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L’incidenza del fenomeno dello Stalking tra gli Health Care Professional

Gli HCP, ossia i professionisti delle relazioni di aiuto, talvolta sono a rischio di stalking o di molestie da parte dei pazienti.

Di Massimo Zedda

Pubblicato il 30 Nov. 2017

Aggiornato il 10 Lug. 2019 12:16

I motivi dell’alta incidenza di vittimizzazione si possono rintracciare nella natura stessa della professione d’aiuto (Pathè, Mullen e Purcell, 2002); professione che prevede l’instaurarsi della relazione con soggetti spesso inseriti in un quadro di sofferenza e disagio. In alcuni di loro l’intervento di cura dell’ HCP può essere frainteso nei termini di interesse romantico, suscitando reazioni aggressive e comportamenti insistenti e molesti o di stalking vero e proprio, quando l’approccio romantico non è ricambiato (Laskowsky, 2003).

 

Percentuali delle molestie subite dagli HCP

L’acronimo HCP (Health Care Professional) identifica le professioni dedite alla cura di altre persone: gli psicologi, psicoterapeuti, medici, psichiatri, infermieri, paramedici, operatori sociali, ecc.

In ambito di sicurezza sul posto di lavoro, la tematica della violenza ed il rischio di molestie per gli HCP è ormai nota. In letteratura emergono una serie di ricerche che coinvolgono professionisti della cura; i dati sottolineano l’estensione e gravità del fenomeno. Miller (1985), ad esempio, in uno studio a cui hanno partecipato 480 psichiatri forensi ha evidenziato come il 42.08% era stato vittima di una qualche forma di molestia: il 17.1% era stato minacciato di lesioni fisiche, il 12.9% di azioni legali e il 2.9% ha subito aggressioni. In una successiva ricerca è emerso che il 41.1% degli psichiatri coinvolti aveva subito molestie, mentre il 28.9% si riteneva vittima di stalking (Brown, Dubin, Lion e Garry, 1996). In Australia e Nuova Zelanda la percentuale di vittime tra 103 chirurghi plastici è del 20.4% (Allnutt, Samuels e Taylor, 2009).

In Gran Bretagna, dalla ricerca di Hudson-Allez (2002) è emerso che circa il 25% degli psicoterapeuti ha subito una campagna di stalking. Tra gli psichiatri, il 20.7% dichiarava di essere interessato dal fenomeno (McIvor, Potter e Davies, 2008). Negli USA Gentile (2001), in una prima ricerca, ha studiato le molestie coinvolgendo 238 psicologi; emerge che il 10.1% era stato vittima di stalking. Nella ricerca successiva, su psicologi operanti nei servizi di salute mentale, il 10.2% si è dichiarato vittima. Una ricerca di Galeazzi, Elkins e Curci svolta in Italia nel 2005, prima che entrasse in vigore il reato di stalking, ha coinvolto 361 HCP psichiatrici; il 33.2% si è dichiarato vittima di almeno un episodio di molestie mentre l’11.1% di stalking.

Motivazioni dello stalking

I motivi dell’alta incidenza di vittimizzazione si possono rintracciare nella natura stessa della professione d’aiuto (Pathè, Mullen e Purcell, 2002); professione che prevede l’instaurarsi della relazione con soggetti spesso inseriti in un quadro di sofferenza e disagio. In alcuni di loro l’intervento di cura dell’ HCP può essere frainteso nei termini di interesse romantico, suscitando reazioni aggressive e comportamenti insistenti e molesti o di stalking vero e proprio quando l’approccio romantico non è ricambiato (Laskowsky, 2003): gli psichiatri e psicoterapeuti risultano essere soggetti più a rischio di vittimizzazione in quanto hanno accesso alle emozioni di persone che sovente presentano disturbi della sfera emotiva.
Dal punto di vista psicopatologico, nella ricerca di Galeazzi (2005) condotta in Provincia di Modena su 475 HCP operanti nel servizio pubblico ed in regime privato, il 45% degli stalker (38 con diagnosi primaria) aveva un disturbo psicotico, il 14% un disturbo di personalità, di cui il 13% rientrava nel cluster B.

Conseguenze della vittimizzazione e strategie di difesa degli HCP

Le più importanti conseguenze emotive e fisiche della campagna di stalking sugli HCP risultano essere la paura, la rabbia, il sentimento di impotenza, l’ansia, il nervosismo, la depressione, i disturbi del sonno, lo stress, l’irritabilità e gli incubi.

Dalle ricerche emergono due strategie di difesa messe in atto quando gli HCP sono oggetto di attenzioni moleste e aggressive da parte dei pazienti: la negazione e la minimizzazione.

Le aggressioni ed i comportamenti intrusivi indesiderati sono considerati un correlato della professione, la naturale aspettativa verso il curante da parte di soggetti con problemi emotivi, relazionali e psichici; la negazione è la reazione di difesa che pone gli HCP nella condizione di ignorare una situazione di pericolo allo scopo di riuscire a continuare il proprio lavoro. Come si evince dalla letteratura citata precedentemente, gli HCP coinvolti nelle ricerche hanno infatti cercato maggiormente aiuto tra i colleghi che condividono le stesse difficoltà con gli utenti.

Nonostante le conseguenze della vittimizzazione, indicate da Littel (1999) in termini di soul-destroying, spesso i professionisti della cura non denunciano i perpetratori alle forze dell’ordine o agli organi di vigilanza interni alle strutture dove esercitano; la motivazione è stata cercata ed individuata proprio nell’ambito appena descritto del rapporto tra professionista e paziente (cfr. Sandberg, McNiel e Binder,1998), Smoyak, 2003), Brown, Dubin, Lion e Garry, 1996).

Un ulteriore elemento utile nell’approccio al professionista con evidenti segni di stress causati dalla vittimizzazione è il timore che la denuncia si ripercuota contro di sé, suscitando nei superiori e colleghi scetticismo rispetto le capacità di intervento e relazionali. Gli autori che seguono la teoria dell’attaccamento sostengono che la motivazione che spinge il perpetratore a mettere in atto la campagna di stalking possa essere rintracciata nello sviluppo di un attaccamento insicuro, il quale genera incapacità di leggere la relazione terapeutica per quello che è, alimentando aspettative con polarità diverse da quelle prettamente professionali. In altri casi lo stalker potrebbe ritenere di essere stato oggetto di una ingiustizia o torto da parte dell’HCP. In entrambi i casi, se il meccanismo non è ben chiaro ai colleghi di lavoro oppure ai responsabili diretti, si tende ad attribuire la colpa alla vittima (professionista), supponendo che non sia stato in grado di leggere la relazione. Si avrà in questo modo una duplice attribuzione ingiusta di colpa, da una parte il paziente distorce le intenzioni, dall’altra i colleghi o superiori scambiano il transfert con il controtransfert.

In letteratura, dalla ricerca sul campione italiano, il 42.5% delle vittime del fenomeno ritiene che il fraintendimento sia il motore della campagna di stalking, per il 12.5% sia la vendetta e nel 7.5% dei casi è stata la conclusione della relazione terapeutica (fine presa in cura).
Le interazioni relazionali della diade terapeuta/paziente si inseriscono nella complessa attività di generare senso e significato rispetto se stessi e la realtà esterna, attività che, inserita nello scambio verbale e non verbale, implementa processi emotivi; il terapeuta potrebbe esperire spavento, inquietudine eccitazione, collera, avvilimento (Secchi, 2003) a seguito delle molestie.

A sostegno, viene specificato che l’obiettivo degli agiti dello stalker sia proprio quello di suscitare una intensa reazione emotiva nel terapeuta, col fine di determinare una incapacità di contenimento e interpretazione.

Quando il setting e la relazione terapeutica sono oggetto di attacchi, il terapeuta può arrivare a provare angoscia persecutoria. In genere il confine terapeutico viene travalicato dal paziente tramite lettere, telefonate, regali, pedinamenti e appostamenti sempre più frequenti.

L’errore frequente dello psicologo/psicoterapeuta può essere quello di leggere gli agiti del paziente non come riflesso della campagna di stalking, ma assumendosi lui stesso la responsabilità di quanto accade, pensando erroneamente di aver commesso degli errori di tecnica o spiegando le molestie come segno della sofferenza del paziente.

Una ricerca in Italia sullo stalking tra gli HCP

Nel 2009 il gruppo di ricerca sullo stalking, guidato dalla Dott.ssa Daniela Acquadro Maran (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino) e composto dal Dott. Massimo Zedda (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino), dalla Dott.ssa Valentina Pristerà e dalla dott.ssa Antonella Varetto (Città della Salute e della Scienza di Torino), ha attivato un progetto di ricerca per valutare l’impatto del fenomeno sugli HCP in alcune realtà ospedaliere italiane.

Il campione del progetto era composto da 1072 professionisti della cura, 73.04% di genere femminile. La percentuale di HCP che si sono dichiarati vittime di stalking è il 14.9% (160 casi), di cui l’85% di genere femminile. Gli stalker di genere maschile sono il 70.6% mentre le donne stalker sono il 18.1%.

Per quanto riguarda le conseguenze fisiche, il 28.1% delle vittime esprime di non aver avuto conseguenze, mentre i disturbi del sonno, la stanchezza e gli attacchi di panico sono i principali disturbi fisici emersi. Tra i sintomi emotivi maggiormente dichiarati ci sono ansia, rabbia e paura.

La prevenzione

In ambito preventivo si consiglia ai professionisti della cura di porre maggior attenzione al mantenimento dei confini con i pazienti, evitare confusione tra il coinvolgimento personale e professionale, di fornire informazioni personali e segnalarne i casi nelle riunioni d’equipe o in supervisione di gruppo.
Per quanto concerne le strategie di coping, la più comune risulta essere la ricerca di supporto tra i colleghi più che tra amici e famigliari. Una ulteriore strategia adottata è l’adozione di maggiori precauzioni sul lavoro, che si riflette nel porre ulteriore attenzione all’accettazione di nuovi casi fissando un numero massimo di pazienti da poter prendere in carico.

Elenco delle strategie preventive (Kaplan, 2006):
Quando si ha un nuovo paziente, delimitare subito i limiti. Definire cosa è una relazione terapeutica e i suoi confini.
Fornire l’indirizzo di lavoro e non di casa alle associazioni di cui si è membri e all’ordine, sui motori di ricerca devono apparire solo le informazioni di base con gli indirizzi e i recapiti di lavoro; non fornire informazioni su social network; evitare foto di famiglia e altri dettagli personali sul luogo di lavoro.
Valutare il rischio rappresentato dal paziente (fattori di rischio, storia…).

È importante ricordare che le conseguenze della campagna di stalking sugli HCP non si manifestano solo sul professionista, ma anche sui famigliari, sullo staff e sugli altri pazienti; quest’ultimo punto è di particolare interesse in quanto il cambiamento del comportamento professionale incide sullo sviluppo di maggior distacco emotivo a svantaggio della relazione stessa di aiuto. Di conseguenza, è necessario che l’intervento verso gli HCP vittime sia tempestivo per permettere al professionista di prendersi cura dei malati e scongiurare l’incapacità di essere in grado di operare nel lungo periodo.

Elenco delle strategie di intervento (Kaplan, 2006):
In caso di comportamenti molesti terminare il caso o passarlo ad un altro collega.
Fare attenzione a come il proprio comportamento può inavvertitamente rinforzare il comportamento dello stalker.
Far sapere ai colleghi/associazioni che si è vittime di stalking e avvisare i collaboratori e le persone che lavorano nello stesso posto.
Documentare tutti gli incidenti, trattenendo le prove.
Prendere contatti con esperti in stalking.
Contattare la polizia, assicurandosi la massima discrezionalità.
Cercare aiuto per intervenire sulle conseguenze psicologiche della vittimizzazione: rabbia, sentimento di impotenza, frustrazione e delusione rispetto alla professione.

In letteratura sono presenti diversi approcci utili per sostenere gli HCP vittime di stalking.
Il primo è l’aspetto psicoeducativo; può essere utile per diminuire i dubbi su di sè, i sentimenti di colpa associati con la situazione, la condizione di essere vittima e la necessità di proteggere se stessi. Gli obiettivi di questo tipo di intervento non sarebbero tanto quelli di focalizzarsi sulle scelte “sbagliate” delle vittime, bensì fornire una spiegazione sul funzionamento dello stalker, gli aspetti patologici associati alla campagna di stalking e sviluppare la consapevolezza che non si è l’unica vittima, chiarimenti che altre persone stanno vivendo le stesse esperienze.

Un altro approccio è il sostegno psicologico, indipendentemente dal tipo di paradigma di riferimento (psicodinamico, comportamentale, cognitivo ecc.). La campagna di stalking ha un peso non indifferente sulla resilienza e l’equilibrio psicofisico del soggetto molestato; frequentemente si esperisce un senso di estrema vulnerabilità, legato a uno stato di disagio in previsione di un possibile assalto. Tecniche quali la desensibilizzazione, l’EMDR, il rilassamento e la terapia per il trauma sono particolarmente efficaci.

Ultimo approccio sono i gruppi di auto-aiuto; riducono la sensazione di essere le sole vittime, sviluppando tra i partecipanti un senso di comprensione reciproca, si condividono consigli, esperienze e strategie incrementando la capacità di fronteggiamento del distress.

In ultima analisi:

come professionista della cura ritengo che il HCP non debba difendersi dal paziente, non rappresenta un pericolo; il suo compito è comprendere in modo preciso le dinamiche interpersonali per evitare di entrare nel circolo disfunzionale dello stalking. Aspetto che, oltre a salvaguardare la salute del professionista, potrebbe essere un punto di partenza per aprire un nuovo frangente di lavoro col paziente (spesso inconsapevole del comportamento potenzialmente molesto).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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