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Il giardino dell’umano. Counseling di Gruppo nelle Organizzazioni (2017) di A.R. Scolamiero, M. Tomassini, P. Trentin – Recensione del libro

Il giardino dell’umano è il libro scritto da Scolamiero,Tomassini e Trentin che propone in 184 pagine il Counseling di Gruppo nelle Organizzazioni (CGO). Il CGO viene presentato come nuovo strumento per portare miglioramenti in alcune aree aziendali come la gestione dei collaboratori e lo sviluppo dello spirito di squadra.

 

La narrazione, il ri-orientare la consapevolezza verso l’interiorità e l’assenza di giudizio rappresentano alcuni assi portarti nel CGO, dove l’attenzione si sposta dagli obiettivi e dalla performance alla visione olistica del soggetto come generatore di senso e significato, ricco di creatività ed intuizione al di fuori del campo della consapevolezza:

Si tratta di favorire il contatto con quello che Francisco Varela, intervistato da Otto Scharmer, definisce il Sé “decentrato” “virtuale”, “fragile”, che supera il dualismo soggetto – oggetto […].

Il Counseling di Gruppo nelle Organizzazioni (CGO)

Con il crescere della complessità dei sistemi/organizzazioni la gestione centralizzata diventa difficoltosa, mentre l’attenzione alla gestione dei team e degli individui rappresenta il cambiamento di visione delle organizzazioni più innovative. In questo contesto si inserisce in maniera ottimale il Counseling di Gruppo nelle Organizzazioni come intervento privilegiato.

Nel libro Il giardino dell’umano la prefazione di Piero Ferrucci inizia con questa frase evocativa

Il mondo aziendale è spesso visto come un’arena spietata in cui regnano la competizione a tutti i costi, la prepotenza, l’indifferenza verso l’altrui sensibilità. Il pesce grosso mangia il pesce piccoloè così nella vita e, a maggior ragione con più crudezza e meno filtri, è così anche nel mondo del business

Da questa frase si evince che l’agonismo rappresenta il mandato evolutivo contestualizzante le relazioni interpersonali, soprattutto nelle organizzazioni. Leggendo il libro, scritto in modo chiaro e scorrevole, ricco di esempi e consolidato da esperienze svolte sul campo, emerge come il CGO possa spostare l’intenzione dal substrato agonista verso quello cooperativo costruttivista, dove maggior peso viene rivolto a come le risorse umane, o meglio persone, costruiscono il senso e significato dello stare al mondo e quindi all’interno del contesto organizzativo.

Il giardino dell’umano: alla scoperta del CGO

Il giardino dell’umano è strutturato in sei capitoli: si inizia la lettura con un inquadramento storico e teorico rispetto la trasformazione di strategie e strumenti negli ultimi decenni e, attraverso l’esaustiva spiegazione del modello di Counseling di gruppo nelle Organizzazioni, viene narrata l’esperienza in Sogei SPA finendo con le riflessioni e destinazioni possibili da percorrere nel futuro prossimo del counseling socio-formativo nelle organizzazioni.

Alcuni aspetti teorici meritano di essere introdotti per meglio leggere il senso del transito storico tra i vari modelli di intervento in azienda (di cosa?); dagli anni ’90 la formazione comportamentale focalizzata sulle soft skill ha rappresentato il maggior investimento in termini formativi per le imprese pubbliche e private, dagli anni 2000 si assiste all’interessamento verso il coaching

come metodologia innovativa di supporto focalizzato alla performance, derivato infatti dal coaching sportivo (allenamento personalizzato per vincere nelle competizioni), ma arricchito da aspetti più propriamente psicologici (sfera emozionale e di insight comportamentale) e da un’attenzione competente allargata al contesto socio-organizzativo.

Il Counseling di Gruppo nelle Organizzazioni emerge con interesse negli ultimi anni del XX secolo come approccio innovativo in quanto fautore di stimolo per gli aspetti cognitivi ed emozionali più efficace rispetto altre modalità. Esso prende origine da percorsi scientifici del novecento ed in parte contemporanei, tra cui l’approccio socio-dinamico di Peavy e costruttivista di Haynes e Oppenheim. Bass negli anni 90 teorizza un approccio meno legato al potere e maggiormente strutturato verso la ricerca della motivazione e migliori performance.

La natura del counseling è e rimane, pertanto principalmente relativa al care, cioè un’assistenza, un supporto, una facilitazione, non una formazione o un indirizzamento.

Nel counseling l’interesse è rivolto verso il potenziamento e la consapevolezza “che è generativa di punti di vista diversi, di ricerca di alternative possibili nei comportamenti e nelle soluzioni e che quindi produce anche un nuovo modo di vedere e di vivere la cultura, i valori e i comportamenti ad essa collegati.”

Counseling di Gruppo nelle Organizzazioni: un approccio post-modernista

L’approccio postomodernista del counseling è orientato sul senso della narrazione come generatrice di senso per le situazioni, obiettivo diverso dalla ricerca di soluzioni degli approcci precedenti; l’attenzione si sposta così dalla percezione del cliente verso il problema, alla consapevolezza di se stessi come individui e poi come gruppo all’interno di un contesto, nell’ottica che vede nel presente il grounding su cui processare il cambiamento; molte conoscenze nelle pratiche lavorative sono tacite (embedded), non sufficientemente presenti nella consapevolezza, ma ricche di intuizione e creatività, elementi che rappresentano un valore aggiunto nel quadro organizzativo attuale.

Gli autori de Il giardino dell’umano presentano uno schema teorico per la lettura delle dinamiche interne e gruppali in cui il sé senziente interagisce con il sé sociale, con gli altri e con la cultura organizzativa. Lo scopo dello schema è di offrire delle indicazioni per la conduzione degli interventi nelle organizzazioni ponendo attenzione alla costellazione delle relazioni intrapersonali ed interpersonali.

Il problema è, quindi, quello di portare consapevolezza sul funzionamento di questi stati, e in alcuni casi sulla loro stessa esistenza, ossia al riconoscimento di una soggettività spesso in bilico tra spinte depressive e derive egoiche.

Un aspetto interessante del CGO porta il soggetto a sviluppare la consapevolezza attorno all’esperienza vissuta e alle capacità possedute al fine di sviluppare percorsi autoriflessivi, la gestione dello stress e la percezione del senso di sé.

Oltre al tema del pensiero narrativo (Bruner) è interessante considerare come l’orientamento sia verso la positività dell’azione, non intesa come rafforzamento ed innalzamento delle performance, ma finalizzato alla necessità di non porre attenzione esclusiva alle negatività contestuali per giungere alla realizzazione dell’obiettivo di eleminarle o superarle.

Un capitolo de Il giardino dell’umano è dedicato all’evoluzione interiore nel CGO dove l’ascolto profondo nei gruppi come motore per la scoperta di istanze esistenziali, la mente intuitiva promotrice di percezione complessiva dei fenomeni, la dimensione dell’accettazione e quella spirituale (visione olistica dell’uomo) ed il presencing fanno da sfondo alla filosofia del cambiamento in profondità attraverso il modello CGO, dove i soggetti cambiano dall’interno, così come le organizzazioni e la società.

Per concludere, un capitolo è dedicato alla spiegazione delle fasi che compongono il modello di intervento; dall’analisi della domanda, passando attraverso la progettazione, si evidenziano i concetti della strutturazione dell’intervento presso i gruppi all’interno delle organizzazioni (vengono presentate 50 attività di lavoro utili al professionista come stimolo guida per strutturare gli interventi).

L’obiezione di coscienza, regolamentata dalla giurisdizione, è dannosa per la salute mentale delle minoranze sessuali (LGBQ) – FluIDsex

Sempre più frequenti sono le forme di discriminazione che le persone con un differente orientamento sessuale si trovano ad affrontare ogni giorno. Non è sempre facile reagirvi e il peso di queste discriminazioni si fa sentire anche sulla salute mentale.

 

In seguito alla legalizzazione nazionale del matrimonio omosessuale nel 2015 in America, gli oppositori hanno manifestato il proprio disappunto obiettando di coscienza, evitando di rilasciare licenze matrimoniali, di preparare torte nuziali, o di affittare location agli sposi o alle spose e così via. Queste iniziative sono state promosse e legalizzate dalla legislatura di alcuni stati americani, tra cui lo Utah, il Michigan e la Carolina del Nord.

Un recente studio americano, condotto da una ricercatrice di diritto sanitario della Scuola di Sanità Pubblica di Boston (BUSPH), Julia Raifman, ha scoperto come le leggi statali che consentono la negazione di servizi matrimoniali di diverso tipo alle coppie omosessuali, a causa delle convinzioni religiose o morali, danneggiano così facendo la salute mentale dei soggetti colpiti da tale discriminazione.

I dettagli sullo studio

Lo studio è stato condotto su 109.089 partecipanti, di cui 4656 appartenenti a minoranze sessuali (omosessuali, bisessuali, non eterosessuali altrimenti identificati), di età uniformemente distribuita tra i 18 ed i 64 anni, residenti in tre stati americani in cui sono state implementate le leggi capaci di disciplinare la limitazione di servizi nei confronti di coppie omosessuali (Utah, Michigan, Carolina del Nord) o in sei stati americani, demograficamente simili ai precedenti tre, ma senza leggi discriminatorie (Nevada, Idaho, Ohio, Indiana, Virginia e Delaware), considerati come controlli.

I partecipanti hanno completato il Behavioral Risk Factor Surveillance System (BRFSS), un questionario autosomministrato capace di registrare i sintomi ansiosi, depressivi e di ulteriori patologie mentali.

Dallo studio emerge che la percentuale di adulti appartenenti a minoranze sessuali (LGBQ) che soffrono di disturbi mentali è aumentata al 46%, in seguito all’entrata in vigore di leggi che legalizzano la negazione di servizi a coppie omosessuali. Mentre la percentuale di adulti eterosessuali che soffrono di disturbi mentali è rimasta invariata in seguito all’entrata in vigore di tali leggi.

La ricercatrice Raifman afferma:

Questo studio dimostra che le leggi che consentono la negazione dei servizi alle coppie dello stesso sesso danneggiano la salute degli adulti delle minoranze sessuali – senza giovare alla salute degli adulti eterosessuali”, inoltre “I dati che abbiamo già sulle disparità dimostrano l’importanza di continuare a raccogliere dati, ricerche e programmi LGBTQ per migliorare la salute LGBTQ.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’umore depresso delle mamme può indurre disturbi del sonno nei bambini

Un recente studio sembra mettere in evidenza come vi sia una maggiore tendenza nei bambini con madri che mostrano sintomi depressivi a soffrire di disturbi del sonno durante la crescita, mentre ciò sembra non avvenire nel caso di bambini con madri serene, per i quali le possibilità che sviluppino questo tipo di disturbi diminuiscono.

 

Ad evidenziare tutto questo è uno studio dell’Università della Pennsylvania grazie al quale Jianghong Liu, principale autrice della ricerca, ha evidenziato come le emozioni sperimentate durante la gravidanza influiscano sul comportamento del bambino e, in particolare, anche sulla qualità del sonno del bambino.

È stato anche dimostrato come l’emozione di gioia che le madri tendono a sperimentare in maniera crescente nei trimestri di gestazione, ed in modo particolare durante il secondo e il terzo trimestre, risulta essere un fattore protettivo rispetto alla possibilità che i bambini soffrano di disturbi del sonno.

La ricerca

Lo studio ha coinvolto 833 bambini della scuola materna, con età media di circa sei anni.

I ricercatori si sono impegnati nella valutazione dello stato emotivo delle mamme, prima e dopo il parto, prestando particolare attenzione alla valutazione dell’emozione di gioia percepita dalle madri durante la gravidanza, valutata nello specifico attraverso una serie di domande che si basavano su di una scala a 5 punti per la felicità e una serie a 3 punti per la depressione.

Per quanto riguarda i bambini, sono stati valutati sia i disturbi del sonno, utilizzando il sottodominio di sonno della lista di controllo del comportamento del bambino (CBCL), sia i problemi comportamentali utilizzando il punteggio totale (CBCL).

Sono stati poi eseguiti modelli lineari generali per esaminare le associazioni corrette tra i disturbi del sonno infantile e lo stato emotivo materno.

I risultati hanno mostrato che i bambini di mamme che esprimevano emozioni più vicine allo spettro depressivo durante il periodo postnatale o durante entrambi i periodi prenatale e postnatale, presentavano maggiori probabilità di presentare disturbi del sonno. Più alti livelli di gioia percepita nel secondo e terzo trimestre, invece, erano significativamente associati a un ridotto rischio di sviluppare disturbi del sonno durante la crescita.

Sulla base di quanto emerso, secondo Liu, i risultati di questo studio rivendicano con forza l’importanza di prestare maggiore attenzione alla salute emotiva materna fin dalla fase prenatale. I dati, inoltre, mostrano come la qualità della salute emotiva della madre possa avere un impatto forte sulla qualità del sonno infantile. Ciò va a rinforzare l’importanza di avere un adeguato sostegno familiare e della comunità nei confronti delle mamme che sono in attesa.

Asfissia perinatale: cause, caratteristiche e fattori di rischio

L’incidenza di morte o di limitazioni neurologiche gravi per asfissia perinatale è di 0,5-1,0 per 1000 nati vivi nei paesi industrializzati, mentre nei paesi in via di sviluppo l’ asfissia perinatale risulta avere un’incidenza maggiore. 

Valeria Mancini, Serena Pattara – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

L’uso della terminologia sofferenza fetale, per la diagnosi ante e intrapartum, e di asfissia, per la diagnosi perinatale, è stato recentemente oggetto di molti dibattiti ed argomentazioni.

Cosa s’intende per sofferenza fetale?

La Classificazione Internazionale delle Malattie (IX revisione, Modificazioni Cliniche, 1 Ottobre 1998) identifica come condizione di sofferenza fetale la presenza di acidemia fetale metabolica, escludendo quindi l’equilibrio acido-base anomalo, le anomalie del ritmo o della frequenza cardiaca fetale, la tachicardia fetale ed il liquido tinto di meconio dalla definizione stessa.

Questa patologia alla nascita riguarda circa l’8% del totale delle morti dei bambini fino a cinque anni e rappresenta la quinta causa di morte dopo la polmonite, la diarrea, le infezioni neonatali e la nascita prematura (Borrelli et al., 2007).

Asfissia perinatale

L’ asfissia perinatale costituisce una causa importante di danno cerebrale perinatale acquisito nei neonati a termine. L’incidenza di morte o di limitazioni neurologiche gravi consecutive ad asfissia perinatale è di 0,5-1,0 per 1000 nati vivi nei paesi industrializzati, mentre nei paesi in via di sviluppo l’ asfissia perinatale risulta avere un’incidenza maggiore.

È stato calcolato che, su 130 milioni di nascite annue nel mondo, 4 milioni di neonati soffrono di asfissia perinatale, e di questi circa 1 milione muore mentre un numero equivalente riporta sequele di rilievo, con prevalenza maggiore nei paesi in via di sviluppo, e con un numero approssimativo di neonati colpiti che va da 8000 a 25000 nella sola area europea (Ann. Ist. Super. Sanità, 2001).

Le cause sono eterogenee ma nella gran parte dei casi il momento scatenante è costituito da un’alterazione degli scambi gassosi tra la madre e il feto, con riduzione della pressione parziale di ossigeno (PO2), aumento della pressione parziale di anidride carbonica (PCO2) e diminuzione di pH nel sangue, con prevalente utilizzazione delle vie anaerobiche per la produzione di energia e successiva liberazione di radicali acidi, acido lattico in particolare (Moretti, 2002). L’attivazione delle vie anaerobiche comporta un eccesso di radicali acidi, misurato comunemente mediante il deficit di basi. Un deficit di basi superiore a 12 mmol/L suggerisce una acidemia metabolica, e quindi una ipossia particolarmente prolungata o comunque severa. Rispetto al deficit di basi, il pH ha una correlazione meno stretta con il grado di acidemia metabolica fetale. Infatti esso dipende anche dalla pressione parziale di CO2 (acidosi respiratoria) oltre che dalla produzione di radicali acidi indicativi di acidosi metabolica (Pilu et al., 1992; da ACOG Technical Bulletin n. 163, 1992; da Mac Lennan, 1999).

Il meccanismo con il quale l’ asfissia perinatale si verifica è conosciuto solo in parte; in molti casi il processo è presumibilmente legato ad una anomala formazione della placenta, ha un andamento cronico e si traduce nella nascita di feti di dimensioni inferiori alla norma. Le cause di asfissia perinatale normalmente sviluppata verso il termine di gravidanza, e soprattutto in travaglio di parto, sono eterogenee, e comprendono eventi acuti come distacco intempestivo di placenta, trasfusione feto-materna e compressione del cordone ombelicale (Ghi et al., 2004).

Due tipi di asfissia: fetale e neonatale

Schematicamente vengono distinti due tipi di asfissia: fetale e neonatale.

L’ asfissia fetale può aversi per interruzione del flusso ematico ombelicale in caso di compressione del funicolo durante il travaglio o per distacco di placenta o per una cattiva perfusione del lato materno della placenta (es. ipotensione materna). Un feto in condizioni gravi per anemia (malattia emolitica) o con un ritardo di accrescimento sopporta meno bene l’ipossia e quell’acidosi fisiologica che si sviluppa durante il travaglio.

L’ asfissia neonatale si verifica in caso di mancato inizio della normale attività respiratoria per depressione dei centri respiratori (asfissia fetale, farmaci materni, prematurità) ma anche per una grave malattia del parenchima polmonare (malattia delle membrane ialine polmonari, ipoplasia polmonare) o per ostruzione delle vie aeree o per debolezza dei muscoli respiratori.
Spesso un processo asfittico, iniziato prima della nascita, può continuare anche dopo per il mancato inizio di una valida attività respiratoria, aggravandosi ulteriormente.

A questi due tipi, si aggiunge l’asfissia prenatale, la prematurità, la presenza di malformazioni, l’azione di farmaci materni e le infezioni possono interferire con i normali processi di adattamento alla nascita, e, causare, l’insorgenza di una insufficienza cardiorespiratoria (mancato inizio dell’attività respiratoria, bradicardia). Se un neonato apnoico e bradicardico al momento della nascita non viene rianimato in modo efficace e tempestivo, va incontro ad una grave asfissia postnatale (Castello, 2007).

Asfissia e livelli di gravità

Negli anni 1960-70 la sofferenza fetale veniva distinta in acuta, subacuta e cronica.

La sofferenza fetale acuta insorge in travaglio di parto ed evolve rapidamente, è dovuta ad una drastica riduzione degli scambi respiratori materno-fetali (generalmente compressioni funicolari, nodi veri, ecc…) dura pochi minuti, provoca asfissia e può causare morte fetale. Nel neonato a termine, di solito provoca dei danni neurologici che si manifestano nel periodo compreso tra la 12a settimana prima del parto e non oltre la prima settimana di vita.

La sofferenza fetale subacuta insorge in travaglio di parto o pre travaglio, è legata ad una riduzione degli scambi gassosi materno-fetali (ipertono uterino, discinesie, ipercinesie) che, se limitata nel tempo, è compatibile con la sopravvivenza del feto; ha una durata misurabile in ore e può indurre asfissia fetale.

La sofferenza fetale cronica si verifica, invece, nel corso della gravidanza per alterazione degli scambi materno-fetali (insufficienza placentare) con diminuito apporto di sostanze nutritive al feto, indotti dalla rallentata perfusione tissutale; gli scambi respiratori, seppur ridotti, non sono generalmente molto compromessi. Dura giorni o settimane e determina iposviluppo fetale che, nei casi più gravi, può esitare nella morte endouterina del feto. Questa forma è la più frequente, rappresentando l’ 80-90 % dei casi (Borrelli et al., 2007). Studi sperimentali hanno evidenziato che, nella forma cronica, la ridotta perfusione favorisce il metabolismo prevalentemente anaerobico determinando un’aumentata produzione di metaboliti acidi i quali portano ad un abbassamento del pH, che dà luogo a disfunzioni nell’azione degli enzimi e in definitiva ad un rallentamento della crescita fetale (Lilford et al., 1990).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce, nella Decima Revisione della Classificazione delle Malattie (ICD-10), “Asfissia da parto” due diverse condizioni: severa e lieve o moderata (ACOG Practice Bulletin No. 70, 2005).

  • L’asfissia severa da parto è definita come “un polso inferiore a cento battiti per minuto alla nascita e in diminuzione o persistente, respirazione assente o gasping, colorito scarso, tono assente”. La ICD-10 dà due definizioni parallele per la asfissia grave da parto “Punteggio Apgar ad un minuto uguale a 0-3” o “Asfissia pallida“.
  • L’asfissia da parto lieve o moderata è definita come “respirazione normale non istituita entro un minuto ma con frequenza cardiaca di 100 battiti per minuto o superiore, presente lieve tono muscolare, lieve risposta alla stimolazione”. La ICD-10 dà “Punteggio Apgar ad un minuto uguale a 4-7” o “Asfissia blu” come definizioni parallele di asfissia da parto lieve o moderata.

Tutte le condizioni che interferiscono con il trasporto dell’ossigeno dall’atmosfera ai tessuti fetali possono essere causa di sofferenza fetale (Bucci et al., 2000).

Fattori di rischio e cause dell’asfissia perinatale

I fattori di rischio e le cause di asfissia perinatale possono essere ricondotti a: origine materna, diabete, gestosi, ipertensione gestazionale, crisi emolitica (anemia falciforme), cardiopatie, malattie polmonari (broncospasmo, ansia), ipotensione (sindrome da compressione cavale), anestetici, analgesici, ipossia o ipercapnia materna, shock emorragico, cardiogeno e settico; origine uterina, ipertono, eccessiva somministrazione di ossitocina (contrazioni eccessive delle pareti uterine), rottura d’utero; origine placentare, infarti, senescenza, idrope, distacco intempestivo di placenta normalmente inserta, placenta previa; origine cordonale, nodo vero, prolasso di funicolo, brevità assoluta, emorragia da vasi previ; origine fetale, anemia, miocardite, idrope, tachiaritmia, anomalie congenite, isoimmunizzazione, ipotensione, infezione perinatale, traumi sistema nervoso centrale, gemellarità, nascita pre o post termine, ridotta o eccessiva crescita.

Infine ci sono le cause di origine neonatale divisibili in due gruppi (Kattwinkel et al., 2002):

1) con comparsa della sintomatologia al momento della nascita: a) lesioni traumatiche del SNC, del midollo spinale, dei nervi periferici; b) depressione bulbare per impiego di dosi eccessive di anestetici nella madre; c) aspirazione di muco o di liquido amniotico nelle vie aeree del feto durante il parto; d) grave ipovolemia (da emorragie del cordone ombelicale, trasfusione feto-materna, feto-fetale).

2) con comparsa dei sintomi più tardiva: a) da fattori cardiocircolatori: insufficienza acuta di circolo nei vizi congeniti di cuore (trasposizione dei grossi vasi, atresia tricuspidale, Fallot di grado estremo, ecc.), collasso cardiocircolatorio da anemie acute (melena dei neonati, ittero grave neonatale, ematoma sottocapsulare del fegato); b) da fattori centrali: emorragie intracraniche, edema cerebrale, alterazioni anossiche cerebrali; c) da fattori respiratori: gravi affezioni respiratorie neonatali (enfisema lobare, pneumotorace spontaneo, broncopolmoniti ad ingestis, sindrome da aspirazione massiva, ateletassia, malattie delle membrane ialine polmonari).

Esperimenti compiuti sugli animali da laboratorio suggeriscono che la completa occlusione del cordone ombelicale di un feto di scimmia di durata inferiore a 10 minuti comporta un alto tasso di mortalità, legato soprattutto a deficit miocardico da ischemia, ma raramente lesioni organiche residue nei sopravvissuti. Una compressione parziale ma protratta del cordone ombelicale determina morte in molti casi ma anche, nei sopravvissuti, depressione dell’attività motoria e cardiaca, edema cerebrale, convulsioni, emorragia surrenalica e necrosi renale (Pilu et al., 1972; da Myers, 1972). Nei neonati sopravvissuti può essere presente una vasta gamma di manifestazioni cliniche. Oltre a lesioni organiche di varia natura, legate alla ipossia e alle alterazioni emodinamiche prodotte da questa (edema cerebrale, emorragie cerebrali, emorragie surrenaliche, enterocolite necrotizzante) può essere presente depressione della attività motoria e cardiaca, associata a volte a segni di ipereccitabilità e convulsioni (Pilu et al., 1988; da Ellenberg, Nelson, 1988).

Queste manifestazioni neurologiche vengono comunemente definite encefalopatia ipossico-ischemica, sono uno dei principali marcatori della paralisi cerebrale e vengono seguite da riperfusione e riossigenazione (Pilu et al., 1998; da Badawi, 1988).

Durante l’insulto ipossico-ischemico viene causato un danno neuronale primario con necrosi cellulare (Hossinan, 1983). La rianimazione neonatale e la rinnovata disponibilità di ossigeno e di flusso ematico, sebbene necessaria per limitare il danno cellulare ischemico, determina una fase di ossigenazione e riperfusione che produce un danno ritardato, secondario, neuronale. Il meccanismo ritenuto responsabile di questa fase secondaria della lesione neuronale è la produzione di radicali liberi dell’ossigeno (Mc Cord, 1985), l’ingresso del calcio intracellulare (Siesjo, 1992) e la successiva morte cellulare per apoptosi (Buttke, Sandstrom, 1994). Inoltre la presenza di convulsioni è un dato comune della encefalopatia ipossico-ischemica (Sarnat, Sarnat, 1976), e rappresenta una causa aggiuntiva di danno, producendo aumento della richiesta metabolica del sistema nervoso centrale (SNC) (Youkin et al., 1986), rilascio di neurotrasmettitori eccitatori (Mc Donald, Johnston, 1990), fluttuazioni nella pressione arteriosa sistemica (Clozel et al., 1985), ipossia ed ipercapnia.

Uno sguardo sull’universo di analogie tra la psicologia dinamica e la fisica quantistica

Nel mondo della psicoanalisi, il processo clinico di denominazione, e quindi l’identificazione del materiale inconscio, non direttamente “osservabile” prima di una analisi, è simile al processo di esame, in fisica quantistica, che determina il collasso della particella.

Lo studio della fisica quantistica genera inizialmente più dubbi che certezze, a tal punto che “chi non ne rimane sconvolto, probabilmente non l’ha capita”, come sosteneva Niels Bohr, premio Nobel per la fisica nel 1922. Tuttavia, dietro il complesso funzionamento delle particelle subatomiche che costituiscono l’atomo e dietro le teorie ed i principi che ne regolano le leggi, si nascondono delle verità dimostrate che possono avere delle implicazioni fondamentali per la psicologia.

La psicoanalisi, per molti versi, è considerata uno sforzo unico e la meccanica quantistica sembrerebbe altrettanto sui generis, unica nel suo oggetto e nelle sue conclusioni: alcuni risultati di quest’ultima potrebbero spiegare per analogia ciò che gli analisti hanno sempre esemplificato?

Nel 1924 Sigmund Freud riconobbe che la psicoanalisi è piena di contraddizioni e paradossi, che però non la invalidano dalla possibilità di essere una scienza (Freud, 1924). Qualche anno più tardi, Warner Karl Heisenberg ha osservato che i paradossi della teoria quantistica non scompaiono durante il processo di chiarificazione, ma al contrario diventano ancora più marcati ed emozionanti, rendendo la ricerca scientifica più interessante (Selleri, 1990). Si evince come i due pionieri di due mondi apparentemente lontani hanno condiviso simili convincimenti in merito al proprio oggetto di studi (Dean, 2005).

Principi di base della Fisica quantistica

Apriamo dunque una finestra verso il mondo della fisica quantistica e verso alcuni suoi assunti di base, considerando le leggi che governano il funzionamento del mondo degli atomi, o più precisamente delle sue componenti ovvero le particelle subatomiche.

Nel 1926 Bohr gettò le basi del Principio di Complementarità parlando di dualità onda-particella, intendendo dire che le entità subatomiche sono contemporaneamente onde e particelle, anche se la differenza tra le due condizioni è considerevole.

Secondo il Principio di Indeterminazione di Heisenberg, postulato nel 1927, all’atto di un’osservazione nel mondo subatomico, un elettrone verrà rilevato solo in un punto tra quelli possibili, ovvero la funzione d’onda collasserà in quel singolo punto (Salese e Bertolotti, 2005). La fisica non è in grado di prevedere quale punto verrà scelto ma può determinarne a priori solo una rosa di probabilità su certi valori definiti, da cui deriva proprio l’elemento casuale del principio di indeterminazione. Esiste quindi un limite intrinseco alla conoscibilità del mondo microscopico; per effettuare una misura su un oggetto si deve interagire con esso, modificandone automaticamente lo stato dell’oggetto stesso.

Un altro aspetto interessante è il Principio di non località, cioè il fatto che parti lontane di uno stesso sistema interagiscono tra loro istantaneamente: fu John Stewart Bell nel 1964 a discuterne in maniera chiara ed esaustiva, dimostrando matematicamente che l’ipotesi secondo cui il mondo è intrinsecamente localizzato è errata (Bertolotti, 2005). Il fenomeno più vistoso di non-località è rappresentato dall’entanglement quantistico (che significa letteralmente ingarbugliamento) che coinvolge due o più particelle generate da uno stesso processo o che si sono trovate in interazione reciproca per un certo periodo. Queste particelle rimangono in qualche modo legate indissolubilmente (entangled) nel senso che quello che accade a una di esse si ripercuote immediatamente anche sull’altra, a prescindere dalla distanza che le separa (Dzhafarov e Kujala, 2012).

Punti di contatto tra Psicoanalisi e Fisica quantistica

Nel mondo della psicoanalisi, il processo clinico di denominazione, e quindi l’identificazione del materiale inconscio, non direttamente “osservabile” prima di una analisi, è simile al processo di esame, in fisica quantistica, che determina il collasso della particella (Gargiulo, 2006).

È possibile sostenere che il collasso della funzione d’onda può essere un’utile analogia per spiegare quello che un analista o uno psicoterapeuta ad orientamento dinamico fa nella pratica clinica, quando fa un’interpretazione. Possiamo ricordare come la misurazione di una particella subatomica determina una variazione che si verifica nella nostra conoscenza quando si prende coscienza di ciò che è stato definito come il “collasso della funzione d’onda”. Questo significa che l’osservazione/ valutazione porta ad un cambiamento effettivo. Allo stesso modo, l’interpretazione clinica che avviene all’interno della relazione terapeutica basata su interventi espressivi, determina di fatto un’osservazione critica da parte del terapeuta, e quindi un cambiamento di coscienza nel paziente (Gargiulo, 2010). Ad esempio: quando un terapeuta ad orientamento psicodinamico restituisce chiarezza al paziente rispetto ad alcune sue dinamiche inconsce, aiutandolo a recuperare il materiale rimosso, questi raggiunge l’insight che può essere considerato uno degli obiettivi di tutto il processo terapeutico. Di fatto c’è un cambiamento attraverso l’intervento di un osservatore: come delle informazioni presenti nell’individuo, ma latenti, attraverso l’osservazione diventano coscienti, così l’onda, priva di una localizzazione e di una forma, diventa particella, ed è quindi riconoscibile ed osservabile: proprio come le dinamiche inconsce che diventano consce.

Ci sono inoltre buoni motivi per considerare il modus operandi della psiche molto vicino alla teorizzazioni della meccanica quantistica, più precisamente del processo primario, che consiste nella serie di regole che governano il funzionamento dell’inconscio, che è motivato da ciò che è definito dal principio del piacere (Marmer, 1999). In questo livello psichico profondo non vi è successione temporale, nel lavoro di condensazione e spostamento non vengono considerarti fra loro aspetti contraddittori e si ha trasferimento di energia da una rappresentazione all’altra. Si nota dunque come in tal modo sia possibile rileggere l’inconscio freudiano in base ai principi della fisica quantistica, per trovare parallelismi ed analogie utili (Facchini, 2011).

Matte Blanco (1975) ha saputo fornire un importante contributo sulla spiegazione del funzionamento di tale processo dell’inconscio: non lo considera il regno dell’illogico postulato da Freud, bensì il regno in cui esistono logiche non aristoteliche. Postula, quindi, l’esistenza di una bi-logica, ossia di una doppia logica:

  • la logica asimmetrica (razionale, computazionale, che segue la logica aristotelica, quindi valgono i principi di identità, di contraddizione, e del terzo escluso )
  • la logica simmetrica (non razionale, non computazionale, dove A=B, i principi precedenti non sono validi)

La logica simmetrica, che caratterizza il funzionamento dell’inconscio da lui enunciata e le sue tipiche peculiarità, ha una singolare affinità con la legge di non-località, che definisce e descrive il comportamento dei quanti, di certe proprietà delle particelle elementari (Uccelli, 2010): grazie allo spostamento ed alla condensazione, le caratteristiche attribuite ad un oggetto possono influenzare un altro oggetto.

L’assenza di contraddizione mutua, che prevede che due affermazioni che si contraddicono mutualmente possono coesistere tranquillamente in un discorso (Figà-Talamanca Dore, 1978), ha una forte analogia con il principio di complementarietà della meccanica quantistica: si parla di dualismo onda-particella per definire proprio la sua doppia natura (Marcolongo, 2000).

Anche la concezione junghiana di inconscio collettivo può essere oggetto di analogia con i paradigmi della fisica quantistica. Jung, trattando la sincronicità e subendo l’influenza di Pauli, è innanzitutto giunto alla convinzione che gli eventi sincronici della vita umana (le cosiddette coincidenze) fossero dovuti al principio parimenti sincronico insito delle leggi universali della fisica subatomica (il principio di non località) (Facchini, 2011). Quindi, esemplificando, un evento non si verifica per caso, ma è correlato ad un evento non direttamente osservabile, come la funzione d’onda di una particella è legata ad un’altra sita in uno spazio differente.

Allo stesso modo, l’inconscio collettivo e gli archetipi hanno la loro origine nelle leggi fisiche subatomiche; l’inconscio, per Jung, ha due livelli, quello personale e quello collettivo: mentre l’inconscio personale contiene i ricordi perduti e rimossi perché penosi, quello collettivo rimanda ad immagini originarie, a quelle forme di rappresentazione più antiche e generali dell’umanità, schemi di base universali, impersonali, innati, ereditarie che lui chiama archetipi (Di Maria e Formica, 2006). Questi archetipi sono, quindi, insiti in ogni individuo, ed esercitano un influenza al comportamento ed al funzionamento dell’inconscio degli individui, e di fatto la loro influenza nell’individuo è simile a quella delle particelle lontane esposta nel Principio di non località (Grandpierre, 1997).

Sembrerebbe che quest’ultimo principio, più volte citato, in qualche modo riscrive il concetto di determinismo e di causa-effetto, considerando in maniera più integrata ed olistica la realtà ed i fenomeni che la caratterizzano. La nuova visione della fisica quantistica ritiene che ogni entità esistente è una vibrazione nello spazio-tempo, in cui ciascuna vibrazione dà origine a campi/ particelle diverse, ed anche l’essere umano, nella sua integrità, non è esente da tale interpretazione (Salese e Bertolotti, 2005).

Si aprono nuovi scenari per la Psicoanalisi

Il fascino del mondo subatomico, e delle leggi che ne regolano il funzionamento, sembra capace di allontanare dalla realtà del mondo circostante. Al contrario, conoscere i principi della fisica quantistica aiuta la comprensione dell’altro, del mondo in cui viviamo, di noi stessi.

Conoscere queste leggi permette una più completa e corretta interpretazione degli eventi materiali, degli stati di funzionamento del mondo inconscio. D’altra parte, Jung già sosteneva che “Prima o poi, la fisica nucleare e la psicologia dell’inconscio si avvicineranno fra loro poiché entrambe, indipendentemente l’una dall’altra e partendo da direzioni opposte, si spingono avanti in un territorio trascendentale” (Jung, 1964).

È arrivato il momento? Condivido il pensiero di Laruffa (2012) secondo cui essere una persona altamente aperta ai nuovi paradigmi ed alla capacità di integrarli con amore per la conoscenza umana, nel rispetto della relatività del tutto, sia una responsabilità morale e professionale di chi si occupa della cura del disagio psichico e della promozione della salute mentale.

Il pedagogista e l’educatore a scuola. Intervista all’Associazione Pedagogisti Educatori Italiani (APEI)

L’APEI, sin dalla sua fondazione nel 2007, ha sempre ritenuto che la scuola fosse uno dei principali ambiti di intervento del pedagogista e dell’ educatore, promuovendo un intenso lavoro culturale e di politica professionale in tutto il territorio nazionale tramite laboratori, seminari e convegni.

 

Infanzia e adolescenza: fasi sensibili dell’età evolutiva, dove l’attenzione e la cura del bambino/adolescente investono l’armonia fisica, psicologica, relazionale, e dove la cura interessa le agenzie educative per eccellenza chiamate a monitorare e stimolare lo sviluppo dell’adulto di domani, scuola e famiglia.

In un concerto di compiti evolutivi che struttureranno la personalità adulta, le figure dell’ educatore e del pedagogista assumono un ruolo essenziale nel facilitare l’attuazione del processo educativo. Quale ruolo specifico ha oggi il pedagogista a scuola, quali problemi incontra (e con questi la scuola e l’educazione nel suo complesso) in una società in cui diverse emergenze educative risultano preminenti, e in cui il bambino e l’adolescente ricercano un posto che restituisca il senso della loro esistenza?

Chi sono pedagogisti ed educatori?

I pedagogisti e gli educatori professionali socio-pedagogici sono professionisti con precise competenze scientifiche e metodologiche che intervengono nel naturale processo di crescita e di sviluppo della persona, nell’ottica dell’educazione permanente e della prevenzione​ ​educativa​ ​primaria, e puntano l’accento sulla centralità dell’alunno nel processo educativo, con uno sguardo centrato sulla persona ancor prima che sulla performance, senza il quale si sperimenta la fatica a dare risposte alle innumerevoli problematiche esistenziali, sociali, relazionali e di ricerca di senso dei bambini e degli adolescenti – spiega Samuele Amendola, educatore professionale e presidente dell’Associazione Pedagogisti Educatori Italiani (APEI) per la Sicilia – L’ educatore professionale socio-pedagogico e il pedagogista, esperti della relazione educativa, costituiscono all’interno della scuola quelle risorse indispensabili ad attivare una rete, aiutando tutti coloro che fanno parte dell’ambiente scolastico (famiglie, docenti, extra scuola…) a dare il proprio contributo in collegialità, avendo sempre come punto di riferimento il bambino, l’alunno, protagonista del suo apprendimento e della creazione di un personale progetto di vita.

Una rete che sia responsiva alle esigenze degli alunni, che collabori per un progetto di realizzazione del Sé che investa il futuro, e che contrasti solitudini e impotenze educative.

L’importanza di fare rete

La principale criticità che oggi il contesto scolastico vive è la solitudine, solitudine degli insegnanti, spesso lasciati soli nel loro tanto difficile quanto fondamentale ruolo, ma anche solitudine dei genitori, delle famiglie. È importante quindi spezzare questa solitudine attraverso l’elaborazione di progetti comuni, attraverso la compartecipazione, attraverso il fare rete anche con il territorio. Un fare rete che agisca in senso proattivo e progettuale: in quest’ottica il pedagogista e l’ educatore, prima ancora che ricercare le cause di una determinata emergenza, intervengono su ciò che emerge o che ha bisogno di emergere in termini di progettualità educativa, di espressione e realizzazione personale, di originalità e creatività nell’ottica del pensami adulto. Quel pensami adulto di cui parlava Mario Tortello, cioè il preparare insieme all’alunno e, a tutti coloro che fanno parte del suo mondo, un progetto formativo, culturale e professionale nel quale sarà presente la visione della persona che egli sarà domani.

Un collaborare che facilita il lavoro complesso, talora frustrante, del docente e che diventa per il docente stesso momento di arricchimento professionale e personale.

Come APEI riteniamo che non sia più possibile derubricare l’educazione a un problema di emergenza estemporaneo. – continua Amendola – La scuola e la famiglia necessitano di una figura di raccordo, attenta alle biografie umane e volta ad accompagnare gli alunni senza classificarli o diagnosticarli. Chiedono dei professionisti capaci di mediare quella complessità che a volte può sembrare disorientante e difficile da gestire. Ecco perché lo Stato italiano forma pedagogisti ed educatori, per svolgere quelle funzioni che non possono essere umanamente sostenute, nella loro articolazione ricca e necessaria, dall’attuale formazione del corpo docente, ma che sono individuate come prioritarie per connettere realmente la scuola al tessuto vitale del territorio. Nella scuola c’è bisogno di ripresa della ricerca pedagogica e scientifica, di una ricerca e sperimentazione frutto dell’alleanza tra pedagogia e neurologia (neuropedagogia) con le sue ricadute didattiche; in quest’ottica la presenza di pedagogisti ed educatori a scuola consentirebbe anche agli insegnanti di avvalersi di efficaci strumenti etico-pedagogici e didattico-scientifici per svolgere al meglio le loro funzioni.

Alla luce quindi dell’importanza educativa e sociale della figura del pedagogista in che modo APEI sostiene la figura dell’ educatore a scuola?

L’APEI, sin dalla sua fondazione nel 2007, ha sempre ritenuto che la scuola fosse uno dei principali ambiti di intervento del pedagogista e dell’ educatore, promuovendo un intenso lavoro culturale e di politica professionale in tutto il territorio nazionale tramite laboratori, seminari e convegni. – conclude Amendola – Nel 2015, in occasione della consultazione del Governo per la scrittura della Riforma La Buona Scuola, l’APEI ha avanzato la proposta di prevedere in organico scolastico queste due importantissime figure: proposta che risultò essere la più votata in assoluto sul sito del Miur. Da quest’anno le professioni di educatore professionale socio-pedagogico e di pedagogista sono state riconosciute dallo Stato, con la Legge 205/2017, dove sono stati convogliati i punti essenziali del Disegno di Legge Iori, che segna uno spartiacque nel mondo delle professioni educative.

Salvatore Amendola
Salvatore Amendola – Educatore professionale e presidente dell’Associazione Pedagogisti Educatori Italiani (APEI) per la Sicilia

Il tono delle interazioni sociali influenza il nostro spazio interpersonale

Lo spazio interpersonale è rappresentato da quella distanza che le persone mantengono tra sé e gli altri, la quale può esser modulata da fattori situazionali e da caratteristiche individuali. 

 

In un recente studio, condotto dai ricercatori dell’Anglia Ruskin University, dall’University College di Londra, dall’Universidad Carlos III di Madrid e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, è stata studiata l’influenza che l’interpretazione personale dell’interazione fra terzi può avere sullo spazio interpersonale. Ovvero, come la dimensione dello spazio interpersonale varia in seguito all’ascolto di conversazioni di altre persone con contenuti neutri o aggressivi.

Lo studio sperimentale

I partecipanti allo studio, 33 soggetti di età compresa tra i 19 ed i 30 anni, hanno ascoltato due conversazioni registrare tra due persone, di cui una conversazione aggressiva ed una conversazione neutrale.

In seguito all’ascolto di ciascuna registrazione gli sperimentatori hanno misurato il livello di spazio interpersonale in cui la persona si sentiva a suo agio, attraverso una tecnica di “stop-distance”. Tale tecnica prevede una registrazione audio di passi che si avvicinano al partecipante, il quale deve chiedere di fermare la registrazione non appena i passi erano troppo vicini a loro e hanno cominciato a sentirsi a disagio. L’utilizzo della registrazione dei passi, al posto di una reale persona, è servito a rimuovere il bias di qualsiasi pregiudizio visivo basato sull’aspetto fisico.

I passi che si avvicinavano sono stati registrati in una stanza vuota e silenziosa, lunga 17,4 metri, e la registrazione è stata fatta ascoltare a 20 partecipanti (esterni allo studio principale), i quali hanno valutato il suono su una scala likert da 5 (in lontananza) a 3 (in avvicinamento) a 0 (camminare sul posto).

Per ogni condizione sono state unite le clip audio per un totale di 2 clip audio di 208 secondi circa, di cui 165 s di conversazione, 1 s di pausa e 42 s circa di passi in avvicinamento, ovvero la finestra temporale di risposta durante la quale i partecipanti potevano interrompere la registrazione in base al disagio percepito.

Risultati e Conclusioni

I risultati mostrano come i partecipanti hanno interrotto la registrazione dei passi più lontano dal proprio corpo (media 7 secondi di distanza) in seguito all’ascolto della registrazione con la conversazione aggressiva, mentre hanno tollerato maggiormente l’avvicinarsi dei passi (media 4,5 secondi di distanza), in seguito all’ascolto della conversazione dai connotati neutrali.

Questi risultati supportano l’ipotesi per la quale le persone tendono ad allontanarsi maggiormente dagli altri in seguito all’ascolto di una conversazione aggressiva.

La dottoressa Cardini, docente presso l’Anglia Ruskin University, ha affermato:

Lo spazio interpersonale è lo spazio che manteniamo tra noi e gli altri per sentirci a nostro agio. In questo studio, abbiamo dimostrato per la prima volta che il tono delle interazioni sociali influenza la dimensione di questo spazio, anche quando non siamo direttamente coinvolti nell’interazione. Abbiamo scoperto che la dimensione media dello spazio interpersonale di qualcuno diventa maggiore dopo aver ascoltato una conversazione aggressiva che si svolge nelle vicinanze. Questo è probabilmente un tentativo di mantenere una zona di sicurezza intorno a noi ed evitare qualsiasi interazione o confronto con coloro che sono coinvolti nell’aggressiva conversazione.

Appuntamento all’ Ultimo Samurai – Un’anteprima dal libro di G. Salvatore: Lo Psicoterapeuta in Bilico

Per la rubrica Ritratti – La narrativa incontra la Psicologia, in anteprima per i lettori di State of Mind un brano tratto dal nuovo libro di Giampaolo Salvatore “Lo psicoterapeuta in bilico”

 

Arrivai dieci minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Presi posto al tavolo più lontano dalla porta d’entrata. Lessi otto volte il menù, confezionando un’espressione rapita per chi occupava il tavolo accanto al mio, per distrarli da quello che immaginavo stessero pensando: che ero un uomo sposato di mezza età che nella pausa pranzo di una giornata qualunque aspettava una semi-sconosciuta in un ristorante giapponese

 

Il ristorante giapponese L’ultimo samurai era al pianterreno di un palazzo in stile fascista perennemente inghiottito da ponteggi edili. Si affacciava sul lungomare, da cui lo divideva l’arteria del centro cittadino e la fila immobile di auto che vi transitava.

Gli automobilisti, eternamente fermi nel traffico, non potevano fare a meno di gettare uno sguardo sulle due lanterne rosse poste ai lati della porta d’entrata e sull’insegna, su cui c’era una gigantografia stilizzata di Miyamoto Musashi (i fanatici del Bushido lo riconoscevano dal fatto che impugnava due spade). Era conforme al prototipo dei ristoranti giapponesi che spuntavano come funghi. Quelli che ti offrono al tavolo il Menù fisso Teriyaki a 14,90 euro, il Menù fisso Sushi a 16,90 euro, il Menù fisso Sashimi a 19,90 euro, ecc.

Al centro della sala c’era il serpentone acciambellato del tapis roulant, con la superficie metallica che faceva scorrere le mono-porzioni di sushi e altro che venisse in mente al cuoco giapponese, che in realtà era filippino, di spacciare per pietanza del Sol Levante. Tipo il riso alla cantonese o i ravioli al vapore farciti di carne di maiale, che sono piatti tipici della cucina cinese. Ammuina culinaria che si poggia sulla tendenza dell’italiano medio a sovrapporre le culture cinese e nipponica. La presenza sul tapis roulant delle cotolette tagliate in listarelle sottili, invece, non me l’ero mai spiegata. Era l’ora di punta. Tutte le sedie davanti al serpentone erano occupate dai clienti che vedevano scorrere i piattini colorati davanti al loro sguardo svuotato di capacità decisionale, reso infantile dall’imbarazzo della scelta. Intorno al serpentone, una ventina di tavoli stipati fottendosene dei canoni del feng shui, con la tovaglia arancione hare krishna e le sedie nere con gli schienali in simil-ebano intarsiati, il cui soggetto aveva qualcosa a che vedere con dei draghi un po’ troppo arravogliati su loro stessi.

Arrivai dieci minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Aspettai su una panchina del lungomare, fissando gli autisti fermi nel traffico che fissavano le lanterne e Miyamoto Musashi. Entrai spaccando il secondo. Presi posto al tavolo più lontano dalla porta d’entrata. Lessi otto volte il menù, confezionando un’espressione rapita per i due amici – sicuramente avvocati, tutti Rolex, pancetta ed esuberanza da uso voluttuario di cocaina alternato a maschera distensiva antirughe – che occupavano il tavolo accanto al mio, per convincerli che il motivo sostanziale del mio essere lì fosse un’indomabile curiosità per la cucina orientale.

Questo per distrarli da quello che immaginavo stessero pensando. Che ero un uomo sposato di mezza età che nella pausa pranzo di una giornata qualunque aspettava una semi-sconosciuta bona in un ristorante giapponese con la speranza di scoparsela durante la pausa pranzo di una futura giornata qualunque.

Mentre tenevo lo sguardo fermo sul menù, Nikita comparve alla periferia del mio campo visivo. Feci finta di continuare a leggere, ma avevo già inquadrato il maxi-pullover viola a collo alto che un sottile cinturone nero di pelle faceva aderire pigramente ai fianchi. La figura piccola, snella, agile. Adesso mi sembrava solo un po’ più morbida di Anne Parillaud in Nikita. Fece tre passi sulla punta dei piedi, cercando di assottigliare ancora di più il suo corpo, per passare in uno spazio stretto tra le sedie di due tavoli troppo vicini. Uno di quei gesti che avvengono in una frazione di secondo, apparentemente insignificanti; eppure ti dicono qualcosa della sostanza caratteriale di una persona. In questo caso, l’attenzione estrema a non turbare lo stato delle cose, la tendenza a rendere silenziosissima la propria esistenza. E nello stesso tempo, che tutto questo in lei era al servizio di altro. Serviva a ottenere qualcosa. Appena fu abbastanza vicina, finsi di averla appena messa a fuoco. Si era data appena un filo di trucco. Era bella, purtroppo. In quel momento ebbi la sensazione netta che gli avvocati avessero notato la caricatura del mio trasalimento e avessero capito definitivamente la suonata. Mi costrinsi a sillabare col pensiero chi-sene-fot-te!

«Mi aspetti da molto?»

«Mannòòò, assolutamente.»

Lei, con la massima naturalezza, fece durare il suo sorriso, un po’ tenero un po’ sfottente, per la manciata di secondi che impiegò nel sedersi di fronte a me. Improvvisamente, desiderai di essere a casa. Cercai di distrarmi con i vari “visto che caldo?” e “mi è sempre piaciuta la cucina giapponese”. Questo mi fece tirare avanti per almeno cinque minuti assolutamente insignificanti. Poi mi prese una botta della ribalderia un po’ scanzonata che, dall’età di diciannove anni, aveva sempre funzionato alla grande come antidoto all’imbarazzo paralizzante da ex-chiattone. E cambiai marcia.

«Allora, posso chiederti cosa ti ha spinto a inviarmi quel messaggio?» dissi.

Percepii la vibrazione che le mie parole producevano nell’urtare contro lo spessore della comunicazione formale. Avevo appena fatto una di quelle domande che possono decidere la gerarchia di dominanza in un gioco come quello che stava iniziando.

Silenzio. Nikita guardava il suo menù e mi pareva che lo mettesse pure a fuoco e stesse lì lì per scegliere. Sembrava che la mia domanda così diretta e provocatoria, il mio viraggio brusco dai convenevoli al gioco della verità, non avesse prodotto la minima perturbazione nel suo organismo. Come se avesse cambiato marcia molto prima di me, fosse già avanti e mi stesse aspettando.

«Ti ho mandato quel messaggio parecchio tempo dopo la prima volta in cui ho desiderato mandartelo» mi disse tranquilla, ma con un’inflessione del tono di voce che aggiungeva è ovvio.

«Cosa ti ha… cioè… quando esattamente me l’av… resti voluto mandare?»

Con un incacagliamento come questo ci sarebbe stata benissimo un po’ di acne giovanile.

«Beh, questo non è molto importante. Voglio dire, stabilire con precisione il momento esatto. Non credi anche tu?»

«Assolutamente» dissi, sentendomi un fesso. E cercai di recuperare terreno: «Certo che tu sei proprio la conferma vivente di quanto aveva ragione Oscar Wilde quando diceva che le donne scelgono gli uomini che le sceglieranno.»

Lei abbassò lo sguardo sugli infradito da samurai laccati che di lì a poco avremmo usato come piatti, e sulle bacchette di legno che ogni volta che mangiavo cinese o giapponese mi ricordavano la scena di Karate Kid in cui il maestro Miyagi le usa per cercare di acchiapparci una mosca senza riuscirci. Inclinò un po’ la testa e sollevò impercettibilmente il mento; un’espressione che aveva due strati di significato. Il primo: “quello che dici mi lascia leggermente perplessa”. Il secondo: “il motivo per cui quello che dici mi lascia leggermente perplessa è che potrà anche averlo detto Oscar Wilde, ma a me pare una cazzata”.

Poi disse «mah, non so se sono d’accordo… Se proprio vuoi che parliamo dei meccanismi con cui gli uomini scelgono le donne, io sono disponibile, però bada che ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente voluto.»

Inside Out: una storia su come le emozioni ci possono guidare nel percorso di cambiamento

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out e di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni. Successivamente ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Abbiamo inoltre analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia-psicoeducazione ed il valore di questo film della Disney nel far sì che l’educazione emotiva raggiungesse il grande schermo. In un ultimo articolo, potete trovare un’anticipazione del nuovo cortometraggio basato sulle vicende di Inside Out e le nuove tappe di cambiamento nella vita dei protagonisti. (NdR).

 

Gioia, tristezza, rabbia, disgusto e paura sono i protagonisti indiscussi di Inside Out, commovente film animato che ci guida alla scoperta del valore delle nostre emozioni.

 

Una consolle, un posto di comando, dove cinque “piloti della mente” si destreggiano nel difficile compito di “monitorare” le sfide della crescita della piccola Riley.

Ed ecco che riconosciamo le cinque emozioni di base care ad Ekman, gioia, tristezza, rabbia, disgusto e paura, personaggi intenti ad “agire e reagire” alle vicende che interessano la piccola protagonista, giochi, amici, famiglia, a costituire quelle “isole della personalità” che fanno di ciascuno quello che è.

Inside Out: una storia sul cambiamento

Una storia di vita, una continuità evolutiva, quella di Riley, caratterizzata dalla vicinanza emotiva dei genitori, così come dalle amicizie costruite su un campo di ghiaccio da hockey, in cui Gioia è da considerarsi emozione predominante, punto di riferimento delle altre: fin qui tutto regolare.

Ma, come in ogni storia di vita segnata dal cambiamento, in quanto inevitabile mutamento delle condizioni esistenziali, l’imprevisto, la svolta, l’evento traumatico, insinuarsi nelle vite normali di una famiglia come tante: in Inside Out il lavoro difficile delle emozioni inizia quando arriva per Riley la notizia del trasloco, stressor di per sé in grado di destabilizzare un passato di certezze per molti versi inattaccabile, instabile come le certezze.

Da qui il repentino destabilizzarsi di un mondo interiore solido, sicuro, ecco l’essere sopraffatta da un trauma non elaborato, ecco il ribollire di emozioni mai pervenute alla coscienza, in un riemergere freudiano dell’Es, in quanto depositario delle pulsioni distruttive (e autodistruttive): rabbia, tristezza, paura prendono rapidamente il posto di gioia, finora regina indiscussa della psiche della piccola Riley, che faticherà a “riprendere il comando”, mitigando la forza annientatrice delle emozioni negative sulla scia della teorizzazione degli effetti degli eventi traumatici, negli stadi che dalla negazione e dalla rabbia giungono all’accettazione, cari alla Kubler-Ross.

Rabbia e Tristezza

Nel contrasto tra un passato perfetto e un presente inaccettabile, sotto il comando indiscusso di Rabbia, si gioca la decisione, apparentemente risolutiva, della fuga, nel tentativo di ripristinare un passato gioioso violato, dove anche a costo di “mettersi contro tutti”, sordi al dolore inaccettabile della perdita. Una Rabbia sterminatrice, frutto di una Tristezza innominabile, rifiutata, che, invece di ripristinare Gioia, ottiene l’effetto paradosso di spegnere tristemente quelle isole della personalità, caposaldo della felicità antica, come la famiglia di origine, ritenuta responsabile dell’ingiustizia o le vecchie amicizie, ree solo di continuare a percorrere la loro strada senza la piccola amica lontana.

Da qui lo svolgersi delle vicende di Rabbia e Tristezza al comando della mente, contro una Gioia che fatica a riemergere, a comprendere come riacquistare funzionalmente il comando della consolle psichica.

Sì, perché il piano di Riley appare lucido, netto, insindacabile: eliminare Tristezza, come percorso obbligato per rimettere tutto a posto, cancellando un cambiamento in quanto semplice incidente di percorso, alla fine del quale ritrovare la gioia e la serenità di un’infanzia spensierata, senza cambiamenti da accettare, senza scossoni da rielaborare.

Già, perché se cambiamento implica responsabilità, revisione di sé stessi e degli eventi, ancoraggio a una realtà cruda, ma ineliminabile, il compito evolutivo di Riley si intravede complesso, necessita di tempo (il tempo di elaborazione del lutto, appunto).
Un periodo in cui sviluppare la domanda cruciale: Davvero il mezzo per ritrovare una Gioia dispersa è fuggire dalle emozioni negative, ripudiarle? Davvero bisogna essere sempre ottimisti, felici, fiduciosi e tutto procederà per il meglio? Oppure diversamente affinché la Gioia divenga Felicità essa ha bisogno di Tristezza?

Cosa ci insegna Inside Out?

Ed ecco la sfida della psiche, la sfida che attende ciascuno di noi, a prescindere dall’età, dalle condizioni da affrontare, dall’entità delle sfide e dalla mancanza o presenza di aiuti esterni: accettare i cambiamenti in quanto inevitabili, valutando il flusso delle emozioni in senso non giudicante.

Soltanto in tal modo la tristezza può divenire esprimibile, condivisibile, perciò elaborabile, accettando il conforto degli altri e nel contempo sperimentando la propria forza nell’affrontare un dolore che si credeva insopportabile, unendosi a una comunità umana che soffre, che accetta la sofferenza e lo scacco come emozione intrinseca all’umano, contro cui non scontrarsi, ma da attraversare, per non esserne sopraffatti.

Emozioni, negative e positive, che fluiscono liberamente, che non avranno il potere di sottrarre Gioia, nella misura in cui accettazione e consapevolezza saranno assunte come vie maestre della Gioia, secondo la pratica Mindfulness promossa da John Kabat-Zinn. Poiché solo nell’accettazione della tristezza della perdita di un passato che, come tale, non può tornare, di una vita che comporta naturalmente pericoli, frustrazioni, rinunce, risiede la possibilità di re-investire le energie creative e vitali verso nuovi traguardi, nuove amicizie, progetti fruttuosi, parimenti fonte di gratificazione, canalizzando le energie psichiche e fisiche per i fini della realizzazione personale, in vista di una continuità evolutiva che non dipenda passivamente dalle traversie burrascose dell’esistenza, ma che ci veda protagonisti attivi nel senso dell’autoefficacia in divenire, secondo quanto individuato da Bandura e di un locus of control interno, che consegni a ciascuno il senso profondo della riuscita come frutto di azioni, scelte, obiettivi, controllo della propria vita.

Frequenti attacchi di collera nei bambini? Potrebbero diminuire grazie ad un maggiore controllo emotivo materno

Irritabilità, distrazione e stanchezza sono segnali di un esaurimento della capacità di controllo emotivo dei genitori. È  importante riconoscere questi segnali e rispondere ad essi concedendosi un time-out.

 

Un recente studio sulla genitorialità rileva come un maggiore controllo emotivo ed una maggiore capacità di risoluzione dei problemi (problem solving) da parte della madre possano rappresentare dei fattori protettivi rispetto allo sviluppo di problemi comportamentali infantili.

Lo studio è stato condotto da Ali Crandall ricercatrice di salute pubblica presso la Brigham Young University e da alcuni ricercatori della Johns Hopkins University e della Virginia Tech. Ali Crandall dichiara:

 Quando perdi il controllo, ciò influisce sulla tua genitorialità e quel caos influenza direttamente e indirettamente il comportamento di tuo figlio.

La ricerca

Lo studio è stato condotto su 152 madri (di età compresa tra i 21 ed i 49 anni) di bambini di età compresa tra i 3 ed i 7 anni.

Il controllo emotivo materno è stato misurato attraverso un questionario a 10 item attraverso i quali è stata misurata la frequenza con cui i partecipanti manifestavano “scoppi d’ira” o “reagiscono in modo esagerato a piccoli problemi”. Per quanto riguarda il funzionamento esecutivo, ovvero ciò che aiuta le persone a gestire la confusione e raggiungere gli obiettivi quotidiani, e che include le abilità di pianificazione, risoluzione problemi e orientamento verso ciò che è importante, è stato misurato attraverso una serie di compiti.

Successivamente alla registrazione dei livelli di controllo emotivo e di funzionamento esecutivo delle madri, i ricercatori hanno fornito ai partecipanti una serie di questionari per identificare gli atteggiamenti genitoriali ed i comportamenti dei bambini. In particolare, gli item vertevano intorno ai livelli di espressività verbale dura (dei genitori) e sulla natura e frequenza dei problemi comportamentali manifestati dai propri figli.

Dall’analisi dei dati è emerso che le madri con un controllo emotivo e cognitivo maggiore hanno segnalato meno condotte infantili problematiche (es. urlare, farsi del male o farlo agli quando non ottengono ciò che vogliono).

Allo stesso tempo è anche emerso che ad un maggiore controllo emotivo materno corrisponde una minore probabilità che esse siano verbalmente dure con i propri figli, così come ad un maggiore controllo cognitivo materno corrisponde una minor probabilità di sviluppare atteggiamenti genitoriali di controllo nei confronti dei propri figli.

Lo studio sembra dunque confermare l’ipotesi secondo cui rigidi atteggiamenti genitoriali sono fortemente associati ad una problematica condotta infantile.

Conclusioni

Dati i risultati ottenuti, per ridurre stili genitoriali duri e di controllo e di conseguenza alcuni problemi comportamentali infantili, si potrebbero predisporre interventi preventivi per aiutare le madri a migliorare la propria capacità di controllo emozionale e cognitivo.

A questo proposito il co-autore Deater-Deckard, professore presso l’University of Massachusetts Amherst, sostiene:

Irritabilità, distrazione e stanchezza sono chiari segnali di un esaurimento di autocontrollo. I genitori possono esercitarsi a riconoscere questi segnali e rispondere ad essi concedendosi un time-out – Inoltre – Dormire abbastanza, fare attività fisica e mangiare bene sono tutte cose che hanno un impatto sul nostro funzionamento esecutivo – ha detto Crandall – Dovremmo creare ambienti sani che ci aiutino a operare al meglio.

Insonnia cronica: aspetti cognitivi e comportamentali

L’insonnia cronica è un disturbo molto comune (circa il 30% della popolazione ne soffre), è più frequente nelle donne e negli anziani (Burton, 2006) e può presentarsi sia come conseguenza o aspetto di un altro disturbo medico o psichiatrico (insonnia secondaria) oppure come forma indipendente e autonoma nella sua eziologia e nel suo sviluppo (insonnia primaria).

 

Le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno definiscono l’insonnia cronica come una reiterata difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno associata ad un mal funzionamento diurno (cattivo umore, irritabilità, difficoltà cognitive, eccessiva sonnolenza nelle ore diurne) (Devoto & Violani, 2010). L’International Classification of Sleep Disorders (ASDA, 2005) distingue cinque forme di insonnia primaria: disturbo di insonnia da adattamento, insonnia soggettiva, insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica, insonnia psicofisiologica.

L’insonnia psicofisiologica è la più comune forma di insonnia primaria ed è quella in cui entrano maggiormente in gioco fattori di mantenimento cognitivi e comportamentali. Secondo Hauri e Fisher (1986) tale forma di insonnia cronica si svilupperebbe a causa di due elementi principali: le preoccupazioni del soggetto riguardo all’insonnia ed alcuni processi di condizionamento. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre sottolineare come nel paziente insonne si sviluppi una sorta di problema secondario legato al fatto stesso di avere difficoltà nell’addormentamento.

 

Dall’ insonnia acuta all’ insonnia cronica

Dopo una occasionale notte insonne dovuta a motivi di stress, eventi ansiogeni o traumatici, lutti o problemi di salute, il soggetto, in prossimità dell’ora in cui abitualmente va a dormire, svilupperebbe dei pensieri intrusivi disfunzionali riguardo all’insonnia (“e se nemmeno stasera riuscissi a dormire?”, “non ci vorrebbe proprio un’altra nottata in bianco!”, “devo assolutamente riuscire a dormire”, “domani ho una giornata impegnativa, non posso permettermi di non dormire”), che hanno due conseguenze negative per il sonno: da una parte tali pensieri determinano un bias attentivo tale per cui l’attenzione si focalizza sul riuscire o meno a dormire e il soggetto si “sforza” a dormire con il risultato paradossale di rimanere sveglio in quanto il sonno è per definizione spontaneo e non a comando, dall’altra parte la preoccupazione per la possibilità di non dormire e il ricordo delle notti precedenti passate insonni determinano un eccessivo arousal emotivo, cognitivo e fisiologico che impedisce il rilassamento fisico e psichico necessario per dormire.

Dal punto di vista comportamentale invece, si sottolinea come gli stimoli interni (i pensieri, gli stati mentali) ma anche ambientali (la camera da letto, le abitudini, i rituali che precedono il sonno) si associno in breve tempo al non dormire (Devoto & Violani, 2010).

In altre parole, mentre i normodormienti associano le abitudini pre-sonno e le caratteristiche della propria stanza da letto ad uno stato di rilassamento che li predispone e li induce al sonno, le persone che soffrono di insonnia cronica associano la stanza da letto con lo stare svegli.

In conclusione si può affermare che sono le implicazioni cognitive e comportamentali a fungere da fattori di mantenimento e a far divenire insonnia cronica un’insonnia acuta e situazionale.

La psicoterapia è un’avventura. Un nuovo approccio alla cura del sé che passa dal contatto con la natura e le attività all’aperto

Nella Terapia dell’Avventura, l’avventura non è intesa solo come divertimento ma è pensata come un fare esperienza che mira ad avere profondi benefici terapeutici e permette di apprendere lezioni di vita preziose, come l’importanza di cooperare con gli altri, lavorare in gruppo e superare i propri limiti.

Alessandra Basso

 

Diversi studi recenti (Oh, B. et al., 2017; Shanahan, D., et al. 2016; Walsh,R., 2011) hanno dimostrato che l’esposizione alla natura e le attività all’aperto possono migliorare la salute mentale, alcuni sintomi e condizioni di persone che stanno attraversando, per diversi motivi, un periodo di difficoltà.

In questi ultimi anni, infatti, la filosofia e la pedagogia dell’outdoor education hanno subito un notevole sviluppo (Harris, 2000; Hattie et al., 1997; Neill, 2008; White, 2012; Zook, 1985). A questo proposito, nello specifico, si sente sempre più spesso parlare di Adventure Therapy (AT) o Terapia dell’Avventura.

Terapia dell’Avventura: di cosa si tratta?

La Terapia dell’Avventura, molto diffusa in paesi come gli Stati Uniti d’America, è una forma di terapia esperienziale che coinvolge vari tipi di attività all’aria aperta (Rusell et al., 2017). L’obiettivo di tali programmi è quello di aiutare i partecipanti a sviluppare importanti abilità di vita di cui potranno beneficiare nella loro quotidianità.

Questo tipo di progetti è particolarmente indicato per coloro i quali soffrono di patologie croniche come il diabete, la depressione, obesità o patologie neoplastiche, ma viene ampiamente utilizzata anche per progetti di prevenzione ed è adatta per tutte le età. 
Basti pensare adolescenti e adulti che provengono da lunghi ricoveri, day hospital, periodi di isolamento ospedaliero: trascorrere tempo all’aria aperta può essere divertente, eccitante e stimolante. È un ottimo modo per imparare e praticare nuovi comportamenti, per migliorare le capacità interpersonali, per affrontare le paure, per provare nuove emozioni positive.

L’avventura, quindi, non è intesa solo come divertimento ma è pensata come una vera forma di terapia che mira ad avere profondi benefici terapeutici e permette di apprendere lezioni di vita preziose, come l’importanza di cooperare con gli altri, lavorare in gruppo e superare i propri limiti.

I primi studi evidenziano i benefici della Terapia dell’Avventura

Alcuni studi dimostrano che la Terapia dell’Avventura può aumentare l’autostima degli studenti delle scuole elementari, medie e superiori (Wright, 1983), altri ancora hanno documentato effetti positivi significativi sull’autostima, sul locus of control e sulla socialità (Steinberg et al., 2001). La letteratura suggerisce che, nel complesso, gli adolescenti con varie diagnosi traggono beneficio dalla partecipazione a programmi di attività nella natura (Autry, 2001; Keats et al., 1999; Russell & Philips-Miller, 2002).

Neill (2003) ha riassunto le prove delle meta-analisi di educazione all’aria aperta, psicoterapia e istruzione, che possono essere utilizzate per aiutare a decidere l’efficacia relativa dei programmi di Terapia dell’Avventura. Uno degli obiettivi di questa terapia è incoraggiare gli adolescenti a migliorare il proprio concetto di sé come parte di una riabilitazione complessiva fisica, cognitiva, emotiva o sociale. La ricerca ad oggi ha quindi dimostrato che l’esposizione alla natura può fornire una vasta gamma di benefici per la salute mentale, relativi all’attenzione e cognizione, memoria, stress e ansia, sonno, stabilità emotiva e benessere auto-percepito o qualità della vita.

Elementi distintivi

Le attività incluse nella Terapia dell’Avventura sono molteplici come il campeggio, escursioni in montagna, arrampicata su roccia o vela: il fattore comune è quello di consentire ai partecipanti di prendere rischi calcolati ed esplorare i problemi personali in un ambiente sicuro sotto la guida di professionisti della salute mentale.

Dopo ogni attività è dedicato del tempo alla sedimentazione: il tempo di una riflessione consente ai partecipanti di acquisire un maggiore senso di consapevolezza di sé. Possono riflettere su ciò che hanno realizzato, le paure che hanno affrontato, le connessioni che hanno stabilito o le difficoltà che hanno incontrato con altri partecipanti e ciò che hanno imparato su se stessi.

Le attività utilizzate nella Terapia dell’Avventura rappresentano, quindi, una metafora delle situazioni e delle sfide che i partecipanti affrontano nel mondo reale. I terapeuti spesso incoraggiano i partecipanti a parlare o pensare alle somiglianze tra una particolare attività e le esperienze che hanno avuto nelle loro vite. Possono anche incoraggiare i partecipanti a pensare ai sentimenti e alle emozioni provate o alle conseguenze (buone o cattive) di una scelta che hanno fatto.

Dunque gli elementi chiave che caratterizzano la Terapia dell’Avventura e che la differenziano dalle altre modalità di trattamento psicoterapeutico sono l’enfasi sull’apprendimento attraverso l’esperienza, la presenza e l’interazione con la natura, la possibilità di sperimentare alcuni rischi (in condizioni di sicurezza) creando eustress (positivo risposta allo stress) e il contesto di gruppo.

La Terapia dell’Avventura in Italia

In Italia, la Terapia dell’Avventura è praticata da oltre dieci anni da Tender to Nave Italia Onlus che promuove la cultura del mare e della navigazione come strumento di riabilitazione, inclusione sociale e terapia.

I progetti, basati su questa metodologia, mirano a promuovere relazioni interpersonali, vissuti emotivi ed autonomia, aspetti caratterizzanti il costrutto dell’autostima. A bordo di Nave Italia tutti i partecipanti, entrando a far parte di un vero equipaggio della Marina Militare, navigano, si tuffano, sperimentano nuovi equilibri, convivono in spazi stretti, imparano i nodi e alzano le vele.

Nel corso degli anni alcuni studi hanno dimostrato che il confronto continuo con gli altri, con i propri limiti e con le proprie certezze, in un contesto avventuroso ed emozionante, migliora la percezione che i partecipanti hanno del proprio corpo. Autostima e sicurezza in se stessi giocano un ruolo importante nella ristrutturazione della personalità in fasi di vita rese difficili da disagio e malattia e la Terapia dell’Avventura a bordo di Nave Italia si è mostrata come una buona risorsa per coloro i quali hanno forte necessità di sperimentarsi come abili e capaci.

I risultati italiani preliminari spingono nella direzione di ampliare la numerosità campionaria e aggiungere il campione di controllo per valutare in modo più controllato l’impatto della Terapia dell’Avventura in aggiunta alle metodologie tradizionali.

I Gangli della base – Introduzione alla Psicologia

I gangli della base si trovano alla base dell’encefalo e sono costituiti da 4 formazioni principali: lo striato, il globus pallidus, la substantia nigra e il nucleo subtalamico.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

I gangli della base – Lo striato

Lo striato è una grande struttura nervosa, percorsa da strie che lo caratterizzano e ne determinano il nome. Esso si divide in striato dorsale, costituito dal nucleo caudato e dal putamen che controllano l’attività motoria, e striato ventrale, formato dal nucleo accumbens, l’amigdala, l’ippocampo e le aree corticali, tutte strutture deputate alla modulazione delle emozioni, della memoria, del comportamento e dell’esperienza cosciente.

Lo striato è formato prevalentemente da neuroni dopaminergici che proiettano dal mesencefalo. Esso riceve afferenze dai nuclei della base, dalla corteccia cerebrale, dal talamo e dal tronco dell’encefalo. Invece, diverse aree della corteccia cerebrale inviano proiezioni eccitatorie e glutammatergiche a specifiche zone che lo costituiscono.

Lo striato, dunque, è formato da diversi tipi cellulari, di cui la maggior parte a proiezione gabaergici. Generalmente, sono neuroni silenti, che si attivano solo in seguito all’attuazione di un movimento o dopo l’applicazione di stimoli periferici. Lo striato è anche costituito da interneuroni locali inibitori che riescono a ridurre l’attività dei neuroni efferenti e determinano la maggior gran parte dell’attività tonica dello striato.

Lo striato riceve anche segnali eccitatori dai nuclei intralaminari del talamo e dai nuclei del rafe.

I neuroni dello striato proiettano, invece, al globus pallidus e alla substantia nigra.

Lo striato, ancora, proietta informazioni attraverso due vie efferenti: una via detta diretta che è eccitatoria ed una via indiretta di tipo inibitorio.

I gangli della base – Il globus pallidus

Il globus pallidus è una struttura subcorticale caratterizzata da corpi cellulari neuronali situati alla base del proencefalo. Il globus pallidus è formato da una parte interna o mediale ed esterna o laterale, queste due parti sono divise, l’una dall’altra, dalla lamina midollare mediale. Invece, la capsula interna corre medialmente al nucleo lentiforme, l’arto posteriore della capsula interna separa il talamo dal nucleo lentiforme e l’arto anteriore della capsula interna separa il putamen dalla testa del nucleo caudato.

II globus pallidus è coinvolto nella regolazione del movimento volontario e in particolare svolge una funzione principalmente inibitoria che equilibra l’azione eccitatoria del cervelletto. Questi due sistemi si sono evoluti per consentire movimenti fluidi e controllati. Gli squilibri possono causare tremori e altri problemi di movimento, come si è visto in alcune persone con disturbi neurologici progressivi caratterizzati da sintomi come tremori.

I gangli della base – La substanzia nigra

La substantia nigra è una struttura formata da parti molto scure da cui prende il nome. Essa è posta nel mesencefalo e si divide in due parti aventi connessioni con aree diverse e svolgono funzioni differenti. Queste due parti sono la pars compacta, che è costituita da fibre efferenti che utilizzano la dopamina, e da neuroni gabaergici che trasmettono i segnali elaborati finali dei gangli basali al talamo e al collicolo superiore; e la pars reticulata è implicata nel controllo del movimento in maniera indirettamente tramite lo striato, è coinvolta nelle risposte apprese agli stimoli, nell’apprendimento spaziale, nell’elaborazione temporale attivata durante la riproduzione del tempo.

La substantia nigra, inoltre, svolge un importante ruolo nell’esecuzione dei movimenti oculari, nella pianificazione motoria, nella ricerca di ricompense, nell’apprendimento e nella dipendenza. Molti effetti della substantia nigra sono mediati dallo striato, che attraverso la via nigrostriatale svolge diverse funzioni legati al movimento e un suo deficit determina problemi relaativi alla patologia di Parkinson. Inoltre, la substantia nigra svolge la funzione di inibizione del GABA in varie sede cerebrali.

I gangli della base – Il nucleo subtalamico

Il subtalamo è una porzione del diencefalo che si trova ventralmente al talamo, sotto il solco ipotalamico, lateralmente all’ipotalamo e tra il mesencefalo e il diencefalo. In basso il subtalamo continua con la callotta del mesencefalo; infatti la parte superiore della sostanza nera e del nucleo rosso sporgono nel subtalamo stesso. Lateralmente comunica con la capsula interna che lo separa dal nucleo lenticolare.

Il nucleo subtalamico è composto da sostanza grigia compresa nel nucleo di luys che consiste in un piccolo nucleo a forma di lente biconvessa posto in prossimità della capsula interna, in rapporto sia con la sostanza nera che col nucleo rosso.

Questo nucleo riceve afferenze dalla corteccia frontale, dai nuclei intralaminari del talamo, dal pallido esterno e dal nucleo peduncolopontino. Inoltre, invia efferenze al globo pallido, alla sostanza nera e anche al nucleo peduncolopontino. Il nucleo subtalamico di Luys si può suddividere in:

  1. Parte postero-mediale, implicata nelle funzioni motorie
  2. Parte ventro-mediale che ha funzione associativa
  3. Parte mediale che appartiene al sistema limbico

Inoltre, è coinvolto nell’avvio della deambulazione e della progressione in avanti, per questo rappresenta il centro del sistema extrapiramidale.

L’altra parte del nucleo subtalamico è definita zona incerta, ovvero un raggruppamento nucleare di cui non si conoscono le reali funzioni. Esso costituisce il prolungamento della formazione reticolare del mesencefalo e sembra essere coinvolta nella regolazione dell’assunzione di acqua, quindi importante nel bilancio idrico.

Nel nucleo subtalamico è presente anche la sostanza bianca rappresentata dai fasci e dal lemnisco mediale, spinale, trigeminale e gustativo che attraversano proprio questa area per arrivare al talamo.

Conclusioni

Per concludere, i gangli della base attraverso le interazioni con la corteccia cerebrale contribuiscono al movimento volontario e ad altre forme di comportamento come le funzioni scheletro-motorie, oculomotorie, cognitive ed emozionali. Ad esempio, in alcuni individui colpiti da morbo di Huntington è stato osservato che alcune lesioni a livello dei nuclei della base producono danni emotivi e cognitivi negativi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

VeriPol: un sistema di predizione della menzogna utilizzato dalla polizia spagnola per individuare e contrastare le false testimonianze

Secondo le evidenze empiriche pubblicate sul journal Knowledge-based Systems e ottenute dall’università di Madrid in collaborazione con “La Sapienza” di Roma e il ministero degli interni spagnolo, sarebbe possibile riconoscere un resoconto vero di una rapina da uno falso, esclusivamente basandosi sulle parole utilizzate nel resoconto stesso (Quijano-Sánchez, Liberatore, Camacho-Collados et al., 2018).

 

In che modo le persone mentono agli agenti di polizia e come è strutturato un resoconto veritiero di un accadimento criminale come ad esempio una rapina, rispetto ad uno stesso ma falso?

Per rispondere a questa domanda nel 2017 i commissariati di polizia di Murcia e Malaga in Spagna si sono dotati per primi di un algoritmo in grado di processare il linguaggio naturale (NLP; Hirschberg & Manning, 2015) in combinazione con un sistema di Machine Learning (Jordan & Mitchell, 2015) in grado di analizzare il contenuto e la struttura di un resoconto di una rapina e valutarne il grado di falsità con un alto livello di precisione, superiore al 91%.

L’algoritmo, denominato VeriPol, segnala agli agenti di polizia le parole “sospette” di un resoconto appena costruito dal sospettato, dalla vittima o da un testimone del reato.

L’apporto di Quijano-Sánchez, Liberatore e Camacho-Collados (2018) dell’università di Madrid ha infatti evidenziato come i resoconti e le testimonianze falsi siano costituiti nel corso della narrazione da specifici pattern, che li rendono per l’appunto falsi, e che l’algoritmo è in grado di rilevare.

In particolare per i report sulle rapine, i ricercatori hanno mostrato come quelli veritieri presentino solitamente molti dettagli, descrizioni e informazioni personali, diversamente da quelli falsi che invece sono caratterizzati per la maggior parte da brevi descrizioni, dall’impossibilità di fornire informazioni precise sul luogo e il momento in cui è avvenuto l’incidente, sull’aggressore e sui probabili testimoni e si focalizzino maggiormente sull’oggetto rubato e meno sull’aggressione perpetuata per poterlo ottenere.

I report veritieri, inoltre, adottano un linguaggio più concreto e preciso e hanno configurazioni temporali e spaziali verificabili nell’immediato e meno autoreferenziali.

Come funziona VeriPol

Veripol (Quijano-Sánchez, Liberatore, Camacho-Collados et al., 2018) è in grado di analizzare il contenuto del resoconto ed estrarre tre principali aspetti che, secondo i ricercatori, ne caratterizzerebbero la veridicità: come si è svolta l’aggressione a scopo di rapina, la morfosintassi generale del report e la quantità di dettagli.

Un’alta frequenza di verbi al gerundio, all’infinito, di pronomi personali e dimostrativi sarebbe segnale di una presenza molto precisa nella descrizione tramite “story telling” di un’interazione tra gli attori e l’avvenimento, tra la vittima, l’aggressore e la rapina e di conseguenza appare veritiero.

L’alta frequenza di congiunzioni subordinate, di verbi all’infinito sarebbero al contrario un segnale di una mancanza di informazioni o di conoscenza dei fatti molto parziale e generale.

Quali sono i vantaggi di VeriPol?

L’esistenza di uno strumento in grado di rilevare la falsità di una testimonianza e allo stesso tempo di fornire un modello predittivo della menzogna ha il vantaggio di incoraggiare i cittadini, se correttamente informati, a non fornire report falsi, a migliorare le risorse limitate, attualmente in possesso agli agenti della polizia, e a creare un database con una percentuale ridotta di testimonianze false o troppo generali.

In conclusione dello studio che supporta i sorprendenti risultati ottenuti grazie all’utilizzo di VeriPol, i ricercatori sottolineano la necessità di estendere lo strumento a tutti i tipi di agenti investigativi e di poterlo in futuro utilizzare anche per altri reati, non solo per rapine.

La mente bipartita – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr 27

In molte scelte della vita la persona si tormenta se seguire ciò che gli sembra buono e giusto o ciò che gli piace. Ma cosa muove davvero la nostra mente? 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La mente bipartita (Nr. 27)

 

Ancorchè falsa, è molto diffusa una concezione bipartita della mente che ipotizza una parte razionale, misurata, saggia che, se al timone condurrebbe l’individuo verso ciò che più gli conviene per il suo reale bene (la chiameremo S che sta per “saputello”) ed un’altra parte dominata dalle emozioni, impulsiva e incontrollabile che conduce necessariamente alla catastrofe (la chiameremo B che sta per “bestiaccia”).

Grossolanamente si presume altresì che la prima sia cosciente, segua il principio di realtà e sia localizzata prevalentemente nelle nobili parti frontali della corteccia cerebrale, ultimo prodotto dell’evoluzione cerebrale. La seconda invece si ritiene prevalentemente inconscia, capace solo di scegliere in base al principio del piacere e domiciliata nelle parti più primitive del cervello che condividiamo anche con molti animali.

Il rapporto tra le due è immaginato come una continua lotta per prevalere nella gestione del comportamento.

A volere la psicoterapia è in genere Saputello, con la richiesta di addomesticare Bestia (il terapista domatore) o perlomeno di garantire un negoziato (il terapista arbitro o notaio).

Secondo la teoria cognitivista la dicotomia è inesistente e le emozioni sono il frutto proprio delle valutazioni più o meno coscienti. Forse sarebbe meglio superarla ancora di più non mettendo neppure in relazione di causa-effetto i due fenomeni, ma considerando le emozioni delle valutazioni incarnate e il pensiero un’emozione chiacchierata.

In molte scelte della vita la persona si tormenta se seguire ciò che gli sembra buono e giusto o ciò che gli piace. Se dunque si potesse dimostrare che le due cose non sono affatto diverse, molti tormenti potrebbero rottamarsi. Non c’è dubbio che molti comportamenti e piani di vita siano guidati da ciò che procura emozioni positive e piaceri piuttosto che da ciò che apparirebbe conveniente, ma possiamo ipotizzare che tale dicotomia sia solo apparente e di basso livello e che se si sale di livello ciò che piace coincida esattamente con ciò che alla lunga conviene (quantunque nell’immediato possa comportare qualche mal di pancia).

Personalmente ritengo che sia stata semplicemente l’evoluzione, ma può essere più esplicativo e pittoresco immaginarsi un creatore che sfiduciato nel buon senso dei viventi e preoccupato per le loro distrazioni che per garantirsi il successo della vita (e che dunque i singoli individui sopravvivano e si riproducano) abbia marcato l’itinerario che conduce alla vita, con una serie di piaceri attrattori come le briciole di Pollicino e ha disseminato il percorso verso la morte con dolorosi dissuasori, come il tunnel degli orrori al Luna Park. Mi piace pensarlo a rimuginare preoccupato “Ma questi sciagurati si ricorderanno sempre di mangiare e di bere? Meglio dargli la sgradevole sete e la sgradevole fame e fare in modo che mangiare e bere sia un godimento”. Avuta questa prima idea il format è stato poi esteso dandoci il fastidio per il troppo freddo, il troppo caldo e il piacere per un morbido tepore. Per stare attenti ai predatori ci ha dato la paura. Restava l’aspetto più decisivo della riproduzione, complicato dal fatto che necessitava della cooperazione contemporanea di due viventi: come convocarli e convincerli? Tormentato dalla preoccupazione che si dimenticassero di scopare (non ricordo esattamente il termine aramaico) si è superato, non si è regolato ed ha messo a punto il piacere perfetto, talmente grande che va necessariamente spartito con un altro. A dire il vero però ha scopiazzato dalle precedenti trovate e ha fatto un minestrone mischiando un pò tutti i piaceri con un risultato sorprendente: il mangiare, il bere, il tepore, la protezione, la morbidezza.

È chiaro che i singoli individui quando mangiano non perseguono lo scopo dell’omeostasi glicemica e lo fanno solo perché è buono; e solo raramente quando fanno l’amore sono interessati alla perpetuazione della propria popolazione esogamica, lo fanno perché è bellissimo, ma in realtà le due cose coincidono.

Gli esseri umani dunque quando seguono il piacere sono in realtà guidati da una saggezza profonda e antica, sovraindividuale e orientata alla promozione della vita di gran lunga più stabile delle valutazioni di Saputello, le quali sono molto influenzate dalle mode culturali che quantunque, nel momento in cui si vi è immersi, appaiano verità assolute ed eterne nella storia complessiva della vita nell’universo, non sono altro che fragili e transitori tentativi di adattamento, presto sostituiti da un nuovo paradigma.

Insomma la Bestiaccia disarciona quasi sempre Saputello ma scossa (così si dice di un cavallo del Palio che perde il fantino) arriva comunque alla meta perché la sa davvero lunga e l’universo intero, che ci sia o meno il Creatore in tribuna d’onore, fa il tifo per lei.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Gli interventi e gli effetti della musicoterapia nelle demenze

L’aumento della popolazione anziana e l’allungamento della vita media ha comportato un incremento delle patologie legate all’invecchiamento, come ad esempio le demenze che rappresentano ormai una delle più grandi sfide di salute per l’umanità. La musicoterpia sembra essere un efficace strumento di cura

Federica Aloisio  – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La demenza è una sindrome clinica con differenti cause, caratterizzata dal deterioramento delle funzioni cognitive, comportamentali, sociali ed emozionali

(Van der Steen J.T. et al., 2017).

I sintomi possono essere raggruppati in tre grandi ambiti: aspetti cognitivi, aspetti funzionali e sintomi neuropsichiatrici. Il declino cognitivo può coinvolgere diverse aree: la memoria, il linguaggio, l’apprendimento, le funzioni esecutive, l’attenzione, il movimento, la cognizione sociale (APA, 2013). La forma di demenza più comune è quella di Alzheimer: il numero di persone che ne sono affette

ha raggiunto oltre 35 milioni in tutto il mondo nel 2013, e questo numero è stimato a triplicare nel 2050

(Hosseini S. M. et al., 2014).

Interventi di natura medica hanno dimostrato una limitata efficacia nel rallentare il declino cognitivo e, come riportato in letteratura, allo stato attuale non esiste un trattamento farmacologico capace di curare la demenza di Alzheimer (Algar K. et al., 2016).

Musicoterapia per la demenza

La limitata efficacia dei trattamenti farmacologici e la plasticità del cervello umano sono le due maggiori spiegazioni dell’interesse crescente per i trattamenti non-farmacologici che hanno lo scopo principale di sostenere ed attivare quelle funzioni mentali non completamente deteriorate, intervenendo sulle potenzialità residue e sul miglioramento della qualità di vita (Mendiola-Precoma J. et al., 2016; Fusar-Poli L. et al., 2017).

Uno dei più comuni approcci non farmacologici per il trattamento dei sintomi neuropsichiatrici, comportamentali e psicologici della demenza è l’uso della musica (Mitchell G. & Agnelli J., 2015).

L’utilizzo dell’effetto piacevole e rilassante, in alcuni casi “terapeutico”, della musica nelle persone malate affonda le sue radici in tempi molto lontani; esso nasce e si sviluppa prevalentemente in ambiente psichiatrico, ma ha allargato i suoi confini di applicazione alla geriatria e alla vasta problematica delle demenze.

La musica è caratterizzata da due aspetti positivi: il primo è la grande influenza che essa può avere sul tono dell’umore; il secondo aspetto è il forte potere mnestico in quanto riascoltare un brano può evocare con molta precisione un episodio della vita, ricostituendo il ricordo sia nella sua complessità cognitiva che emozionale

(Villani D. & Raglio A., 2004).

La musicoterapia, che fa parte delle Arti-Terapie, è un intervento non farmacologico che mira ad aumentare il benessere emotivo attraverso la stimolazione cognitiva e l’interazione sociale

(Craig J., 2014).

Musicoterapia: tipi ed effetti

Gli interventi di musicoterapia possono essere individuali o di gruppo e attivi o recettivi: attivi, in cui i pazienti sono invitati a fare esperienze dirette e creative; recettivi, dove viene privilegiato l’ascolto e l’aspetto della verbalizzazione successiva (Garrido S. et al., 2017). A tal proposito un recente studio mette in evidenza che l’intervento di musicoterapia recettiva è più efficace per alleviare i sintomi comportamentali e psicologici della demenza (Tsoi K.K et al., 2018).

Nonostante le difficoltà dovute al deterioramento cognitivo il mezzo sonoro-musicale costituisce una via privilegiata per arrivare direttamente al cuore e stimolare le parti sane del cervello delle persone interessate. Infatti, il paziente con demenza sembra conservare intatte certe abilità e competenze musicali fondamentali (intonazione, sincronia ritmica, senso della tonalità) come ha rilevato lo studio di Jacobsen in cui si evince che la memoria musicale si mantiene intatta più a lungo prima di essere intaccata da deterioramento cognitivo (Jacobsen J.H. et al., 2015).

Molti sono gli studi a supporto dell’applicazione della musicoterapia alla demenza.

Villani e Raglio sostengono che il suono e la musica attivino modalità espressive e relazionali arcaiche e che l’utilizzo della musicoterapia nella malattia di Alzheimer

può migliorare gli aspetti relazionali e ridurre i disturbi del comportamento

(Villani D. & Raglio A., 2004).

Esistono pubblicazioni in merito ad attività di musicoterapia svolte con malati di Alzheimer le quali dimostrano che gli stessi pazienti ne traggono benefici per diversi aspetti: la memoria a breve termine, il tono dell’umore, l’orientamento spazio-temporale, il senso di identità, le competenze espressive e relazionali.

Musicoterapia per la demenza: effetti sui sintomi comportamentali

Finora la ricerca si è concentrata principalmente sui sintomi comportamentali e psicologici della demenza (ovvero “BPSD”, da Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia), come agitazione, aggressione, irritabilità, depressione o apatia. I risultati sono promettenti, mostrando un effetto positivo su questi sintomi comportamentali (Ueda T. et al., 2013).

Nello specifico l’agitazione è un problema comportamentale molto comune nei pazienti con demenza e comprende una varietà di condotte quali ripetitività, irrequietezza, vagabondaggio ed aggressività. A tal proposito la revisione di Pedersen ha indagato la sua reale efficacia su questo tipo di sintomatologia; sono stati analizzati sia studi in cui era necessaria la partecipazione attiva del malato (cantare, ballare, battere le mani o suonare uno strumento) sia interventi di tipo ricettivo in cui al partecipante si chiedeva solamente di ascoltare musica. Nonostante il numero esiguo degli studi presi in considerazione è emerso che gli interventi musicali sono significativamente efficaci nel ridurre l’agitazione in questo tipo di pazienti (Pedersen S.K. et al., 2017).

In altri studi, la terapia musicale ha dimostrato di migliorare nei pazienti con demenza Alzheimer di grado lieve-moderato la memoria, l’orientamento e i sintomi ansioso-depressivi (Gallego & García, 2017). Un altro studio sottolinea come l’uso di strumenti a percussione da parte di anziani dementi istituzionalizzati è in grado di abbassare il livello di ansia sebbene il livello di agitazione sia rimasto invariato (Sung et al., 2012).

Seppure con qualche limitazione appare evidente che diversi studi nella letteratura avvalorano l’efficacia dell’approccio musicoterapeutico, soprattutto nei disturbi psico-comportamentali nelle demenze

In un recentissimo studio viene riportato che elevati livelli di cortisolo, l’ormone di regolazione dello stress, è associato a compromissioni cognitive. Quando il cortisolo è costantemente alto, la funzione cognitiva è compromessa e un alto livello di stress cronico induce depressione e ansia a livello psicologico (de la Rubia Ortì et al., 2018). I risultati dello studio del 2018 hanno dimostrato che dopo la musicoterapia i livelli di cortisolo decrescono e quindi diminuiscono significativamente il livello di stress, depressione e ansia, stabilendo una correlazione lineare tra la variazione di queste variabili e la variazione di cortisolo.

Musicoterapia per demenza: gli effetti sulle funzioni cognitive

Per quanto riguarda gli effetti della musicoterapia sulle funzioni cognitive, le ricerche hanno dimostrato che questo tipo di intervento può proteggere le funzioni cognitive nella demenza di tipo Alzheimer specialmente la memoria autobiografica ed episodica, la velocità psicomotoria, le funzioni esecutive e la cognizione globale (Herholz S.C. et al., 2013).

Lo studio di Chu e colleghi del 2014 ha dimostrato che la musicoterapia di gruppo, oltre a ridurre la depressione nelle persone affette da demenza, ritarda il deterioramento delle funzioni cognitive, in particolare della memoria a breve termine. Inoltre Gallego e altri ricercatori hanno osservato dei miglioramenti cognitivi dopo sei settimane di intervento di musicoterapia in particolare sulla memoria e l’orientamento (Gallego & García, 2017).

Nonostante le varie ricerche che forniscono prove dell’efficacia della musicoterapia nel preservare le funzioni cognitive nella demenza, in particolare di Alzheimer, i risultati non sono abbastanza convincenti: si ha bisogno di più studi clinici non solo per verificare l’effetto immediato, ma soprattutto quello a lungo termine (Fang R. et al., 2017; Van der Steen J.T. et al., 2017).

In aggiunta Fang afferma che la musicoterapia deve essere considerata una terapia complementare nel trattamento della demenza: gli interventi farmacologici non possono essere interrotti durante un intervento riabilitativo di musica e la musicoterapia deve essere avviata il più presto possibile in quanto l’effetto terapeutico della musica per la protezione delle funzioni cognitive non è significativo quando il grado di demenza è severo.

Un altro lavoro che mette in evidenza i limiti della musicoterapia, in particolare sulla cognizione, è la meta-analisi di Fusar-Poli che ha preso in considerazione non solo la cognizione globale, ma funzioni cognitive più specifiche come l’attenzione, il linguaggio, la memoria e l’abilità percettivo-motoria non evidenziando alcun effetto positivo su questi dominii (Fusar-Poli L. et al., 2017).

Quest’ultimo studio ha tuttavia dimostrato, in linea con quanto emerso da altre precedenti ricerche, che la musica è strettamente associata a forti sensazioni emotive e infatti attiva il sistema limbico che è coinvolto sia nella regolazione delle emozioni che nel controllo della memoria. Inoltre, il rapporto tra emozioni e musica può diventare molto più forte quando un professionista esperto è coinvolto nel trattamento (Fusar-Poli L. et al., 2017).

In conclusione si può asserire che la musicoterapia è un valido intervento complementare per il trattamento delle demenze, in particolare per i suoi effetti vantaggiosi sui sintomi comportamentali e psicologici, così come per il suo ruolo sociale ed emotivo. I possibili effetti sulla cognizione meriterebbero, invece, di essere meglio esaminati con studi e campioni più grandi, al fine di poter appurare l’efficacia della terapia musicale su tutti i piani, da quello psicologico-comportamentale a quello cognitivo, per un miglioramento complessivo della qualità di vita del paziente demente.

Quale emozione sto provando? Le difficoltà degli adolescenti nel riconoscere e discriminare le proprie emozioni

L’abilità di differenziazione emotiva, ovvero la capacità di discriminare i diversi tipi di emozione, varia in base alla fase di sviluppo.

 

Secondo una recente ricerca, gli adolescenti distinguono le emozioni negative in modo diverso rispetto ai bambini e agli adulti. Lo studio mostra come le esperienze emozionali varino a seconda dell’età e risponde al perché l’adolescenza risulta essere un periodo particolarmente vulnerabile nello sviluppo emotivo.

Lo studio sperimentale

Lo studio, pubblicato su Psychological Science, prevedeva la somministrazione di un compito di differenziazione emotiva a 143 partecipanti di età compresa tra 5 e 25 anni. I soggetti posti di fronte a diverse immagini raffiguranti scenari negativi, dovevano scegliere tra reazione emotive quali rabbia, tristezza, disgusto, paura e agitazione e quantificare l’intensità dell’emozione provata su una scala da 0 (per nulla) a 100 (moltissimo) in risposta a ciascuna figura.

Lo psicologo Erik Nook della Harvard University e autore dello studio afferma:

Abbiamo trovato una traiettoria di sviluppo piuttosto interessante per quanto riguarda la differenziazione delle emozioni. I bambini tendono a riferire di provare una sola emozione alla volta, gli adolescenti invece iniziano a sperimentare più emozioni contemporaneamente mentre gli adulti non presentano difficoltà nel differenziare le diverse emozioni che provano.

I risultati hanno mostrato una traiettoria di sviluppo non lineare riguardo la differenziazione delle emozioni negative: la capacità di differenziazione emotiva diminuisce in adolescenza rispetto all’infanzia per innalzarsi di nuovo con il passaggio nella prima età adulta. 
Come l’autore spiega, l’infanzia appare caratterizzata dalla tendenza ad indicare una sola risposta emotiva; al contrario gli adolescenti dichiarano di sperimentare diverse emozioni contemporaneamente senza però essere in grado di distinguerle. La scarsa differenziazione emotiva osservata in adolescenza potrebbe derivare dal fatto che i soggetti adolescenti sono poco abili nel concettualizzare le emozioni concomitanti, cosa che invece avviene in età adulta.

Nook spiega anche perché l’adolescenza sembra essere un periodo particolarmente complesso dal punto di vista emotivo: “L’adolescenza è un periodo di rischio elevato per l’inizio della psicopatologia. Grazie a questo studio sappiamo che è anche un periodo di maggiore confusione sul versante emotivo. Sarebbe interessante indagare la possibile correlazione esistente tra malattia mentale e instabilità emotiva: c’è il rischio che l’aumento di emozioni sperimentate in questo periodo renda più complicata la loro differenziazione e regolazione e che questo contribuisca allo sviluppo di disturbi mentali” e conclude “Spero che le nostre scoperte possano aiutare a chiarire il modo in cui la differenziazione emotiva varia nel corso dello sviluppo e quanto questo processo appaia complicato nello stadio adolescenziale”.

Disarmare il Narcisista

Disarmare il Narcisista: un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

 

Chi può dire di non avere mai incontrato nella propria vita un narcisista? Che sia il fratello, il fidanzato, il figlio, il collega di lavoro o una persona vicina a noi. Chi non si è almeno una volta sentito schiacciato? Chi non si è mai arrabbiato? Tutti abbiamo esperienza più o meno chiara di quanto sia difficile avere a che fare con un narcisista, di quanto sia difficile comunicare, farsi capire e ascoltare, rompere le difese che ostacolano un rapporto affettivo sereno, che ostacolano la “messa in circolo delle emozioni” .

Con 25 anni di formazione alle spalle e numerose certificazioni, Wendy Behary è fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Center del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy (ISST).

Come esperta sul disturbo narcisistico di personalità ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema. Tra questi anche “Disarmare il Narcisista” un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

È un libro che fornisce sia ai terapeuti che ai pazienti diversi strumenti per migliorare la conoscenza di sé stessi e imparare a “disarmare” il narcisista,  imparando a gestire la relazione in modo più consapevole senza subire la personalità dell’altro. In questo libro Wendy Behary ci fornisce un importante kit di strumenti pratici che ci aiutano a capire come gestire le sfide emotive che subentrano quando ci relazioniamo con qualcuno che non si relaziona con noi, così come accade con il narcisista.

Vincente in questo libro il fatto che l’autrice utilizza la cornice teorica sia della Schema therapy sia della neurobiologia interpersonale per far arrivare chiaro al lettore come il narcisista veda il mondo e quale sia la connessione tra relazioni interpersonali, mente e cervello. Ci spiega in modo comprensibile e semplice come le componenti biologiche combinate con le esperienze precoci possano plasmare in modo anche drammatico le nostre impressioni e le nostre credenze, e così diventa chiaro per il lettore come gli schemi maladattivi precoci possano essere simili a un boomerang che lo riporta spesso al punto di partenza nonostante i suoi sforzi.

Molto bello il quadro che fa l’autrice del narcisista, un cavaliere maestro d’illusione, e molto utile l’esercizio presentato nella parte iniziale del libro che aiuta a identificare con quale tipo di narcisista si ha a che fare. Un importante riflettore viene posto sulla connessione emotiva come possibile via di soluzione della relazione, come motore per un cambiamento emotivo e mentale.

Il lettore è accompagnato nel capire come molto spesso gli ostacoli che gli impediscono di relazionarsi con il narcisista siano le proprie esperienze di vita e caratteristiche biologiche, e quindi i propri schemi. Molti sono gli strumenti, che con la lettura di questo libro, si acquisiscono per imparare a riconoscere e anticipare il momento in cui si rischia di cadere nei vecchi schemi maladattivi, dando maggior respiro e importanza alle sensazioni somatiche del momento.

Un passaggio verso l’apprendimento delle abilità di mindfulness come primo step del cambiamento, e tanti altri strumenti che accompagnano nel lungo e faticoso percorso di cambiamento della modalità di relazione, il confronto empatico, la compassione, lo stabilire dei limiti. E infine ancora l’autrice fa chiarezza su quali sono le strategie di comunicazioni maggiormente efficaci con il narcisista.

Un libro sicuramente da leggere non solo per chi ha a che fare con un narcisista, ma poi chi non ha a che fare almeno con un narcisista, ma anche per chi ha voglia di fermarsi a riflettere sui propri schemi e intraprendere un viaggio pieno di possibili spunti e strumenti per la conoscenza del sé e per migliorare le proprie relazioni.

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