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Humans of New York: quando i social network promuovono l’alfabetizzazione emotiva

Con il blog Hony, Brandon Stanton ha dimostrato come i social network possano favorire l'alfabetizzazione emotiva e la comprensione dell'altro - Psicologia

Di Redazione

Pubblicato il 09 Mar. 2015

Marco Pontalti, Open School Studi Cognitivi

La letteratura scientifica sembra far emergere che l’uso dei social network abbia ricadute sull’ uomo dal punto di vista psicologico, in particolare, nel processo di riconoscimento ed espressione emotiva (di alfabetizzazione emotiva), generando comportamenti che possono essere funzionali o disfunzionali.

Facebook, Instagram, Twitter, Google+ sono solo alcune delle piattaforme social che dal loro avvento ad oggi hanno conquistato in maniera esponenziale il Web, primeggiando sulla rete sia per numero di utenti attivi che per media di ore spese sui social network.

Limitandosi al contesto italiano, per esempio, gli account social attivi sono all’incirca 28 milioni, con un livello di penetrazione  del 46%, dato superiore alla media mondiale del 29%, in linea con quella Europea. Sebbene il numero di account attivi non indichi il numero di utenti unici (un utente potrebbe avere più account), si potrebbe ipotizzare che circa un italiano su due/tre ha almeno un profilo social e lo usa attivamente. Inoltre, dato non meno interessante, è che un italiano, sebbene mediamente navighi circa 6.7 ore su Internet (accedendo sia dal PC che dal mobile), dedica ben 2.5 ore ai soli social media (Della Dora, 2015).

Non è una novità che i social media abbiano cambiato radicalmente l’utilizzo di Internet. Inoltre, come si vedrà più in dettaglio successivamente, la letteratura scientifica sembra far emergere che l’uso dei social network abbia ricadute sull’ uomo dal punto di vista psicologico, in particolare, nel processo di riconoscimento ed espressione emotiva (di alfabetizzazione emotiva), generando comportamenti che possono essere funzionali o disfunzionali (Bernardi & Pennati, 2012; Riva, 2010; Goleman, 2011; Galimberti, 2007).

Riva (2010), per esempio, ha evidenziato come le persone possano offrire supporto ed attività spontaneamante e gratuitamente alla luce del riconoscimento dei bisogni degli individui all’interno della propria Rete. Tuttavia, ha altrettanto sottolineato come un eccessivo uso delle piattaforme social possa favorire il disinteresse emotivo dei soggetti legato ad un loro deficit di lettura delle emozioni altrui.

L’interazione con gli altri genera un’esperienza sociale che consente di comportarsi in un certo modo e di intraprendere delle azioni all’ interno di un contesto di riferimento. Questo perché ognuno di noi si contraddistingue da un’identità sociale, intesa come l’insieme di identificazioni e sentimenti relativi al contesto di appartenenza (Smith & Mackie, 2004), e da una rete sociale di supporto, ossia tutte le persone legate a noi da un certo tipo di relazione. Se l’identità sociale definisce la propria “posizione” all’ interno di una determinata situazione (Riva, 2010; Davies e Harré, 1990), per esempio, essere psicologo nello studio professionale e cestista nella squadra di pallacanestro, la rete sociale distingue i rapporti familiari da quelli amicali.

I social network, con la caratteristica di dare agli interlocutori la libera gestione e personalizzazione di un proprio profilo e con la capacità di rompere le barriere spazio-temporali per interagire con gli altri, permettono di espandere o modificare esponenzialmente sia la propria identità sociale sia la propria rete sociale. Così si può decidere di essere chi si vuole essere e di appartenere a innumerevoli reti sociali, in qualsiasi momento e luogo. Le piattaforme social potrebbero essere intese, in altre parole, «uno spazio sociale ibrido, l’interrealtà, che permette di fare entrare il virtuale nel nostro mondo reale e viceversa, offrendo a tutti noi uno strumento potentissimo per creare e/o modificare la nostra esperienza sociale» (Riva, 2010, p.29).

Pertanto i social network aprono la strada a moltissime opportunità, valicando limiti come probabilmente nessun altro medium è stato in grado di fare. Tuttavia, essendo per definizione dei media, e pertanto degli strumenti di mediazione, essi si interpongono tra gli interlocutori: per quanto l’esperienza sociale possa essere elevata, i social media estrapolano la corporeità del singolo individuo dall’interazione sociale e la sostituiscono con un messaggio composto da un insieme di informazioni frammentate di natura multimediale (Riva 2010). Per esempio, il volto triste di una ragazza potrebbe essere sostituito sul suo profilo Facebook da un link che rimanda ad una canzone straziante su Youtube oppure su quello Instragram da una fotografia che ritrae una giornata di pioggia con una didascalia sottostante “Mi manchi”.

Diventando un post, una foto, un link, una notifica, etc. la mancanza del corpo toglie tutta una serie di informazioni presenti nell’interazione face-to-face. L’attività dei neuroni bimodali motori e percettivi, o neuroni mirrors (Rizzolati & Sinigalia, 2006), mentre si esegue un’azione verso oggetti e mentre si osserva un interlocutore svolgere la medesima azione, giustificherebbe l’importanza di tali informazioni: queste infatti vengono inconsciamente rappresentate o simulate nella mente, come se si stesse compiendo un’azione simile o vivendo la medesima azione. Mentre A osserva che B allunga la mano per prendere una posata, tale azione viene simulata nella mente di A attraverso l’attivazione dei neuroni mirrors, consentendo di vivere la medesima azione di B. Tale rappresentazione permetterebbe ad A, per esempio, di prevenire  ed aiutare B avvicinandogli la posata, e/o di riconoscere che B ha bisogno di essere aiutato.

Appare evidente come la presenza del corpo sia un elemento importante e facilitante nel processo di comprensione delle intenzioni ed emozioni altrui, ossia del processo di alfabetizzazione emotiva. Di contro, quando gli interlocutori sono privati della presenza del corpo e interagiscono assiduamente attraverso un medium, aumenta il rischio di favorire l’«analfabetismo emotivo» (Goleman, 2011).

Un basso livello di conoscenza del lessico emotivo e di lettura delle relazioni sociali, costituisce un buon predittore di comportamenti disfunzionali quali il bullismo, le dipendenze dall’alcol e da sostanze stupefacenti (Goleman, 2011) o la psicopatia (Galimberti, 2007). Potrebbe anche favorire la cyberdipendenza e un insieme di sensazioni di malessere come depressione, ansia, tremori e nausee.

In poche parole, si potrebbe dire che a limitare il processo di alfabetizzazione emotiva sia l’assenza della corporietà degli interlocutori, delle informazioni necessarie per il riconoscimento e l’espressione degli stati mentali ed emotivi. Ciò vuol dire che se si volessero promuovere comportamenti funzionali alla crescita della competenza emotiva sui social network, bisognerebbe predisporre quella dose di informazioni in grado di favorire la lettura efficace delle emozioni altrui.

Brendon Stanton, volente o nolente, sembra essere riuscito nell’ intento. Humans of New York (http://www.humansofnewyork.com), HONY da qui in poi, è il suo blog, nato da un progetto personale di fare un censimento fotografico di New York: camminare per le vie della città, chiedere ai passanti di poterli fotografare, pubblicare le foto categorizzandole per borghi. L’incontro con lo sconosciuto e l’inevitabile scambio di parole, ha portato Brendon a integrare una variante alla sua idea originaria: associare alla fotografia pubblicata, una didascalia che ripercorresse uno stralcio di conversazione con il soggetto della fotografia stessa.

Così HONY è diventato molto più di un censimento fotografico, si è infatti trasformato in un immenso raccoglitore di piccole biografie. La straordinaria abilità di Brandon di entrare in sintonia con lo sconosciuto gli ha dato la possibilità di dar voce ad un pezzo della sua vita. Attivando successivamente le pagine su Facebook e su Instagram, grazie alla loro caratteristica social, la sua storia prende vita e sembra fondersi col collettivo: i fans e i followers la vedono, la leggono, la commentano, la condividono, ma soprattutto sembrano esperirla come se fosse propria, riconoscendo i suoi pensieri e vivendo le sue emozioni. Tra le righe dei commenti si possono trovare parole di supporto per storie tristi, di approvazione per quelle di successo, di stupore per quelle bizzarre e via discorrendo.

Brandon ha sì permesso di presentare lo sconosciuto per come davvero è, «unico ed inimitabile» (Girolami, 2014), ma lo ha anche reso presente e “corporeo”, dotato di mente propria ed emozioni. Ha infatti consentito di fondere la sua storia con le proprie esperienze, perché per quanto essa sia singolare, si troveranno in essa sensazioni, azioni e pensieri che sono vicini alle proprie storie di vita. In questo modo lo sconosciuto non è poi così tanto lontano e diverso da ciascuno di noi: non si è soli ad aver esperito determinate esperienze, c’è anche lui.

HONY insomma rappresenterebbe un ottimo esempio di come la narrazione della propria storia per immagini e parole sui social media abbia consentito di promuovere comportamenti funzionali al processo di riconoscimento e di comprensione delle emozioni altrui, all’alfabetizzazione emotiva appunto.

Oggi la pagina Facebook di HONY conta quasi 12 milioni di “likes”, mentre quella di Instagram più di 2.5 milioni di followers. Ogni fotoritratto raccoglie migliaia e migliaia di commenti di fans e followers. Il suo libro, basato sull’omonimo blog, è restato per più di 28 settimane di fila nella classifica dei bestellers del New York Times. E i numeri sembrano non fermarsi. Brandon è stato nominato dal Time come uno tra i 30 under 30 che saranno in grado di cambiare il mondo (Schweitzer, 2013). Le Nazioni Unite lo hanno recentemente sponsorizzato per documentare la vita di strada di cinque zone di guerra (Kweifio-Okai, 2014). Molti bloggers si sono ispirati al suo sito e la mappa mondiale ci presenta una rete di centinaia di spinoffs. Per esempio, in Italia, c’è Umani a Milano (http://umaniamilano.tumblr.com) che, in maniera non tanto dissimile, ritrae persone incontrate a Milano e stralci di interviste.

Infine, Brandon è stato in grado attraverso le storie altrui di coinvolgere, di far ridere e arrabbiare milioni di persone, ma anche di far commuovere. Alcuni episodi di vita hanno così toccato il cuore degli utenti che li hanno mossi spontaneamente a mettere in atto comportamenti altruistici, tra i quali, il dono.

Il più recente riguarda la storia di Vidal, un tredicenne che vive in una delle zone di New York con il più alto tasso di criminalità, Brownsville. Egli racconta che sta frequentando una scuola, Mott Hall Brigges Accademy, la cui direttrice Lopez gli è fonte di ispirazione.

Così dice di lei: “Quando combiniamo dei guai lei non ci sospende, ma ci convoca nel suo ufficio e ci spiega come la società viene costruita intorno a noi. Ci dice che ogni volta che un ragazzo non va a scuola, una nuova cella viene costruita nelle prigioni”.

Il post ha avuto più di un milione di visualizzazioni e migliaia di condivisioni.

Successivamente, Brandon decide di far visita alla scuola e di incontrare la signora Lopez. Viene a sapere che sta raccogliendo fondi per dare la possibilità ad allievi di visitare l’Università di Harvard. Si unisce alla causa con l’obiettivo di riuscire a raccogliere 100 mila dollari. Nel giro di 4 giorni hanno raccolto più di 700 mila dollari, permettendo agli studenti della scuola di beneficiare di programmi estivi dell’Università di Harvard per i prossimi dieci anni. Inoltre è stato possibile istituire un fondo, “The Scholarship Fund Vidal”, per assegnare una borsa di studio all’ anno per lo studente più meritevole. Il successo della campagna ha sorpreso il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama il quale ha invitato Brandon, la signora Lopez e Vidal alla Casa Bianca il 5 febbraio del 2015 (Schulman, 2015).

 

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