necessarie relative al contesto relazionale e per effettuare una approfondita ricostruzione anamnestica; i test, reattivi psicodiagnostici che hanno lo scopo di individuare le modalità con cui il genitore si pone in rapporto con l’ex partner e con i minori coinvolti, e rilevare eventuali disfunzionalità personologiche e relazionali. I colloqui previsti sono sia singoli che congiunti, rispettivamente con i genitori, con i minori e con le eventuali figure di attaccamento significative (Gulotta, 2016). Lo psicologo dispone inoltre di una serie di tecniche e strumenti per indagare le relazioni familiari, come ad esempio il “gioco triadico di Losanna” o il “disegno congiunto”. In Italia è stato recentemente validato uno strumento denominato “Assessment of Parental Skills-Interview” (ASP-I), rivolto proprio alla valutazione specifica delle competenze genitoriali, che indaga determinati comportamenti legati alle funzioni di base dell’esercizio della genitorialità (Camerini et al., 2011). Nella prassi giudiziaria, il CTU è tenuto a videoregistrare gli incontri, per garantire trasparenza ed affidabilità al Giudice e alle parti. Al termine dell’indagine, trascorsi almeno 90 giorni, i Consulenti redigono una relazione finale, in cui il CTU palesa le risposte al quesito posto dal Tribunale, con adeguate motivazioni e con le soluzioni proposte.

Separazione conflittuale e valutazione della genitorialità

Le competenze genitoriali di base richieste a ciascuna parte, da mantenere al di là della separazione giudiziale, si basano su molteplici fattori, stabiliti dettagliatamente nel Protocollo di Milano (2012). Primariamente, il saper comprendere e rispondere adeguatamente alle esigenze primarie del figlio, come le cure igieniche, alimentari e sanitarie; preparare, organizzare e strutturare adeguatamente il mondo fisico del minore, ovvero gli aspetti ambientali, in modo da offrirgli un contesto di vita sufficientemente stimolante e protettivo; essere in grado di comprendere le necessità e gli stati emotivi del minore, di rispondere opportunamente ai suoi bisogni e di coinvolgerlo emotivamente negli scambi interpersonali, in modo adeguato alla sua età ed al suo livello di maturazione psico-affettiva; riuscire a favorire le congrue opportunità educative e di socializzazione; interpretare il proprio comportamento e quello altrui in termini di ipotetici stati mentali, cioè in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni e intenzioni; offrire regole e norme di comportamento congrue alla fase evolutiva del figlio, creando le premesse per la sua autonomia; saper promuovere l’evoluzione della relazione genitoriale in virtù delle tappe di sviluppo del figlio, adeguandosi alle competenze acquisite e favorendo la crescita del minore; affrontare e gestire il conflitto con l’altro genitore – tenendo conto delle rispettive e peculiari strutture personologiche – con le dovute capacità di negoziazione; promuovere il ruolo dell’altro genitore favorendo la sua partecipazione alla vita del figlio – il cosiddetto criterio di accesso – in maniera attiva e nella salvaguardia della genitorialità, anche verso i legami generazionali e con la famiglia allargata; infine, qualora ritenuto necessario, l’esperto deve valutare altresì la disponibilità del genitore a sottoporsi a un percorso di sostegno alla genitorialità.

Le competenze elencate vanno sintetizzate all’interno di quattro criteri cardinali, che il CTU dovrà valutare in caso di richiesta di affidamento: il criterio del cosiddetto “genitore psicologico”, legato al processo di identificazione nei bisogni dei figli; il criterio del desiderio autentico dei figli, ovvero la qualità dell’attaccamento verso ciascun genitore e la disponibilità nel relazionarsi con lui; il criterio della riflessività, che riguarda la capacità, da parte di ciascuno dei due genitori, di attivare riflessioni ed elaborazioni di significati relative sia agli stati mentali dei figli stessi ed alle loro esigenze evolutive, sia alle relazioni familiari che li coinvolgono; il criterio dell’accesso, ovvero gli indizi di cooperazione e di disponibilità o, viceversa, la difficoltà sostanziale rispetto al diritto ed al dovere dell’altro a partecipare alla crescita e all’educazione dei figli ed al loro complementare bisogno di “accedere” all’altro genitore (Volpini, 2017).

Separazione conflittuale e principio di bigenitorialità

Una svolta significativa all’interno delle separazioni si ha con la Legge n. 54 dell’8 febbraio 2006, che sancisce il principio della bigenitorialità: il diritto imprescindibile di un figlio ad avere rapporti stabili con entrambi i genitori ed accesso ad entrambe le famiglie d’origine, ad eccezione di situazioni pregiudizievoli. Ma quando una separazione può definirsi rischiosa? Nel caso in cui, ad esempio, un genitore non accetti e non tolleri la fine del rapporto di coppia, manifestando una visione egocentrica ed autocentrata della situazione, si deve desumere una incapacità a livello genitoriale. Complesse dinamiche personologiche disfunzionali, elevata incomunicabilità ed un clima relazionale altamente conflittuale non possono assicurare una serena ed equilibrata crescita ai minori coinvolti. Inoltre, all’interno delle famiglie, spesso si sviluppano alleanze, spontanee o provocate, tra un genitore ed un figlio e, nei casi di conflitto interfamiliare, tali coalizioni possono servire a sostenere, influenzare, ricattare o ostacolare l’altro genitore.

Tra le situazioni conflittuali e problematiche più frequenti si trova infatti la cosiddetta Sindrome da Alienazione Parentale (PAS), ora nota come Alienazione Parentale (PA). Sindrome che si riferisce a tutte le manifestazioni psicopatologiche osservate nei minori triangolati all’interno delle separazioni genitoriali conflittuali, relative all’ingiustificato o inspiegabile totale rifiuto verso un genitore. Tale patologia è attualmente molto discussa: alcuni ne negano l’esistenza, altri la rivendicano come fenomeno in crescita, tanto che non è ancora stata inserita all’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) (Bensussan, 2017). L’alienazione genitoriale, di cui la PA è un sottotipo, consiste nel distruggere la relazione tra l’altro genitore ed il proprio figlio. Nasce da conflittualità irrisolte e si alimenta con sentimenti di rivalsa ed acredine di un adulto verso l’ex partner, che cerca nel minore un alleato e, spesso, un vendicatore. Il movente – umiliazioni o tradimenti – provoca la nascita di una alleanza perversa e patologica del bambino con un genitore a scapito dell’altro, non affidatario, che viene aggredito o escluso dalla relazione.

L’attore della PA, consapevolmente o inconsapevolmente, promuove il cosiddetto “child’s brainwashing”, attraverso strategie dirette ed indirette: può inculcare opinioni negative tramite minacce, promesse o premi; raccontare aneddoti in cui l’altro è connotato negativamente, perdente o ridicolo; manipolare le situazioni a proprio favore; porre il figlio nella posizione di giudice degli agiti scorretti dell’altro; drammatizzare gli eventi; minacciare un calo di affetto nei casi di riavvicinamento all’altro; attribuirsi qualità positive, scindendosi dall’altro; riscrivere il passato creando dubbi nel figlio sul rapporto con l’altro. Il genitore rifiutato può altresì essere sostituito con un nuovo partner. Il minore coinvolto vive diverse fasi con il trascorrere del tempo: inizialmente resistente, finisce con il cedere ed allinearsi, soprattutto se emotivamente fragile e meno difeso. Colludendo con il genitore idealizzato, nella maggior parte dei casi inizia a colpire il bersaglio rifiutando visite e contatti e muovendo accuse di violenze e maltrattamenti, in maniera caricaturale, cantilenosa, fittizia.

All’interno di una Consulenza, l’esperto dovrà porre attenzione ai possibili segni indicatori di alienazione, quali per esempio l’adultizzazione del minore, che presenta un linguaggio inadatto rispetto all’età anagrafica, la campagna denigratoria e vessatoria verso il genitore rifiutato, la mancanza di ambivalenza, il sostegno totale verso l’alienante. Fondamentale un intervento tempestivo, allo scopo di evitare che il bambino alienato viva profondi sensi di colpa, affiancati alla paura di perdita ed abbandono del genitore alleato. Uno studio internazionale che ha indagato due differenti variabili nelle cause di divorzio – la scelta di separarsi e la responsabilità attribuitagli, e la difficoltà e la durata delle procedure legali, fornisce importanti evidenze in merito alle relazioni genitoriali ed alle funzioni parentali. Prevedibilmente, più lunga e duratura risulta essere la causa giudiziale, peggiore sarà il rapporto tra ex partner, dal punto di vista di entrambi. Se le funzioni genitoriali materne non risultano significativamente associate ad alcuna variabile del divorzio, rispetto ai padri, si evince che maggiore è la loro percezione di responsabilità e di scelta di separarsi, più elevato sarà il loro adempimento verso le funzioni genitoriali da espletare (Baum, 2003). Tale peculiare dinamica andrebbe indagata altresì nel nostro Paese, per verificare possibili influenze tra le dinamiche all’interno della separazione ed il comportamento verso i figli. Una recente ricerca ha evidenziato la “scissione” che vive il minore conseguentemente ad una Alienazione Parentale (Bernet et al., 2018): i minori alienati, infatti, percepiscono costantemente un senso di frattura e di mancata ambivalenza verso il genitore rifiutato. Maggiore è il grado di alienazione, più grave ed elevato sarà il livello di frammentazione: il figlio vive il genitore rispettato e preferito in termini estremamente positivi, contrariamente a quello respinto.

Alla luce di quanto sottolineato, si può dire che lo psicologo esperto che si occupa di separazioni ad elevata conflittualità riveste un ruolo arduo e complesso: si trova a dover esercitare la propria professione aiutando una coppia, spesso precedentemente sana, che sta vivendo una patologia relazionale, che permea il sistema di sentimenti quali odio, rabbia, disgusto e tristezza. In tale contesto, l’obiettivo richiesto è nella maggior parte dei casi quello di poter fornire raccomandazioni rispetto i diritti di visita e di custodia dei figli coinvolti.

Separazione conflittuale come fattore di rischio

La separazione conflittuale rappresenta un fattore di rischio sia per la salute psicofisica dei minori sia per la qualità stessa delle relazioni familiari. Scopo della Consulenza in tale ambito, agevolare ed incentivare una cooperazione ed una collaborazione tra ex partner, per riuscire a svolgere una corretta funzione parentale, scindendo il sistema genitoriale da quello coniugale, che vanno considerati interdipendenti (Lavadera et al., 2011). Il Consulente Tecnico d’Ufficio in ambito di separazione conflittuale ha quindi il dovere di aiutare la coppia genitoriale a sviluppare sensibilità ed attenzione verso i bisogni dei figli. Spesso i genitori si concentrano su loro stessi e su quanto sta accadendo nella loro vita di coppia; la conflittualità spinge a monopolizzare le risorse emotive disponibili, accentuando la difficoltà a discernere tra il piano diadico ed il piano genitoriale. Tale disregolazione emotiva amplifica l’acredine e va considerata un pregiudizio da segnalare e su cui intervenire (Roberton et al., 2012). Le evidenze recenti convergono nell’incentivare la cultura della cosiddetta “buona separazione”, attraverso lo strumento del Consulente Tecnico che deve operare allo scopo di preservare un’idonea e corretta genitorialità, che perduri nonostante la separazione, “finché vita non ci separi”.

Gli stili di vita nella prevenzione delle malattie croniche – Report del convegno di Palermo, 16 giugno 2018

Stili di vita che cambiano nel tempo, modificando in negativo la qualità di vita della popolazione. Qual è il ruolo della medicina e della relazione di aiuto in questo elevato compito sociale e sanitario, che investe prevenzione e cura delle malattie croniche, in accordo alla definizione fornita dall’OMS di salute in quanto stato di completo benessere fisico, mentale e sociale?

 

Di questo attuale e delicato tema si è discusso lo scorso 16 giugno a Palermo presso l’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Palermo, evidenziando le aree di criticità del fenomeno e i mezzi di contrasto.

La sempre maggiore disponibilità di cibo porta oggi alla morte per obesità. – apre i lavori Ligia Dominguez, professore aggregato della Scuola di Medicina, Università degli Studi di Palermo – Una situazione inversa rispetto al ‘600 o al ‘700 dove si moriva per malnutrizione, e a cui il medico deve porre attenzione, poiché si tratta di una discrepanza che va a scapito della salute. I principali responsabili sono alimenti quali carne lavorata, uova, burro, per l’alto contenuto di grassi saturi, che dovrebbero essere assunti in quantità limitata, seppur non totalmente eliminati dalla dieta.

Un’educazione alimentare come scelta degli alimenti e dell’introito calorico, garanzia di risparmio in termini di malattia, ma altresì in termini di costi sociali e sanitari.

Tutto ciò che risparmiamo in prevenzione lo recuperiamo come trattamenti non eseguiti per malattie croniche. – continua Dominguez – Basti pensare che il costo sociale della malattia cronica da curare è il triplo rispetto all’assenza di malattia dovuta alla prevenzione.

Gli stili di vita nella prevenzione delle malattie croniche - Report dall'evento - IMM 1IMM 1 – Immagine dal Convegno “Gli stili di vita nella prevenzione delle malattie croniche”

Candidata a regina della prevenzione, la dieta mediterranea si ripercuote positivamente in termini di salute, con azione di contrasto ai processi infiammatori dell’organismo.

Stress, cattiva alimentazione, cattiva qualità del sonno sono tutti fattori che intossicano l’organismo, favorendo l’invecchiamento cellulare. – sottolinea Giuseppe Disclafani, medico di medicina generale – Un rimedio noto da tempo è la dieta mediterranea, fondata, tra gli altri alimenti, sul consumo di cereali, pesce, olio di oliva, frutta e verdura, in grado di agire sulla prevenzione di tumori, infarti, ictus, diabete e malattie degenerative come la sclerosi multipla, oltre che servire come cura delle malattie stesse, una volta diagnosticate. Ciò è possibile perché il cibo è in grado di intervenire attivando quei geni che intervengono per impedire che insorgano determinate patologie, come insegna la nutrigenomica.

Dieta mediterranea come stile di vita per tutti, con implicazioni di natura medica, ma altresì psicologica.

Dieta mediterranea è anche convivialità, sedersi in tavola tutti insieme al trigenerazionale e farsi raccontare delle tradizioni culinarie del proprio paese, significa essere in armonia con il corpo, con la terra, con le proprie origini.

Corretta alimentazione come prevenzione dell’obesità e delle patologie correlate, quali diabete e infarto: una mission che coinvolge il medico, lo psicologo, e le agenzie educative preposte, quali scuola e famiglia.

È essenziale coinvolgere la famiglia e la scuola nell’obiettivo di una sana alimentazione, educandole ai rischi di determinati cibi e responsabilizzandole a un uso di cibi salutari, mirando all’empowerment delle persone, soprattutto perché, se il bambino torna a casa e trova bevande come la Coca Cola, il progetto di una dieta sana non può che fallire. Coinvolgere i genitori può significare spingerli a sbucciare la frutta ai figli, così da garantire cibi freschi ogni giorno, oppure stimolare la scuola a far preparare cocktail di frutta ai ragazzi, attraverso laboratori, che scoraggino l’assunzione di bevande alcoliche – suggerisce ancora Dominguez.

Una prevenzione necessaria, a livello personale e familiare, allorchè le malattie cardiovascolari costituiscono malattie a profondo impatto sulle dinamiche familiari e sul benessere di tutti i componenti.

Il reinserimento del paziente in famiglia mette in moto una serie di dinamiche, poiché il paziente si porrà il problema del ritorno a un’attività sessuale regolare, ed è un dovere deontologico non disgiungere l’aspetto della cura dell’infarto dalla sfera sessuale – spiega Francesco Salamone, medico di medicina generale – Esiste poi un impatto economico da diminuito reddito per la disabilità del coniuge che si ripercuote negativamente a livello relazionale, così come l’importanza di ricollocamento lavorativo, a seguito della riabilitazione.

Accanto all’alimentazione, l’attività fisica consente di prevenire l’invecchiamento cellulare o riparare i danni provocati da patologie sistemiche in atto.

Il movimento può essere paragonato a un antidepressivo perché favorisce la socializzazione e aumenta le endorfine – spiega Francesco Magliozzo, medico di medicina generale – Gli adulti dovrebbero muoversi per 150 minuti a settimana e i giovani 60 minuti al giorno, con benefici sui sistemi cardiovascolare, respiratorio e immunitario. Come per una corretta alimentazione è essenziale un counseling come momento di dialogo tra persone, che miri all’educazione alla non sedentarietà, sia in fase preventiva che curativa delle malattie croniche, fornendo linee guida a bambini e familiari, stimolandoli ad attività quali la rivalorizzazione del ballo, o l’utilizzo della bicicletta. Sottolineando, in questo percorso, il valore del movimento come farmaco, sempre condividendo gli obiettivi e mai imponendoli, ed evitando di stigmatizzare sovrappeso e obesità, non colpevolizzando la persona. È importante a tal fine evitare raccomandazioni generiche come Muoviti di più, anche per stabilire un’alleanza terapeutica, così come dovrebbero essere sconsigliate diete fai da te o consigli generici come “mangia di meno”

La separazione madre-bambino causa vulnerabilità neurobiologica in età adulta

La relazione madre-bambino ha profonde radici biologiche e tali effetti si estendono fino all’età adulta.

 

Una recente ricerca pubblicata su Current Directions in Psychological Science porta nuovi e ulteriori dati a sostegno del fatto che una separazione precoce del bambino dalle proprie figure di attaccamento possa avere ripercussioni traumatiche dal punto di vista neurobiologico sul suo sviluppo e sulla sua crescita.

Come nasce il legame di attaccamento tra madre-bambino?

Il legame tra una madre e il suo bambino si forma per la prima volta nell’utero, dove si è scoperto che i feti sviluppano risposte preferenziali ai profumi e ai suoni materni che persistono anche dopo la nascita, spiega Myron Hofer, direttore del Sackler Institute for Developmental Psychology della Columbia University. Questi rapidi processi di apprendimento precoce continuano durante la fase neonatale dello sviluppo, in cui i bambini iniziano a riconoscere i volti e le voci delle loro madri.

Da questo punto in poi, la separazione materna precoce può comportare una serie di reazioni emotive durante le quali il bambino vive un periodo di chiamata ansiosa e un comportamento di ricerca attiva seguito da un periodo di declinazione della risposta comportamentale.

Uno studio sperimentale sugli effetti della separazione materna precoce

In uno studio condotto sui ratti neonati, Hofer ha scoperto che questo comportamento di ricerca attiva era in gran parte una risposta alla perdita di calore che il piccolo riceve attraverso il contatto fisico, i nutrienti e altre interazioni fisiologiche con sua madre. Hofer è dunque riuscito a normalizzare i cicli cardiaci e quelli REM-sonno dei ratti neonatali nel suo laboratorio fornendo loro calore artificiale, stimolazione tattile (ad esempio, accarezzandoli con un pennello) e latte abbondante.

Insiema ai suoi collaboratori, Hofer ha anche studiato l’effetto della separazione sui ratti durante i periodi di adolescenza ed età adulta. Quando è stato sottoposto a un periodo di immobilizzazione di 24 ore, l’80% dei ratti adolescenti che sono stati allontanati dalla madre prima dello svezzamento ha sviluppato ulcere allo stomaco come risposta allo stress. I ratti normalmente allevati, invece, non hanno manifestato alcuna forma di ulcera in età adolescenziale.

Sebbene le relazioni umane siano più complesse di quelle dei roditori, la ricerca suggerisce che il distacco dalla madre e l’assenza del sostegno materno nella prima infanzia può avere un numero di conseguenze fisiologiche e comportamentali che può contribuire a un modello di vulnerabilità complesso e mutevole nel corso della vita, afferma Hofer.

Dai risultati emersi è possibile comprendere come la relazione madre-bambino negli esseri umani abbia profonde radici biologiche, e tali effetti si estendono fino all’età adulta.

Distorsioni cognitive: quando gli errori di pensiero causano sofferenza emotiva

Le convinzioni negative su di sé, sul mondo e sul futuro spesso dipendono da modi sbagliati di osservare la realtà e di ragionare, detti errori di ragionamento o distorsioni cognitive.

 

Queste hanno origine spesso nell’infanzia, anche per l’influenza del comportamento dei genitori e sono poi attivate da eventi e situazioni stressanti (Vicentini, 2013).

Le distorsioni cognitive sono modalità disfunzionali di interpretare le esperienze, esse si caratterizzano per il processo e non per il contenuto.

Dai pensieri automatici alle distorsioni cognitive

Per comprendere in che modo intervengono le distorsioni cognitive e come queste causano sofferenza ai pazienti, abbiamo bisogno di fare un piccolo passo teorico indietro, partendo dal concetto di pensieri automatici.

Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale i disturbi psicologici sarebbero causati da pensieri automatici disfunzionali che le persone utilizzano nell’elaborare le situazioni e gli eventi di vita.

Il primo a parlare di pensieri automatici fu Aaron T. Beck, che notò come determinati pensieri dei suoi pazienti fossero attivati in modo immediato e senza consapevolezza. Pose così particolare attenzione, nella sua pratica clinica, al cercare, insieme al paziente, di mettere in evidenza quali fossero i pensieri automatici alla base della sofferenza portata in seduta.

Questi pensieri sono detti automatici perché, secondo Beck, si presentano alla coscienza, per l’appunto, in modo automatico, in forma quasi telegrafica, senza che vi sia un’esperienza soggettiva di riflessione da parte dell’individuo. Inoltre essi sono assunti, da chi li pensa, come plausibili e dunque non vi è un processo di distanza critica da essi: l’individuo coglie tramite questi pensieri l’essenza stessa del mondo che lo circonda, senza la consapevolezza del fatto che che questi siano soggettivi e pertanto opinabili e discutibili. I pensieri automatici guidano in questo modo l’attribuzione di significato che il soggetto dà alla sua vita e alle relazioni che instaura con gli altri (Semerari, 2000).

Dunque, secondo Beck, si vengono così a creare delle regole di inferenza e delle strutture di significato stabili che sottendono i processi di pensiero. Queste strutture sono dette schemi cognitivi. Attraverso questi si vagliano, si elaborano e si interpretano le informazioni derivanti dal mondo esterno, ed ecco perché due persone valutano uno stesso evento diversamente o la stessa persona si approccia a diversi eventi nello stesso modo (Beck e Freeman 1990; Lorenzini e Sassaroli 1995).

Alcuni schemi si dicono disfunzionali quando distorcono la realtà, provocano sofferenza, sono pervasivi e danno luogo a falsi sillogismi. Perché, in chi soffre di disturbi psichici, è così difficile modificare la natura disfunzionale degli schemi?

Secondo Beck e colleghi (1979), a impedire la correzione delle credenze generate dagli schemi disfunzionali, vi sono le distorsioni cognitive ovvero degli errori procedurali sistematici adoperati nei processi di valutazione e giudizio.

Quali sono le distorsioni cognitive più comuni?

Beck individua una serie di distorsioni cognitive presenti nell’applicazione dei pensieri automatici.

Esse sono:

  • Astrazione selettiva: si presta attenzione ad un solo aspetto o a un solo dettaglio della situazione. Gli aspetti positivi sono spesso ignorati a vantaggio di quelli negativi.
  • Pensiero dicotomico: gli eventi sono valutati in forma estrema, del tipo buono / cattivo, nero / bianco, on / off, etc.
  • Inferenza arbitraria: vengono tratte conclusioni da situazioni non supportate dai fatti, anche quando l’evidenza è in contrasto con la conclusione.
  • Supergeneralizzazione: si giunge a una conclusione generale partendo da un evento particolare.
  • Ingigantire e minimizzare: si assume la tendenza a esagerare gli aspetti negativi di una situazione, riducendo al minimo il positivo.
  • Personalizzazione: vengono attribuite caratteristiche personali a una situazione.
  • Visione catastrofica: si anticipano gli eventi pensando che il peggio accadrà sicuramente.
  • Doverizzazione: ci si autoimpone regole rigide e severe su come le cose dovrebbero andare.
  • Variabili globali: vengono utilizzate etichette generali sugli eventi che non considerano le diverse sfumature.

Lo scopo finale della terapia, secondo Beck, consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e si valutano le situazioni di vita. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e a liberarsi dalle distorsioni cognitive per sostituirli con pensieri più realistici, flessibili e adattivi.

E se fossi gay? Il racconto dell’esperienza clinica con pazienti terrorizzati dal dubbio ossessivo di essere gay

Gianluca Frazzoni è quel non frequente clinico che sa scrivere e sa raccontare la sofferenza emotiva. Nella sua ultima opera, pubblicata da Alpes, si occupa di un tipo particolare di dubbio ossessivo. È possibile scoprire all’improvviso di essere gay? 

 

Perché una persona sviluppa il pensiero intrusivo di essere omosessuale?

Questo libro nasce dall’esperienza clinica con molti pazienti, donne e uomini, tormentati dal dubbio di non conoscere realmente il proprio orientamento, fino ad oggi percepito e vissuto come eterosessuale. A questa fantasia si accompagnano, anzi concorrono a crearla, numerose convinzioni irrazionali. L’idea che l’orientamento sessuale sia mutevole, la paura di aver ignorato segnali o indizi che indicavano un’attrazione per le persone del proprio sesso, la ricerca di prove che possano confutare o avvalorare l’ossessione: questi e altri elementi caratterizzano un fenomeno psicologico che, è bene ricordarlo, nasce da una base emotiva e solo in un secondo momento diventa un contenuto cognitivo.

Le origini del dubbio

I fattori che lo determinano riguardano un sentimento generalizzato di inadeguatezza, inferiorità, diversità; spesso nella storia personale vi è la sensazione di non essere accolti e apprezzati all’interno della propria famiglia, la sensazione di non essere al sicuro nelle relazioni con gli altri, l’impossibilità di tollerare una perdita di controllo sulle proprie emozioni e sui pensieri ad esse correlati.

La fantasia di essere gay è un contenuto mentale che la razionalità non prevede e non governa, sorge da stati emotivi che hanno radici molto più profonde e sfaccettate.

L’ossessione rappresenta una sorta di spostamento, di difesa razionale o pseudorazionale, che ha la funzione di concentrare in un pensiero, in una singola tematica, la sofferenza emotiva non elaborata e in parte sconosciuta.

Un aspetto fondamentale è la difficoltà di fidarsi delle proprie percezioni e di riconoscere le differenti emozioni: l’ansia viene scambiata per eccitazione sessuale e questo consolida il contenuto dei pensieri intrusivi, il corpo si attiva e sembra generare le reazioni tipiche dell’attrazione. Ciò che in passato era vissuto come desiderio fisico nei confronti dell’altro sesso viene improvvisamente messo in discussione, come se non fosse più possibile fidarsi di ciò che il corpo ha sempre manifestato.

La ricerca di prove è destinata unicamente a rinforzare le convinzioni irrazionali poiché viene innescata dall’ansia e si indirizza verso interpretazioni distorte, utili solo ad accrescere la paura.

È plausibile che alla base di queste ossessioni vi sia l’omofobia?

Ciò che emerge dall’esperienza clinica è che nella maggior parte dei casi il collegamento tra l’omosessualità e una condizione di infelice diversità appartenga alla sfera delle emozioni più intime del paziente, ma non ad una sostanziale omofobia.

Spesso vi è l’impossibilità, maturata all’interno delle relazioni familiari, di tollerare le proprie fragilità, le parti più vulnerabili, spesso si riscontra la non accettazione di sé ma non semplicemente dal punto di vista dell’identità sessuale – che non costituisce in realtà il vero nodo da sciogliere – bensì in una prospettiva molto più ampia che racchiude l’autostima, la sensazione di non poter essere amati, il dubbio pervasivo di essere sbagliati, difettosi in qualunque manifestazione della propria identità.

Potrei essere gay diventa la traduzione viscerale, illogica ma profondamente sofferta di una paura nel contatto col mondo, con gli altri esseri umani, diventa l’algoritmo inaspettato e spaventoso che definisce il sentimento di non valere nulla per se stessi e per coloro dai quali si sarebbe desiderato – o ancora si desidera – ricevere amore.

Il Parent Training: modelli di progettazione e realizzazione

Il parent training fa riferimento ad una serie di interventi psicologici per genitori ai cui bambini sono stati diagnosticati alcuni disturbi mentali e comportamentali.

 

I disordini comportamentali che hanno beneficiato maggiormente da questo tipo di interventi sono il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) ed il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP), (Lifford et al., 2008).

Spesso questi disturbi si verificano in comorbilità, il che significa che un bambino può mostrare sintomi di più di un disturbo contemporaneamente (es. sia ADHD che DOP).

È stato dimostrato che anche i bambini con autismo, disordini alimentari o problemi di ansia hanno beneficiato dai cambiamenti introdotti tramite la formazione dei genitori attraverso i programmi di parent training (Zucker et al., 2006).

Le sfide associate alla crescita di qualsiasi bambino, indipendentemente dal fatto che soffra o meno di un disturbo psicologico, sono numerose e a volte schiaccianti. La formazione dei genitori attraverso questo programma li aiuta a gestire i loro livelli di stress e a sviluppare meccanismi di coping migliori, che a loro volta permettono un ambiente domestico più sano e controllato.

Parent Training: in cosa consistono i programmi

Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso inizia ad apparire, soprattutto nella letteratura americana, un’attenzione particolare per un metodo di intervento finalizzato all’incremento delle abilità genitoriali nel gestire i comportamenti problematici dei figli disabili: il Parent Training.

I programmi di Parent Training (PT) si differenziano a seconda delle scelte teoriche degli autori e degli obiettivi specifici che si propongono, ma è comunque possibile individuare alcune linee comuni a tutti gli interventi di aiuto ai genitori. In particolare il Parent Training mira a:

  • Migliorare la relazione e la comunicazione tra genitori e figli
  • Aumentare la capacità di analisi dei problemi educativi che possono insorgere
  • Aumentare la conoscenza dello sviluppo psicologico dei figli e dei principi che lo regolano
  • Diffondere metodi educativi efficaci
  • Rendere la vita familiare e i problemi di tipo educativo che possono sorgere più facilmente gestibili (Soresi, 2007).

I modelli descritti in letteratura sono passati attraverso una lunga serie di critiche costruttive che ne hanno rafforzato alcuni aspetti e sviluppato altri.

Parent Training: l’evoluzione negli anni

All’inizio degli anni Sessanta l’approccio comune fu di tipo psicodinamico, in cui l’attenzione era particolarmente rivolta alle “reazioni intrapsichiche della madre” interpretate in modo unidirezionale, quali complessi processi di disadattamento, sofferenza e riadattamento (Aubrey, 1991).

In una seconda fase (anni ‘70-’80) si ebbe il prevalere dell’approccio ad orientamento “sistemico”, in cui la famiglia veniva analizzata e vista come un complesso ecosistema di relazioni, a loro volta in relazione di interdipendenza con altri sistemi sociali più ampi.

La fase storica successiva registrò un’inversione di tendenza: la famiglia con un bambino disabile, pur nelle sue molteplici difficoltà, non soccombeva necessariamente ed inevitabilmente, ma subiva invece, dopo un primo momento di crisi, un progressivo adattamento, traendo, talvolta anche risorse ed effetti positivi proprio dalla situazione negativa.

Le esperienze in tal senso contribuirono a determinare un orientamento e una prassi operativa volta insegnare ai genitori le modalità di gestione dei loro problemi e ad attivarsi per contrastare le situazioni di stress e rispondere ai propri bisogni.

Si svilupparono e diffusero strategie di intervento mirato al potenziamento delle capacità psicologiche dei genitori, alla pratica dell’assertività e autoaffermazione, alla ricerca di occasioni per implementare la mutualità sociale (Cottini, 2003).

Attualmente la maggior parte dei programmi di Parent Training enfatizzano la natura collaborativa della relazione fra genitori e professionisti. La funzione del professionista è più vicina a quella di un “coach” della funzione genitoriale che a quella di un esperto che dà consigli su come gestire al meglio i propri figli.

Il conduttore è un esperto nei problemi dei bambini e deve possedere buone capacità di comunicazione e mediazione con le famiglie. I programmi che i genitori seguono a casa producono cambiamenti significativi e duraturi nei disturbi dei bambini.

Il Parent Training si propone infatti di modificare lo stile relazionale e gli atteggiamenti che influiscono negativamente sui comportamenti dei bambini: i genitori apprendono ad affrontare con efficacia molti problemi comuni che, a lungo andare, possono compromettere non solo il benessere familiare ma lo sviluppo psicologico del bambino (Benedetto, 2005).

Parent Training: i modelli di realizzazione

I modelli più importanti sono legati a due visioni diverse del ruolo dei soggetti coinvolti nella formazione: lo specialista e i genitori.

  • Primo modello: il ruolo dei genitori consiste soprattutto nel mettere in atto programmi e strategie che sono state precedentemente elaborate da una professionista (di solito lo psicologo). I genitori vengono coinvolti nel programma in qualità di “agenti del cambiamento” e imparano a usare tecniche specifiche per problemi specifici. Il rischio è che, nel momento in cui viene a mancare la figura dell’esperto, i genitori non riescano ad affrontare i problemi che esulano dalla normale routine; si rischia di creare dipendenza dei genitori dall’esperto.
  • Secondo modello: si è focalizzato sul ruolo dei genitori intesi come agenti attivi nell’apprendimento. In questa ottica essi studiano e apprendono i principi e le metodologie di base legate alle teorie dell’apprendimento. Come conseguenza di tale formazione sostanzialmente didattica, i genitori dovrebbero essere in grado di scegliere di volta in volta quale linea di intervento intraprendere, quali apprendimenti favorire nel bambino, quali tecniche utilizzare e così via. L’esperto riveste un ruolo inizialmente didattico, successivamente assume quello di supervisione e di supporto alle attività educative e di recupero che vengono svolte dai genitori. L’approccio che sta alla base di questo modello offre il vantaggio di garantire notevole indipendenza e flessibilità al modo di agire dei genitori.

Parent Training: la progettazione

I metodi per progettare il Parent Training sono essenzialmente due: consulenza individuale o gruppi di formazione.

Mentre il primo metodo utilizza tecniche che assomigliano, in una certa misura, a quelle classiche dell’approccio di tipo “terapeutico”, nel secondo caso l’azione dello psicologo è volta a un gruppo di genitori con figli disabili.

I gruppi consentono ai genitori di affrontare i compiti e le difficoltà educative aumentandone le competenze ma anche favorendo, in un clima collaborativo, la condivisione di esperienze personali. Permettono inoltre di facilitare lo scambio di esperienze, facilitare lo scambio emozionale, diminuire, attraverso lo scambio con gli altri, il senso di smarrimento e recuperare l’identità genitoriale (Danforth et al., 2006).

Non vi sono regole precise riguardo alla dimensione del gruppo, anche il coinvolgimento di 4-5 famiglie è il criterio minimo per giustificare una proposta di intervento di questo tipo.

La composizione del gruppo deve essere il più possibile omogenea sia per l’età e le problematiche del figlio, sia per le caratteristiche del genitore.

Il programma prevede in genere da 4 a 10 incontri con cadenza settimanale in 3 parti:

  • parte teorica, per illustrare gli aspetti generali dell’argomento.
  • parte pratica, dove i genitori svolgeranno attività di role playing, case work o guarderanno filmati e videoregistrazioni da commentare.
  • parte conclusiva, con la consegna di alcuni esercizi da attuare a casa.

L’efficacia dei programmi sembra essere indubbia quando i problemi del bambino sono altamente specifici e circoscritti. Per i bambini con ritardo evolutivo i risultati sono migliori con interventi precoci e globali che favoriscono lo sviluppo delle abilità cognitive, di quelle linguistiche e la promozione dell’autonomia.

I Parent Trainings incrementano indubbiamente le abilità educative e le conoscenze dei genitori riguardo alla natura della disabilità del figlio, ma, a volte, la percezione dei genitori riguardo l’efficacia del Parent Training ne diminuisce l’effetto (Vio et al., 1999).

 

Personalità patologiche e preferenze sessuali: una nuova ricerca

In un nuovo studio, pubblicato in The Journal of Sex Research, è emerso che persone con tratti patologici di personalità sono più interessati degli altri al sesso occasionale.

 

Come riferisce l’autore della ricerca Peter Karl Jonason, c’è un’ampia letteratura riguardo alle preferenze sessuali e relazionali delle persone, ma mancano studi che approfondiscono come le personalità patologiche si relazionano a questi aspetti di vita.

Per la ricerca in questione sono stati intervistati 702 studenti per indagarne i tratti patologici di personalità, la loro vita e la loro sessualità. Sono state esaminate le associazioni tra tratti patologici di personalità (come affettività negativa, essere disinibiti, antagonismo, psicoticismo, essere distaccati), e sessualità, che comprendeva il comportamento sessuale e l’orientamento al tipo di relazione, a breve o lungo termine.

Cosa è stato scoperto?

Dalle interviste emerge come le persone con tratti maggiormente patologici tendano ad essere più libere sessualmente, quindi più favorevoli al sesso occasionale. In generale, preferiscono questo tipo di relazioni a quelle più serie ed impegnative. Gli uomini tendono ad essere più propensi al sesso occasionale rispetto alle donne, che invece tendono a farsi coinvolgere in relazioni più durature, ma la quantità di esperienze sessuali avute non differisce tra i due sessi.

Queste differenze di genere dipendono appunto dalla personalità, infatti è emerso che negli uomini tratti patologici come l’antagonismo e l’essere disinibiti sono associati a una preferenza per il sesso occasionale, mentre donne con tratti nevrotici di personalità, caratterizzate da maggiore insicurezza, tendono a preferire relazioni a lungo termine, in quanto lo stare in una relazione le compatta.

In generale il distacco, l’antagonismo, l’essere disinibiti, lo psicoticismo sono tratti che si associano positivamente con l’avere relazioni a breve termine e negativamente con le relazioni a lungo termine.

Inoltre, questi effetti sembrano essere il risultato di ciò che viene chiamata ‘velocità’ della propria storia di vita, variabile analizzata nella ricerca. Secondo questa teoria (‘life history theory’), le prime esperienze di vita possono modellare il comportamento di un individuo nei confronti delle relazioni e della vita in generale. Le persone che hanno affrontato un’infanzia imprevedibile tendono a sviluppare una strategia di vita ‘veloce’ che enfatizza attaccamenti insicuri, gratificazione immediata e comportamenti pericolosi. Chi invece sviluppa una strategia di vita ‘lenta’ tende ad avere obiettivi a lungo termine, maggiori investimenti e minore aggressività. Ai primi si associano quindi rapporti sessuali occasionali, mentre ai secondi rapporti più a lungo termine.

Gli autori sottolineano come limite dello studio il fatto che nella correlazione rilevata dovrebbe essere meglio compresa l’effettiva relazione di causalità tra le variabili osservate, per esempio potrebbe anche essere che siano i comportamenti sessuali a far sviluppare tratti patologici di personalità e non il contrario.

La paura uccide più della spada: le reazioni di freezing in situazioni d’emergenza

Il freezing è una particolare risposta di paura che si manifesta attraverso bradicardia e immobilizzazione, appare come un totale o parziale “congelamento” della persona in situazioni di emergenza e può avere una durata compresa tra pochi secondi e 30 minuti.

Aleandra Russo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La paura uccide più della spada” è una famosa frase di un celebre libro di George R. R. Martin. Ma è davvero così? Può la paura, o meglio le reazioni alla paura, influenzare il comportamento di una persona al punto tale da causarne la morte?

È possibile definire la paura come uno stato di tensione psicologico e fisico, che porta ad un’attivazione delle risorse individuali, finalizzata a preparare l’individuo ad affrontare nel miglior modo possibile una certa situazione che viene valutata “pericolosa” per se stessi.

La paura, assieme a felicità, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa, è una della emozioni primarie, presenti già nei primi mesi di vita. Il suo scopo principale è quello di allertare l’organismo affinchè possa prepararsi alla difesa, all’attacco o alla fuga (Milosevic, 2015).

Molte paure degli animali e degli uomini sono dovute a meccanismi inizialmente innati, configurandosi come un tentativo di produrre risposte adattive di allarme e salvaguardia di fronte a stimoli specifici che indicano la presenza di un pericolo. Sulle paure innate si innestano, poi, nel corso della vita, le paure apprese attraverso le esperienze dirette, l’osservazione degli altri oppure miti o racconti legati alla propria cultura.

Manifestazioni e meccanismi neurobiologici associati alla paura

La paura è fisiologicamente legata all’amigdala, un nucleo del sistema limbico formato da neuroni che in prevalenza utilizzano il neurotrasmettitore adrenalina. In risposta ad uno stimolo minaccioso, l’amigdala genera reazioni del sistema vegetativo accelerando il ritmo cardiaco, aumentando la pressione, attivando il tono muscolare in modo da preparare l’organismo all’attacco o alla fuga. L’amigdala, inoltre, attraverso l’ipotalamo, stimola l’ipofisi che produce gli ormoni tipici delle situazioni di stress. Viene liberata adrenalina che si riversa nel sangue, i surreni provocano la liberazione del cortisolo e si innescano una serie di reazioni tra cui la tachicardia, la sudorazione, il tremore, la dilatazione delle pupille, la fuga o, al contrario, il blocco delle reazioni motorie (Oliverio, 2013).

Quando la paura non ci aiuta

La paura è, dunque, un’emozione funzionale alla sopravvivenza: ci avverte della presenza di un pericolo e ci prepara ad affrontarlo. Può però diventare disfunzionale quando eccessiva in quanto potrebbe “paralizzare” l’individuo impedendogli di emettere comportamenti funzionali alla sopravvivenza.

Solitamente, in situazioni di pericolo o a rischio di sopravvivenza, le persone mettono in atto risposte di attacco o fuga. Questa reazione, descritta da Cannon nel 1929, coinvolge una serie di meccanismi neurali e fisiologici che attivano rapidamente il corpo per attaccare o fuggire. Da una prospettiva evolutiva, la risposta fight or flight è un istinto adattivo che si è sviluppato quando i predatori o stimoli ambientali minavano alla sopravvivenza degli esseri umani.

Secondo Leach in situazioni d’emergenza le risposte degli individui possono essere classificate in tre gruppi:

  • Il primo gruppo, che comprende il 10-15% di persone coinvolte in disastri, rimane relativamente calmo. Le persone sono capaci di organizzare i pensieri rapidamente e di mantenere integre le capacità di giudizio e di ragionamento, nonché la consapevolezza; sono in grado di valutare la situazione, di elaborare un piano d’azione e di attuarlo.
  • Il secondo gruppo, composto da circa il 75% di persone, comprende coloro che rispondono in maniera disorientata e confusa, mostrando compromissioni nel ragionamento, rallentamento del pensiero e comportamenti attuati in modo quasi automatico.
  • Il terzo gruppo, che raccoglie il restante 10-15% di persone, tende a mostrare un alto numero di comportamenti controproducenti che aumentano il rischio di morte: pianto incontrollato, confusione generalizzata, urla e ansia paralizzante.

La maggior parte delle vittime adottano un comportamento riconducibile a queste ultime due categorie (Leach, 2004).

L’adozione di questi comportamenti può essere ricondotta a varie cause. Un’importante ragione per cui le persone falliscono nel rispondere al pericolo può essere ritrovata nella tendenza ad entrare in uno stato di negazione, esperienza che avviene maggiormente quando in passato sono state sperimentate situazioni di falso allarme e quando vi è poca fiducia nella persona che segnala la presenza del pericolo. Un’altra causa significativa è la tendenza delle persone ad omologarsi a ciò che fanno gli altri, quindi, se la maggior parte delle persone non rispondono al segnale di allarme, l’individuo tenderà ad imitarli. Infine, le persone potrebbero non rispondere bene al pericolo perché non sanno cosa fare, in quanto non hanno uno schema comportamentale adeguato da attuare in quella particolare circostanza e quindi devono crearne uno (Robinson, 2012).

Quindi, in situazione d’emergenza è probabile che si manifestino reazioni di freezing.

Freezing: spiegazione, manifestazione, effetti

Il freezing si manifesta attraverso una reazione di bradicardia e di immobilizzazione, di totale o parziale “congelamento” dei movimenti da parte della persona che sta vivendo la situazione d’emergenza e può avere una durata compresa tra pochi secondi e 30 minuti. Tale reazione ha una funziona adattiva e negli animali si manifesta in risposta alla presenza di predatori.

Spesso gli animali ricorrono al freezing nelle circostanze in cui non vi è altra possibilità di salvezza. Negli uomini esso è stato poco studiato, ma varie ricerche ne hanno comprovato l’esistenza (Schmidta, 2008), mostrando come si manifesti anche utilizzando come stimolo la visione di film spiacevoli (Hagenaars, 2014) oppure in risposta a stimoli sociali di minaccia, come espressioni facciali che esprimono rabbia (Roelof, 2010).

Secondo Leach (2014), il freezing va compreso considerando le tempistiche necessarie alla memoria di lavoro per svolgere i vari passaggi richiesti per attuare un’azione. Le informazioni vengono processate nella memoria di lavoro, che ha due importanti limiti: può contenere solo un certo numero di informazioni alla volta e può processare l’informazione ad una data velocità massima, senza poterla aumentare. Di conseguenza, le operazioni mentali complesse in condizioni ottimali richiedono un minino di 8-10 secondi per essere attuate. Naturalmente il tempo richiesto per un’operazione aumenta proporzionalmente alla complessità della stessa.

Circostanze non ottimali, come il pericolo, possono rallentare ulteriormente il processo. In particolare, durante un disastro, gli eventi si susseguono rapidamente ed in modo imprevedibile; in queste situazioni le persone hanno poco tempo per reagire.

Come è possibile immaginare, più velocemente una persona risponderà agli eventi in svolgimento, maggiori saranno le chance di sopravvivenza. Il cervello è strutturato in modo che i tempi di risposta possano essere migliorati attraverso la pratica e l’esperienza. Ciò è possibile trasformando operazioni cognitive complesse (che impiegano 8-10 secondi) in operazioni cognitive semplici (che impiegano 1-2 secondi). Se la risposta da adottare è già stata appresa, il cervello non dovrà compiere operazioni cognitive complesse per adottare un comportamento ottimale, ma dovrà solo selezionare tra un set di risposte apprese precedentemente, così facendo il tempo di risposta si ridurrà a 1-2 secondi.

Le implicazioni funzionali per coloro che si trovano in situazioni di pericolo sono le seguenti:

  • Se una risposta appropriata all’evento è già stata preparata ed immagazzinata nel database cognitivo degli schemi comportamentali, la velocità di attuazione di una risposta pertinente è di 100 millisecondi, ossia immediata.
  • Se sono disponibili più risposte attuabili, allora scegliere la corretta sequenza comportamentale richiede un semplice processo di decision making, che impiega 1-2 secondi.
  • Se non esiste una risposta appropriata nel database, allora dovrà essere creato uno schema comportamentale temporaneo. Questo processo impiegherà almeno 8-10 secondi in circostanze ottimali e in condizioni di pericolo richiederà anche più tempo. Poiché spesso il tempo non è sufficiente, si produrrà una paralisi cognitivamente indotta o comportamento di freezing (Leah, 2014).

Cosa succede in situazioni d’emergenza?

Il freezing, sebbene si configuri come un comportamento adattivo in alcune circostanze, può essere altamente disadattivo in situazioni d’emergenza, fino al punto da essere fatale, poiché impedisce di mettere in atto i necessari comportamenti salva-vita.

È stato osservato, infatti, che in molti disastri aerei molti decessi non avvengono a causa dell’impatto, ma per i comportamenti controproducenti messi in atto dai passeggeri stessi.

Nel rapporto riguardante l’incidente aereo di Manchester del 1985 in cui persero la vita 55 persone, si afferma che “le persone hanno rallentato e ritardato l’evacuazione”. Nella documentazione ufficiale relativa al disastro della piattaforma petrolifera Piper Alpha del 1988 si dichiara che “un numero consistente di persone non ha tentato di lasciare i propri posti”. Un superstite dell’incidente navale della nave Estonia, avvenuto nel 1994, ha dichiarato che molte persone erano rimaste immobili in stato di shock; a tal proposito ha commentato: “Io non capivo perché non facessero niente per salvarsi, erano sedute inermi e sono state sommerse dall’acqua”. Ed ancora, in un incidente aereo a Tenerife una sopravvissuta ha testimoniato che dopo l’impatto la sua mente era diventata appannata e che si era salvata solo perché il marito l’aveva presa per mano, costringendola a seguirlo. Prima di abbandonare l’aereo aveva guardato indietro verso una sua amica, che era rimasta sul suo sedile ad urlare, congelata dalla paura.

Secondo gli studi del National Institute of Standards and Technology (NIST) durante l’attentato aereo alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 le 15000 persone presenti nel WTC hanno aspettato in media sei minuti prima di iniziare l’evacuazione ed hanno impiegato in media circa un minuto per ogni piano, il doppio di quanto previsto dagli standand di sicurezza (Pietrantoni, 2005). Durante il disastro avvenuto nello stadio di football di Hillsborough nel 1989, un testimone riferì di aver visto un poliziotto fallire nell’aiutare una ragazza che stava per essere schiacciata. Le parole del testimone furono: “Il poliziotto di fronte a noi guardava e basta. Io gli urlai di fare qualcosa, ma era come se stesse fissando il vuoto” (Robinson, 2012).

Possibili interventi per ridurre le reazioni di freezing in situazioni di emergenza

Dunque, considerando le limitazioni della memoria di lavoro, è possibile ridurre la reazione di freezing nelle situazioni d’emergenza mediante dei training che permettano di creare nel database cognitivo degli schemi comportamentali attuabili, evitando così che le persone si trovino nella situazione di doverli creare sul momento.

Poiché potrebbe rilevarsi troppo costoso ed impegnativo sottoporre tutti i civili a training simili, potrebbe essere opportuno ricorrere almeno a training indiretti. Ad esempio, dopo le spiegazioni di sicurezza di routine, potrebbe essere opportuno chiedere a qualche passeggero di provare ad aprile il portellone di uscita, per accertarsi che abbia capito bene come fare. Durante l’evacuazione dell’aereo a Manchester, ad esempio, si osservò un fallimento cognitivo in quest’area poichè un passeggero impiegò 45 secondi ad aprire il portellone, a causa dell’assenza di schemi comportamentali adeguati nel suo database.

È necessario, inoltre, che vengano modificati anche gli equipaggiamenti salvavita, come il giubbotto di salvataggio, affinchè assumano caratteristiche più ergonomiche. In molti disastri, infatti, come quello dell’Estonia, le persone non furono in grado di indossare correttamente e tempestivamente i giubbotti, causando dei rallentamenti anche fatali.

Per quanto concerne i bambini è necessario creare degli equipaggiamenti di sicurezza che siano consoni al loro sviluppo cognitivo, anziché continuare a considerarli come una versione in miniatura dell’adulto. Ad esempio, i bambini hanno maggiori difficoltà degli adulti nell’utilizzo del giubbotto di salvataggio. Dal report del disastro dell’Estonia emerge che vi erano 15 bambini sotto i 15 anni di età quando questa affondò e se ne udirono le grida; solo un bambino di 12 anni sopravvisse. L’unico bambino sopravvissuto al disastro di Machester fu attivamente salvato dagli adulti. Per risolvere questi problemi potrebbe essere utile insegnare a scuola alcuni comportamenti salvavita e l’uso di alcuni oggetti particolari, come il giubbotto di salvataggio (Leach, 2014).

Quali sono le cause della violenza all’interno degli stadi?

La violenza sportiva, soprattutto all’interno degli stadi di calcio, è un fenomeno sempre più diffuso e che non è possibile trascurare. Ma cosa spinge i tifosi a reagire in questo modo?

 

Nel mondo dello sport, in particolare negli stadi di calcio, si assiste spesso a episodi di violenza tra tifoserie di squadre differenti. Sono state svolte molte ricerche al fine di spiegare tali eventi violenti. In particolare, diversi studi hanno messo in evidenza la relazione tra il teppismo sportivo e il “disadattamento sociale” degli individui coinvolti, sostenendo che questi ultimi mettessero in atto i medesimi comportamenti anche all’interno di altri contesti: casa, lavoro, scuola.

Una recente ricerca, svolta dalla Dott.ssa Martha Newson e collaboratori presso l’Università di Oxford, che ha coinvolto 465 tifosi brasiliani e noti teppisti, ha tuttavia messo in luce come questi individui non presentassero in realtà un funzionamento particolarmente disfunzionale al di fuori dell’ambiente calcistico, ad esempio sul posto di lavoro e a casa.

Ciò sembra dimostrare che, al di là dei fattori che caratterizzano la personalità dei singoli individui, vi siano alcuni elementi in grado di influenzare negativamente il loro comportamento.

Cosa influenza il comportamento degli individui in episodi di violenza sportiva?

Alcuni dei fattori individuati nel corso di questo studio che sembrano essere correlati ad episodi di violenza sportiva sono:

  • Deindividuazione: quando un individuo si trova in una folla o agisce come membro di un vasto gruppo sociale, tende a non considerarsi come un individuo singolo, quanto piuttosto come un membro del gruppo relativamente anonimo. Questo processo di deindividuazione porta a considerarsi meno identificabili e meno responsabili del proprio comportamento. Di conseguenza, le norme sociali che solitamente impediscono di comportarsi in modo aggressivo non risultano più applicabili.
  • Affollamento: un’elevata densità di persone può indurre aggressività. Trovarsi in mezzo ad un folla di persone induce un’attivazione fisiologica associata a sensazioni di stress, irritazione e frustrazione.
  • Diffusione della responsabilità: si riferisce alla sensazione provata da un individuo che, facendo parte di un gruppo, ad esempio una tifoseria, si sente personalmente meno responsabile rispetto alla messa in atto di comportamenti violenti.
  • Categorizzazione ingroup/outgroup: si riferisce alla tendenza di difendere e giudicare positivamente il proprio gruppo e di attaccare e criticare gli altri gruppi. Questo processo può spiegare la tendenza dei tifosi di identificarsi con il proprio gruppo e a comportarsi in maniera aggressiva con i gruppi con cui sono in competizione.

In conclusione

Questo studio sembra dimostrare che i membri delle tifoserie di calcio non sono necessariamente persone che agiscono in maniera disfunzionale al di fuori della comunità calcistica; il comportamento violento è quasi interamente focalizzato su coloro che sono considerati come una minaccia, di solito tifosi rivali o talvolta la polizia.

I ricercatori suggeriscono, inoltre, che combattere un comportamento estremo con attenta sorveglianza, come l’uso di gas lacrimogeni o di forza militare, è probabilmente controproducente e provocherà solo più violenza, spingendo i tifosi a farsi avanti per “difendere” i loro compagni.

Il direttore del progetto, il professor Harvey Whitehouse, ha concluso:

Speriamo che questo studio stimoli l’interesse a ridurre il conflitto tra gruppi attraverso una comprensione più profonda dei fattori psicologici e di quelli situazionali che lo guidano.

L’ intelligenza artificiale può aiutare ad identificare casi di abuso infantile?

È importante fare una riflessione sull’utilizzo degli algoritmi matematici e dell’ intelligenza artificiale come strumenti in grado di prevedere i comportamenti umani o come strumenti di supporto ai professionisti nella presa di decisioni soprattutto nelle valutazioni di possibili situazioni di abuso infantile.

 

Si stima che circa il 37 % dei bambini negli Stati Uniti sia sotto la lente delle agenzie nazionali che si occupano del benessere infantile e adolescenziale per il rischio di maltrattamenti o abusi di vario genere (Kim et al., 2017).

Spesso la decisione di aprire o meno un procedimento a carico della famiglia di un bambino valutato a rischio viene lasciata a sistemi elettronici di case management che utilizzano database computerizzati, al cui interno sono contenute informazioni provenienti dai servizi di salute mentale, per le dipendenze da alcol o sostanze, dati giudiziari per reati penali, informazioni sulla storia sia dei bambini che degli adulti a loro legati, che si ritengono essere cruciali per l’apertura di un’indagine (Chouldechova, Vaithianathan et al., 2018).

Molti di questi sistemi si basano su modelli di stima del rischio (Predictive Risk Modelling, PRM) ed utilizzano informazioni e dati raccolti dalle giurisdizioni locali, per predire la probabilità che si verifichi un evento negativo futuro in quella famiglia o in quel contesto sociale in cui il minore è inserito e vive.

L’idea è che si possa da una parte prevenire l’esordio di un maltrattamento o abuso infantile tenendo sotto controllo la famiglia e quindi proteggere il bambino dall’eventualità di una violenza e dall’altra far un uso più strategico delle risorse economiche ed umane a disposizione del dipartimento di assistenza sociale.

Il sistema AFST (Allegheny Family Screening Tool)

Il sistema AFST, Allegheny Family Screening Tool, utilizzato dal dipartimento dei servizi sociali di Allegheny, in Pennsylvania, dal 2015, è nato per supportare lo smistamento delle telefonate nel call-center e valutarne la portata e la priorità: ad esempio se sia necessario avviare o meno un procedimento investigativo facendo intervenire le autorità a seguito di una segnalazione telefonica.

Sulla base delle informazioni contenute nel database, AFST produce un punteggio da 1 a 20 che valuta il rischio, cioè la probabilità che dietro quella chiamata ci sia un alto o basso rischio di maltrattamento (Chouldechova, Vaithianathan et al., 2018).

Davvero l’ intelligenza artificiale può aiutare ad identificare casi di abuso infantile?

Recentemente si è molto dibattuto sull’utilizzo di questi modelli predittivi in quanto, soprattutto in questo preciso momento storico, si fa sempre più affidamento a tecnologie come l’ intelligenza artificiale o a particolari algoritmi in grado di accrescere o addirittura sostituire il giudizio o la presa di decisione da parte degli individui competenti, come gli assistenti sociali nei casi di maltrattamento minorile.

In questi particolari casi, infatti, è stato evidenziato come i sistemi basati su algoritmi possano esacerbare, anziché mitigare, alcuni bias originali di tipo discriminatorio soprattutto per alcune comunità o gruppi etnici con status economico e sociale molto basso, che potrebbero essere tenuti sotto controllo o indagine solo per il fatto di essere poco abbienti o appartenenti a minoranze (Chouldechova, Vaithianathan et al., 2018).

Siamo davvero sicuri che gli algoritmi o gli strumenti di decision-making automatici possano fungere da supporto attendibile, accurato, efficace ed equo in tutte le situazioni?

A questo proposito, la ricercatrice Vaithianathan, co-direttrice del centro per l’analisi dei dati sociali e analitici dell’università della tecnologia di Auckland, si sta occupando delle implicazioni sociali a seguito dell’utilizzo di questi sistemi, che sembrano aumentare le disparità e le discriminazioni favorendo predizioni del comportamento futuro o del rischio non equi, non proporzionali tra i gruppi umani (Chouldechova, Vaithianathan et al., 2018).

L’utilizzo di AFST ha infatti evidenziato come i bambini bianchi, che l’algoritmo ha segnalato come ad alto rischio di maltrattamenti e abuso infantile, avevano una probabilità minore di essere poi allontanati rispetto ai bambini neri con lo stesso punteggio.

Brent Mittelstadt, etico dei dati all’Oxford Internet Institute, ha affermato che l’unico modo per stabilire se un algoritmo segue determinati bias, come ad esempio se tende a favorire un’etnia a dispetto di un’altra, è chiedersi quali siano state le informazioni rilevanti che le persone hanno inserito nel database circa quelle appartenenti alle minoranze, in quanto l’algoritmo “manipola” soltanto i dati per il quale è stato creato (Mittelstadt, Wachter & Floridi, 2017).

Un esempio lampante del fatto che sono le informazioni contenute nel database che vengono poi elaborate dai sistemi computerizzati ad essere centrali, è stato fornito dal Massachussets Institute of Technology nel 2018 con un’ intelligenza artificiale “cattiva”: Norman. Norman è la prima intelligenza artificiale al mondo a manifestare tratti tipici della psicopatia, creato con l’unico scopo di dimostrare come le informazioni inserite e insegnate ai sistemi di machine learning possano influenzare in modo significativo il comportamento e il pensiero dell’ intelligenza artificiale, come percepisce il mondo e lo decodifica (scopri di più su Norman cliccando qui).

Insegnare e supervisionare la terapia cognitiva e comportamentale – Il corso presso il Beck Institute di Philadelphia

Il corso “Teaching and supervising CBT” tenuto ogni anno da Donna Sudak al Beck Institute di Philadelphia è una esperienza formativa importante perché ci ricorda una semplice verità: tutti noi siamo clinici e terapisti ma questo non ci rende automaticamente dei buoni insegnanti, formatori e supervisori di una certa terapia.

Si tratta di mestieri diversi che richiedono abilità diverse e percorsi formativi differenti. Purtroppo mentre l’addestramento clinico è ben definito, la formazione all’insegnamento della psicoterapia è ancora al suo stato embrionale. Il corso proposto dalla professoressa Sudak è un buon inizio.

Il corso di formazione all’insegnamento della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Nei tre giorni del corso si alternano momenti teorici sulle abilità di apprendimento ed esercitazioni pratiche. Queste esercitazioni sono la parte migliore del corso, la parte che consente anche di comprendere concretamente come agire in maniera efficace sulle capacità di apprendimento. Si va dai suggerimenti più pratici che aiutano a elaborare vari tipi di esercitazioni o a costruire una serie di diapositive didatticamente efficaci, a quelli più generali, come l’elaborazione del razionale di una lezione o di un intero corso, la definizione degli obiettivi didattici e le procedure di realizzazione di questi obiettivi definendo il ruolo delle esposizioni teoriche, delle esercitazioni e delle modalità di valutazione della classe.

Insegnamento della supervisione clinica in psicoterapia

Al “teaching” segue il “supervising”, all’insegnare il supervisionare. Anche in questo caso si tratta di un’abilità trascurata e data per garantita, considerata una sorta di filiazione automatica della competenze cliniche. Anche in questo caso non è così. Supervisionare e trattare paziente sono due abilità differenti. Nell’insegnamento di Sudak la supervisione è un intervento altamente proceduralizzato i cui principali obiettivi sono la concettualizzazione del caso, la scelta di strategie terapeutiche congruenti con la concettualizzazione e l’adesione tecnica fedele agli interventi pianificati. Questa visione della supervisione implica sia l’esplorazione dei processi mentali unici del paziente che la loro esecuzioni all’interno di procedure generali, tentando di unire sia il bisogno di trattamenti personalizzati che la loro standardizzazione in procedure di dimostrata efficacia.

CBT Beck Institute Philadelphia - Teaching and Supervising CBT - Donna Sudak - 4

CBT Beck Institute Philadelphia - Teaching and Supervising CBT - Donna Sudak - 1

 

Psichiatria Nutrizionale: una dieta sana come fattore di resilienza

Negli ultimi anni sta prendendo piede la Psichiatria Nutrizionale: oggi più che mai, infatti, soprattutto per i professionisti della salute, appare importante avere in primo piano il collegamento tra mente e corpo, nel quale non è possibile trascurare il ruolo dell’ alimentazione.

 

All’interno del ricco panorama delle discipline volte al benessere psicofisico, sta prendendo piede, negli ultimi anni, quella che viene chiamata Nutritional Psychiatry, o Psichiatria Nutrizionale. Con questo termine si vuole promuovere un nuovo campo di ricerca che indaghi empiricamente e scientificamente il ruolo dell’alimentazione e della nutrizione sulla salute mentale.

Già gli studiosi si erano concentrati sul ruolo di singole componenti nutritive per un adeguato funzionamento cerebrale, sottolineando, per esempio, l’influenza importante degli omega 3, delle vitamine del gruppo B (in particolare folato e B12), della colina, del ferro, dello zinco, del magnesio, della S-adenosil metionina (SAMe), della vitamina D e degli amminoacidi (Sarris, Logan, Akbaraly  al., 2015).

Ora però l’attenzione si sta spostando sull’impatto del globale stile alimentare sul benessere psicofisico.

Psichiatria Nutrizionale: l’importanza dello stile alimentare globale sul benessere psicofisico

Come sottolineato da Rucklidge e Kaplan (2013), considerare la funzione delle combinazioni delle sostanze nutritive, anziché del singolo nutriente, rispetto alla salute psicofisica individuale, potrebbe dare risultati migliori in termini di trattamento delle problematiche ad essa associate.

In particolare, la ricerca nell’ambito della Psichiatria Nutrizionale si sta impegnando nel dimostrare come l’aderire a modelli dietetici salutari possa essere considerato un fattore di resilienza per il benessere individuale, che ridurrebbe il rischio dello sviluppo di sintomatologie legate al tono dell’umore (Psaltopoulou, Sergentanis, Panagiotakos & al., 2013). Studi hanno infatti dimostrato, nei soggetti partecipanti, un collegamento tra l’adozione di una sana alimentazione e la successiva rilevazione di indicatori di benessere mentale (Jacka, Ystrom, Brantsaeter & al., 2013).

Sarris e collaboratori (Sarris, Logan, Akbaraly & al., 2015) propongono un nuovo paradigma integrato in psichiatria, che inserisca le indicazioni nutrizionali (sia educative che prescrittive) come linee “mainstream”. Tale paradigma nasce proprio dall’esigenza di spostare l’attenzione sulla prevenzione dei disturbi mentali, individuando fattori modificabili per ridurne l’incidenza, tra i quali si inseriscono a pieno titolo la dieta e la nutrizione.

Perchè è importante considerare l’ alimentazione?

L’urgenza di questo bisogno è da ricondurre anche ad un importante fattore sociale: Logan e Jacka (2014) parlano di “disagi della civilizzazione” per indicare tutte quelle abitudini riconducibili allo sviluppo urbanistico che interferiscono con la salute psico-fisica, quali la diminuzione dell’attività fisica, la riduzione del sonno e, indubbiamente, l’adozione di una dieta disequilibrata (Cyril, Oldroyd & Renzaho, 2013). Da qui la necessità, per la Psichiatria Nutrizionale, di tornare all’origine, andando ad agire in modo preventivo più che curativo.

Tornando al gruppo di Sarris, gli autori sottolineano l’esistenza di solide associazioni tra qualità della dieta alimentare e salute mentale, riportando evidenze che indicano un effetto protettivo di stili nutritivi sani sull’umore depresso (Lai, Hiles, Bisquera & al., 2013) e un impatto negativo di diete malsane sulla salute mentale di giovani (O’Neil, Quirk, Housden & al., 2014) e di adulti (Akbaraly, Brunner , Ferrie & al., 2009). Le persone con disturbi mentali sembrano inoltre presentare frequentemente situazioni di disequilibrio fisico che potrebbero essere mediate dalla nutrizione, come ad esempio infiammazioni croniche di basso grado (Kivimäki, Shipley, Batty & al., 2014) e alterato metabolismo (Marazziti, Rutigliano, Baroni & al., 2014).

Un ultimo punto da tenere in considerazione è il fatto che, come sostenuto da Logan e Jacka (2014), un’ alimentazione sana potrebbe agire in modo preventivo non solo favorendo la salute mentale in senso stretto, in relazione cioè ai disturbi mentali diagnosticabili clinicamente, ma anche più in generale relativamente alla qualità della vita percepita. Secondo gli autori, infatti, una dieta equilibrata che possa influenzare l’umore potrebbe avere importanti ripercussioni sulla salute fisica, contrastando disagi sintomatici influenzati dalle stesse problematiche mentali, ma anche semplicemente aumentando la probabilità che un individuo rimanga fisicamente attivo. Buone linee guida nutrizionali, in poche parole, potrebbero avviare circoli virtuosi altamente benefici.

In conclusione

Oggi più che mai, soprattutto per i professionisti della salute, appare importante avere in primo piano il collegamento tra mente e corpo, dove salute mentale e salute fisica si intrecciano in un rapporto di correlazione e di causalità reciproca.

La Psichiatria Nutrizionale sembra abbracciare a pieno questo presupposto e sembra intenzionata a voler agire sempre più in forma preventiva piuttosto che curativa. Essendo questo un campo in espansione, è possibile aspettarsi importanti risultati in termini di scoperte e di costruzione di linee guida che possano promuovere uno stile di vita sano, che consideri l’individuo a 360 gradi e che ne comprenda il complesso intreccio tra aspetti psicologici e fisici.

Accontentarsi, lamentarsi o andare da un consulente psicologico? – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr 28

L’ insoddisfazione e la rabbia sono direttamente proporzionali al gap percepito tra la propria condizione e le aspettative che si hanno. Solo con questo confronto, un’assenza si trasforma in una mancanza e mentre l’assenza è inconsapevole e non fa male, la mancanza lo è e duole.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Accontentarsi, lamentarsi o andare da un consulente psicologico? (Nr. 28)

 

In un articolo sull’Internazionale di gennaio 2017 veniva esaminato il crescente allarmante sviluppo degli egoismi nazionalisti, populismi pronti ad essere cavalcati da leader populisti sanguinari e ottusi (esperienza già drammaticamente vissuta in Europa nel secolo scorso e da cui credevamo di essere definitivamente vaccinati).

Una prima spiegazione proposta mira a riconsiderare la sottovalutata pulsione di morte che intuita e descritta dai pensatori che avevano conosciuto le due guerre mondiali, è stata poi trascurata per la sua apparente incompatibilità con il paradigma scientifico positivista imperante dell’evoluzionismo. Indubbiamente la pulsione di morte ben si presterebbe a dar ragione ad una serie di comportamenti umani patologici altrimenti inspiegabili, ma rischierebbe di essere usata come ipotesi ad hoc buona per ogni occasione. Consapevoli che l’argomento meriterebbe una ben più approfondita riflessione, lo accantoniamo per ragionare, invece sull’altra causa cui l’articolo accenna.

La tesi, in buona sostanza è questa: la gente anche prima stava male, e forse anche peggio di adesso, ma la globalizzazione e l’informazione hanno fatto scoprire che ci sono molti che stanno molto meglio, e dunque è possibile e lo si può volere.

Ho nella mente e negli occhi persone di molti anni fa che vivevano in condizioni quasi di schiavitù e che tuttavia ritenevano giusta e naturale tale condizione e non finivano di ossequiare i loro padroni. Le cose stavano così ed era giusto fosse così. Loro soggettivamente stavano bene: benessere e felicità solo soggettivi possono essere e ad essi dobbiamo puntare in questo breve transito nella vita.

In effetti, l’ insoddisfazione e la rabbia sono direttamente proporzionali al gap percepito tra la propria condizione e le aspettative che si hanno. Solo con questo confronto, un’assenza si trasforma in una mancanza e mentre l’assenza è inconsapevole e non fa male, la mancanza lo è e duole. Chi non ha mai fumato non soffre per la mancanza di tabacco (personalmente la pubblicità di una nota pasta partenopea che dice “se non la provi non sai cosa ti perdi” mi induce a starne assolutamente alla larga per non trasformare appunto un’assenza in una mancanza). Si può desiderare ogni cosa, ma il desiderio frustrato che duole è possibile solo verso ciò che si è conosciuto e perduto.

L’articolo lascia intendere che non sono tanto le situazioni di povertà attuali, peraltro meno gravi di quelle del passato, a far montare lo scontento e la rabbia, quanto piuttosto l’accresciuta aspettativa di benessere e soprattutto di uguaglianza.

Questa crescente aspettativa di benessere ha generato nuovi campi di intervento in grande sviluppo. Si pensi al desiderio degli anziani di una vita attiva, in salute e densa di soddisfazioni o alle richieste di tutti ed in particolare delle donne di una migliore vita sessuale che si sa essere possibile, auspicabile e dunque la si pretende. Allo stesso modo, molta rabbia presente in pazienti e familiari dei malati mentali è nata da certi miti dell’antipsichiatria che hanno illuso che la malattia mentale non esista e sia completamente risolvibile.

Il desiderio dunque è elemento positivo da coltivare soprattutto nel suo versante motivazionale piuttosto che valutativo della mancanza o della perdita e va incarnato in un progetto di fattibilità realistico che tenga conto delle risorse personali e ambientali.

Un tale discorso, soprattutto se riferito alle popolazioni rischia di essere estremamente pericoloso perché sembra suggerire di mantenere le masse nell’ignoranza e trascura il fatto che il progresso dell’umanità è sempre mosso dall’ insoddisfazione per la situazione presente ed utilizza spesso la rabbia come motore. Senza aspettative gli uomini sarebbero serenamente ancora nelle caverne. Del resto anche nella vita individuale l’ insoddisfazione sta a segnalare che c’è qualcosa che non va e appunto potrebbe andare meglio e spinge ad operare per migliorare.

Dunque una certa dose di insoddisfazione è fisiologica e funzionale e cessa solo in condizioni di Nirvana o di morte. Dall’altra parte c’è tutta una tradizione secondo cui “chi si accontenta….gode”.

Per chi si occupa di sofferenza emotiva è necessario chiedersi come conciliare una serenità che rischia di essere stagnazione e abulia con un attivismo insoddisfatto e rabbioso. Se la constatazione di ciò che non va è utile per attivare un cambiamento positivo non è necessario che essa sia troppo carica di insoddisfazione che può paradossalmente deprimere e dunque essere paralizzante. Lo stesso l’energia necessaria al cambiamento non necessariamente deve connotarsi come rabbia nella presunzione di un torto subito. L’ insoddisfazione, per essere utile, deve dunque non essere a 360° sulla propria condizione e su se stessi, ma deve identificare aspetti specifici e limitati che possano essere oggetto di cambiamento. Lo stato desiderato a cui tendere, a sua volta deve essere ben definito e ragionevolmente perseguibile. Insomma come recita la preghiera della serenità di Reinhold Niebuhr:

Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
 il coraggio di cambiare le cose che posso, 
e la saggezza per conoscere la differenza.

I rischi che vanno scongiurati sono dunque da un lato un’accettazione passiva e inerme dell’attuale, dall’altro una cronica insoddisfazione rabbiosa altrettanto paralizzante.

Non bisogna dimenticare che non è nostro compito cambiare il mondo, mentre forse lo è quello di essere felici in quest’unica vita che abbiamo; il che certamente implica di cambiare almeno lo spazio a noi più prossimo e la nostra relazione con esso.

Spesso i terapeuti si lamentano di non sopportare i pazienti che, appunto, si lamentano.

È noto l’aneddoto dei marinai genovesi (e dico genovesi) che rifiutarono l’aumento della paga pur di non rinunciare come chiedeva l’armatore, al cosiddetto “diritto al mugugno”, che può essere visto anche al contrario sottolineando come l’armatore (anch’esso genovese) fosse disposto a pagare pur di far cessare le lamentele.

Perché gli umani si lamentano e perché ciò da tanto fastidio agli altri?

Ipotizzo che la lamentazione sia una forma attenuata, domestica, consentita dell’ insoddisfazione rabbiosa di cui abbiamo trattato in precedenza. Lagnarsi con gli altri è una sorta di richiesta di aiuto individuale e anche una richiesta di solidarietà mirante a trasformare un’ insoddisfazione personale in una rivendicazione collettiva. Mi piace immaginare che la presa della Bastiglia e il ruzzolare nel cesto di qualche testa coronata siano iniziate in una bettola sulla riva della Senna per la scarsa qualità del vino a confronto dei nettari pregiati serviti alla tavola reale che si favoleggiava accompagnassero i croissant di Maria Antonietta. Quindi lamentarsi è un modo accettato di manifestare la propria insoddisfazione e la propria rabbia (in effetti nella sua perseveranza e monotonia c’è indubbiamente qualcosa di aggressivo).

L’interlocutore a cui è rivolta la lamentazione sperimenta spesso un vissuto di impotenza di fronte all’altro inconsolabile e nel caso di caregiver (che si tratti di genitori, di psicoterapeuti o di altre professioni di cura) viene sperimentata come una pesante invalidazione del proprio ruolo, o missione o persino identità. Con il lamento è come se il soggetto dicesse al suo care giver “vedi che non sei buono a nulla? la mia sofferenza è una misura precisa della tua incapacità”. Questo vissuto è una delle più importanti cause del fenomeno del burnout, tipico delle professioni di cura, e talvolta motivo di atteggiamenti negativi del cosiddetto controtransfert del curante.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Quanto influisce l’istruzione sul livello intellettivo?

Quoziente intellettivo (QI) e istruzione sono in stretto legame ma è l’insegnamento che determina il livello di intelligenza o al contrario i soggetti con un QI più elevato tendono a studiare maggiormente?

 

Secondo una meta-analisi pubblicata su Psychological Science, nell’arco di un anno scolastico gli studenti non solo acquisiscono nuove conoscenze ma sembrerebbero incrementare anche il loro quoziente intellettivo.

Stuart J. Ritchie, psicologo dell’Università di Edimburgo e primo autore dello studio, afferma: “La ricerca che abbiamo condotto fornisce una prova forte del fatto che l’educazione scolastica faccia aumentare i punteggi ottenuti ai test di intelligenza. Abbiamo utilizzato diversi progetti di ricerca per analizzare una quantità corposa di dati, ciò che abbiamo scoperto è che in generale anche un solo anno di scuola porta ad un innalzamento del QI di diversi punti”.

Studi già presenti in letteratura avevano dimostrato che il livello di intelligenza correla positivamente con gli anni di educazione scolastica ricevuta ma non era chiaro il rapporto causale tra le due variabili.

Quali dati sono stati analizzati?

Nella scelta degli studi inseriti in questa meta-analisi, è stato criterio discriminante il fatto che i dati di ciascuno studio fossero stati ottenuti tramite misurazioni oggettive di soggetti con un’età maggiore di 6 anni e senza alcun deficit intellettivo. La meta-analisi è stata quindi svolta su un totale di 28 studi, che hanno fruttato 42 serie di dati provenienti da circa 615 mila soggetti.

Sono stati analizzati tre tipi studi ricavati da una varietà di fronti tra cui articoli pubblicati, libri, documenti di lavoro e tesi di laurea.

La prima tipologia di studi ha permesso di osservare l’intelligenza intraindividuale valutata tramite la somministrazione di test intellettivi prima e dopo il completamento degli studi. Questi lavori hanno permesso ai ricercatori di esaminare l’influenza della scolarità a partire dall’inziale livello intellettivo del singolo soggetto.

Il secondo insieme di ricerche ha focalizzato l’attenzione sui cambiamenti di natura politica che investono l’organizzazione scolastica aumentando gli anni di istruzione obbligatoria. In particolar modo, è stato analizzato uno studio riguardante l’educazione scolastica norvegese degli anni ‘60 in cui si è assistito ad un aumento di un paio d’anni della scuola dell’obbligo. I ricercatori hanno indagato una possibile differenza in termini di quoziente intellettivo negli studenti pre e post riforma.

L’ultimo gruppo di studi ha invece investigato le differenze intellettive interindividuali confrontando bambini di età simili ma con livelli di scolarità diversi.

Risultati e conclusioni

I risultati hanno mostrato che una differenza anche solo di un anno di istruzione è associata ad un aumento del quoziente intellettivo che oscilla da 1 a 5 punti, con un aumento medio di 3.4 punti.

Ritchie riferendosi alle evidenze ottenute ha chiarito: “La cosa che sorprende maggiormente è stata la durata degli effetti: l’influenza dell’istruzione si è osservata anche in soggetti che avevano completato i test d’intelligenza negli anni ’70 e ’80, ciò significa che l’educazione scolastica sembra avere effetti postivi lungo tutto l’arco di vita”.

In conclusione, la ricerca ha sicuramente fatto luce sullo stretto legame esistente tra abilità cognitive e livello d’istruzione scolastica, ponendo però al tempo stesso interessanti quesiti che la ricerca futura dovrà affrontare come ad esempio: quali caratteristiche particolari dell’esperienza educativa possono maggiormente influire sul quoziente intellettivo e quali sono invece i limiti di questa influenza.

Mamma Uovo. La malattia spiegata a mio figlio – Un cartone animato per spiegare la malattia oncologica ai più piccoli

Chi soffre di tumore sa bene che dovrà affrontare un percorso intriso da tanta sofferenza, fisica e psicologica. Anche i parenti e gli amici di chi soffre si ritrovano a percorrere, in un qualche modo, lo stesso doloroso sentiero. Come si spiega la malattia a chi ci sta accanto? Come la si spiega, in particolare, ai propri figli?

 

Le favole non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro sanno già che esistono.
Le favole insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.

G. K. Chesterton.

 

I draghi nella vita di tutti i giorni possono assumere diversi aspetti e diverse forme e spaventare proprio tutti, non solo i bambini: dai draghi più piccoli e magari più innocui quale un esame o una scadenza a quelli più grandi e spaventosi, che sembrano quasi invincibili, come la malattia, in particolare la malattia oncologica.

Chi soffre di tumore sa bene che dovrà affrontare un percorso intriso da tanta sofferenza, fisica e psicologica. Anche i parenti e gli amici di chi soffre si ritrovano a percorrere, in un qualche modo, lo stesso doloroso sentiero, difficile da accettare. Come si spiega la malattia a chi ci sta accanto? Come la si spiega, in particolare, ai propri figli?

Uno dei primi pensieri del genitore a cui viene diagnosticata una malattia oncologica è proteggere i propri figli da una realtà che appare emotivamente ingestibile e troppo angosciante, persino per gli adulti.

Tale atteggiamento di silenziosa protezione si scontra però con l’impossibilità di nascondere veramente la malattia e soprattutto le cure che si affronteranno. Capita dunque spesso che il genitore non si senta in grado di trovare le parole giuste per informare i propri figli, anche perché, forse, è lo stesso genitore che crede di non aver compreso proprio tutto della nuova, pessima realtà in cui, con un colpo improvviso, è stato gettato.

Mamma Uovo. Dai libri al cartone animato: spiegare la malattia oncologica ai più piccoli

Come spiegare ciò che sta accadendo? Cosa dire della malattia? Come parlare della chemioterapia? Quali termini utilizzare? Come rispondere alle curiose domande dei piccoli? E’ proprio per rispondere a queste domande e per aiutare i genitori (ma anche nonni e zii) nel confrontarsi con i piccoli di casa che nasce il progetto “La malattia spiegata a mio figlio”. Il progetto nasce nell’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale ad opera delle due psico-oncologhe Dott.ssa Gabriella De Benedetta e Dott.ssa Silvia D’Ovidio e dal medico, ematologo, direttore dell’UOSC di Ematologia Dott.re Antonio Pinto.

“La malattia spiegata a mio figlio” nasce per aiutare tutti i genitori che affrontano una malattia ematologica o oncologica nell’arduo compito di comunicare ai propri figli cosa sta accadendo.

Attraverso due libri illustrati, uno del 2015, “Mamma Uovo, la malattia spiegata a mio figlio” e l’altro del 2018, “Papà uovo”, i genitori sono accompagnati nell’arduo compito del parlare ai bambini del tumore e della chemioterapia (con una particolare attenzione agli effetti collaterali).

Il tanto difficile quanto nobile lavoro dei professionisti impegnati nel progetto “La malattia spiegata a mio figlio” non si ferma qui: recentemente infatti è stato pubblicato anche un cartone animato, realizzato dalla start up Tech4Care, tratto dal libro “Mamma Uovo”. Un ulteriore e prezioso sostegno per i genitori che, attraverso l’uso di parole e di immagini, dà vita ad una favola pensata per bambini di ogni età.

MAMMA UOVO. LA MALATTIA SPIEGATA A MIO FIGLIO – IL CARTONE ANIMATO:

 

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