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L’intolleranza dell’incertezza nelle malattie reumatiche

Secondo quanto riportato dall’ISTAT (Istat, 2017), nel 2016 in Italia tra le malattie o condizioni croniche più diffuse, ossia tra i problemi di salute di lunga durata e generalmente di lenta progressione, spiccavano al secondo posto, subito dopo l’ipertensione (17,4 per cento), malattie reumatiche quali l’artrosi e l’artrite (15,9 per cento). 

 

L’artrosi e l’artrite appartengono al più ampio gruppo delle patologie reumatiche. Le malattie reumatiche sono una categoria di condizioni croniche che coinvolgono il sistema muscolo-scheletrico. Esse possono portare ad una perdita della produttività, ad un aumento dei costi per il servizio sanitario e ad una ridotta qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie (Chopra & Abdel-Nasser, 2008).

L’importanza di prestare una maggiore attenzione all’incremento della qualità di vita dei soggetti con disturbi muscolo-scheletrici è stata sottolineata, negli ultimi anni, dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) (Franco-Aguirre, Cardona-Tapias, & Cardona-Arias, 2017).

Ciò anche alla luce del fatto che i sintomi principali di queste malattie – la fatica ed il dolore – essendo per lo più non visibili (Geenen & Finset, 2012), vengono spesso mal riconosciuti e non compresi dalle altre persone (Cameron, Kool, Estevez-Lopez, Lopez-Chicheri & Geenen, 2018) e sottovalutati dai professionisti sanitari (Franco-Aguirre, Cardona-Tapias & Cardona-Arias, 2017). A volte, si assiste infatti ad un vero e proprio divario tra le misure più oggettive di gravità della malattia (ad esempio, la radiografia) e quello che i pazienti riportano circa il loro dolore e la loro disabilità (Finan et al., 2013; Wolfe et al., 2014).

Il dolore nelle malattie reumatiche: la componente psicologica

Il dolore, sintomo debilitante di malattie reumatiche come l’artrite reumatoide, la fibromialgia e la spondiloartrite, può essere influenzato da una serie di fattori, inclusi quelli psicologici (Hadjistavropoulos & Craig, 2004; Knotek & Knotkova, 2008; Linton, 2005; Simons, Elman & Borsook, 2014).

L’ansia, l’ipervigilanza e la catastrofizzazione hanno infatti dimostrato di avere un peso sulla percezione del dolore (Hollins et al. 2009; McDermid, Rollman & McCain, 1996; Ruscheweyh, Albers, Kreusch, Sommer & Marziniak, 2013; Spielberger, Gorsuch & Lushene, 1970; Sullivan et al., 2001).

Un altro costrutto che sembrerebbe contribuire a configurare l’esperienza del dolore ed il modo in cui l’individuo la affronta è l’intolleranza dell’incertezza (Bélanger et al., 2017).

L’intolleranza dell’incertezza

Negli anni sono state proposte diverse definizioni di intolleranza dell’incertezza. Una delle più recenti risulta essere la seguente: “un’incapacità disposizionale da parte dell’individuo a tollerare una risposta avversiva innescata dall’assenza percepita di informazioni salienti, chiave, o sufficienti e sostenuta dalla percezione associata
 di incertezza” (Carleton, 2016b).

Come si evince dalle parole di Carleton (2016b), la caratteristica centrale dell’intolleranza dell’incertezza è la paura dell’ignoto (Carleton, 2016a; Carleton, Mulvogue, Thibodeau, McCabe, Antony & Asmundson, 2012), emozione condizionata probabilmente sia da predisposizioni individuali (ad esempio, il temperamento) che dall’apprendimento (Oglesby, Allan, & Schmidt, 2017).

L’intolleranza dell’incertezza deriva da un bias cognitivo che influenza il modo in cui un soggetto percepisce, interpreta e risponde a situazioni incerte o ambigue. Più specificatamente, tale costrutto psicologico fa riferimento alla tendenza a rispondere, a livello emotivo, cognitivo e comportamentale, a situazioni o eventi che sono incerti percependoli ed interpretandoli come negativi o minacciosi (Dugas, Schwartz & Francis, 2004).

L’ intolleranza dell’incertezza è stata descritta come un fattore di rischio per emozioni negative quali l’ansia, la preoccupazione ed il panico (Fischerauer, Talaei-Khoei, Vissers, Chen & Vranceanu, 2018).

Tuttavia, all’ incertezza non seguono necessariamente sempre reazioni spiacevoli. Secondo la teoria della gestione dell’incertezza (Brashers, 2001; Brashers, Neidig, Haas, Dobbs, Cardillo & Russell, 2000), quando l’ incertezza include la speranza, i soggetti desiderano rimanere incerti circa il problema ed evitare l’informazione. Quando invece l’ incertezza viene letta come una minaccia, si genera un’emozione di ansia legata all’esposizione all’informazione (Brashers, 2001). Ciò è proprio quello che succede agli individui con alta intolleranza dell’incertezza, i quali – lo ripetiamo – hanno la tendenza ad aspettarsi eventi negativi a partire da situazioni incerte (Dugas, Hedayati, Karavidas, Buhr, Francis & Phillips, 2005).

Intolleranza dell’incertezza e Piscopatologia

Benchè i primi lavori abbiano considerato l’intolleranza dell’incertezza esclusivamente come un elemento di vulnerabilità per il disturbo d’ansia generalizzato (Dugas, Gagnon, Ladouceur & Freeston, 1998), le evidenze degli ultimi anni indicano che essa potrebbe essere importante per lo sviluppo ed il mantenimento di tutti i disturbi d’ansia (Carleton, 2012; Carleton et al., 2012; Mahoney & McEvoy, 2012a, 2012b; McEvoy & Mahoney, 2012).

Nonostante correli con elevati sintomi ansiosi (Oglesby, Allan, & Schmidt, 2017), l’intolleranza dell’incertezza pare essere fortunatamente malleabile ed un suo decremento si associa ad esiti positivi di trattamento. Ad esempio, in alcune evidenze, diminuzioni nell’intolleranza dell’incertezza hanno previsto miglioramenti nel disturbo ossessivo-compulsivo (Kyrios, Hordern & Fassnacht, 2015; Manos, Cahill, Wetterneck, Conelea, Ross & Riemann, 2010), nel disturbo d’ansia sociale, nell’ansia generalizzata e nella gravità del pensiero negativo ripetitivo (McEvoy & Erceg-Hurn, 2016).

L’intolleranza dell’incertezza nelle malattie reumatiche

Gli studi che esplorano il legame tra intolleranza dell’incertezza e percezione del dolore sono scarsi in letteratura (Bèlanger et al., 2017). Tuttavia, ricerche passate hanno dimostrato che persone intolleranti all’incertezza sono sia più ansiose (Nelson & Shankman, 2011) sia più attente a situazioni potenzialmente pericolose (Gole, Schäfer & Schienle, 2012), due predisposizioni che incrementano l’esperienza soggettiva del dolore (Spielberger, Gorsuch & Lushene, 1970; Wiech, Ploner & Tracey, 2008).

Inoltre, uno studio recente (Bélanger et al., 2017) suggerisce che alti livelli di intolleranza dell’incertezza predicono un peggioramento nella percezione del dolore, quando il dolore è inaspettato.

Pertanto, se la ricerca futura confermerà l’associazione tra intolleranza dell’incertezza ed amplificazione del dolore, la variabile psicologica dell’intolleranza dell’incertezza potrà essere considerata uno dei possibili target di indagine e di intervento in persone con malattie reumatiche che soffrono di dolore cronico.

Nelle sindromi reumatologiche, le caratteristiche fisiopatologiche del dolore possono cambiare nel corso del tempo e quindi non essere facilmente prevedibili. Nell’artrite reumatoide, ad esempio, quando l’infiammazione colpisce inizialmente le articolazioni, il dolore è probabilmente nocicettivo, ovvero evocato dalla stimolazione dei recettori del dolore (nocicettori), attivati da danno o infiammazione ai tessuti. Tuttavia, esso diviene gradualmente centralizzato, ossia mantenuto principalmente dal sistema nervoso centrale, piuttosto che dal sistema nervoso periferico, nel momento in cui si diffonde nel corpo (Atzeni, Cazzola, Benucci, Di Franco, Salaffi & Sarzi-Puttini, 2011; Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012).

Uno dei modi più immediati per identificare quei soggetti il cui dolore è per lunghi periodi di tempo sia nocicettivo che centralizzato consiste nel cercare clusters di sintomi somatici (ad esempio, fatica, dolore, problemi di memoria e disturbi del sonno) in co-morbilità (Goesling, Clauw & Hassett, 2013; Stisi et al., 2008). Questo perché i neurotrasmettitori ad azione centrale, presenti a livelli anomali, che plausibilmente rivestono un ruolo chiave nel causare il dolore (ad esempio, bassi livelli di norepinefrina, GABA o serotonina, ed alti livelli di glutammato o sostanza P), sono implicati anche nel controllare il sonno, l’umore e lo stato di vigilanza (Goesling, Clauw & Hassett, 2013).

Pertanto, in individui che sviluppano il dolore centralizzato non è inusuale osservare l’occorrenza di dolore in associazione con altri sintomi, mediati a livello centrale (Alciati et al., 2012; Goesling, Clauw & Hassett, 2013), che di frequente non rispondono alle terapie standard (Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012; Stisi et al., 2008).

Per proporre un esempio, pazienti con osteoartrite al ginocchio, disturbo articolare diffuso soprattutto tra la popolazione over 50, provano spesso una fatica funzionalmente limitante (Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012; Goesling, Clauw & Hassett, 2013) ed un dolore intenso non solo nell’articolazione del ginocchio e nelle strutture circostanti ma anche in zone non colpite direttamente dall’osteoartrite (Atzeni, Cazzola, Benucci, Di Franco, Salaffi & Sarzi-Puttini, 2011; Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012).

Malattie reumatiche e gestione del dolore cronico

Nelle malattie reumatiche, il dolore cronico viene di frequente gestito in modo non appropriato (Cherubino, Sarzi-Puttini, Zuccaro & Labianca, 2012).

Un trattamento inadeguato del dolore cronico rischia di non consentire la partecipazione alle attività della vita quotidiana, di influenzare negativamente le capacità lavorative e di contribuire ad un elevato indice di ansia (Sarzi-Puttini, Atzeni & Salaffi, 2014), effettivamente riscontrato spesso nelle persone con condizioni croniche dolorose (Asmundson & Katz, 2009; Bair, Robinson, Katon & Kroenke, 2003; Edwards, Cahalan, Mensing, Smith & Haythornthwaite, 2011; McCracken & Vowles, 2014). Di conseguenza, un opportuno sollievo dal dolore, benché complesso, si rivela di fondamentale importanza.

Essendo un fenomeno influenzato da variabili biologiche, psicologiche e sociali, il dolore richiede, per essere trattato efficacemente, l’adozione di un approccio multidisciplinare che prenda in considerazione interventi farmacologici e non farmacologici basandosi sul tipo di disturbo, sulle caratteristiche del dolore stesso, sulle abilità psicologiche di coping e sullo stile di vita (Cunningham & Kashikar-Zuck, 2013; Sarzi-Puttini, Vellucci, Zuccaro, Cherubino, Labianca & Fornasari, 2012).

Tra le strategie non farmacologiche, la terapia cognitivo comportamentale, il biofeedback, la meditazione e la mindfulness, ed il rilassamento sono risultati essere in grado di aiutare i pazienti con dolore reumatico (Cazzola, Atzeni, Salaffi, Stisi, Cassisi & Sarzi-Puttini, 2010; Sarzi-Puttini, Buskila, Carrabba, Doria & Atzeni, 2008; Sarzi-Puttini, Vellucci, Zuccaro, Cherubino, Labianca & Fornasari, 2012).

Considerata la relazione – preliminare – tra intolleranza dell’incertezza ed aumento dell’esperienza soggettiva di dolore, un intervento che si ipotizza essere altrettanto utile è un training cognitivo mirato all’intolleranza dell’incertezza. Insieme ad altre tecniche, esso potrebbe servire a trattare e, se possibile, a prevenire gli aspetti centralizzati del dolore in quei pazienti affetti da malattie reumatiche che alla valutazione clinica risultano essere alti in intolleranza dell’incertezza.

Purtroppo, non esistono ancora markers clinici, di laboratorio o di neuroimaging capaci di stabilire perché in certi pazienti, a differenza di altri, il dolore rimane localizzato, senza diffondersi (Warren, Langenberg & Clauw, 2013), e perché (e quando) il dolore localizzato in una specifica articolazione o zona del corpo si trasforma in cronico e diffuso (Sarzi-Puttini, Atzeni & Salaffi, 2014).

Data questa incertezza relativa al timing, all’intensità ed alla localizzazione del dolore, i pazienti reumatologici con il bias dell’intolleranza dell’incertezza possono essere più a rischio – per via del legame preliminare tra intolleranza dell’incertezza e peggioramento dell’esperienza soggettiva di dolore – di sviluppare un dolore cronico. Il dolore cronico, a sua volta, può contribuire ad innalzare il livello dei sintomi ansiosi che possono intensificare ulteriormente la percezione del dolore (Edwards, Dworkin, Sullivan, Turk & Wasan, 2016), in un vero e proprio circolo vizioso.

Di conseguenza, individui affetti da malattie reumatiche con il fattore di vulnerabilità psicologica dell’intolleranza dell’incertezza potrebbero – in via ipotetica – beneficiare di un breve training cognitivo orientato a facilitare interpretazioni neutre/non minacciose delle sensazioni dolorose provenienti dal danno nocicettivo periferico. Questo tipo di intervento, anche se testato finora solo su un campione di 79 studenti di psicologia, sembra promettente: è riuscito a ridurre in modo significativo l’intolleranza dell’incertezza (Oglesby, Allan & Schmidt, 2017).

Obesità e problemi ponderali: il peso dello stigma e lo stigma del peso negli uomini

Un nuovo studio di Himmelstein, Puhl e Quinn pubblicato su Obesity rileva che una significativa parte degli uomini adulti riferisce di essere stato bistrattato a causa del peso.

 

In tema obesità e problemi ponderali si tende spesso a credere che siano soprattutto le donne ad essere vittime dello stigma legato al peso. Questo, se da un lato tende ad alimentare l’idea errata che il dover essere in forma è un problema per lo più femminile, d’altro lato potrebbe rendere difficile comprendere la sofferenza che anche gli uomini con obesità provano quando si sentono stigmatizzati.

Per questo motivo, la ricerca di Himmelstein, Puhl e Quinn pubblicata su Obesity, tra le prime a studiare il problema dello stigma legato al peso esclusivamente negli uomini, fornisce dati interessanti per capire in che modo gli uomini vivono lo stigma percepito.

I risultati suggeriscono che gli uomini potrebbero sperimentare lo stigma basato sul peso in percentuali simili alle donne. Gli atteggiamenti negativi verso le persone con obesità sono diffusi e possono essere causa di problematiche fisiche ed emotive.

 

Obesità negli uomini: ne soffrono come le donne?

Le precedenti ricerche su questo tipo di stigma si sono focalizzate prevalentemente sulle donne lasciando intendere che fosse più diffuso in queste ultime. Questo studio tuttavia mostra come il divario tra uomini e donne sia minore.

Lo studio ha coinvolto un campione di 1513 uomini di cui il 40% ha riferito di avere sperimentato stigma a causa del proprio peso.

Gli uomini che hanno riportato esperienze di stigma erano più giovani, meno coinvolti in una relazione matrimoniale, più facilmente in una condizione di obesità e avevano tentato di perdere peso l’anno precedente.

Lo stigma basato sul peso é risultato occorrere maggiormente nell’infanzia e adolescenza, in forma di maltrattamenti verbali e prese in giro, mentre i coetanei, famigliari ed estranei sono risultati le più comuni fonti di stigma.

Stigma del peso per gli uomini

A differenza delle donne che tendono a sperimentare maggiormente lo stigma ponderale all’aumentare del peso corporeo, gli uomini in questo studio sperimentavano maggiormente lo stigma in una condizione di sottopeso od obesità rispetto a quelli in una condizione di normopeso e sovrappeso.

É importante per la ricerca sullo stigma coinvolgere maggiormente gli uomini, e visto che i soggetti che cercavano di perdere peso erano maggiormente coinvolti, inserire nei programmi di gestione del peso strategie per fronteggiare questa forma di stigma purtroppo diffusa e socialmente accettata.

Freud Promenade: passeggiare tra i monti respirando psicoanalisi

Camminare tra i boschi e le montagne respirando psicoanalisi; viaggiare tra i paesaggi dell’ Alto Adige, da Soprabolzano a Collalbo, sulle parole e sulle teorie di Sigmund Freud; discutere di Es, Ego e Superego all’ombra dei meli o ripensare ad Anna O. tra l’odore di campanule…non c’è nulla di allegorico in tutto questo, ma una vera e propria prassi viva dal 2006 grazie all’idea del Dott. Francesco Marchioro.

 

Il Dott. Francesco Marchioro, psicoanalista e storico della psicoanalisi, ha fondato nel 2006 una passeggiata “Freud promenade” vicino a Bolzano (sul Renon – Alto Adige): un progetto nato in collaborazione con il Comune di Renon con l’associazione Imago Ricerche di psicoanalisi applicata di Bolzano, per celebrare i 150 anni dalla nascita di Sigmund Freud (1856 – 6 maggio – 2006).

Al fondatore della Psicoanalisi è stato dedicato il sentiero principale, nr. 35, che va da Soprabolzano a Collalbo, con il nome di “Passeggiata – Freud – Promenade”.  La Freud Promenade è il primo e unico sentiero al mondo dedicato al Maestro viennese. Il progetto è stato arricchito il 23 settembre 2016 con l’apposizione di 13 panche artisticamente disegnate dagli architetti David e Verena Messner. Ciascuna panchina è caratterizzata da un aforisma scelto dal Dott. Marchioro dalle Opere di Freud.

L’auspicio dell’ideatore della Freud-Promenade è quello di creare un contatto tra i professionisti e proporre incontri sulla psicoanalisi, proprio a partire da quei paesaggi di cui lo stesso padre della psicoanalisi si è innamorato, come ben ci ricorda suo figlio Martin nel libro di memorie “Mio padre Sigmund Freud“:

ogni anno vagava come un esploratore per le montagne in cerca del posto più bello dove soggiornare

 

Per saperne di più: www.freudpromenade.it

IMMAGINI DELLA FREUD PROMENADE:

 

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 2

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 3

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 4

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 5

Neuroni specchio: storia della scoperta e teorie a confronto

Gli esseri umani sono animali sociali capaci di elaborare e capire le azioni e le intenzioni degli altri, questa capacità è di primaria importanza per poter agire ed interagire correttamente e in maniera adattiva con il mondo, qual’è il ruolo dei neuroni specchio?

Beatrice Agostini – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Immaginiamo di camminare per strada e di vedere un signore che si avvicina muovendo una mano. Essere in grado di capire se quel movimento è un movimento di saluto o se il signore in questione ci sta per lanciare addosso qualcosa è di primaria importanza per pianificare correttamente il nostro comportamento (ricambiare il saluto nel primo caso, scappare o attaccare nel secondo).

Neuroni specchio: la scoperta

Negli anni ’90 i ricercatori iniziarono ad interrogarsi su come il nostro cervello riconosce le azioni altrui. Nel 1992, di Pellegrino e colleghi studiarono un gruppo di neuroni localizzati nella parte rostrale della corteccia premotoria ventrale del cervello della scimmia (area F5) ed osservarono come questi neuroni si attivavano non solo quando la scimmia faceva un movimento, ma anche quando osservava lo stesso movimento eseguito dallo sperimentatore (Rizzolatti et al., 1996). Questi neuroni vennero chiamati “neuroni specchio”, in inglese “mirror neurons”, proprio per enfatizzare questa loro capacità di rispecchiare una specifica azione motoria nel cervello dell’osservatore.

Studi più approfonditi hanno dimostrato che l’osservazione di azioni altrui determina anche negli esseri umani, e non solo nelle scimmie, l’attivazione delle regioni precentrali (Gallese et al., 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004; Keyser e Gazzola, 2009). Questo risultato è stato immediatamente interpretato come parte cruciale del processo di riconoscimento delle azioni: un osservatore comprende le azioni delle altre persone perché le rappresenta nel proprio cervello, proprio come se lui stesso stesse eseguendo quell’azione. Rizzolatti e colleghi (2001) non si fermano qui, ma ipotizzano anche l’esistenza di un network (mirror neuron system), che comprende aree parietali, frontali inferiori e premotorie, che è deputato al riconoscimente delle azioni non solo quando le osserviamo ma anche quando leggiamo un verbo o ascoltiamo una parola associata ad una azione. Ad esempio, un concetto come saltare (indipendentemente se osserviamo una persona che salta, se la immaginiamo o se leggendo un libro incontriamo questa parola) verrebbe compreso grazie alla riattivazione dello stesso programma motorio che si attiverebbe se stessimo effettivamente facendo un salto.

Neuroni specchio: come funzionano?

Iniziò così, verso la metà degli anni ’90, a prendere piede l’idea che le rappresentazioni concettuali riferite alle azioni (ovverso le rappresentazioni semantiche, il significato) siano rappresentate all’interno del nostro sistema sensorimotorio (embodied cognition hypothesis o teoria della cognizione incarnata). In particolare, il concetto di simulazione come il “processo attraverso il quale i concetti rievocano gli stati percettivi e motori presenti quando percepiamo e agiamo nel mondo” (Chatterjee, 2010 –p.80) divenne il focus delle ricerche nell’ambito dell’osservazione e del riconoscimento di azioni (review: Martin, 2007; Mahon e Caramazza, 2008; Kiefer e Pulvermüller, 2012). Lo stesso concetto è stato utilizzato per speculare su altri domini cognitivi come ad esempio l’empatia e il riconoscimento delle emozioni (Spaulding, 2012), la teoria della mente (Gallese e Goldman, 1998, Schulte-Ruchter et al., 2007), e sulla natura di diversi disturbi come l’autismo (Dapretto et al., 2005; Oberman et al., 2005; Hadjikhani et al., 2006).

Ad oggi, non tutti i ricercatori condividono questa interpretazione. Il dibattito su quale sia il ruolo di questo processo di simulazione mentale nel riconoscimento delle azioni è ancora aperto. In particolare ci si domanda: è davvero necessario simulare un’azione nel nostro sistema motorio per comprenderla? Ovvero, l’informazione motoria è fondamentale per comprendere un concetto? In alternativa: è possibile comprendere il significato di una azione solo utilizzando una rappresentazione simbolica, senza il contributo del circuito motorio necessario per metterla in atto? E se si, dove si trova, nel cervello, questa rappresentazione simbolica? Queste sono le domande chiave che caratterizzano il dibattito tra teoria motoria e teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni (in qualche misura sovrappoinibili alle embodied/disembodied cognition hypothesis).

Neuroni specchio e teoria motoria del riconoscimento delle azioni

La teoria motoria del riconoscimento delle azioni concorda con la teoria dei neuroni specchio e quindi con la teoria della embodied cognition hypothesis, la quale afferma che la cognizione dipenda anche da caratteristiche di tipo corporeo (nel nostro caso l’informazione contenuta nel sistema motorio). Questa teoria sostiene che l’abilità di capire o riconoscere il significato di un’azione è situata nel nostro sistema motorio. Come si diceva prima, è possibile riconoscere un’azione solo se vi è una simulazione dell’azione osservata nel sistema motorio dell’osservatore.

La maggior parte degli studi comportamentali citati a favore della teoria motoria cercano di dimostrare come le rappresentazioni motorie e le rappresentazioni concettuali interagiscono tra loro, e, soprattutto, come le prime sono in grado di influenzare le seconde. In un esperimento per dimostrare che le parole automaticamente attivano la rappresentazione motoria, Glover e colleghi (2004) mostrarono ai partecipanti il nome di un oggetto grande o piccolo (ad esempio mela o uva). Il compito dei partecipanti era quello di leggere il nome dell’oggetto e subito dopo raggiungere ed afferrare un oggetto target presente sul tavolo (grasping movement). I risultati mostrarono che l’apertura della mano durante il movimento di grasping era influenzato dalla parola che veniva letta in precedenza: se veniva letto il nome di un oggetto grande, i partecipanti aprivano la mano di più rispetto a quando leggevano il nome di un oggetto piccolo. Questo indipendentemente dalla dimensione dell’oggetto target che dovevano afferrare. Questo esperimento, insieme a molti altri (Glenberg e Kaschak, 2002; Brass et al., 2001, Craighero et al., 2002; Tucker e Ellis, 2004; Bub et al., 2008) vennero utilizzati come prova del fatto che il nostro sistema motorio si attiva automaticamente quando leggiamo determinate parole.

Studi più recenti hanno utilizzato la stimolazione magnetica transcranica (TMS) per investigare in maniera più diretta il ruolo del sistema motorio nel riconoscimento delle azioni. Quando si utilizza la TMS si va ad interferire con la normale attività di un’area cerebrale e questo genera un cambiamento nel comportamento del partecipante (Rossini et al., 2015). Solitamente, a seconda della procedura seguita, si può osservare un aumento o una diminuzione dei tempi di reazione del partecipante oppure si possono osservare delle variazioni in alcuni parametri elettrofisiologici, come, ad esempio, nei potenziali motori evocati (MEP). Ad esempio, se applichiamo un elettrodo su un muscolo della mano e poi applichiamo un impulso TMS sull’area motoria (M1) che controlla la mano, osserveremo una contrazione del muscolo della mano. L’intensità della contrazione cambia a seconda dell’eccitabilità corticale: più l’attività dell’area motoria è intensa, maggiore sarà la contrazione. MEP è dunque una misura non invasiva dell’eccitabilità del sistema cortico-spinale e quindi una misura della sensibilità di M1. Utilizzando questo metodo è stato dimostrato che osservare il movimento di una mano provoca nei soggetti un aumento dei MEP nel muscolo della loro mano (Fadiga e Rizzolatti, 1995; Strafella e Paus, 2002; Maeda et al., 2002). Questo significa che l’area motoria dell’osservatore era “attiva” mentre osservava il movimento e che quindi osservare azioni determina una modulazione del sistema motorio.
Altri studi hanno dimostrato che M1 è sensibile non solo all’osservazione ed esecuzione di azioni, ma anche quando abbiamo a che fare con un linguaggio associato ad un’azione (ad es. “spegni la luce”). In un esperimento del 2005, Buccino e colleghi applicarono la TMS sull’area motoria della mano o del piede del partecipante, mentre questo ascoltava delle frasi che si riferivano ad azioni manuali o che coinvolgevano l’uso dei piedi. Durante la stimolazione venivano registrati i MEP. I risultati mostrarono che l’intensità dei MEP del muscolo della mano era diversa quando i partecipanti ascoltavano frasi contenti azioni manuali rispetto a quando ascoltavano frasi che coinvolgevano l’uso dei piedi. L’osservazione che l’area motoria si attiva in maniera specifica quando comprendiamo un’azione, venne interpretata come evidenza del suo coinvolgimento nel riconoscimento semantico delle azioni e venne utilizzata in supporto delle teorie motorie.

Non da ultimo, studi di risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno mostrato che stimoli che fanno riferimento ad azioni motorie (come ad esempio osservare un movimento) portano all’attivazione, tra le altre aree, del giro precentrale (per una review: Martin, 2007; Puvermuller e Fadiga, 2010).

E’ tuttavia importante notare come gli studi sopracitati mostrino una certa variabilità nei risultati. Ad esempio, negli studi di TMS a fronte dello stesso stimolo alcuni studi trovano un aumento dell’intensità dei MEP, altri una diminuzione. In entrambi i casi il risultato è significativo ma la direzione dell’effetto è opposta ed è dunque difficile compararlo o interpretarlo (review: Papeo et al. 2013). Non solo, gli studi di fMRI citati a favore della teoria motoria mostrano sì che il giro precentrale (l’area premotoria) risponde quando elaboriamo il significato delle azioni, ma non è il solo. Molte altre aree sono attive quando osserviamo un’azione (vedi Figura 1). Il ruolo delle altre aree e in particolare della corteccia temporale viene spesso sottostimato dai sostenitori della teoria motoria e relegato ad una funzione di mera analisi visuo-motoria di basso livello.

Neuroni specchio dalla scoperta al dibattito scientifico sul funzionamento immagine

Aree che fanno parte dell’action-observation network (AON). Casper et al., 2010

Neuroni specchio e teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni

I sostenitori della cosiddetta teoria cognitiva offrono una visione alternativa riguardo a come il nostro cervello associa i significati alle azioni. Punto chiave di questa ipotesi è che le rappresentazioni concettuali sono immagazzinate in aree prettamente concettuali che si trovano al di fuori del sistema sensorimotorio (Mahon e Caramazza, 2008; Papeo et al., 2009; Hickok, 2009). In altre parole, l’informazione semantica riguardante le azioni non dipenderebbe da un programma motorio specifico ma è astratta e si trova in regioni non-motorie.

Come abbiamo visto nel precedente paragrafo, le regioni motorie rispondono durante compiti che coinvolgono l’elaborazione di azioni. Rizzolatti e collaboratori (2001 p.6610) affermano che una

azione è compresa quando la sua osservazione causa una risonanza nel sistema motorio dell’osservatore.

I sostenitori della teoria cognitiva non negano che ci sia un’attivazione delle regioni motorie, ma rispondono che questa risonanza potrebbe essere la conseguenza di una connessione associativa con aree concettuali, o avere comunque altre funzioni meno specifiche. Questo significherebbe che quando osserviamo un’azione, prima viene attivata l’area concettuale non-motoria che contiene tutte le informazioni relative al significato dell’azione e che ci permette di comprendere l’azione, e solo in un secono momento, tramite connessioni associative, viene attivata l’area premotoria.

Studi neuropsicologici hanno esaminato le conseguenze di lesioni all’emisfero sinistro durante lo svolgimento di compiti in cui veniva chiesto di elaborare il significato di azioni. Se il riconoscimento e l’esecuzione di un’azione si basano sullo stesso meccanismo neurale, come sostiene la teoria motoria, allora entrambe le abilità dovrebbero essere compromesse quando le strutture neurali motorie e premotorie sono danneggiate (Pazzaglia et al., 2008). Al contrario, numerosi studi mostrano doppie dissociazioni tra riconoscimento di azioni e esecuzione di azioni (Rumiati et al., 2001; Negri et al., 2007; Kalénine et al., 2010; Urgesi et al., 2014). Questo significa che ci sono pazienti che non sono in grado di eseguire correttamente un’azione, ma sono però in grado di comprendere e interpretare le azioni altrui (Vannuscorps e Caramazza, 2016) e viceversa. Questi risultati vanno in direzione opposta rispetto a coloro che sostengono la teoria pura dei neuroni specchio. Questi studi, esaminando la connessione tra luogo della lesione e performance hanno individuato nella corteccia temporale e in particolare nel giro temporale mediale posteriore (pMTG) l’area concettuale dove sarebbe immagazzinata l’informazione concettuale delle azioni.

Questo risultato viene confermato da studi di fMRI che non solo mostrano l’attivazione di pMTG durante l’elaborazione di azioni, ma, tramite tecniche più avanzate, come il multivoxel pattern analysis (MVPA) mostrano come la corteccia occipito-temporale contenga informazione più astratta (e quindi la rappresentazione dell’azione distaccata dalla sua componente motoria), mentre il giro precentrale informazione di più basso livello (come può essere la chinematica di un movimento, la sua direzione ecc… – Wurm e Oosterhof, 2013; Lingnau, 2015; Wurm et al., 2015). Inoltre, in un recente studio di TMS, è stato dimostrato che la perturbazione di pMTG (collocato nella corteccia occipitotemporale) porta ad una interruzione del processo di riconoscimento semantico dei verbi (Papeo et al. 2014) e un’interruzione delle connessioni tra pMTG e l’area premotoria.

Neuroni specchio: spazio alle teorie moderate

Gli studi sopracitati suggeriscono quindi che l’informazione concettuale delle azioni è astratta ed è rappresentata nel lobo temporale e non nelle aree motorie e premotorie come sostiene le teoria motoria.

Si è visto come la teoria motoria e la teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni si basino su due diverse assunzioni: la teoria motoria sostiene che il contenuto concettuale è costituito dall’informazione che è rappresentata nel sistema sensorimotorio e che quindi l’attività dei neuroni specchio è fondamentale per riconoscere il significato di un’azione. La teoria cognitiva, invece, sostiene che le rappresentazioni concettuali sono simboliche e astratte e che sono immagazzinate in aree concettuali al di fuori del sistema sensorimotorio e più in particolare, nella corteccia occipitotemporale e che quindi l’attività dei neuroni specchio non è necessaria per riconoscere il significato di un’azione. Queste due teorie si collocano a due estremi opposti e tendenzialmente una esclude l’altra. Tuttavia, tra questi due estremi si trovano altre teorie più moderate che, sbilanciandosi più verso un estremo o verso l’altro, cercano di conciliare queste due visioni.

San Salvador. Storia di un omicidio (2016) di A. Ganci – Recensione del libro

San Salvador. Storia di un omicidio è un libro, scorrevole e avvincente, adatto a tutti gli appassionati del genere giallo e psicologico-introspettivo, ma capace anche di fornire un’analisi tecnica dettagliata di alcuni aspetti della psiche dei propri personaggi.

Antonino Leonardi

 

Florida, mese di Marzo. Chiusa in una pericolosa ispirazione, Martha sta preparando meticolosamente il piano che la libererà da Thomas e dal suo insopportabile tradimento.

Questo l’incipit dell’appassionante romanzo della psicologa, giornalista e scrittrice Angela Ganci.

Dal preambolo inziale sono chiare le intenzioni dell’Autrice, ovvero toccare importanti questioni di carattere sociale e psicologico, tematiche forti e attuali nella società odierna dove le cronaca spesso ci informa di fatti di vendetta privata legati al tradimento, che spesso degenerano in crimini di sangue, dall’esito fatale.

San Salvador. Storia di un omicidio

Questo libro, scorrevole e avvincente, risulta adatto a tutti gli appassionati del genere giallo e psicologico-introspettivo, sebbene sia tecnico soprattutto nell’analisi di alcuni aspetti della psiche dei personaggi (la protagonista, Martha, donna dalle intenzioni omicidarie travestite da giustizia personale, rabbiosamente rannicchiata nei propri pensieri; la zia, sapiente modello di ispirazione per il delitto; Thomas, vittima colpevole della sua distrazione; Anthony, strumento di revisione interna e di salvezza, speranza che viene dal passato).

Un libro, San Salvador. Storia di un omicidio, quindi tecnico, nella minuziosità con cui descrive le azioni umane, fornendo loro un tono emotivo tale da farci entrare dentro le azioni narrate, dove i personaggi entrano a contatto con tutte le emozioni, angoscia, rabbia, allegria, delusione, al punto che da spettatori veniamo immersi in una trama corposa e quasi catturati in essa, come avviene in un film 3D.

Queste emozioni si fanno più forti e si connotano magicamente del tono della tragedia nella scena più cruenta, dell’omicidio consumato a danno di Thomas, destinato a non trovare risposta al gesto omicidiario, che resterà sospeso in un flebile Perché?

Crudeltà, disagi della non accettazione, tutto questo avvicina San Salvador. Storia di un omicidio a un romanzo giallo dai toni classici di caccia al colpevole (in realtà in questo caso il colpevole lo conosciamo fin dall’inizio, e tutto il libro si snoda nella scoperta dell’assassino da parte della giustizia umana): eppure San Salvador ha altresì una luce diversa che lo rende singolare, differenziandolo dagli altri romanzi gialli, attraverso l’aspetto redentivo e la capacità di introspezione e di riflessione da parte dei personaggi, soprattutto di Martha.

Il tema della redenzione

La redenzione è un aspetto importante e interessante in un contesto così tragico, un elemento innovativo, che inserisce pienamente il romanzo all’interno dei romanzi introspettivi e psicologici-introspettivi.

La redenzione avviene a opera di un uomo che cercherà di capire, perdonare, il personaggio Martha e questo fa si che il giudizio del lettore non sia quello della condanna, come la prima parte del libro suggerisce quasi istintivamente.

Redenzione di fronte alle proprie colpe e di fronte al tribunale degli uomini, vergogna che scava nel tempo e restituisce al carnefice un senso di umanità che lo avvicina infine al lettore empaticamente.

Un percorso di redenzione da vivere personalmente, destinato a cambiare in meglio una vita segnata dalle colpe, l’umilazione e l’emarginazione sociale.

Un cammino sostenuto dalla ferrea volontà di cambiamento, confortato da un amore che non abbandona nemmeno nelle prove più difficili, e da clamorosi colpi di scena investigativi (che confermano come l’intenzione dell’autrice sia, in fondo, improntata al finale positivo, alla seconda chance, al di là della verità giudiziaria e della sicurezza della pena) che permetteranno di iniziare una marcia trionfale sotto i migliori auspici, memore degli errori di percorso e grata per una nuova opportunità.

La vera forza della psicoterapia: il cambiamento epigenetico

Il rapporto tra genetica e ambiente è un interrogativo caro alla Psicoterapia e sta diventando terreno d’incontro anche di altre scienze mediche: si tratta di epigenetica

 

La Psicoterapia, disciplina che integra i contributi della Psicologia e della Psichiatria, ha sempre abbracciato una tradizione occidentale organicista che, nel corso della sua evoluzione, ha considerato le caratteristiche psicologiche individuali nel modo il più omogeneo e lineare possibile, al punto da suggerire la costruzione di assunti teorici quali il temperamento, la personalità o il carattere, col preciso intento di creare dei modelli teorici utili a “disegnare” le evidenze osservate.

Per molto tempo, le associazioni tra gli studi della psicopatologia e della genetica molecolare si sono esclusivamente considerate in termini di “fattori predittivi”. Le cose sono iniziate a cambiare con l’avanzamento della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) che ha definito il presupposto teorico secondo cui genetica e ambiente, nella loro interazione, determinano la costruzione dell’essere umano nel suo complesso.

In questo quadro epistemologico diventa possibile introdurre un nuovo campo che sta rivoluzionando tutti i rami della medicina, l’epigenetica.

Epigenetica: cos’ è?

L’ epigenetica è difficile da definire: si riferisce alle modificazioni che intervengono non direttamente sulla sequenza del DNA (cioè sulla successione di basi che compone un gene) ma sulla sua struttura (Laruffa 2017). È la modalità attraverso cui l’ambiente interagisce con il genoma a livello molecolare.

È una disciplina trasversale che probabilmente ha molto da dire anche nel campo dello studio della psiche: può essere considerata il “ponte” (assieme alle neuroscienze) capace di collegare la biologia con la psicoterapia, perché dimostra che l’ambiente non interagisce con il DNA esclusivamente attraverso l’evoluzione, ma può farlo direttamente attraverso l’interazione con l’individuo tramite l’azione di meccanismi che modulano l’espressione genica.

Epigenetica: il rapporto con psichiatria e neuroscienze

L’interesse per l’ epigenetica in psichiatria è iniziato con le ricerche sui meccanismi epigenetici che influenzano i normali pattern del neurosviluppo delle funzioni cerebrali e, conseguentemente, dei meccanismi che intervengono nello sviluppo inadeguato implicato in alcuni disturbi psichiatrici (Iannitelli e Biondi, 2014).

Successivamente si è considerato che le modificazioni epigenetiche avvenute durante la vita uterina rimangono stabili per tutta la vita, tuttavia “rimodellamenti” epigenetici possono avvenire durante la vita adulta sotto l’influenza di fattori ambientali, quali farmaci, sostanze chimiche, ma anche fattori psicosociali.

Nel frattempo lo sviluppo delle conoscenze relative alla plasticità cerebrale sta sempre più orientando gli studi verso una prospettiva della psicoterapia più neurobiologica, che riflette la natura dinamica dell’interazione tra geni e ambiente (Siracusano et al., 2008). La plasticità neurale è la capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente (Lazzerini et al., 2015): questa evidenza, dagli studi degli anni novanta di Kandel (1999) in poi, orienta da tempo gli sviluppi delle neuroscienze che danno conferma circa l’efficacia dei trattamenti.

Epigenetica e psicoterapia: potenzialità future

In questa cornice epistemologica, che nasce dall’integrazione dei contributi della psichiatria genetica e delle neuroscienze, la psicoterapia, oltre essere capace di determinare dei veri e propri cambiamenti nella morfologia del cervello, merita davvero la definizione di “droga epigenetica” fornita da Stahl (2012) perché può essere capace di determinare un cambiamento biologico che si riflette nel pensiero, nel comportamento, nell’interazione umana.

L’ epigenetica può nel tempo fornire istruzioni ed incoraggiamenti per la promozione della salute mentale attraverso un approccio capace di andare “oltre” traiettorie ben definite. Per intenderci: abbracciando il noto modello di Cloninger (1994) le probabilità che un giovane novelty seeking svilupperà un ADHD o un disturbo di personalità del cluster B del DSM non dipendono dalla passività genetica predisposta dal temperamento ma dipendono da fattori ambientali capaci di modifiche epigenetiche. La prevenzione dovrebbe dunque mirare alla creazione di adeguati e personalizzati ambienti psicosociali, capaci di dare spazio ad interventi psicoterapici che possano coinvolgere a più livelli i sistemi (familiari, scolastici e professionali) in cui le persone interagiscono e vivono.

Frequente uso dei media e problemi comportamentali negli adolescenti

Gli adolescenti che usano frequentemente smartphone e dispositivi multimediali hanno maggiori probabilità di sviluppare sintomi del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD).

 

Un team di ricercatori della University of Southern California (USC) ha rilevato che gli adolescenti che utilizzano intensivamente dispositivi digitali hanno il doppio delle probabilità di mostrare sintomi di ADHD, descritto dal National Institute of Mental Health come una patologia che include sintomi del pattern dell’attenzione, del comportamento iperattivo e impulsivo, e che interferisce con il funzionamento e lo sviluppo dell’individuo.

Il razionale alla base della ricerca

Lo studio ha monitorato circa 2.600 adolescenti per due anni, concentrandosi in particolare sulle conseguenze per la salute mentale di una nuova generazione che s’interfaccia con device digitali onnipresenti.

I precedenti studi hanno indagato l’uso della TV e dei videogiochi sulla patologia.

La novità è che precedenti studi su questo argomento sono stati fatti molti anni fa, quando non esistevano social media, telefoni cellulari, tablet e app mobili – ha dichiarato Adam Leventhal, professore di medicina preventiva e psicologia e direttore della USC Health, Laboratorio di Emotion and Addiction presso la Keck School of Medicine di USC – Le nuove tecnologie mobili possono fornire una stimolazione rapida e ad alta intensità accessibile tutto il giorno, che aumenta l’esposizione ai media digitali ben oltre ciò che è stato studiato in precedenza.

L’autore illustra i risultati di un sondaggio condotto da Common Sense Media: gli adolescenti usano media online quasi nove ore al giorno. Il fenomeno è effettivamente importante ed i risultati del presente studio possono essere utili a genitori, scuole, aziende tecnologiche e pediatri: gli adolescenti dipendenti dalla tecnologia sono spinti a distrarsi e la dipendenza dalla tecnologia è oggi diventato un fenomeno molto diffuso.

ADHD e social meida: la ricerca

Gli studiosi hanno reclutato 2.587 studenti, di età compresa tra i 15 ed i 16 anni, da 10 scuole pubbliche di Los Angeles. I ricercatori si sono concentrati sui ragazzi perché l’adolescenza è un momento significativo per l’insorgenza dell’ ADHD e l’accesso senza restrizioni all’uso dei media.

Sono stati esclusi dallo studio tutti quei soggetti che avevano già manifestato sintomi ADHD precedentemente allo studio: i ricercatori volevano infatti indagare l’insorgenza di nuovi sintomi manifestatisi durante i due anni di studio.

Innanzitutto è stata registrata la frequenza (nessun uso, uso medio e alto utilizzo) con cui i partecipanti hanno usato 14 piattaforme di media digitali popolari. In un secondo momento, gli studenti sono poi stati monitorati ogni sei mesi per due anni allo scopo di determinare se l’uso dei media fosse associato o meno ai sintomi dell’ ADHD.

Risultati: il 9,5% dei 114 studenti che hanno usato la metà delle piattaforme frequentemente ed il 10,5% dei 51 studenti che hanno usato tutte e 14 le piattaforme hanno mostrato frequentemente sintomi nuovi dell’ ADHD. Al contrario, il 4,6% dei 495 studenti che non erano utenti abituali di attività digitali non mostravano nuovi sintomi dell’ ADHD.

Possiamo dire con sicurezza che gli adolescenti che sono stati esposti a più alti livelli di media digitali hanno avuto maggiori probabilità di sviluppare sintomi di ADHD.

Essendo l’ ADHD una patologia abbastanza comune nei bambini e adolescenti, con un’incidenza del circa 4%, i presenti risultati aiutano a colmare una lacuna nella comprensione di come i nuovi dispositivi multimediali mobili rappresentano un rischio per la salute mentali dei ragazzi. Questi risultati servono da avvertimento poiché i media digitali sono sempre più diffusi, più rapidi e stimolanti.

Questo studio solleva preoccupazioni sul fatto che la proliferazione di tecnologie multimediali digitali ad alte prestazioni potrebbe mettere a rischio una nuova generazione di giovani per l’ ADHD – afferma Leventhal.

Emozioni, funzioni, metacognizioni e biofeedback alla giornata di chiusura del congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT)

L’ultimo giorno del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) a Sofia inizia con una sessione plenaria di Stefan Hofmann dedicata alle emozioni. Hofmann sta compiendo un’operazione politica e scientifica al tempo stesso, una sorta di offerta di acquisto del dominio clinico della terapia cognitivo comportamentale.

È chiaro che l’operazione conservativa di Salkovskis non potrà andare avanti all’infinito ed è altrettanto chiaro che nel campo cognitivo qualunque apertura ai processi relazionali è improponibile, per una serie di ragioni che abbiamo discusso altrove. In breve, il problema della scelta di privilegiare le componenti relazionali non è il cedimento identitario ma il cambio di rotta che presupporrebbe l’abbandono del patrimonio clinico cognitivo e comportamentale fondato sulla condivisione della formulazione del caso e non sulla gestione narrativa di una esplorazione terapeutica libera –fin troppo!- che fiorisce spontaneamente sul terreno della relazione terapeutica.

La soluzione è invece adottare definitivamente la svolta funzionalista, ed è quello che sta facendo Stefan Hofmann. Dopo avere combattuto Steven Hayes per anni in compagnia di Paul Salkovskis, e dopo averlo riaccolto l’anno scorso a Lubiana, Hofmann ha pubblicato proprio insieme a Hayes un libro manifesto chiamato Process-Based CBT: The Science and Core Clinical Competencies of Cognitive Behavioral Therapy col quale si candida a definire di nuovo il campo cognitivo comportamentale, uscendo dall’attuale crisi di crescita.

Parigi val bene una messa! E Hofmann, come Enrico IV di Borbone quando si convertì al cattolicesimo pur di salire sul trono di Francia, integra la sua osservanza beckiana con il funzionalismo di Hayes, il fondatore della Acceptance e Committment Therapy (ACT).
Un’operazione politica? Certo, ma questo non significa automaticamente che l’aspetto scientifico debba essere debole; del resto Enrico IV fu un grande re. Valuteremo sulla lunga distanza il valore scientifico di Hofmann. Al momento però i segnali non sono buoni. Ieri Hofmann ci è parso arrabattarsi tra mille idee tradendo una tendenza all’eclettismo che finisce per danneggiare quello che è il migliore frutto di quel funzionalismo che Hofmann vorrebbe assorbire, la semplicità e la linearità della formulazione del caso. La presentazione di oggi sulle emozioni soffre dello stesso problema, mescolando ancora una volta funzionalismo, evoluzionismo (si, c’è anche questo) e cognitivismo classico in un minestrone pesantissimo da mandare giù e  che non ha nulla della leggerezza digeribile del vero funzionalismo. Vedremo.

Intanto un gruppo di giovani spagnoli dai nomi risonanti, Jesús Alonso-Vega, Víctor Estal-Muñoz, María Xesús Froxán-Parga, Miguel Núñez de Prado-Gordillo e Ricardo de Pascual-Verdú con il loro simposio un po’ giovanilmente pedante dal punto di vista teorico ma intrigante ci hanno voluto ricordare come la terapia cognitiva comportamentale, carica di compromessi strutturalisti, non abbia sempre saputo adottare in pieno la semplicità lineare dell’analisi funzionale, e questo può spiegare il sovraccarico teorico a cui sta andando incontro Hofmann. Un tema che è caro anche a noi.

EABCT 2018 - Simposio degli spagnoli
Simposio: The cognitive behavioral model in the 21st century: a critical analysis

Dopo Hofmann abbiamo ascoltato Hollon che ha parlato di depressione con una presentazione molto vieux style, una massa infinita di dati di efficacia che confermano che la terapia cognitivo comportamentale per i depressi funziona. Ringraziamo e lo sapevamo.

Tullio Scrimali - EABCT 2018
Tullio Scrimali – EABCT 2018

Nel pomeriggio siamo andati ad ascoltare i colleghi italiani Michele Procacci e Tullio Scrimali che hanno presentato i loro modelli, rispettivamente la terapia metacognitiva interpersonale e il biofeedback applicato alla terapia cognitiva. Procacci ha esplorato solo alcuni aspetti del suo complesso modello, ovvero il caso dei pazienti socialmente ritirati, confermando il metodo di lavoro suo e del suo mentore e padre fondatore della terapia metacognitiva interpersonale Antonio Semerari, ovvero un lavoro di minuziosa ricostruzione delle abilità metacognitive all’interno di una relazione terapeutica significativa. Sarebbe stato interessante riflettere su punti di contato e differenze tra eclettismo di Hofmann ed ecumenismo metacognitivo relazionale del modello di Semerari, ma per fare questo occorrerebbe una plenaria e giustamente Procacci si poneva un obiettivo più focalizzato. Ampio invece lo sguardo di Scrimali che ha illustrato il suo metodo in maniera più completa, confermandone l’interesse applicativo per le classi di pazienti soggetti alla disregolazione emotiva.

L’insulto e la responsabilità

Certo colpisce che alla proiezione di un film a Venezia, un giovane giornalista di una testata non famosissima e underground (Shivaproduzioni.com) alzi la voce alla fine e insulti la regista così: “Vergognati, puttana fai schifo!”. Il nome della regista: Jennifer Kent, il nome del giovane giornalista: Sharif Meghdoud.

Ma la cosa che più mi ha colpito è il tipo di scuse che il giovane ha postato su facebook: di cui vi scrivo solo una frase:

“l’insulto viene fuori da un pensiero irrazionale e iperbolico di un cinismo che potrebbe andar bene (ma in realtà anche no) al bar tra amici ma è assolutamente fuori luogo all’interno di una mostra d’arte.”

Qui comprendiamo cosa ci disturba spesso dei social usati maldestramente e delle goffe scuse a posteriori: il fatto che ciò che vi si dice, “viene fuori” e non è considerato una scelta deliberata. Sia chiaro il mio pensiero: non esiste che un insulto “viene fuori”, per urlare una frase insultante come questa devo averla pensata, devo essermi detto dilla pure, devo avere dato molti comandi al mio sistema vocale, alla bocca, ai muscoli ecc…

Purtroppo tutto il tono delle scuse ruota sul fatto che ci si scusa ma in quel momento le cose sono uscite al di fuori della propria coscienza e responsabilità. Punto. Invece qui tutti dicono “ma in realtà è uscito senza che veramente decidessi….“. Il punto è che se le cose escono così, le scuse non esistono perché si può avere responsabilità solo di cose che ho fatto, deciso. Altrimenti non esiste scusa, si è persone che non governano atti e non decidono. Si deve allora stare zitti nella consapevolezza dello scarso controllo sulle proprie vite e azioni.

E questo piccolo ma interessante evento mediatico mi fa pensare al concetto di raptus nelle violenze contro le donne, la logica del raptus è la stessa: è accaduto, non è che veramente ho deciso, non sono riuscito a fermarmi, forse non ero io e non ero in me, è accaduta una cosa più forte di me….forse sono due persone…non so, non ricordo.

Ecco, già le cose nei social e nella vita reale delle violenze di genere cambierebbero se si avesse la consapevolezza piena che ogni atto delle nostre esistenze è sottoposto a decisione, questa si che si chiama responsabilità.

Avere e riconoscersi veramente una responsabilità ci rende umani, capaci di reale riconoscimento del danno inflitto e di reale contatto con emozioni di colpa e di vergogna, il resto è teatrino. Squallido ma favorito dal sistema digitale che spesso nasconde in un marasma mediatico il dito che sta premendo il grilletto.

Sarebbe bello ricominciare veramente a sbagliare, a comprenderlo, a comprendere che siamo stati noi, a scusarci o non scusarci, a tollerare il peso e le conseguenze dei nostri errori, ma da persone intere. Responsabili e umani, allora si, veramente.

 

Il post di scuse pubblicato su Facebook da Sharif Meghdoud:

Sharif Meghdoud - Post di scuse

Dal congresso EABCT: Judith Beck e la relazione terapeutica, Stefan Hofmann e l’integrazione con i processi e Paul Salkovskis custode dell’ortodossia.

La seconda giornata del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) ha visto entrare in campo tre figure prestigiose: Judith Beck, Stefan Hofmann e Paul Salkovskis, che hanno incarnato tre modi diversi di affrontare i problemi di crescita della psicoterapia cognitivo comportamentale e i suoi sviluppi.

 

Il senso di Judith per la relazione

Judith Beck prosegue il lavoro del padre biologico e fondatore della psicoterapia cognitiva Aaron T. Beck, proseguendo la sua missione di rispondere all’accusa che questa psicoterapia sia troppo tecnica e poco interessata agli aspetti relazionali. La presentazione espone gli aspetti tecnici della gestione della relazione, integrando l’eredità di Carl Rogers in quella di Beck. Ciò che conta nel lavoro di Judith Beck è che in lei la relazione rimane un mezzo importante di ingaggio e motivazione del paziente ma non è considerata un fattore specifico del cambiamento terapeutico: la Beck, beninteso, cita i dati sull’impatto dei fattori comuni, prevalentemente relazionali ma – a mio avviso correttamente- li considera fattori che assicurano la componente placebo –nel senso positivo del termine- del cambiamento su cui devono poi agire i fattori specifici corrispondenti sia a una teoria del funzionamento mentale che del cambiamento terapeutico che non sia solamente relazionale. Niente di nuovo ma è utile ribadirlo.

Stefan Hoffmann pericolosamente in bilico tra contenuti e processi

Stephen Hoffmann - EABCT 2018Il contributo di Stefan Hofmann è stato onestamente un po’ una delusione. Il compito che si era dato il relatore era di proporre un’integrazione tra vecchia terapia cognitiva focalizzata sui contenuti mentali e nuovi orientamenti che preferiscono lavorare sui processi. In realtà l’integrazione raggiunta da Hofmann è scarsa, perché nella sua proposta dei contenuti mentali è rimasto ben poco mentre i processi ormai prevalgono. Questo però non era la delusione maggiore, visto che questo sviluppo era abbastanza prevedibile: i due approcci sono poco compatibili tra loro e ogni integrazione porta in realtà alla prevalenza di uno dei due. Ciò che è stato più deludente è la forma che hanno assunto i processi nella visione di Hofmann. Una forma troppo onnicomprensiva che finiva per essere un eclettismo più descrittivo che davvero esplicativo, nel cui calderone finivano per entrare ogni sorta di processi. Nelle diapositive sono arrivato a contarne diciannove!

Per concludere infine Hofmann finiva per andare a cercare le radici evolutive del benessere psicologico, secondo un “modello dei modelli” a mio parere tanto generico quanto fin troppo ampio e ambizioso e, in fondo , con scarse ricadute pratiche. E infatti nelle esercitazioni –che consistevano nella stesura di una formulazione di un caso- tutto questa massa di saperi finiva per tramutarsi in un accumulo di nozioni nel quale c’era ben poco di nuovo.

Paul Salkovskis, il custode dell’ortodossia

Dopo queste due proposte innovative, entrambe un po’ deludenti in una maniera o nell’altra, il conservatorismo di Paul Salkovskis ha finito per sembrarmi una boccata di ossigeno, se non altro per la linearità e coerenza del progetto. Si tratta della vecchia terapia cognitiva per il disturbo ossessivo compulsivo, il lavoro di una vita di Paul Salkovskis. Certo, ci si chiede per quanto tempo il vecchio volpone britannico potrà andare avanti a raccontare la stessa storia come un Tolkien in un pub di Oxford che non si accorge di raccontare l’impresa dell’anello a un gruppo di gente che ha già letto il suo libro. Qualche insicurezza trapela, come quando Salkovskis sostiene che la terapia cognitiva è ancora la migliore se non altro perché -parafrasando Churchill- è la peggiore se si eccettuano tutte le altre. Sono riuscito perfino a filmare questo momento.

 

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Le capacità affabulatorie sono però intatte e il racconto funziona ancora, con perfino qualcosa di nuovo: uno studio che dimostra come la terapia cognitivo comportamentale sia superiore al trattamento solo comportamentale per gli ossessivi. Era un vecchio dubbio che aleggiava sull’orgoglio di Salkovskis. Intendiamoci: uno studio sia pure rigoroso non basta a fugarlo, però nemmeno si può negare che qualcosa nel carniere Salkovskis l’abbia messa.

EABCT 2018: un ritorno all’ordine?

In conclusione questo congresso è un po’ un ritorno all’ordine dopo le aperture dell’anno scorso ai veri processualisti, Steven Hayes e Adrian Wells. Un ritorno vissuto in maniera diversa: Hofmann ormai avviato a diventare una sorta di proconsole processualista di Hayes nelle vecchie provincie della terapia dei contenuti; Salkovskis impegnato a tenere fieramente fuori dai confini ogni contaminazione processualista difendendo la sua vecchia idea del disturbo ossessivo generato dal contenuto cognitivo della responsabilità eccessiva, inflated responsability. Dall’altra parte del fronte nella nostra tavola rotonda abbiamo portato avanti una versione più pura del processualismo incentrata sul nostro modello Life themes and plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment (LIBET) e su quello metacognitivo di Adrian Wells. Vedremo cosa accadrà l’anno prossimo a Berlino.

 

Il pensiero del giorno, dal team di State of Mind in missione al congresso:

EABCT 2018: La psicoterapia cognitivo comportamentale nel servizio pubblico inglese e sui supporti online

Nella prima giornata vera e propria del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) ho assistito alla sessione plenaria di Clark dedicata all’avventura dell’adozione della psicoterapia cognitivo comportamentale da parte del servizio sanitario pubblico inglese e al lungo workshop di Per Carlbring sull’erogazione della psicoterapia per via online e utilizzando la realtà virtuale.

 

La sessione plenaria di David Clark

EABCT 2018 - David Clark KeynoteLa plenaria di David Clark è stata un po’ il suo consueto racconto di come il governo inglese ormai più di un decennio fa abbia deciso che il servizio pubblico dovesse diffondere massicciamente il trattamento cognitivo per l’ansia e la depressione tra la popolazione britannica. Racconto consueto perché già narrato da almeno un paio di edizioni, ovvero da Stoccolma 2016 a cui rimandiamo per i dettagli. Sarebbe però ingiusto pensare che Clark abbia intonato ancora la stessa sonata. Ci sono ogni volta particolari nuovi.

Questa volta mi ha colpito il dato che fino a metà del decennio scorso c’era stata una costante diminuzione della fruizione di psicoterapia: dal 1987 al 2007 la percentuale di persone in trattamento psicoterapeutico passava dal 71% al 43% mentre quelli che usano farmaci passavano dal 37% al 75%. L’adozione della psicoterapia nel servizio pubblico è stata importante per invertire la tendenza.

Tra le altre notizie sparse che mi hanno colpito vi è come, nella descrizione del protocollo per l’ansia sociale, Clark  abbia rimarcato che l’esposizione non fosse intesa a promuovere l’abituazione comportamentale, non era organizzata per gradi gerarchici di gravità, non prevedesse auto-istruzioni o monitoraggi del livello d’ansia, né addestramento ad abilità sociali (social skills training) e documentazione dei pensieri (thought records). Insomma si privilegiava già allora la consapevolezza di una disfunzione all’addestramento ed era quindi più funzionalista e metacognitiva di quel che pensassimo. Io ci ho sentito la mano di Wells.

Altre informazioni sparse riguardavano gli effetti positivi dell’operazione politica di Clark sulla formazione (diecimila terapeuti addestrati dal 2008), l’erogazione di cinquecentomila trattamenti all’anno, la documentazione del 99% dei trattamenti (e non più del solo 38% come precedentemente), la remissione del 53% dei pazienti, il miglioramento del 68% e l’effetto sul benessere sociale della nazione.

Erogazione online della Psicoterapia e Realtà Virtuale (Per Carlbring)

Nel pomeriggio lo svedese Per Carlbring ci ha istruito sull’uso di tecniche di realtà virtuale e di erogazione online della psicoterapia, in particolare per le fobie specifiche (e ancora più in particolare quella dei ragni) e il buon uso di applicazioni online per fare psicoterapia.

Virtual reality for Spider Phobia – VIDEO –

La presentazione ha avuto una grande valore pratico di apprendimento, mentre tra i dati più significativi ci sono la sostanziale parità di risultato tra trattamenti online e di persona e una maggiore focalizzazione del trattamento online sugli aspetti operativi e pratici, mentre gli aspetti negativi erano una minore gratificazione del terapeuta e una minore enfasi sugli aspetti relazionali.

Un pensiero cattivo che non ha potuto fare a meno di comparire nella mente: la minore enfasi relazionale si accompagna a un’efficacia invariata ma a una minore soddisfazione personale del terapeuta. Vuoi vedere che alla relazione in fondo tiene più il terapeuta che il paziente? Ma è solo una provocazione basata su un dato isolato.

 


EABCT 2018 – L’aggiornamento quotidiano dal Direttore a Sofia:

Psicoterapia e interventi online: efficacia, alleanza terapeutica, orientamenti teorici e implicazioni etico-legali

E’ da secoli ormai che le telecomunicazioni e più recentemente l’informatica sono al servizio (e in alcuni casi al disservizio) dell’uomo; nel caso della psicoterapia online, è fondamentale decretare l’efficacia dell’intervento per considerare i new media un canale utilizzabile

Giulia Giannelli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La vastità della rivoluzione digitale sta apportando grossi cambiamenti anche nell’ambito dell’assistenza sanitaria. In particolare sono in aumento i dibattiti riguardo l’impatto dell’innovazione tecnologica ed informatica sui servizi di psicoterapia, valutazione e consulenza psicologica.

Negli anni il progresso tecnologico è avanzato velocemente e di conseguenza sono aumentate e migliorate le modalità in cui possono essere offerti i servizi sanitari online. Attualmente vengono utilizzati i termini “e-therapy” oppure “e-health” per fare riferimento ai servizi di assistenza sanitaria offerti tramite video-chiamate, e-mail, piattaforme o siti sui quali intraprendere percorsi di auto aiuto, consultare materiale psico-educativo e informativo. Ma quali potrebbero essere i benefici e i rischi di questo rivoluzionario approccio alla cura?

Psicoterapia on-line: opportunità e possibilità

Sicuramente i servizi online potrebbero avere un enorme potenziale nell’aumentare l’accessibilità all’assistenza psicologica. Di essi ne potrebbero usufruire anche persone con mobilità limitata, restrizioni temporali di vario genere, come chi vive in luoghi difficilmente raggiungibili, più isolati e/o in cui vi è una ristretta scelta di servizi; chi per lavoro ha una limitata disponibilità oraria oppure è costretto a viaggiare e a trasferirsi in paesi dove non consulterà un professionista della salute mentale a causa di barriere linguistiche; chi è fisicamente disabile e gli stessi caregiver. Inoltre, c’è chi ha paura di essere stigmatizzato in quanto fruitore di determinati servizi ma potrebbe provare meno vergogna nel chiedere aiuto in rete (Mitchell & Murphy, 1998 citati in Rochlen, Zach & Speyer, 2004). Ad esempio c’è anche chi trova più semplice esprimersi attraverso la scrittura e potrebbe sentirsi maggiormente incoraggiato a chiedere aiuto, sapendo dell’opportunità di poter ricevere una consulenza tramite email. Tra l’altro, tramite email, vi potrebbe essere una maggiore comprensione tra terapeuta e paziente e una più veloce interiorizzazione dei contenuti delle sedute da parte del paziente grazie alla possibilità di rivedere in qualsiasi momento quanto scritto. Un altro target di pazienti, che potrebbe essere più facilmente agganciato grazie ai servizi di e-health, è quello degli adolescenti che si isolano e che non vogliono andare più a scuola. Infine potrebbero trarre beneficio da tali servizi anche i pazienti in lista d’attesa, che difficilmente possono iniziare azioni costruttive senza un aiuto professionale (Cuijpers, Van Straten & Andersson, 2008 citati in Apolinario-Hagen & Tasseit, 2015). O a chi è semplicemente indeciso o poco motivato nell’intraprendere una terapia potrebbe risultare meno faticoso provarci prima online (Gupta & Agrawal, 2012; Heinlen, Welfel, Richmond & Rak, 2003b; Postel, Hein, Elke, Eni & Cor, citati in Hrivnak, Coble & Byrd, 2015).

Psicoterapia on-line: difficoltà

Invece una delle prime difficoltà che si potrebbero riscontrare consiste nel fatto che non tutti i pazienti potrebbero essere dei candidati ideali per usufruire di questi tipi di servizi.

Un modo per gestire questo punto a sfavore potrebbe essere quello di fare un attenta valutazione dei pazienti e di lavorare solo con coloro che saranno nelle condizioni di beneficiare del servizio (Suler et al., 2001, citato in Rochlen et al., 2004). Sarebbe comunque raccomandabile incontrare il paziente di persona almeno una volta (Doverspike, 2009, citato in Hrivnak et al., 2015). Il linguaggio del corpo e i segnali non verbali sono assenti nello scambio di email e poco disponibili durante le videochiamate, ciò potrebbe portare a più alti tassi di incomprensione o difficoltà di comunicazione (Gupta et al. 2012, citato in Hrivnak et al., 2015).

La consulenza tramite e-mail è asincrona, quindi non è ideale in situazioni di emergenza. Oltretutto i vari dispositivi di comunicazione potrebbero funzionare male da un momento all’altro per vari motivi. Problemi e sintomatologie potenzialmente più adatte per tali tipi di intervento comprendono la crescita e la realizzazione personale, i disturbi d’ansia come agorafobia e fobia sociale. Invece sarebbe sconsigliato proporre questi servizi a chi presenta rischio auto ed eterolesivo (come nei casi di depressione grave, tossicodipendenze, alcolismo) o disturbo di personalità borderline (Stoffle, 2001, citato in Rochlen et al., 2004). Inoltre può sembrare banale ma in realtà è di importanza fondamentale per usufruire al meglio di tali servizi, essere abili nell’utilizzo del computer, avere una buona connessione ad internet e avere la disponibilità di un luogo tranquillo e riservato, lontano da occhi e orecchie indiscrete. Tutto ciò va chiarito con il paziente. Soprattutto per quanto riguarda gli interventi svolti per email, bisognerebbe fare attenzione nel trovare un modo per verificare le identità di paziente e terapeuta in quanto potrebbe accadere che un utente esterno riesca ad acquisire le informazioni di contatto e assumerne le identità.

Un altra difficoltà consiste nel fatto che la tecnologia si sviluppa ad un ritmo più veloce e con più facilità rispetto alle leggi (Doverspike, 2009, citato in Hrivnak et al., 2015). Infatti si è posta anche la questione di come gestire quelle situazioni in cui il terapeuta offre un servizio di e-therapy ad un paziente che si trova in un altro Stato. Alcuni esperti in diritto hanno cercato di capire se si dovrebbero applicare le leggi dello stato in cui il professionista può praticare o le leggi dello stato in cui si trova il paziente (Rummell & Joyce, 2010 citati in Hrivnak at al., 2015). Compresa in questa problematica è la validità dell’assicurazione. In genere, l’assicurazione è valida solo entro i limiti del territorio in cui il professionista è abilitato ad esercitare (Mallen,Vogel & Rochlen, 2005, citato in Hrivnak et al., 2015). Ciò potrebbe comportare ad esempio che i pazienti non possano chiedere il rimborso da eventuali danni.

Psicoterapia on-line: efficacia

Ma aldilà dei pro e dei contro riscontrati nell’ultimo ventennio, nella letteratura più recente quali differenze emergono tra i servizi di psicoterapia online e quelli offerti faccia a faccia in termini di efficacia e alleanza terapeutica?

In una ricerca di Hallgren e colleghi (2015) la terapia cognitivo-comportamentale online (iCBT) ha ricevuto una grande prova di efficacia. I ricercatori avevano confrontato l’efficacia di tre tipi di intervento per la depressione lieve e moderata: l’esercizio fisico, la terapia cognitivo comportamentale online (iCBT) e il trattamento usuale che consiste in sedute di counselling in cui vengono utilizzate tecniche cognitivo comportamentali dal medico di base (TAU). Prescrivere l’ esercizio fisico è stato proposto da molti come un trattamento alternativo efficace per la depressione, e in letteratura è stata dimostrata la sua efficacia (Rethorst, Wipfli & Landers, 2009; Rimer et al., 2012 citati in Hallgren et al., 2015). La terapia cognitivo comportamentale invece è il primo trattamento consigliato dalle linee guida per la pratica clinica nella cura della depressione e ha ricevuto un forte supporto empirico (Cuijpers, Straten & Andersson, 2008, citato in Hallgren et al., 2015).

Lo studio di Hallgren e colleghi è stato svolto in Svezia su un campione di 946 pazienti dai 18 anni in su. In tale ricerca l’ iCBT era offerta in moduli di un manuale di auto aiuto consultabili dai pazienti su un sito web apposito. I moduli si focalizzavano ognuno su diversi sintomi della depressione ed erano costituiti da parti di testo, immagini e video. Uno di questi moduli era stato personalizzato in base alle difficoltà riportate da ciascun paziente le quali erano emerse da interviste precedenti condotte dai ricercatori. I partecipanti almeno alla fine di ogni modulo ricevevano dei feedback da parte di uno psicologo assegnato e potevano contattare quest’ultimo nel caso di bisogno di un aiuto aggiuntivo.

Gli studiosi avevano riscontrato miglioramenti significativi in tutti e tre gli interventi a tre mesi di distanza ma ancor di più in seguito all’intervento basato sull’esercizio fisico e alla psicoterapia online. Nella ricerca questi due tipi di intervento hanno ottenuto risultati molto simili. I ricercatori non hanno rilevato differenze significative in base all’età o al sesso, nonostante i pazienti più giovani (18-34 anni) sembrassero più favorevoli alla psicoterapia online e le donne in media avessero effettuato più accessi al sito rispetto agli uomini. Gli studiosi avevano individuato un maggior numero di drop out tra i partecipanti che avevano ricevuto il trattamento usuale, i quali infatti hanno riportato di essere rimasti insoddisfatti del tipo di intervento in quanto avevano reputato che fosse poco pratico e interferisse con i loro impegni. Tuttavia questo studio, come ogni altro studio, presenta dei punti di forza e di debolezza, messi in chiaro dagli stessi ricercatori. I punti di forza, individuati dagli stessi ricercatori, sono l’ampiezza del campione e il tipo di disegno di ricerca utilizzato: in particolare l’assegnazione casuale e a distanza dei pazienti alle tre condizioni, la valutazione post intervento da parte di ricercatori che erano all’oscuro dell’assegnazione alle tre diverse condizioni e l’inclusione nel campione di pazienti in trattamento farmacologico (ciò rendeva meno “puro” l’effetto degli interventi ma ne aumentava la validità esterna). Mentre per quanto riguarda i punti di debolezza, Hallgren e colleghi hanno ipotizzato che la diversa frequenza degli incontri tra i tre interventi potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale sugli esiti. Infatti i trattamenti erano tutti della durata complessiva di 12 settimane ma il TAU prevedeva una sola seduta di counselling settimanale, mentre nell’intervento basato sull’esercizio fisico erano previsti tre incontri settimanali e durante l’intervento online i partecipanti potevano accedere al sito quante volte lo desideravano. Inoltre nell’intervento basato sull’esercizio fisico e nell’iCBT i partecipanti potrebbero essere stati maggiormente coinvolti dai ricercatori. Se i pazienti non accedevano al sito o non si presentavano in palestra per una settimana o più venivano ricontattati nel primo caso dallo psicologo assegnato e nel secondo caso dal trainer e venivano incoraggiati a continuare. Infine nell’intervento basato sull’esercizio fisico potrebbe aver influito sugli esiti positivi anche l’ aver favorito la socializzazione, in quanto i partecipanti svolgevano gli incontri in gruppo.

Al contrario in uno studio di Victor e colleghi (2018) l’intervento faccia a faccia ha ottenuto risultati significativamente migliori rispetto alla psicoterapia online. I ricercatori hanno confrontato i risultati ottenuti tra l’intervento cognitivo-comportamentale faccia a faccia, quello online e le liste d’attesa. Essi hanno paragonato gli interventi in base a determinati indici ovvero sia in base agli esiti ottenuti su sintomi psicopatologici quali depressione e ansia sociale sia in base agli esiti ottenuti su resilienza, qualità di vita e alleanza terapeutica in un campione di 94 studenti della Witten/Herdecke University in Germania i quali riportavano problematiche di stress psicosociale.

Nell’intervento di psicoterapia online gli studiosi hanno applicato un protocollo basato sul Modello Personale di Resilienza (PMR). Vi sono prove che la CBT basata sui punti di forza del paziente (ovvero sul PMR) dia maggiori risultati rispetto al protocollo CBT “tradizionale” per quanto riguarda l’ ansia sociale (Willutzki, Teismann & Schulte, 2012, citato in Victor et al., 2018), ma non la depressione (Teissman, Dymel, Schulte & Willutzki, 2011, citati in Victor et al., 2018). In Psicologia, la resilienza viene definita come “la capacità di far fronte e adattarsi di fronte alle avversità e/o di “rimbalzare” indietro e ripristinare un funzionamento positivo”. Nei primi studi su tale modello, esso si è dimostrato utile per gli studenti in attesa di una terapia (Victor, Teismann & Willutzki, 2016, citato in Victor et al., 2018) o di una consulenza (Victor, Teismann & Willutzk 2017, citati in Victor et al., 2018), in tal caso era stato utilizzato in tre sedute sia di gruppo sia individuali.

Invece nella ricerca di Victor e colleghi l’intervento online è stato condotto tramite la piattaforma Minddistrict in tre sessioni individuali suddivise in quattro fasi. I ricercatori avevano cercato di rendere più flessibile l’intervento prevedendo sia una modalità di comunicazione asincrona ovvero scambio di messaggi di testo sia una modalità di comunicazione sincrona come chiamate telefoniche e video-chiamate tra paziente e terapeuta (Baumeister, Reichler, Munzinger & Lin, 2014, citati in Victor et al., 2018). Gli studiosi hanno scelto un intervento guidato per favorire l’impegno dei partecipanti e hanno previsto anche il supporto dei counselor tramite feedback scritti almeno al termine di ogni sessione per aumentare l’efficienza del trattamento rispetto ad un trattamento senza interazioni (Richards, Timulak, Rashleigh, McLoughlin & Colla, 2016; Lancee, Sorbi & Van Straten, 2013; Farrer, Christensen, Griffiths & Mackinnon, 2011, citati in Victor et al., 2018). Comunque i ricercatori hanno riscontrato un cambiamento qualitativo della vita significativamente superiore sia nel gruppo iCBT sia in quello FTF-CBT (faccia a faccia) rispetto alla lista d’attesa.

Contrariamente alle meta-analisi dalle quali è emerso che l’intervento CBT computerizzato è vantaggioso come quello faccia a faccia (Andrews, Cuijpers, Craske, Mc Evoy & Titov, 2010, citati in Victor et. al. 2018), lo studio di Victor e colleghi ha riscontrato ulteriori tendenze, l’intervento di psicoterapia online non è risultato così ben accetto e vantaggioso rispetto a quello faccia a faccia. In secondo luogo i ricercatori hanno riscontrato anche un maggior tasso di drop out nella CBT online. Gli studiosi hanno ipotizzato che l’ intervento online non abbia funzionato così come in altri studi a causa della modalità di comunicazione asincrona (De Bruin & Meijer, 2017, citati in Victor et al., 2018) ovvero hanno riportato che nella FTF-CBT veniva dato un feedback immediato sulle strategie di coping rispetto alla iCBT in cui ci potevano essere dei ritardi nell’inviare i feedback e ciò potrebbe aver influito sul beneficio tratto dai partecipanti. Inoltre, i ricercatori hanno ipotizzato che i risultati potessero essere dovuti anche al fatto che alcuni dei partecipanti del gruppo i-CBT avessero chiesto di essere inseriti nel gruppo di intervento FTF-CBT e sembravano essere delusi e poco motivati per tal motivo dopo l’assegnazione. Inoltre gli studiosi hanno riscontrato che la ricerca su interventi online sia stata condotta principalmente non su interventi brevi come in questo studio e hanno dedotto che sia probabile si debbano svolgere più sessioni per ottenere maggiori risultati. Infine dallo studio di Victor e colleghi è emerso anche che nonostante l’alleanza terapeutica fosse migliorata significativamente nel corso del tempo in entrambi i gruppi, rimanesse comunque una differenza significativa tra gli interventi. I ricercatori hanno ipotizzato che ciò potrebbe aver influito sugli esiti raggiunti, dato che anche il setting può avere un ruolo sull’instaurarsi dell’alleanza di lavoro tra terapeuta e paziente.

Psicoterapia on-line: alleanza terapeutica

Sull’alleanza terapeutica purtroppo è stato svolto un numero relativamente piccolo di ricerche per quanto riguarda gli interventi online, quindi se ne sa poco (Andersson et al., 2012b, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Per esempio, è stata riscontrata un’alleanza terapeutica positiva e stabile in vari studi in cui veniva applicata la CBT online per il trattamento del disturbo da stress post traumatico (Knaevelsrud & Maercker, 2007; Knaelvesrud et al., 2014; Wagner, Brand, Schulz & Knaevelsrud, 2012, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Inoltre, in una ricerca sul trattamento della depressione, non è stata trovata alcuna differenza significativa nella percezione dell’alleanza terapeutica tra i pazienti che avevano ricevuto una terapia faccia a faccia e quelli che avevano ricevuto una psicoterapia online (Preschl, Maercker & Wagner, 2011, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Tra l’altro, in un altro studio sul trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia, Andersson e colleghi (2012b, citati in Apolinario-Hagen et al.,2015) non hanno trovato alcuna correlazione significativa tra la qualità dell’alleanza di lavoro terapeutico e i risultati del trattamento, che sembra essere insolito per la ricerca in un setting psicoterapeutico. Essi hanno concluso, in base a loro studi precedenti, che l’alleanza terapeutica nelle terapie online, rispetto a quanto avviene nelle terapie faccia a faccia, potrebbe giocare un ruolo secondario sugli esiti terapeutici. In una ricerca sul trattamento dell’acufene, Jasper e colleghi (2014, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) hanno riscontrato una buona alleanza terapeutica sia nel gruppo iCBT che nel gruppo CBT faccia a faccia. Tuttavia, i pazienti che avevano ricevuto il trattamento faccia a faccia, hanno percepito come più forte l’alleanza instaurata con il terapeuta rispetto a quella percepita dai pazienti dell’ iCBT. Inoltre, i pazienti del gruppo iCBT hanno avuto bisogno di molto più tempo per costruire una forte relazione terapeutica. A tal proposito, una meta-analisi (Spek et al. 2007b, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) ha fornito prove sull’importanza del supporto del terapeuta in particolare nel trattamento online della depressione e dei disturbi d’ansia. Infatti è stato riscontrato che i trattamenti guidati riducono significativamente i sintomi della depressione al contrario di terapie online non guidate.

Psicoterapia on-line: incide anche l’approccio?

Dopo aver riportato ricerche in cui si è studiata solo l’applicazione delle tecniche cognitivo-comportamentali sugli interventi di psicoterapia online, sorge spontanea la domanda: vi sono studi in cui si è fatto riferimento ad orientamenti teorici diversi?

A tal proposito in una revisione della letteratura (Apolinario-Hagen et al., 2015) si è riscontrato che la maggior parte degli interventi online si basano sui principi della CBT, sebbene di recente siano stati sviluppati trattamenti online con orientamento psicodinamico. Gli interventi di e-mental health hanno come target pazienti per lo più adulti affetti da disturbi dell’umore e da ansia (Lal & Adair, 2014, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Questo è motivato dal fatto che sono stati ottenuti significativi effetti terapeutici positivi applicando la CBT agli interventi online (Arnberg, Linton, Hultcrantz, Heintz & Jonsson, 2014; Barak, Hen, Boniel-Nissim & Shapira, 2008; Bee et al., 2008; Hedman, Ljótsson & Lindefors, 2012, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015).

Tuttavia allo stesso modo della CBT anche la psicoterapia psicodinamica (PDT) è risultata essere un orientamento efficace per il trattamento della depressione maggiore. Alla luce di ciò è stato sviluppato un intervento online basato sui principi della psicoterapia psicodinamica. Johansson e colleghi (2012, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) hanno studiato l’efficacia dell’IPDT sulla depressione tramite uno studio di tipo randommizzato controllato condotto in Svezia. I ricercatori hanno riscontrato che appena più della maggior parte dei pazienti che avevano ricevuto il trattamento era migliorata. L’IPDT è stato applicato anche al trattamento dei disturbi d’ansia. In uno studio sul trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, Andersson e colleghi hanno confrontato tra gli esiti terapeutici ottenuti tramite IPDT, ICBT e la lista di attesa. Gli studiosi hanno rilevato che entrambi gli interventi alleviano significativamente i sintomi, anche se con dimensioni di effetto moderate. Comunque vi è un ristretto numero di studi che attestano l’efficacia della IPDT. Per tal motivo, fornire alternative all’ICBT appare importante, poiché le preferenze dei pazienti per un particolare orientamento terapeutico potrebbero avere un influenza anche sugli esiti degli interventi online (Johansson, Nyblom, Carlbring, Cuijpers & Andersson 2013, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015).

Psicoterapia on-line: cosa rimane da capire

In conclusione gli interventi di psicoterapia online, in particolar modo quelli in cui si è utilizzata la terapia cognitivo comportamentale, hanno ottenuto prove di efficacia in vari studi. Andrebbero svolte più ricerche in cui si utilizzano anche altri orientamenti teorici per offrire delle valide alternative ai pazienti. Altro fattore da indagare sarebbe il ruolo dell’alleanza terapeutica in questi interventi. Approfondimenti in merito sarebbero di centrale importanza in quanto buona parte del lavoro psicoterapeutico faccia a faccia si fonda sull’alleanza terapeutica e quindi sulle teorie dell’attaccamento (Bowlby, 2008/1988, citato in Apolinario-Hagen et al., 2015). Inoltre, è emerso un dato molto importante ovvero che questi tipi di servizi aumentano relativamente l’accessibilità all’assistenza psicologica. Infatti l’aumentata possibilità di accedere riguarda solo alcuni target di pazienti come spiegato precedentemente. Quindi i servizi di cura online non sono affatto uno strumento “democratico”, ovvero alla portata di tutti. Aldilà del tipo di disturbo presentato e dalla sua gravità, potrebbero essere facilitati nel loro utilizzo solo alcuni pazienti con determinate caratteristiche socio-culturali come i giovani con alto livello di istruzione (Borzekowski et al., 2009, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) . Nonostante ciò questi servizi potrebbero comunque colmare alcune lacune dell’assistenza psicologica tradizionale, soprattutto potrebbero costituire un modo per ovviare alle lunghe liste d’attesa dei servizi pubblici ed evitare il peggioramento di alcune prognosi. D’altro canto la diffusione di questi servizi potrebbe portare anche alla riduzione degli sforzi per migliorare la qualità o il finanziamento di trattamenti convenzionali, all’aumento di interessi finanziari di ricercatori e sviluppatori (bias di pubblicazione), ad un utilizzo posticipato delle terapie convenzionali, cattive relazioni terapeutiche, uso inappropriato o addirittura a trattamenti dannosi (Lal et al., 2014, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Infatti da alcune indagini di Heinlen e colleghi (2003a, citati in Hrivnak et al., 2015) è emerso che nella maggior parte dei servizi online veniva meno la conformità ad alcuni principi etici e legali della professione tra cui la trasparenza ovvero completezza nell’informazione e la riservatezza.

Infine sarebbe auspicabile un miglioramento di questi servizi, viste alcune importanti barriere che riescono ad abbattere, ma non vi sono ancora prove che possano essere preferibili ai servizi faccia a faccia; anzi la maggiore efficacia degli interventi online guidati, riscontrata da alcuni studi (Victor et al., 2018), potrebbe essere ancora un importante conferma della centralità della relazione come strumento di cura in psicoterapia.

Come funziona la psicoterapia (2016) di Joseph Weiss – Recensione del libro

Come funziona la psicoterapia di Joseph Weiss è un testo coraggioso e sovversivo, in grado di costruire ponti tra orientamenti diversi rinnovando la cornice psicoanalitica dall’interno, in un confronto tenace con le formulazioni della prima teoria freudiana.

 

La presentazione all’edizione italiana porta la firma del compianto Giovanni Liotti, scelta significativa che denota l’abilità di Weiss di far dialogare in modo fluido e senza forzature cognitivismo e psicoanalisi, teoria dell’attaccamento ed orientamento strategico.

Come funziona la psicoterapia secondo Joseph Weiss

Quello presentato nel libro Come funziona la psicoterapia è un modello teorico intriso di pratica clinica, corredato da numerose trascrizioni di casi e con una sezione dedicata alla ricerca svolta dal Mount Zion Group. La scrittura di Joseph Weiss riesce con convinzione a smuovere il linguaggio della psicoanalisi talvolta succube di un timore reverenziale verso “i padri” (angoscia di castrazione?) che ostacola il dialogo con la contemporaneità. Il risultato è un testo godibile dalla forma divulgativa e dal contenuto tecnico.

La teoria si delinea sul campo, rappresenta la disposizione ordinata di un insieme di osservazioni corroborate dai dati empirici raccolti negli anni. La psicopatologia, per Joseph Weiss, avrebbe origine da un insieme di credenze patogene che ostacolano il conseguimento di obiettivi positivi per la vita della persona ma che vengono percepiti come pericolosi o minacciosi. Come durante la visione di un’opera teatrale o cinematografica il pianto si esprime solo nel “lieto fine”, quando cioè le condizioni di maggiore drammaticità risultano in realtà superate e le difese possono allentarsi, così nella psicoterapia il paziente può permettersi di risperimentare emozioni dolorose a patto che le condizioni di sicurezza nella stanza della terapia siano soddisfatte, complici il setting ed il comportamento del terapeuta. Siamo dunque lontani dalla neutralità aprioristica dell’analista raccomandata dalla prima teoria freudiana, finalizzata a ‘non creare dipendenza gratificando il paziente’, e vicini piuttosto ad un atteggiamento anche caldo e rassicurante se necessario, poiché costantemente tarato sui piani e gli obiettivi (inconsci) del singolo.

(…) il processo terapeutico è il processo attraverso il quale il paziente, con l’aiuto del terapeuta, lavora per disconfermare le sue credenze patogene (p.30)

Come funziona la psicoterapia: l’inconscio

Alla luce della “ipotesi del funzionamento mentale superiore” all’inconscio vengono tributati in parte i poteri della vita cosciente, per cui la persona stessa risulta in possesso di un piano di cura in grado di imprimere una spinta al soggetto per la disconferma di quelle credenze alle quali si ritrova inevitabilmente legato. L’inconscio nella formulazione di Joseph Weiss non contempla pulsioni, istinti e resistenze, aderendo in buona parte alle idee sviluppate dalla Psicologia dell’Io, raramente tradotte in un sapere tecnico.

Il movimento della terapia si esprime in una danza permanente dove si alternano il desiderio di liberarsi dalla prigionia delle credenze patogene ed il timore di abbandonare quel sapere, nocivo ma necessario, mediante il quale la persona ha costruito il modo di vedere sé e gli altri. La formazione di tali credenze ci riporta alla qualità della relazione con le figure di riferimento nella prima infanzia, quando il bambino conosce sé nel rapporto con l’altro motivato ad adattarsi al mondo, in primis a quello interpersonale. In accordo con Stern e Bowlby, la necessità del bambino di garantirsi una relazione stabile e continuativa con un adulto che offra protezione può comportare l’auto-attribuzione di ogni responsabilità del comportamento del genitore, per poter sopravvivere e salvaguardare l’autorità del caregiver.

La partita si gioca in un campo mai neutrale ma fortemente orientato a far emergere la spinta “curativa” del piano inconscio del paziente, che si esprime nella messa alla prova del terapeuta. Allo specialista è chiesto uno sforzo interpretativo nella capacità di cogliere, dietro i test che la persona gli pone, le sue reali motivazioni. Il paziente agisce per confermare le aspettative a lui note, pur patogene, sperando però in cuor proprio di vederle disconfermate. È il superamento dei test, nel tempo del qui ed ora della terapia, a comportare uno “sblocco” di insight spontanei che realizzano, in ultima analisi, il lavoro di cura. L’utilità delle interpretazioni analitiche viene fortemente ridimensionata e si definisce nella misura in cui si accordano con il piano del paziente. Non è quindi la mera parola a curare, non sono le spiegazioni ad imprimere il cambiamento: terapeutica è l’esperienza che il paziente fa all’interno della relazione col terapeuta in un contesto di sicurezza. Le credenze patogene non sono “corrette” dall’esterno, implementate o ristrutturate ma vengono piuttosto riconosciute nel loro manifestarsi dal paziente stesso che in prima persona potrà allontanarsene per abbracciare una visione più ampia del proprio funzionamento, dove quelle stesse credenze potranno trovare una nuova collocazione una volta depotenziate alla luce della comprensione del ruolo che esse hanno svolto.

Come funziona la psicoterapia: è fondamentale che il terapeuta stia a contatto con le sue reazioni

Joseph Weiss nel suo libro Come funziona la psicoterapia chiarisce quindi che il paziente è portatore del suo piano di cura ed al terapeuta spetta il difficile compito di ravvisarlo, attraverso i test e gli agiti, per andargli incontro contribuendo a lasciarlo emergere. La psicoterapia sembra assumere i connotati di un’arte maieutica piuttosto che didattica, che esprime il suo potere curativo nel supporto al piano del paziente che desidera (inconsciamente) superare quelle credenze ferree.

Questo viaggio che è un “andare verso l’altro” è affrontabile a patto che gli attori siano due, che il percorso si disegni insieme nel suo stesso prendere forma; è un appello, quello del libro Come funziona la psicoterapia, dunque, anche alla piena responsabilità del terapeuta nel non chiamarsi fuori ma nel tirarsi pienamente dentro la scena. In ultima analisi, Weiss suggerisce che l’unico criterio per valutare l’andamento della terapia, l’errore terapeutico o il corretto superamento di un test posto dal paziente è la capacità di “sentir-si” del terapeuta, servendosi delle proprie reazioni affettive, la sola bussola in grado di orientare il percorso.

Le spiegazioni dei test di transfert e del rivolgimento da passivo in attivo ritengo siano delle pietre miliari per l’invidiabile capacità di descrivere con estrema chiarezza elementi che possono essere incorporati facilmente nella professione. La teoria proposta da Joseph Weiss costituisce una mappa aperta intuitiva e flessibile, caratteristiche agognate da ogni modello realmente orientato alla cura.

Fai bei sogni (2016) di Marco Bellocchio – Recensione del film

Fai bei sogni è il film di Marco Bellocchio uscito nel 2016 che vede protagonista un drammatico Valerio Mastrandrea ed è tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini.

 

Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più.(…) quando un sentimento ricambiato cessa di esserlo, si interrompe brutalmente il flusso di un’energia condivisa. Chi è stato abbandonato si considera assaggiato e sputato come una caramella cattiva. Colpevole di qualcosa d’indefinito.

La storia è quella di Massimo, prima bambino, poi giovane e adulto. Massimo è orfano di madre, una madre giovane, bella e gioiosa, ma che muore di colpo. Massimo farà i conti a 50 anni con questo immenso punto interrogativo, questa perdita inaspettata, che gli compromette vita e rapporti sociali.

Fai bei sogni: un percorso di (non) elaborazione del lutto

Il libro/film Fai bei sogni è un percorso interiore in cui l’autore, scrivendo, fa un’analisi di sé stesso.

La storia evidenzia come sia importante sciogliere i traumi nell’età formativa. In maniera celata e subliminare gira tutto intorno al rapporto con le madri o meglio, al desiderio inconscio di essere accudito di Massimo; essere accudito per ricevere tenerezze mancate e per colmare un senso di vuoto. Ci sono nodi da sciogliere e una verità non detta, che compromette l’elaborazione del lutto.

Il processo di elaborazione del lutto viene è suddiviso in quattro fasi:

1) Negazione

2) Rabbia

3) Depressione

4) Accettazione

Nella prima fase il soggetto manifesta uno stato di calma apparente determinata dalla negazione della realtà, reprime le emozioni; ad un certo punto comincerà a sentire il distacco e l’assenza che lo porteranno alla consapevolezza della perdita e quindi alla fase determinata dalla rabbia.

In questa seconda fase subentra quindi la collera per l’abbandono subito; la rabbia è l’emozione prevalente ed è fondamentale per la ristrutturazione emotiva della persona che ha subito la perdita.

Nella terza fase, sopraggiunge uno stato depressivo, in cui il soggetto si sente svuotato e senza più confini.

L’ultima fase è quella dell’accettazione, in cui si prende atto di qualcosa che non si può modificare, che non si può far altro che accettare.

Fai bei sogni: il lutto per un bambino

L’elaborazione del lutto è difficile nell’adulto, lo è ancor più nel bambino che oltre a dover affrontare queste delicate fasi, lo fa con strumenti ancora immaturi. Come affrontare la perdita di un legame fondamentale allo sviluppo degli strumenti evolutivi necessari all’elaborazione della sua stessa perdita? Se non si è avuto il periodo di accudimento, se non abbiamo avuto il tempo delle carezze e di formare una personalità solida grazie al genitore, come si può metabolizzare il processo?

Non è semplice stabilire il confine tra il dolore “normale” e quello traumatico in quanto questi due processi sono connessi tra loro. Quello che li differenzia dipende da diverse circostanze interne ed esterne.

Tra le circostanze esterne:

  • Il modo in cui la morte è avvenuta
  • Quale tipo di conoscenza ha il bambino rispetto ad essa
  • Se il bambino ha assistito alla morte
  • Il modo in cui gli/le è stata comunicata la notizia
  • La qualità del supporto ricevuto dal piccolo da parte degli adulti

Tra le circostanze interne ci sono:

Lutto nel bambino: come supportarlo

E’ necessario non sottovalutare il dolore del bambino, che per quanto possa essere manifestato in maniera differente da quello dell’adulto, è forte a va sostenuto. L’età del bambino incide sul livello di comprensione della morte, pertanto anche le reazioni potranno essere differenti. Quando in famiglia avviene qualcosa di così traumatico come una morte è impossibile nascondere la realtà o posticipare la sua comunicazione.

Il bambino capisce subito cosa sta succedendo da tutta una serie di segnali:

  • l’espressione del volto dei genitori
  • i cambiamenti nelle abitudini quotidiane della famiglia (dal parlare a bassa voce o interrompersi in loro presenza)
  • l’emotività elevata che costantemente ed inevitabilmente emerge.

E’ importante comunicare la notizia seguendo i seguenti accorgimenti:

  • Utilizzare un linguaggio semplice e comprensibile per il bambino
  • Spiegare anche più volte i fatti
  • Non utilizzare metafore o bugie rispetto all’accaduto nel tentativo di rendere la comunicazione meno dolorosa
  • Usare un linguaggio del corpo in linea con la notizia

L’adulto deve comunicare al bambino tre informazioni fondamentali:

  • Il genitore morto non starà mai più con il bambino
  • Non aveva intenzione di abbandonarlo e lasciarlo solo
  • Non tornerà mai più

Le domande più frequenti da parte dei piccoli riguardano il perché si muore, dove vanno le persone dopo che sono morte, se torneranno, se possono andare a trovarle, se succederà anche a loro, perché è successo.

E’ importante essere sinceri col bambino, dicendo ad esempio che tutti si fanno questo tipo di domande ma che non esiste una risposta, ci sono cose nella vita che non si possono controllare e la morte è una di queste. A seconda delle convinzioni religiose della famiglia si può dire che loro trovano risposta in quello che indica il loro credo. Soprattutto è importante specificare al bambino che niente di quello che ha potuto fare o pensare ha avuto un ruolo nella morte, né avrebbe potuto evitarla.

La verità, elemento chiave nel film Fai bei sogni, elemento chiave per Massimo Gramellini e di certo tantissimi altri bambini come lui, è fondamentale quindi per la corretta metabolizzazione dell’evento.

 

FAI BEI SOGNI – IL TRAILER DEL FILM:

Pet therapy e ADHD: quando la vicinanza di un animale domestico può avere effetti benefici

Una nuova ricerca rileva che la pet therapy (ovvero la terapia che sfrutta benefici dell’interazione tra individuo e animale) aiuta a ridurre i sintomi del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini.

 

La vicinanza ad un animale può avere effetti benefici su bambini con ADHD. A dimostrarlo sono stati i ricercatori dell’University of California Irvine (UCI) con uno studio che rappresenta il primo trial randomizzato sull’argomento.

Pet therapy e ADHD: la ricerca

La ricerca, condotta da Sabrina E.B. Schuck, Ph.D., ha coinvolto bambini dai 7 e 9 di anni età con diagnosi di ADHD che non avevano mai assunto farmaci.

I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: il primo gruppo è stato sottoposto a psicoterapia, mentre il secondo ha seguito un percorso psicologico che, accanto ad interventi psicoterapici, prevedeva pet therapy con la presenza di cani certificati per l’assistenza.

Ciò che è emerso dai risultati, è stato che il gruppo di bambini con ADHD che avevano ricevuto le attenzioni degli animali in combinazione ad interventi psicologici, avevano ottenuto significativi benefici in tempi più brevi rispetto al gruppo di controllo che aveva usufruito solo della psicoterapia, riscontrando una riduzione della disattenzione e un miglioramento delle abilità sociali.

Solamente con le sedute psicoterapiche i sintomi hanno avuto un miglioramento in 12 settimane, mentre i ricercatori hanno dimostrato che gli interventi di pet therapy hanno accelerato i tempi rispetto alla terapia tradizionale. L’associazione di terapia psicoterapica e pet therapy ha portato un miglioramento dei sintomi dei bambini in 8 settimane.

I primi ad accorgersi dei benefici che vengono procurati ai bambini con la pet therapy, sono stati i genitori .

La nostra scoperta che i cani rendono più efficace la psicoterapia e aiutano a migliorare la concentrazione è molto significativa – ha detto Schuck.

Grazie a questo studio le famiglie ora hanno terapie alternative o aggiuntive ai trattamenti farmacologici per l’ADHD.

L’uso dell’immaginazione per trattare i ricordi traumatici: work-shop pre-congressuale di Arnoud Arntz al 48esimo congresso EABCT

Partecipo al workshop pre-congressuale “Imagery rescripting as a method to change emotional memories and schemas” tenuto da Arnoud Arntz a Sofia in Bulgaria, in occasione del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT).

Arnoud Arntz è noto soprattutto per il suo lavoro di sviluppo con la Schema Therapy, ma è coinvolto anche nello sviluppo di un protocollo di “Imagery Rescripting” (vedi: imagery – NdR) che potremmo tradurre con “Riscrittura immaginativa”. Si tratta di una procedura di ristrutturazione di uno script, un copione cognitivo, emotivo ed esperienziale che alimenta alcuni disturbi, tra i quali Arntz cita il disturbo post traumatico da stress, gli incubi, la fobia specifica, l’ansia sociale, la depressione, i disturbi alimentari e i disturbi di personalità.

La riscrittura immaginativa non è necessariamente un trattamento a sé ma può appartenere al pacchetto operativo di un altro trattamento, ad esempio la Schema Therapy, la terapia cognitivo comportamentale, ma può essere una terapia completa e specifica per alcuni disturbi, che sono il disturbo post traumatico da stress e per gli incubi.

Imagery rescripting as a method to change emotional memories and schemas - Workshop Precongressuale EABCT 2018 Arntz
Arnoud Arntz: Imagery rescripting as a method to change emotional memories and schemas – Workshop Precongressuale EABCT 2018

Imagery Rescripting: il protocollo

Il protocollo è semplice e si divide in tre passi:

1 Il paziente immagina il ricordo nel ruolo di se stesso bambino

2 Il terapista accerta emozioni, pensieri e bisogni e attira l’attenzione sui bisogni del bambino/paziente

3 Il terapista interviene nell’immaginazione e ferma la minaccia venendo incontro ai bisogni non soddisfatti del bambino/paziente.

A partire dal problema del paziente, il terapista accerta un ricordo significativo connesso col problema e poi prega il paziente di raccontarlo a occhi chiusi rivivendo la scena in maniera coinvolgente. La domanda chiave -oltre alle solite “cosa accade?” “cosa provi?” e “cosa pensi?”- è “di cosa avresti avuto bisogno?”.

L’accertamento dei bisogni porta al passaggio successivo, l’intervento del terapista nell’immaginazione. In questo passaggio il terapista prende la parola e descrive se stesso che interviene e agisce nella scena raccontata dal paziente. Agisce come? Soddisfacendo quei bisogni di cui si era parlato alla fine del passo precedente. Nel mentre il paziente ascolta, sempre a occhi chiusi. Il terapista deve sviluppare capacità narrative convincenti per rendere efficace il suo intervento nel ricordo immaginativo. Convincenti ma al tempo stesso anche un po’ onnipotenti: il terapista nell’immaginazione può fare di tutto, dal fermare un genitore violento come farebbe Batman a –come Superman- affrontare un pericolo naturale indipendente dall’uomo; magari con l’aiuto di “aiutanti” ancora più immaginari: poliziotti, infermieri che fanno la parte di Robin. Insomma durante l’intervento del terapista ci sarà una sospensione dell’incredulità ma, al tempo stesso, il terapista dovrà mantenere la sua autorevolezza e credibilità.

Dopo aver spiegato la procedura Arntz ha fatto le consuete prove in pubblico ed esercitazioni, e infine ha spiegato la variante tecnica successiva in cui è il paziente a intervenire nella sua stessa immaginazione nel ruolo di adulto che aiuta e soddisfa i bisogni del se stesso bambino, al fine di incrementare la sensazione di padronanza senza che ci sia più bisogno dell’intervento immaginativo del terapista.

Efficacia e basi teoriche dell’ imagery rescripting

Nelle domande alla fine del workshop il tema ricorrente era come questa tecnica andasse oltre il semplice riconoscimento normalizzante dei bisogni del paziente. Questa procedura non si limita quindi a fornire accoglimento e ascolto relazionale al paziente, ma intende incrementarne attivamene il senso di sicurezza.

La procedura è indubbiamente interessante. La sua efficacia è, secondo i dati di ricerca forniti da Arntz, paragonabile agli altri interventi specifici per le memorie traumatiche, ovvero l’EMDR e la terapia cognitivo comportamentale.

EABCT 2018 Sofia - Locandina CongressoLe perplessità sono due. La prima, che ho espresso ad Arntz, è se ci si può sempre accontentare  di nuove tecniche che finiscono per essere solo altrettanto efficaci delle vecchie. Arntz ha risposto che la sua procedura, pur non essendo complessivamente più efficace, assicura tuttavia un’azione specifica sugli stati depressivi e impulsivi secondari alle memorie traumatiche. Non ho avuto cuore di chiedere se “azione specifica” significasse più efficace e mi sono accontentato della risposta, la quale nel suo margine di ambiguità è meglio che niente. Tuttavia colpisce come molte novità vengano diffuse come scoperte cliniche e teoriche significative senza che poi ne risulti un vero aumento dell’efficacia clinica. Progrediamo o siamo sempre li? Sospetto che qui giochi il suo ruolo negativo la teoria dei fattori comuni e della relazione che ha diffuso una certa mentalità che rende tutto uguale e statico.

La seconda perplessità riguarda la base teorica. Stimolare l’immaginazione e manipolarla in maniera coinvolgente convince in termini di psicologia naif, ma non si capisce bene quali siano le funzioni mentali che questa tecnica riattiva. Non credo che Arntz, che è un ricercatore rigoroso, sia così naif ma non ho insistito. Un worskhsop di apprendimento non è il luogo adatto per gli approfondimenti teorici e quindi ho preferito tenermi per me questa seconda perplessità, riconoscendo ad Arntz di avere insegnato alcune interessanti procedure di trattamento delle memorie traumatiche.

Il cervelletto – Introduzione alla Psicologia

Il cervelletto, osservandolo a livello macroscopico, può essere paragonato a una farfalla, avente un corpo centrale ed allungato, definito verme, e due parti laterali, chiamate emisferi cerebellari, con avanti 2 piccole formazioni, una per lato, denominate flocculi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il cervelletto è un organo non simmetrico, dall’aspetto grossolanamente ovoidale, dal peso di circa 130-140 g, che varia da una persona all’altra, ed è posizionato nella fossa cranica posteriore, dorsalmente al ponte del tronco encefalico.

Il cervelletto fa parte del sistema nervoso centrale ed è collegato al tronco encefalico tramite 3 coppie di peduncoli cerebellari: inferiori, che si dirigono alla parte posteriore del bulbo, medi, che proiettano verso il ponte; superiori, che vanno verso il tetto del mesencefalo.

Anatomia del cervelletto

Il cervelletto, da un punto di vista filogenetico, si può dividere in tre aree diverse:

  • Archicerebello, formato dal nodulo (lobulo del verme) e dai due flocculi (lobuli degli emisferi) ed è l’area più ancestrale
  • Paleocerebello, costituito dalla restante parte del verme e dall’area paravermina
  • Neocerebello, caratterizzato dalla porzione media e laterale degli emisferi cerebellari

Il cervelletto, osservandolo a livello macroscopico, può essere paragonato a una farfalla, avente un corpo centrale ed allungato, definito verme, e due parti laterali, chiamate emisferi cerebellari, con avanti 2 piccole formazioni, una per lato, denominate flocculi.

Nel cervelletto è presente:

  • una parte inferiore costituita dalla presenza di una fessura lungo la linea sagittale, la vallecula del Reil
  • una parte superiore, dove è presente un rilievo mediano detto verme superiore
  • una parte laterale, costituita dall’estensione dei 2 emisferi cerebellari

La superficie del cervelletto è caratterizzata da strutture trasversali dette solchi o scissure cerebellari, aventi profondità diverse. Inoltre, i solchi meno profondi separano tra di loro le lamelle cerebellari, quelli profondi circoscrivono gruppi di lamelle e quelli più profondi delimitano i lobuli del cervelletto. Il più profondo tra i solchi cerebellari è definito grande solco circonferenziale che separa il verme superiore dal verme inferiore. Un altro importante solco è il solco primario o anteriore, così chiamato perché è il primo solco che compare durante lo sviluppo del cervelletto.

Il solco più profondo è il solco orizzontale di Vicq d’Azyr che divide le facce superiore e inferiore degli emisferi cerebellari e del verme. Altro importante solco è il solco primario che divide il cervelletto in un lobo anteriore e in un lobo posteriore I restanti solchi formano lobuli vermiani e lobuli emisferici sulla faccia superiore e sulla faccia inferiore del cervelletto.

I lobuli del cervelletto comprendono i lobuli del verme superiore che sono: lingula, lobulo centrale, culmen, declive, e quelli del verme inferiore sono: nodulo, uvula, piramide e tuber.
I lobuli della faccia superiore dell’emisfero cerebellare invece sono: frenulo della lingula, ala del lobulo centrale, lobulo quadrangolare, lobulo semplice e lobulo semilunare superiore. Infine, a livello della faccia inferiore troviamo la tonsilla, il lobulo biventre e il lobulo semilunare inferiore.

Internamente, il cervelletto è formato dalla sostanza grigia e dalla sostanza bianca, in cui sono presenti formazioni di sostanza grigia che costituiscono i nuclei del cervelletto.

La corteccia cerebellare, inoltre, presenta tre diversi strati:

  • strato dei granuli, formato da cellule piccolissime dette appunto granuli la cui funzione è aumentare gli stimoli eccitatori che afferiscono in questa zona
  • strato molecolare, costituito dalle cellule stellate, poste in superficie e dalle cellule dei canestri (o stellate interne) che si dispongono nella parte più profonda dello strato molecolare
  • strato centrale, formato principalmente dalle cellule del Purkinje, che si estendono in superficie attraverso i pirenofori formando lo strato molecolare, mentre in profondità si trovano i granuli

I nuclei del cervelletto afferiscono nel corpo midollare del cervelletto e sono: il nucleo del tetto, facente parte dell’archicerebello, i nuclei globoso ed emboliforme, inerente al paleocerebello, e il nucleo dentato, localizzato nell’emisfero cerebellare, appartenente al neocerebello.

Caratteristiche funzionali

Il cervelletto costituisce una parte della via motoria indiretta, o via cortico-ponto-cerebello-rubro-reticolo-spinale, che origina dalla corteccia motoria secondaria e dalla corteccia temporo-parieto-occipitale-emisferica. Da qui partono le fibre ponto-cerebellari che giungono alla corteccia cerebellare del neocerebello.

Nel cervelletto esistono tre aree funzionalmente differenti:

  • Il paleocerebello o spinocerebello o somato cerebello, area, filogeneticamente antica, che si connette al midollo spinale, si estende davanti al solco primario e si prolunga in una zona cospicua del verme. Questa area regola il tono muscolare e la postura
  • Il vestibolocerebello o archicerebello, caratterizzata dal nodulo, estremità anteriore del verme inferiore e dai flocculi. Questa area è connessa ai nuclei vestibolari dell’orecchio interno, responsabili dell’equilibrio
  • Il neocerebello o corticocerebello o cervelletto medio, è formato da lobi laterali e da una piccola parte del verme. Esso è connesso alla corteccia cerebrale attraverso la via cortico-ponto-cerebellare ed è il centro regolatore dei movimenti volontari e automatici

Quindi, la principale funzione svolta dal cervelletto è la coordinazione delle uscite motorie. Di conseguenza se si verificassero lesioni cerebellari si avrebbe una compromissione della coordinazione dei movimenti degli arti e degli occhi ma anche dell’equilibrio.

La corteccia cerebrale riceve un comando motorio del movimento volontario da seguire e dagli arti riceve informazioni circa l’effettivo svolgimento dello schema. Qualora sussistano differenze tra il movimento programmato e quello effettivamente realizzato, il cervelletto può correggere il movimento durante la sua attuazione, attraverso un meccanismo di feedback negativo.

Il cervelletto, inoltre, svolge un ruolo importante anche per le emozioni e per le cognizioni.

È stato dimostrato che lesioni acquisite al cervelletto possono determinare una serie di disturbi definiti cerebellar cognitive affective syndrome e sono caratterizzati dalla riduzione delle competenze cognitive generali con specifiche cadute di tipo neuro-psicologico, disordini del linguaggio espressivo e disturbi dell’affettività.

Inoltre, è stato osservato il coinvolgimento del cervelletto nel controllo di alcuni compiti cognitivi e neuropsicologici, come il linguaggio, l’interazione interpersonale, il controllo e la modulazione dell’affettività, lo sviluppo e l’apprendimento in generale, nella patogenesi di alcune forme di autismo (Tavaso et al., 2007).

Recentemente è stato documentato che, le cellule di cui principalmente è formato il cervello, ovvero i granuli, rispondono allo stimolo della ricompensa oltre a svolgere funzioni motorie. Tutto questo suggerisce che il cervelletto possa svolgere un ruolo importante nei processi cognitivi (Wegner et al., 2017).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

L’ipotesi del narcisismo maligno alla base dell’acting-out di Matthias Schepp

Attraverso il racconto del caso Matthias Schepp cerchiamo di ripercorrere e comprendere quali sono le caratteristiche del disturbo narcisistico di personalità in una delle sue forme più gravi: il narcisismo maligno.

Carmen Garofalo

 

Nel 2011 la cronaca ci ha reso partecipi della crudeltà di un uomo, marito e padre, che prima porta via le sue bambine di sei anni, Alessia e Livia, facendole scomparire nel nulla e poi si uccide gettandosi sotto i binari di un treno al termine di un lungo e apparentemente incomprensibile viaggio.

Quest’uomo si chiamava Matthias Schepp, all’epoca dei fatti aveva 41 anni, figlio di genitori separati, ingegnere presso una multinazionale del tabacco.

Nel 2015 la giornalista e scrittrice Concita De Gregorio dà voce alla madre di Alessia e Livia, Irina Lucidi, attraverso la pubblicazione del libro “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli Editore), in cui la donna fa un ritratto granitico dell’uomo, del marito e del padre, nonché della loro storia.

Sono state dette tante cose su Matthias Schepp: i familiari, dopo l’accaduto, lo hanno definito malato, affetto da schizofrenia, il personale del centro donne maltrattate, a cui si rivolse Irina prima del fatto, lo aveva definito “psico-rigido”, mentre poi, dopo l’accaduto, i termini “folle” e “criminale” hanno riempito le testate giornalistiche e l’opinione pubblica.

Chi era davvero, Matthias Schepp? Cosa c’era sotto l’immagine dell’uomo “gentile, educato, premuroso e allegro” che Irina aveva conosciuto durante il loro primo incontro in un fine settimana organizzato dall’azienda presso la quale lavorava anche lei, e che poi, nella loro relazione, si era rivelato sempre più controllante, intransigente, mostrando allo sguardo della moglie occhi che lei stessa definisce “pozzi ciechi”, occhi chiari che sembravano vuoti nei quali riferisce di aver incontrato la “negazione della compassione”?

Ritratto dell’uomo, del marito, del padre

Alessia e Livia nacquero il 7 ottobre del 2006.

Con le bambine Matthias sembrava un padre attento, Alessia e Livia si divertivano molto con lui, racconta Irina. Vivevano in una casa grande, scelta da Matthias.

Irina parla spesso, nel libro della De Gregorio, della subdola violenza del marito: dice che aveva imparato ad avere paura delle sue manie e dei suoi silenzi, di quella che lei prima chiamava cura e prendersi cura, che con il passare degli anni era diventata un’ossessione.

La loro casa, con il tempo, era diventata un covo di post-it gialli con le sue istruzioni, persino le più elementari; erano attaccati alla lampada sul comodino con direttive su come accendere la luce del bagno “prima chiudere la porta, poi accendere la luce”, in cucina con le dosi di cereali da versare, quale tipo di latte usare e a quale temperatura “il latte deve essere scaldato nel bricco e non nel forno a microonde, deve essere versato dopo che i cereali sono stati messi nella tazza e non prima”, dietro la porta d’ingresso con scritto “rientrando chiudere a una o tre mandate, sempre comunque in numero dispari, e lasciare la chiave nella serratura”, dietro l’anta dell’armadio con la lista degli abiti delle bambine da indossare, in due elenchi verticali con i nomi di Alessia e Livia in alto e in stampatello, persino con l’ordine con cui gli indumenti dovevano essere indossati; non doveva mai capitare che, anche per sbaglio, le bimbe avessero lo stesso paio di calze, perché Matthias non sopportava che fossero vestite allo stesso modo.

Queste istruzioni, con gli anni, sono diventate veri e propri ordini, dal “non chiudere” al “chiudi!”, tanto che Irina si era rivolta a un centro per donne maltrattate dove le avevano consigliato di lasciarlo.

Ma al prendere questa decisione per lei drastica, Irina aveva scelto di proporre a Matthias di andare da una terapeuta di coppia; lui aveva accettato alla condizione che fosse tedesca. Dopo alcuni incontri, Matthias decise di voler andare da una psicologa diversa, da solo.

Dopo circa sei anni di vita insieme, dopo un breve percorso di terapia fallito e quando le bambine avevano cinque anni, Irina decise per la separazione.

All’inizio Schepp era contrario, non tanto per la separazione in sé, quanto per il fatto che fosse stata Irina a prendere l’iniziativa senza prendere in considerazione il suo parere. Poi smise di combattere e accettò. Si separarono nell’agosto del 2010: Matthias avrebbe visto le bambine una sera a settimana e un week end ogni due settimane. Nei mesi successivi alla separazione, Matthias aveva cercato più volte un riavvicinamento con Irina, usando anche le bambine per inviarle dei messaggi e supplicarla di tornare insieme.

Avrebbe voluto l’affidamento congiunto delle bambine ma Irina glielo negò.

Nell’ultima mail che Irina scrisse a Matthias, datata 26 gennaio 2011, la donna gli anticipò che nelle settimane successive sarebbero stati pronti i documenti per il divorzio.

Dal 30 gennaio 2011 iniziò, concretamente, il suo viaggio più crudele.

Dinamica dei fatti: cosa accade dal 30 gennaio 2011 al 3 febbraio 2011

L’ultimo week end del gennaio 2011 spetta a Matthias Schepp tenere le bambine, come da accordi.

A questo punto, però, è necessaria una precisazione: nel periodo immediatamente precedente a quel week end, per le vacanze di Natale, Schepp aveva insistito per portare le bambine con sé per tre settimane in barca con alcuni loro amici e, anche se questo non era negli accordi, Irina accettò poiché anche le bambine insistevano per fare quella vacanza. Apparentemente durante quelle tre settimane non successe nulla, anzi, Irina ricevette foto di loro tre insieme e felici.

Dopo quella vacanza Alessia e Livia ritornano a casa da Irina per altre due settimane fino al venerdì 28 gennaio quando Matthias prende con sé le bambine per passare il week end insieme.

La mattina di domenica 30 gennaio, intorno alle undici, lascia le bambine a un vicino di casa perché giochino insieme al figlio di quest’ultimo per poi andarle a riprendere due ore dopo.

Di quelle due ore si sa soltanto che telefona a Irina per dirle di non venire a riprendersi le bambine quel giorno, come da accordi, per riportarle da lei la sera stessa, avvisandola che stavano giocando dai vicini di casa e stavano bene, e di andarle a riprendere a scuola all’uscita il giorno dopo perché le avrebbe accompagnate lui all’indomani.

Come già scritto sopra, Schepp va a riprendere le bambine dai vicini intorno all’una di domenica 30 gennaio 2011. Il vicino di casa racconta che intorno alle 14:30 si reca nuovamente a bussare a casa Schepp perché suo figlio desiderava ancora giocare con le bambine ma nessuno gli risponde.

Non si sa se Matthias Schepp e le bambine, a quell’ora, fossero ancora in casa. Quello che si conosce di questo folle viaggio lo si può riscontrare solo attraverso i frammenti del navigatore recuperati dalla polizia giudiziaria di Foggia scavando tra le pietre dei binari della ferrovia di Cerignola, luogo dove Schepp ha posto fine alla sua vita, le celle agganciate dal suo cellulare fino al momento in cui questo viene spento e la testimonianza resa agli atti di alcune persone (per le fonti riguardanti la seguente ricostruzione del percorso e le informazioni a disposizione si fa riferimento al sito cronaca-nera.it, ai giornalisti Claudio Del Frate del Corriere della Sera, Alessia Ripani de La Repubblica e Manila Mancini di fanpage.it, oltre alla testimonianza della stessa Irina nel libro di Concita De Gregorio).

Tappe ed orari:

  • alle 15:50 di domenica 30 gennaio 2011 il cellulare di Matthias Schepp aggancia la cella di Morges, un paese a 5 km da Saint-Sulpice che a sua volta dista 10 km da Saint-Simon, il piccolo paese dove vivevano
  • alle 18:04 passa il confine con la Francia: qui c’è un buco di circa un paio d’ore, in quanto da Saint-Sulpice al confine bastano circa 45 minuti
  • alle 18:21, all’uscita dell’autostrada all’altezza di Annecy, invia l’ultimo sms alla moglie, in risposta al suo inviato alle 17:50 in cui gli chiede di riportarle le bambine. In quest’ultimo sms Schepp rassicura la moglie dicendo che le avrebbe riaccompagnate lui stesso a scuola il giorno dopo
  • alle 19:38 si trova a Lione, impiegando più di un’ora per fare meno di 50 km. Da questo momento Matthias spegne il suo cellulare. Una testimone giudicata attendibile ha detto di aver visto le bambine questo stesso giorno insieme al padre nei pressi dell’aeroporto di Lione (De Gregorio, 2015)

Occorre inserire alcune note riguardo il ruolo di Irina in queste ultime ore. La donna non risponde all’ultimo messaggio del marito e decide di assicurarsi personalmente che le bambine stiano bene; pertanto accorre a casa di Schepp quello stesso giorno senza trovare nessuno, recandosi anche dai suoi vicini di casa che le confermano di aver visto le bambine intorno all’una e di aver sentito il motore della macchina di Schepp intorno alle 16.

A quel punto Irina decide di chiamare la polizia che perquisisce la casa e in un cassetto chiuso a chiave trova il testamento di Matthias Schepp, scritto in tedesco, datato “Saint Sulpice 27 gennaio 2011”, all’interno del quale si ravvisa un campanello d’allarme nelle parole “qualora le mie figlie Alessia e Livia non siano più in vita”. In casa, vicino alla porta d’ingresso, Irina trova anche i peluches dai quali le bambine non si separavano mai per dormire.

Il 31 gennaio Schepp preleva 7.500 € a Marsiglia e qui acquista tre biglietti per la Corsica, direzione Propriano. Schepp, da Marsiglia, spedisce una cartolina raffigurante un coniglio in un prato verde alla moglie, la quale la riceve il giorno 3 febbraio (vedi allegato 2): l’uomo le scrive che “ormai è troppo tardi”.

A questo punto è necessaria un’altra precisazione riguardo al ruolo di Irina: quando la donna riceve questa cartolina (il successivo 3 febbraio) parte verso Marsiglia e lascia la sua deposizione alla polizia insieme all’avviso di furto di macchina in quanto l’Audi sulla quale viaggiava Schepp era di sua proprietà.

Il primo febbraio, alle 6:30 del mattino, Schepp sbarca al porto di Propriano.

Il giornalista Claudio Del Frate sul numero del 12 febbraio 2011 del Corriere della sera, rivela che una donna, Olga Orneck, dice di aver visto Schepp con le gemelline insieme ad una signora bionda intorno alle 9:30 del mattino, ma non si hanno certezze sull’attendibilità di questa testimonianza.

Le tracce dell’uomo si perdono fino a quando alcuni testimoni lo avvistano a Bastia, nel nord della Corsica, nella serata di questo stesso giorno, senza le bambine

Dal porto di Bastia s’imbarca poi sulla tratta Bastia-Tolone a bordo del traghetto Sardinia-Ferries

Arrivato a Tolone spedisce una lettera alla moglie Irina, il cui contenuto non è stato reso pubblico (Ripani, 2011).

Il 2 febbraio, in macchina, si dirige verso l’Italia percorrendo la Costa Azzurra. La sua Audi viene fotografata all’ingresso di Ventimiglia.

Il 3 febbraio si ferma a Vietri sul Mare dove pranza da solo in un ristorante nel quale chiacchiera anche con il padrone del locale – testimonianza resa agli atti – di un quadro di Guido De Franceschi appeso alle pareti del luogo che dice assomigliare a sua moglie, informandosi anche sul prezzo che il ristoratore vorrebbe, qualora lui volesse comprare il quadro. Quello stesso giorno invia alla moglie 4.400 € suddivisi in sette buste ciascuna contenenti 50 euro e una lettera, intercettata dalla polizia cantonale, in cui dichiara di aver ucciso le bambine e di volersi uccidere; di seguito alcuni frammenti della stessa “Sarò l’ultimo a morire e ho già fatto morire le bambine; non le rivedrai più; loro non hanno sofferto e ora riposano in un luogo tranquillo”.

Poi, nei pressi della stazione di Cerignola, parcheggia l’auto e lascia il suo cellulare dentro, sul cruscotto. Nell’auto viene ritrovato anche il supporto per il navigatore, ma non l’apparecchio che porta con sé insieme alle chiavi della macchina. Quella stessa sera, a poca distanza dalla stazione, alle 22.45, si getta sotto l’Eurostar Milano-Bari.

Analisi dell’acting-out di Matthias Schepp alla luce dell’ipotesi del narcisismo maligno

I criteri diagnostici per l’inquadramento del disturbo narcisistico di personalità secondo il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) descrivono un pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

  • Ha un senso grandioso di importanza (per esempio, esagera risultati e talenti, si aspetta di essere considerato/a superiore senza un’adeguata motivazione)
  • È assorbito/a da fantasie di successo, potere, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale.
  • Crede di essere “speciale” e unico/a e di poter essere capito/a solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata
  • Richiede eccessiva ammirazione
  • Ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative)
  • Sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta delle altre persone per i propri scopi)
  • Manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri
  • È spesso invidioso/a degli altri o crede che gli altri lo/a invidino
  • Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti, presuntuosi

Quando si passa dalla patologia narcisistica meglio funzionante al disturbo narcisistico di personalità grave, l’intensità dell’aggressività aumenta raggiungendo il picco nella sindrome di narcisismo maligno (Kernberg, 1984) collocata in un’area al limite tra il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo antisociale di personalità e caratterizzata da: disturbo narcisistico di personalità, comportamento antisociale, aggressività egosintonica, sadismo rivolto verso gli altri o verso se stessi e un forte orientamento paranoide.

Kernberg descrive, in tal modo, una dimensione di comportamento antisociale che collega il disturbo narcisistico di personalità con il disturbo antisociale ma, a differenza dei soggetti con disturbo della personalità antisociale, questi possono avere un atteggiamento realistico verso il proprio passato e una pianificazione del proprio futuro (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012).

Questi soggetti sono dominati da precursori sadici del Super-Io a tal punto che i precursori successivamente idealizzati del Super-Io non possono neutralizzarli, per cui l’integrazione del Super-Io viene bloccata: aspettative realistiche o proibizioni provenienti da oggetti parentali sono state o svalutate o trasformate in minacce persecutorie (Kernberg, 1993).

Questa particolare forma di disturbo narcisistico di personalità porta il soggetto ad aggiungere al suo sé grandioso anche un aspetto di onnipotenza, come se il proprio mondo di relazioni oggettuali abbia esperito una trasformazione maligna (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012) che ha portato alla svalutazione di relazioni oggettuali interiorizzate potenzialmente buone da parte di un sé patologico, sadico e grandioso (Rosenfeld, 1971) che ha preso il posto dei precursori sadici del Super-Io assorbendo tutta l’aggressività e trasformando quelle che, altrimenti, sarebbero le componenti sadiche del Super-Io in una struttura anormale del sé, che poi combatte contro l’interiorizzazione di successive, più realistiche componenti superegoiche (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012).

Disturbo narcisistico di personalità e Relazioni oggettuali

Per questi soggetti, le relazioni oggettuali amorevoli non solo possono essere facilmente distrutte ma “contengono il seme di un attacco da parte dell’oggetto onnipotente e crudele” (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012): il primo passo è la sottomissione totale, il secondo è l’identificazione con l’oggetto stesso che dà un senso di potere, liberazione dalla paura e la sensazione che l’unico modo di comunicare con gli altri sia la gratificazione della propria aggressività (Kernberg, 1993 in Fornari, 2012).

Il sadismo di questi soggetti si esprime nella loro volontà di “autoaffermazione assertiva” e spesso con tendenze suicidarie (Kernberg, 2004), che riflettono la fantasia di esercitare un controllo sadico sugli altri: togliersi la vita, per questi soggetti, significa affermare la propria superiorità o uscire da un mondo che sentono di non riuscire a controllare (Kernberg, 2004).

In questi soggetti “la critica costituisce una minaccia dissolutiva per l’identità e la risposta distruttiva sembra riaffermare in modo speculare una posizione di diritto e di potenza” (Cairo et al. 2008).

L’aspetto dell’orientamento paranoide nel narcisismo maligno, riflette la proiezione di precursori superegoici non integrati (Kernberg, 2004): ne consegue che gli altri vengono visti o come idoli o come persone stupide.

All’interno di questa cornice, dunque, gli oggetti buoni sono percepiti come deboli ed inaffidabili e quindi disprezzati, quelli cattivi sono invece potenti e necessari alla sopravvivenza ma sadici ed ugualmente inaffidabili. L’unica speranza di sopravvivenza e di evitamento del dolore e della sofferenza resta, quindi, il proprio potere e il sadismo che permettono di controllare gli oggetti, sia quelli buoni e sia quelli cattivi (Kernberg, 2004).

Alcune ricerche suggeriscono che “il narcisismo maligno può esprimersi in violenza apparentemente auto-giustificabile, crudeltà sadica o auto-distruttività laddove aggressività e sadismo si combinano con eccitazione e autostima accresciuta” (Ronningstam, 2005).

In casi estremi chi soffre di narcisismo maligno può diventare un omicida, in quanto considera “l’uccisione come un’azione giustificata di ritorsione, un tentativo disperato di prendere il controllo e di proteggere la propria autostima” (Ronningstam, 2005).

L’amore di sé patologico che si esprime in un’autoreferenzialità e in un’autocentratura eccessiva, si manifesta con una certa grandiosità che spesso si esprime in valori infantili come la capacità di attrarre con il proprio corpo, potere, ricchezza, modo di vestirsi, modi di fare (Kernberg, 2004); in ciò sembra riflettersi proprio quello che Irina racconta a proposito del suo primo incontro con Schepp e delle modalità da lui messe in atto per attirare la sua attenzione: Irina lo descrive come “bello, alto, sportivo e biondo” (De Gregorio, 2015); parlando del loro primo incontro, Schepp appare come un uomo all’antica che le apriva anche le porte delle stanze per farla entrare, serio e solare, “un uomo capace di farla ridere tutta la sera” (De Gregorio, 2015).

Lo stesso uomo, però, che col tempo rivela la sua estraneità e un senso di vuoto per tutto ciò che lo circonda; come quando Irina racconta dell’episodio sotto i portici di Bologna incontrando un bambino mendicante e descrivendo gli occhi di Schepp come “pozzi ciechi”: in quella che la donna chiama la “negazione della compassione” (De Gregorio, 2015) sembra riflettersi sia l’amore patologico di sé stessi in quanto i soggetti con disturbo narcisistico di personalità sono persone emotivamente superficiali soprattutto in relazione ad altre persone, e sia l’amore oggettuale patologico proprio della personalità narcisistica che consciamente si manifesta anche per una mancanza di interesse negli altri, un’incapacità di provare empatia (American Psychiatric Association, 2015) o attaccarsi realmente ad altre persone (Kernberg, 2004).

Altra manifestazione dell’amore patologico è la svalutazione degli altri (Kernberg, 2004). Le persone con disturbo narcisistico di personalità svalutano gli oggetti reali poiché hanno incorporato quegli aspetti degli oggetti reali che desiderano per sé stessi: dissociano da sé e rimuovono o proiettano sugli altri tutti gli aspetti negativi di se stessi e degli altri (Kernberg, 2004). La svalutazione altrui viene messa in atto nel tentativo di difendersi da potenziali sentimenti di invidia (Kernberg, 2004); come indicato anche dal criterio 8 del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015), i soggetti con disturbo narcisistico di personalità sono spesso invidiosi degli altri: a questo proposito è utile sottolineare che Irina ricopriva un ruolo di maggior prestigio nella multinazionale dove lavorava anche Schepp, era richiesta più di lui, viaggiava più di lui, guadagnava anche più di lui; la donna rivela che Schepp si sentiva spesso sottovalutato per questo, e anche se non ne avevano mai parlato apertamente, lei sentiva come una specie di risentimento nei suoi confronti (De Gregorio, 2015).

Per ciò che riguarda la svalutazione e le continue vessazioni, in tanti episodi raccontati da Irina riscontriamo la denigrazione che Schepp metteva in atto nei suoi confronti e nei confronti degli altri. L’episodio dell’imbianchino italiano, per esempio, in cui possiamo rilevare una doppia svalutazione: per Irina in quanto italiana e per Irina in quanto persona. Schepp non si fidava di questo imbianchino perché era “italiano”, perché gli “italiani non lavorano bene” (De Gregorio, 2015) e girava con uno specchietto per la casa per controllare bene tutto, anche gli angoli ciechi; in più, era stata proprio Irina a chiamarlo, a prendere questa decisione in prima persona, senza consultarlo: nella manifestazione del disprezzo verso l’imbianchino italiano, o anche nella scelta della psicologa di coppia che doveva essere obbligatoriamente tedesca altrimenti lui non ci sarebbe andato, sembra riflettersi il 3 criterio del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) secondo il quale i soggetti con disturbo narcisistico di personalità “credono di essere speciali e di dover frequentare persone o istituzioni speciali o di classe sociale elevata”; in questo caso l’essere speciale era riferito alla nazionalità tedesca. La svalutazione di Irina come persona, invece, che aveva osato prendere una decisione da sola, sembra rimandare a quel tentativo di difendersi da potenziali sentimenti di invidia che, come descritto nel capitolo precedente, si presenta come una forma speciale di odio, una delle manifestazioni affettive principali dell’aggressività (Kernberg, 2004), che può divenire così intenso da sfociare nella distruzione primitiva di ogni consapevolezza degli affetti, in un obnubilamento del normale funzionamento cognitivo e in una trasformazione degli affetti aggressivi in acting-out (Kernberg, 2004). In questo episodio si riscontra anche un atteggiamento di arroganza nei confronti della moglie, come indicato nel criterio 9 del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) e di prepotenza: davanti alle bambine che erano in macchina con loro fece scendere la moglie in strada costringendola a tornare a casa da sola e non dando sue notizie per le successive quattro ore (De Gregorio, 2015).

In questo contesto l’invidia è una forma di odio per un altro che è percepito come qualcuno che rifiuta di concedere qualcosa di molto desiderabile (Kernberg, 2004). Cosa c’era di desiderabile per Schepp in quell’episodio? Il controllo, il bisogno di potere, il prevalere sulla moglie, un disconoscere i diritti dell’altro poiché per conquistare il potere tali soggetti hanno necessariamente bisogno di sminuire gli altri (Filippini, 2016); senza il potere e il controllo sugli altri questi soggetti non potrebbero evitare l’invidia che altrimenti proverebbero per la capacità altrui di funzionare in maniera autonoma (Kernberg, 2004). Schepp ha spesso manifestato questa suo potere su Irina, questa “cosificazione” (Fornari, 2012) dell’altro che si rispecchia, ad esempio, nel non chiamarla mai per nome, ma di presentarla agli altri come “mia moglie”, nel parlare di Irina con Dolores, la baby-sitter delle bambine, riferendosi con un “lei deve partire” (De Gregorio, 2015) invece di Irina deve partire; o ancora, anche la madre di Schepp metteva in atto le stesse dinamiche del figlio, e tutti i suoi parenti, “un ruolo accanto ad un attributo di possesso” scrive la stessa Irina (De Gregorio, 2015): “mia nuora”, “mia cognata”. Mai, racconta Irina, ricorda di averli sentiti chiamarla per nome.

Il senso del controllo lo si può rilevare anche nel comportamento di Schepp di apporre post-it in ogni dove nella casa; suggerimenti che poi diventano indicazioni, indicazioni che poi diventano ordini: “prima chiudere la porta, poi accendere la luce”, “rientrando chiudere a una o tre mandate, sempre comunque in numero dispari, e lasciare la chiave nella serratura”, per poi passare dal “non chiudere” al “chiudi!” (De Gregorio, 2015).

Disturbo narcisistico di personalità e Tratti ossessivi

La presenza di tratti ossessivi nei soggetti con disturbo narcisistico di personalità viene vista non solo come fattore di controllo del disagio ma segnala anche l’incremento dell’angoscia che, essendo riferita alla dissoluzione del Sé, non sono in grado di arginare (Cairo et al., 2008). Il controllo riscontrabile è solo apparente e la tendenza a mettere in atto comportamenti perfezionistici è collegata all’idea che nessun altro sia in grado di risolvere l’angoscia emergente (Cairo et al., 2008).

Non era forse anche un segnale di imprevedibilità, per lui, la notizia della gravidanza? Irina racconta che Schepp non aveva reagito bene, parla proprio di un uomo che aveva perso il controllo, che balbettava, che “raschiava la gola come se dovesse tossire senza riuscirci” (De Gregorio, 2015): come se fosse impossibile da sopportare, e forse imperdonabile per lui non essere riuscito a controllare e a pianificare tutto.

Disturbo narcisistico di personalità e Deficit di mentalizzazione

Nei soggetti narcisisti gravi, inoltre, la carenza delle capacità di mentalizzazione, un sentimento sociale collassato e l’intolleranza alla sofferenza tendono ad innescare meccanismi compulsivi che spingono all’agito autodistruttivo (Cairo et al., 2008).

Il comportamento di Matthias Schepp

Kernberg (1984) afferma che lo sviluppo più drammatico del disturbo narcisistico di personalità si ha quando ad un sé grandioso si combina una forte dose di aggressività, che fa sì che a questo sé patologico si aggiunga un aspetto di onnipotenza in cui la grandiosità viene rafforzata dal senso di trionfo provato infliggendo dolore e paura agli altri (Kernberg, 1984). L’agito di Schepp nell’intraprendere quel lungo viaggio crudele, nel prendere le bambine e portarle via alla madre, nel farle sparire nel nulla senza che nessuno, tantomeno Irina, riuscisse a scoprire il “dove” e il “se” fossero morte, e poi nel togliersi la vita buttandosi sotto un treno, riflette appunto la combinazione esplosiva di un sé patologico e di una forte dose di aggressività auto ed eterodiretta e di sadismo, che fanno ipotizzare in lui la condizione più grave della patologia narcisistica, la sindrome di narcisismo maligno.

A seguito della decisione di Irina di separarsi da lui e della negazione dell’affidamento delle bambine, il sé grandioso patologico ed onnipotente di Schepp che “cosifica” gli altri (Fornari, 2012) ed è quindi incapace di sopportare che questi altri oggettivati e in suo potere possano prendere decisioni al posto suo, decidere per lui, togliere a lui qualcosa che lui stesso non vede come persone ma come sua proprietà, cioè le bambine, che Schepp non ha mai visto come esseri altri da sé ma come un suo possesso, bambine strumentalizzate per sopperire al suo bisogno di onnipotenza che Irina aveva osato scalfire, sfocia nell’acting-out distruttivo.

Si può ipotizzare che Schepp abbia usato i sentimenti di madre di Irina per sublimare il suo bisogno di potere: il settimo criterio del DSM 5 per la diagnosi di disturbo narcisistico di personalità indica come sintomo la mancanza di empatia (American Psychiatric Association, 2015); in questo caso, però, si può ipotizzare in Schepp un’empatia strumentale, propria dei soggetti con grave patologia narcisistica il cui sadismo permette di controllare l’altro (Kernberg, 2004) e quindi di capire l’altrui punto debole e riconoscere dove poter infliggere più dolore. Schepp ha riconosciuto il sentimento di madre in Irina, sapeva dove colpire per fare più male e ha usato questo riconoscimento per mettere in atto il suo piano distruttivo che si rivela nel suo “non le rivedrai mai più” nella lettera alla moglie. Si tratta di una pianificazione lucida: a rafforzare tale ipotesi c’è il ritrovamento del suo testamento datato 27 gennaio 2011, il giorno dopo l’ultima mail inviatagli da Irina nella quale lei gli scrive della sua convinzione per il divorzio e di tutti i documenti ormai pronti, nel quale Schepp scrive: “qualora le mie figlie Alessia e Livia non siano più in vita”; fermo restando che l’imprevedibilità della vita può sorprenderci sempre, pensare che le bambine potessero non essere più in vita all’età di sei anni se non per mano sua, appare inverosimile.

Dunque, la pianificazione lucida e maligna di questo soggetto non si è esplicitata nel togliere la vita alle sue figlie e poi nel suicidio, ma si è espressa in un atto di persecuzione post-mortem nei confronti della moglie, ottenendo, con la sparizione delle bambine e con la sua morte, il mantenimento di quella “relazione di potere che consiste nell’usare l’altro a proprio piacere, nel corrompere tale relazione mantenendone il controllo” (Filippini, 2016) in questo caso fino alla fine: Irina non avrà mai pace perché mai saprà dove sono finite le sue bambine e Schepp, con il suo pianificato suicidio da protagonista nel lanciarsi sotto i binari di un treno, ha definitivamente posto fine a qualsiasi speranza di ricevere da lui anche la più minima informazione.

Il suicidio di Schepp riflette la sua volontà di esercitare un controllo sadico su sua moglie: togliersi la vita, per i soggetti con patologia narcisistica grave, significa affermare la propria superiorità o uscire da un mondo che sentono di non riuscire a controllare (Kernberg, 2004): Schepp non riusciva più a controllare Irina che aveva deciso per la separazione, contro il suo volere, che aveva osato prendere una decisione da sola riguardo il loro rapporto nel quale doveva essere lui, invece, ad averne il controllo.

Si può ipotizzare che abbia manifestato lo stesso controllo sulla vita delle sue figlie, portandole via alla madre, facendole sparire, negando loro il diritto ad avere una madre e, probabilmente, una vita, e usandole come strumento, prima di ritorsione, e poi di persecuzione, nei confronti di Irina.

È stato proprio questo l’intento riuscito di Schepp: avere per tutta la vita il controllo di sua moglie anche dopo la sua morte, tenendola in scacco attraverso il dubbio più crudele per una madre.

Lei stessa scrive:

Io devo avere la certezza di aver fatto tutto il possibile […], non posso lasciare aperta la porta a nessun dubbio […], temo che siano morte ma non ho i loro corpi. Il lutto in assenza del corpo è un’emorragia misteriosa e inarrestabile: hai sempre nuova linfa da perdere, si rigenera, non arriva mai il giorno in cui si estingue (De Gregorio, 2015).

Ed è proprio in questo che si rivela il suo narcisismo maligno, in questo giorno che non arriverà mai per Irina, paralizzata dalla ritorsione di Schepp e dal suo tentativo diabolico e riuscito di “prendere il controllo” della sua vita (Ronningstam, 2005) fino alla fine.

Conclusioni

Questa è un’analisi ipotetica e personale su quello che può aver spinto Schepp ad intraprendere il suo viaggio e a compiere l’agito.

La lucidità e la pianificazione con la quale Schepp ha architettato tutto, anche giorni prima del suo viaggio (si ricordano le ricerche fatte su internet circa i veleni e i modi più o meno dolorosi per uccidersi, la scrittura del testamento datato 27 gennaio 2011 e quelle riga in riferimento all’eventuale scomparsa delle bambine), lascia intendere che Schepp comprendesse ciò che stava facendo e fosse consapevole delle conseguenze del suo gesto: laddove c’è strategia e pianificazione c’è capacità di intendere e di volere, al di là della struttura di personalità e dei disturbi riscontrabili in essa; non sempre un disturbo della personalità, come ipotizzato in questo caso, compromette la capacità di intendere e di volere.

Sono passati cinque anni da quel gennaio del 2011. Non si hanno ancora notizie delle due bambine e rimangono ancora molti i punti da chiarire, come espresso da Irina nel libro (De Gregorio, 2015) ed elencati qui di seguito: ad esempio, primo fra tutti, l’allarme rapimento, poiché la polizia svizzera non ha mai allertato i colleghi francesi e italiani nei giorni intercorsi tra il 30 gennaio e il 3 febbraio; la casa di Saint-Sulpice mai messa sotto sequestro, dove avrebbero potuto esserci degli oggetti o delle impronte che avrebbero potuto aiutare a fare luce sui fatti; le psicologhe che avevano seguito Schepp, prima in coppia con Irina e poi singolarmente, che non sono state mai ascoltate; le scarpe da trekking sporche di fango che i vicini di casa avevano visto addosso a Schepp la mattina del 30 gennaio e che Irina ha ritrovato in casa con ancora la terra infiltrata nelle suole e che nessuno ha mai analizzato; non sono state neanche esaminate tutte le chiamate in entrata e in uscita nella scheda telefonica di Schepp per sapere se, con chi e per quanto tempo ha parlato quel giorno della scomparsa delle bambine; infine, i borsoni da vela di cui Irina ha denunciato la scomparsa alla polizia: in quei borsoni Schepp conservava i suoi strumenti da vela poiché era un velista, ma a casa Irina trovò tutte le sue cose nell’armadio senza alcuna traccia dei due borsoni grandi.

Irina non si darà pace fino a quando non troverà la verità, forse per sempre o forse mai.

Schepp, nella sua lucida distruttività, è riuscito nel suo intento di controllarla per tutta la vita, come un persecutore post-mortem.

L’unica certezza è che Schepp si è ucciso, portando con sé tutti i suoi segreti: dove sono le bambine e chi era lui davvero.

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