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Attività ludica infantile: dalla dimensione psicologica alle connotazioni neurobiologiche

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva.

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva. Nel gioco infantile si possono riconoscere differenti morfologie: ognuna con una finalità differente. Dal punto di vista sociale, la modalità di gioco cambia nel corso del tempo. Inizialmente il gioco dell’infante si situa nel rapporto diadico con la madre, successivamente il gioco dell’infante diviene triadico, ovvero si crea una triade ludica formata dalla mamma, dal bambino e dal giocattolo. A livello neurobiologico, il gioco sembra attivare tre circuiti, ovvero il circuito corticale esecutivo, il circuito sottocorticale limbico e il circuito somatosensoriale. L’attività ludica, inoltre, si ritiene possa incrementare la neuroplasticità delle aree del cervello coinvolte nei processi sensorio – motori.

Keywords: attività ludica, circuiti neuronali, neuroplasticità, sviluppo.

Attività ludica: come gioca il bambino?

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva (Thibodeau e al., 2016; Fung e Cheng, 2017). Nel gioco infantile si possono riconoscere differenti morfologie: ognuna con una finalità differente. C’è il gioco motorio, nel quale oggetto dell’attività ludica divengono il corpo e le prestazioni corporee (correre, saltare, arrampicarsi ecc.). La finalità di questo gioco è quella di facilitare l’acquisizione degli schemi motori di base (St George e al., 2016). Nel gioco sociodrammatico l’attività ludica investe i ruoli sociali che il bambino vede svolgere dagli adulti. L’obiettivo di questo gioco è quello di aiutare ad apprendere le caratteristiche dell’adultità e, al contempo, implementare il pensiero creativo attraverso l’esercizio della fantasia, che questo gioco comporta (Lillard e al., 2013). Ci sono poi i giochi cooperativi, che possono assumere le sembianze di giochi di squadra, attraverso i quali il bambino comprende che ogni giocatore ha un suo ruolo definito e che la riuscita del gioco dipende dalla cooperazione che si instaura. La finalità di questi giochi è quella di far apprendere le abilità sociali (Hassinger – Das e al., 2017). Da quanto detto, il gioco svolge un ruolo importante per la crescita del bambino, coinvolgendo più domini (cognitivo, emotivo, sociale, motorio).

Attività ludica: veicolo di sviluppo per il bambino

Dal punto di vista sociale, la modalità di gioco cambia nel corso del tempo. Inizialmente il gioco dell’infante si situa nel rapporto diadico con la madre ed è proprio la mamma, attraverso questa attività ludica, che agevola lo sviluppo del proprio figlio, promuovendo l’acquisizione di competenze comunicazionali, linguistiche, cognitive e sociali (Bernier e al., 2016). Successivamente il gioco dell’infante diviene triadico, ovvero si crea una triade ludica formata dalla mamma, dal bambino e dal giocattolo. Questa relazionalità triadica, come molte ricerche hanno evidenziato (Tomasello, 1999; De Schuymer e al., 2011), è importante per l’acquisizione degli aspetti simbolici del linguaggio e di tutti i simboli culturali che caratterizzano il contesto di appartenenza (Rodriguez, 2009). Attraverso l’oggetto di gioco si arricchisce la comunicazione fra infanti e adulti. Inoltre, l’esplorazione del giocattolo da parte del bambino svolge un ruolo fondamentale nel miglioramento delle abilità di problem solving e delle capacità attentive (Clearfield e al., 2014).

Attività ludica: attiva e aumenta la neuroplasticità di alcune aree cerebrali

A livello neurobiologico sono state condotte diverse ricerche per capire quali circuiti neuronali si attivano nelle situazioni di gioco. La maggior parte degli studi è stato realizzato sui ratti. In questi animali il gioco sembra attivare tre circuiti, ovvero il circuito corticale esecutivo, il circuito sottocorticale limbico e il circuito somatosensoriale. Il circuito corticale esecutivo, che è costituito dalla corteccia prefrontale e da quella orbitofrontale, si attiva per dirigere i movimenti individuali in risposta alle azioni di gioco del partner (Siviy e Panksepp, 2011). Il circuito sottocorticale limbico, costituito dall’amigdala, dall’ipotalamo e dal nucleo striato, è responsabile degli aspetti motivazionali ed emozionali che sono presenti nell’attività ludica (Burgdorf e al., 2007). Il circuito somatosensoriale, formato dalla corteccia somatosensoriale, dal talamo e dal cervelletto, controlla le performance motorie in ambito ludico (Byers e Walker, 1995). L’attività ludica, inoltre, sembra incrementare la neuroplasticità delle aree del cervello coinvolte nei processi sensorio – motori, come, ad esempio, la corteccia parietale (Gordon e al., 2002). In aggiunta, l’attività ludica implementa la neuroplasticità della zona mediana della corteccia prefrontale, che invia degli stimoli al sistema limbico, finalizzati al controllo dei comportamenti sociali (Cheng e al., 2008). Con la dovuta cautela che la comparazione fra specie diverse richiede, si può supporre che gli stessi circuiti cerebrali si attivano anche negli esseri umani durante l’attività ludica e viene incrementata la neuroplasticità nelle zone cerebrali menzionate (Neale e al., 2018). Questo spiegherebbe, insieme ad altri elementi, i benefici che il gioco apporta allo sviluppo cognitivo, emotivo, sociale e motorio dei bambini.

In conclusione, il gioco svolge un ruolo importante per la crescita del bambino, in quanto consente l’acquisizione di abilità e competenze in vari domini (cognitivo, emotivo, sociale ecc.). Questo dipende anche dal fatto che nell’attività ludica infantile sono attivati dei circuiti neuronali specifici.

L’incidenza del Diabete di Tipo 2 è influenzata dal proprio orientamento sessuale? – FluIDsex

La più alta incidenza di diabete di tipo 2 tra le donne lesbiche e bisessuali sembra poter essere spiegata in parte come il risultato di più alti fattori di rischio legati a tale patologia in questa popolazione, quali: obesità, fumo, alcol, ma anche all’esposizione a situazioni stressanti di discriminazione.

 

Uno studio longitudinale guidato da H.L. Corliss, professore della Graduate School of Public Health della San Diego University, California, ha indagato l’incidenza del diabete di tipo 2 in un gruppo di donne.

Il diabete di tipo 2 è il tipo di diabete più diffuso, il quale solitamente si sviluppa in soggetti di età matura e produce un incremento di livelli di glucosio nel sangue, a causa di una ridotta produzione di insulina o di una sua produzione inefficace (Al-Delaimy, Willett, Manson, Speizer & Hu, 2011).

Lo studio sperimentale

In uno studio recentemente pubblicato, che ha coinvolto 94.250 donne negli Stati Uniti, i ricercatori hanno scoperto che le donne lesbiche e bisessuali (LB) hanno più probabilità rispetto alle donne eterosessuali di sviluppare il diabete di tipo 2 nel corso del follow up dello studio a 24 anni.

I partecipanti erano 94.250 donne americane tra i 24 ed i 44 anni (ad inizio studio), valutate per una diagnosi di diabete di tipo 2, ogni due anni, per identificarne l’incidenza. Lo studio è durato 24 anni. Una variabile considerata è stata quella dell’orientamento sessuale: 1267 soggetti erano omosessuali o bisessuali, mentre 92983 eterosessuali.

Ciò che è emerso è che, nei 24 anni, le donne lesbiche e bisessuali hanno dimostrato di avere un rischio maggiore del 27% di sviluppare diabete di tipo 2, rispetto alle donne eterosessuali. Inoltre, le donne omosessuali o bisessuali sviluppano il diabete di tipo 2 in età più giovane rispetto alle donne eterosessuali e questo potrebbe esser dovuto ad un più alto indice di massa corporea nelle donne lesbiche e bisessuali.

Cosa ci dice lo studio?

Nonostante studi precedenti sul tema avessero ottenuti dati inconcludenti, il team di ricerca ha creduto ci fosse una ragione per sospettare tale differenza: “Le donne LB possono riportare disparità in condizioni di salute fisica cronica (incluso il diabete 2), in quanto i fattori di rischio legati ad essa sono più alti: obesità, fumo di tabacco, alcolici ed esposizioni a situazioni stressanti”, afferma Corliss.

Lo stress legato alla discriminazione e alla vittimizzazione rispetto alla violenza fisica e psicologica è nettamente più alto nel gruppo di donne lesbiche e bisessuali e questo fattore contribuisce indubbiamente a più alti tassi di problemi di salute. Infatti, “sebbene sia importante affrontare i fattori comportamentali come l’attività fisica, il comportamento sedentario e l’assunzione di cibo, questi fattori non sono sufficienti per eliminare le disparità delle donne LB nelle malattie croniche”, ha spiegato il team.

Così, un miglioramento della prevenzione pubblica nell’individuazione e gestione dell’obesità e di stili di vita malsani è necessario, insieme ad una consapevolezza dello staff medico rispetto alle componenti che contribuiscono a creare questo divario: una gestione dello stress legato all’appartenenza ad un gruppo minoritario e alle conseguenze che ciò comporta è impegno sociale, professionale e personale.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Genitori critici: il cervello dei bambini risponde diversamente agli stimoli emotivi

L’esposizione alla critica dei genitori influisce sul modo in cui i bambini elaborano e prestano attenzione alle espressioni facciali delle emozioni.

 

Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali.

I risultati dello studio suggeriscono che i bambini con un genitore critico potrebbero evitare di prestare attenzione ai volti che esprimono qualsiasi tipo di emozione. Questo comportamento potrebbe influenzare le loro relazioni con gli altri e, in ultima analisi, essere legato in qualche misura a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici.

Lo studio

I ricercatori hanno voluto esaminare in che modo l’esposizione alla critica dei genitori influisce sul modo in cui i bambini elaborano e prestano attenzione alle espressioni facciali delle emozioni.

Un strumento utilizzato per misurare l’attenzione è un marker neurale chiamato Late Positive Potential (LPP), che fornisce una misura di quanto qualcuno presta attenzione alle informazioni emotive come, ad esempio, un volto che è felice o triste.

I ricercatori hanno selezionato per questo studio genitori di bambini di età compresa fra i 7 e gli 11 anni, facendoli parlare dei loro figli per cinque minuti. Le affermazioni dei genitori sono state successivamente codificate per livelli di critica. In seguito sono state misurate le attività cerebrali dei bambini che, durante il test, osservavano una serie di immagini rappresentanti dei volti, ognuna con emozioni diverse.

I risultati emersi dimostrano che i figli di genitori molto critici mostravano meno attenzione a tutte le espressioni facciali emotive, contrariamente a figli di genitori meno critici.

È plausibile dunque che i bambini in stato di angoscia, con un genitore criticista, abbiano maggiori probabilità di ricorrere a strategie di coping evitanti, rispetto ai bambini che non hanno genitori criticisti. Il soggetto che subisce le critiche potrebbe sviluppare credenze psicopatogene, quali convinzioni di inadeguatezza personale, bassa autostima, sensi di colpa. Alla luce di questo risultato, una possibile spiegazione è che i bambini con genitori critici evitano contatti visivi per evitare o ridurre l’esposizione a espressioni critiche.

I ricercatori hanno l’obiettivo di implementare un nuovo futuro studio che andrebbe ad esaminare le reazioni in tempo reale che si sviluppano nel cervello dei bambini sollecitati da commenti positivi e negativi dei loro genitori.

L’itinerario criminologico di Melanie Klein: crimine e riparazione

Il presente contributo offre una disamina dell’itinerario criminologico della psicoanalista Melanie Klein e dell’attualità delle sue riflessioni sulle tendenze criminali e sulle tendenze alla riparazione nei bambini.

Gaetano Esposito

Agli inizi degli anni venti del Novecento anche la Germania conobbe il fenomeno dei serial killer e dei loro crimini efferati. Karl Denke era solito rapire e mangiare vagabondi per poi venderne la carne al mercato nero spacciandola per maiale; il più famoso Fritz Haarmann, “il lupo mannaro di Hannover”, tra il 1919 e il 1924 commise almeno 24 omicidi; abbordava ragazzi di strada, li violentava, li uccideva con un morso alla gola e terminava il suo macabro rito vendendo i loro indumenti.

In quegli stessi anni Melanie Klein compiva i suoi pioneristici studi sul mondo dei bambini sfatando il mito dell’infanzia come oasi di serenità e innocenza. Utilizzando la tecnica del gioco entrava in quel mondo e rinveniva conflitti, angoscia, sensi di colpa e tendenze distruttive.

Uno dei suoi piccoli pazienti immaginava di decapitare un bambolotto e di venderne il corpo a un immaginario macellaio affinché ne rivendesse i pezzi come carne da mangiare. Un altro dei suoi pazienti, Peter, giocando con due pupazzi, costruiva una storia in cui entrambi uccidevano padre e madre e ne mangiavano i corpi.

Le evidenti analogie tra le fantasie dei bambini e gli orrendi delitti commessi dai serial killer non potevano sfuggire alla grande psicoanalista che ne fece oggetto di studio ed espose i risultati della sua ricerca nel simposio tenutosi al British Psycoanalytical Society del 1927, con una relazione dal titolo significativo: Tendenze criminali nei bambini normali. Lo scopo dello scritto non era soltanto quello di dimostrare l’esistenza di tendenze criminali nei bambini normali ma anche quello di risalire all’origine dei conflitti che generano siffatte tendenze.

Il caso del piccolo Peter offrì alla Klein spunti di grande interesse. Il bambino immaginava che i due pupazzetti, rappresentanti egli stesso e il fratellino, erano in attesa della punizione da parte della madre per essersi comportati male ma la paura della punizione diventava così insopportabile da condurre i pupazzi a uccidere barbaramente padre e madre, i quali, resuscitati nella mente del bambino, tornavano e trucidavano, altrettanto barbaramente, i due figlioletti.

Il gioco, che si ripeteva sempre secondo le stessa modalità, evidenziava un nesso di circolarità tra gesti riprovevoli e punizioni, il che portava la Klein alla conclusione che “il desiderio di punizione”, che nel bambino è una causa determinante del suo continuo ripetere azioni riprovevoli, “si ritrova più o meno uguale nel criminale che continua a delinquere” (Klein, 2012, p. 30). Il bambino dunque sviluppa tendenze criminali quanto più teme di essere punito con altrettanta atrocità da parte dell’immaginario genitore che è l’oggetto delle sue fantasie aggressive.

Il senso di colpa del bambino, ingenerato da un Super – io altrettanto sadico, gioca un ruolo importante nella “coazione a ripetere continuamente azioni proibite”.

Riaffiora anche qui il criminale vittima del senso di colpa, evidente richiamo alla tipologia del delinquente per senso di colpa teorizzata da Freud nel 1916, reviviscenza a sua volta del nietzschiano “pallido delinquente”.

Ma Melanie Klein non si fermò alla generica, intuitiva definizione freudiana, spingendosi ben oltre nell’analisi delle tendenze distruttive nei bambini studiò il funzionamento del Super – io e il ruolo che rivestiva nella genesi dell’atto criminale. In particolare fu il caso di un piccolo paziente destinato a finire in riformatorio che offrì alla psicoanalista ulteriori elementi su cui riflettere.

Questo ragazzino di dodici anni, la cui madre era morta precocemente, era stato per lungo tempo sottoposto a continue violenze sessuali da parte della sorella e non riusciva ad avere rapporti con gli altri se non in maniera conflittuale. Le sue azioni criminose consistevano nello scassinare gli armadietti della scuola, nel rubare e nell’aggredire sessualmente le ragazzine della sua età. Secondo Melanie Klein la differenza tra questo piccolo delinquente e Peter, il ragazzino nevrotico, si radicava nel mancato sviluppo del Super – io che, nel primo ragazzo, era rimasto fissato al momento dell’esperienza dolorosa. Un Super – io primitivo e crudele produceva maggiore angoscia e dunque una forte rimozione che “bloccava ogni sbocco alla fantasia e alla sublimazione sicché non rimaneva altro che ripetere continuamente il desiderio e la paura in azioni dello stesso tipo di quelle subite” (Klein, 2012, p. 36).

Klein: l’atto criminoso conseguenza di un Super-io bloccato a uno stadio precoce

Melanie Klein si spingeva un gradino più avanti di Freud ipotizzando che l’atto criminoso trova la sua scaturigine nel senso di colpa e nell’angoscia azionate da un Super – io severo che operava in maniera diversa, essendo rimasto fissato a uno stadio precoce. Il crimine è dovuto dunque a un arresto dello sviluppo del Super – io e non alla sua carenza, come comunemente si crede. Naturalmente anche in questo itinerario criminologico, come in quello di Freud, i fattori sociali vengono sottovalutati e la loro importanza giudicata non rilevante.

Se le cause dello sviluppo criminale nel bambino si annidano nella evoluzione del Super – io, sull’analisi grava il compito, arduo e ambizioso, di modificare tale sviluppo e deviare le tendenze criminali allo stesso modo in cui si trattano le nevrosi. Il trattamento del delinquente si modella su quello delle altre patologie dell’anima, secondo il modello scientista di matrice positivista. L’analisi può guarire il ragazzo delinquente perché la delinquenza trova la sua origine in cause interne ai moti dell’anima e può riuscire nell’impresa perché non esistono bambini irrimediabilmente cattivi nei quali non si possa mobilitare la capacità di amare.

Ma che cos’è questa capacità di amare che l’analisi dovrebbe mobilitare e come si manifesta?

Nel Simposio tenutosi nel 1934 alla Medical Section della British Pasycoanalytical Society l’insigne psicoanalista tornò sull’argomento con una breve relazione dal titolo: Sulla criminalità. In questo breve scritto Melanie Klein ribadiva le conclusioni precedenti e avvertiva che anche nelle profondità della psiche del bambino delinquente si ritrova la capacità di amare. L’analisi del gioco aveva messo in evidenza che i bambini tormentati dall’angoscia distruggevano i giocattoli e ogni sorta di oggetti che si trovavano tra le mani ma poi, quando grazie all’analisi l’angoscia diminuiva, le tendenze sadiche ai attenuavano e il senso di colpa generava tendenze costruttive. Il bambino infatti si adoperava a ricostruire i giocattoli e gli oggetti che aveva distrutto (Klein, 2012, p. 75).

Klein: la tendenza a riparare che segue alla fase depressiva

Questa tendenza costruttiva, che la Klein chiamò tendenza a riparare, costituisce il sostrato della capacità di amare che nel delinquente è solo nascosta e rappresenta la sensazionale scoperta per la psicoanalisi infantile e non solo infantile. Ma da dove trae la sua origine questa tendenza a riparare?

Nello scritto “Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa” del 1948 Melanie Klein fece risalire il senso di colpa e la tendenza a riparare a una particolare forma di angoscia, che definì depressiva, la quale nasce dal male inferto agli oggetti d’amore. Nella fase depressiva il bambino avverte che “l’oggetto leso dai suoi impulsi distruttivi è una persona amata”, da qui la tendenza a riparare, a “ridar vita agli oggetti d’amore”. Questa spinta a riparare ha inoltre una funzione strutturante e benefica per l’Io in quanto “rendendo all’oggetto d’amore la sua integrità ed eliminando tutto il male che gli è stato fatto, il bambino si garantirebbe il possesso di un oggetto pienamente buono e stabile la cui introiezione rafforza il suo Io” (Klein, 2012, p. 96).

In sintesi il senso di colpa nasce dal male cagionato agli oggetti d’amore e attiva le tendenze riparatorie. L’angoscia depressiva, il senso di colpa e la spinta a riparare, secondo la Klein, emergono “solo quando i sentimenti d’amore per l’oggetto predominano sugli impulsi distruttivi”, cioè quando, potremmo dire in termini freudiani, le pulsioni di vita prevalgono su quelle di morte.

Il senso di colpa dunque genera due tendenze: quella distruttiva e quella riparatoria, due forze contrapposte la seconda delle quali si aziona quando prevalgono i sentimenti di amore; da qui l’arduo compito dell’analisi di attivare quella capacità di amare di cui Melanie Klein parlava nell’articolo del 1927 e che si traduce nel riparare l’oggetto – persona danneggiato.

Le scoperte di Melanie Klein offrono notevoli spunti di riflessione in un momento come quello attuale segnato dalla recrudescenza della criminalità infantile soprattutto in relazione a reati particolarmente violenti. L’insegnamento della Klein costituisce un monito per tutti coloro che operano nella giustizia minorile, pedagoghi, educatori, psicologi, giudici, i quali dovrebbero adoperarsi per stimolare forme di riparazione a favore della persona offesa dal reato, risvegliando così, quella capacità di amare che giace nascosta nel cuore di ogni criminale.

Le scoperte di Melanie Klein offrono un contributo di non poco rilievo anche all’odierno dibattito sulla giustizia ripartiva. Nella visione più moderna del reato questo costituisce un fatto sociale o meglio fatto relazionale, cioè un evento che incrina una relazione tra due individui, relazione che va ricostruita per quanto possibile.

In questa ottica di idee la riparazione crea un contatto tra reo e persona offesa al fine di eliminare o quantomeno di attenuare le conseguenze derivanti dal reato. Riparare significa riflettere sulla propria condotta, sui propri errori e adoperarsi per ricostruire la situazione antefatta al reato, fin dove possibile.

Riparare è dunque un gesto consapevole ed è molto più che risarcire il danno, gesto il più delle volte rispondente a un disegno calcolante dell’imputato.

Infine, nell’ottica del recupero del delinquente e della sua risocializzazione, la riparazione rappresenta forse la forma più alta e più concreta di rieducazione.

Le aspettative in gravidanza possono avere un effetto sullo sviluppo postnatale del bambino

Durante la gravidanza le madri si creano delle aspettative rispetto alle caratteristiche del proprio bambino, al modo di entrare in relazione con lui e rispetto al nuovo ruolo di genitore. Queste aspettative deriverebbero da diversi fattori, come la relazione della futura madre con i propri genitori, precedenti esperienze di aborto, depressione, ansia, etc.

 

Le fantasie e le aspettative che le madri hanno durante la gravidanza sul proprio bambino possono configurarsi come un importante fattore di protezione rispetto allo sviluppo dei propri figli ma possono anche rappresentare un fattore di rischio in presenza di distorsioni o polarizazzioni nelle aspettative. Ad esempio, se durante la gravidanza il figlio viene idealizzato nelle sue caratteristiche, è molto probabile che l’immagine idealizzata non coinciderà con le effettive caratteristiche del bambino, generando un forte senso di frustrazione o, peggio, di disprezzo.

A tal proposito, diversi studi hanno dimostrato che una rappresentazione idealizzata è tipica soprattutto durante le prime fasi della gravidanza e, normalmente, tali aspettative tendono a ridimensionarsi in previsione del parto, così che vi sia un migliore adattamento delle fantasie della madre con le reali caratteristiche del bambino.

Gli studi in letteratura

Numerosi studi hanno tentato di dimostrare l’esistenza di un legame tra il modo in cui i genitori pensano al proprio bambino durante la gravidanza e il loro comportamento postnatale. Queste ricerche hanno esaminato, attraverso interviste e questionari, i pensieri e le sensazioni dei futuri genitori riguardo al proprio bambino, durante la gravidanza.

Mediante l’utilizzo di tali strumenti di valutazione, i futuri genitori erano stati distinti sulla base delle loro rappresentazioni:

  • Genitori con rappresentazione bilanciata: mostravano un’anticipazione positiva della loro relazione con il bambino, presentavano rappresentazioni più equilibrate, data l’assenza di polarizzazioni (idealizzazione, svalutazione). Una caratteristica fondamentale di questi genitori, era la loro propensione a riconoscere il proprio figlio come dotato di una mente, con pensieri e sentimenti propri. Tale abilità è definita come Mind-mindedness.
  • Genitori con rappresentazione distorta: al contrario, descrivevano il proprio figlio mediante narrazioni ristrette, incomplete, incoerenti e idealizzate. Tali genitori non sembravano essere in grado di integrare diverse caratteristiche del bambino, aspetti positivi e possibili elementi negativi, così da formare una rappresentazione bilanciata e non idealizzata.

Dopo la nascita, i ricercatori hanno osservato e studiato le interazioni tra genitori e figli. Un elemento a cui hanno prestato particolare attenzione è stata la “sensibilità genitoriale”: ovvero la capacità di notare, interpretare e rispondere in modo tempestivo e appropriato i segnali dei bambini, ad esempio nel momento in cui esprimevano un bisogno/disagio.

I risultati di queste ricerche, secondo una recente meta-analisi svolta dal team dell’Università di Cambridge, hanno evidenziato una modesta associazione tra i pensieri e i sentimenti dei genitori sul bambino durante la gravidanza e la successiva interazione con il bambino, ma tali risultati sono stati rilevati soltanto nelle madri.

Sarah Foley, tra gli autori dello studio, sostiene che l’aver trovato una relazione tra l’atteggiamento di una madre nei confronti del suo bambino durante la gravidanza e le successive interazioni tra questi, rappresenta sicuramente un risultato fondamentale; ma, siccome questo legame è solo modesto, è probabile che sia parte di un processo più ampio in cui rientrano molti altri elementi importanti.

Il caffé caldo e l’incoscio cognitivo

Tutti i giorni decidiamo, orientiamo il corso della nostra vita e influenziamo quella degli altri. Dei motivi delle nostre scelte, ci spiega Bargh, siamo largamente ignari: avvengono nel dominio dell’inconscio cognitivo, lì dove si svolgono processi automatici, veloci, selezionati nel corso dell’evoluzione. 

 

Avete avuto un figlio da poco. La coppia di vostri amici no. La città in cui vivete è pericolosa. La città in cui vivono i vostri amici no. Sfortuna? Neanche per idea. Torniamo due anni indietro, eravate ancora fidanzati e neanche pensavate a fare un bambino. Viaggiate: mare, Provenza, tour delle cantine toscane. La vostra città era sicura. Cosa è cambiato? Niente, tranne che ora siete genitori, e all’improvviso il mondo vi appare pieno di pericoli. Notate minacce che prima non esistevano: bottiglie di birra per strada indicano rapitori. Feroci prese elettriche. I detersivi ghignano nella notte. Che significa? Che giudicate il mondo in un modo che dipende dalle vostre motivazioni – proteggere il figlio in questo caso – ed emozioni – qui è paura -. Ma accade a vostra insaputa.

Pensate di essere giudici razionali e affidabili del comportamento degli altri? Del tipo: io non mi sbaglio, le mie impressioni sono sempre giuste. E invece siete influenzabili dal caffè, senza neanche berlo. Purché sia americano, grande, in bicchiere di cartone. Dovete giudicare una persona che vi dicono avere certe caratteristiche. Vi hanno messo una tazza di caffè caldo in mano. Siete meglio disposti, quella persona ha più qualità positive. Se il caffè era freddo la stessa persona vi piace meno. Sì, potete obiettare, ma quando le cose contano veramente sono infallibile.

In realtà è anche peggio. Dovete giudicare le motivazioni di un criminale: ha agito a sangue freddo, in modo premeditato, o a caldo, impulsivamente. Nel primo caso sarete propensi a sbatterlo in carcere e buttare la chiave, nel secondo a concedergli attenuanti. Anni di galera di differenza. Bene, se la stanza dove vi trovate è fredda, gli attribuirete un omicidio a sangue freddo, se è calda penserete abbia ucciso sotto un’onda emotiva. Se mai ucciderò qualcuno, voglio essere giudicato in una stanza ben riscaldata.

Avete aree cerebrali che reagiscono al freddo e al tradimento nello stesso modo, l’insula per la precisione. Dante ha messo i traditori nei ghiacci eterni del Cocito per un buon motivo. Seguite il ragionamento? Lo stato del corpo influisce sulle vostre decisioni. Fuori dalla vostra consapevolezza, prima del vostro controllo.

Non è solo questione di caldo/freddo. Come dice il mio collega Francesco Mancini, se non avete avuto il tempo di lavarvi al mattino vi sentite sporchi e, senza saperlo, siete moralmente più tolleranti. Ho deciso: se commetto un crimine il processo sarà in una stanza calda con un giudice che si è macchiato la camicia di caffè – caldo naturalmente -. John Bargh nel potente A tua insaputa sostiene una tesi, solida: la nostra azione è in larga parte decisa a livello inconscio, orientata da fattori che ci sono oscuri. Questi fattori hanno un’influenza gigantesca su scelte, comportamenti, performance. Volete vincere le elezioni? Se siete conservatori seminate paura e disgusto. Il nome della rosa e Q di Luther Blissett (leggetelo) lo avevano detto. Quali sono le condizioni ottimali? La presenza contemporanea di immigrati, possibilmente sudati, e immondizia nelle strade. L’inspiegabile vittoria di Trump, nota Bargh, diventa più comprensibile.

Ma che libro è questo? Voi avete opinioni politiche ragionate, acute, dettate dai fatti. Non amate sentirvi dire che siete influenzati da emozioni, stati del corpo. E invece è così, piaccia o no. Fior di esperimenti dimostrano che è più facile fare adottare a un liberale idee conservartici che il contrario. Come? A un gruppo di studenti liberali era stata fatta immaginare la propria morte, gli psicologi possono essere sadici, nessun dubbio. Subito dopo hanno espresso opinioni più conservatrici su: pena di morte, aborto, matrimonio omosessuale. Per un po’, poi sono tornati a essere sé stessi. Qual è il motivo? Sotto condizioni di minaccia, impotenza e paura, tendiamo a mantenere lo status quo. Più o meno come quando ci nasce un figlio.

Ancora il disgusto. Vi chiedono di esprimere un giudizio in una stanza sporca? Sarete più intransigenti. Leggo il libro e capisco la mia severità morale nei pressi dei cassonetti di Roma.

C’è un senso evolutivo in tutto questo: assaggiare una bacca attraente mai ingoiata prima da fauci umane, può essere salvezza o, se la bacca è velenosa, morte. Il vostro amico di Neanderthal coraggiosamente ha mangiato ma, ops, ora non c’è più. La bacca diventa schifosa, e lo trasmetterete ai vostri figli. Il disgusto induce a evitare l’innovazione, con buone ragioni. Usate quella base evolutiva e sapete come influenzare le decisioni morali e politiche. Con qualche fatica anche i conservatori possono diventare, transitoriamente, progressisti. Basta indurre in loro un’idea di invulnerabilità. Svanisce la paura, si aprono al nuovo. Gli fate solo immaginare che possono volare? Restano conservatori.

I nostri valori coprono azioni che eseguiamo per altri motivi. Avete presente il detto: fa quello che dice il prete e non quello che fa? Non mi piace. La verità delle persone è nei gesti, non nei valori che declamano. L’esperimento del buon samaritano ne dà conferma. Con un pizzico di blasfemia, a Princeton hanno sottoposto a un test studenti di seminario. Stavano per tenere una lezione sulla parabola del buon samaritano. Era per loro importante e dovevano arrivare puntuali. “Sotto un portico, tutti gli studenti incrociavano una persona malvestita e accasciata per terra che aveva l’aria di stare male”. I seminaristi lo hanno aiutato? Quelli che avevano più fretta non l’hanno neanche notato! Qual era il loro impulso: la motivazione a essere apprezzati o l’altruismo del samaritano? Se glielo aveste chiesto avrebbero detto il secondo, del resto stavano per farci una lezione su. Invece l’ambizione li guidava con più forza e non ne erano, ormai lo avete capito, consapevoli.

Tutti i giorni decidiamo, orientiamo il corso della nostra vita e influenziamo quella degli altri. Dei motivi delle nostre scelte, ci spiega Bargh, siamo largamente ignari: avvengono nel dominio dell’inconscio cognitivo, lì dove si svolgono processi automatici, veloci, selezionati nel corso dell’evoluzione. Utili ma spesso fallaci. Motivazioni, emozioni, pregiudizi sono spinte che ci governano dal buio. Conoscere questi processi rende più liberi, saggi, avveduti. Dà più potere. I nostri giudici, avvocati, genitori, politici, medici, sanno qualcosa di questi meccanismi psicologici? Temo di no. Allora si possono tentare scommesse che permettono guadagni facili. Se politici progressisti illuminati invece di studiare Bargh si affidano a psicologi che passano tempo a rispolverare miti greci, vinceranno le elezioni? Io punto i soldi su Cetto La Qualunque.

La stabilità della propria percezione corporea dipende dall’età? Uno studio in realtà virtuale

Presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, è stato condotto uno studio in realtà virtuale per valutare eventuali differenze legate all’età nella percezione corporea, in seguito all’induzione d’illusioni.

Per lo studio sono state reclutate 40 persone di genere femminile, tramite un campionamento di convenienza a valanga: studenti frequentanti l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, sono stati invitati a prendere parte allo studio durante le ore di lezione e ad estendere l’invito a dei propri amici.

Percezione corporea: lo studio con un visore di realtà virtuale

I soggetti selezionati sono di genere femminile, hanno un’età compresa tra i 19 ed i 55 anni, non presentano malattie neurobiologiche né malattie psichiatriche (asse I DSM IV TR), nessuna condizione fisica che possa condizionare il peso/corpo (ad esempio gravidanza recente) ed un BMI compreso tra i 18.5 ed i 25.

Le 40 partecipanti sono state divise in due gruppi (il cui BMI medio non differiva) in base all’età: il primo gruppo composto da soggetti dai 19 ai 25 anni ed il gruppo due composto da soggetti di età compresa tra i 26 ed i 55 anni. Le partecipanti hanno indossato un visore di realtà virtuale per sperimentare un’illusione corporea articolata in due condizioni di 90 secondi ciascuna.

All’interno dello scenario virtuale vi era rappresentato il corpo di una donna di 25 anni (età media del campione) in piedi e con addome magro posto in una stanza priva di stimoli. Le donne potevano vedere il corpo della donna come se fosse il proprio. La forma dell’avatar poteva esser differente rispetto a quella delle partecipanti, infatti la circonferenza media delle partecipanti era circa di 84 cm nel gruppo 1 e di 79 cm nel gruppo 2 (deviazione standard di 8-10 cm), mentre quella del corpo avatar era di 74 cm circa.

Le due condizioni di illusione corporea sono state articolate nel seguente modo:

  • Condizione sperimentale, stimolazione visuotattile sincrona: lo sperimentatore stimola l’addome dei partecipanti con un pennello attaccato al dispositivo di tracciamento del movimento (Razer Hydra). La stimolazione sincrona permette al soggetto di vedere all’interno della stanza virtuale il proprio corpo “avatar” stimolato sull’addome da una mano avatar, in sincronia con la sensazione tattile percepita sul proprio corpo.
  • Condizione di controllo, stimolazione visuotattile asincrona: lo sperimentatore ha presentato un ritardo tra la stimolazione tattile sull’addome e l’input visivo nella realtà virtuale.

Percezione corporea: è più stabile con l’aumento dell’età?

All’inizio e successivamente ad ognuna di tali stimolazioni, i partecipanti hanno eseguito la stima della propria dimensione corporea: in particolare in questo compito ripetuto prima dell’immersione virtuale ed in seguito alle due condizioni sperimentale e di controllo, le partecipanti, poste di fronte ad un muro, senza guardare il proprio corpo, hanno stimato la distanza orizzontale tra la parte sinistra e destra del proprio corpo a diverse altezze (spalle, fianchi e addome), posizionando degli adesivi sul muro.

Un questionario per l’embodiment è stato somministrato in seguito alle due condizioni virtuali; si voleva indagare in particolare la padronanza del proprio corpo virtuale, la localizzazione di sé rispetto al corpo virtuale e il senso di agency.

Infine, gli sperimentatori hanno misurato l’effettiva lunghezza corporea delle partecipanti al termine dell’esperimento.

I partecipanti del secondo gruppo (età 26-55 anni) si sono dimostrate più resistenti ai cambiamenti indotti dall’illusione corporea, mentre i partecipanti del primo gruppo (19-25 anni) hanno sottostimato le dimensioni dei propri corpi (soprattutto ad altezza spalle e fianchi) in seguito alle condizioni sperimentali e di controllo.

Una possibile spiegazione data dal corpo di ricerca ha preso in considerazione come la rappresentazione corporea immagazzinata in memoria è più stabile nel secondo gruppo, così una minore plasticità della rappresentazione corporea dai 26 ai 55 anni può essere interpretata come un uso rigido di strategie predittive acquisite durante la vita, al posto di strategie adattive.

Futuri studi potranno essere condotti su campioni clinici di donne affette da disturbi alimentari, e la realizzazione dell’avatar potrebbe essere più ad hoc (ad esempio rappresentando diverse età); inoltre gli sperimentatori considerano di includere la valutazione di fattori psicologici quali l’autostima e la stima del proprio corpo, oltre all’uso di tecnologie che permettano di acquisire informazioni sull’esperienze corporee interne.

L’apporto di Giovanni Liotti alla psicotraumatologia e le strategie di controllo

Giovanni Liotti è considerato uno dei padri della psicoterapia cognitiva in Italia, insieme a Vittorio Guidano. Nel suo “Sviluppi Traumatici” tenta di approfondire la questione relativa alle problematiche post-traumatiche fornendo moltissimi spunti di riflessione e una lettura estremamente plausibile di alcune comuni forme di psicopatologia nel paziente post-traumatico.

 

Come nascono gli “Sviluppi traumatici“? I pazienti che arrivano in psicoterapia da storie traumatiche di sviluppo presentano quello che la Teoria dell’Attaccamento definisce “stile insicuro di attaccamento”. Molto schematicamente, definiamo stile insicuro di attaccamento uno stile relazionale esistente tra bambino e caregiver caratterizzato da una costante necessità di riconfermare e ricostruire la sintonizzazione emotiva da parte del bambino verso l’adulto (attaccamento ansioso/ambivalente, altresì categorizzato attaccamento C), oppure da un’assenza totale di ricerca della stessa da parte del bambino nei confronti del caregiver (attaccamento evitante, categorizzato attaccamento di tipo A). Esiste inoltre un terzo “modo” relazionale caratterizzato da emozioni sperimentate dal bambino contrastanti e incoerenti, definito dagli attaccamentologi “stile di attaccamento disorganizzato” (attaccamento D).

Sviluppi traumatici: Mary Ainswoth e gli stili di attaccamento insicuro

Nel corso dei famosi esperimenti, Mary Ainsworth all’interno della Strage Situation, osservò infatti una categoria di bambini che sembravano allo stesso tempo cercare e respingere il contatto con la madre. Questo perché spingevano in lui/lei due pulsioni istintuali (o mandati evolutivi) contrapposte, ovvero

  • la ricerca di un contatto necessario a garantire una sensazione di sicurezza
  • la paura di una vittima nei confronti del suo persecutore

La simultanea presenza di queste due tendenze nel bambino (avvicinarsi e allontanarsi) produceva un pattern di comportamento contraddittorio e incoerente, che i ricercatori definirono appunto disorganizzato. Nel tempo si è osservato come i bambini che sviluppavano uno stile di attaccamento disorganizzato fossero più soggetti a sviluppare in età adulta tendenze dissociative e tratti post-traumautici di personalità (maggiore sensibilità all’ambiente, emozioni veementi e disregolate, difficoltà relazionali, tendenza all’abuso auto-terapeutico di sostanze, ecc.).

Sviluppi traumatici e strategia regolativa

Nel suo lavoro “Sviluppi Traumatici”, Gianni Liotti approfondisce la questione ponendo al centro della sua riflessione teorica il concetto di “strategia regolativa”. Come può un bambino che viva in un contesto pericoloso e terrorizzante -si chiede l’autore- ottenere la vicinanza emotiva del care-giver, indispensabile per sopravvivere all’ambiente circostante?

Liotti ragiona sul fatto che un bambino per poter sopravvivere a un adulto psicologicamente abusante è obbligato a mettere in atto delle strategie di controllo. Queste potrebbero essere riepilogate come segue:

  • Strategia controllante/accudente – genitorializzazione: la tendenza definita da Liotti alla “genitorializzazione” implica lo sviluppare da parte del bambino una serie di competenze relazionali e comportamentali che gli consentano di prevedere il comportamento -imprevedibile- del care-giver. Una sorta di “progressione traumatica” in cui il bambino diviene iper-competente e iper-sensibile agli sbalzi del genitore, di fatto imparando a “contenerlo”. Immaginiamo per esempio un padre seduttivo/terrorizzante, magari con tendenza all’abuso di alcol e ad esplodere in scoppi di ira apparentemente immotivati. Se immaginiamo la vita di una bambina che cresca a contatto con una figura di riferimento del genere, dobbiamo pensare a quanto questa sia sottoposta, nel corso dello svolgersi della quotidianità, a uno sforzo anticipatorio del comportamento del padre stesso. Osservandoli in interazione noteremo come la bambina abbia imparato a conoscere ogni sfumatura caratteriale del care-giver e come riesca ad anticiparlo o manipolarlo al fine di garantirsi la sua protezione anche quando quest’ultimo manifesti pesanti alterazioni del carattere o sbalzi umorali. La genitorializzazione, l’autore esplicita, è dunque una strategia di controllo messa in atto laddove sia necessario per il/la bambino/a anticipare costantemente le mosse di un genitore abusante (più un generale, di una realtà o di un ambiente abusante), per contenere i danni prodotti sulla sua stessa salute psichica e allo stesso tempo garantirsi la sua protezione. L’autore sottolinea che un’inversione simile dell’attaccamento avrà dei costi futuri nei termini di una difficile creazione di rapporti stabili e in cui ci si possa affidare e aprire all’altro senza che questo voglia dire, nuovamente, sottoporsi a una possibile minaccia e a nuovi abusi.
  • Strategia controllante/punitiva: con questo Liotti intende sottolineare come all’interno di una diade bambino/care-giver in cui quest’ultimo manifesti comportamenti abusanti e discontrollati (“disorganizzati/disorganizzanti”) è possibile che il bambino sviluppi tendenze punitive che hanno a che fare con l’inversione non tanto dell’attaccamento (come prima si diceva), ma con un’attivazione del sistema motivazionale agonistico e lo spostamento della questione a livello di sistema di rango. E’ come se il bambino utilizzasse, per controllare l’adulto, il potere fornitogli da una posizione dominante in termini di rango. Osserviamo in questi casi una tendenza ad aggredire e ad imporre le cose da parte del bambino al genitore, letteralmente dominato/a dal figlio (o dalla figlia). Non a caso in questi casi al/alla figlio/a viene dato l’aggettivo di “tirannico/a”, per sottolineare quanto all’interno della diade genitoriale le cose abbiano subito una inversione, incentrata questa volta sulla dinamica di potere/rango. In questo caso il bambino diviene punitivo e severo verso il genitore al fine di anticipare e sopprimere le condotte disregolate vissute come intrusive e dolorose.

In “Sviluppi traumatici” Liotti sottolinea dunque come all’interno di stili di attaccamento cosiddetti “insicuri” e in particolare laddove vi sia una condotta disregolata, disorganizzata e disorganizzante da parte del care-giver, è possibile vengano messe in atto strategie di controllo ottenute imparando ad anticipare “le mosse” della figura traumatizzante, funzionali a stabilizzare e garantire una quota salubre di mastery all’interno della relazione.

L’autore sottolinea infine come la rappresentazione di sé come impotente e passivo all’interno della relazione, sia il vulnus, la ferita originaria dal quale il paziente sembri essere scappato nel corso dello sviluppo. Lo stato di vuoto dissociativo mentale, il senso di impotenza e di essere in balia di una realtà pericolosa, non controllabile e totalitarizzata dalla figura ingombrante di un care-giver abusante, sono ciò a cui il paziente avrà imparato a sopravvivere mettendo in atto strategie di coping, strategie regolative e strategie di controllo. Non dimentichiamo che per un bambino, la realtà è filtrata dagli occhi e dalla mente del care-giver: crescere in un ambiente traumatico significa quindi rappresentare la realtà tutta come pericolosa o imprevedibile, senza distinguere ciò che c’è “dentro casa” dalla realtà “esterna”, ma facendo un tutt’uno spaventoso e patogeno.

Larsen di Caparezza: e il tuo acufene come lo chiami?

A maggio è uscito il video del singolo Larsen di Caparezza nel quale si chiarisce brillantemente cosa significa avere un acufene: una sorta di volatile, il manachino delizioso, che produce un fischio acuto con il movimento delle ali e che ci segue costantemente ovunque andiamo. Uno stalker insomma.

La canzone è uscita ormai da un anno circa nell’album Prisoner 709, disco che parla di una crisi d’identità, di contrapposizioni, di una crisi di certezze. Crisi sbocciata nel 2015 a seguito dell’insorgenza appunto dell’acufene (fruscio, fischio o simili che percepiamo all’interno dell’orecchio). Il numero 7 sta per Michele (nome dell’artista) mentre il 9 per Caparezza, lo 0 rappresenta la scelta continua: Michele o Caparezza? E nei vari capitoli dell’album si gioca tra due scelte sempre utilizzando termini con lo stesso numero di lettere, 7 e 9. La canzone Larsen va ad inserirsi nel capitolo Tortura nel quale si gioca sulla contrapposizione Perdono o Punizione.

Larsen: acufene come tortura per una colpa

Spesso ho sentito i pazienti affetti da acufene descrivere quello che stavano passando con il termine tortura. La tortura è prolungata nel tempo. Caparezza alla lettura dei forum dei pazienti acufenizzati ha sentito la pressione dell’eternità, del “per sempre”, quando ha letto “l’acufene non andrà mai più via”. Condannato all’ergastolo, per tornare alla metafora del prigioniero. E l’ergastolo e la tortura non rappresentano una punizione per ciò che abbiamo fatto? Michele è stato punito per essere entrato nel mondo della musica, per aver divorato album? Per aver assistito e fatto lui stesso concerti? In un’intervista dice di aver pensato:

possibile che io dovevo fare questo mestiere per arrivare a questa tortura?

“Perché è successo a me?” spesso i pazienti si fanno questa domanda. Nel testo della canzone ad un certo punto Caparezza dice che lo specialista gli dice

parla con l’orecchio chiedi scusa

perché se hai fatto qualcosa di sbagliato almeno cerchi di rimediare. Ma spesso anche se chiedi perdono in galera ci rimani. Il danno è fatto. E per quanto riguarda l’acufene in caso di trauma acustico rimediare è difficile, a volte impossibile. Ancora ricordo un paziente con acufene a seguito dell’esposizione sotto cassa ad un concerto. Non riusciva a perdonarsi per essere andato a quella serata.

Acufene: Caparezza ce lo descrive in Larsen

L’acufene, come la malattia mentale, non si vede. Non si ha una ferita, un’invalidità visibile. Per gli altri è difficile capire. Nel video questo concetto è espresso in maniera geniale quando mostrano un’intervista di Caparezza con l’uccello/acufene a suo fianco e poi l’immagine si allarga e viene mostrata l’intervista come la vedono gli spettatori dietro la camera da presa: il manachino delizioso non è visibile.

Nel testo della canzone vengono elencate tutte le maggiori difficoltà che affrontano le persone a seguito dell’insorgenza del tinnito. Problemi del sonno, difficoltà a percepire i suoni esterni, pensiero fisso (“primo pensiero al mattino l’ultimo prima di buttarmi giù dal terrazzo”) solo sull’acufene che cerca la nostra attenzione come quando si fischia ai taxi per chiamarli, “calo d’autostima” con depressione, rabbia e difficoltà di concentrazione. Poi la sofferenza per la mancanza di silenzio (bellissima la frase: “il suono del silenzio a me manca più che a Simon e Garfunkel”) e le difficoltà che si affrontano nella vita quotidiana tipo andare al cinema e, in particolare per i musicisti come Michele, non poter ascoltare la musica come prima.

Caparezza: le visite mediche per sconfiggere l’effetto Larsen

Un altro punto decisamente importante, descritto molto bene, è l’inizio delle visite mediche con analisi ed esami vari. In genere le persone con acufene acuto si rivolgono a tantissimi specialisti per far passare il disagio, per vederlo sparire, proprio come desidera anche Caparezza. E il più delle volte vengono deluse con la frase tipica “te lo devi tenere”. Vi immaginate? Andate da un medico con questo suono assurdo (per rendere l’idea l’effetto Larsen è lo stridio o fischio che si manifesta quando un microfono è troppo vicino oppure è direzionato verso il suo altoparlante), state male, sperate in qualcosa che vi faccia passare questa agonia e vi risponde così. E succede veramente, non so quante persone che ho visitato mi hanno riportato questa affermazione da parte del medico di turno. Facendo questo lavoro posso comprendere entrambe le parti: l’impotenza del medico, la sofferenza del paziente. Il punto è costruire un ponte tra questi e per fortuna sempre di più la figura dello psicoterapeuta permette questo ricongiungimento. Il terapeuta diventa sostegno allo specialista perché indica come approcciarsi al paziente e chiarisce anche quali possono essere i limiti del suo lavoro quando è presente una concomitante patologia psichiatrica/psicologica; per il paziente è un ascoltatore attivo che aiuta sia nella gestione di pensieri ed emozioni che ostacolano l’accettazione della patologia sia nel creare soluzioni concrete alla convivenza con l’acufene.

La prigionia dei pazienti, così come quella vissuta da Caparezza, è caratterizzata da trappole mentali. L’insorgenza del tinnito può portare alla messa in discussione dei propri valori, delle scelte di vita, della considerazione che abbiamo di noi stessi, della propria identità. Si siedono persone diversissime tra loro nel mio studio e spesso, per assurdo, l’acufene è l’argomento meno trattato dopo il primo incontro. L’acufene ha smosso qualcosa, ha catturato l’attenzione e forse, come per tante altre patologie, quando arriva ci offre l’opportunità di fermaci a riflettere su chi siamo ora e su quello che desideriamo per il nostro futuro. E magari ci fa vincere un disco di platino così rapidamente come mai successo prima.

Il bisogno di pensare di Vito Mancuso (2017) – Recensione del libro

Vito Mancuso, teologo e filosofo contemporaneo, ci prende per mano nell’intrigante e ardua impresa dell’esplorazione del pensiero. L’autore colloca nel desiderio la sorgente del pensiero.

 

Io sono convinto che questa vita sia per tutti un’odissea ma che un conto sia avere un’Itaca nel cuore e nella mente, un altro l’esserne privi. Si può vivere senza Itaca?

Il bisogno di pensare e desidare

Nel corso della lettura distinguiamo tra due estremi del concetto di desiderio: il desiderio bramoso da un lato, quello che spinge l’individuo a correre senza sosta verso l’ambizione più profonda e dall’altro lato, la ricerca di una totale assenza di desiderio, dove i bisogni e desideri si riducono all’essenziale e pertanto le paure e gli affanni che “fanno battere il cuore” si riducono. Che fare quindi? Da un lato l’assenza di desiderio porta all’ozio, dall’altro la forza del desiderio ci porta fuori da noi stessi, sbilanciandoci e facendoci sentire insoddisfatti. In questa dicotomia, Mancuso ci porta a sorpresa a prendere in considerazione l’esistenza di UN desiderio più grande possibile, al quale più efficacemente “aspirare”, termine che rimanda allo spirito (ad-spiritum) e a cui ricondurre la somma di tutti i propri desideri, in principio slegati tra loro. Mancuso esclude il distacco dal desiderio, perché lo considera linfa vitale per l’essere umano, che nella sua grandiosità è troppo piccolo per credere di aver già capito tutto su questa terra. Reprimere il desiderio vorrebbe dire reprimere la logica naturale dell’essere umano, che deve arrendersi al desiderio che è “l’essenza stessa dell’uomo” .

Leggendo questo libro troviamo spunti e riflessioni su quanto intensamente il pensiero pervada le vite di tutti gli esseri umani. E se appare impossibile una vita “senza pensieri”, diviene spesso insostenibile la pressione di un pensare costante, che domina l’individuo. Il bisogno di pensare talvolta diviene prigionia e talvolta illuminazione. L’essere umano sente il bisogno di trovare spiegazioni, ha bisogno di trovare senso a ciò che accade dentro e fuori da sé e qui interviene la conoscenza, che ha il compito di spiegare, letteralmente di “togliere le pieghe” a ciò che poi diviene spiegabile.

Il bisogno di pensare: ricerca di senso ed equilibrio

Se fosse cosi semplice, basterebbe quindi portare tutto al cospetto della conoscenza, ma sovente, albergano in noi concetti e sentimenti inspiegabili e quindi come detto prima: pieni di pieghe. Nella ricerca estenuante di spiegazioni, finiamo per arrenderci all’insoddisfazione del disequilibrio, condannandolo e demonizzandolo. La mente lavora alla ricerca snervante dell’equilibrio ambito, come se l’equilibrio fosse la risposta a tutto, come se fosse meta e conforto, ma tra queste pagine scopriamo che proprio nel disequilibrio si alimenta la sfida.

E allora esiste l’uniformità di pensiero? Esiste la meta, la pace dello spirito o l’epilogo sta nell’accettazione della contraddizione e dell’incoerenza del sé?

Questa lotta interiore, adeguatamente rivalutata e abbracciata, appare la primaria essenza di vitalità, di messa in discussione, perché “io non sono solo io” e quell’io stabile e immutabile, solido, imperturbabile, non esiste e rischia di divenire una meta frustrante e irraggiungibile. L’ Io è il risultato dell’evoluzione, esito di trasformazioni, conoscenze ed esperienze, pertanto l’essere umano non potrà pretendere di essere stabile, immutabile, ed equilibrato, perché il corso delle esperienze della vita porta necessariamente al disequilibrio.

Il rumore di fondo che produce la mente, risulta disturbante, talvolta assordante; i pensieri positivi, vengono oscurati dalle paure, dai fantasmi e dall’ego che protegge. Accanto al bisogno di pensare, ampiamente snocciolato nel testo, è doveroso citare il bisogno di non-pensare, che accomuna molti. Oggi ci ritroviamo impegnati, indaffarati, immersi nella società del “fare”, spesso convinti che quel naturale bisogno di pensare vada represso. Sentirsi S-pensierati, nel senso di senza preoccupazioni è il desiderio di molti, troppo occupati o troppo pre-occupati di ascoltare il contenuto di un pensiero, il bisogno di non pensare diviene necessità, perché pensare, talvolta diviene ossessione.

Questo testo fa pensare, fa osservare diverse strade, ma più di tutto fa esplorare un pensiero che unisce filosofia e teologia, in un danza elegante, fatta di significati, etimologie e citazioni.

Sia dunque che pensiamo molto o molto poco, sia che siamo consapevoli o no, sia che siamo avvolti nelle pieghe dell’inspiegabile o arresi ad esso, ciò che accomuna ogni essere umano è quella capacità unica e preziosa di pensare.

Bleah! Il senso del disgusto per proteggerci

Uno studio, pubblicato recentemente sul Royal Society’s Philosophical Transactions B journal dal gruppo di ricerca di Val Curtis, del dipartimento di igiene e medicina tropicale dell’Università di Londra, ha indagato il senso del disgusto e in particolare la teoria per la quale il disgusto rifletterebbe un meccanismo motivazionale che ci consente di evitare infezioni debilitanti o pericolose per la nostra salute.

Non è un caso che molti stimoli per i quali la maggior parte delle persone prova disgusto siano implicati nella trasmissione di malattie infettive, come ad esempio la saliva, fluidi vaginali e seminali, cibo infetto o marcio e comportamenti atipici o poco igienici (Curtis & Biran, 2001).

Disgusto: un’emozione protettiva

Il fatto che alcuni stimoli siano al contempo fonte di rischio per le infezioni sia elicitatori di disgusto ha condotto molti ricercatori del campo dell’etologia a teorizzare che questa relazione abbia un ruolo funzionale per la sopravvivenza degli animali e degli esseri umani, soprattutto adattivo nel motivare l’animale ad evitare tutto ciò che potrebbe contagiarlo o infettarlo (Tybur, Lieberman et al., 2013).

Tale teoria del disgusto definita di “evitamento del parassita” afferma che l’emozione del disgusto consentirebbe all’animale, tramite comportamenti di evitamento, di ridurre il contatto con patogeni o parassiti e che quest’emozione sia innata come meccanismo di difesa (Behringer, Butler & Shields, 2006).

Tuttavia questa teoria non è stata accettata unanimemente nel momento in cui è stata estesa agli esseri umani in quanto molti ritengono che il disgusto possa servire come forma di protezione dalla natura animale che l’essere umano è consapevole di avere e dal proprio senso di mortalità, oltre che come forma di conservazione dell’ordine morale socialmente accettato (Rozin, Haidt et al., 2009).

Altri invece ritengono che la reazione di disgusto sia funzionalmente integrata con il sistema immunitario (Schaller, Miller et., 2010) tanto che, soprattutto durante la gravidanza, periodo di maggiore vulnerabilità per la contrazione di infezioni, la sensibilità al disgusto tende ad aumentare (Fessler et al., 2005).

Disgusto: lo studio per verificare se è un segnale adattivo

Se il disgusto rappresenta un meccanismo difensivo che produce la messa in atto di un comportamento di evitamento dello stimolo patogeno, allora ne consegue che ci dovrebbero essere delle specifiche reazioni di disgusto nei confronti di differenti tipi di stimoli infettivi.

Per verificare questa ipotesi, per la quale il disgusto di fatto rappresenterebbe per gli esseri umani un segnale adattivo che consentirebbe all’intero organismo di predisporre un qualche tipo di comportamento adattivo e protettivo a fronte di stimoli specifici potenzialmente dannosi, Curtis e colleghi (2018) hanno indagato tramite survey il grado di disgusto per diversi item in un gruppo composto da circa 3000 volontari di origine caucasica, di prevalenza anglosassone.

I partecipanti sono stati chiamati ad indicare per ciascun item, creato dai ricercatori sulla base di categorie di trasmissione di malattie infettive, il proprio grado di disgusto, il tutto con l’intento di testare l’ipotesi che esisterebbe una struttura patogena a fattori che riflette le diverse modalità di trasmissione di una malattia (Curtis, de Barra, 2018).

L’analisi fattoriale condotta sui dati ha mostrato come il grado maggiore di disgusto dei partecipanti sia in particolare indotto da queste categorie di stimoli:

  • l’igiene
  • alcuni animali e insetti, come zanzare e ratti portatori di infezioni
  • comportamenti sessuali promiscui che aumentano le probabilità di contrarre una malattia sessualmente trasmissibile
  • alcuni aspetti fisici atipici, in particolare deformità del corpo
  • alcuni comportamenti come il tossire in modo convulso e respirare in modo anomalo
  • lesioni corporee, in particolare sulla pelle come pustole, vesciche e bolle purulente
  • cibi in fase di deperimento.

Disgusto: funziona grazie alla vista

I risultati dello studio hanno parzialmente supportato l’ipotesi di partenza dei ricercatori ma hanno sorprendentemente suggerito che gli item con il grado maggiore di disgusto e potenzialmente dannosi non fossero categorizzati dalle persone sulla base di categorie mediche astratte e generali di rischio di contagio come indicava la letteratura precedente (trasmissione per contatto tra fluidi, tramite ingestione o funghi) ma sono categorie riconducibili a specifici oggetti riconoscibili come bolle purulente, vesciche, persone che mostrano segni visibili di malattia o scarso igiene personale e pratiche rischiose come il sesso promiscuo o l’ingerimento di cibo avariato (Curtis, de Barra, 2018)

Le categorie ben si associano con il punto di vista dei ricercatori per il quale il “sistema” non sopporterebbe di “vedere” microbi, parassiti o stimoli che sono diventati disgustosi a seguito del contatto con microrganismi patogeni.

A detta di Tybur, Çınar, Karinen e colleghi (2018) il disgusto, in termini evoluzionistici, si è sviluppato per consentirci la sopravvivenza consentendoci di evitare tutto ciò che potrebbe essere nocivo e potrebbe arrecarci un danno: ad esempio è stato osservato come le donne ritengano disgustosi alcuni comportamenti sessualmente promiscui a causa del fatto che questi potrebbero aumentare il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili e quindi il rischio di vedere ridotte le proprie capacità riproduttive e di portare a termine una futura gravidanza.

Al contrario una ricerca condotte da Simone Schnall (2008), ricercatore all’università di Cambridge e direttore del Mind, Body and Behavior Laboratory, evidenzia come il disgusto non sia tanto legato alla prevenzione di infezioni o malattie ma avrebbe lo scopo, in alcuni casi, di allontanarci da attività rischiose come il paracadutismo acrobatico, il rafting su discese, il gioco d’azzardo o il gambling finanziario.

Infatti sembrerebbe che le persone con un alta sensibilità al disgusto abbiano una percezione maggiore del rischio rispetto ad altri con una sensibilità ad esso minore.

Ad esempio situazioni rischiose da un punto di vista sociale, come il contraddire un’autorità o parlare di un argomento impopolare con un superiore, potrebbero essere vissute o percepite dalla persona che la esperisce come disagevoli e potrebbero essere considerate rischiose se in associazione con un’alta sensibilità al disgusto.

Ne va da se che la persona in questione considerandole disgustose in quanto rischiose, le evita.

Identity Report: il congresso di Roma sulla Psicopatologia dell’Identità

In data 25 maggio 2018, si è svolto a Roma, presso l’Aula Giubileo dell’Università LUMSA, il Convegno “IDENTITY REPORT – L’identità: concettualizzazioni teoriche a confronto, dati di ricerca, psicopatologia ed intervento clinico”. Il Convegno ha raccolto i contributi di alcuni tra i massimi esperti italiani sul tema della Psicopatologia dell’Identità.

I chairman del Convegno, Rosario (Rino) CAPO e Lisa Arduino hanno coordinato i lavori in modo efficace e stimolante, favorendo una dialettica viva e proficua tra i relatori e tra questi e il pubblico in sala.

Identità personale

La prima relazione in programma è stata realizzata da Santino Gaudio (Department of Neuroscience, Uppsala University Sweden) dove sono state messe in luce le modalità in cui il piano psicologico (personale) e quello neurobiologico (sub-personale) interagiscano nel determinare, nel corso dello sviluppo individuale, un senso di identità personale relativamente stabile e funzionale. Gaudio ha evidenziato, inoltre, i risultati ottenuti dal suo gruppo di ricerca, tramite procedure di neuroimaging, circa le strutture cerebrali maggiormente implicate nelle alterazioni dell’immagine corporea caratterizzanti i diversi Disturbi del Comportamento Alimentare. Rimane da capire fino in fondo se siano le strutture alterate in modo primario a determinare i disturbi più o meno gravi nel Sé Corporeo osservabili nei DCA o, piuttosto, alcune funzioni cognitive esasperate (attenzione selettiva, euristiche, ecc.) dagli scopi in gioco sovra-investiti (es.: non ingrassare per salvaguardare la propria autostima, controllo del peso e degli impulsi, buona immagine, ecc.) a determinare i fenomeni psicopatologici in oggetto e, come effetto dell’uso soverchio, anche le alterazioni funzionali e strutturali osservate nel cervello dei pazienti affetti da DCA.

Cristiano Castelfranchi: Identità come rappresentazione

La seconda relazione, tenuta da Cristiano Castelfranchi (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, ISTC-CNR Roma) dal titolo “L’identità come rappresentazione: struttura, funzioni, scopi, influenza sul comportamento”, ha evidenziato le varie sfaccettature e funzioni dell’identità e le loro implicazioni rispetto al benessere ed alla sofferenza psicologica e, in particolare: la funzione prospettica, quella motivazionale, valutativa, deontica e “di potere” e le strutture connesse alle appartenenze, alla biografia, alla teoria su di sé, alla narrazione di sé nel tempo, alla dimensione intima del sé, ecc.

Il senso di identità personale nei robot

Successivamente, nella relazione di Domenico Parisi (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, ISTC-CNR Roma) si è anticipata la possibilità, ancora implementata solo in parte presso i laboratori del CNR, di programmare un senso di identità personale nei robot (simulati al computer o realizzati fisicamente) al fine di comprenderne in modo più articolato le determinanti e le interazioni, più o meno funzionali, tra le varie sotto-strutture identitarie ben evidenziate precedentemente da Castelfranchi. Mentre, ad esempio, sarebbe eticamente problematico promuovere in un soggetto sperimentale umano un conflitto duraturo e profondo tra diverse “appartenenze identitarie”, al fine di osservarne le conseguenze sul suo benessere soggettivo e di verificare possibili vie di uscita cognitive, la stessa procedura sperimentale non creerebbe alcun problema etico se il soggetto della manipolazione empirica fosse un robot. Appena le tecnologie saranno sufficientemente sviluppate, dunque, quest’area di ricerca sarà estremamente promettente.

I conflitti intrapsichici tra scopi e la sameness

Nella relazione successiva, Francesco Mancini (Università Guglielmo Marconi Roma; Direttore Scuole APC-SPC) ha realizzato una brillante dissertazione circa i conflitti intrapsichici tra scopi e il loro rapporto con la sameness, ossia con il bisogno tipico degli esseri umani di mantenere un senso relativamente stabile di identità. Secondo Mancini non sarebbe plausibile l’idea di una mente separata in più istanze psichiche in conflitto e “tenuta insieme” dalla coscienza, costantemente impegnata nel tentativo di mantenere una sufficiente coerenza narrativa e progettuale. Piuttosto, secondo il relatore, i conflitti tra atteggiamenti differenti in contesti e contingenze diverse potrebbero essere agevolmente spiegati anche nell’ambito di una teoria unitaria della mente, come effetto di attivazione e disattivazioni di scopi in base alla loro urgenza momentanea o come il prodotto dell’azione di diverse funzioni cognitive: attenzione selettiva, iper-focalizzazione, temporal discounting, ecc.

Il concetto di identità nel contesto della Relational Frame Theory

Giorgia Manca e Roberto Mosticoni (Scuole APC-SPC), dal canto loro, hanno messo a fuoco le varie funzioni e sfaccettature dell’Identità all’interno di un quadro teorico Comportamentista moderno, basato sulla Relational Frame Theory (RFT): sameness, identificabilità, discriminazione degli stimoli e delle contingenze in base al loro rapporto con il pronome IO, riconoscimento della titolarità delle proprie azioni (autodeterminazione/autonomia), interrelazione tra identità e linguaggio, ecc. Gli autori hanno inoltre evidenziato le possibili ricadute psicopatologiche del misconoscimento e dell’invalidazione dell’identità, soffermandosi, in particolare, sul Disturbo Borderline di Personalità e sui possibili interventi psicoterapici, focalizzati appunto sull’identità, funzionali a gestire la sintomatologia clinica derivante proprio dalle frequenti e drammatiche storie di invalidazione della soggettività vissute da questi pazienti.

Il rapporto tra linguaggio e identià personale

Nella relazione di Giovanbattista Presti (Università Kore Enna; Presidente ACBS; IESCUM) è stato evidenziato ancora più approfonditamente, sempre muovendosi nell’ambito della RFT, come gli autori che lo hanno preceduto, ma anche rifacendosi agli apporti della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), il rapporto tra il linguaggio e l’Identità Personale. Presti ha messo in luce, nel corso del suo speech, come spesso gli esseri umani soffrano in modo soverchio per la “compromissione” di un sé eccessivamente concettualizzato (definito da etichette come, ad esempio: intelligente, perbene, vincente, ecc.), perdendo di vista che la vita offre sempre la possibilità di realizzare i propri valori esistenziali anche quando certe “etichette” verbali non trovano necessariamente “riscontro” e “conferma”.

Identità personale e idee deliranti

Roberto Lorenzini (Studi Cognitivi SBT; Scuole APC-SPC;) ha invece trattato un tema prettamente clinico di grandissimo interesse per gli psicoterapeuti: il rapporto tra le invalidazioni dei costrutti centrali e fondanti dell’Identità Personale (bellezza, brillantezza intellettuale, furbizia, specialità, ecc.) di un individuo e il possibile sviluppo di idee deliranti. Secondo l’autore, rifacendosi alla Psicologia dei Costrutti personali di G. Kelly, la mappa cognitiva di sé (identità), degli altri e del mondo, che l’individuo costruisce e revisiona costantemente nel corso della sua storia di vita, avrebbe la funzione principale di Massimizzare la Capacità Predittiva (MCP) e, dunque, una volta disconfermata nei suoi elementi fondanti, implicherebbe vuoti previsionali dolorosi e spaventosi, capaci di innescare la formulazione di spiegazioni deliranti circa il significato e la natura dell’evento invalidante, con la funzione di immunizzarne il potere scardinante della personale rappresentazione identitaria attraverso, appunto, esplicazioni alternative (eureka deliranti) che, seppur dolorose, sono in grado di riaffermare a tutti i costi e a dispetto di ogni controprova l’applicabilità dei costrutti centrali invalidati dall’evento avversivo recentemente sperimentato.

Identità e Auto-determinazione

L’intervento di Rino Capo (Coordinatore della Didattica Scuola Specializzazione Humanitas Roma; Scuola Specializzazione Psicosomatica Ospedale Cristo Re Roma; Istituto M.IN.D. Umbria), dal canto suo, ha evidenziato lo stretto rapporto strumentale tra l’Identità e l’Auto-determinazione (Agency o Self-determination). Nella sua trattazione l’autore ha mostrato la rilevanza evolutiva e in relazione al benessere soggettivo della realizzazione di un senso pieno di Agentività e sostanziale Autonomia e la necessità, per realizzare tale bisogno psicologico di base, di costruire primariamente una rappresentazione dettagliata, realistica (basata prevalentemente su esperienze in prima persona) ed approfondita della propria soggettività identificante, nel tempo e nello spazio (continuità del sé), e in relazione alla propria “unicità” (identificabilità). Per attualizzare un senso sostanziale di Self-determination, inoltre, il soggetto deve: (a) ritenere che la propria soggettività e il relativo progetto esistenziale (Sé Ideale e Valori Identitari) siano legittimi (“Ho il diritto di essere quello che sono”); (b) acquisire relativa libertà da vincoli concreti (anche economici oltre che interpersonali à aspettative altrui, invalidazioni, ecc.); (c) acquisire un funzionale senso di autoefficacia al fine di percepire di possedere i poteri sufficienti per realizzare il progetto personale di realizzazione di sé; (d) imparare a conoscere e gestire i propri stati interni (emozioni, impulsi, sensazioni, pensieri, ecc.) al fine di non avere timore di essi bensì, piuttosto, utilizzarli per conoscere meglio se stesso e le proprie preferenze ma, nel contempo, senza essere da loro “scosso” e “spinto reattivamente” lontano dai propri valori e scopi identitari solo per evitare dolori e sofferenze.

Identità e postrazionalismo

La relazione di Maurizio Dodet (Laboratorio di Psicologia Cognitiva Postrazionalista Roma) ha portato un’ipotesi originale e capace di incuriosire la platea, originariamente formulata da Vittorio Guidano oramai molti anni addietro. Il relatore ha sottolineato che nel contesto Postrazionalista il Sé più incarnato e “reale” è primariamente costituito da vissuti emotivi taciti che derivano dalle principali relazioni significative infantili ed adolescenziali e dagli eventi più rilevanti della propria storia di vita e che continuamente riaffiorano, momento per momento, attivati dalle contingenze attuali, perturbando non di rado la narrazione esplicita di sé e, dunque, generando potenziali paure ed avversioni per tali vissuti medesimi, in quanto misconosciuti o esplicitamente rifiutati. Compito principale del terapeuta sarebbe, dunque, per Maurizio Dodet, quello di aiutare il paziente a: (a) osservare senza paura ma con disponibilità le proprie perturbazioni emotive; (b) accettarle; (c) comprenderle nel contesto della propria storia (costruire una narrazione realistica e coerente di sé nel corso del tempo) e (d) gestirle al fine di amministrare le proprie scelte in modo più “vero” e funzionale sul piano dell’attualizzazione della propria identità personale.

Identità e disturbi del comportamento alimentare

L’ultima relazione, realizzata da Armando Cotugno (ASL RM1; Progetto TIDA; CCDS; ASTREA) ha ripreso il tema del primo intervento della giornata: i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e l’Identità. L’autore ha evidenziato come il corpo e le forme corporee possano diventare il primo e l’ultimo baluardo di identità personale per molti pazienti affetti da DCA, spesso invalidati sul piano della soggettività psicologica: non visti, squalificati, controllati in modo eccessivo (mortificazione dell’auto-determinazione e della libertà), ecc. Oltre al lavoro sintomatico (regolazione delle condotte alimentari e del peso), primo intervento necessario e spesso urgentissimo sul piano medico, generalmente l’intervento terapeutico più a lungo termine deve incentrarsi proprio sull’identità al fine di: (a) arricchirla in modo che non siano solo o prevalentemente il peso e le forme corporee a determinare il valore personale; (c) validarla; (d) attualizzarla in scelte autonome e “coraggiose”; (e) esprimerla e “difenderla” con assertività; ecc. Cotugno ha anche mostrato come la cultura dell’immagine stia influenzando in modo disfunzionale la strutturazione del Sé ideale degli adolescenti, schiacciandolo soprattutto su temi estetici e competitivi.

Coming out interiore ed esteriore

Il coming out interiore e il vivere la prima relazione omosessuale è fondamentale per un omosessuale perchè gli permette di definirsi tale. Dal momento in cui il coming out interiore è venuto già allo scoperto e non è rimasto velato, è il coming out esteriore il passo successivo del processo più generale di coming out. Ovvero l’uscire allo scoperto anche con gli altri. 

 

Il termine coming out designava un tempo il rito dell’entrata in società delle giovani femmine, ovvero la presentazione alla comunità di una particolare giovane che entrava a far parte del mondo degli adulti. A partire dagli anni ’30, soprattutto nei Paesi di origine anglosassone, tale termine venne usato nel senso di “uscire allo scoperto”, soprattutto da parte di persone omosessuali: si tratta di quel processo che porterà una persona a dichiarare apertamente la propria identità sessuale, non solo agli altri, ma anche a se stesso.

Seguendo la definizione riportata da Barbagli e Colombo (2007), la terminologia di coming out è usata attualmente sia nel linguaggio comune che nel linguaggio scientifico, e fa riferimento a “quel lungo, difficile e doloroso processo che va dal primo desiderio omoerotico alla dichiarazione della propria identità”.

Come si arriva al coming out

La possibilità di effettuare un coming out subentra nel momento in cui nell’omosessuale vi è una corrispondenza tra sentimenti, comportamenti ed identità di ordine sessuale (Garelli, 2000; Chiari, Borghi, 2009). Tutto ciò si interseca con caratteristiche sociali che direzionano, socioculturalmente, questo processo di interpretazione e riconoscimento del proprio orientamento sessuale.

Gli stessi Barbagli e Colombo riferiscono che il coming out non è un processo che si manifesta soltanto nel momento in cui lo stesso emerge, ma un lungo percorso che ha origine nell’infanzia. Non sono rari, infatti, i ricordi d’infanzia degli omosessuali (riportati dagli intervistati della ricerca di Barbagli e Colombo del 2007) che fanno riferimento a dei giochi che, ad esempio, ritenevano inappropriati per la propria identità sessuale, ma che nonostante ciò davano loro piacere; molte volte erano costretti a negare il piacere che provavano nei loro confronti proprio perché li ritenevano inappropriati alla loro identità sessuale. La questione infantile di natura omosessuale poteva essere ben arginata per i limiti che l’età imponeva, cosa che risulta invece inappropriata quando un adolescente inizia a provare intensi sentimenti omoerotici. Essendo che le ricerche (Saraceno, 2003; Barbagli e Colombo, 2007) hanno messo in evidenza che la maggior parte delle persone omosessuali hanno provato per la prima volta attrazione per una persona dello stesso sesso proprio durante l’adolescenza, bisogna sottolineare l’importanza di questa fascia di età in quel processo che poi porterà al vero e proprio coming out.

Durante l’adolescenza, gli oggetti di attrazione omoerotica sono talvolta persone al di fuori dell’ordinario, come le star del cinema o della televisione, ma possono essere anche persone appartenenti al proprio mondo familiare, come un parente, un insegnante o un compagno di scuola. Queste infatuazioni durante l’adolescenza determinano una concettualizzazione molto specifica di ciò che riguarda il coming out: se da un lato, infatti, gli adolescenti sono sempre tentati di uscire allo scoperto, dall’altra le caratteristiche socioculturali impongono il mantenimento del segreto. Tutto ciò porta molto spesso a romantiche fantasie omoerotiche che possono essere considerate come il precursore di quella che poi sarà l’omofobia internalizzata (Barbagli, Colombo, 2007). È senza dubbio rilevante il fatto che l’adolescenza accresca ed accentui quel sentimento di mutamento e di diversità degli omosessuali, poiché è il periodo che più di tutti va contro e si allontana dalle consuetudini della società.
Possono passare parecchi anni dal momento in cui si verifica la prima attrazione omoerotica, generalmente durante l’adolescenza, ma anche durante l’infanzia, al momento in cui si attua un vero e proprio atto sessuale con la persona prescelta. Il periodo che intercorre tra l’attrazione omoerotica, l’atto sessuale e il coming out, passa per quell’ulteriore sotto processo del coming out esteriore che è quello di tipo interiore: ovvero la capacità dell’omosessuale di dire a sé stesso che è omosessuale, andando contro le caratteristiche socioculturali stereotipate (Corbisiero, 2010).

Differenze di genere: maschi e femmine alla scoperta della propria omosessualità

Dalle recenti ricerche (ad esempio Saraceno, 2003) emerge che ogni persona omosessuale giunge al coming out interiore in maniera molto diversa rispetto ad un’altra, poiché possono essere seguite diverse tappe per raggiungere il medesimo obiettivo.

Da un punto di vista generale passa qualche anno dal momento in cui si hanno i primi rapporti (sia omosessuali che, nella maggior parte dei casi, eterosessuali), al momento in cui ci si dichiara omosessuali definitivamente. Occorre distinguere, pertanto, quelle persone che hanno sempre avuto un orientamento sessuale verso le persone dello stesso sesso e quelle che invece lo hanno scoperto solo dopo aver provato esperienze sessuali con persone eterosessuali. L’adolescenza può essere per questo definita come un periodo di sperimentazione in cui si cerca di capire qual è il vero orientamento sessuale che appartiene alla persona (Pietrantoni, Prati, 2011). Barbagli e Colombo (2007) definiscono questa sperimentazione nei termini di un diverso grado di fluidità sessuale che può subire diverse manifestazioni in base alla storia personale, alla società ed alla cultura cui si appartiene.

In maniera più schematica, Pietrantoni e Prati (2011) identificano due modalità prototipiche circa il riconoscimento della propria omosessualità: nella prima, che è più frequente nelle donne, la consapevolezza è successiva a esperienze eterosessuali tratteggiate come altrettanto significative, l’enfasi è sul contesto e sulla relazione, la sessualità è fluida e l’omosessualità può non essere irreversibile né esclusiva; nella seconda, più frequente negli uomini, vi è la contrapposizione etero-omo, i desideri sono percepiti come già presenti nell’infanzia e il compito della persona è stato quello di accettare la propria vera natura.
In maniera più specifica, per quanto riguarda le femmine l’autodefinizione come lesbica è dettata dalla consapevolezza graduale di sentimenti provati verso le persone dello stesso sesso. Questo è dovuto anche al fatto che le lesbiche incontrano meno ostacoli, rispetto ai maschi, nel loro tentativo di esplorare le persone del loro stesso sesso (Bertone, 2009). Le amicizie femminili sono infatti caratterizzate, al contrario di quelle maschili, da contatti fisici, scambi di effusioni eterosessuali, dove il bacio di natura eterosessuale è considerato sì come un atto omosessuale, ma in funzione di ciò che si farà da adulte con un uomo: è chiaro che in questo clima le femmine ritrovano una più proficua e graduale espressione del loro innamoramento omosessuale rispetto ai maschi (Pietrantoni, Prati, 2011).

Si evince, pertanto, che il genere è un forte organizzatore dei modelli di relazione, identità e comportamento omosessuale (Corbisiero, 2010). Ad esempio, gay e lesbiche fanno uso di strategie differenti per la gestione dello stigma sociale omofobo per evitare di essere emarginati o etichettati: gli uomini gay tendono ad evitare costantemente il coinvolgimento affettivo al fine di minimizzare l’importanza dell’esperienza sessuale con altri uomini (probabilmente per derivazioni particolari di origine socioculturale), al contrario delle donne lesbiche (Bertone, 2009).

Dal coming out interiore al coming out esteriore

Uno dei modelli più citati in letteratura per la descrizione e spiegazione del coming out interiore è il modello di Cass (1984) che schematizza il processo in questo modo: confusione di identità (chi sono?); comparazione (sono diverso/a); tolleranza (probabilmente sono gay/lesbica); accettazione (sono omosessuale); orgoglio (sono fiero di essere omosessuale); sintesi (la mia omosessualità è una parte di me)

Il coming out interiore e il vivere la prima relazione omosessuale è fondamentale per un omosessuale perchè gli permette di definirsi tale. Dal momento in cui il coming out interiore è venuto già allo scoperto e non è rimasto velato, è il coming out esteriore il passo successivo del processo più generale di coming out. Ovvero l’uscire allo scoperto anche con gli altri.

Ci sono vari fattori sociali che possono facilitare o ostacolare il processo di coming out esteriore, come l’età, il genere, la regione e il comune di nascita, il titolo di studio, l’educazione religiosa ricevuta; altri che invece possono influire, come la generazione di appartenenza, l’adesione alla morale cattolica, l’intensità del desiderio erotico omosessuale e le caratteristiche familiari (Barbagli e Colombo, 2007; Bertone, 2009).

L’atto di dichiararsi agli altri come omosessuali, pertanto, varia molto, anche in questo caso, in funzione del contesto e delle caratteristiche dei destinatari e delle persone verso cui il coming out vuole essere messo in atto. Barbagli e Colombo (2007) affermano, in relazione alle loro ricerche, che è più facile che la dichiarazione di omosessualità venga fatta a gruppi paritetici piuttosto che a gruppi gerarchici, quindi con gli amici e i compagni piuttosto che con i familiari.

La scelta della prima persona a cui dire di essere omosessuali comporta un certo qual peso all’interno di tutto il processo di coming out. Il momento della prima confidenza segna anche l’inizio della decisione di uscire allo scoperto, poiché il processo continuerà anche dopo che la prima confidenza sarà stata fatta (Saraceno, 2003). L’interlocutore ideale deve essere una persona vicina, comprensiva e aperta ad accettare l’omosessualità della persona, in modo tale da non mettere in discussione o turbare la relazione affettiva che è presente tra i due (Barbagli e Colombo, 2007; Saraceno, 2003). L’85 % delle persone, secondo la ricerca di Barbagli e Colombo (2007), inizialmente preferisce dichiarare la propria omosessualità agli amici rispetto ai familiari, probabilmente perché vi è la speranza di essere più compresi e meno giudicati. Dopo gli amici seguono gli stessi familiari, e quindi gli insegnanti, i sacerdoti, gli psicologi e i medici. In pratica l’uscita allo scoperto avviene prima con i gruppi primari e poi con quelli secondari (Bertone, 2009).

I processi decisionali sul dirlo o non dirlo sono frutto di una complessa valutazione costi-benefici: tra gli svantaggi di un outing vi sono i timori delle reazioni negative, di essere target di pregiudizi o di scarsa impellenza, ma dall’altro lato il vantaggio è rappresentato dalla voglia di sentirsi autentici e di richiedere aiuto.

Con Pietrantoni e Prati (2011) possiamo distinguere tre tipi di coming out esteriore: il primo è il tipo più implicito, dove la persona non nasconde la sua relazione ma non ne parla con nessuno e pensa che gli altri lo abbiano capito; il secondo è il “confessionale”, quando ovvero la persona sceglie di dirlo ad altri opportunamente selezionati, in un’atmosfera intima; il terzo è quello di tipo più spontaneo: la persona riferisce serenamente di essere omosessuale senza farsi particolari problemi sul suo status.

Come cambiano le amicizie dopo il coming out

Dal momento in cui viene manifestata apertamente la propria natura omosessuale, i gay e le lesbiche modificano naturalmente anche l’intrecciarsi ed il mantenimento delle relazioni amicali cui è stato riferito. Ciò che viene messo in evidenza dalle ricerche è che si verifica una netta preferenza per amici sia dello stesso sesso che dello stesso orientamento sessuale, sia per quanto riguarda le lesbiche che per quanto concerne i gay (Saraceno, 2003). Le amicizie diventano sempre più selezionate e si instaurano solo quando vi sono le condizioni per poterlo fare, un po’ come avviene nelle amicizie tra eterosessuali. Ciò che, invece, fa da equilibrio nell’instaurarsi di un’amicizia tra omosessuale ed eterosessuale è la capacità di non enfatizzare la categorizzazione sociale quando non è rilevante, cosa che apporterebbe in maniera inevitabile la messa in atto di comportamenti di derivazione omofobica (Bertone, 2009).

Una problematica che può presentarsi tra amici è relativa alle possibili attrazioni sessuali che si possono scatenare tra eterosessuali ed omosessuali dichiarati, che spesso vengono messi a tacere per timore di rovinare la stessa amicizia (Chiari, Borghi, 2009). Ne consegue una limitazione dei comportamenti e dei rapporti poco aperti e sinceri, specialmente per quanto riguarda le donne lesbiche e le donne eterosessuali. Tra omosessuali ed eterosessuali possono invece manifestarsi più frequentemente evitamenti sociali per la paura che la persona omosessuale possa “provarci”. Pertanto, stando a quanto detto finora, nell’amicizia tra due donne o due uomini di diverso orientamento sessuale vi è sempre la possibilità che una delle due o uno dei due s’innamori dell’altra o dell’altro (Pietrantoni, Prati, 2011).

Non sempre però il coming out determina derivazioni relazionali amicali negative tra omosessuali ed eterosessuali; vi sono infatti dei casi, denominati come fag hag nei Paesi anglosassoni, in cui le donne eterosessuali apprezzano la compagnia delle donne lesbiche o degli uomini gay; in quest’ultimo caso l’interesse comune per gli uomini potrebbe favorire il fronteggiamento di un contesto sociale potenzialmente sessista ed omofobo (Barbagli, Colombo, 2007).

Le difficoltà di fare coming out

Dichiararsi omosessuali al di fuori della famiglia di origine e della sfera delle amicizie cui si appartiene è ancora più complesso poiché è molto facile ricadere in reazioni negative, sia di tipo fisico o verbali, e di rifiuto. In tale mondo si può includere anche la scuola e il lavoro, dove spesso e volentieri l’omosessuale è obbligato a “modulare” la propria dichiarazione e i propri atteggiamenti al fine di prevenire eventuali reazioni negative (Lingiardi, 2007). Tali evidenze non si manifestano soltanto in periodo adolescenziale, ma anche in periodo infantile, dove possono essere presenti frequenti comportamenti di bullismo scolastico dettato da comportamenti omofobi e da stereotipi sociali e culturali (Pientrantoni, Prati, 2011).

Per potersi dichiarare omosessuali in ambienti ostili senza usare la condotta verbale, molti utilizzano delle tecniche indirette, come non nascondere i propri comportamenti, invitare a casa gli amici non nascondendo certi tipi di libri o di vestiti, oppure farsi pubblicare la propria foto su riviste o siti internet di gruppi dichiaratamente gay (Saraceno, 2003).

Esistono quindi molti modi con cui il coming out può essere effettuato, anche a vari livelli, in base alle possibilità che la società offre. Non è raro, per contro, che le reazioni al coming out all’interno dell’ambiente sociale non siano positive e, talvolta, aumentino proprio in seguito al coming out; questi fattori possono intensificare l’emarginazione dell’omosessuale e vari problemi di natura sociale. Occorre anche dire, però, che le reazioni individuali non sempre sono così negative come quelle di origine sociale, poiché spesso si vedono persone che condannano l’omosessualità in un ambiente sociale ma in una dimensione privata hanno amici omosessuali con i quali mantengono degli ottimi rapporti (Bertone, 2009).

Lo stigma sociale dell’omofobia

Troiden (1979) ha offerto una prospettiva molto interessante del processo di coming out esteriore che sottolinea, in quattro stadi, le caratteristiche della risposta strategica allo stigma sociale in cui un omosessuale è, direttamente o indirettamente, inserito.

In un primo stadio di “sensazione”, che è collocato nella pubertà, l’omosessuale vive sentimenti di marginalità e di alienazione dagli altri.

Nel secondo stadio, denominato “confusione di identità”, corrispondente al periodo dell’adolescenza vero e proprio, vi sono degli iniziali sentimenti che possono avere a che fare con l’omosessualità. Gli omosessuali possono reagire o con il diniego, o adottando fantasie, o sradicando le emozioni che sentono, o attraverso l’evitamento consapevole dei pensieri, comportamenti e fantasie omosessuali. Un’altra particolare forma di strategia difensiva è la ridefinizione situazionale, quando ovvero uno specifico sentimento viene relativizzato a una determinata situazione e non viene generalizzato.

Nel terzo stadio dell’assunzione dell’identità, che avviene generalmente nella tarda adolescenza, l’identità omosessuale viene pienamente riferita a sé e agli altri. Lo stigma dell’omofobia, anche di tipo internalizzato, viene evitato attraverso o l’allineamento alla comunità (vi è una più attiva partecipazione alla vita comunitaria) o con la ridicolizzazione dell’esperienza eterosessuale, oppure ancora con la capitolazione, quando nonostante la persistenza di desideri omosessuali, stigmatizzano definitivamente la propria omosessualità.

Nell’ultimo stadio, invece, “la partecipazione”, viene messa in risalto, nel migliore dei casi, una prospettiva diversa dell’omosessualità, intesa non più come stigma sociale, ma come modo di vivere nuovo. Le principali caratteristiche sono l’autoaccettazione e confortevolezza con il ruolo e l’identità omosessuale che poi porteranno, o ne saranno conseguenza, al coming out definitivo.

In conclusione

Riconoscersi omosessuali non è pertanto un processo semplice, ma spesso lungo e doloroso, vissuto come una profonda rottura rispetto ad una prospettiva di vita in cui si dava per scontata e tutto era organizzato in funzione dell’eterosessualità. È un processo non soltanto relativo alla formazione dell’identità sessuale, ma anche un processo di formazione dell’identità della persona nel suo complesso (Saraceno, 2003; Garelli, 2000).

In definitiva, stando a quanto detto fin qui, il coming out esprime una concomitanza di eventi importanti nella vita di ogni omosessuale: innanzi tutto il “venir fuori” pubblicamente, svelandosi ad ogni tipologia di “altro”, ma anche venire fuori nei confronti di se stessi e riuscire a rifiutare termini offensivi, riuscire a disfarsi dei vari bias sociali e dei relativi pregiudizi, sostituendoli con interpretazioni di affermazione, rispetto ed integrazione a tutti i livelli (Bertone, 2009).

Esistono naturalmente, come emerge dalle ricerche sociologiche recenti (vedi Bertone, 2009 o Barbagli e Colombo, 2007) una complessiva grande varietà di percorsi di vita, da quelli più lineari e stabili a traiettorie molto più fluide e circostanziali. Se si seguono i modelli sopra esposti, si ha l’idea di una definizione della propria omosessualità in termini abbastanza lineari, ma fondamentalmente il percorso di definizione, sia interiore che esteriore, della propria omosessualità è abbastanza contorto nella maggior parte dei casi. Vi è molto spesso, ad esempio, una iniziale commistione di esperienze eterosessuali ed omosessuali che allungano i tempi di definizione della propria identità, come sopra è stato accennato, e di conseguenza tutto il processo di coming out (Bertone, 2009).

Nonostante molti omosessuali decidano di fare coming out, molti altri preferiscono mantenere il segreto, a volte soltanto in alcune cerchie di relazione. Accade infatti che molte persone preferiscono mantenere un’immagine diversa sul luogo di lavoro, più consona ai dettami sociali. Per raggiungere questo obiettivo del “segreto” sono due, secondo Barbagli e Colombo (2007), le strade che possono essere percorse. La prima riguarda il seguire un copione da eterosessuale, comportandosi come se non fossero omosessuali con i colleghi. La seconda strada, invece, è più semplice e riguarda quei casi in cui la persona non si dichiara omosessuale, ma nemmeno cerca di farsi passare per eterosessuale, mantenendo una stretta separazione tra sfera privata e sfera lavorativa.

Scoperti particolari segmenti di DNA che causerebbero la morte dei neuroni nel Morbo di Alzheimer

Una nuova ricerca svela il meccanismo attraverso il quale l’accumulo progressivo di proteina Tau all’interno del cervello contribuisce alla morte delle cellule nel morbo di Alzheimer.

 

Studiando più di 600 soggetti, gli scienziati hanno scoperto per la prima volta un’associazione tra la presenza di proteina Tau all’interno delle cellule cerebrali e l’attività di particolari sequenze di DNA, gli elementi trasponibili, che potrebbero innescare la neurodegenerazione tipica del morbo di Alzheimer.

Il Dottor Joshua Shulman, professore di neurologia al Baylor College of Medicine in Texas, ha chiarito che la caratteristica principale del morbo di Alzheimer è l’accumulo di proteina Tau all’interno dei neuroni che porta come conseguenza la progressiva morte cellulare. 
Sebbene la ricerca sia impegnata da molto tempo nel ricercare i meccanismi che portano all’accumulo di questa particolare proteina all’interno del cervello, non è ancora del tutto spiegato come questi aggregati conducano alla morte neuronale.

Ciò che i ricercatori hanno osservato in questo studio è che i neuroni con accumulo di proteina Tau al loro interno, sembrano presentare una maggiore instabilità genomica. Shulman ha spiegato: [blockquote style=”1″]Con instabilità genomica ci si riferisce ad una maggiore tendenza del DNA ad avere alterazioni nel materiale genetico come ad esempio mutazioni. Questo significa che il genoma non funziona correttamente. L’instabilità genomica sembra essere alquanto importante perché si è vista essere una tra le possibili cause di diverse malattie, quali ad esempio il cancro. Il nostro studio ha indagato una possibile relazione causale tra l’eccesso di proteina Tau e la conseguente instabilità genomica nella malattia di Alzheimer.[/blockquote]

Studi precedenti sulle malattie neurodegenerative avevano suggerito che i tessuti cerebrali dei pazienti non solo mostravano instabilità genomica ma erano caratterizzati anche da neuroni che presentavano l’attivazione di elementi trasponibili. 
Gli elementi trasponibili sono frammenti di DNA che si comportano in maniera simile ai virus: possono infatti creare copie di sé stessi, inserirsi nel genoma e causare mutazioni. La maggior parte di questa elementi è dormiente o disfunzionale tuttavia alcuni di questi possono attivarsi in tarda età o in determinate condizioni mediche.

Lo studio

Collaborando con i colleghi David Bennett di Chicago e Philip De Jager della Columbia University, Shulman ha potuto condurre questo studio longitudinale su una popolazione di più di 600 soggetti. Ciò che si è fatto è stato identificare, tramite un software creato appositamente, la presenza di elementi trasponibili attivi nei cervelli postmortem, creando un profilo di espressione genica per ogni singolo soggetto; è stata poi calcolata, attraverso un’analisi statistica, l’eventuale correlazione tra la quantità di proteina Tau presente nelle cellule e la quantità di elementi trasponibili. 
I ricercatori hanno riscontrato un forte legame tra i due elementi, trovando sorprendentemente un’attivazione diffusa di elementi trasponibili in tutto il genoma.

Ricerche precedenti inoltre, avevano dimostrato l’effetto distruttivo della proteina Tau sull’architettura del genoma. Su tale punto Shulman ha specificato: “Il fatto che gli aggregati Tau distruggano la struttura del DNA potrebbe essere un possibile meccanismo che causa l’attivazione degli elementi trasponibili nella malattia di Alzheimer. Tuttavia gli studi compiuti sull’uomo stabiliscono solo un’associazione tra l’accumulo di proteina Tau e l’attivazione di elementi trasponibili senza dichiarare un legame di causalità. Per determinare se la proteina causi effettivamente l’attivazione degli elementi abbiamo condotto delle ricerche che studiano il moscerino della frutta”.

In effetti gli studi sul modello animale hanno rivelato che l’accumulo di proteina Tau ha portato all’attivazione di elementi trasponibili suggerendo che la proteina possa potenzialmente mediare l’attivazione degli elementi e causare quindi la neurodegenerazione.

Il Dottor Shulman ha concluso affermando: [blockquote style=”1″]C’è ancora molto lavoro da fare, riteniamo però che la nostra ricerca abbia rivelato nuove e importanti informazioni utili per la comprensione dei meccanismi causali nel morbo di Alzheimer.[/blockquote]

Una vita come tante: uno sguardo crudo e reale sul trauma e l’abuso infantile – un libro che ogni psicoterapeuta dovrebbe leggere

Non so se il il libro Una vita come tante di Hanya Yanagihara, edito da Sellerio, sia un libro principalmente sull’amicizia come ci avvisa la quarta di copertina, certo in parte lo è, l’amicizia di quattro uomini dal college alla maturità, ma troppo disomogenee le amicizie tra questi uomini, amicizie indelebili ma anche rabbiose, protettive, invidiose, ogni amicizia dentro il libro è una amicizia diversa. So però che questo è un romanzo che tutti i clinici tutti gli psicoterapisti devono leggere. 

 

Il libro ha 4 protagonisti ma in realtà emerge quasi dall’inizio una voce sola, fino alla fine quando nelle ultime pagine appare la voce di un altro dei molti protagonisti che in modo straziante ma non senza speranza chiude il libro.

La voce principale è quella di Jude, ragazzo dal passato terribile, abusato e geniale che diventa un grande avvocato, ricco, adorato dai suoi amici, colleghi e da chiunque lo conosca, ma che non sa come vivere una vita possibile avendo fratture traumatiche incancellabili.

La prima cosa che mi ha colpito mentre lo leggo è l’insostenibilità degli abusi subiti in infanzia e adolescenza da Jude, e penso a quanto noi clinici tendiamo a parlare sempre di abusi, come se l’abuso del nostro paziente (e a volte di noi stessi) fosse il peggior abuso possibile, il padre presente ma ubriacone, la mamma aggressiva, i rimproveri.. ecco leggendo la storia di Jude mi rendo conto che alcuni abusi non sono paragonabili ad altri (la gravità degli abusi è tale che la personalità e l’emotività di Jude, ma anche il suo corpo, ne sono distrutti per sempre) abitano completamente da un’altra parte. Queste realtà sono maggiormente presenti in chi vive nelle realtà carcerarie o nei luoghi di protezione dell’infanzia violata.

E questa è cosa che noi clinici dobbiamo ricordare sempre. Dare i pesi giusti e misurare l’entità dei traumi dei nostri pazienti con rispetto ma anche accuratezza.

Chi è Jude?

La descrizione psicologica di Jude, del suo continuo parlare con se stesso, dello stato di autocolpevolizzazione, vergogna, rabbia, sfiducia nei rapporti con le persone che lo amano, che vivono per renderlo felice, è così ben raccontata che vale la pena di armarsi di coraggio e attraversare la lettura di questo libro letterariamente imperfetto, ma straordinario. Alcune pagine, ve lo dico subito, sono intollerabili, la descrizione di ciò che un bambino non protetto può subire dagli adulti, è insostenibile anche alla lettura. Ma il processo di autocura che Jude (nonostante le innumerevoli ricadute di autolesionismo e rabbia,) non smette mai di fare, è una lezione di psicopatologia dell’abuso in forma letteraria indimenticabile.

La storia di amicizia tra Jude e William è un esempio di come l’affetto e la presenza, vissute come minacciose e impossibili da tollerare, lasciano traccia, alla lunga e con pazienza, ma non diventino mai scontate, non permettano mai di mettersi realmente al sicuro.

Nell’arco del libro Jude cambia, rimane impossibile o quasi da avvicinare, ma ragiona, comprende, vede le sue ferite non solo come colpa e corresponsabilità, ma anche come qualcosa che deve tenere sotto controllo e lontano, per potere avere momenti di relativa pace.

Jude a volte fa anche rabbia al lettore, per la sua ripetitività,la sua ruminazione pessimistica ininterrotta, la sua difficoltà a cambiare idea, il suo riconoscere quanto ha ottenuto come risultato non di una fortuna pazzesca ma della sua genialità e della sua competenza amicale e professionale, per le sue pretese verso chi ha vicino, unite sempre ai “mi dispiace” manipolativi.

Ma il libro non è solo Jude, ci sono i suoi incontri, le persone che per sempre riescono a stargli a una distanza che riesce ad accettare, anche se con momenti di rabbia e rifiuto li sfida, mente e si nasconde. E ci sono i crudeli che incontra da adulto e che lo segnano in modo cruento, proprio per la conferma che lui è sbagliato, diverso, perduto.

Qual è l’insegnamento di questa storia?

Alla fine, in questa New York mondana e piena di persone eventi e parole e relazioni, tutti e quattro gli amici del nostro libro hanno grandi successi seguendo i loro talenti. Tutti hanno case meravigliose e occasioni e vittorie. Tutti rimangono vicini tra di loro pur con alternanze negli anni legate a liti, sfide, difficoltà e gelosie. E tutti si portano dietro i tormenti di infanzie imperfette.

Certo difficile nel mondo non romanzesco immaginare un passato come quello di Jude nel più famoso penalista di New York, sono salti sociali quasi impossibili da immaginare nel mondo selettivo delle università americane, ma tant’è i romanzi sono favole e tutto può accadere. Anche se questa favola ci lascia l’amaro in bocca e la fine è pacificata ma non lieta, così come il racconto delle difficoltà e dei limiti oggettivi delle cose che i clinici (e gli amici, e i parenti) possono fare.

Questo libro è stato salutato come un libro importante dal mondo intellettuale omosessuale americano, perché le relazioni dominanti, importanti, cruciali dal punto di vista dell’interesse e dell’intimità avvengono sostanzialmente tra uomini, le donne sono sempre e solo sfondo.

Ma il sesso in questo libro non è quasi mai allegro, di comunicazione e condivisione, anzi del sesso, viene raccontata la vena sopraffattoria, violenta, non legata all’omosessualità ma alla violenza sull’indifeso. Per Jude, il desiderio amoroso, affettivo e sessuale che il suo amico ha per lui, il desiderio di vicinanza, la pazienza, la passione, sono consolazioni ma richiedono troppa fiducia e sono troppo dolenti, appartengono a un mondo di condivisione e vicinanza che è addirittura impossibile da immaginare, tanto meno accettare.

Anche di questo Jude si farà una colpa. Una delle cose interessanti del libro è proprio il racconto dell’impossibilità (la difficoltà) di sciogliere negli abusati il nodo della vicinanza sessuale e affettiva, anche in condizioni di sicurezza assolute.

Ma il libro è anche un libro sull’impossibilità di accettare un lutto ingiusto e inaspettato, sui tempi terribili che richiede questa operazione, sul fatto che per qualcuno è semplicemente vietata.

Si un libro dolce e crudele, i personaggi che lo abitano ci restano attaccati per lungo tempo, non ci consola né come persone né come terapisti. Noi ci culliamo nella tentazione di enfatizzare il nostro ruolo, le nostre competenze, l’importanza per i nostri pazienti. Lo siamo, lo facciamo con amore e passione ma spesso l’incontro è oscuro e non dimentichiamoci che può essere anche impossibile.

Questo libro non si riesce a lasciare né dimenticare e ci tira giù per sempre dalle nuvole narcisistiche in cui ci piace pensare di vivere.

Il bisogno di dramma – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Nelle scelte che implicano grandi cambimenti, cosa ci spinge verso una decisione piuttosto che un’altra? Bisogno di dramma (BDD)? Noia? Curiosità? Voglia di nuovo?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il bisogno di dramma (Nr. 26)

 

Credo di aver fatto questi studi nel tentativo di capire e prevedere il comportamento degli esseri umani, forse perché immerso in un ambiente infantile scarsamente prevedibile (tanto per dare la colpa a mamma). Devo dire che sono stati soldi e tempo del tutto sprecati. Continuamente sbaglio le previsioni sul comportamento degli altri e credo che la causa principale sia l’incapacità a decentrarmi, a sua volta sostenuta da una metacognizione non opaca ma proprio fumè. Per cui se non sai come la pensi, cosa senti e cosa vuoi è facile che tutto questo venga proiettato sugli altri. Per contenere questa distorsione cognitiva nel caso delle elezioni americane ho cercato di basarmi su considerazioni oggettive trascurando il mio sentire. Mi dicevo che non poteva vincere nonostante la debolezza della rivale, avendo tutto o quasi lo star sistem contro e persino lo stesso partito repubblicano. Oggi nel fare i conti con l’inaspettato e cercare di recuperare un minimo di previsionalità senza ricorrere ad un delirio franco, mi sono ricordato di un articoletto recuperato questa estate sull’Internazionale e che introduceva un concetto: il Bisogno di Dramma (B.D.D). Utilizzai allora il concetto di Bisogno di Dramma B.D.D. per ragionare sulla Brexit, e in seguito su altri accadimenti personali.

Siccome non è un concetto stupido -sebbene dovremmo collocarlo meglio in una psicologia degli scopi/credenze- lo copio di seguito ed al termine aggiungero’ i miei pensierini di allora sulla Brexit.

Più o meno nello stesso periodo in cui Boris Johnson e Nigel Farage lanciavano una bomba nella politica del Regno Unito per poi scappare nascondendo la mano, ho scoperto che gli psicologi dell’università del Texas hanno ideato un indice per quel tratto della personalità che chiamano “bisogno di dramma”(BDD). Per misurarlo si chiede a un soggetto se concorda con affermazioni del tipo: “A volte mi diverto a far arrabbiare la gente” oppure “dico sempre quello che penso senza riflettere sulle conseguenze”.

Non c’è dubbio che Johnson e Farage, come d’altronde Donald Trump, siano persone con un alto livello di BDD, molto simile a quello dell’amico che per definire la sua relazione sentimentale scrive su Facebook “è complicata”, o che alla domanda “come vanno le cose?” risponde sempre snocciolando varie crisi intrecciate tra loro. Questo tipo di persone semina caos per soddisfare il proprio bisogno interiore di eccitazione, anche se di solito con conseguenze meno disastrose della Brexit.

E poiché questo non vale solo per i politici è difficile non concludere che il livello di BDD nella nostra cultura stia decisamente aumentando. Se sempre più elettori sembrano scegliere il caos e la demagogia solo per il gusto di farlo, forse è perché a chi si sente impotente non è rimasto altro che scatenare un dramma.

Come spiega l’esperta di psicologia Melissa Dahl nel blog The science of us, le persone ad alto tasso di BDD hanno un “locus di controllo esterno”, cioè percepiscono qualsiasi evento come se stesse succedendo a loro invece che essere causato da loro – una conclusione ragionevole quando gli eventi sembrano perlopiù determinati da politici lontanissimi o da crisi economiche che scoppiano dall’altra parte del mondo. “Sentire Trump dire che costruirà un muro o uno dei responsabili della Brexit affermare che non ci sarà più immigrazione è come comprare un biglietto della lotteria”, ha scritto di recente il giornalista irlandese Fintan O’Toole. “Non devi essere veramente convinto che vincerai cento milioni… Tieni semplicemente a bada la noia introducendo una possibilità fantastica”.

Milioni di persone si sentono impotenti e si annoiano, e non c’è da stupirsi se vogliono smuovere un po’ le acque.

Un nuovo studio condotto dal King’s College di Londra in collaborazione con l’Università di Limerick fa pensare che abbia ragione: sembra che i partecipanti costretti ad annoiarsi a morte trascrivendo una serie di tediose informazioni sulla fabbricazione del cemento, in seguito abbiano espresso idee politiche più estreme. Oggi che milioni di persone si annoiano e si sentono impotenti, non c’è da sorprendersi se poi decidono di smuovere un po’ le acque.

Adesso che il bisogno di dramma ha raggiunto livelli epidemici sia tra i politici sia tra gli elettori, ci colpisce ancora di più vedere che l’uomo più potente del mondo – almeno ancora per qualche mese – è un esempio della tendenza esattamente opposta. Secondo un suo profilo pubblicato dal New York Times, l’uomo che i suoi collaboratori hanno soprannominato “no-drama Obama” ama sempre di più le ore della sera che passa da solo a leggere nella Stanza Ovale, bevendo semplicemente acqua e mangiando – esattamente – “sette mandorle leggermente salate”. Più il mondo impazzisce, più il presidente introverso cerca la quiete. Nel suo mondo, evidentemente, ci sono già abbastanza drammi senza bisogno di provocarne altri. Leggendo i giornali, ho sempre più l’impressione di sapere quello che prova

Burkeman, O. (2016) Il bisogno di dramma di elettori e politici ci porta al caos, Internazionale

 

Riprendo con le mie riflessioni del Venerdi 24 giugno 2016.

Oggi è il giorno della Brexit e al di là dei commenti politici ed economici preparati e raffinati,mi vengono in mente alcune riflessioni.

Perché il risultato è così imprevisto e sorprendente? Forse semplicemente perché la stampa e tutta l’informazione ha dato sempre e solo, in linea con la campagna elettorale delle istituzioni (le elite al potere) molto più spazio alle ragioni del “remain” che a quelle del “leave”, che quando presentate venivano attribuite ad un generico e rozzo malcontento. Chi davvero conosceva in profondità le ragioni dell’out?

Interessante e grave che il voto determinante per l’OUT sia stato quello dei vecchi che finisce per condizionare non la loro vita (che dovrà ben finire prima o poi), ma quella dei giovani in stragrande maggioranza per l’IN e oggi increduli. Forse sarebbe da immaginare un peso diverso dei voti nel computo generale a seconda dell’età, perché l’esito di qualsiasi elezione condiziona molto di più la vita di un giovane che quella di un vecchio, per cui forse sarebbe giusto che avesse un peso maggiore.

Oggi molti dicono che Cameron e il fronte dell’IN era sicuro di vincere e ha scherzato con il fuoco quasi per un brivido adrenalinico. Al contrario lo stesso fronte dell’OUT contava di avere una grossa affermazione che gli desse un maggiore potere negoziale interno nel partito ed eventualmente con la UE, ma non si aspettava e non voleva vincere. Insomma come i ragazzini che iniziano per finta a fare a botte senza intenzione di farsi male e poi il gioco gli sfugge di mano.

Un’altra considerazione è che tutti i governi dell’occidente democratico e ricco che governino questo periodo storico sono destinati a sconfitte elettorali perché debbono gestire un processo di impoverimento. Questo processo si è innescato con la globalizzazione, ed è sacrosanto perché sta già riducendo sensibilmente le disparità tra i 7 miliardi di abitanti della terra. Ma chi rinuncia a qualcosa finisce per essere scontento e se la prende con i propri governanti, invece di ringraziare il fatto che tale riequilibrio avvenga senza invasioni e grandi spargimenti di sangue. Inorridiamo all’idea dei bambini che muoiono di fame e di sete ma quando imbandire anche poveramente la loro tavola ridimensiona i nostri banchetti allora invochiamo nuovi muri, politiche protezionistiche e mandiamo a casa i governanti.

Gli inglesi si sono fregati perché davano per scontato l’esito del “remain” (ma ti pare che davvero davvero…?). Altrettanto diamo per scontato il perdurare dei 70 anni di pace che hanno segnato il continente che nel solo ‘900 era riuscito a fare centinaia di milioni di morti nelle pianure del centro, sulle vette dei nostri bellissimi monti, tra i borghi artistici di città senza pari. Ho l’impressione e il timore che sia sufficiente innalzare un muro per trovare due bischeri che inizino a fare a sassate e poi chiamino i parenti e gli amici e via così con la meglio gioventù a morire per niente.

Non dimentichiamoci che proprio in questi giorni la Francia è teatro di scontri feroci tra tifoserie avversarie per gli europei di calcio. Diamogli pure un muro e magari una divisa e l’Europa tornerà ad essere un parco giochi “WARLAND”. A proposito di europei ma si può sapere perché i britannici si presentano sempre con 5, dico 5 nazionali ( inghilterra, Galles, Scozia, irlanda del nord e irlanda del sud)? Ricordo, per inciso che hanno sempre pagato contributi ridotti alla UE, non hanno l’euro, hanno la guida a destra ed un sistema di misura diverso dal sistema metrico decimale che confonde il mondo intero. Insomma ci ‘vo pazienza con la perfida Albione ( chissà che vuol dire) come diceva Mascellone.

Un’altra considerazione più psicologica. Già Kahneman e Tversky si sono presi il nobel per l’economia dimostrando che, mentre le teorie degli economisti si basavano sul presunto comportamento razionale di un “homo economico” che agisce sui mercati in modo razionale per massimizzare il proprio interesse, gli uomini quelli veri agiscono spinti da altre faccende, le emozioni, e non sono per niente razionali e talvolta manco ragionevoli.

Ho l’impressione che ciò valga anche in altri contesti. A volte si fanno certe scelte anche semplicemente per il gusto di cambiare, di fare casino. Di risollecitare la curiosità e vedere un po’ come va a finire. Quasi che l’evitare la noia sia una potente motivazione. Insomma, ogni tanto nella vita ci viene voglia del nuovo che acquista valore in sé, non perché necessariamente migliore del vecchio. Chissà dunque che i vecchi britannici abbiano condannato i loro nipoti a rivivere in un Europa debole e frammentata (basterebbe constatare che gli unici contenti oggi sono Putin e Trump per valutare l’errore commesso) non perché hanno vissuto la seconda guerra mondiale e ad obbedire alla Merckel gli piglia proprio male, ma semplicemente perché al parco col giornale si stavano terribilmente annoiando. Mentre scrivo il telegiornale ha dato la notizia che il cielo di Londra è coperto dai bombardieri tedeschi, dai potenti tupolev sovietici ma già si sono levati ad eroica difesa i caccia gli intercettori della RAF. E’ un investimento non solo per fabbricanti di armi (vedrai adesso il PIL dell’Italia), ma anche per cinematografari e scrittori per i prossimi cent’anni. Ripiego il giornale e fanculo pure a sto cocker, ora si’ che ci si diverte.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Encefalopatia ipossico-ischemica nel neonato

Encefalopatia ipossico-ischemica nel neonato: che cos è, quali sono i fattori di rischio e le possibili conseguenze nuropatologiche

Valeria Mancini e Serena Pattara, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il concetto di “encefalopatia neonatale” viene oggi usato in senso più estensivo rispetto a quanto proposto da Nelson nel 1991. Questo autore definisce infatti l’encefalopatia neonatale

come una sindrome clinica caratterizzata da alterata funzione neurologica nei primi giorni di vita nel neonato a termine, con difficoltà ad iniziare e mantenere l’attività respiratoria, alterazione del tono e dei riflessi, ridotto livello di coscienza e spesso convulsioni.

Con tale definizione si descrive un complesso sintomatologico che bene si adatta all’ encefalopatia neonatale ipossico-ischemica ma che non descrive invece altri quadri neurologici, frequenti nel periodo neonatale, che trovano verosimilmente origine in cause diverse dall’asfissia (malattie genetiche, difetti della coagulazione, disturbi metabolici, malformazioni, infezioni, ecc…) (Guerrini et al.).

Encefalopatia ipossico-ischemica: cos è, incidenza, quali aree cerebrali interessa

Si parla di encefalopatia ipossico-ischemica, quando all’evento asfittico segue un interessamento del sistema nervoso centrale, ovvero, nelle ore e giorni successivi all’asfissia si manifesta una chiara sindrome neurologica neonatale. Questa patologia è una delle maggiori cause di morte neonatale e disabilità neurologica nel bambino (Robertson, Finer, 1985).

L’incidenza stimata è di circa 1-2/1000 nati a termine (Ottaviano et al., 2001; da Thornberg et al., 1995; da Hull, Dodd, 1992) e fino al 60% nei neonati prematuri di peso inferiore a 1500 grammi (Ottaviano et al., 2001; da Ergander, 1983). Una percentuale tra il 20 e il 50% dei neonati asfittici che sviluppano una encefalopatia ipossico-ischemica muoiono nel periodo neonatale, dei sopravvissuti circa il 25% presenta handicap neurologici maggiori (paralisi cerebrale, ritardo mentale, disturbi d’apprendimento, epilessia).

In generale le lesioni anatomo-patologiche (e i conseguenti esiti a distanza) sono differenti nel neonato a termine rispetto al neonato pretermine. Nel primo prevale l’interessamento della sostanza grigia cerebrale (corteccia cerebrale, ippocampo, gangli della base, emisferi cerebellari), nel secondo, invece, è interessata prevalentemente la sostanza bianca (Ottaviano et al., 2001).

Encefalopatia ipossico-ischemica: fattori predittivi e di rischio

Prendendo in considerazione i fattori di rischio dell’encefalopatia ipossico-ischemica, alcuni parametri perinatali sono significativamente predittivi: il ritardo mentale materno, il deficit motorio di un fratello, l’ipertiroidismo, una sindrome convulsiva materna precedente la gravidanza, un’anamnesi remota positiva per due o più morti endouterine e un ritardo di crescita nella gravidanza corrente (Rosen, Hobel, 1986). Nessun fattore pregravidico predittivo, tuttavia, contribuisce più del 4.4%. L’età materna, la parità, lo stato socio-economico, il fumo, il diabete non hanno dimostrato un significativo ruolo predittivo. La proteinuria (> 5g/25 h) nella seconda metà della gravidanza, l’ipertensione arteriosa marcata, le metrorragie del terzo trimestre, il numero delle visite prenatali sono state identificate come fattori di rischio. Ciascuno di questi fattori è associato alla paralisi cerebrale con una percentuale inferiore al 2%. Le caratteristiche predittive significative durante il travaglio sono: un’epoca gestionale inferiore alle 32 settimane e le bradicardie fetali (60 battiti al minuto e valori inferiori), le infezioni del corion e il basso peso della placenta. La placenta previa e il distacco intempestivo di placenta normalmente inserita, rappresentano un ulteriore rischio per l’encefalopatia ipossico-ischemica neonatale e il conseguente danno cerebrale fetale (Niswander et al., 1968).

I fattori di rischio che possono comparire in sala parto sono risultati: il basso peso neonatale, un ritardo di 5 minuti o più del primo atto respiratorio neonatale, un riflesso di Moro asimmetrico e la microcefalia. Il ritardo del primo atto respiratorio è stato un fattore di rischio più specifico e sensibile rispetto ad un valore basso dell’indice di Apgar (Freeman, 1985). Durante il periodo neonatale precoce, le convulsioni del neonato sembrano essere il fattore di rischio predittivo più considerevole; un altro fattore importante è la presenza di malformazioni non coinvolgenti il sistema nervoso centrale. Le sindromi mal formative sono significativamente più frequenti nei bambini che sono stati affetti da encefalopatia alla nascita e che poi hanno sviluppato la paralisi cerebrale, rispetto la popolazione generale. Altri studi hanno osservato che una percentuale maggiore di bambini con paralisi cerebrali presentava malformazioni congenite e che i feti malformati, più frequentemente rispetto alla popolazione (Nelson, Ellenberg, 1986), mostrano anomalie nel tracciato cardiotocografico, bassi indici di Apgar e un primo atto respiratorio ritardato. Nella casistica presentata da Nelson per molti bambini affetti da paralisi cerebrale che presentavano depressioni alla nascita, erano presenti, già prima del travaglio, fattori predisponenti che possono aver aumentato la vulnerabilità agli eventi del travaglio di parto.

Encefalopatia ipossico-ischemica e condotta ostetrica durante il parto

Purtroppo, la condotta ostetrica in un’ottica di prevenzione degli esiti neurologici favorevoli non è del tutto definita, dato che non sono conosciute le cause responsabili della paralisi cerebrale, che sono numerose e che spesso risalgono a fasi precoci dello sviluppo; non si potrà, attraverso un singolo intervento, prevenire la maggioranza degli esiti neurologici sfavorevoli. Le informazioni che derivano dagli eventi avvenuti durante il travaglio, durante l’espletamento del parto e durante la fase iniziale del periodo neonatale possono permettere l’identificazione delle cause che hanno prodotto il danno, nella maggioranza dei casi, poiché, frequentemente, l’insulto è avvenuto prima dell’inizio del travaglio. I dati riferiti in questo studio, su una popolazione di 54.000 gravidanze seguite in 12 ospedali americani e con un campione di 189 bambini affetti da paralisi cerebrale, suggeriscono un relativo e modesto ruolo dei fattori che intervengono durante il travaglio e durante l’espletamento del parto nella spiegazione eziopatogenetica della paralisi cerebrale.

Da questo studio è emerso che l’associazione fra gli eventi della nascita e l’esito neurologico sfavorevole può indurre in errore, poiché in una considerevole percentuale dei casi l’esito neurologico può essere associato parzialmente o totalmente a difetti intrinseci del feto. L’importante sviluppo delle scienze neurologiche, raggiunto negli ultimi anni, ha permesso l’osservazione delle complesse interazioni dei componenti del sistema nervoso centrale durante il periodo della vita intrauterina e di interpretare l’azione di alcune interferenze sulle fisiologiche interazioni all’interno del sistema nervoso centrale, ciononostante la maggior parte delle cause della paralisi cerebrale rimangono ancora inspiegabili. Una delle certezze acquisite negli ultimi anni da molteplici studi è che l’asfissia ad insorgenza acuta è associata in maniera minore agli esiti neurologici sfavorevoli, rispetto all’ipossia intrauterina prolungata e che la maggior parte dei sopravvissuti all’asfissia neonatale hanno esiti neurologici favorevoli e solo pochi presentano una sequela neurologica grave (Addy, 1982). Ci sono varie cause antecedenti, periconcezionali e antinatali sia per l’encefalopatia neonatale che per la paralisi cerebrale. La maggior parte delle condizioni associate sia con l’encefalopatia neonatale che con paralisi cerebrale sono collegate a condizioni ante-parto difficilmente imputabili a coloro che presentano cure mediche.

Encefalopatia ipossico-ischemica nel neonato a termine

La condizione clinica in cui si verifica l’encefalopatia ipossico-ischemica è l’ischemia che in genere, ma non necessariamente, è preceduta o accompagnata da ipossiemia. L’ipossiemia danneggia il sistema nervoso centrale principalmente causando disfunzione miocardica e perdita di autoregolazione del flusso ematico cerebrale, con conseguente ischemia. Il timing e la gravità dell’ipossia e dell’ischemia, nonché l’età gestazionale del neonato sono i principali determinanti della neuropatologia della lesione.

Le cause principali di grave ipossiemia nel periodo perinatale sono: asfissia, distress respiratorio, shunt destro-sinistro. Le cause principali di ischemia invece sono: grave ipossia di qualunque origine, asfissia intrauterina con acidosi e perdita della regolazione del flusso ematico cerebrale, insufficienza cardiocircolatoria.

I fattori che determinano la topografia del danno cerebrale ipossico-ischemico perinatale sono di vario tipo:

1) intrinseca vulnerabilità sia cellulare (neuroni > oligodendroglia > astrociti > microglia > vasi) che regionale (corteccia: strati 3, 5, 6; ippocampo, sostanza bianca: subcorticale e periventricolare; troncoencefalo: collicolo inferiore; cervelletto: strato cellulare di Purkinje)

2) fattori vascolari: nell’ipossia-ischemia sistemica le lesioni si localizzano nei territori di confine tra distretti vascolari, nell’occlusione vasale la lesione è localizzata a valle dell’ostruzione

3) natura e durata dell’insulto: ipossia, ipossia-ischemia, ischemia

4) età e maturità del neonato;

5) fattori contingenti: ipoglicemia, sepsi, malnutrizione (Ottaviano et al., 2001).

Le ragioni della vulnerabilità di certi gruppi di neuroni nel sistema nervoso centrale sono diventate più chiare negli ultimi anni. Sicuramente fattori vascolari giocano un ruolo importante. Il danno neuronale è, infatti, più grave nella zona di confine tra distretti vascolari (ad esempio nella profondità dei solchi e nelle aree parasagitali), d’altra parte la stretta relazione che esiste tra la necrosi ponto-subicolare del prematuro e l’ipocapnia e l’iperossia sembra suggerire un ruolo importante della vasocostrizione in questa specifica lesione (Ottaviano et al., 2001; da Hashimoto, 1991; da Ahdab-Barmada et al., 1986).

Tuttavia la constatazione che il danno neuronale più selettivo non segua strettamente la distribuzione vascolare fa ritenere che siano in gioco altri fattori. Ad esempio la rapida maturazione e differenziazione dei neuroni nel ponte e nel subicolo al momento in cui si verifica l’insulto può rendere ragione della loro maggiore richiesta di energia, e della conseguente propensione verso l’apoptosi.

Per quanto riguarda le diverse suscettibilità regionali, è possibile che siano legate a differenze metaboliche: capacità di glicolisi anaerobica, richieste energetiche, accumulo di lattato, funzione mitocondriale, flusso di calcio, sintesi di ossido nitrico, formazione di radicali liberi e capacità di neutralizzare gli stessi.

Un ruolo hanno senz’altro anche le differenze recettoriali, per quanto riguarda i recettori del glutammato.

Le zone che al momento dell’insulto ipossico-ischemico sono particolarmente ricche di sinapsi che usano come neurotrasmettitore il glutammato sono le più danneggiate, così come avviene, ad esempio, nel periodo perinatale per i gangli della base (Ottaviano et al., 2001; da Johnston, 1995).

L’occlusione vascolare e necrosi a valle è il meccanismo patogenetico principale nella necrosi ischemica focale e multifocale. Quale sia la causa che determina l’insufficiente o assente flusso in una arteria cerebrale maggiore rimane sconosciuto in circa il 50% dei casi, il 35% dei casi viene attribuito all’asfissia, nel rimanente 15% sono state trovate anomalie di sviluppo vascolare, vascolopatie, alterazioni della coagulazione, vasospasmo, distorsione vasale da trauma sul capo o sul collo, embolia e trombosi.

Condizioni essenziali per la diagnosi di sofferenza perinatale sono: anamnesi positiva per sofferenza fetale (decelerazioni tardive al cardiotocogramma, liquido amniotico tinto di meconio, acidosi metabolica con pH < 7,1 e/o EB ≤ 10 mEq/l nelle prime 2 ore di vita) depressione alla nascita con necessità di rianimazione, e sintomi neurologici precoci (Ottaviano et al., 2001).

Encefalopatia ipossico-ischemica: sintomi clinici

Dal punto di vista clinico l’encefalopatia ipossico-ischemica consiste in un pattern caratteristico di segni e sintomi neurologici che seguono l’asfissia perinatale e che progrediscono con modalità pressoché costante. La severità di tali segni dipende in gran parte dalla durata dell’asfissia cui il neonato è stato sottoposto e può essere valutata in base alle manifestazioni cliniche del soggetto (Volpe, 2001).

I segni clinici essenziali dell’encefalopatia ipossico-ischemica sono (Careddu et al., 2002):

  • convulsioni
  • alterazioni dello stato di coscienza (1. ipereccitabilità, 2. letargia, 3. coma)
  • anomalie posturali
  • scomparsa dei riflessi arcaici
  • anomalie del ritmo cardiorespiratorio (apnee, bradicardia)
  • tensione della fontanella anteriore.

La sintomatologia neurologica del neonato a termine asfittico è stata classificata da Sarnat e Sarnat in 3 stadi progressivi di gravità (Ottaviano et al., 2001; da Sarnat, Sarnat, 1976):

  • Stadio I (asfissia lieve): ipereccitabilità, esame neurologico ed EEG normali, veglia protratta, riflessi vivaci, tono normale o aumentato, midriasi e tachicardia
  • Stadio II (asfissia moderata): letargia, apatia, ipotonia, riflessi neonatali torpidi, convulsioni, miosi, bradicardia, EEG con punte/onde
  • Stadio III (asfissia grave): coma, riduzione o assenza di riflessi, flaccidità, raramente convulsioni, variabilità della dilatazione pupillare, variabilità della frequenza cardiaca, EEG inattivo o abnorme.

La stadiazione clinica alla nascita o subito dopo è fondamentale per determinare la severità del danno ipossico-ischemico, per iniziare il trattamento più appropriato e per stabilire la prognosi. Anche l’evoluzione, con il passaggio da uno stadio all’altro è un importante indice prognostico (Ottaviano et al., 2001; da Amiel-Tison, Ellison, 1986; da Lipper et al., 1986).

A volte i neonati appaiono relativamente normali nelle prime ore di vita per poi peggiorare rapidamente quando insorgono le crisi convulsive, altre volte sono in uno stadio 2 o 3 subito dopo la nascita. L’attività convulsiva compare nel 50-70% dei neonati asfittici, specialmente a termine, e nella maggior parte dei casi nelle prime 24 ore con un esordio tanto più precoce quanto più è grave l’asfissia. Quelli che sopravvivono mostrano un miglioramento nei giorni o nelle settimane seguenti, il tempo impiegato per il recupero delle normali funzioni neurologiche è anch’esso un fattore prognostico a lungo termine.

Oltre alle disfunzioni neurologiche, in circa il 50% dei casi l’asfissia determina alterazioni multi-organo riguardanti il rene, il cuore, i polmoni, l’intestino, con conseguenti alterazioni metaboliche quali ipoglicemia, ipocalcemia, alterazioni idro elettrolitiche, iperammoniemia, che contribuiscono ad aggravare le condizioni di un sistema nervoso già compromesso (Ottaviano et al., 2001).

Encefalopatia ipossico-ischemica: diagnosi

Riguardo la diagnosi, dal punto di vista strumentale, l’elettroencefalografia (EEG) rivela che: nel grado 1 della classificazione di Sarnat e Sarnat l’EEG è normale sia nella veglia che nel sonno attivo e calmo, il ciclo del sonno è presente mentre la durata degli stati è alterata. Nel grado 2 il tracciato è di basso voltaggio, caratterizzato da ritmi con frequenza variabile dalla banda delta alla beta, a volte è del tipo “basso voltaggio più grafo elementi patologici”, il ciclo del sonno è presente ma spesso alterato, frequenti le crisi elettrocliniche. Nel grado 3 il tracciato è prevalentemente inattivo o parossistico, il ciclo del sonno è assente e sono presenti crisi con dissociazione elettroclinica. Per quanto riguarda la prognosi questa è favorevole per il grado 1, gravissima per il grado 3 in cui le caratteristiche del tracciato riflettono una necrosi neuronale corticale diffusa, mentre per il grado 2 è favorevole se i segni clinici ed EEG tornano nella norma entro 5-7 giorni (Ottaviano et al., 2001; Allemand et al., 1983).

Una forma semplificata di elettroencefalogramma, con soli 2 canali, può essere ottenuta in continuo con il cerebral function monitor.

Nonostante questa tecnica possa rilevare solamente le alterazioni maggiori dell’attività elettrica cerebrale (tracciato piatto, di basso voltaggio, burst suppression, crisi convulsive), senza possibilità di studiare le varie zone cerebrali, offre l’incommensurabile vantaggio di poter essere eseguita nell’arco delle 24 ore e di rilevare quindi in tempo reale non solo eventuali cambiamenti dell’attività elettrica ma anche il controllo della terapia sulle crisi elettriche o in neonati curarizzati.

Infine, il tracciato elettroencefalografico e le sue modifiche nel corso dei giorni, sono uno strumento di grande valore considerato anche la facilità di esecuzione al letto del paziente (Ottaviano et al., 2001).

Quando c’è il sospetto di un’encefalopatia nel neonato, oltre ad utilizzare l’EEG, viene sempre effettuata una valutazione dell’encefalo attraverso la fontanella bregmatica (Careddu et al., 2002).  L’ecografia transfontanellare è molto utile per individuare le lesioni dei gangli della base, del talamo, la leucomalacia periventricolare, e danni ischemici focali e multifocali, ma non è in grado di rilevare lesioni corticali o del tronco encefalo in quanto spesso molto piccole o comunque troppo periferiche. Essa è la tecnica più utilizzata soprattutto per la possibilità di esecuzione al letto del paziente, rapidità, basso costo e innocuità, anche se non è sicuramente la tecnica appropriata per lo studio di quelle zone che frequentemente sono danneggiate nel neonato a termine quali la corteccia cerebrale o il tronco encefalo.

D’altro canto la TAC, che pur non essendo eseguibile al letto del paziente, richiede comunque dei tempi relativamente brevi per l’acquisizione delle immagini, fornisce importanti informazioni anche riguardo il danno corticale nella necrosi neuronale selettiva, ma il suo valore è massimo diverse settimane dopo l’insulto.

L’indagine sicuramente più accurata per dovizia di particolari, e più precoce nello stabilire l’entità del danno è la risonanza magnetica nucleare sia tradizionale ma soprattutto con le nuove applicazioni in spettroscopia e diffusione. Queste nuove applicazioni infatti non solo consentono una maggiore sensibilità nell’individuazione del danno ma permettono di anticipare l’indagine alle prime ore di vita consentendo di formulare una prognosi tanto accurata quanto precoce.

La risonanza magnetica in spettroscopia (H-MRS) è stata utilizzata per studiare i cambiamenti biochimici associati con il danno cerebrale (Ottaviano et al., 2001; da Amess et al., 1999).

Encefalopatia ipossico-ischemica: prognosi

Prendendo in considerazione la prognosi, alcuni aspetti della sindrome neurologica neonatale sono particolarmente utili per formularla: la gravità della sintomatologia, la presenza e il tempo di insorgenza delle convulsioni, la durata delle anomalie neurologiche.

Neonati con sindrome neurologica lieve hanno in genere un recupero completo, quelli con la forma grave o muoiono (80%) o presentano deficit (20%).

Pur non essendo chiaro se le convulsioni di per sé aggravino il danno cerebrale o siano l’espressione di una maggiore compromissione, quando si verificano il rischio di sequele aumenta di 2-5 volte, tanto più quanto più precoce è l’insorgenza.

Per quanto concerne la durata dei sintomi è esperienza comune che il neonato che presenta una sindrome neurologica che dura meno di 1-2 settimane ha ottime probabilità di avere uno sviluppo normale nei primi anni di vita, anche se poco è noto riguardo alla performance in età scolare (Ottaviano et al., 2001; da Robertson, Finer, 1988; da Robertson et al., 1989).

Oltre al quadro clinico molte informazioni utili per formulare la prognosi possono essere date dalle indagini strumentali.

Alcuni studi hanno dimostrato una diminuzione del rapporto NAA/Cho e NAA/Cr e un aumento del rapporto Cho/Cr in neonati asfittici con gravi deficit dello sviluppo all’età di 1 anno. Inoltre sono stati dimostrati un aumento del lattato e una diminuzione del NAA nel talamo e un aumento del lattato e una riduzione della Cr nei gangli della base dei neonati asfittici (Ottaviano et al., 2001; da Huppi , Lazeyras, 2001; da Amess, 1999).

Encefalopatia ipossico-ischemica nel neonato pretermine

Il danno cerebrale ipossico-ischemico nel pretermine differisce da quello del neonato a termine da un punto di vista neuropatologico e fisiopatologico in relazione al differente grado di maturazione sia del tessuto cerebrale che del letto vascolare.

Nel pretermine le lesioni cerebrali predominanti sono:

1) l’emorragia della zona germinativa

2) l’emorragia intraventricolare

3) l’emorragia parenchimale

4) la leucomalacia periventricolare.

Nei neonati prematuri una zona di confine tra letti vascolari è localizzata nella sostanza bianca periventricolare adiacente ai margini esterni dei ventricoli laterali. Queste zone sono situate tra 3 e 10 mm dalla parete del ventricolo laterale tra i rami terminali delle arterie “centrifughe” che partono dal plesso corioideo e le arterie “centripete” che originano sulla superficie dell’encefalo.

Il numero dei vasi centrifughi cresce con l’età gestazionale, la loro relativa esiguità nel neonato pretermine rende ragione della vulnerabilità di questa zona al danno ischemico. La relativa salvaguardia della corteccia cerebrale nel prematuro potrebbe essere dovuta alla presenza di una ricca rete di anastomosi tra le arterie meningee e le cerebrali anteriore, media e posteriore. Queste anastomosi, particolarmente prominenti nel pretermine, tendono a diminuire con l’età gestazionale fino a una pressoché completa scomparsa a termine di gravidanza.

E’ ormai noto che due fattori, la prematurità e l’insufficienza respiratoria acuta che richiede ventilazione meccanica, sono fortemente associati a emorragia peri-intraventricolare.

La prematurità è condizione essenziale perché si abbia la presenza di una matrice germinativa metabolicamente attiva e riccamente vascolarizzata, ed inoltre è noto che circa il 12% dei VLBW (Very Low Birth Weight) sani, presentano emorragie della matrice germinativa. Il ruolo dell’insufficienza respiratoria è probabilmente legato alle alterazioni del flusso ematico cerebrale secondarie all’ipossia, all’ipercapnia e al danno ipossico-ischemico dell’endotelio della matrice germinativa.

Altri eventi neonatali quali il pneumotorace, l’ipotensione, l’acidosi, i disturbi della coagulazione, l’espansione della volemia, l’infusione di bicarbonato, il trasporto, sono stati correlati con un rischio aumentato di emorragia, ma queste condizioni forse riflettono più la gravità del neonato e la necessità di trattamenti aggressivi piuttosto che un rapporto di causa-effetto con l’emorragia (Ottaviano et al., 2001).

L’ipotesi prevalente basata sugli studi neuro anatomici di Hambleton e Wigglesworth (Ottaviano et al., 2001; da Hambleton , Wigglesworth, 1976) è che alterazioni della pressione arteriosa e del flusso ematico nel letto vascolare immaturo della matrice germinativa possano iniziare il sanguinamento.

Due meccanismi sono stati proposti. Il primo prevede che la vasodilatazione cerebrale secondaria all’ipossia e alla ipercapnia porti ad un iperafflusso nel letto capillare della matrice germinativa con incremento della pressione e conseguente rottura dei capillari. Il secondo presuppone che sia l’ipotensione ad alterare l’integrità vascolare, tanto che un successivo incremento della pressione arteriosa possa comportare un versamento dai capillari già lesionati (Ottaviano et al., 2001; da Perry et al., 1990). Entrambi questi meccanismi presuppongono uno scarso controllo dell’autoregolazione del flusso ematico cerebrale che è noto avvenire per un intervallo ristretto di variazioni di pressione nel neonato prematuro. L’ossigeno e l’anidride carbonica sono potenti regolatori del flusso ematico cerebrale. In particolare l’ipossia e l’ipercapnia causano un marcato incremento del flusso cerebrale mentre l’iperossia e l’ipocapnia hanno un effetto opposto anche se meno drammatico. Il flusso ematico cerebrale risponde all’ipossia quando la pressione parziale di ossigeno scende a valori estremamente bassi (12-15 mmHg), mentre la regolazione con la PCO2 avviene per valori fisiologici. L’ipossia e l’ipercapnia possono reversibilmente sopraffare i meccanismi di regolazione del flusso ematico cerebrale legati alla pressione e in queste circostanze il flusso cerebrale diventa “passivo” alle fluttuazioni di pressione, pertanto piccole variazioni della pressione arteriosa possono scatenare l’emorragia.

Per quanto riguarda la leucomalacia periventricolare, oltre a ricordare l’intrinseca vulnerabilità della sostanza bianca periventricolare, in particolare dei giovani, e il non ancora completo differenziamento degli oligodendrociti del prematuro, bisogna tenere presente che le zone che più risentono delle fluttuazioni dell’irrorazione cerebrale sono le cosiddette zone di confine.

La vascolarizzazione dell’encefalo del prematuro è assicurata dai rami penetranti lunghi e corti che dalla superficie della pia madre arrivano rispettivamente nella sostanza bianca della zona profonda periventricolare e nella porzione più sottocorticale. Si tratta di rami terminali che derivano prevalentemente dalla arteria cerebrale media e in minore misura dalle arterie cerebrali anteriore e posteriore e che si sviluppano nell’ultimo trimestre di gravidanza. La capacità di resistere all’insulto dipende essenzialmente dallo stato di sviluppo di questa vascolarizzazione ed è proporzionale perciò all’età gestazionale (Ottaviano et al., 2001).

L’identificazione clinica del neonato prematuro asfittico è più difficile rispetto al neonato a termine a causa dell’immaturità funzionale del sistema nervoso centrale, tanto che segni clinici che indicano depressione del sistema nervoso centrale del neonato a termine possono rappresentare il fisiologico livello di maturazione di un pretermine. In particolare tanto più un neonato è prematuro, tanto più sarà ipotonico, meno vigile e meno saranno sviluppati i riflessi arcaici. Sulla base di scale di valutazione neurologica dei neonati prematuri, il clinico può stabilire se il tono muscolare attivo e passivo, gli stati comportamentali, e i riflessi siano o meno adeguati all’età gestazionale, identificando così anche nel pretermine i segni precoci di una encefalopatia ipossico-ischemica (Ottaviano et al., 2001; da Allen, Capute, 1989; da Dubowitz, 1984).

Considerando gli strumenti utilizzati per la rilevazione di questa patologia, l’elettroencefalogramma è utile per confermare o escludere la presenza di crisi convulsive e attraverso lo studio dell’attività di fondo di stabilire la prognosi a distanza.

Per quanto riguarda la leucomalacia periventricolare è possibile individuare quelle ecodensità periventricolari che esiteranno in lesioni cistiche sulla base del reperto caratteristico di punte rolandiche positive.

Invece, l’ecografia cerebrale transfontanellare, tecnica facente parte delle neuroimmagini, permette di studiare adeguatamente proprio quelle zone ove per ragioni anatomiche si manifesta maggiormente il danno ipossico-ischemico e di usare gli ultrasuoni e non le radiazioni ionizzanti.

Alcune limitazioni sono date dalla difficoltà di distinguere piccole emorragie subependimali da emorragie della matrice germinativa, di diagnosticare piccole quantità di sangue nei ventricoli laterali, soprattutto se si mantengono di dimensioni normali e dalla qualità dell’immagine ottenibile.

La TAC può essere utile per distinguere la natura emorragica o ischemica delle lesioni iperecogene adiacenti ai ventricoli laterali ed al terzo ventricolo anche se il tempo di comparsa, soprattutto nel neonato pretermine, ci può essere di aiuto, essendo probabilmente emorragica una lesione che compare nei primi due giorni di vita ed ischemica quella che compare da giorni fino a settimane dopo la nascita (Ottaviano et al., 2001).

Encefalopatia ipossico-ischemica nel neonato pretermine: prognosi

Riguardo la prognosi, l’andamento di questa patologia nel neonato pretermine può sfociare in un’emorragia di diversità entità e nell’idrocefalia.

Emorragia piccola (gradi 1 e 2 secondo Papile): il sanguinamento è solo a carico della matrice germinativa o irrompe anche nei ventricoli occupandone non più del 10% del volume (grado 1) o fino al 50%, senza distenderli. L’outcome neuro comportamentale di questi bambini è simile ai pretermine di pari età gestazionale senza emorragia: circa il 10% ha deficit maggiori, prevalentemente una diplegia spastica. In età prescolare presentano però una minore coordinazione visuo-motoria, pertanto sono più a rischio per disturbi dell’apprendimento in età scolare.

  • Emorragia moderata (grado 3 secondo Papile): l’emorragia interessa estesamente i ventricoli (più del 50% del volume) causandone la dilatazione. Circa il 40% presenta deficit neurologici maggiori sia motori (diplegia e quadriplegia) che cognitivi. Nelle prime classi elementari circa il 50% ha bisogno di un insegnante di sostegno, e la percentuale sale nelle età successive
  • Emorragia severa (grado 4 secondo Papile): l’emorragia interessa il parenchima cerebrale. Circa l’80% manifesta deficit neurologici maggiori. Tra i disturbi motori l’emiparesi controlaterale al lato dell’emorragia è il più frequente
  • Idrocefalo post-emorragico: l’outcome dei bambini con idrocefalo comunicante che rispondono al trattamento con punture lombari seriate è lo stesso dei bambini con pari grado di emorragia senza dilatazione ventricolare (Ottaviano et al., 2001; da Papile et al., 1983).

Quelli con idrocefalo ostruttivo che richiede intervento chirurgico hanno una prognosi meno favorevole, con un rischio circa doppio di deficit maggiori.

L’intervento stesso di derivazione ventricolo peritoneale è gravato da una discreta mortalità (5-10%) nel post-operatorio, e tra i sopravvissuti il 70% andrà in contro ad infezioni della valvola o malfunzionamenti (Ottaviano et al., 2001; da Dykes et al., 1989).

Al momento attuale sembra che le emorragie peri-intraventricolari di grado moderato-grave siano predittive di outcome sfavorevole. Molto probabilmente non è l’emorragia di per sé a causare i danni quanto piuttosto le lesioni macroscopiche (leucomalacia) o microscopiche e funzionali (attualmente non diagnosticabili con la moderne tecniche di neuroimmagini) ad essa associate.

Prendendo in considerazione il trattamento, lo scopo principale è mantenere adeguate perfusione e ventilazione. Tutti gli sforzi vanno diretti al mantenimento di valori normali di PO2, PCO2, pH, osmolarità, glicemia, e un’adeguata pressione sistemica.

Questo comporta un uso ponderato di colloidi e cercare di ridurre al minimo tutti quegli eventi che causano fluttuazioni della pressione arteriosa quali apnee, pneumotorace, agitazione, procedure dolorose, manovre di accudimento, infusioni endovenose (Ottaviano et al., 2001).

L’emorragia intraventricolare di per sé non richiede nessun trattamento. In passato è stato tentato un approccio terapeutico con punture lombari successive nell’intento di evacuare il sangue e ridurre così l’incidenza di idrocefalo post-emorragico, ma senza successo (Ottaviano et al., 2001; da Ventriculomegaly Trial Group, 1990).

Il trattamento dell’idrocefalo post-emorragico progressivo include, l’esecuzione di punture lombari, la somministrazione di farmaci che riducono la produzione di liquor, la ventricolostomia e lo shunt ventricolo peritoneale. La risposta a questi trattamenti dipende essenzialmente dal tipo di idrocefalo.

Nel caso dell’idrocefalo non comunicante o ostruttivo con rapida dilatazione ventricolare e ipertensione endocranica le punture lombari non sono risolutive. Benché in questi casi la terapia definitiva sia rappresentata dalla derivazione ventricolo-peritoneale, se il bambino è troppo piccolo o non è in condizioni di subire questo intervento si può temporaneamente inserire un reservoir ventricolare da cui eseguire punture quotidianamente.

Nell’idrocefalo comunicante la dilatazione è lenta e progressiva e non comporta ipertensione endocranica. In questi casi è raccomandata l’esecuzione di punture lombari e il tentativo con farmaci che riducono la produzione di liquor. Durante il trattamento è necessario un controllo con ecografia cerebrale settimanale per verificare il buon esito della terapia, al termine del trattamento il monitoraggio va proseguito per diverse settimane (Ottaviano et al., 2001).

Sonno inadeguato: conseguenze per la salute e costo per la collettività

Sonno inadeguato per quantità o qualità: nel mondo ne soffrono milioni di persone. Le conseguenze sulla salute sono note da tempo. Uno studio pubblicato sulla rivista SLEEP ha calcolato quanto costa questo problema alla collettività in termini economici.

Un problema che sta assumendo una certa importanza in termini di salute pubblica, riguarda la qualità del sonno. Più di un adulto su tre soffre di disturbi del sonno, e come dimostrato in uno studio condotto dalla rivista SLEEP pubblicato dalla Oxford University Press, questo potrebbe avere gravi conseguenze economiche.

Sonno inadeguato: i numeri di un problema su scala mondiale

Sondaggi condotti diversi anni fa in nazioni occidentali, avevano dimostrato che tra il 20 ed il 30% degli intervistati lamentavano di avere regolarmente un sonno inadeguato. Sondaggi recenti invece hanno fatto emergere come questo problema sia in aumento: ad oggi, in Australia, si calcola una percentuale tra il 33 ed il 45% di adulti con disturbi del sonno.

L’aumento di questo problema anche nelle altre nazioni, lo si può comprendere attraverso i dati demografici. Negli Stati Uniti, il 35% degli adulti non dorme le 7 ore raccomandate a notte. Il 30% dei canadesi ritengono di non dormire abbastanza. Il 37% degli inglesi, il 28% in Singapore e il 26% dei francesi riportano sonno insufficiente.

Inoltre un sonno inadeguato è risultato essere associato a diversi problemi: cali di attenzione; difficoltà a rimanere concentrati; motivazione ridotta; confusione; irritabilità; elaborazione delle informazioni e giudizio rallentati o difettosi; diminuzione nei tempi di reazione; indifferenza e perdita di empatia; rischio di attacchi di cuore, ictus, ipertensione, obesità, diabete e depressione.

Sonno inadeguato: le conseguenze economiche

I ricercatori hanno cercato di calcolare in termini economici le conseguenze che un sonno inadeguato può causare. Sono stati analizzati i database nazionali e dati di interviste, in modo da poter valutare i costi finanziari e non.

I costi considerati erano: costi finanziari associati all’assistenza sanitaria, cure non del settore sanitario, perdite di produttività, incidenti stradali, perdita di sgravi di tassazione e pagamenti fiscali, costi non finanziari riguardo perdita di benessere.

Il costo finanziario calcolato era di circa 17 miliardi, e comprendeva:

  • costi direttamente causati da disturbi del sonno di 160 milioni e più di un miliardo per condizioni associate;
  • perdite di produttività di circa 12 miliardi (5 miliardi per riduzione posti di lavoro, poco meno di un miliardo per morti premature, più di un miliardo per assenteismo, 4 miliardi per cattiva performance sul lavoro);
  • 2 miliardi e mezzo per incidenti non medici; perdita lorda di 1 miliardo e mezzo.

Il costo invece per diminuzione del benessere è pari a 27 miliardi. In totale in Australia nel 2016-2017, per una popolazione di 24,8 milioni, è stato stimato un costo di più di 45 miliardi per sonno inadeguato.

Sonno inadeguato: la soluzione potrebbe essere la prevenzione

Dunque, i costi finanziari e non finanziari causati da disturbi del sonno, sono notevoli. 17 miliardi di costi finanziari, che rappresentano l’1,55% del prodotto interno lordo australiano. Il costo non finanziario di 27 miliardi, rappresenta il 4,6% il carico totale di malattia annuale.

Secondo i ricercatori, bisognerebbe fare investimenti sostanziali in misure sanitarie preventive per affrontare la questione attraverso l’educazione.

I governi sono riusciti, attraverso l’istruzione pubblica, la regolamentazione e altre iniziative, a gestire i problemi che causavano elevati costi di sanità pubblica. In tale maniera sono stati combattuti problemi come il fumo, il diabete e la depressione.

I ricercatori ritengono che anche i problemi riguardo il sonno meritano una tale attenzione e riferiscono:

Siamo nel mezzo di un’epidemia mondiale di sonno inadeguato…oltre ad avere un effetto sul nostro benessere, ha un enorme impatto sull’economia del paese. Bisogna affrontare il problema attraverso l’istruzione, la regolamentazione ed altre iniziative per dare benefici sostanziali in termini di salute ed economia.

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