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Invecchiamento cerebrale: sentirsi giovani rende il cervello più sano, più a lungo

Esiste una relazione tra età soggettiva ed età biologica? Le persone anziane che si sentono più giovani sarebbero meno soggette all’ invecchiamento cerebrale.

 

Lo studio pubblicato su Frontiers in Aging Neuroscience è il primo a rivelare un legame tra l’età e l’invecchiamento cognitivo mostrando come le persone che si percepiscono più giovani di quanto in realtà siano, hanno un’età cerebrale stimata effettivamente minore rispetto alla loro età biologica.

Invecchiamento: non avviene per tutti nello stesso modo

Quando parliamo di invecchiamento tendiamo a pensare ad esso come un processo fisso in cui il corpo e la mente perdono la loro funzionalità, ma non è del tutto vero che si invecchia in modo uguale. La percezione del tempo che avanza varia tra le diverse persone andando a definire quella che viene chiamata “età soggettiva” ovvero sia la percezione personale del proprio stato che può non corrispondere all’effettiva età cronologica.

L’autore dello studio, Jeanyung Chey, ha posto il quesito

Perché alcune persone si sentono più giovani o più vecchie di quanto realmente siano? Una possibile spiegazione potrebbe essere ricercata nei processi di invecchiamento cerebrale

e ha aggiunto

Lo studio dimostra che le persone che si sentono più giovani presentano le caratteristiche strutturali di un cervello più giovane.

È normale che durante l’ invecchiamento si verifichino problemi cognitivi causati dal declino neurale legato alla varietà di cambiamenti che sopraggiungono con l’avanzare degli anni.  Gli strumenti tecnologici di ultima generazione permettono di identificare le caratteristiche cerebrali associate all’ invecchiamento e forniscono una stima approssimativa dell’età del cervello.

Invecchiamento cerebrale: lo studio

Il team di ricerca ha eseguito scansioni cerebrali con risonanza magnetica (MRI) esaminando i volumi di materia grigia cerebrale in 68 soggetti sani con un’età compresa tra i 59 e gli 84 anni; in aggiunta i partecipanti hanno compilato un questionario in cui venivano poste domande circa la percezione della propria età, le loro capacità cognitive e il loro stato di salute generale.

I dati raccolti mostrano che le persone che si percepiscono più giovani ottengono punteggi migliori nei test di memoria, ritengono la loro salute fisica migliore e presentano una minor probabilità di riportare sintomi depressivi. Inoltre le immagini cerebrali mostrano che questi stessi soggetti presentano un aumento del volume della materia grigia in alcune regioni del cervello, in particolare nel sistema dopaminergico fronto-striatale che svolge un ruolo nel processo di invecchiamento cerebrale sano e nel declino cognitivo.

Le evidenze hanno mostrato una correlazione tra l’esperienza soggettiva dell’invecchiamento e il processo di invecchiamento cerebrale; tuttavia i ricercatori non conoscono con assoluta certezza il rapporto causale che intercorre tra i due fattori per cui sono necessari studi a lungo termine per comprendere ulteriormente questo legame.

E’ interessante notare che il sentirsi più giovani e il condurre una vita fisicamente e mentalmente più attiva sembrerebbero comportare benefici non solo sul cervello ma anche sullo stato di salute generale. Coloro i quali si percepiscono più anziani potrebbero invece modificare le loro abitudini quotidiane in favore di atteggiamenti che possano favorire un invecchiamento più sano sotto tutti i punti di vista.

Metacognizione: saper leggere se stessi e gli altri… una chiave per favorire il benessere

In Italia il concetto di metacognizione nasce tra la fine degli anni ’90 e gli anni 2000, grazie a un gruppo di clinici e ricercatori che hanno integrato i concetti di lettura e identificazione degli stati emotivi appartenenti alla ToM con le capacità di regolazione emotiva e di risoluzione di problematiche interpersonali, non solo all’interno dei legami di attaccamento, ma in un più ampio contesto di sistemi motivazionali interpersonali.

 

È venerdì, tardo pomeriggio. Siamo nel nostro locale preferito. Dopo una dura settimana di lavoro possiamo finalmente rilassarci, in compagnia dei nostri amici, allietati dal suono del duo chitarra e voce che accompagna l’aperitivo che ci ricorda che l’atteso weekend è proprio iniziato.

All’improvviso, fa capolino nel locale un vecchio amico… o meglio un “ex amico”, che non frequentiamo ormai da anni, a seguito di una divergenza che aveva sancito il distacco e la fine dell’amicizia, seguita da un senso di delusione e rancore mai del tutto sopiti.

Ci sale un indefinito senso di disagio, proviamo repentinamente ad evitare il suo sguardo, ma prima di riuscirci ci accorgiamo che ci ha notati e accenna un sorriso alzando il suo bicchiere nella nostra direzione.

In quel momento nella nostra mentre irrompe come un fiume in piena un solo pensiero “mi ha sorriso in maniera beffarda perché vuole prendersi nuovamente gioco di me, dopo tanti anni!”.

Subito ci accorgiamo che qualcosa in noi cambia, aumenta la sudorazione e la sensazione di tensione muscolare. La avvertiamo nelle nostre braccia, nel modo in cui serriamo le mandibole e in cui corrughiamo la fronte. Il pensiero del suo sorriso beffardo e provocatorio non ci lascia… anzi si fa ripetuto e incessante, scavando nella nostra mente come la celebre tortura della goccia cinese. La tensione aumenta e giunge fino alle nostre mani. Il modo in cui reggiamo il bicchiere con il nostro aperitivo, è molto più simile a come terremmo in mano qualcosa che vogliamo scagliare, piuttosto che qualcosa che stiamo assaporando. Lasciamo la compagnia e il bicchiere a metà e decidiamo di recarci a casa a “decomprimere”. 
La serata è rovinata. Forse anche il weekend.

Torniamo un attimo indietro, e come in un classico meccanismo alla “Sliding Doors” proviamo a offrire uno scenario alternativo a questa vicenda.

Immaginiamo che dopo l’iniziale percezione di scherno provocatorio alla vista del sorriso del vecchio amico, nella nostra mente comincino a farsi strada anche altri pensieri: “ok… manteniamo la calma… la prima impressione è che mi stia deridendo… ma non posso escludere che mi abbia sorriso e salutato in nome dei bei tempi passati. In fondo, prima dell’allontanamento, siamo stati grandi amici per molti anni…” oppure “sorride per mascherare l’imbarazzo. Anche a me la situazione mette un po’ a disagio. Dopo quella litigata non ci siamo più chiariti e rivederci dopo molti anni fa uno strano effetto…”

Cosa succede in questo momento?

Dopo aver percepito l’iniziale attivazione rabbiosa, le differenti chiavi di lettura con cui interpretiamo il sorriso del vecchio amico, ci aiutano a rivalutare la situazione e a calmare le acque che nella nostra mente si stanno iniziando ad agitare. Anche il nostro corpo sembra rispondere coerentemente. Il battito decelera, i nostri muscoli si distendono e la nostra mente recupera lucidità.
Siamo riusciti a regolare la nostra emotività e a riportare la nostra attenzione alle delicate note del sottofondo musicale e alla freschezza del bicchiere che teniamo in mano. 
Rilassiamoci, facciamo un respiro profondo gustandocelo appiano, come quando si riemerge dopo un’apnea. Il weekend è appena iniziato.

A chi non è mai capitato di interpretare l’espressione di una persona in maniera univoca, senza considerare alcun tipo di alternativa, seppur plausibile?

Ciò avviene quando alcune delle nostre funzioni metacognitive, che ci permettono di osservare e valutare i nostri stessi pensieri, non entrano in funzione, lasciandoci in balia di punti di vista rigidi ed emozioni difficili da regolare, come nella prima situazione descritta, in cui il rimuginio rabbioso ci costringe a lasciare il locale e ci rovina la serata.

Ma vediamo meglio cosa sono queste capacità “meta” così importanti per il nostro funzionamento, immergendoci in un breve excursus storico.

Funzioni metacognitive: le principali teorie

L’indagine sulla capacità di “ragionare” sui nostri pensieri nasce nell’ambito degli studi sulla metarappresentazione in ambito evolutivo, per poi abbracciare il concetto di Teoria della Mente (TOM) grazie agli studi di Premack e Woodruff (1978) sul comportamento degli scimpanzè e alle ricerche delle scienze cognitive.

Gli studi di Baron Cohen – non l’attore inglese di Borat… ma bensì il cugino, psicologo e rinomato ricercatore nel campo dell’autismo – Leslie e Frith (1985) condotti negli anni ‘80 sulle difficoltà di TOM nello spettro autistico hanno indirizzato verso l’approfondimento della metacognizione, non solo il campo della ricerca sperimentale, ma anche delle neuroscienze cliniche, sociali e della psicopatologia.

Per quanto riguarda l’ambito psicoterapeutico, l’importanza di “pensare ai propri pensieri” è stata evidenziata in particolare da Peter Fonagy (1991) all’inizio degli anni ’90, con il termine di “mentalizzazione”, in relazione alle difficoltà riscontrate dalle persone con disturbo di personalità borderline.

In Italia il concetto di riflessione consapevole sui propri pensieri è stato adottato e concettualizzato nell’ambito della psicoterapia cognitiva, con il nome di metacognizione, tra la fine degli anni ’90 e gli anni 2000, grazie a un gruppo di clinici e ricercatori (Dimaggio, Semerari, 2003; Semerari, 1999; Dimaggio, Semerari, Carcione,nicolò, Procacci, 2007) che hanno integrato i concetti di lettura e identificazione degli stati emotivi appartenenti alla ToM, con le capacità di regolazione emotiva e di risoluzione di problematiche interpersonali, non solo all’interno dei legami di attaccamento, ma in un più ampio contesto di sistemi motivazionali interpersonali.

Metacognizione: sottocomponenti

Le difficoltà di metacognizione, ovvero di accedere consapevolmente e districare ciò che abbiamo in mente oppure di leggere e fare inferenze plausibili e flessibili su quanto le altre persone provano e pensano, caratterizzano in particolar modo le persone che soffrono di disturbi di personalità, ovvero gli individui che spesso ci possono apparire come persone dal “carattere difficile”.

La metacognizione, a sua volta, può essere scomposta in differenti sottocomponenti, ognuna delle quali può avere un grado di funzionamento diverso. Le andiamo brevemente ad elencare:

  • Monitoraggio: capacità di identificare i propri pensieri, le proprie emozioni e a metterli in relazione tra loro
  • Differenziazione: capacità di riconoscere che il nostro modo di leggere gli eventi è soggettivo ed ipotetico e non sempre corrispondente alla realtà
  • Integrazione: capacità di gestire i nostri stati emotivi interni, anche quando risultano contrastanti, mettendoli in un ordine di rilevanza e mantenendo una visione stabile di sé
  • Decentramento: considerare che le altre persone possono agire in base a idee, credenze e scopi differenti dai nostri. Ovvero la capacità di metterci nei panni altrui, abbandonando la nostra prospettiva autocentrata
  • Mastery (Regolazione): strategie comportamentali e cognitive con cui possiamo padroneggiare gli stati mentali di sofferenza

Possono essere più immediate e semplici, legate ad azioni che coinvolgono il nostro corpo o che richiedono un intervento di persone esterne, oppure più complesse e organizzate, basate su distrazione, inibizione o controllo cognitivo o legate a operazioni di conoscenza metacognitiva.

Lavorare sulle nostre capacità metacognitive è fondamentale per ottenere una rappresentazione chiara dei nostri stati emotivi, per poterli regolare senza andare eccessivamente in confusione o reagire in maniera impulsiva e dannosa per noi stessi e per gli altri. Ci può aiutare a creare e mantenere delle relazioni interpersonali piacevoli e gratificanti, mantenendoci in armonia con noi stessi e con le persone che ci circondano.

Locus of control: artefici del nostro futuro o vittime del nostro destino?

Con l’espressione locus of control, si intende letteralmente il luogo attraverso cui si esercita il controllo. Esso si potrebbe definire come una disposizione mentale o un atteggiamento attraverso cui si possono influenzare le proprie azioni e i risultati che ne derivano.

 

In psicologia e in psicopatologia, uno dei costrutti più studiati è il controllo. Esistono persone che pensano di controllare qualsiasi cosa, altre, invece, credono di essere controllati da situazioni che si verificano all’esterno. Ma cosa si intende per controllo? Controllare significa dirigere le proprie azioni in modo da influenzare gli esiti di un determinato accadimento. In psicologia, spesso, alla parola controllo, ne è associata un’altra: luogo o locus. Con l’espressione locus of control, si intende letteramente il luogo attraverso cui si esercita il controllo.

Locus of control interno ed esterno

Dunque si potrebbe definire il locus of control come una disposizione mentale o un atteggiamento attraverso cui si possono influenzare le proprie azioni e i risultati che ne derivano.

Il concetto di locus of control si deve a Rotter che, nel 1954, lo definì un costrutto unidimensionale caratterizzato da due poli, interiorità ed esteriorità, posti lungo un continuum su cui si disponevano, rispettivamente, coloro che attribuiscono i risultati ottenuti alle proprie capacità e coloro che attribuiscono le conseguenze di alcune azioni a circostanze esterne e incontrollabili.

E’ così che il locus of control, sulla base della teoria di Rotter, si distingue in interno ed esterno. Chi crede di avere avere pieno controllo della propria vita, sostenendo che sono le proprie azioni a modificare il corso degli eventi, ha un locus of control interno. Al contrario, le persone che attribuiscono il loro successo o il fallimento a cause esterne, poco controllabili e imprevedibili, hanno un locus of control esterno.

Gli effetti del tipo di locus of control sulla vita degli individui sembrano dunque prevedibili: coloro che presentano un locus of control interno sono certi di possedere competenze altamente specifiche che li rende in grado di raggiungere standard molto elevati, credono che ogni azione abbia delle conseguenze e che per questo, per modificare gli esiti, è necessario esercitare un controllo rigoroso. Chi ha un locus of control interno mostra conoscenze e skills che consentono di affrontare al meglio le situazioni e i problemi; pensa di poter raggiungere gli obiettivi prefissati, non teme la fatica ma crede che per ottenere i risultati desiderati, si deve puntare su sforzo e sacrificio.

Chi presenta un locus of control esterno, invece, ritiene che le conseguenze di alcune azioni siano dovute a circostanze esterne, per questo pensa che le cose che accadono nella vita siano fuori dal proprio controllo e che le azioni messe in atto siano solo il risultato di fattori non gestibili, come il destino e la fortuna. Persone con un locus of control esterno tendono a dare la colpa al destino o agli altri, piuttosto che a loro stessi, per i risultati ottenuti.

Locus of control: stabilità e controllabilità e gli individui bi-loci

Successivamente Levenson (1973) ha contestato l’unidimensionalità del costrutto di Locus of Control così come teorizzato da Rotter, sostenendo invece che vi siano dimensioni separate tra loro e non dei poli opposti di un continuum. Quindi, non più un costrutto categoriale, ma dimensionale. Partendo da questo presupposto teorico Bernand Weiner ha aggiunto alla teoria dell’attribuzione di Rotter, i seguenti due criteri:

  1. la stabilità, ovvero quanto risultano durature nel tempo le cose ottenute;
  2. la controllabilità, che può essere alta se dovuta alle proprie competenze, o bassa se dipende da fattori come la fortuna, le azioni degli altri, il destino, etc.

L’interazione tra i due criteri porterebbe a considerare le situazioni esterne come stabili e controllabili, ottenendo in questo modo un controllo anche su situazioni apparentemente non gestibili.

D’altra parte, non bisogna dimenticare che non ci sono persone che possiedono soltanto locus interno o esclusivamente quello esterno, ma esistono individui che mostrano una combinazione dei due tipi di locus of control. Queste persone, indicate col termine bi-loci, si mostrano più capaci di gestire lo stress, fanno fronte alle difficoltà in maniera più efficiente ed efficace, sono in grado di assumersi maggiori responsabilità e raggiungono gli obiettivi con minori disagi emotivi.

Locus of control, benessere psicologico e relazioni

Quali conseguenze ha il locus of control sul benessere psicologico?

E’ stato osservato che individui con locus of control interno tendono ad assumere uno stile di pensiero che influenza l’attuazione di comportamenti orientati al raggiungimento degli obiettivi. La risposta emotiva derivante da questo stile di pensiero è funzionale al conseguimento dello scopo e di conseguenza, chi possiede un locus of control interno, è in grado di fronteggiare lo stress in modo più adeguato.

Tuttavia anche un locus of control esterno aiuta gli individui a preservare il benessere: minimizzare il proprio ruolo e la propria responsabilità nel verificarsi di eventi negativi, dando invece una spiegazione esterna e/o fatalistica di quanto accaduto, riduce il senso di colpa, allontana il rimuginio e permette di canalizzare le energie mentali per affrontare meglio le conseguenze.

In generale, l’idea che gli individui hanno di poter controllare gli eventi li porta in ogni modo a mettere in atto strategie (più o meno) funzionali al benessere personale. Chi ha locus of control interno tenderà ad essere attivo nella risoluzione dei problemi, investirà di più sulle sue capacità e avrà più possibilità di successo. Le persone con locus of control esterno, invece, sebbene più passive rispetto agli eventi e poco in grado di intervenire, saranno più orientate all’accettazione delle esperienze negative.

Tuttavia, quando il locus del controllo (esterno vs interno) è rigido e poco flessibile, si riscontrano effetti negativi sulla motivazione degli individui e sul loro modo di regolare e gestire le emozioni: chi presenta un locus of control interno sembrerebbe più incline all’ansia, mentre chi possiede un locus of control esterno sembra essere più incline alla depressione. Chi mostra locus of control esterno, inoltre, dipende dagli altri, ha bassa autostima e una scarsa autoefficacia.

Da un punto di vista relazionale, è più adattivo possedere un locus of control interno, in quanto si è più portati a collaborare con gli altri, ci si mostra più ottimisti, fiduciosi e pronti a prestare aiuto quando necessario. Chi, invece, possiede un locus of control esterno, si relaziona in modo più passivo, subisce l’altro che sente come più forte e al quale si sottomette, manifestando così un tono dell’umore basso e scarsa fiducia in sé stesso.

Come si struttura e si sviluppa il locus of control?

Il tipo di locus of control di ciascuno di noi risulta essere influenzato dalla personalità, dalla cultura e dalla famiglia di origine, oltre che da una serie di rinforzi positivi o negativi che si ricevono durante la vita.

Sviluppo del locus of control: il ruolo della famiglia di origine

La famiglia è il primo ambiente in cui il bambino apprende a dare significato agli eventi, alle sue azione e alle conseguenze di queste. Lo sviluppo del locus of control è dunque notevolmente influenzato dallo stile familiare: molte persone che presentano un locus of control interno sono cresciute in famiglie che pongono particolare attenzione all’impegno, alla responsabilità e alla costanza nel raggiungere un obiettivo (spesso il raggiungimento degli obiettivi è positivamente ricompensato in queste famiglie); chi ha un locus of control esterno proviene da famiglie che esercitano un basso controllo e non considerano centrale l’assunzione di responsabilità. Chiaramente col passare del tempo, e coll’avvicendarsi di situazioni di vita, è possibile che il locus si possa modificare.

Lo stile genitoriale, influenzando il locus of control dei più piccoli, impatta anche sulla loro autostima. Infatti il grado di autostima è influenzato notevolmente dalla credenza o meno di poter raggiungere un risultato desiderato e dalla consapevolezza o meno di poter efficacemente rimediare a un insuccesso.

Quando nel bambino si sviluppa un locus of control esterno, egli tende ad attribuire la causa dei suoi successi o insuccessi a fattori esterni da lui (es: Ho preso un bel voto perché il compito era facile/sono stato fortunato – Ho preso un brutto voto perché il compito era difficile/la maestra ce l’ha con me). Mentre quando un bambino ha uno stile di attribuzione interno attribuisce a se stesso gli esiti (ad es. Ho preso un bel voto perché ho studiato e mi sono impegnato – Ho preso un brutto voto perché stavolta non ho studiato bene). Quando non avviene una commistione dei due stili, l’autostima ne risente: dallo strutturarsi del senso di colpa quando il locus of control è sempre interno (portando, in casi estremi ma non rari, al formarsi dell’idea “non sono degno d’amore”), alla deresponsabilizzazione quando è esterno.

Locus of control e cultura d’appartenenza

Una meta-analisi del 2013 ha preso in considerazione più di 40 anni di studi sul Locus of Control con la finalità di verificare se l’associazione tra questo e sintomi psicopatologici (ad esempio sintomi ansiosi e depressivi) si mantiene uguale o se presenta differenze tra culture individualiste (occidentali) e collettiviste (orientali).

Analizzando 152 campioni indipendenti (in totale più di 30.000 adulti) in circa 18 culture differenti, gli esiti dello studio sembrano confermare differenze cross-culturali nella magnitudine della relazione tra locus of control e sintomatologia psicopatologica. In generale, dalle analisi emerge una forte associazione tra locus of control e sintomi depressivi e ansiosi; l’associazione positiva tra locus of control esterno e sintomi ansiosi è risultata tuttavia più debole nelle culture collettiviste rispetto alle culture individualiste.

Nelle culture individualiste è maggiore il focus sulla tendenza a credere nelle proprie capacità di influenzare le situazioni e gli eventi della propria vita, in qualche modo sentendosi in potere di modificare l’ambiente.

Diversamente, nelle culture collettiviste, i valori dell’interdipendenza e dell’armonia con l’ambiente sono centrali: adeguarsi all’ambiente più che cercare di modificarlo è alla base delle strategie di coping di tali culture. Tutto questo senza che gli individui percepiscano di non avere controllo sulle proprie vite, viceversa la sensazione di controllo sembra derivare dalla percezione di sapersi adattare e adeguare al contesto.

Avere un locus of control rigidamente interno o rigidamente esterno ha importanti risvolti negativi sulla salute psicologica delle persone: come in tutti gli aspetti della vita è necessaria una certa flessibilità cognitiva che consenta di spiegare e dare senso a quello che accade e ci accade.

 

Mindfoodness (2018) di Emanuel Mian – Recensione del libro

Se volete migliorare il vostro rapporto con voi stessi, passando attraverso un rapporto sereno con il cibo, il libro Mindfoodness rappresenta uno strumento utile. L’autore, lo psicologo Emanuele Mian, forte di una lunga esperienza nel settore dei disturbi del comportamento alimentare e dell’immagine corporea, ha creato un agile vademecum in cui prende per mano il lettore guidandolo passo per passo in un percorso di consapevolezza mentale, emotiva e corporea.

 

I presupposti teorici sono la Mindfulness, l’alimentazione consapevole (Mindful Eating) e l’Acceptance and Commitment Theory (ACT); sulla base di queste premesse vengono proposti degli esercizi finalizzati a migliorare, in modo graduale, il proprio rapporto con sé stessi, rispetto all’alimentazione.

Mindfoodness si presenta come un manuale di autoaiuto che si rivolge direttamente al lettore, il quale viene invitato a prendere coscienza delle proprie emozioni e delle difficoltà che condizionano il modo di rapportarsi al cibo e di nutrirsi.

Mindfoodness: l’alimentazione parte dalla mente

Sono presenti tre sezioni. La prima sezione, Mind, si concentra sulle dinamiche della mente; viene messo l’accento su come intraprendere un cambiamento delle proprie abitudini sia, spesso, molto difficile, anche quando siamo coscienti del fatto che sarebbe necessario cambiare per stare meglio. Questo ci ostacola, inducendoci, senza rendercene conto, a mettere in atto dei comportamenti autosabotanti.

Come fare per ovviare alla difficoltà? L’autore sottolinea l’importanza della motivazione, di fare il primo passo, adottando un atteggiamento nuovo: affrontare i problemi facendoli diventare delle sfide con cui misurarsi. Per fare ciò bisogna modificare i pensieri negativi che ci tengono ancorati alle abitudini dannose, inducendoci a credere che non vale la pena fare uno sforzo, perché non siamo in grado di modificare realmente le cose.

Vengono proposti degli esercizi per aiutarci a cambiare il modo in cui parliamo a noi stessi, per metterci maggiormente in contatto con i nostri bisogni e con le nostre emozioni, sia positive che negative. In questo quadro diventa importante riuscire a creare un’alleanza con noi stessi, coltivando la motivazione a creare delle nuove abitudini di vita.

Mindfoodness: l’alimentazione è rapporto col cibo

La seconda sezione di Mindfoodness, denominata Food, prende in esame il rapporto col cibo. Viene sottolineata la differenza tra alimentarsi, ossia introdurre cibo nel nostro organismo, e nutrirsi, inteso come fornire all’organismo tutte le sostanze necessarie di cui ha bisogno per stare in salute. Per citare le parole dell’autore,

L’alimentazione coincide con la nutrizione solo quando i cibi che ingeriamo sono equilibrati nella qualità e nella quantità delle sostanze che contengono e che garantiscono al nostro corpo energia e salute.

Questo non vuol dire demonizzare i “cibi cattivi”, ma essere consapevoli del fatto che è importante, per stare bene, avere delle abitudini alimentari più salutari; al giorno d’oggi la diffusione di cibi preconfezionati determina un paradosso: mangiamo troppo, ma ci nutriamo troppo poco.

La consapevolezza dei nostri bisogni alimentari passa attraverso la consapevolezza del nostro corpo. Per questa ragione viene messo l’accento sull’importanza della respirazione, e viene proposto un esercizio che ci aiuti a respirare meglio, prendendo contatto con noi stessi.

Il metterci in ascolto del nostro corpo ci aiuta a distinguere la fame, intesa come necessità di nutrirsi, dall’appetito, il desiderio di un determinato cibo e dalla compulsione a mangiare per compensare bisogni diversi da quelli legati alla nutrizione.

Mindfoodness: il benessere attraverso l’alimentazione

La terza e ultima sezione di Mindfoodness, Ness, si concentra sulle abilità necessarie per pensare e agire in modo funzionale al nostro benessere, strutturando delle abitudini alimentari salutari. Qui entra in gioco la consapevolezza delle proprie emozioni; non si tratta solo di “addestrarci” a mettere in atto dei comportamenti “corretti”, ma di essere maggiormente in contatto con noi stessi, in modo da evitare che il cibo si trasformi da nutrimento a una valvola di sfogo, e che l’atto di mangiare si carichi di significati che vanno ben al di là del bisogno di nutrirsi.

La parte conclusiva offre spunti teorici, risorse per approfondire e le “Wild cards”, ossia dei cartoncini che riportano delle frasi di supporto utili per fronteggiare i momenti di difficoltà.

Felicità e chiacchiere: parlare con gli altri ci fa bene

Le persone che si intrattengono in conversazioni significative tendono ad essere più felici. Questo significa che non basterebbero le consuete “chiacchiere da bar”, secondo i ricercatori..

 

Un precedente studio (Mehl, Vazire, Holleran, & Clark, 2010), replicato dagli autori, suggeriva come le conversazioni più significative erano legate ad una maggiore felicità, mentre le chiacchiere erano legate all’infelicità.

Chiacchiere e conversazioni più impegnate

Mehl, co-autore del presente studio, definisce le chiacchiere come “una conversazione in cui i due compagni di conversazione si allontanano pur sapendo altrettanto – o poco – l’uno dell’altro e nient’altro”, mentre in una conversazione significativa e sostanziale “vi è uno scambio di informazioni reali e significative, ma potrebbe essere importante qualsiasi argomento – politica, relazioni, condizioni meteorologiche – deve solo essere a un livello maggiore di profondità”.

Con il presente studio i ricercatori hanno voluto indagare cosa tra la qualità o la quantità degli scambi sociali può influire sul benessere delle persone.

Felicità e chiacchiere: lo studio

Il team di ricerca ha replicato lo studio del 2010, ampliando il campione da 79 soggetti (studenti universitari) a 486 soggetti, tra cui studenti universitari sopravvissuti al cancro al seno e i loro partner, adulti divorziati di recente e adulti sani che partecipano ad un intervento di meditazione.

Le scoperte dei ricercatori si basano su frammenti audio raccolti dalle interazioni quotidiane dei partecipanti, i quali hanno indossato un EAR, o dispositivo di registrazione attivata elettronicamente, impostato per accendersi in modo intermittente per brevi periodi di tempo durante il giorno, in modo da catturare momenti spontanei di interazioni quotidiane. Lo strumento EAR è stato sviluppato da Mehl, presso l’University of Arizona con lo scopo di aiutare gli psicologi a raccogliere dati comportamentali quotidiani.

Dopo la raccolta dati il team di ricerca ha codificato le conversazioni registrate per determinare se fossero o meno “significative”. I partecipanti allo studio hanno inoltre completato questionari progettati ad hoc per misurare la soddisfazione di vita e il benessere.

Felicità e chiacchiere: qual è la relazione?

Il nuovo studio conferma che le conversazioni di qualità sono in effetti legate a una maggiore felicità, ma si è scoperto anche che le chiacchiere non significative sembrano non avere alcun rapporto con lessere felici.

I ricercatori si aspettavano che la personalità potesse fare la differenza, ad esempio che gli estroversi potessero beneficiare più delle interazioni sociali rispetto agli introversi.

Nel complesso, i partecipanti allo studio che hanno partecipato a un maggior numero di conversazioni sostanziali e significative erano più felici, indipendentemente dal fatto che avessero personalità più introverse o estroverse.

È inoltre emerso, come afferma Mehl, che

Le persone che trascorrono molto tempo da sole sono meno soddisfatte delle loro vite e hanno un minore benessere. Le persone che trascorrono più tempo interagendo e conducendo conversazioni più significative e sostanziali sono più soddisfatte. La vita felice è sociale, piuttosto che solitaria.

Le chiacchiere quindi non avrebbero alcun legame diretto con il benessere dei partecipanti (né positivo né negativo), ma potrebbero essere comunque importanti per instaurare un rapporto che permetta l’instaurarsi di conversazioni più sostanziali. Come esemplifica l’autore:

A causa delle norme sociali, di solito non puoi camminare verso uno sconosciuto e saltare a una conversazione profonda ed esistenziale, senza passare dalle chiacchiere.

Lo studio stabilisce un legame tra conversazioni sostanziali e felicità, ma gli autori non sanno indicare la direzione della relazione: conversazioni sostanziali rendono le persone più felici? O le persone più felici intraprendo conversazioni più sostanziali? Questo è indubbiamente un possibile punto di sviluppo per futuri studi.

Mi piacerebbe sperimentalmente ‘prescrivere’ alla gente alcune conversazioni più sostanziali e vedere se questo fa qualcosa per la loro felicità – afferma Mehl.

 

Il Disturbo Bipolare – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 31

Il Disturbo Bipolare è un disturbo dall’alta componente biologica, ma gli aspetti psicologici sottostanti sono altrettanto importanti e giocano un ruolo importante nei viraggi della sintomatologia.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il Disturbo Bipolare (Nr. 31)

 

Il Disturbo Bipolare è senza dubbio la patologia in cui è più evidente l’aspetto biologico, come si evince dalla presenza di una forte familiarità e dall’efficacia dei farmaci.

Non credo tuttavia che la sua gestione vada lasciata completamente nelle mani di psichiatri e aziende farmaceutiche relegando la psicoterapia a mera psicoeducazione sulla malattia e sull’importanza dei farmaci e dell’igiene di vita. Credo al contrario che aspetti psicologici siano sottostanti al disturbo e attivi nei viraggi della sintomatologia.

Gli elementi di base sottostanti al disturbo sono due:

  • l’incertezza sul proprio valore personale
  • il fondare tale valore sulle performance

Disturbo Bipolare e Mania

La dinamica del loop della maniacalità prevede che in seguito ad un successo aumenti il valore percepito di sé ed esponenzialmente le aspettative di ulteriori più grandiosi successi con un incremento dell’impegno nel perseguirli.

Seppure i successi arrivino con progressione lineare (almeno all’inizio è possibile), le aspettative crescono con progressione geometrica. Fatalmente il gap tra risultato ottenuto e risultato atteso, da cui dipende il vissuto soggettivo di successo o fallimento, si amplia fino a che un certo risultato, per quanto positivo, è ritenuto insufficiente e dunque fallimentare. Il che blocca e inverte il loop attivato inizialmente da un successo.

Inoltre è evidente che un incremento percentualisticamente uguale è via via più difficile da ottenere al crescere del valore di partenza (basterà pensare alla diminuzione di peso durante una dieta più consistente all’inizio).

Disturbo Bipolare e Depressione

La dinamica del loop depressivo è esattamente opposta.

Il depresso peggiora le performance ma ancora di più abbassa le aspettative di successo per cui arriva un tempo in cui una performance è molto modesta (ad esempio durante un ricovero il semplice mangiare al tavolino invece che a letto viene registrata come un successo che inverte la spirale).

C’è un significato per questa “spirale” psicopatologica?

Il meccanismo sottostante ad entrambe le spirali psicopatologiche è, in realtà, evolutivamente adattivo. È infatti utile aumentare al massimo l’impegno quando un successo è considerato probabile e a portata di mano. Al contrario è altrettanto utile ridurre o sospendere completamente l’impegno, per non sprecare risorse, quando è previsto il fallimento.

Ndr: una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata su State of Mind il 4 aprile 2017, la trovi qui.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Genitori positivi, figli forti. Come trasformare l’amore in educazione efficace (2018) – Recensione del libro

Il libro Genitori Positivi, Figli forti di Rosa Angela Fabio propone un modello di educazione che non è più un gioco di potere del più grande sul più piccolo o una sfida a ribaltare nevroticamente i ruoli, ma un valzer di reciproca comprensione, ascolto, comunicazione lineare, profezie che si autoavverano… un’ educazione al positivo.

 

“Sono abbastanza brava come madre?” Inizia così, il libro di Rosa Angela Fabio, psicologa e docente di psicolopatologia, inizia con una delle domande più complesse della storia genitoriale.

Una storia che, negli ultimi decenni, ha visto cambiare, stravolgere, modificarsi, evolversi i modelli di riferimento per le nuove generazioni di genitori, sempre più curiosi, attivi, intraprendenti, divisi tra ruoli “liquidi” e crisi socioculturali, alla ricerca di risposte che, in poco più di un centinaio di pagine, riescono a prendere forma in questo manuale del genitore positivo.

Sì, positivo, perché le nuove teorie dell’apprendimento e dell’ educazione hanno compiuto una rivoluzionaria virata verso i valori come l’ascolto attivo dei bambini, la felicità, l’idea che “sia possibile modificare il modo di pensare, le emozioni e i comportamenti”.

Genitori Positivi, Figli forti – Il messaggio del libro

Il libro Genitori Positivi, Figli forti ha diversi scopi. Il primo è quello di esaminare lo sviluppo intrapsichico (emozioni, cognizione, comportamento) e interpsichico (il rapporto tra il bambino e gli altri) dei bambini, il secondo è far conoscere le metodologie educative che li possano rendere forti e felici, senza troppi giri di parole, offrendo degli spunti educativi “prét-à-porter” non solo per i novelli genitori, ma anche per tutti quegli “adulti significativi”, come educatori, insegnanti, nonni, che gravitano attorno ai più piccoli.

Più in generale, invece, il messaggio che sottende tutti i nove capitoli è quello che “finché respiriamo e siamo in vita possiamo cambiare”.

Genitori Positivi, Figli forti è l’essenziale manifesto dell’ educazione positiva. Partendo dalla conoscenza del funzionamento cognitivo, emotivo e comportamentale dei più piccoli e passando per l’aspetto teorico delle metodologie educative, l’autrice approda a temi più delicati come trasmettere le regole in maniera positiva, il valore della punizione (democratica ed efficace) e la valorizzazione degli aspetti positivi del rapporto genitori-figli, proponendo di volta in volta dei questionari di autovalutazione, utili per imparare a riconoscere i propri gap educativi e trasformarli in comunicazione assertiva e ascolto attivo.

L’ educazione dei figli diventa così non un gioco di potere del più grande sul più piccolo o una sfida a ribaltare nevroticamente i ruoli, ma un valzer di reciproca comprensione, ascolto, comunicazione lineare, profezie che si autoavverano… al positivo.

“Essere dei bravi genitori significa stare bene” afferma Rosa Angela Fabio tra le pagine del suo libro Genitori Positivi, Figli forti e invita tutti i “grandi” ad ascoltarsi, a prendersi cura di sé, delle proprie emozioni, dei propri spazi prima di prendere decisioni affrettate o riversare sui più piccoli le frustrazioni di una giornata di lavoro o di una vita che offre poche certezze.

Un libro da leggere tutto d’un fiato, da tenere sempre sul comodino, da regalare e regalarsi, facendo propria ogni singola parola.

Abbattere il coping o mirare alle radici della sofferenza?

Ci sono di quelle questioni cliniche di cui discuti per tutta la vita e non fai mai pace coi colleghi. Ti appassioni, litighi, ne fai roba di principio, ti convinci da solo di quello che dici, ti ci arrabbi, te ne inorgoglisci, ti senti frustrato e sotto sotto temi di sbagliare.

 

Un problema che mi ha dato non pochi pensieri, e problemi relazionali, è cosa fare del coping disfunzionale. Mica un problema da poco. Se dico coping disfunzionale suona generico, se invece lo traduco in ciò che è in pratica il concetto arriva. Si parla di: aggressività auto-diretta, aggressività etero-diretta e insomma tanta rabbia, sintomi alimentari, evitamento, workaholism, sottomissione compiacente, pensiero ripetitivo sotto forma di rimuginio per esempio. Si capisce meglio ora, vero?

Se il coping disfunzionale diventa “urgenza”

Si tratta di sintomi, comportamenti problematici e forme di pensiero che fanno danni enormi ai pazienti, a chi li circonda. E, naturalmente, sono per il clinico attraenti come il miele per l’orso. Noi psicoterapeuti abbiamo fame di guarire, di risolvere i problemi, cerchiamo sofferenza già attrezzati come Manny Tuttofare – il piccolo aggiustatutto dei cartoni animati per bambini -. Se preferite personaggi più adulti: “Sono Mr. Wolf, risolvo problemi”.

Tutto diventa estremamente difficile da discutere se il clinico nomina la parola d’ordine: “È un’urgenza”. Il termine urgenza ha un suono di per sé minaccioso e evoca pensieri ed emozioni come: catastrofe, responsabilità, imperizia, colpa. Se non risolvo il problema “urgente” il paziente potrebbe farsi male o causare danno agli altri.

Si taglia. Fa esercizio fisico compulsivo, potrebbe infortunarsi. La moglie lo minaccia fisicamente, se non si separa subito rischia la vita. Picchia la compagna. Gioca d’azzardo. Si droga. Non ha il controllo sulla rabbia, rischia di perdere il lavoro.

Di fronte al problema “urgente”, coi clinici si ragiona meno facilmente. Vedono il problema sintomatico, regolatorio, comportamentale e ci si buttano su. Come uno che al secondo giorno di dieta viene portato a forza in una trattoria romana di fronte alla carbonara. Vallo a trattenere.

Potrebbe venire in mente a una persona sana di mente di non considerare il coping la vera priorità del trattamento?

Ehi, ci sono anche prove empiriche al riguardo. Voglio dire, tutte quelle pubblicazioni sull’efficacia della DBT. Target principali: sucidio, atti-autolesivi, rabbia. Coping, coping, coping. Mira il coping, funziona, Giancarlo, che vuoi di più?

E la CBT potenziata per i disturbi alimentari? Funziona pure quella no? Sintomo alimentare, cura del sintomo alimentare, riduzione del problema alimentare. Valla a contestare una logica del genere.

Eppure questa logica non mi ha mai convinto, attirandomi storicamente non poche critiche. Sì, ragioni pure raffinato, ma la priorità è nel sintomo perché bisogna proteggere il paziente.

Il coping disfunzionale nella formulazione del caso

Io la vedo diversamente, è una questione di finezza della formulazione del caso, e se il caso lo formuli bene il trattamento funziona. L’esercizio intellettuale fine a se stesso mi disturba, mi irrita: se ragiono sul funzionamento del paziente è perché voglio farlo stare bene prima, in modo più stabile e con più probabilità di successo.

E quindi il coping non è l’obiettivo del trattamento.

Ma come, significa che se il paziente si taglia, si abbuffa, aggredisce la partner, si droga, evita, si dà al sesso compulsivo, magari non protetto, lo lasci fare?

No. Specialmente se il coping è comportamentale ed è pericoloso per il paziente stesso e per gli altri. È necessario come primo passo formulare un contratto in cui il paziente capisca che quel comportamento non è benefico e sappia che in qualche modo la terapia tenderà a ridurlo. Al di là dei casi più estremi (potenziali sucidi o omicidi, anoressiche sottopeso a rischio vita o scompenso metabolico sono alcuni esempi) ragioniamo nel modo che segue.

Il coping disfunzionale è il punto del funzionamento del paziente da cui si imposta la terapia. Ma non per ridurre il coping.

Perché?

Il coping è una forma di gestione della sofferenza. Funziona da schifo, ma è una protezione, uno scudo, un’armatura, filo spinato elettrificato. Lo togliete e cosa ottenete: di mettere la sofferenza a nudo, solo che lo state facendo con persone che non hanno altri strumenti. In altre parole, se riduco la rabbia al paziente e quello è l’obiettivo primo della terapia, perché ho condiviso con il paziente che la rabbia è tossica, danneggia sé e gli altri, cosa sto dicendo? Che è causa del suo mal e pianga sé stesso.

Pensiamo agli autori di violenza domestica. Vogliamo che smettano di essere aggressivi con la partner? Ci mancherebbe! Ma per avere successo, e farlo in modo stabile, bisogna non considerare l’aggressione in sé come problema. L’aggressione è l’emersione del problema, che esiste a monte.

Coping disfunzionale: cosa possiamo fare come terapeuti

E la terapia deve andare a monte. Insomma, non vogliamo depurare l’acqua sporca, ma ridurre la fonte di inquinamento alla sorgente.

Come?

Cosa facciamo?

Partiamo dal coping. Questo sì, necessariamente. Validiamo, qualunque esso sia, il comportamento di coping. Capisco che lei si tagli per calmarsi. Capisco che se si sente ferito e umiliato provi una rabbia feroce per la sua compagna e abbia il desiderio di sottometterla, fargliela pagare. Capisco che voglia essere magrissima e bella ed essere accettata. Capisco che lavori come un dannato per avere successo o per evitare gli errori. Ci sta, lo farei anche io.

E poi l’esercizio: che succede se, in una circostanza precisa, solo per curiosità, la settimana prossima, prova a non farlo? Non mi interessa che ci riesca, voglio solo che ci provi e si annoti in qualche modo cosa le passa per la mente in quei momenti. E ne parliamo nella prossima seduta.

Il paziente deve avere chiarissimo che non vogliamo fare sparire il coping, non ci interessa. Vogliamo solo capire cosa la causa e lo rende automatico, potente, imperativo, indispensabile.

Vogliamo quindi migliorare il monitoraggio metacognitivo, la consapevolezza delle cause dell’azione.

Un mio paziente, Matteo, soffriva di dipendenza sessuale e affettiva. Stava impazzendo dietro una donna impossibile. E nel frattempo aveva la straordinaria capacità di rimorchiare una quantità di donne impressionante. Gli ho proposto un semplice esercizio. Nella settimana prossima, quando sta per prendere il telefonino per vedere se Veronica le ha scritto, provi a non farlo. E mi dica che le succede. Nelle settimane successive l’esercizio diventerà: quando torna a casa dal lavoro sappiamo che le viene lo stimolo a scrivere a qualche donna per uscirci la sera. Provi a non farlo, per 5 minuti, 10, mezz’ora. Solo per capire come si sente in quei momenti.

Dopo due mesi la relazione con la donna impossibile è finita. La dipendenza sessuale si è ridotta. Cosa è successo. Il paziente ha scoperto che prima di cercare relazioni era preda di un’idea di sé come: incapace, inferiore, solo. Era governato da emozioni di: ansia, vergogna, colpa. E ha capito che la strategia di dipendenza o rimorchio compulsivo servivano a: staccare la testa dalle emozioni dolorose, evitare di affrontare i problemi sul lavoro e restaurare in modo narcisistico l’immagine di sé che i genitori avevano sempre minato. A quel punto la terapia non era mirata sulla riduzione del coping. Ma: quando contattiamo le idee nucleari di sé incapace, inferiore e solo, come possiamo trattarle.

Ostacolando il coping si accede alle parti sane: scopri che in quei momenti in cui ti astieni dal comportamento problematico puoi entrare in contatto con altre idee di te, più benevole. O puoi farle emergere col terapeuta. O puoi regolare in modo più sano le emozioni dolorose che le accompagnano. A quel punto il coping diventa un problema secondario, la terapia mira a smontare gli antecedenti di meccanismi protettivi e i comportamenti protettivi non sono più necessari.

Ora se il paziente continua ad adottare il coping, succede di fatto, sotto forma per esempio di evitamento o pensiero ripetitivo, lo si può bersagliare: il paziente sa perché lo adotta, sa che è un meccanismo protettivo ma insieme al terapeuta è consapevole che è necessario un lavoro specifico per abbandonarlo.

In Terapia Metacognitiva Interpersonale abbiamo sempre lavorato per modificare gli schemi interpersonali maladattivi alla radice della sofferenza soggettiva (Dimaggio et al., 2013).

I primi studi di efficacia che abbiamo pubblicato, apparsi negli ultimi due anni (Dimaggio et al., 2017; Gordon-King et al., 2018; Popolo et al., 2018) ci hanno detto una cosa in più: eravamo capaci di ridurre i sintomi e migliorare le strategie regolatorie. In altre parole, lavorando sulle strutture di personalità andavamo a cambiare il coping e ridurre i suoi effetti nocivi. Puntando alla radice della sofferenza. La logica ha un senso.

Cocaina: scoperto il ruolo di un nuovo gene che favorisce la dipendenza

Sono ormai ben noti gli effetti della cocaina: stimola il sistema della ricompensa, provocando cambiamenti a lungo termine che sfociano poi in comportamenti patologici di dipendenza. E’ stato scoperto che un gene ha un ruolo importante in questo meccanismo.

 

Una nuova ricerca, condotta da Alban de Kerchove d’Exaerde e colleghi, ha esaminato a fondo proprio questi comportamenti, scoprendo un gene denominato Maged1, che svolge un ruolo cruciale nei meccanismi che portano alla dipendenza da cocaina.

Maged1: il sistema di ricompensa e la dipendenza

La famiglia di geni di cui fa parte Maged1 è già stata studiata in passato, perché ne è stato riconosciuto un ruolo attivo nei tumori. Sono state inoltre evidenziate altre funzioni cerebrali di Maged1, per esempio nei processi di risposta agli antidepressivi.

L’ abuso di cocaina altera l’attivazione di Maged1 ed è per questo motivo che gli autori hanno voluto indagare il ruolo di questo gene nello sviluppo della dipendenza da cocaina.

Il sistema di ricompensa, sia nel mondo animale che in quello umano, viene attivato quando mettiamo in atto una serie di comportamenti che suscitano piacere, come bere, mangiare o procreare. Il sistema si attiva tramite uno stimolo gratificante che provoca il rilascio di dopamina da parte dell’area tegmentale ventrale verso altre aree del cervello connesse ad essa, in particolare il nucleo accumbens, fulcro del sistema di ricompensa.

In questo sistema, la cocaina agisce bloccando la rimozione della dopamina dalle sinapsi, provocandone così un’ondata in tutti i circuiti. Questo eccesso di dopamina porta a modifiche a lungo termine nel cervello, che sfociano poi in dipendenza.

Maged1: dove agisce

La corteccia prefrontale è un’area condizionata dai cambiamenti indotti dalla cocaina. Quest’area è deputata al controllo dell’inibizione e della regolazione delle emozioni. Infatti, la dipendenza da cocaina porta ad assumere comportamenti come la ricerca della droga, la perdita di controllo e inadeguatezza nei processi decisionali.

In esperimenti effettuati su topi privi del gene Maged1, i ricercatori hanno potuto notare come gli animali fossero completamente insensibili alla cocaina, e che il rilascio di dopamina fosse assente nel nucleo accumbens. I topi non mostravano nessuna delle tipiche reazioni alla cocaina: sensibilizzazione alla droga, maggiori effetti in seguito ad un aumento della dose o comportamenti di dipendenza, come esplorare luoghi dove abitualmente avrebbero potuto trovare una ricompensa di cocaina.

In seguito ad una serie di esperimenti, dove è stato osservato il ruolo di Maged1 in diverse regioni cerebrali, i ricercatori hanno appurato che affinché ci sia lo sviluppo di un processo di sensibilizzazione alla cocaina e di rilascio di dopamina, il gene sia fondamentale nella corteccia prefrontale e non nei neuroni che producono dopamina nell’area tegmentale ventrale.

Nella letteratura scientifica, pochissime sono le mutazioni conosciute per produrre una totale assenza di risposte comportamentali alla cocaina.

Maged1 può essere un promettente punto di partenza per lo studio dei comportamenti da dipendenza da droga.

Il ruolo della supervisione in psicoterapia

Per gli psicoterapeuti in formazione, ma anche per i più esperti, la supervisione è uno strumento indispensabile per esercitare la propria professione. Accade infatti spesso, nel corso della terapia con i propri pazienti, di ritrovarsi in alcuni momenti di impasse dai quali proprio non si riesce a venirne fuori o capita, non di rado, che i vissuti di un paziente possono risuonare emotivamente nel terapeuta che non riesce più ad assumere uno sguardo esterno alla terapia che sta conducendo. Ecco allora che interviene il supervisore…

 

Umberta Telfener a proposito della supervisione scrive:

E’ stata chiamata supervisione la relazione tra una persona più esperta e un individuio in training. Si tratta di quella situazione in cui l’esperto costruisce con lo studente una serie di contesti educativi per connettere insieme gli aspetti comportamentali (il fare), quelli teorici (il saper fare), quelli emotivi (il saper essere), condividendo una cornice che contenga questi diversi livelli (la condivisione di una visione del mondo e di obiettivi condivisi). In un’ottica costruttiva la supervisione è considerata una coordinazione di pensieri e azioni all’interno di un contesto e di una definizione (di scopi e obiettivi) ugualmente condivisa.

Una definizione di supervisione in campo cognitivista è stata data da Nicola Butera e Roberta Zaratta (2002), i quali scrivono che la relazione di supervisione rappresenta un processo interattivo, caratterizzato da numerosi vissuti emotivi, le cui componenti sono: il terapeuta, il supervisore, la relazione.

Supervisore e terapeuta si trovano a co-costruire un contesto di reciprocità, all’interno del quale il terapeuta espone al supervisiore la storia e i disturbi del paziente, racconta della terapia che sta conducendo e dei problemi che sta riscontrando in corso d’opera. D’altro canto il supervisore allena il terapeuta all’autosservazione in modo da comprendere meglio quali sono i propri meccanismi di “funzionamento”. In questo modo il terapeuta può dare nuovo significato al proprio lavoro, ricostruendo la conoscenza che ha della terapia, del paziente e del proprio modo di essere all’interno della relazione terapeutica. Il supervisore può riorganizzare e ricostruire la conoscenza che ha della terapia, del terapeuta e del proprio modo di essere all’interno della relazione di supervisione.

Attraverso questa costruzione e ri-costruzione dell’esperienza e del suo significato, si raggiunge una maggiore conoscenza delle proprie competenze; un cambiamento emotivo, cognitivo e, di conseguenza, un cambiamento del modo di agire del terapeuta e del supervisore.

Le componenti di una supervisione efficace

Più rigorosa e pragmatica è la visione della supervisione proposta da Carol Falender, che vede la supervisione come:

Un’attività professionale distinta, in cui l’istruzione e la formazione sono volte a sviluppare una pratica psicoterapeutica scientificamente fondata, attraverso un processo interpersonale collaborativo. La supervisione comprende le fasi di osservazione, valutazione e feedback, e facilita l’autovalutazione del supervisionato, l’acquisizione di conoscenze e competenze attraverso la formazione, il modellamento (modeling), e il problem solving reciproco. La supervisione favorisce il riconoscimento dei punti di forza e dei talenti del supervisionato, incoraggiando l’autoefficacia. Deve essere condotta in modo competente nel quadro di uno standard etico e legislativo. La pratica professionale della supervisione deve essere utilizzata per promuovere e tutelare il benessere del cliente, la professione e la società in generale.

La rigorosità del pensiero della Falender (2008), le ha consentito di individuare le componenti necessarie affinché una supervisione possa dirsi efficace, tra queste importanti risultano la costruzione di una relazione; il rispetto per il supervisionato (soprattutto quando supervisore e terapeuta seguono approcci o orientamenti diversi); la valutazione collaborativa delle competenze del supervisionato (utilizzando l’autovalutazione del supervisionato e il feedback del supervisore), e la successiva definizione di obiettivi e compiti di sviluppo. La riflessione e la valutazione delle competenze del terapeuta da parte del supervisore devono sempre mirare a un miglioramento delle competenze e alla promozione, nel supervisionato, di capacità di gestione dei fattori personali e di controtransfert e i loro risvolti sul  processo clinico.

Dei criteri che rendono una supervisione efficace si è parlato anche in un recente congresso APA (2014), in un simposio a cura di Chun-I Li, Scott Fairhurst e Scott Liu. Nel corso dell’evento sono stati delineati i compiti del supervisore della psicoterapia e le aspettative del supervisionato, che sono dieci:

  1. aiutare l’introspezione (facilitating insight)
  2. riscontro e correzione (feedback and correction)
  3. incanalare l’eaborazione (allowing for debriefing)
  4. delineare le scelte (outlining options)
  5. impartire conoscenze generali (imparting general knowledge)
  6. spiegare che fare (explaining what to do)
  7. impostare differenze di valori (addressing differences in values)
  8. promuovere lo sviluppo professionale (promoting professional development)
  9. essere un modello (modeling)
  10. validare gli stati emotivi del supervisionato (validating supervisee’s feelings)

Queste variabili potrebbero essere a grandi linee raggruppabili in due aree principali: la validazione degli stati emotivi vissuti in seduta e la valutazione e correzione degli aspetti tecnici e strategici (Ruggiero, 2014).

Supervisione a diversi livelli e l’importanza di uno sguardo esterno

La realtà, ammesso che esista indipendentemente, si manifesta solo nell’interazione con un osservatore. La sua rappresentazione è dunque frutto parimenti della cosa in sé e degli schemi percettivi e cognitivi dell’osservatore. In supervisione, come già accennato, abbiamo un Terapeuta e un Supervisore (Dimaggio, 2016) e una parte della supervisione focalizzata sui contenuti e una orientata ai processi (Sassaroli, 2014).

La parte della supervisione focalizzata sul contenuto (come funziona questo paziente, che problemi ha?) attiene ad aderenza, competenza e osservanza delle regole di una certa teoria clinica, mentre la supervisione focalizzata al processo si occupa dei fattori aspecifici, della relazione tra terapeuta e suo paziente (come sto con lui, cosa sto facendo con lui di buono o problematico? Perché sto portando il caso e chiedendo aiuto? Qual è il disagio che ho avuto nelle ultime sedute?) e su come il supervisionato sa rapportarsi con il supervisore (quanto accetto di essere messo in discussione? Quanto accetto che il mio supervisore mi suggerisca che quell’atto clinico, quelle emozioni con un certo paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare, come sto in una relazione in cui qualcuno che fa da educatore, fa le pulci al mio operato? Che emozioni ho?).

In una seduta di supervisione, il terapeuta descrive la sua relazione con il paziente (che a sua volta gli descrive il mondo in cui è immerso e che gli genera disagio) al supervisore. Quest’ultimo può fare un intervento sui contenuti, correggendo la costruzione che il terapeuta ha del paziente al fine di perseguire meglio lo scopo della guarigione. Interventi del tipo sono la modifica della diagnosi, il suggerimento di alcune tecniche utilizzabili, ecc (Dimaggio, 2016).

Capita però che il supervisore possa fare anche un intervento di livello superiore, sui processi, mostrando e relativizzando gli schemi percettivi costruttivi con cui il terapeuta vede il paziente, evidenziando cioè gli scopi che muovono il terapeuta. Questo secondo tipo di intervento anche se apparentemente meno utile nell’immediato per chi spesso, in supervisione, cerca soluzioni veloci per uscire dall’impasse della terapia con il paziente, è più efficace ed economico. Questo perché gli scopi e gli schemi attivi nel terapeuta nella relazione col paziente, sono presumibilmente attivi anche nelle relazioni con gli altri pazienti.

Ovviamente, sempre Dimaggio (2016) ricorda come il regresso può continuare all’infinito: nella costruzione che il supervisore fa del paziente e del terapeuta, nonché della loro loro relazione, entrano in gioco anche gli schemi del supervisore. Si può ovviare in parte a questo problema, avendo più supervisori ed è qui racchiuso il senso di un gruppo di supervisione e, più in generale, dell’intervisione. A volte, infatti, non serve che il supervisore sia necessariamente più esperto, serve soprattutto che sia esterno (ibidem).

Contratto in supervisione e modalità di lavoro

Come accade in terapia con i pazienti, anche in supervisione dovrebbe esserci un esplicito contratto tra supervisore e supervisionato. Nel contratto ci si accorda su cosa ci si aspetta uno dall’altro, le cose che si è disposti a fare insieme, si stabiliscono formalmente modi e regole degli incontri. Ad esempio è considerato non corretto fare supervisione senza registrazione audio delle sedute. In questo modo si ha la possibilità di ascoltare la seduta, vedendo quali emozioni e quali movimenti emotivi emergono durante quell’incontro.

La formalizzazione estrema del processo di supervisione psicoterapica è un bene che protegge il supervisore, il supervisionato e il paziente (Sassaroli, 2014).

Nella mente dello psicoterapeuta

Un breve video illustra in maniera semplice e accessibile ciò che avviene nella mente dello psicoterapeuta nel corso delle sedute di psicoterapia e all’interno della relazione terapeutica.

La seconda parte del video evidenzia l’importanza per lo stesso terapeuta di avvalersi dell’aiuto o della supervisione di colleghi professionisti.

 

La psicologia positiva e i suoi ambiti di applicazione: il ruolo dello psicologo del benessere

Si è soliti pensare che abbiamo bisogno di rivolgerci allo psicologo solo davanti a una situazione di disagio, patologia o malessere conclamato. Fatichiamo a prendere in considerazione l’idea che si possa potenziare il benessere mentale così come si potenzia il benessere fisico.

 

Ma se “usassimo” lo psicologo per migliorare il nostro benessere? Se lo considerassimo un supporto a situazioni stressanti potenziali e non già in essere?

La psicologia positiva e i suoi ambiti di applicazione

Per rispondere a queste domande dobbiamo interpellare una branca della psicologia che si è focalizzata non sul porre rimedio agli aspetti peggiori della vita bensì alla costruzione di qualità positive (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000): la psicologia positiva. I contributi di questa nuova prospettiva che guarda all’individuo non più in termini di carenze, deficit e patologie ma come detentore di risorse e potenzialità, è da considerarsi rivoluzionaria.  Fino a questo momento, infatti, il focus della ricerca psicologica è stato sul “riparare” qualcosa di malfunzionante mentre ora, grazie all’interesse per il benessere soggettivo è possibile focalizzare l’attenzione sull’individuazione di comportamenti che possono migliorare la qualità della vita, costruendo e potenziando skills e risorse già presenti in ognuno di noi per fronteggiare al meglio le situazioni stressanti.

Benessere: una definizione soggettiva

Inizialmente si era soliti pensare che il benessere fosse determinato da elementi di natura oggettiva come ad esempio un’abitazione molto grande, uno stile di vita agiato, lo status sociale, buone condizioni di salute, ecc.. Diversi studi hanno invece dimostrato che il benessere ha un carattere troppo soggettivo per poter essere ridotto ai termini sopra indicati. Ognuno di noi, infatti, elabora a proprio modo la qualità della vita in base alle carattetistiche personali e alle modalità con cui si rapporta con l’ambiente. Ad esempio, una persona con una posizione sociale elevata può sentirsi meno appagata a livello relazionale, rispetto ad una persona di rango inferiore ma con una vita attiva e ricca di interazioni sociali. In un altro caso, due persone affette dalla medesima malattia possono approcciare ad essa in modo arrendevole temendo di non essere in grado di superarla o in modo combattivo sapendo di avere le risorse per farle fronte.

Non siamo di certo i primi ad esserci interrogati su cosa sia il benessere; filosofi e teologi sono già andati in cerca di questa risposta e hanno pensato di correlarlo alla felicità (Oishi & Diener , 2001; Diener, Lucas, & Oishi, 2002). In che modo? Le indagini di cui disponiamo in merito alla rappresentazione della felicità ci forniscono 3 punti specifici. La felicità viene percepita come:

  • soggettiva: quello che rende felice una persona può rattristarne un’altra
  • temporale: non è detto che ciò che ci rende felici adesso lo farà anche in futuro
  • transitoria: quello che ci rende felici non mantiene nel tempo lo stesso effetto

Alla luce di quanto detto, quindi, si può pensare di definire il benessere soggettivo come “una condizione di raggiungiungimento di un equilibro inter e intra individuale” (Amoretti & Ciceri, 2008) racchiudendo così gli aspetti soggettivi e quelli di relazione con l’ambiente.

Psicologia positiva e benessere

Possiamo affermare che la psicologia positiva, per consentirci di definire il benessere così come abbiamo fatto e di associarlo alla felicità, è un movimento partito da due prospettive di base: quella edonica e quella eudaimonica.

Queste due prospettive hanno una diversa visione della felicità: nel primo caso si fa riferimento a un benessere e a una felicità di tipo soggettivo (Subjective well-being) legato alla sfera affettiva individuale che consiste nel raggiungimento di piaceri fisici e mentali. La seconda prospettiva, invece, ci presenta il benessere psicologico (Psychological well-Being) come legato alla sfera dell’auto-realizzazione anche in termini collettivi. C’è una continua interazione tra benessere indivuduale e collettivo per cui la felicità personale si realizza nell’ambito dello spazio sociale (Delle Fave, 2006). Il benessere è quindi un orizzonte raggiungibile solo mediante la messa in campo delle risorse personali e le competenze sociali disponibili (Delle Fave, 2007).

Benessere come risultato del pensare positivo

“Io penso positivo” non sono solo le prime parole di una nota canzone, sono anche il risultato di numerose ricerche condotte nelle aree della psicologia positiva che vedono il pensiero positivo come protagonista della percezione del benessere. È stato dimostrato che sapersi concentrare su emozioni positive rivela una disposizione a reagire positivamente agli eventi della vita, disposizione che ha influenze sulla salute delle persone arrivando anche ad allungarne la vita (Danner, Snowdon, & Friesen, 2001). Queste hanno, infatti, effetti sia terapeutici sia preventivi supportando il sistema immunitario e motivando all’attuazione di comportamenti sani (Salovey, Rothman, Detweiler, & Steward, 2000). Non trascurabile è l’utilità delle emozioni positive di fronte a eventi di elevata gravità: ad esempio, nei giorni successivi all’attacco al World Trade Center più le persone erano in grado si sperimentare emozioni positive (gratitudine per i cari al sicuro) più erano capaci di riprendersi dall’attacco (Fredrickson, Tugade, & Waugh, 2003).

Così come le emozioni negative hanno un ruolo adattivo che muove all’azione (ad. es.: fuggire in caso di pericolo), le emozioni positive sono adattive nei termini in cui favoriscono il repertorio cognitivo e comportamentale grazie all’avvicinamento al prossimo, all’esplorazione dell’ambiente, all’applicazione di modalità di pensiero più efficaci e creative (Isen, 1990). Emozioni positive e negative sono dunque complementari: le prime sono necessarie all’aumento a lungo termine delle risorse della persona, le seconde sono indispensabili per la sopravvivenza dell’organismo nell’immediato. Inoltre, le emozioni positive sono essenziali per la regolazione di quelle negative: mentre queste ultime se provate per lungo tempo possono costituire un fattore di rischio per la salute, le prime possono funzionare da “antidoto” per le situazioni stressanti. Diversi studi hanno dimostrato come l’attivazione cardiovascolare prodotta da esperienze negative possa essere ridotta rapidamente da stati emotivi positivi (Fredrickson & Levenson, 1998; Fredrickson B. L., 2000). Questa ipotesi degli autori, denominata undoing hypothesis, suggerise quindi che le persone sono in grado di aumentare il loro benessere psicofisico coltivando esperienze di emozioni positive in momenti opportuni per affrontare situazioni negative future (Fredrickson B. L., 2000).

A favore di queste ipotesi quindi, la psicologia positiva ha condotto ricerche che possono essere considerate opposte rispetto ai tradizionali approcci psicopatologici di studio della mente. Anziché partire dall’indagare, ad esempio, gli effetti prodotti da un trauma per scoprirne le cause e proporne il trattamento, grazie a questa prospettiva si parte dallo studio della predisposizione personale in soggetti dall’approccio ottimistico e positivo alla vita che li porta ad avere un maggior livello di resilienza e quindi a  resistere maggiormente a esperienze traumatiche o negative.

Psicologo del benessere e psicologia positiva

Il ruolo dello psicologo del benessere è quindi quello di supportare le persone al miglioramento della qualità della vita in diversi ambiti (lavoro, scuola, fasi di vita come gravidanza o invecchiamento, ecc…) favorendo il potenziamento positivo delle proprie caratteristiche personali che portano all’attuazione di strategie comportamentali che nutrono il benessere. Certo, questa figura non si distoglie completamente dalla diagnosi di disturbi già esistenti, anzi, interviene affinchè non diventino più gravi, ma di base non si limita alla solo supporto per la risoluzione di un problema specifico. In tal senso lo psicologo che fa riferimento alla prospettiva della psicologia positiva ci aiuta, quindi, ad uscire da atteggiamenti che interferiscono con il nostro “sentirci bene” e ci porta a far emergere tutte le risorse già presenti in noi in cui è necessario credere.

Siamo tutti “programmati” al benessere, dobbiamo solo prenderci cura di lui.

Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare (2018) di Sandra Zodiaco – Recensione del libro

Oltre, spingersi oltre le paure, i pensieri, il controllo.. oltre la malattia. In questo libro Sandra Zodiaco racconta la dura lotta contro i disturbi del comportamento alimentare a chi sta affrontando la sua stessa battaglia, alle famiglie e ai terapeuti, per far comprendere il più possibile la vastità di un mondo nascosto dietro il sintomo.

 

Oltre è un libro autobiografico che racconta il dramma dei disturbi alimentari e il difficile percorso terapeutico. Con grande potenza l’autrice, Sandra Zodiaco, trascina il lettore nel vortice di paure e pensieri che caratterizzano questi comportamenti; pagina dopo pagina si condivide l’angoscia dell’autrice che narra in prima persona cosa significa soffrire di anoressia.

Suddiviso in 4 grandi sezioni alla stregua di capitoli, il libro Oltre racconta il viaggio di Sandra a partire dal buio con la prima sezione “in trappola” e “in bilico” per poi camminare verso la luce infondo al tunnel con “in equilibrio” e “in viaggio”.

Ogni sezione si apre con un racconto, una poesia, dei versi che preannunciano, come un emblema, il tema centrale affrontato nelle pagine che seguiranno, come i versi di “Odi et Amo” di Catullo che precedono il capitolo “in bilico”.

Oltre, il dolore dietro i DCA

L’autrice racconta tutto ciò che il disturbo alimentare ha strappato alla sua vita. Lo fa raccontando quali forme assume la malattia e che emozioni nasconde per poi incidere nero su bianco una frase, talvolta provocatoria e molto stimolante come:

i DCA sono disturbi della comunicazione.

Dietro a queste parole risiede un modo diverso di vedere i disturbi alimentari: il disturbo è solo la parte visibile dell’iceberg ma immersa nell’acqua c’è la parte più ingombrate del dolore incomunicabile, ecco allora che attraverso un “corpo parlante” si esaspera questo dolore.

L’elegante e significativa scelta di Sandra Zodiaco di non nominare mai il disturbo specifico (se non un’unica volta) ma bensì di utilizzare sempre il termine “la malattia” denota una grande delicatezza nel raccontare che la malattia le ha rubato un pezzo di vita, lasciandole solo il silenzio, simbolo del dolore e del vuoto che predomina su tutto.

Oltre, l’oggi e il domani con l’anoressia

La riflessione sul domani è tanto forte quanto spiazzante perché è un pensiero comune a tutti, chi di noi non ha mai pensato “da domani inizio a..” “da domani smetto di..”?

Qui però i pensieri sono diversi, l’attesa per il domani è diversa, persino il domani stesso è diverso: ecco allora che il cambio di direzione verso l’oggi diventa il primo passo da compiere.

Cosa impedisce dunque di vivere l’oggi non aspettando domani? Forse, suggerisce l’autrice Sandra Zodiaco, la paura di perdere l’identità creata, che per quanto distruttiva rimane comunque la propria. In fondo è prepotente la paura di esistere e la difficoltà di accettarsi per come si è ed è allora che

ci si accontenta delle briciole, briciole di vita.

“In bilico” tra la vita e la non-vita è la sezione che descrive più di tutte la costante antitesi esistenziale dell’autrice. È il continuo oscillare tra quello che la malattia ti ha eroso e la ricerca di quello che sei, camminare nel mezzo di questi sentieri per formare una strada da percorrere alla ricerca di Sé come una barca che coraggiosamente deve navigare controvento.

La terapia dei DCA e un pensiero per chi non ce l’ha fatta

“Lettera al corpo” libera le emozioni più vere e profonde e conduce il lettore all’interno del labirinto di pensieri e di emozioni dell’autrice, che si rivolge al proprio corpo come ad un amante esprimendo i suoi sentimenti profondi: la gratitudine e l’odio, i desideri e l’augurio di un futuro diverso.

“Diario alimentare” descrivere il rituale composto da frecce, colori, punti esclamativi, scarabocchi, poche righe, pagine intere che simboleggiano il bisogno di controllo assoluto, che emerge dalle pagine e travolge il lettore.

E una volta tagliati i rami secchi, ricominciare, rinascere: nuovi abiti da cucire, nuove maschere più solide da plasmare, acqua, luce e sole per far rinascere quel fusto fiappo

L’ultima sezione del libro Oltre spalanca le porte alla narrazione del cammino terapeutico, un percorso difficile, pervaso di ostacoli e cadute ma che riserva alla fine la libertà. Il lettore è proiettato oltre il numero della bilancia per scoprire, come dice la scrittrice stessa, che lì c’è lei nella sua autenticità, lei stessa che diventa protagonista della sua vita trasformando gli ostacoli in opportunità. Il percorso per la libertà che passa attraverso la parola e l’aiuto della psicoterapeuta definita “compagna di viaggio”.

Sandra Zodiaco conclude il libro con lo scritto “A Giulia”, una lettera a cuore aperto a Giulia che ha concluso la sua battaglia contro la bulimia a soli 17 anni. Dal dolore per la sua scomparsa è stata istituita il 15 Marzo la Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla con lo scopo di sensibilizzare e diffondere la conoscenze sui Disturbi del Comportamento Alimentare.

Nota conclusiva che vale la pena sottolineare è che l’intero ricavato della pubblicazione è interamente devoluto all’Associazione Mi Nutro Di Vita per la lotta ai disturbi del comportamento alimentare fondata da Stefano Tavilla, padre di Giulia.

Il dialogo sessuologico: sessualità e benessere sessuale tra medicina e psicologia – Report dal convegno di Palermo

Nei disturbi sessuali molti sono i casi in cui la causa del disturbo è psicologica, per questo il lavoro con lo psicologo è molto importante al fine di analizzare le idee e convinzioni relative alla sessualità, alla storia di vita del paziente e al contesto socio-culturale in cui è cresciuto e prevenire reazioni quali depressione, ansia e ritiro sociale.

 

Traumi evolutivi, condizionamenti culturali, tabù sociali e familiari appresi fin dalla prima infanzia, fonti di vergogna e origine di malessere legato all’intimità, al proprio corpo e a quello del partner: queste tra le cause principali della richiesta, più o meno esplicita, che le coppie avanzano per ritrovare la salute sessuale e che è compito dei professionisti garantire, attraverso un dialogo empatico e professionale.

Quali sono le disfunzioni più comuni nella sfera sessuale e come la medicina e la psicologia si adoperano per restituire alla coppia quella salute sessuale che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce come “uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale in relazione alla sessualità?

Di sessualità si è parlato diffusamente al Convegno organizzato dalla Società Italiana di Andrologia lo scorso 7 Luglio, presso l’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Palermo, e che ha visto la fattiva collaborazione di medici e psicologi, all’interno della moderna concezione della multifattorialità della genesi delle disfunzioni sessuali, e della componente psicologica sempre presente, come causa diretta o come conseguenza di una disfunzione organica.

La sessualità, in quanto diritto a una vita appagante, trova un suo importante tassello nel concetto di fantasia – apre i lavori Cristiana Bonaffini, psicologa e sessuologa – Essa è, per così dire, il motore del desiderio e dunque dell’eccitazione, ed è molto importante avere l’opportunità di condividere le proprie fantasie con il partner, senza vergognarsene.

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Sessualità e salute sessuale - Report del convegno di Palermo, 7 luglio

Dal desiderio all’eccitazione, all’erezione, all’orgasmo: lungo questa linea di sviluppo del ciclo di risposta sessuale le coppie richiedono supporto, per riprendere un dialogo con se stessi, in quanto individui, e in quanto coppia complice e in grado di appagamento reciproco, di natura affettiva e sessuale.

Tra le disfunzioni sessuali più diffuse troviamo la disfunzione erettile, ovvero la persistente o occasionale incapacità di raggiungere o mantenere l’erezione per un tempo sufficiente al rapporto sessuale – spiega Emilio Italiano, urologo e sessuologo – Un problema invalidante che interessa i giovani, con una prevalenza del 27% di soggetti con età media di 34 anni, secondo una ricerca di Heruti pubblicata nel 2004. Varie le cause, tra cui deficit vascolari, o l’ansia da prestazione, legata al falso mito sulla prestazione ottimale dell’uomo per appagare la donna e le sue aspettative, senza la quale il rapporto di coppia sarebbe destinato al fallimento. Poiché la causalità psicologica è la più frequente, l’invio allo psicologo è molto importante, al fine di analizzare le idee e convinzioni relative alla sessualità, alla storia di vita del paziente e al contesto socio-culturale in cui è cresciuto e prevenire reazioni quali depressione e ritiro sociale. L’analisi della componente emotiva legata al disturbo è essenziale perché l’utilizzo dei farmaci, disponibili in commercio, risente di tale elevata componente, che può ostacolarne l’efficacia, sottolineando la gravità del problema, con un cortocircuito che esaspera ansia e paura.

Tale analisi tecnica è da perseguire attraverso opportune tecniche, come quelle di derivazione cognitivo-comportamentale, ad esempio la focalizzazione sensoriale, o la ristrutturazione cognitiva di alcune credenze disfunzionali come “È più importante la prestazione piuttosto che l’espressione di affetto e interesse”, o ancora analizzando il sintomo come modalità di acquisire potere, vendicandosi di torti subiti nella relazione, sempre all’interno di una relazione terapeutica incentrata sull’empatia e l’ascolto attivo da parte del terapeuta.

Esistono barriere nella comunicazione tra operatore e paziente; da parte dell’operatore, una formazione inadeguata, stereotipi, imbarazzi, da parte del paziente timore del giudizio, di avere risposte negative o un serio problema psicologico. Un ascolto aperto, privo di giudizi e competente è essenziale per aiutare i pazienti a muoversi verso una progettualità che implica conoscenza e accettazione del proprio corpo e il coinvolgimento del partner nelle proprie fantasie, da considerarsi come fattore prognostico positivo tanto in terapia che nella vita di coppia – conclude Tiziana Lo Nigro, psicologa.

Trauma infantile nei genitori: aumenta il rischio di problemi comportamentali nei figli

I genitori che hanno vissuto un grave trauma infantile o forti stress durante l’infanzia presentano una maggiore probabilità di avere figli con problemi comportamentali.

 

Uno studio svolto da Neal Halfon e Paul Chung dell’UCLA e Narayan Sastry dell’Università del Michigan, ha messo in evidenza l’associazione esistente tra gravi traumi e fonti di stress vissuti dai genitori durante la loro infanzia, con un maggiore rischio di esordio di disturbi della salute mentale nei figli di questi ultimi.

Trauma infantile: diversi tipi, conseguenze avverse

Diverse esperienze possono essere definite traumatiche per i bambini in età evolutiva, ad esempio: il divorzio o la separazione dei genitori, la morte di un genitore, l’abuso emotivo, fisico o sessuale, la violenza domestica, l’esposizione all’abuso di sostanze nel contesto familiare o la presenza di malattie mentali dei genitori.

Molte ricerche, finora, hanno studiato e considerato il trauma infantile come un fattore di rischio per l’esordio di problemi fisici e mentali nell’​​età adulta. Adam Schickedanz, pediatra e professore assistente nel dipartimento di pediatria presso la David Geffen School of Medicine dell’UCLA, a tal proposito, sostiene che questa è la prima ricerca che ha l’obiettivo di dimostrare che esperienze avverse, vissute durante l’infanzia, provocano dei danni comportamentali a lungo termine, che possono estendersi in termini di maggiore rischio psicopatologico, non solo fino all’età adulta, ma anche attraverso le generazioni da genitore a figlio.

Trauma del genitore, conseguenze anche nel figlio

I ricercatori hanno preso in esame una serie di dati da un’indagine nazionale, in riferimento a quattro generazioni di famiglie americane, che conteneva informazioni ricevute dai genitori sul fatto che essi fossero stati abusati, trascurati o esposti ad altri fattori di stress o maltrattamento infantile durante lo sviluppo; inoltre, sono state raccolte informazioni sui problemi comportamentali dei loro figli e sulle diagnosi mediche di disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Con questi dati, gli studiosi sono stati in grado di evidenziare la presenza di forti associazioni tra le storie di avversità dei genitori e i problemi nella sfera comportamentale dei loro figli, controllando al contempo fattori quali la povertà familiare e il livello di istruzione.

In conclusione, la ricerca ha evidenziato che i figli di genitori che avevano vissuto numerose esperienze traumatiche durante l’infanzia, presentavano un rischio due volte maggiore di avere un disturbo da deficit di attenzione e iperattività e avevano una probabilità quattro volte maggiore di avere problemi di salute mentale. Lo studio ha anche rilevato che le esperienze infantili traumatiche di una madre avevano avuto un effetto negativo maggiore sulla salute fisica e mentale dei propri figli, rispetto alle esperienze avverse del padre.

Trauma infantile: trattare e prevenire le conseguenze

In particolare, i genitori che hanno vissuto esperienze avverse durante l’infanzia presentavano una maggiore probabilità di sviluppare dei problemi di salute mentale e, in generale, mostravano di avere più difficoltà nella crescita dei propri figli, rispetto agli altri genitori. Tuttavia, i ricercatori sostengono che questi fattori soprariportati spieghino circa un quarto dell’associazione tra trauma infantile dei genitori e la presenza di disturbi comportamentali nei figli. A tal proposito, per comprendere meglio come le esperienze avverse dell’infanzia del genitore sono trasmesse al comportamento del loro bambino, sono necessari ulteriori studi.

Schickedanz ha affermato

Se siamo in grado di identificare precocemente i bambini che sono a rischio più elevato, possiamo collegarli a servizi che potrebbero ridurre o prevenire l’esordio di disturbi della sfera comportamentale

e aggiunge che

Il passo successivo per i ricercatori è quello di studiare in che modo i fattori di resilienza, come il supporto di tutor o insegnanti, potrebbero compensare i danni dei traumi infantili.

La responsabilità di crescere un figlio maschio nell’era del #MeToo

Cosa dovremmo insegnare ai nostri figli? Innanzitutto che la donna non deve essere messa su di un piedistallo, trattata come fragile o bisognosa di cure in quanto donna. Piuttosto, insegnamo loro che deve essere protetto chiunque sia vulnerabile, indipendentemente dal sesso.

 

In Italia il 21% (4 milioni 520 mila) delle donne ha subito violenza sessuale e il 5,4% (1 milione 157 mila) ne ha subito le forme più gravi come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Questi dati sono riportati nell’ultimo rapporto pubblicato dall’ISTAT e non considerano le violenze non denunciate.

Se a ciò aggiungiamo anche tutti quegli episodi di molestie non fisiche, bensì verbali, subite per esempio a scuola, sul lavoro, per strada o sui social, abbiamo un’idea della portata del fenomeno e forse non ci stupiscono più così tanto la risonanza e la diffusione che ha avuto il movimento #MeToo a livello internazionale.

Molestie e violenza: come arginare i fenomeni

Alla luce di ciò, c’è qualcosa che possiamo fare per arginare questo preoccupante fenomeno che affonda plausibilmente le proprie radici in una cultura prevalentemente maschilista?

Risponde in merito lo psicologo Peter Glick, interpellato da David McGlynn in un articolo apparso sul NY Times il 01 giugno 2018: bisogna ripartire dall’ educazione dei figli maschi.

Cosa dovremmo insegnare, quindi, ai nostri figli?

Innanzitutto, che la donna non deve essere messa su di un piedistallo, trattata come fragile o bisognosa di cure in quanto donna; non deve essere protetta a prescindere. Piuttosto, insegnamo ai nostri figli che deve essere protetto chiunque sia vulnerabile, indipendentemente dal sesso.

Sproniamo i maschi sin da piccoli a mettersi nei panni degli altri, soprattutto delle femmine; promuoviamo in loro l’empatia, primo passo per imparare a non considerare l’altro, in particolare la donna, come un oggetto.

Mostriamo loro la parità di genere, che passa anche dal mettergli in mano uno straccio della polvere o un ferro da stiro.

Scardiniamo gli stereotipi di genere, incoraggiando attività e lavori che culturalmente sono assegnati all’altro sesso.

Accogliamo e incentiviamo tutte le manifestazioni emotive, non solo quelle considerate più maschili (come la rabbia o il mostrarsi forti); permettiamo loro di esprimere sentimenti di tristezza e vulnerabilità.

Tutti questi insegnamenti non devono essere trasmessi solo a parole, bensì, e soprattutto, tramite l’esempio, una delle armi educative più potenti che abbiamo a nostra disposizione assieme al dialogo. I papà, per esempio, con il loro comportamento nei confronti della propria partner, della propria madre, delle proprie figlie, giocano agli occhi dei propri figli un ruolo importantissimo nel veicolare l’immagine e l’opinione riguardo al genere femminile.

Crescere un figlio maschio nell’era del #MeToo è quindi una grande responsabilità; bisogna tenerlo bene in mente e rimboccarsi le maniche per far sì che i nostri bambini diventino in futuro dei bravi ragazzi e di conseguenza sempre meno ragazze debbano confessare “#MeToo”.

Calmo e attento come una ranocchia. Esercizi di Mindfulness per bambini e genitori (2015) di Eline Snel – Recensione del libro

Calmo e attento come una ranocchia è un libro pensato per aiutare genitori e bambini ad avvicinarsi alla mindfulness e agli enormi benefici che una pratica costante può garantire.

 

La rana rimane ferma e respira. Risparmia le energie e non si lascia trascinare da tutte le idee che le passano per la testa. La pancia si solleva e si abbassa, si gonfia un po’ e poi si sgonfia. Se può farlo una rana puoi farlo anche tu.

Questo è un messaggio contenuto all’interno di Calmo e attento come una ranocchia, un libro che consente a bambini e genitori di avvicinarsi alla mindfulness, intesa come pratica meditativa volta ad aumentare la nostra consapevolezza, momento dopo momento, di ciò che avviene dentro di noi, comprese emozioni, pensieri e sensazioni fisiche, e fuori di noi.

Il libro si apre con la prefazione di John Kabat Zinn, medico americano fondatore della meditazione mindfulness, che lo presenta come uno dei lavori più validi proposti sul mercato, che consente di allenarsi attraverso esercizi proposti al suo interno e all’interno del CD audio incluso, alla meditazione mindfulness, una pratica che va coltivata, allenata e sperimentata con costanza ed impegno per riuscire ad essere presente con la testa e con il cuore.

Calmo e attento come una ranocchia: gli esercizi di mindfulness per i più piccoli

Nell’ultimo decennio inoltre, studi nell’ambito della psicologia e delle neuroscienze hanno dimostrato che la mindfulness contribuisce ad un miglioramento dell’attenzione, potenziamento dell’autocontrollo, dell’apprendimento, dell’intelligenza emotiva ed il benessere psicofisico nel suo insieme, sia di adulti che di bambini.

L’autrice suddivide il libro Calmo e attento come una ranocchia in 10 capitoli, dove a seguito di un’introduzione alla mindfulness, parte con il proporre una serie di esercizi che si ritrovano anche all’interno del CD audio di cui libro è corredato. “Attenzione al respiro”, “Allenare l’attenzione”, “Dalla testa al corpo”, “Superare la tempesta interiore”, “Gestire le emozioni difficili”, “La fabbrica dei pensieri”, sono alcuni esempi di ciò. Eline Snel, in modo competente, semplice, chiaro e ludico avvicina e accompagna a tale pratica meditativa, grandi e piccini in modo spontaneo e sottoforma di gioco, mettendo in moto anche la fantasia, punto di forza dei bambini, approfondendo anche il tema dell’importanza di un rapporto gentile, equilibrato e consapevole nei confronti dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e soprattutto delle nostre paure.

Infine, l’invito che sia Kabat Zin che l’autrice propongono ai lettori ed interessati è quello di praticare la mindfulness con costanza per poterne beneficiare dei suoi effetti positivi. L’autrice sostiene che se si imparano a scoprire le nostre emozioni e i nostri pensieri e se si sperimenta la qualità dell’attenzione, della pazienza, della fiducia e dell’accettazione sin da piccoli, i nostri figli “saranno saldamente radicati nel qui ed ora, come giovani alberi, con molto spazio per crescere ed essere se stessi”.

Narcisismo a scuola: migliori performance per gli adolescenti con tratti narcisistici

Gli adolescenti con tratti narcisisti potrebbero migliorare le loro performance a scuola: lo sostiene il dott. Kostas Papageorgiou, ricercatore della Queen’s University Belfast e direttore del laboratorio InteRRaCt della stessa, in uno studio recente.

 

Lo studio è stato svolto in collaborazione internazionale con la professoressa Yulia Kovas, direttrice dell’InLab della Goldsmiths University di Londra e con altri ricercatori del King’s College di Londra, della Manchester University della Huddersfield University e dell’University of Texas di Austin (USA).

Narcisismo: lo studio su adolescenti milanesi

I ricercatori introducono l’argomento illustrando il crescente tasso di narcisismo nella nostra società, senza che ciò significhi che queste persone con manifeste qualità narcisistiche abbiano un disturbo della personalità. Tant’è che i ricercatori si sono soffermati su forme di narcisismo subcliniche, determinate da tratti caratteristici della forma clinica, ovvero grandiosità, dominio e superiorità.

Lo studio è stato condotto su 340 studenti adolescenti, partecipanti dello studio Multi-Cohort Investigation in Learning e Educational Success (MILES), reclutati in tre diverse scuole italiane (provincia di Milano). È stata esplorata longitudinalmente l’associazione tra forza mentale, narcisismo e successo scolastico adolescenziale.

Il ricercatore sostiene che coloro che ottengono alti punteggi a test che indagano il narcisismo possono essere più avvantaggiati scolasticamente rispetto a coloro che ottengono punteggi bassi, grazie ad una maggiore autostima, la quale può renderli più motivati, assertivi e di successo in determinati contesti.

Tratti narcisistici subclinici possono incrementare la forza mentale e questo determinerebbe una migliore esecuzione nelle situazioni caratterizzate da pressione. La forza mentale è associata positivamente a tratti narcisistici e a performance ottimali nei contesti accademici.

La forza mentale è stata definita come quel vantaggio psicologico che permette di affrontare meglio le sfide presenti in diversi contesti, tra cui quello accademico, rimanendo determinati, concentrati, fiduciosi in sé, resilienti anche sotto pressione. La letteratura ha diverse volte evidenziato come la forza mentale possa predire il successo (Connaughton, Hanton, Jones & Wadey, 2008) ed il presente studio ha mostrato un’associazione positiva tra forza mentale e tratti narcisistici.

Narcisismo e successo a scuola negli adolescenti

I risultati hanno suggerito come tratti narcisistici potrebbero effettivamente contribuire alla manifestazione di attribuiti considerabili positivi. Nel dettaglio la forza mentale correla positivamente con il narcisismo e predice una piccola percentuale di miglioramento nel successo scolastico, ma il narcisismo non correla significativamente con il successo. Mentre il narcisismo subclinico esercita un effetto indiretto sul successo scolastico, con la mediazione della forza mentale.

Tali risultati suggeriscono dunque che la relazione tra narcisismo e forza mentale potrebbe essere uno dei meccanismi che determinano l’individuale variazione nel successo scolastico.

Il dott. Papageorgiou commenta

se sei un narcisista credi fermamente di essere migliore di chiunque altro e di meritare una ricompensa. Essere fiducioso nelle proprie capacità è uno dei segni chiave del narcisismo grandioso ed è anche al centro della forza mentale, la quale determina una maggiore probabilità di abbracciare le sfide e di considerarle opportunità di crescita personale.

Nonostante la ricerca suggerisca una relazione tra narcisismo, forza mentale e meccanismi di personalità che portano alla variazione dei risultati scolastici, tali risultati hanno attualmente implicazioni teoriche, piuttosto che applicative.

È per questo importante continuare la ricerca ed esplorare se il narcisismo subclinico contribuisce ad un decremento dei sintomi tipici della psicopatologia attraverso la forza mentale del soggetto.

Alzheimer: obesità e invecchiamento in che modo contribuiscono all’insorgenza del morbo?

Un nuovo studio sostiene che seguire una dieta ricca di grassi e ad alto contenuto di zuccheri che aumenta il rischio di obesità aggrava gli effetti dell’ invecchiamento sulle funzioni cerebrali e l’ invecchiamento gioca un ruolo nella progressione del morbo di Alzheimer

 

Il morbo di Alzheimer, la forma più comune di demenza, è un disturbo cerebrale progressivo che porta alla perdita delle funzioni cognitive e della memoria e provoca cambiamenti significativi nel comportamento.

L’ invecchiamento è un fattore di rischio significativo per la malattia. Oltre a ciò, precedenti studi hanno suggerito che anche l’ obesità legata all’alimentazione è collegata al suo manifestarsi.

Lo studio sperimentale

I ricercatori della Brock University in Ontario (Canada) hanno esaminato gli effetti sulla segnalazione di insulina (il processo che dice al corpo come usare gli zuccheri) di una dieta che porta all’ obesità e sui i marcatori dell’infiammazione e dello stress cellulare.

Questi fattori sono coinvolti nella progressione della malattia durante il processo di invecchiamento dei topi.

Nella ricerca, pubblicata su Psysiological Reports, un gruppo di topi ha ricevuto una dieta ricca di grassi e zuccheri, mentre un gruppo di controllo ha eseguito una dieta normale. I ricercatori hanno misurato i livelli di infiammazione e di stress cellulare degli animali nell’ippocampo, regione vicino al centro del cervello responsabile della memoria a lungo termine, e nella corteccia prefrontale, parte anteriore del cervello che supervisiona le funzioni cognitive, emozionali e comportamentali, dopo 13 settimane di dieta assegnata confrontando poi i risultati dei due gruppi.

Rispetto al gruppo di controllo, il gruppo che è stato sottoposto alla dieta ricca di zuccheri e grassi presentava marcatori significativamente più elevati di infiammazione, resistenza all’insulina e stress cellulare in aree dell’ippocampo coinvolte nella progressione del morbo di Alzheimer. La regione della corteccia prefrontale mostrava più segni di resistenza all’insulina, ma marcatori dell’infiammazione e dello stress cellulare non sembravano aver subito cambiamenti.

Secondo quanto sostenuto dai ricercatori, le differenze specifiche della regione tra la corteccia prefrontale e l’ippocampo in risposta all’ invecchiamento con una dieta ricca di zuccheri e grassi indicano che la patologia della malattia non è uniforme in tutto il cervello.

Anche i livelli di infiammazione del gruppo di controllo erano aumentati dopo l’esperimento rispetto alle letture di base.

Conclusioni

Sulla base dei risultati ottenuti, secondo i ricercatori è possibile confermare l’ipotesi secondo cui l’ invecchiamento da solo gioca un ruolo nella progressione del morbo di Alzheimer mentre l’ obesità sembra determinare un aggravamento degli effetti dell’ invecchiamento sulle funzioni cerebrali.

I ricercatori sostengono:

Tali risultati si uniscono alla nostra conoscenza di base dei percorsi coinvolti nella progressione precoce della patogenesi dell’Alzheimer e dimostrano gli effetti negativi di una dieta ricca di zuccheri e grassi sulle regioni della corteccia prefrontale e dell’ippocampo.

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