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La stimolazione cognitiva per soggetti con Mild Cognitive Impairment (MCI)

Lo stadio di deterioramento cognitivo lieve viene definito con il termine di Mild Cognitive Impairment (MCI). Rappresenta una sindrome neurologica che fa riferimento ad un declino cognitivo superiore a quanto previsto per età e livello di istruzione di un individuo ma che lascia preservate le principali attività della vita quotidiana, di conseguenza può essere inteso come una fase intermedia tra il normale invecchiamento e la demenza vera e propria.

Ilaria Biasion – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Bolzano

 

Si deve incominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli di ricordi,
per capire che in essa consiste la nostra vita…
La nostra memoria è la nostra coerenza,
la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire.
Senza di essa non siamo nulla.

Luis Bunuel

 

La Mild Cognitive Impairment (MCI) è una condizione clinica che è stata inquadrata negli anni dai vari studiosi in modi diversi e con classificazioni diverse al fine di giungere in modo sempre più dettagliato e preciso alla definizione di una condizione pre-demenza sulla quale poter intervenire.

Secondo alcuni studi, non tutti i pazienti affetti da Mild Cognitive Impairment convertono verso la demenza, il 60% di loro rimane infatti cognitivamente stabile in un arco temporale di 2-3 anni (De Jager, 2005; Johnson, 1998) e pare addirittura, secondo altri studi, che il 44% dei soggetti definiti MCI torni ad una condizione di normalità dopo un anno (Ganguli, 2004; Ritchie, 2004).

Il fatto che esistano in letteratura numerosi studi relativi alla stabilità cognitiva e alla reversibilità dei soggetti affetti da Mild Cognitive Impairment potrebbe essere dovuto al fatto che molti sono i fattori, oltre alla malattia neurodegenerativa, che possono influenzare le prestazioni cognitive nella popolazione anziana, come ad esempio la scolarità, i fattori di rischio vascolare, lo stato psichiatrico, l’assunzione di farmaci anticolinergici, il background genetico, i cambiamenti ormonali (Belleville, 2008).

Nonostante questi dati, il decadimento cognitivo lieve può essere considerato comunque un fattore di rischio per la demenza. Secondo alcuni studi infatti, circa la metà dei soggetti in questa condizione sviluppa diagnosi di demenza conclamata, con un tasso di passaggio del 10-15% per anno, per salire a percentuali variabili dal 20 al 50% in 2-3 anni (Jellinger, 2003), a differenza dei soggetti anziani normali che sviluppano la malattia dementigena con un tasso molto inferiore (1-2%) (Petersen, 2000).

È proprio in quest’ottica che si inquadra il grande interesse nei confronti del Mild Cognitive Impairment, inteso come entità clinica ad alto rischio per lo sviluppo di demenza.

Criteri diagnostici

La prevalenza del MCI nella popolazione anziana varia dal 3% al 6% a seconda dei criteri e dei metodi usati per la diagnosi (Kivipelto, 2001), arrivando fino al 15% nel Mayo Clinic Study of Aging (Petersen, 2009).

Come definito da Petersen e coll. (1996), esistono una serie di criteri operativi per definire il Mild Cognitive Impairment, in particolare:

  • presenza di un disturbo soggettivo di memoria, preferibilmente confermato da un familiare
  • deficit di memoria maggiore di quello che ci si aspetterebbe nei soggetti di pari età e scolarità, definito in termini di prestazioni inferiori al gruppo di controllo
  • normale funzionamento cognitivo generale
  • normali capacità di eseguire attività nella vita quotidiana
  • assenza di demenza
  • assenza di altre condizioni morbose che possano spiegare il disturbo di memoria (ad es. depressione, malattie endocrine ecc.)

Tali criteri selezionano un gruppo di pazienti le cui difficoltà di memoria sono molto simili a quelle dei pazienti affetti da Demenza di Alzheimer (AD), mentre il funzionamento cognitivo generale appare molto più simile a quello dei soggetti sani (Petersen, 1999; 2000).

Nel 2001 Peteresen e collaboratori hanno proposto un’estensione del concetto a causa dell’eterogeneità dei sintomi d’esordio nei pazienti con MCI, mentre nel 2004 hanno proposto una suddivisione dei pazienti MCI in singolo dominio o multi dominio a seconda della compromissione di una o più funzioni cognitive, e amnestico o non-amnestico, a seconda che la memoria fosse interessata o meno.

Poiché le varie forme di Mild Cognitive Impairment possono essere indicative di differenti tipi di demenza come la demenza di Alzheimer, la demenza vascolare, la demenza fronto-temporale, l’afasia progressiva primaria, la demenza a corpi di Lewy, è molto importante caratterizzarle accuratamente. La variante a-MCI sembra infatti evolvere più frequentemente verso una demenza di Alzheimer mentre gli altri tipi di MCI possono evolvere anche verso le altre forme di demenza (Perry, 2007).

Compromissione cognitiva e funzionale

Per quanto riguarda il deficit cognitivo dei pazienti affetti da Mild Cognitive Impairment, come detto in precedenza, possono essere coinvolti diversi domini cognitivi.

Le difficoltà mnestiche spesso rappresentano il sintomo principale. Il deficit di memoria descritto negli MCI è primariamente a carico della cosiddetta memoria a lungo termine dichiarativa, ovvero di quella memoria accessibile alla consapevolezza, riguardante fatti o eventi della propria vita e memorie relative al proprio bagaglio di informazioni generali. Il deficit di memoria a lungo termine può essere dovuto a difficoltà nella fase di codifica delle nuove informazioni, a un rapido oblio a carico delle nuove informazioni, oppure a una maggior sensibilità alle interferenze esterne.

I pazienti MCI con maggior probabilità di progredire verso la demenza di Alzheimer, tendono ad avere prestazioni peggiori ai test neuropsicologici di memoria in cui è richiesta la rievocazione libera del materiale, e pare traggono anche minor beneficio dalla disponibilità di indizi (Ivanoiu, 2005).

I soggetti affetti da Mild Cognitive Impairment, quindi, dimenticano più spesso informazioni acquisite, faticano a ricordare eventi socialmente importanti, perdono facilmente il filo dei propri pensieri o di una conversazione in corso e hanno, inoltre, difficoltà nel prendere decisioni, pianificare o compiere un dato compito e portare a termine istruzioni impartitegli.

Come già specificato, le persone affette da MCI, oltre a presentare difficoltà cognitive legate alla memoria o ad altre funzioni, possono presentare un grado di difficoltà funzionale che però non interferisce con le loro normali attività della vita quotidiana. Stimare il grado di compromissione funzionale del paziente appare difficile. Alcuni studi epidemiologici mostrano che negli individui con MCI è frequente una lieve difficoltà nello svolgere le attività quotidiane, ad esempio attività sociali o gestione delle proprie finanze, già due anni prima della diagnosi. La difficoltà in altre attività come ad esempio usare il telefono, assumere correttamente i farmaci prescritti e guidare l’automobile è più facile che si manifesti in una fase avanzata della malattia segnando il passaggio a una demenza (Barberger-Gateau & Fabrigoule, 1999).

Questi dati, tuttavia, rimangono variabili poiché, come già ricordato, non esistono criteri che definiscano in modo chiaro quale debba essere il grado di compromissione funzionale. Il consenso comune e prevalente in letteratura è che il soggetto con Mild Cognitive Impairment sia in grado di svolgere autonomamente le attività strumentali più complesse della vita quotidiana anche se eventualmente con qualche difficoltà. È possibile usare scale quali Instrumental Activities of Daily Living (IADL) e Activities of Daily Living (ADL) (Katz, 1970) per la determinazione dello stato funzionale nelle attività di base e strumentali della vita quotidiana. Rimane utile raccogliere informazioni relativamente alla quotidianità del soggetto tramite il colloquio con un famigliare il quale possa dare utili ragguagli sul livello di rendimento nella vita di tutti i giorni dal paziente.

Secondo alcuni studi longitudinali (Perry, Carlesimo, Serra et al., 2005), comunque il miglior fattore di predizione verso la AD può essere individuato grazie ai test neuropsicologici, nella presenza di prestazioni patologiche alle prove di memoria (esplicita verbale, esplicita visiva, semantica).

Il trattamento: stimolazione e training cognitivo

La possibilità di identificare precocemente i pazienti affetti da MCI risulta oggi particolarmente importante poiché l’intervento in questa fase permetterebbe di rallentare la progressione della malattia e mantenere una buona qualità della vita, prolungandone la durata.

La maggior parte degli sforzi in questo senso è stata rivolta all’a-MCI e alla sua evoluzione verso la demenza (AD).

Fattori di rischio modificabili quali istruzione, fumo, obesità, ipertensione, diabete, depressione e inattività fisica, contribuiscono in modo significativo al rischio di AD e solo una riduzione del 10-25% di questi fattori potrebbero evitare ben 3 milioni di casi di AD in tutto il mondo (Barnes & Yaffe, 2011).

A causa della difficoltà dei rimedi farmacologici nel prevenire o trattare la demenza, oggi molte ricerche si occupano di verificare l’efficacia di interventi come l’esercizio fisico e il trattamento cognitivo. Quest’ultimo, in particolare, pare essere un campo all’interno del quale negli ultimi anni la ricerca si sta muovendo al fine di trovare alternative valide e maggiormente efficaci alla cura farmacologica nella prevenzione della demenza. Tra le tecniche riabilitative per pazienti affetti da deterioramento cognitivo di vario grado si distinguono 3 categorie:

  • Training cognitivo: compiti specifici e guidati che riflettono determinate funzioni cognitive (memoria, attenzione, problem solving, funzioni esecutive) con lo scopo di migliorare o almeno mantenere la specifica funzione e con la possibilità di generalizzare i risultati alla vita quotidiana (Clare & Woods, 2003). Il training cognitivo può essere svolto sia singolarmente che in gruppo, a mano (con carta e matita) o al computer e può comprendere lo svolgimento di attività che ricordano quelle della vita quotidiana del soggetto
  • Stimolazione cognitiva: coinvolgimento dei pazienti in attività create per incrementare le funzioni cognitive e sociali senza utilizzare tecniche specifiche. Essa si basa su un’autovalutazione, in cui i soggetti indicano il loro grado di partecipazione ad una serie di attività voluttuarie o sociali
  • Riabilitazione cognitiva: programmi di esercizi individualizzati con lo scopo di insegnare al soggetto come superare le disabilità conseguenti al deficit cognitivo (Clare & Woods, 2003)

Sia il training cognitivo che la stimolazione cognitiva sono potenzialmente applicabili a soggetti normali o con deterioramento cognitivo lieve a scopo di aumentare le loro prestazioni e prevenire l’eventuale insorgenza o progressione verso il deterioramento cognitivo.

Il concetto di training cognitivo si basa sul presupposto che attraverso una serie di esercizi ripetuti gli individui possano migliorare le prestazioni mentali, così come avviene per il sistema motorio grazie all’esercizio sportivo (Sherry & Willis, 2006). Considerando il training cognitivo da un punto di vista riabilitativo, uno degli aspetti più interessanti è la possibilità non solo di migliorare abilità apprese ma anche di apprenderne di nuove, grazie alle quali la persona possa adattarsi meglio all’ambiente. Il training cognitivo determina anche un aumento della plasticità cerebrale, che è il principale presupposto di una più ampia possibilità di riabilitazione delle funzioni intellettive.

Assomensana: un nuovo programma di training cognitivo

Partendo proprio da questo presupposto e dall’importanza che riveste l’esercizio cognitivo sia nella prevenzione dell’invecchiamento mentale, sia come protezione durante le fasi di esordio della malattia degenerativa, negli ultimi anni una nuova realtà si è fatta strada in questo campo, una realtà ormai presente sul territorio nazionale da più di 10 anni che si occupa di ricerca anti-aging cerebrale e delle sue applicazioni, offrendo la possibilità a tutti di conoscere e mettere in pratica le tecniche per migliorare le capacità cognitive e per prevenire l’invecchiamento mentale.

Assomensana, Associazione per lo sviluppo e il potenziamento delle abilità mentali, propone dei veri e propri training cognitivi, una Ginnastica Mentale®, il cui scopo è quello di mantenere ad un livello costante e ottimale l’agilità, la flessibilità e le prestazioni del cervello. Il metodo Mensana propone una stimolazione efficace e strutturata, sottoposta continuamente a verifica di efficacia. Gli esercizi di training presentati sono utili e servono per attivare tutte le aree del cervello e le diverse funzioni mentali attraverso una serie di esercizi carta e matita da svolgersi in gruppo somministrati da un esperto neuropsicologo, utili proprio a creare un’attivazione cognitiva a 360 gradi. La Ginnastica Mentale Assomensana mira a sensibilizzare le persone sull’importanza della prevenzione e del mantenimento dell’efficacia delle funzioni cognitive a tutte le età e non di meno nelle fasi di Mild Cognitive Impairment.

L’intervento cognitivo con i pazienti affetti da MCI può essere quindi molto utile a queste persone, le quali presentano un notevole bisogno di cure, pur mantenendo le capacità di apprendere e applicare nuove strategie. Gli interventi devono quindi mirare a migliorare il funzionamento dei pazienti nella loro quotidianità e preservare la loro qualità di vita (Clare & Woods, 2003).

Gli esercizi utilizzati per la riabilitazione cognitiva comprendono numerose tecniche, in particolare troviamo quelle focalizzate sull’ottimizzare le capacità mnemoniche residue come ad esempio:

  • Spaced Retrieval, dove viene chiesto di ripetere continuamente un’informazione rinforzando così il suo immagazzinamento. Il beneficio dell’apprendimento si ha quando il ripasso è ripetuto aumentando la distanza temporale. Si sono riscontrati benefici nell’associazione viso-nome, nella denominazione di oggetti e nella programmazione di attività quotidiane
  • Vanishing Cue, dove tramite la riduzione graduale degli indizi forniti, l’apprendimento viene consolidato
  • Errorless Learning Tecnique, prevede che durante la fase di codifica il paziente memorizzi il materiale commettendo il minor numero di errori
  • Subject Performed Task, dove l’apprendimento viene consolidato attraverso azioni corrispondenti a quanto deve essere appreso
  • Memory Training, ovvero specifici interventi riabilitativi di addestramento della memoria, finalizzati a stimolare l’apprendimento procedurale motorio, sensoriale e cognitivo. Questo training di memoria stimola varie aree cognitive in quanto agisce sui meccanismi alla base dei processi di memorizzazione, fluenza verbale, orientamento spazio-temporale, coinvolgendo anche affettività ed emotività. Nella pratica le sessioni di training di memoria si articolano in gruppi di 10-12 persone in modo da favorire il confronto tra i pazienti sulle loro difficoltà quotidiane e sulle strategie che adottano per superarle. Inoltre durante le sessioni viene sempre favorita la presa di coscienza delle proprie specificità piuttosto che l’esatta risoluzione degli esercizi proposti

Altre tecniche diverse da quelle descritte fino ad ora, invece prendono in considerazione anche le implicazioni affettive dei deficit cognitivi del paziente, avendo esse un impatto notevole sulla memoria, su tutte le funzioni cognitive in generale e sulla qualità della vita. Tali tecniche sono ad esempio la 3R, che integra ROT, Reminescenza e Rimotivazione, e la Validation Therapy.

Anche strategie di compensazione come agende, diari, calendari, lavagne, registrazioni possono essere usati per sostenere le capacità di richiamare le informazioni.

Non solo è importante stimolare la funzione mnesica, ma a seconda della compromissione cognitiva iniziale, valutata attraverso una batteria di test neuropsicologici adeguati, saranno stimolate anche funzioni come il linguaggio, il riconoscimento, il ragionamento, l’orientamento e l’attenzione, ovvero quelle funzioni che tendono a decadere con il tempo.

La maggior parte delle ricerche sugli effetti del training cognitivo in MCI ha rilevato un aumento delle prestazioni dei pazienti dopo l’allenamento della memoria.

Altre tipoligie di intervento in pazienti affetti da Mild Cognitive Impairment

Alcuni studi di meta-analisi (Valenzuela, 2006) hanno dimostrato che mantenere un’attività mentale articolata nelle fasi medie e tardive della vita si associa ad una significativa riduzione dell’incidenza di demenza.

Negli ultimi anni inoltre studi sugli animali hanno mostrato come l’esercizio fisico associato ad un ambiente cognitivamente e socialmente stimolante, in grado di favorire l’interazione sociale, ovvero quello che viene definito “ambiente arricchito”, migliori le prestazioni cognitive, rallenti il declino cognitivo dell’anziano (Fratiglioni, Paillard-Borg & Winblad, 2004; Kramer & Erickson, 2007; Laurin, Verreault & Lindsay, 2001) eserciti azioni neuroprotettive e aumenti la plasticità sinaptica corticale (Knopma & Boland, 2001; Marx, 2005).

Secondo una revisione effettuata da Belleville e coll. (2007), il training cognitivo si è rivelato utile per ottimizzare le funzioni cognitive in pazienti anziani affetti da Mild Cognitive Impairment. Inoltre i risultati della sua revisione hanno dimostrato che il training negli anziani con MCI ha avuto un effetto migliore nei soggetti di mezz’età e cognitivamente più conservati.

In una ricerca condotta da Rozzini e coll. nel 2007, sono stati riportati gli effetti di tre diverse tipologie di trattamento sui pazienti MCI. In particolare in questo studio randomizzato 59 soggetti con diagnosi di Mild Cognitive Impairment venivano trattati in modi diversi, 15 ricevevano terapia farmacologica (ChEIs) e venivano sottoposti a un training cognitivo, 22 venivano trattati solo con la terapia farmacologica (ChEIs), mentre gli altri 22 non venivano sottoposti a nessun trattamento. La valutazione neuropsicologica prima e a 3 mesi dalla fine dell’intervento, ha evidenziato come i pazienti senza nessun trattamento abbiano mantenuto il loro stato cognitivo, funzionale e comportamentale a un anno, i pazienti trattati solo con il farmaco hanno migliorato solo i sintomi depressivi, mentre i pazienti trattati con farmaco e training cognitivo hanno evidenziato miglioramenti in aree cognitive come la memoria, nei compiti di problem solving, nei disturbi comportamentali e nei sintomi depressivi.

Infine Kurz e coll. nel 2009 hanno messo appunto un trattamento cognitivo multi-componente per i pazienti affetti da MCI. Il trattamento prevedeva attività di pianificazione, tecniche di rilassamento, gestione dello stress, training di memoria ed esercizi motori. I soggetti sottoposti a tale intervento mostravano un significativo miglioramento in tutte e 4 le variabili, la performance ADL aumentava, il punteggio sulla depressione era abbassato del 50% e si evidenziavano miglioramenti sulla performance di memoria episodica verbale e non. Il gruppo di controllo, non sottoposto al trattamento, mostrava un peggioramento riguardo i sintomi depressivi e i risultati cognitivi, e una stabilità delle ADL.

Per concludere tutti gli studi scientifici citati mostrano l’efficacia e l’importanza di un intervento di stimolazione e training cognitivo per pazienti a rischio di sviluppo demenza.

Il dolore negato (2018) di Pier Luigi Gallucci – Recensione del libro

Il dolore negato è il dolore per la perdita di un animale domestico che molti di noi negano o si negano di provare.

 

Il dolore negato nasce dall’esperienza professionale di uno psicologo psicoterapeuta che più volte ha raccolto e ascoltato il dolore per la perdita di un animale. Spesso le persone arrivavano da lui provando vergogna e non confessando a nessuno che il motivo era “solamente perché è morto il mio gatto”.

Il dolore negato: in realtà è un lutto

Nel primo capitolo Pier Luigi Gallucci ci offre semplici e illuminanti riflessioni sul lutto: così si può definire ogni perdita, compresa quella di un animale domestico, che a tutti gli effetti è stato nostro compagno di vita. Ogni perdita che affrontiamo necessita di un processo di accettazione ed elaborazione del lutto. Significa passare per fasi come la negazione, la rabbia, la paura, la depressione e la tristezza.

Il dolore negato: implica ammettere la nostra fragilità

Nella società odierna assistiamo, senza quasi accorgercene, alla negazione della morte e di tutte le emozioni dolorose che hanno a che fare con essa. Non ci vogliamo entrare in contatto. Non vogliamo integrarla nella nostra quotidianità, perciò è come se negassimo anche la nostra fragilità, sia fisica che emotiva. Di conseguenza molti di noi non si concedono (o concedono agli altri) di soffrire per la perdita del nostro amico a 4 zampe.

Nel libro Il dolore negato, Gallucci evidenzia che molti studi hanno ormai provato che gli animali, specialmente i mammiferi, provano emozioni e sono in grado di sintonizzarsi con gli stati emotivi degli esseri umani. Nella sua esperienza clinica ha raccolto storie di persone fortemente legate ai loro animali anche e proprio perché non si sentivano giudicate da loro, in grado di dare amore e affetto incondizionati come nessuna persona.

Il dolore negato: qualche consiglio

Il libro si conclude illustrando quali sentimenti e pensieri caratterizzano la perdita del nostro animale: tra di essi troviamo il senso di colpa. Può essere molto forte anche in ragione del fatto che un animale domestico dipende da noi per il sostentamento e le cure.

Seguono alcuni consigli pratici per affrontare il momento ed il periodo, come ad esempio spiegare la perdita ai bambini. Anche per loro è venuto meno un compagno di giochi e un componente della famiglia.

Il dolore negato si conclude con una commuovente leggenda dei nativi americani, che descrive bene il meraviglioso e speciale legame tra umani ed animali. È dedicata a tutti coloro che perdono un amico animale, come questo libro.

Apatia e anedonia: i contributi di neuroscienze e paradigmi comportamentali in soccorso alla clinica

Su una review di Nature Neuroscience apprendiamo un approccio trans-diagnostico per l’identificazione e la comprensione dei meccanismi sottostanti l’ anedonia e l’ apatia.

 

Se ne sono occupati Husain e Roiser del Nuffield Department of Clinical Neurosciences and Experimental Psychology dell’Università di Oxford. Identificare i meccanismi sottostanti la mancanza di motivazione, come l’apatia e l’anedonia, che condividono alcuni aspetti, potrebbe essere d’aiuto nel comprenderle in maniera più accurata e per poter fornire un adeguato trattamento farmacologico e psicologico.

Apatia e anedonia: cosa sono, di quali disturbi sono tipiche

Sia l’apatia che l’anedonia sono sintomi condivisi da diversi disturbi come il morbo di Alzheimer e di Parkinson, la schizofrenia e il disturbo depressivo maggiore (Pelizza & Ferrari, 2009); entrambe hanno specifici scale cliniche in grado di quantificarle (Kaiser, Lyne et al., 2017; Bischof, Obermann et al., 2016) come ad esempio la scala per l’anedonia fisica e sociale, la Snaith-Hamilton Pleasure scale (SHAPS; Nakonezny, Carmody et al., 2010)

  • Per apatia si intende la perdita o la riduzione della motivazione rispetto ad uno stato precedente, associato ad un decremento dei comportamenti goal-directed, dell’attività cognitiva ed emotiva; gli individui affetti da apatia hanno difficoltà nell’intraprendere nuovi comportamenti o iniziative
  • L’anedonia consiste in una marcata e consistente diminuzione dell’interesse o piacere per la maggior parte delle attività quotidiane; gli individui smettono di provare piacere per alcune attività o smettono di ricercare attività piacevoli come se mancassero di motivazione (Husain & Roiser, 2018).

Per cercare di far chiarezza, Husain & Roiser (2018) hanno proposto di considerare entrambe come deficit a seguito di interferenze nei meccanismi neurali che processano la ricompensa; in particolare il deficit risiederebbe nei processi che motivano l’individuo o l’animale a mettere in atto un’azione o un comportamento – come i potenziali benefici o ricompense per il comportamento vengono valutati dal sistema rispetto al costo dello sforzo richiesto per raggiungerli.

Apatia e anedonia: i meccanismi sottostanti

Nella nuova Review di Nature Neuroscience, gli autori hanno sottolineato l’importanza di comprendere i meccanismi sottostanti le manifestazioni cliniche “di superficie” dell’apatia e dell’anedonia e specificare il fenotipo in modo più attento e preciso per ogni singolo caso clinico, in modo tale da implementare trattamenti farmacologici e psicologici il più possibili personalizzati e ad hoc per il paziente demotivato, partendo dalla descrizione di modelli comportamentali idealmente da combinare con modelli computazionali oltre che con valutazioni soggettive tramite self-report.

Affinché sia possibile intraprendere un’azione è necessario:

  1. Generare opzioni per il comportamento che provengano da un’ iniziativa personale (generare tante più opzioni possibili per uno scenario di vita reale, con un test molto simile a quello neuropsicologico per la fluenza verbale) o che siano elicitate da stimoli ambientali.
  2. Valutare i costi-benefici dell’opzione in accordo con la ricompensa attesa, dello sforzo, del tempo richiesto e del probabile rischio per raggiungerla.

In questa fase, affermano gli autori, si potrebbe verificare una difficoltà nel selezionare una tra le opzioni possibili, specialmente se la decisione presa al momento potrebbe influire su una futura.

Nello specifico, la selezione dell’opzione potrebbe infatti essere influenzata dalla valutazione soggettiva dei potenziali outcome, dal rischio o dalla probabilità di ottenere una ricompensa, dal temporal discounting (la svalutazione di una ricompensa a causa dell’eccessiva attesa richiesta per ottenerla), dalla percezione dello sforzo e infine dal costo richiesto per ottenere la ricompensa. A seguito della valutazione e della selezione dell’opzione comportamentale, si verifica il fenomeno dell’anticipazione, che l’individuo solitamente esperisce tramite un’attivazione fisiologica – cambiamenti nella frequenza cardiaca, dilatazione delle pupille – dovuta al fatto che egli sta attendendo e prevedendo la comparsa della ricompensa.

Successivamente a ciò, l’animale o l’individuo intraprende un’azione che è determinata e fa parte di un comportamento cosiddetto “appettitivo” che è indice del “wanting”, cioè della mancanza di qualcosa che l’animale ha bisogno di soddisfare.

Negli studi animali questa componente del comportamento è misurata tramite la quantità di sforzo che l’animale fa spontaneamente e con propensione con il fine di ottenere una ricompensa, mentre negli umani questa tipologia di sforzo può essere misurata utilizzando il numero di volte che l’individuo preme un bottone, la velocità di risposta e la quantità di forza esercitata nel farlo (Chong, Apps et al., 2017).

La propensione a mettere in atto uno sforzo è misurata anche tramite compiti mentali utilizzando task che richiedono un’alta dose di concentrazione e memoria (Chong, Apps et al., 2017).

Apatia, anedonia e wanting

Un paradigma molto comune utilizzato per misurare il “wanting”, la mancanza, è il paradigma del trasferimento pavloviano strumentale (Pavlovian Instrumental transfer; PIT) che coinvolge tre stadi: il primo costituito da un condizionamento classico pavloviano in cui uno stimolo neutro, come un suono o una luce, viene associato ad un reward, il secondo basato su una scelta volontaria strumentale per ottenere una ricompensa tramite azione volontaria (come premere una leva) e l’ultimo che consiste nel PIT stesso, cioè la presentazione dello stimolo condizionato durante la fase strumentale.

La presentazione dello stimolo condizionato senza che si verifichi la ricompensa aumenta le risposte strumentali dell’individuo volte ad ottenerla, determinando il cosiddetto PIT effect interpretato come segnale di “wanting” (Berridge & Robinson, 1998)

Alcune evidenze sottolineano come nei pazienti affetti da depressione maggiore vi sia una consistente riduzione del PIT effect (Huys, Gölzer, Friedel et al., 2016). Infine, una volta raggiunta la ricompensa, si verifica da parte dell’animale o dell’individuo l’interazione con il reward che costituisce la capacità edonica, un comportamento consumatorio una volta raggiunta la ricompensa.

Nei modelli animali, come indice per i comportamenti consumatori, viene utilizzato il test della preferenza del saccarosio: ai topi viene data la possibilità di scegliere tra acqua e una soluzione diluita di acqua e saccarosio, sviluppando una preferenza per quest’ultima. I topi sottoposti a stress cronico, che determina livelli moderati di apatia, mostrano una preferenza ridotta per la soluzione con il saccarosio, riduzione che corrisponde ad un abbassamento della capacità edonica nella fase di consumazione della ricompensa (Willner, 2017).

Seguendo il modello per la presa di decisione basata sugli sforzi nell’ambito delle ricompense, la domanda è come gli individui imparino dalle conseguenze delle loro azioni per guidare le loro future decisioni, cioè come le risposte del soggetto cambiano in funzione dei feedback che riceve dopo la messa in atto delle sue azioni come evidenzia il ben noto Iowa Gambling task (Bechara, Damasio, Tranel, 1997).

Anedonia e apatia: un modello computazionale

Approcci alternativi che recentemente stanno guadagnando popolarità sono i modelli computazionali (Adams, Huys & Roiser 2015) che sfruttano la ricchezza dei dati osservati (ad esempio tramite modelli di comportamento che basano su prove per errori) per fornire informazioni su quei processi che sottostanno le differenze individuali.

Per esempio, un compito percettivo detto “responsività alla ricompensa” (rewar responsiveness; Henriques, Glowacki et al., 1994) che misura i bias verso la selezione di stimoli più frequentemente associati con le ricompense, somministrato sia ad un gruppo di controllo che ad un gruppo clinico di individui affetti da depressione, ha evidenziato delle differenze nelle risposte al test tra i due gruppi.

L’applicazione dei modelli computazionali ai dati raccolti ha evidenziato come i sintomi dell’ anedonia non siano associati alle differenze nella discriminazione percettiva o nell’apprendimento per errori ma siano al contrario associati con un brusco abbassamento del valore atteso della ricompensa al momento della decisione (Huys, Pizzagalli, Bogdan & Dayan, 2013).

In aggiunta, questi modelli, dal momento che aiutano a differenziare i processi cognitivi che sono coinvolti nei compiti legati alla ricompensa, mostrano che l’apprendimento apparentemente è risparmiato nell’ anedonia e che le differenze nei comportamenti legati alla motivazione e alla ricompensa sono associati ad altri processi di tipo neurotrasmettitoriale. Uno studio di Le Bouc e colleghi (2016) ha evidenziato come i miglioramenti nei sintomi dell’ apatia da parte dei pazienti affetti da morbo di Parkinson, in cura dopaminergica, fossero associati con un aumento della sensibilità alla ricompensa, mentre uno studio di Meyniel, Goodwin e colleghi (2017) ha mostrato come soggetti non patologici mostrassero un maggior sforzo a seguito della somministrazione di SSRI e quindi dell’aumento della serotonina, come se in loro si fossero ridotti i costi degli sforzi per raggiungere la ricompensa.

 

Quel che penso dei miei pensieri, cosa mi fa pensare? – Credenze metacognitive e psicopatologia

Capita spesso di restare intrappolati in meccanismi di ricorsività del pensiero, ciò è dovuto alle credenze metacognitive o metacredenze: esse possono avere sia natura positiva, quando si crede che rimuginio e ruminazione siano utili ad affrontare gli eventi disturbanti, che negativa, quando ci si sofferma sulla pericolosità e l’incontrollabilità di rimuginio e ruminazione.

 

Semerari (1999) definisce la metacognizione come la capacità di riconoscere i propri stati mentali, quelli degli altri, rifletterci su e regolarli.

Tra le definizioni più accreditate di metacognizione, tuttavia, troviamo quella di Wells and Purdon (1999), secondo cui la metacognizione rappresenta «the aspect of information process that monkors, interprets, evaluates and regulares the contents and processes of its own organizations». Occorre, però effettuare una importante distinzione tra contenuti metacognitivi e funzioni metacognitive (Procacci, M. et al, 2000).

Per contenuti metacognitivi si intendono le idee e le convinzioni con cui sono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali. Per funzioni metacognitive si intende le attività di monitoraggio e di regolazione costituite dall’insieme di abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali e di operare su di essi per la risoluzione di compiti e per padroneggiare gli stati mentali (Carcione et al., 1997; Carcione e Falcone, 1999).

Metacognizione e psicopatologia: il rimugino e la ruminazione

Nel campo della psicopatologia si è soliti prestare molta attenzione a una serie di processi mentali caratterizzati da ripetitività che, alla lunga, provocano ripercussioni sullo stato emotivo e comportamentale della persona. Il pensiero ripetitivo incastra, chi lo mette in atto, in un circolo vizioso in cui l’unico esito è continuare a pensare in modo ridondante. Questa modalità di pensiero passivo e/o relativamente incontrollabile sottende emozioni diverse tra loro, come l’ansia, la rabbia e la depressione (Genga, G. M. e Pediconi, M. G., 2016).

Le modalità di pensiero ripetitivo più frequentemente studiate sono il rimuginio, legato all’ansia; la ruminazione, legata alla depressione; la ruminazione rabbiosa, legata alla rabbia.

Il rimuginio è definito come una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava poiché è caratterizzato dalla ripetitività di una serie di pensieri considerati incontrollabili e intrusivi, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi che potrebbero manifestarsi in futuro. Il rimuginio è una strategia che l’individuo adotta in situazioni identificate come pericolose e incerte, ansiogene, per questo difficili da gestire.

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013). E’ una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004).

Nella ruminazione rabbiosa il pensiero ripetitivo è legato a un evento passato in cui si sperimenta una emozione di rabbia. Il pensiero sul passato amplifica l’intensità e la durata dell’emozione negativa, che sfocia conseguentemente nella vendetta e nell’aggressività (Sukhodolsky, 2001), quando è rivolta verso l’esterno. Se invece la ruminazione rabbiosa riguarda temi autosvalutativi, alla lunga potrebbe diventare depressione.

Le credenze metacognitive

Come accennato in precedenza con il termine metacognizione ci si riferisce alla conoscenza stabile del proprio sistema cognitivo; alla conoscenza dei fattori che influenzano il funzionamento di questo sistema; alla regolazione e alla consapevolezza dello stato attuale della cognizione e alla valutazione del significato dei pensieri e ricordi (Wells, 1995).

Ma cosa ci intrappola nei meccanismi di ricorsività del pensiero, quali rimuginio e ruminazione?

Il punto nodale nella comprensione del meccanismo di ricorsività del pensiero è costituito dalle credenze metacognitive o metacredenze: le metacredenze negative riguardano la pericolosità e l’incontrollabilità del rimuginio, quelle positive l’utilità dello stesso come strategia di regolazione delle intrusioni mentali negative (Marianelli S., 2017).

Ad esempio il rimuginio è tanto più grave e difficile da eliminare quanto più la persona attribuisce ad esso significati positivi (metacredenze positive), come pensare che rimuginare aiuti a risolvere i problemi, prepari al peggio, riduca la probabilità che accada l’evento temuto. Spesso chi rimugina lo fa per sentirsi più sicuro o per analizzare al meglio un problema, chiaramente queste credenze metacognitive disfunzionali legate all’utilità del rimuginio mantengono, in realtà, l’individuo in una condizione di ansia e in una falsa percezione di risoluzione del problema stesso (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Coloro che rimuginano sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004), per questo utilizzano il rimuginio come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento futuro temuto. Il non riscontrare le conseguenze temute determina, quindi, il rinforzo di tale processo di pensiero (Borkovec et al., 1994).

Nel caso della ruminazione invece, inizialmente la persona rumina perché crede che possa servire a gestire di una serie di accadimenti negativi, quindi la considera un metodo efficace per controllare la propria tristezza. Tuttavia, questa strategia peggiora nel tempo l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, fino al crearsi di una distorsione della percezione di se stessi, in termini negativi, ma anche dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Al contrario le metacredenze negative possono portarci a credere che alcuni pensieri siano dannosi per la nostra salute, oppure che ci accadrà qualcosa di brutto a causa di pensieri che abbiamo avuto nella mente.

Dunque le credenze metacognitive o metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate. Secondo Wells e Matthews (1994): i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti (CAS). Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti.

A volte capita che queste metacredenze, sia che abbiano natura positiva che negativa, portano gli individui a mettere in atto strategie di coping disfunzionali. Ad esempio: se credo che rimuginare mi aiuti ad affrontare la situazione temuta o che ruminando posso affievolire la tristezza, allora tenderò sempre di più a rimuginare o ruminare. Al contrario, se penso che il rimuginio sia indice di quanto la mia ansia sia grave, farò il possibile per non pensarci, ma così aumenterò i pensieri che mi creano ansia.

Dunque, come accade in questi casi, le persone tendono a rimanere “incastrate” all’interno di disturbi psicologici a causa dell’attivazione di un particolare pattern di risposta alle esperienze interne, ciò che Wells definisce CAS (Cognitive Attentional Syndrome), ovvero processi di elaborazione dell’informazione cognitiva caratterizzate da preoccupazioni, ruminazioni eccessive, bias attentivi che incrementano il fenomeno di “monitoraggio della minaccia” e strategie di coping disfunzionali.

La CAS è costituita da:

  • Orientamento dell’attenzione verso stimoli minacciosi (pensiero negativo e elementi dell’ambiente che confermano quel pensiero)
  • Sensazione soggettiva di perdita di controllo e altre convinzioni positive e/o negative sul proprio funzionamento cognitivo
  • Strategie di coping cognitive e comportamentali in risposta al pensiero negativo (rimuginio, ruminazione, soppressione dei pensieri …)

La CAS deriva quindi direttamente dalle conoscenze di natura metacognitiva degli individui, che dipendono dai due domini di contenuto appena illustrati:

  • le credenze metacognitive positive riguardanti l’utilità di impegnarsi nei processi implicati nella CAS (es. “Se mi preoccupo sarò pronto”; “Focalizzarmi sulla minaccia mi permette di sentirmi al sicuro”; “Devo contrastare i miei pensieri o commetterò un errore”).
  • le credenze metacognitive negative inerenti l’incontrollabilità, la pericolosità, l’importanza ed il significato attribuito ai pensieri o alle emozioni (es. “Non ho il controllo sui miei pensieri”; “Se sono in ansia, allora sono davvero in pericolo”).

Intervenire sulle metacredenze: la psicoterapia metacognitiva

L’idea che la metacognizione valuti, monitori e controlli il funzionamento cognitivo presuppone la distinzione tra due livelli di funzionamento mentale, un livello oggetto e un livello metacognitivo (Nelson e Narens, 1990).

Nel livello oggetto i pensieri e le credenze sono viste come dati di realtà. Dal punto di vista clinico, questo modalità di vedere i pensieri è un fattore di rischio perché ostacola la possibilità di modificare le credenze metacognitive e tutte quelle strategie che mantengono il malessere, proprio in quanto vi è la percezione di credenze e strategie come dati di realtà e dunque non come scelte personali.

L’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di affannarsi nel trovare soluzioni, ma raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri pensieri e ai propri eventi mentali. In questo caso, dunque, la soluzione consiste nel vedere il rimuginio o la ruminazione come atti volontari che riducono le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse.

Affinché però questa consapevolezza si raggiunta bisogna intervenire sul secondo livello di funzionamento, quello metacognitivo appunto, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così alla capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli et al., 2017).

Secondo la Terapia MetaCognitiva (MCT), il passaggio dal livello oggetto al livello metacognitivo non è frutto di una capacità più o meno sviluppata, ma è una funzione che tutti hanno, ma spesso gli individui la utilizzano solo su certi pensieri e non su altri. Obiettivo della terapia metacognitiva non è quindi sviluppare specifiche funzioni metacognitive, ma mostrare ai pazienti che questa capacità già appartiene loro e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, si può imparare a utilizzarla anche in risposta ai pensieri per loro particolarmente disturbanti.

Tra gli strumenti maggiormente utilizzati nella terapia metacognitiva troviamo l’ Analisi Meta Cognitiva o AMC. Con essa si identifica un pensiero iniziale, una valutazione o una sensazione corporea (A) e le conseguenze emotive (C), per passare all’identificazione delle metacognizioni o credenze metacognitive disfunzionali (M). Rispetto al modello ABC della terapia cognitiva standard, con l’analisi dell’AMC è possibile identificare le metacognizioni implicite o esplicite con cui il paziente risponde a uno stimolo attivante interno. Con l’ AMC si individuano le metacognizioni (M) che sostengono la CAS.

Nella Terapia Metacognitiva, la sofferenza, dunque non è data da valutazioni errate che si effettuano sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo che regola l’attività mentale. Quindi, l’errore principale si effettua nel ritenere indispensabile rimuginare sui problemi e non riuscire a smettere di farlo. Queste strategie disadattive creano sofferenza emotiva.

La Terapia Metacognitiva si è dimostrata particolarmente efficace nella cura dell’ansia e della depressione.

Binge Eating Disorder: non soltanto un problema di peso

Chi soffre di Binge Eating Disorder si trova all’interno di un circolo vizioso in cui ricorre a mangiare per sentirsi meglio, sentendosi peggio, e poi tornando indietro al cibo per risollevarsi.

 

I soggetti affetti da BED (Binge Eating Disorder) sono raramente riconosciuti come tali: vengono erroneamente confusi con le altre persone sovrappeso o obese, o peggio con quelle bulimiche.

La differenza sostanziale sta nel fatto che, mentre nella bulimia nervosa, le abbuffate sono precedute e seguite da comportamenti dietetici restrittivi, nel Binge Eating Disorder non si assiste a una riduzione dell’introito calorico al di fuori delle abbuffate. Infatti, se confrontati con obesi senza questo disturbo, quelli con BED mangiano di più sia durante che fuori pasto e presentano livelli inferiori di restrizione alimentare.

Questo dato va riconciliato al fatto che i soggetti con BED presentano una storia clinica caratterizzata da un elevato numero di diete: in questo disturbo possono alternarsi periodi di dieta e lunghi periodi in cui le abbuffate non sono associate a nessun tipo di restrizione alimentare.

Le fasi di dieta potrebbero rappresentare il tentativo di recuperare il controllo sull’alimentazione e sul peso, il quale di norma è completamente perduto durante i periodi di abbuffate. Studi di laboratorio hanno dimostrato che la tendenza ad abbuffarsi è una conseguenza abituale di periodi di restrizione dietetica prolungata (Garner e Wooley, 1991). Gli individui pretendono di controllare le abbuffate con la dieta, senza rendersi conto che queste possono essere causate in primo luogo proprio dalle restrizioni dietetiche stesse.

Nella bulimia nervosa la dieta è fortemente implicata nello sviluppo delle abbuffate; infatti, in questo disturbo, la restrizione alimentare precede quasi sempre le abbuffate. Nel Binge Eating Disorder, invece, sembra che più della metà dei soggetti abbia abbuffate prima di avere iniziato una qualsiasi dieta (Santonastaso et al., 1999).

Sembra che il disturbo possa essere, quindi, concettualizzato come una “sindrome di discontrollo” (Freeman e Gil, 2004) generale nei confronti dell’alimentazione con associata una psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione in individui che sono vulnerabili all’obesità e/o alla depressione.

La maggior parte dei soggetti con Binge Eating Disorder è sovrappeso o obeso ed esiste una forte associazione tra il disturbo e l’obesità. L’obesità, a sua volta, provoca numerose complicazioni mediche.

Il BMI (Body Mass Index) è una misura del grasso corporeo, sulla base del peso e dell’altezza: a un BMI compreso tra 25 e 28 il disturbo è presente nel 10% dei casi, a un BMI tra 28 e 31 nel 15% e tra 31 e 42 nel 40%.

Gli aspetti psicologici collegati al disturbo

Le persone con binge soffrono di una dipendenza alimentare psicologica. Spesso le loro abbuffate sono innescate da un umore depresso o ansioso, ma possono abbuffarsi anche quando sono tesi, annoiati o soli. Purtroppo, l’aumento di peso rafforza solamente l’alimentazione compulsiva. Peggio si sentono a proposito di loro stessi e della loro apparenza, tanto più impiegano il cibo per farvi fronte (Napolitano et al. 2001).

Diventa perciò un circolo vizioso: mangiare per sentirsi meglio, sentendosi peggio, e poi tornando indietro al cibo per risollevarsi.

Le persone con BED provano inoltre imbarazzo e vergogna per le proprie abitudini alimentari, allora spesso provano a nascondere i loro sintomi e a mangiare in segreto.

Tra i principali sintomi comportamentali troviamo:

  • Incapacità di smettere di mangiare o controllare cosa si sta mangiando
  • Mangiare rapidamente grandi quantità di cibo
  • Mangiare anche quando si è pieni
  • Nascondere il cibo per mangiarlo successivamente in segreto
  • Mangiare normalmente con gli altri, ma rimpinzarsi quando si è da soli
  • Mangiare continuamente durante il giorno, senza pasti programmati

Tra i principali sintomi emozionali:

  • Sensazione di tensione sostituita solamente dal mangiare
  • Imbarazzo su quanto si sta mangiando
  • Sensazione di intorpidimento durante l’abbuffata – come se non si esistesse o si fosse in “pilota automatico”
  • Non sentirsi mai soddisfatti, a prescindere da quanto si mangia
  • Sentirsi colpevoli, disgustati o depressi dopo l’abbuffata
  • Disperazione per il controllo del peso e le abitudini alimentari

È presente un vero e proprio blocco delle emozioni: le abbuffate allontanano da stati emotivi intollerabili come l’ansia o la rabbia. Il soggetto percepisce solo gli aspetti positivi del cibo introdotto a breve termine e non gli effetti negativi a lungo termine (si concentra sull’immediato e non sugli effetti successivi).

Durante le abbuffate è, inoltre, possibile rintracciare una sorta di evoluzione emozionale ciclica: l’iniziale condizione di disagio cede per poco tempo il posto a sensazioni gratificanti legate al gusto del cibo e al senso di pienezza, ben presto sostituite da spossatezza, fastidio fisico e peggioramento del tono dell’umore (Stein et al., 2007).

Organizzazione psicologica e caratteristiche emotive dei Bingers

L’organizzazione psicologica dei soggetti con Binge Eating Disorder è complessa:

  • Hanno una visione di sé che oscilla tra il massimo della stima nelle proprie capacità e la critica più feroce
  • Sono dominati dalla paura ossessiva di delusioni
  • Posseggono un’estrema vulnerabilità alla critica
  • Sono dominati dal terrore di deludere gli altri e di essere delusi
  • Presentano una personalità fragile, incapace di gestire le frustrazioni
  • Hanno la tendenza ad evitare la realtà e a rifugiarsi in fantasie irrealizzabili
  • L’aspetto fisico è inconsciamente una difesa e un luogo in cui rifugiarsi

Ingrassando, infatti, si limita il giudizio degli altri al solo corpo senza mostrare i propri sentimenti e valori più personali.

Presentano, inoltre, i caratteri comuni alle persone affette da disturbi alimentari

  • Paura di perdere il controllo
  • Paura di diventare grassi
  • Difficoltà nelle relazioni interpersonali
  • Bassi livelli di autostima
  • Bassa tolleranza alla frustrazione
  • Presenza di emozioni secondarie (quali senso di colpa e vergogna)
  • Preoccupazione per il cibo e per il proprio peso

Il disturbo inizia, in particolare, dopo eventi stressanti minaccianti l’autostima, come: fallimenti scolastici, problemi sentimentali o sessuali, commenti negativi sull’aspetto fisico, difficoltà interpersonali. Alcuni soggetti “pianificano” le loro abbuffate: acquistano il cibo, lo nascondono, poi lo consumano da soli, spesso senza neppure masticarlo, fino ad essere completamente pieni.

Le abbuffate, soprattutto nei primi momenti possono essere piacevoli, in quanto sono in grado di allentare momentaneamente la tensione del dover seguire rigorosamente una dieta ferrea. Questa sensazione inizialmente piacevole viene, però, spesso utilizzata per “bloccare” altre emozioni negative: tristezza, solitudine, frustrazioni, ecc.

Così come già visto in precedenza, tale comportamento dà origine a un circolo vizioso:

  • se la persona continua a bloccare le sue emozioni col cibo non risolve mai i suoi problemi di fondo
  • le emozioni negative si riprodurranno all’infinito e favoriranno nuove abbuffate
  • le abbuffate, passati i primi momenti piacevoli, determineranno altre emozioni negative quali senso di colpa, crollo dell’autostima, disgusto che a loro volta faciliteranno nuove abbuffate

La dieta in questi soggetti risulta totalmente inefficace, in quanto sono le variazioni emotive a dare il via alla crisi alimentare. La persona vorrebbe essere aiutata a cambiare ma ha una paura terribile del cambiamento. Teme che se abbandonerà il suo disturbo (diventato un “rituale”) si ritroverà ancor più indifesa.

Frequentemente le abbuffate sono la risposta al disagio provocato dal sentirsi soli o abbandonati, dal pensare di non avere valore per gli altri a causa del proprio senso di inadeguatezza e alla scarsa autostima (inutilità a condividere le proprie sofferenze con gli altri).

Questi individui tendono a sottovalutare gli effetti negativi a lungo termine dei loro comportamenti (convinzione dell’inevitabilità del proprio stato e incapacità di avere altre gioie se non quelle del cibo). Per alcuni bingers il cibo è effettivamente un equivalente affettivo, per altri è un’autopunizione per non essere riusciti a raggiungere i propri obiettivi.

Inoltre, gli abbuffatori soffrono di alti standard e di alte aspettative, in special modo hanno una sensibilità maggiore rispetto alle richieste degli altri. Quando falliscono alcuni di questi standard, essi sviluppano un elevato pattern avversivo di autoconsapevolezza, caratterizzato da una visione negativa di sé e preoccupazione per come sono percepiti dagli altri. Queste autopercezioni sono accompagnate da stress emotivo, che include spesso l’ansia e la depressione.

A volte l’obesità può fungere da capro espiatorio per le proprie difficoltà relazionali e spostare il focus del problema dalla bassa autostima e/o dalle problematiche sessuali al sovrappeso.

Se il controllo è il tema dominante nell’anoressia e nella bulimia, nei bingers prevale invece il senso di inadeguatezza: si percepiscono deboli, in balia della volontà altrui. In questi individui le convinzioni di non valere sono molto forti, sostenute da dati percettivi (quali la bilancia e lo specchio) e anche dalla gente stessa.

Il sé è profondamente “eterodefinito”: il soggetto si specchia nello sguardo degli altri per confermare il proprio valore e la disapprovazione genera un profondo disorientamento, ma il bisogno di approvazione si scontra col timore di essere invaso (Guidano, 1987). Le alternative che ha sono: adeguarsi per essere accettato, ma non potersi affermare, oppure opporsi, affermarsi, ma non essere accettato.

Il corpo è percepito in modo diverso: nell’anoressia è un nemico da combattere, nella bulimia uno strumento di seduzione, mentre nel Binge Eating Disorder è vissuto come sgradevole appendice al proprio Sé. Dal corpo provengono soltanto sensazioni negative e impellenti richieste di cibo. Anche lo stesso piacere del cibo (l’unico che si permettono) si trasforma molto presto in senso di colpa.

Il binge eating diventa una strategia, seppure disfunzionale, per modulare il versante emotivo tramite l’incapacità di autoregolarsi sul versante comportamentale. La problematica nasce dal fatto che gli eventi che il soggetto cerca di controllare mantengono inalterato il loro potere. Il rapporto col cibo perde la sua funzione di necessità per divenire metafora del rapporto con se stessi e con gli altri.

Guarire i traumi dell’età evolutiva (2018) di Aline LaPierre e Laurence Heller – Recensione del libro

Il libro Guarire i traumi dell’età evolutiva disamina gli stili di sopravvivenza che ognuno di noi in tenera età mette in atto e il Modello Relazionale Neuroaffettivo (NARM), un modello di psicoterapia che si occupa di guarire le fatiche del passato potenziando le risorse del presente e avvalendosi della pratica Mindfulness.

 

Contatto con sé stessi, il proprio corpo e le relazioni affettive, sintonizzazione, fiducia, autonomia, amore/sessualità: bisogni centrali per uno sviluppo armonico, la cui mancata realizzazione, a seguito di traumi evolutivi, in particolare derivati da abusi infantili, conduce necessariamente a squilibri psicofisici e confusioni identitarie, che la psicoterapia ha il compito di riequilibrare, riconsegnando al paziente il senso del proprio diritto di esistere, della propria vitalità e integrazione.

Guarire i traumi attraverso il NARM

Dispiegando tali argomenti con un linguaggio dove il moderato tecnicismo si alterna a numerose esemplificazioni tratte da casi clinici, il corposo libro di Heller e LaPierre, Guarire i traumi dell’età evolutiva, si mostra di rilevante utilità tanto agli addetti ai lavori nella pratica clinica quanto a tutti coloro che sono interessati ad aumentare la consapevolezza di sé e la propria crescita emotiva.

Il libro si dedica inizialmente alla disamina degli stili di sopravvivenza che, formatisi nel corso delle primissime fasi di vita, come tentativi di adattarsi a un ambiente ostile e proteggere le figure di accudimento, si cristallizzano in età adulta come modalità patologiche di essere e relazionarsi a se stessi e agli altri, per poi dedicare ampia discussione alla disamina del Modello Relazionale Neuroaffettivo (NARM), modello di psicoterapia che “pur non ignorando il passato, mette maggiormente in risalto le risorse del presente, la resilienza e la capacità di essere connesso con se stesso e con gli altri, a tal fine avvalendosi della pratica Mindfulness”.

Guarire i traumi dell’età evolutiva: lo stile di sopravvivenza Connessione

A titolo esemplificativo, tra quelli illustrati nel libro Guarire i traumi dell’età evolutiva, si esaminerà lo stile di sopravvivenza Connessione, il più precoce, poiché risalente ai primi sei mesi di vita. Si caratterizza per una sconnessione dal proprio corpo, dai propri sentimenti, dal mondo, con la conseguenza di non sapere ciò che si prova a livello emotivo e corporeo e l’incapacità di relazioni intime. Il proprio sé viene così vissuto come fonte di vergogna e gli altri come minaccia, “fonte di abbandono, a cui non attaccarsi per la mancata percezione di sicurezza del legame”; per questo si sceglie di isolarli, attraverso la spiritualità o professioni prestigiose che testimoniano la soddisfazione delle aspettative sociali, una facciata sorridente in grado di mascherare il vuoto e il dolore di una vita emotiva frammentata, di una paura del legame che diventa sia paura dell’incontro con l’Altro che paura della rabbia rivolta verso di Sé per un rifiuto inaccettabile, da meritare per la propria intrinseca inutilità.

Per i tipi Connessione, sottolineano le Autrici di Guarire i traumi dell’età evolutiva, entrare a contatto con il proprio corpo è impossibile, perché “sentire equivale a sentirsi un bambino traumatizzato e terrorizzato”, entrare a contatto con la rabbia significa esserne sommersi, morire, nella misura in cui il corpo è depositario di elevati livelli di attivazione, espressione dell’iperattivazione del sistema simpatico, delegittimando in tal modo il diritto di esistere e restringendo la propria vita per gestire l’eccesso di stimoli, senza la capacità di consolarsi e regolare il senso di vuoto e perdita, e preferendo un’immagine di sé buona, in contrasto con la cattiveria dell’abusante.

Ecco la voglia di contatto e amore contrastata dalla paura di essere annientati, dove le emozioni dominanti sono vergogna e rabbia per se stessi, per il fatto di sentirsi vulnerabili e bisognosi di cure, talvolta disfunzionalmente affrontate da identificazioni basate sull’orgoglio del “non avere bisogno di nessuno”; in questa ambivalenza esistenziale si pone il ruolo della psicoterapia, attraverso cui “comunicare ai clienti di essere consapevoli del carico emotivo che portano, intensificando gradualmente il contatto fisico ed emotivo, prima verbale e poi visivo, affinché si inizi a percepire se stessi e gli altri come fonte di benessere e non di minaccia, disidentificandosi dall’eccessiva autonomia o dall’eccessiva dipendenza”.

NARM: come agire sui traumi del passato

Nel Modello Relazionale Neuroaffettivo (NARM) il fine è di far riemergere rabbia e dolori inesprimibili senza farsi travolgere, rievocando esperienze positive, fornendo feedback compassionevoli sul modo di agire l’aggressività verso l’interno, con il fine integrarla nel proprio Sé, sostenendo la vitalità e l’espansione, e regolando il sistema nervoso. La terapia riuscirà così a rinegoziare l’esperienza di vergogna, riprendendo il contatto con le esperienze non verbali del corpo, sorretti dal terapeuta, fonte di accudimento, o dal ricordo di figure significative, fonte di calore, e che le Autrici ottimisticamente rintracciano in ogni forma di abuso, in particolare nei traumi da shock.

Il recupero di ricordi felici, di qualcuno che è stato in grado di dare calore, o la focalizzazione sull’esperienza affettivamente nutriente di un terapeuta empatico, sostengono la stabilità del corpo e del sistema nervoso, promuovendo l’autoconsolazione. Ciò, sottolineano le Autrici di Guarire i traumi dell’età evolutiva, non è in contrasto con l’elaborazione dei ricordi traumatici del passato, ma parte dall’evidenza che

concentrarsi sulla disfunzione rischia di rinforzarla, rischiando di rendere l’anamnesi personale più importante dell’esperienza presente, mentre è importante mantenere una duplice consapevolezza, del passato e del presente.

Un ricordo con funzione di contenimento relazionale che detiene il potere terapeutico di riconnettere a se stessi,

ammorbidendo la rigidità dei muscoli, alleggerendo il respiro, colorando la pelle, permettendo il radicamento nel corpo e favorendo l’esplorazione e la consapevolezza del corpo nelle sue varie parti

in una sorta di ammortizzatore terapeutico, quella base sicura cara a Bowlby, grazie alla quale recuperare o forse ritrovare per la prima volta nella seduta terapeutica la possibilità di conoscersi e accettarsi al di là della passività di un trauma su cui costruire difensivamente un’immagine di sé indegna, dipendente, o al contrario irrealisticamente autosufficiente, frutto di credenze di base cristallizzate, a costo di sacrificare un’intera esistenza, la sola che si possiede.

Utilizzare la Mindfulness per curare l’acufene

La terapia cognitivo-comportamentale basata sulla Mindfulness (MCBT-Mindfulness Based Cognitive-Behavioral Therapy) potrebbe trasformare il trattamento per la cura dell’ acufene.

 

Una recente ricerca condotta presso il dipartimento di Psicologia dell’Università di Bath nel Regno Unito, sembra suggerire che la Mindfulness possa portare diversi benefici a pazienti che soffrono di acufene cronico.

In particolare, si è visto che la terapia MBCT aiuta a ridurre maggiormente la gravità del sintomo rispetto ai trattamenti basati sul rilassamento.

L’ acufene

L’ acufene è un disturbo caratterizzato dalla percezione di un suono (molte volte fischi o ronzii) in assenza di una fonte sonora esterna.

Il più delle volte il disturbo causa angoscia e difficoltà nelle persone affette ed è spesso associato a disturbi da stress, insonnia, problemi uditivi e di concentrazione. La ricerca finora svolta non ha scoperto alcun tipo di trattamento in grado di interrompere il rumore percepito.

Obiettivi e Caratteristiche dello studio

I ricercatori dell’Università di Bath nello studio sopra citato hanno rilevato chiaramente che un nuovo approccio terapeutico può rendere meno intrusivo e fastidioso il tinnito tipico dell’ acufene. La Dottoressa Marks, autrice dello studio, ha annunciato lo scopo della ricerca

Abbiamo voluto confrontare l’approccio MBCT con il trattamento tradizionalmente utilizzato nella cura del disturbo ovvero le tecniche di rilassamento per determinare quale sia l’intervento miglioramento tra i due.

La differenza sostanziale tra i due approcci è rappresentata dal fatto che la terapia basata sul rilassamento fornisce ai pazienti tecniche specifiche per ridurre i livelli di stress, mentre la MBCT insegna a focalizzare intenzionalmente l’attenzione sull’esperienza che si vive al momento. L’approccio basato sulla mindfulness può offrire quindi una risposta più adattiva al disturbo in quanto il paziente impara ad “accettare” il rumore piuttosto che respingerlo. L’obiettivo finale non è quello di cambiare la percezione del suono bensì quello di rendere l’ acufene meno invadente fino al punto di percepirlo come non più disturbante.

La ricerca, condotta assegnando casualmente 75 pazienti a gruppi di terapia MBCT o basati sul rilassamento, ha trovato che entrambi i trattamenti hanno portato ad un abbassamento dei livelli di gravità dell’ acufene, del disagio generale, dell’ansia e della depressione in tutti i pazienti osservati. Il trattamento MBCT però ha condotto a riduzioni del disturbo significativamente maggiori rispetto all’altro tipo di trattamento, rivelando in aggiunta un effetto più duraturo nel tempo. Inoltre, un secondo gruppo sperimentale, composto da 182 pazienti trattati solamente con MBCT, ha mostrato un livello di miglioramento simile a quello trovato nella ricerca.

La Marks ha dichiarato

L’approccio mindfulness è totalmente diverso da quello che la maggior parte di questi pazienti ha sperimentato finora. Siamo certe del fatto che il nostro studio e le altre ricerche presenti in letteratura offrano sempre più evidenze su come la mindfulness possa essere un approccio terapeutico alternativo. Le nostre ricerche future intendono indagare in che modo la MBCT possa essere impiegata per trattare l’insonnia correlata all’ acufene.

Correlazione tra uso di smartphone e sintomi ansiosi

Sono ancora troppo poche le ricerche che hanno approfondito la correlazione esistente tra un uso eccessivo dello smartphone e il manifestarsi di disturbi d’ ansia, ma i primi risultati hanno evidenziato significative conseguenze sullo stato di salute mentale e di benessere degli individui.

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Diversi studi in letteratura suggeriscono che l’uso dello smartphone sembra avere una correlazione con lo stato di salute mentale (Ha, Chin, Park et al., 2008; Rosen, Whaling, Rab et al., 2013; Van Ameringen, Mancini, & Farvolden, 2003), altri ancora hanno evidenziato la correlazione tra salute mentale e rendimento scolastico in studenti universitari (Eisenberg, Golberstein, & Hunt, 2009; Hysenbegasi, Hass, & Rowland, 2005).

Secondo le ricerche condotte da Anderson (2015) e Smith (2015), il 68% degli adulti americani possiede uno smartphone; in particolare, i giovani adulti di età tra i 18-29 anni mostrano una percentuale piú alta rispetto a qualsiasi altro gruppo di età.

I giovani e l’uso dello smartphone

In uno studio condotto da Smith sull’uso di smartphone (2015), è emerso che il 100% dei giovani adulti partecipanti che possedevano uno smartphone usavano il loro telefono cellulare per la messaggistica di testo almeno una volta nel corso di una settimana, il 97% per navigare in internet, il 93% per chiamate telefoniche/ videochiamate, il 91% per inviare e-mail ed il 91% per utilizzare i social network.

La popolarità degli smartphone tra gli studenti universitari è probabilmente dovuta all’apertura di quest’ultimi alle nuove tecnologie. Gli studenti universitari infatti sono generalmente più aperti all’uso delle nuove tecnologie, i primi a provare nuove cose e a sperimentare nuovi modi per utilizzare la tecnologia esistente (Nelson, 2006; Rogers, 1995).

Si stima che circa l’ 85% degli studenti universitari americani possiede uno smartphone ed il numero dei possessori di smartphone sarà destinato a crescere (Anderson, 2015; Emanuel, 2013). Entro il 2020, le proiezioni indicano che i proprietari di smartphone saranno più del doppio di quelli attuali, circa 6,1 miliardi, ovvero il 70% della popolazione mondiale. Molti di questi nuovi utenti saranno parte di Paesi in via di sviluppo.

Dal momento che si assisterà ad una maggiore accessibilità del dispositivo, l’economia crescerà così come il numero di giovani (Cerwall, 2016). Con questo aumento, le connessioni mobil supereranno il numero delle linee telefoniche fisse in tutto il mondo.

Conseguenze negative dell’uso dello smartphone

Le innovazioni tecnologiche, tuttavia, non sono prive di conseguenze. È vero che al giorno d’oggi lo smartphone è utilizzato per diversi scopi positivi, come, ad esempio, fare ricerche online, scaricare applicazioni per migliorare la dieta, fare online banking e anche prenotare appuntamenti dal dottore (Smith, 2015), l’uso dello smartphone però può portare anche a delle conseguenze negative.

In uno studio condotto da Smith (2015), il 46% degli utenti che possedeva uno smartphone ha riferito di avere la sensazione di non poter più vivere senza il proprio telefono cellulare, il 30% ha riferito di avere la sensazione che il telefono li tenesse al “guinzaglio” limitando la propria libertà e il 19% ha affermato che il telefono rappresenti un incombente onere finanziario.

Inoltre, Rosen e colleghi (2013), grazie alla creazione di uno strumento che misura l’uso dei media e della tecnologia ed i comportamenti associati all’uso di tali dispositivi (MTUAS), hanno scoperto che esisteva una correlazione positiva tra il tempo speso usando uno smartphone e l’ ansia legata al non controllare spesso il telefono.

Possibili disturbi psicopatologici: ansia e depressione

Il numero di ricerche che ha approfondito la correlazione tra l’uso del telefono e l’ ansia è limitato, ma i risultati mostrano una serie di effetti significativi legati all’uso del telefono cellulare e tale psicopatologia.

Per esempio, nello studio di Ha e colleghi (2008), studenti provenienti da una istituto tecnico sono stati invitati a partecipare ad un sondaggio sull’uso eccessivo del telefono cellulare. L’indagine ha incluso domande su “difficoltà di controllo, la necessità permanente di essere connessi con gli altri, e modelli di comunicazione specifici tramite telefono cellulare” (Ha, Chin, Park, Ryu, & Yu, 2008). I ricercatori hanno scoperto che gli utenti che facevano un eccessivo uso di telefonia mobile avevano riportato bassa autostima, più alto livello di ansia interpersonale, e difficoltà di espressione delle emozioni (Ha, Chin, Park, Ryu, & Yu, 2008).

Un ulteriore studio condotto da Jenaro e colleghi (2007) ha dimostrato che coloro che facevano un massiccio uso dello smartphone avevano piu probabilità di soffrire di disturbi somatici, insonnia, ansia e depressione rispetto a coloro che ne facevano un uso sporadico. Inoltre, gli studi di Rosen e colleghi (2013) hanno dimostrato che l’ ansia causata dal non controllare i messaggi di testo e i social network sono predittori significativi di depressione (Rosen, Whaling, Rab et. al., 2013).

Conseguenze a livello cerebrale

La dipendenza da smartphone potrebbe causare anche un importante squilibrio a livello cerebrale, secondo un nuovo studio (Hyung Suk Seo et al., 2017). La ricerca ha riguardato persone molto legate al proprio telefono e all’uso di internet e ha messo in luce come questo rapporto sembra danneggiare il modo in cui il loro cervello funziona, causando squilibri chimici che potrebbero causare gravi sintomi ansiosi.

Le persone che si descrivevano come dipendenti dal proprio telefono cellulare venivano sottoposte a un test noto come MRS, che esamina la composizione chimica a livello cerebrale. I ricercatori hanno misurato i livelli di acido gamma aminobutirrico (GABA), una sostanza chimica che rallenta i segnali nel cervello e hanno scoperto che il rapporto tra GABA ed un altro importante neurotrasmettitore era disattivato nelle persone a cui era stata diagnosticata la dipendenza da internet e smartphone. Ciò potrebbe avere effetti profondi sul modo in cui funziona il loro cervello, hanno detto i ricercatori.

Aumento del rischio suicidario e influenza dei tratti di personalità

Jean Twenge, professore di psicologia alla San Diego State University e laureato all’Università di Chicago negli Stati Uniti, si è dedicato molto alla problematica dei giovani e della salute mentale.

Recentemente ha pubblicato uno studio che mostra un legame tra l’aumento del numero degli smartphone e tassi crescenti di depressione, tentativi di suicidio e suicidio stesso tra gli adolescenti. La scoperta è basata su dati compilati dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie negli Stati Uniti e indagini sugli adolescenti. Ha rivelato che i sentimenti di disperazione e pensieri suicidari sono aumentati del 12% tra il 2010 e il 2015. Quasi la metà degli adolescenti che hanno dichiarato di trascorrere cinque o più ore al giorno su uno smartphone, un laptop o un tablet ha detto di aver pensato, pianificato, o tentato il suicidio almeno una volta, rispetto al 28% di coloro che hanno dichiarato di trascorrere meno di un’ora al giorno su un dispositivo.

Una nuova ricerca condotta da un team di psicologi dell’Università di Derby e della Nottingham Trent University, ha identificato alcuni dei tratti di personalità che potrebbero portare alla dipendenza da smartphone, trovando che coloro che sono più emotivamente instabili hanno maggiori probabilità di essere agganciati al telefono. Lo studio ha coinvolto 640 persone di età compresa tra i 13 e 69 anni che usavano smartphone ed ha esaminato l’esistenza di un possibile collegamento tra uso di smartphone e particolari tratti di personalità. Il team ha scoperto che coloro che risultavano essere emotivamente meno stabili e resilienti avevano più probabilità di utilizzare maggiormente lo smartphone, probabilmente come forma di terapia. Inoltre, anche le persone che riportavano maggiori livelli di ansia sembravano essere più dipendenti dal loro telefono.

Conclusioni

Abbiamo ancora molto da imparare sull’uso problematico degli smartphone e sulla sua relazione con l’ ansia e la depressione.

È improbabile che l’uso problematico degli smartphone causi un notevole aumento dei problemi di salute mentale nella maggior parte delle persone, tuttavia vale la pena tenere a mente che i sintomi di ansia e depressione potrebbero essere correlati al modo in cui si utilizza il telefono.

Se sei preoccupato, discuti di questo problema con un professionista della salute mentale.

Pedofilia e disturbo pedofilico: la diagnosi, le comorbilità e i casi in letteratura e al cinema

La pedofilia (παῖς, παιδός / φιλία) fa parte, secondo il DSM-5, dei disturbi parafilici, e precisamente del sottogruppo riguardante la predilezione per l’atipicità dell’oggetto sessuale, dove stanno anche il feticismo e il travestitismo.

 

Gli altri due gruppi che fanno parte dei disturbi parafilici riguardano: il primo, i disturbi del corteggiamento, ossia il voyeurismo e l’esibizionismo, e il secondo i disturbi algolagnici (ἄλγος / λαγνεία), ossia il masochismo e il sadismo sessuale.

Pedofilia secondo il DSM-5

Sempre secondo il DSM-5 il termine parafilia indica qualsiasi intenso e persistente interesse sessuale che escluda l’area genitale o che non sia rivolto a partner fisicamente maturi e consenzienti. Ci sono anche parafilie che presentano interessi sessuali preferenziali piuttosto che interessi sessuali intensi.

Alcune parafilie hanno come fonte di piacere primariamente l’atto espressivo, ossia il fustigare, il tagliare, il legare, il picchiare, il mordere, l’insultare, il sottomettere con crudeltà, altre invece non hanno una predilezione per la forma ma per gli oggetti, sia umani che non umani, con cui intrattenersi sessualmente, ossia bambini, cadaveri, persone gravemente sofferenti, animali domestici e non, scarpe o altro genere di abbigliamento, oggettistica di gomma o di altro materiale.

Il DSM-5 distingue il disturbo parafilico dalla parafilia, sostenendo che il disturbo parafilico è una parafilia che, nel momento presente, causa disagio o compromissione nell’individuo, oppure la cui espressione ha arrecato, o rischiato di arrecare, danno a se stessi o agli altri. Una parafilia è una condizione necessaria ma non sufficiente per avere un disturbo parafilico, poiché è una condizione che di per sé non richiede l’intervento clinico o giudiziario. L’uso del termine diagnosi dovrebbe quindi essere riservato solo a individui che hanno un disturbo parafilico.

Pedofilia: come si fa diagnosi

Quali sono a questo punto i criteri necessari per effettuare una diagnosi di disturbo pedofilico? Una premessa si rende necessaria, ossia che la diagnosi deve riguardare sia individui che ammettono questa parafilia, sia individui che negano qualsiasi attrazione sessuale per bambini in età prepuberale, ossia inferiore ai 14 anni, nonostante l’evidenza sostanziale e oggettiva del contrario. Ciò che permette di effettuare la diagnosi di disturbo pedofilico è il passaggio all’atto o la presenza di grave disagio. Se il resoconto sia del soggetto che dei familiari, accompagnato da un’anamnesi accurata e documentata, non indicano che egli abbia mai compiuto atti sessuali con minori, possiamo dire che ha un interesse pedofilico, ma non un disturbo. Allo stesso modo se un individuo ha di preferenza fantasie, desideri o impulsi pedofilici che tuttavia non solo non ha mai agito, ma che non costituiscono fonte di disagio, vergogna, ansia o senso di colpa e non costituiscono una limitazione al suo funzionamento lavorativo, sociale e personale, non può essere diagnosticato come una persona affetta da quel disturbo. Occorre tuttavia prestare attenzione a coloro che negano difficoltà interpersonali con adulti, che negano l’attrazione per bambini e che giustificano il loro eventuale approccio a prepuberi come privi di natura sessuale e quindi affatto causa di disagio.

Pedofilia: diagnosi differenziale e comorbilità

A volte può succedere che l’impegno psichico e relazionale di natura pedofilica sia transitorio e motivato da precisi eventi (1). Perché sia considerato un disturbo occorre che sia presente in modo continuativo per almeno sei mesi. Anche l’età dei pedofili ha la sua importanza. Non si può diagnosticare l’affezione a coloro che abbiano un’età inferiore ai 16 anni, così come la differenza tra soggetto e vittima deve essere superiore ai 5 anni.

Il termine pedofilia andrebbe riservato ai soli casi dove non vi sia associata la violenza manifesta (2) o lo stupro, nel qual caso si tratterebbe di una parafilia multipla (Lehne & Money, 2004) o di comorbilità. Nel disturbo da sadismo sessuale con minori, per esempio, il piacere deriverebbe più dalla matrice sadica che da quella pedofilica.

I disturbi in comorbilità, avverte il DSM-5, si ritrovano spesso in condannati per reati sessuali che coinvolgono bambini. La comorbilità psichiatrica comprende, infatti, una vasta gamma di altre patologie, da coloro che utilizzano sostanze, agli antisociali, a coloro che presentano altre parafilie.

Nel ritardo mentale, nelle sindromi psico-organiche, in chi abusa di alcool o di altre sostanze psicotrope viene solitamente meno il controllo degli impulsi e la capacità di giudizio, per cui tra i vari comportamenti patologici ci può essere anche l’utilizzo erotico di minori.

Pedofilia: distinzione tra primaria e secondaria

La pedofilia non sempre si inserisce nel contesto di una psicopatologia, di cui è eventualmente l’epifenomeno (Marasco, Spalletta & Paolucci, 2000). A volte si tratta di atteggiamenti, di desideri, di fantasie, di tendenza preferenziale. Fishman (1996) suggerisce perciò di distinguere una pedofilia primaria (essenziale) da una pedofilia secondaria (determinata da altre condizioni psicopatologiche).

Abel et al. (1987), che hanno condotto un’indagine tramite interviste strutturate su 561 individui affetti da parafilia, hanno rilevato che le attività esclusivamente pedofiliche non avevano connotazioni di violenza fisica. Anche Finkelhor e Lewis, nel loro studio epidemiologico, riportano che non vi è riscontro in letteratura di ostilità del pedofilo nei confronti del bambino, se mai di manipolazione o di falsità al fine di indurlo a compiere atti sessuali (3).

I pedofili attivi in genere cercano di non maltrattare i bambini che avvicinano, sia per l’attrazione che provano, sia per evitare che essi raccontino ad altri quanto succede negli incontri. Si mostrano di solito affabili e disponibili con l’obiettivo di catturarne l’interesse ed averli così complici nei giochi erotici. La seduzione, l’atteggiamento di tenerezza e comprensione possono mescolarsi a modalità più pressanti, sul filo dell’inganno e della violenza psicologica, quasi mai attraverso l’aggressione o la costrizione fisica.

La maggior parte dei pedofili è di sesso maschile; esistono tuttavia casi perpetrati da donne, anche se gli stereotipi culturali li rendono statisticamente meno evidenti. In genere la donna non è ritenuta in grado di commettere atti sessuali nei confronti di minori e questa convinzione porta a non considerare abusi, comportamenti che invece lo sono (Hislop, 2001). Difficilmente ad esse viene assegnata una condotta definita pedofilica, in quanto tendono a negare le fantasie e l’eccitazione sessuale (Travin, Cullen & Protter, 1990) e sono più restie ad ammettere l’immoralità dei loro gesti, specialmente se le vittime sono maschi. Generalmente scelgono bambini per i quali rivestono un ruolo educativo o di accudimento.

L’abuso compiuto da una donna sembra molto più devastante per la psiche del bambino rispetto a quello maschile, in quanto dalla donna … non ci si aspetta un comportamento del genere, ma al contrario, un atteggiamento di cura e protezione

(Casonato, Bura & Hertelt, 2004).

In questo mio contributo tratterò della pedofilia maschile non in comorbilità con altre patologie psichiatriche, almeno quelle soggette a diagnosi secondo i criteri del DSM-5. Metterò in evidenza ciò che accomuna e ciò che differenzia l’interesse pedofilico dal disturbo pedofilico.

Interessi peddofilici in letteratura: da Ovidio e Virgilio a Thomas Mann

Non tutti sanno che Morte a Venezia di Luchino Visconti, o La novella (1912) di Thomas Mann (4) da cui è tratto il film, è una storia vera. Lo scrittore, premio Nobel per la letteratura (1929), disse che il racconto si basava su di un viaggio a Venezia, che fece nel 1911 (5) assieme alla moglie Katia Pringsheim, la quale racconta, nelle sue memorie, che un bellissimo e affascinante ragazzo di circa 13 anni aveva catturato, già nei primi giorni del suo arrivo all’Hotel des Bains, l’attenzione del marito. Era per lui un’attrazione molto forte tanto da non perderlo mai di vista ogni volta che si recavano in spiaggia. Era spesso anche nei suoi pensieri (6).

Il fanciullo che fece perdere la testa a Thomas Mann, all’epoca poco più che trentenne, era un certo Władisław Moes, detto in famiglia Władzio o Adzio. Era nato nel 1900 a Wierbka, nel sud della Polonia, quarto di sei fratelli. Apparteneva a una famiglia di ricchi industriali, proprietari di fabbriche tessili, che si era recata a Venezia su consiglio del medico che aveva in cura Władzio. Quando Mann lo incontrò all’Hotel del Bains, dove entrambi soggiornavano, aveva quasi 11 anni e non 13, come pensava la moglie. A differenza di quanto ci mostra Visconti nel film, non si trattava di un adolescente, ma di un bambino, come si evince peraltro anche dalla foto scattata al Lido di Venezia.

Con meraviglia Aschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta … attorniato da ricci color del miele, col naso diritto, la bocca amabile, un’espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture greche dei tempi più nobili … parve non aver mai veduto né in arte, né in natura, nulla di così felicemente riuscito

(Mann, 1954, pp. 32-33).

Il suo incedere, tanto per il portamento del busto quanto per il movimento dei ginocchi, … era di una grazia straordinaria, molto leggero, delicato e superbo insieme, e abbellito ancora dalla timidezza infantile … soprattutto ora, vedendolo di profilo, Aschenbach fu colpito da meraviglia e quasi da sgomento per la bellezza veramente divina … la testa sbocciava come un fiore, con leggiadria incomparabile, una testa di Eros

(Mann, 1954, p. 37).

Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, incantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso della propria bellezza, un sorriso un poco contratto dalla vanità dell’aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno di civetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante … [Ascenbach] abbattuto e scosso da brividi intermittenti, mormorò la formula eterna del desiderio: … ti amo!

(Mann, 1954, p. 67).

L’interesse pedofilico si muove sull’onda dell’amore pedofilico, da cui è generato. Inequivocabile è il sommovimento dell’anima insieme a quello del corpo, come ben dimostrano gli estratti della novella sopra citati. Il vissuto di attrazione fatica a rimanere circoscritto al solo piacere estetico, permeando e scuotendo anche il fisico, attraverso i sensi che accentuano il desiderio di unirsi alla creatura amata.

La descrizione che fa Thomas Mann di Tadzio non è molto diversa da quella che Ovidio riporta nelle Metamorfosi, dove i capelli di Narciso sono degni di Bacco e di Apollo (dignos Baccho et Apolline), le guance sono lisce (inpubes genas), il collo è bianco come l’avorio, la grazia è dipinta sulla sua bocca (decus oris), il rossore del volto si stempera nel candore, simile alla neve (in niveo mixtum candore ruborem) e tutto quanto egli ammira è ciò che lo rende meraviglioso (cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse).

Ascenbach non passerà mai all’atto. La sua mano così desiderosa di accarezzare Tadzio e la sua bocca così pronta per baciarlo rimarranno prigionieri di un sogno. Ovidio rende molto bene l’impossibilità di un vero contatto. Descrivendo Narciso innamorato dell’immagine riflessa ricorda il suo spasimo. Quante volte (quotiens) mandò inutili baci (inrita oscula) all’ingannevole fonte? Quante volte immerse (mersit) le braccia nell’acqua cercando di afferrare il collo (captantia collum bracchia) dell’amato, che con chiarezza vedeva ma che non potè mai concretamente afferrare (nec se deprendit)? Ciò che desideri non esiste (quod petis est nusquam), ciò che ami, se ti volgi altrove, lo perdi (quod amas, avertere, perdes).

Narciso non riesce ad andarsene nonostante la realtà di un incontro desiderato e nello stesso tempo proibito. La forza vitale che l’innamoramento gli procura lo tiene legato alla rappresentazione di sé nell’acqua. Abbandonare quella vista equivale a spegnere ciò che prova. Meglio morire desiderando piuttosto che morire nel lutto, anche se, sussurra tra sé Narciso, ciò che vedo e che mi piace (quod videoque placetque), alla fine non lo posso né raggiungere nè incontrare (invenio). Se non ho modo di toccarti (quod tangere non est), mi sia almeno concesso (liceat) di guardarti, così che possa alimentare la mia passione (praebere alimenta furori).

Della sofferenza per un amore non corrisposto T. Mann aveva già scritto in Tonio Kröger (1903): un racconto che ricorda l’infatuazione che lo scrittore ebbe per il suo compagno di scuola Armin Martens (7). I primi capitoli parlano infatti di due quattordicenni, Tonio Kröger e Hans Hansen. Tonio amava Hans perchè era bello, aveva i capelli color biondo che, a forma di ciuffi, spuntavano da sotto il cappello alla marinara, aveva gli occhi azzurri. Tutti per strada, uomini e donne, lo fermavano e i compagni si contendevano la sua amicizia. Amava Hans “anche perchè era il suo opposto in tutto e per tutto. Hans era un ottimo scolaro e per di più un bel tipo che cavalcava, faceva ginnastica, nuotava da campione e godeva della simpatia generale” (Mann, 1984, p. 155).

Più che desiderare di essere come Hans, di cui invidiava la capacità di “vivere in felice accordo con tutto e tutti” (Mann, 1984, p. 156), sentiva “una dolorosa brama di essere amato da lui” (Mann, 1984, p. 156). Hans, dal canto suo, si dimostrava grato e dava a Tonio “parecchie gioie con le sue gentilezze, ma anche parecchie pene di gelosia, di delusione” (Mann, 1984, p. 157).

L’idealizzazione del bambino o dell’adolescente è una caratteristica presente in tutte le forme di pedofilia. L’esaltazione della bellezza fisica, delle doti espressive, del comportamento o del modo di vestirsi, indipendentemente dall’oggettività in sé, è un elemento indispensabile nel sorgere dell’interesse. Tuttavia il trasporto dell’adulto per il bambino, nella pedofilia, non è limitato all’affettività, al calore, alla tenerezza, al ben volere o al buon gusto, che in genere si prova quando si ha a che fare con dei piccoli. Il sentimento che il pedofilo nutre travalica l’assetto di cura o di attenzione che un qualsiasi genitore potrebbe provare per il figlio prepubere. A volte in modo falso, per difendersi da accuse proprie o altrui, il pedofilo giustifica l’interesse che prova come fosse quello di un padre, sottraendo alla narrazione la realtà delle sue percezioni. Il vero pedofilo è ben cosciente che l’amore che egli dichiara di vivere nei confronti del bambino è un amore al pari di quello che può esserci in una coppia di fidanzati, dove il desiderio di parlarsi si intreccia col desiderio di accarezzarsi e di scambiarsi piaceri erotici.

Virgilio nella II Egloga parla del pastore Coridone che arde d’amore per il bellissimo Alessi (formosum Alexin): un ragazzo (puer) che nel suo sottrarsi fa disperare Coridone, il quale non può far altro che rivolgere in solitudine il suo canto d’amore ai monti e alle selve (solus montis et silvis). Come la leonessa insegue il lupo (leaena lupum sequitur) e il lupo la capra (lupus ipse capellam), così Coridone cerca con tutto se stesso Alessi. Ciascuno è trascinato dal suo desiderio (trahit sua quemque voluptas), poiché l’amore brucia (urit amor) e non ha misura.

Virgilio usa verbi quali ardere (ardēre), bruciare (ūrĕre) che sono tipici del lessico erotico. Il tutto avviene in uno scenario bucolico che idealizza la vita campestre, l’armonia con la natura, dove i pastori si giovano della pace offerta dall’ambiente, per cui gli unici problemi di cui soffrono sono quelli legati al cuore e alle schermaglie amorose. L’immaginario che viene sollecitato da questa descrizione poetica è completamente avulso dalla realtà, dalla difficile condizione di vita in cui versava allora chi coltivava i campi e allevava le bestie.

Il pensare oscilla continuamente tra la dimensione della realtà, rappresentante dell’ambiente in cui viviamo e la fantasia, quale costruzione ideativa del nostro mondo interno. Nella misura in cui sappiamo riconoscere e declinare questi due aspetti, li sappiamo aggiustare e integrare, concorrono a dare sapore ai nostri vissuti, a stimolare l’iniziativa, a riempire quei vuoti che necessariamente la vita impone e a prendere le giuste decisioni di fronte al conflitto. Se al contrario sovrintendono in modo unico e assoluto la guida della nostra mente, può accadere che invece di essere una attrezzatura che dà vantaggi, produce disturbi e causa danni, a volte seguiti da intensa e duratura sofferenza.

Thomas Mann appare come colui che ha saputo gestire al meglio queste due funzioni psichiche. L’idealizzazione fantastica del fanciullo che casualmente incontrò a Venezia non si trasformò mai in un evento agito, né divenne così determinante da indurlo ad abbandonare ciò in cui aveva creduto fino a quel momento. La forza e l’intensità dell’impulso collegato a quella figurazione furono indirizzati verso la creatività artistica. Senza quella tensione e quello stato d’animo non avrebbe mai scritto Morte a Venezia. L’idealizzazione di Władzio non scardinò e governò la sua mente. Seppe conservare e difendere ciò che gli era altrettanto caro: la stima di sé, la fiducia nella vita matrimoniale, l’impegno sociale e politico, il piacere che gli derivava dallo scrivere e dall’essere circondato da amici.

Non penso, tuttavia, sia stato quello di Mann un percorso del tutto agevole, che non gli abbia ossia richiesto un certo impegno mentale e la necessità di tollerare momenti di ansia variamente presenti nel corpo come nell’anima. In tal senso occorre precisare meglio ciò che il DSM-5 dice a proposito dell’interesse pedofilico, che viene così definito qualora non costituisca fonte di disagio, vergogna, ansia o senso di colpa. Alcuni soggetti, pur vivendo con tranquillità le fantasie, gli impulsi o i comportamenti pedofilici in quanto di natura egosintonica, possono provare ugualmente disagio a causa dell’impatto con l’ambiente, del timore di essere scoperti, giudicati o sanzionati. Per altri invece, come nel caso del nostro autore, il disagio è già nell’essere attraversato da tali desideri.

L’oggetto d’amore quando è altamente idealizzato esercita una fascinazione e una consistente attrazione nei confronti del soggetto, il quale tende a volerlo fortemente per sé, spinto dal desiderio più o meno cosciente di un possesso fusionale (8). La differenziazione generazionale e motivazionale tende a scomparire, per cui il soggetto adulto ama e vuole congiungersi col bambino, nella fantasia (nel caso di interesse pedofilico) o nella realtà (nel caso di disturbo pedofilico), come se fossero due partner adulti e consenzienti, oppure due fanciulli entrambi motivati a un gioco erotico (9).

V. Turra in un interessante scritto annota che quando Ascenbach pensa che Tadzio probabilmente non arriverà alla vecchiaia (10), perchè delicato, malaticcio, probabilmente anemico, cerca di renderlo identico a sé. Trasforma la sua giovinezza in una sorte di vecchiaia e la sua salute in malattia: un pareggiamento dell’età e dello stato fisico. Ascenbach decise di intraprendere un viaggio perchè da tempo non stava bene e raramente usciva dalla città in cui abitava. La paura di non riuscire a vivere ancora per tanto tempo era sempre più presente (11).

All’inizio del racconto Ascenbach identifica Tadzio, mentre lo sta guardando, con Narciso (12), ma Tadzio non sta contemplando se stesso nello scorcio d’acqua, come vuole il mito. In un gioco artificioso di specchi che si spostano Ascenbach diventa la faccia riflettente di Tadzio. Il dislivello di età e di stato fisico viene annullato per apparire entrambi come dei ragazzi belli e spensierati (13) che si ammirano. Turra fa notare che anche nell’inversione dei ruoli (prima entrambi vecchi, ora entrambi giovani) la parità tra i due rimane.

Il barbiere da cui Ascenbach andava sempre più sovente lo convinse un giorno a colorare i suoi capelli, perchè le tracce della vecchiaia venissero il più possibile eliminate (14), adducendo che l’età è quella dello spirito, quella del cuore, per cui “i capelli grigi sono assai più menzonieri che la deprecata tintura” (Mann, 1954, p. 91). Dai capelli il barbiere passò poi al viso e, mentre il trattamento procedeva, Ascenbach cominciò a sentire dentro di sé “un’ansiosa speranza”.

Vedeva nello specchio le sue sopracciglia disegnarsi più regolari e più nette, allungarsi il taglio degli occhi, aumentare lo splendore delle pupille … le sue labbra esangui prendere un bel colore di fragola, sparire sotto creme e belletti i solchi delle guance, della bocca, le rughe degli occhi … ammirò nello specchio un florido giovanotto (Mann, 1954, pp. 91-92).

L’illusione sostituisce la realtà e il pensiero onnipotente ha la meglio sulla coscienza. L’essere entrambi vecchi o entrambi giovani autorizza la visione simmetrica della coppia, crea lo spazio perchè sia giustificata l’attrazione erotica, che altrimenti non sarebbe lecita. Ascenbach infatti decide di non dire nulla alla madre di Tadzio riguardo al pericolo incombente su Venezia, di una pestilenza che andava sempre più allargandosi, perchè incapace di tollerare la disunione della coppia, la separatezza di due percorsi, di pensare all’uno senza l’altro (15).

Pedofilia nell’antica Roma e nell’antica Grecia

Solo nell’antica Grecia e nell’antica Roma l’amore per un adolescente (ἐρώμενος) era qualcosa di perfettamente normale e legale, sia che fosse pensato sia che fosse agito, per cui l’unica ansia e l’unico tormento del soggetto (ἐραστής) riguardavano l’estenuante corteggiamento per averne i favori (16). Mancia ricorda che in Nuova Guinea è d’uso che un Sambia adulto conceda il suo pene al fanciullo che vuole ingoiarne lo sperma (17).

In questi casi la cultura permea il sistema educativo e costruisce la personalità degli individui, per cui in quei luoghi e a quei tempi non era un evento traumatico per un ragazzo avere rapporti sessuali con un adulto, perché era considerato da quella civiltà un rito di passaggio, di cui andarne se mai orgogliosi. Oggi non è così, almeno nei paesi industrializzati, per cui il passaggio sano e armonico di un bambino verso l’adolescenza e la giovinezza richiede che il suo corpo e la sua mente siano esclusi da ogni sollecitazione ed induzione erotica, pena un senso di disagio e di malessere che possono seriamente condizionarne lo sviluppo (18).

In tal senso coloro che provano un interesse erotico verso un ragazzo o una ragazza, per far sì che rimanga confinato all’interno del pensiero e non si trasformi in azione, devono necessariamente avvalersi di ulteriori risorse psichiche, riferibili al giudizio, alla riflessione, all’adeguamento alla realtà, al contenimento delle istanze istintuali. Se così non è, non si può più parlare di interesse, ma di un vero e proprio disturbo pedofilico quale esso è apparso nelle cronache sia recenti che passate a proposito dell’abuso di minori da parte di sacerdoti.

Pedofilia nel film Il caso spotlight

Alla fine del film Il caso spotlight (19) del regista Tom McCarthy, vincitore di due Premi Oscar come miglior film e miglior sceneggiatura originale, dopo i titoli di coda, appaiono sullo schermo i paesi dove sono stati denunciati i reati di pedofilia commessi da ministri del culto. Ciò che mi ha colpito è l’interminabile elenco, con i numeri delle vittime in alcuni casi anche elevati, evidenziandosi come una piaga all’interno di un mondo che si è globalizzato non solo nei mezzi di comunicazione, ma anche nei vizi.

L’amore e “l’ebrezza tardiva e profonda” per Tadzio incoraggiavano e persuadevano Ascenbach “a permettersi senza paura e senza vergogna le cose più sorprendenti” (Mann, 1954, p. 73). Cercava di tacitare dentro di sé la consapevolezza di “un’avventura inammissibile”, di essere travolto da “esotiche sregolatezze del cuore” (Mann, 1954, p. 73). Si sentiva di compiere atti poco dignitosi, differenti, fino alla degenerazione, da ciò che i suoi antenati gli avevano insegnato. L’idea di lasciare Venezia, “di ritornare a casa, alla prudenza, all’ordine, alla fatica” lo ripugnavano così tanto da provare un intenso “malessere fisico” (Mann, 1954, p. 87).

T. Mann resse nella sua vita questo conflitto, attingendo alle leggi morali e culturali in cui egli credeva, così che potessero impedire che la spinta pulsionale si trasformasse in propositi e fatti. In un saggio (Sul matrimonio) del 1925 scrive:

Il rifiuto dell’idea della famiglia e della perpetuazione attraverso la prole … è l’espressione del medesimo processo di dissoluzione della disciplina vitale … che ho rappresentato nella Morte a Venezia sotto forma di pederastia … Ho sempre spiritualmente congiunto il concetto di vita con quello di dovere, di servizio, di vincolo sociale e perfino di dignità. Thomas Buddenbrook e Ascenbach sono morituri, disertori della disciplina e della moralità vitali, baccanti della morte: una tendenza che imparai ben presto a capire con una parte di me stesso

(Mann, 1982, pp. 125-126).

La condanna e la squalifica della pederastia, quale modalità che, secondo lo scrittore, mortifica la vitalità, abbruttisce lo spirito e rende vano ogni sforzo di condurre una vita dignitosa, e la difesa dei valori rappresentati dal vincolo matrimoniale, serve a Mann per arrestare sul nascere una qualsiasi condotta moralmente inammissibile. Più avanti scrive ancora:

Appare chiarissimo … che virtù e moralità sono elementi della vita, nient’altro che il suo imperativo categorico, il comandamento stesso del vivere, mentre ogni forma di estetismo è di natura pessimistico-orgiastica, inclina cioè alla morte” (Mann, 1982, p. 124).

L’enfasi sul concetto di morte collegata alla dimensione estetica dell’eros e l’esaltazione dell’aspetto etico del vivere aiutano Mann ad eliminare ogni dubbio in merito allo spazio da concedere all’istintualità perversa. Il richiamo all’imperativo categorico kantiano è finalizzato a costruire un limite interiore che obbliga l’Io a rifiutare la sollecitazione pedofilica.

Viene da chiedersi, per i sacerdoti che non seppero fare altrettanto, quanto fosse autentica la convinzione religiosa dell’amore per l’altro, che sta alla base della dottrina cristiana. Avere cura dell’oggetto del proprio amore non significa possederlo, trasformarlo forzatamente in un compagno di giochi erotici, travalicandone la volontà e il desiderio. La violenza psicologica, nell’agito pedofilico, è forse più determinante il trauma rispetto a quella fisica. In che modo il bambino può sentirsi amato nella realtà e rispettato nella sua individualità? Come può costruire un rapporto di fiducia e di condivisione all’interno di un vorticoso susseguirsi di proiezioni, di fabulazioni, di bramosie?

T. Mann sembra venire in loro aiuto, quando in La morte a Venezia alla domanda “Che educatore può mai essere colui che per istinto incorreggibile e naturale è attratto verso l’abisso?” dove per abisso (Abgrund) si deve intendere la tentazione dell’eros, di un eros che si pone al servizio della bellezza e del suo richiamo senza curarsi delle conseguenze, del possibile dissolvimento morale a cui può portare. La risposta è la seguente: “Bene vorremmo rinnegare l’abisso e conquistare la dignità, ma per quanto ci sforziamo, l’abisso ci attira” (Mann, 1954, p. 95).

Il sacerdote che si unisce al minore costringe l’Io a espellere da sé (20), ad invalidare nel momento dell’abuso, ogni riferimento all’amore di Dio per le sue creature. Si dimette ossia da ministro del culto per essere il ministro della sua perversione.

La scissione consente al settore perverso di operare come se fosse una personalità separata, rendendo possibile una distorsione della realtà che può essere leggera o estrema e che è presente in tutte le perversioni” (Goldberg, 1998, p. 91). Anche Jaria e Capri hanno evidenziato che la continuità storica e l’esistenza stessa del pedofilo durante l’incontro sessuale col bambino appaiono sospesi, messi tra parentesi, come se fosse un’altra persona a commettere quelle azioni (Jaria & Capri, 1988).

Poiché il numero delle vittime per singolo sacerdote, stando alle statistiche, è piuttosto elevato, viene da pensare che la scelta non ricada sulla specificità di un determinato bambino, ma su un qualsiasi bambino, purché mantenga i requisiti della sua età, pronto ad essere messo da parte una volta che assume le caratteristiche fisiche dell’adolescente o del giovane.

Sempre Jaria e Capri sottolineano la povertà emotiva e l’insufficienza affettiva, in sostanza l’immaturità personologica del soggetto affetto da disturbo pedofilico. L’anonimità, l’inautenticità e l’astoricità prevalgono su una qualsiasi altra dimensione relazionale, sottraendo al concetto di amore, ma anche a quello di affetto, il loro vero significato e lasciando inalterata solo l’urgenza erotica.

Pedofilia e craving

La tendenza del pedofilo a rivolgersi verso un genere piuttosto che verso un singolo, anche se per contingenze situazionali si concretizzano su un determinato bambino, fa pensare alla somiglianza con il craving del tossicomane. La sensazione disturbante del vuoto interiore, al limite dello scompenso angoscioso del senso di sé, costringe il tossicomane a cercare affannosamente un rimedio, non importa quanto sia lecito e opportuno. Allo stesso modo la sensorialità erotica che il pedofilo soddisfa nei vari approcci non incontra ostacoli poiché egli non conosce altra via per non soccombere.

Finkelhor e Lewis ipotizzano che attraverso l’atto sessuale vi sia non solo il piacere erotico ma anche la soddisfazione dei bisogni di contatto, di dipendenza e di apertura al vissuto emotivo che altrimenti rimarrebbero impediti. I due autori partono dall’idea che soprattutto il maschio non goda nel sistema educativo americano di sufficienti rapporti fisici, prima con i genitori e poi col gruppo dei pari; per questo motivo, più della donna, dà molta importanza al sesso.

In tal senso l’utilizzo erotico del bambino può essere considerato un mezzo da parte del pedofilo per recuperare la vitalità, l’opportunità di colmare un vuoto emotivo e un’esigenza di contatto che non troverebbe in altri modi. Il bambino è colui che spontaneamente si avvicina all’adulto (21) e interagisce con lui.

Anche Goldberg sostiene che la persona con un Sé indebolito utilizza “l’eccitazione sessuale come attività vitalizzante: la sessualità viene usata per sentirsi vivi” (Goldberg, 1998, p. 114). Se infatti si toglie il velo all’incessante sessualizzazione del rapporto con l’altro, si scorge “un vuoto emotivo e intellettuale”. I pazienti che lo psicoanalista aveva in trattamento e che presentavano problematiche perverse erano “individui fondamentalmente poco interessanti, limitati e privi di risorse interiori, scarsamente coinvolti con il loro ambiente, se non in modo superficiale” (Goldberg, 1998, p. 115 ).

Il comportamento impulsivo e sregolato del pedofilo, come di un qualsiasi altro affetto da un disturbo parafilico, è reso possibile in quanto la parte scissa del Sé “non presta ascolto alle normali richieste del Super-Io” (Goldberg, 1998, p. 153). L’Io, già di suo indebolito, trovandosi senza alleati, perde la capacità di gestire le richieste interiori con coerenza e misura; anche la realtà circostante col suo debito di responsabilità e di dignità non è più percepibile in modo proprio. Il conflitto tra la fantasia idealizzante e la realtà, tra la pulsionalità e la moralità, viene azzerato, e così ogni possibile differenza tra sé e l’altro, tra i bisogni propri e quelli altrui. Trionfa l’agire che in quel momento è supposto dare subito il risultato atteso, ossia il piacere che riequilibra l’umore, che consente un recupero dell’esserci e del sentirsi.

Pedofilia in ambito religioso

Il Club, un film di P. Larrain, gran premio della giuria alla Berlinale del 2015, narra la storia di quattro preti e una suora che non esercitano più il loro ministero da tempo. Vivono in una casa di un piccolo paese sul mare, vicino a Santiago, in Cile. Sono stati lì confinati dalla Chiesa locale per aver commesso dei reati. Poco alla volta emergono le loro storie: di pedofilia, di compravendita di neonati, di maltrattamento di una bambina, di collusione col regime dei militari. Passano il tempo partecipando alle corse di cani con il loro levriero. Non parlano mai tra di loro di quanto accaduto, né riflettono con sincerità e autentico pentimento sulle azioni commesse quando esercitavano il loro ministero, benchè così contrarie alla morale e alla missione sacerdotale e religiosa.

L’apparente tranquillità viene sconvolta dall’arrivo di Sandokan, un uomo abbruttito dalla povertà e dall’emarginazione sociale, che si mette a urlare fuori dalla casa di essere stato abusato da bambino da padre Mattia, l’ultimo arrivato in quella piccola comunità, in quel club. Ricorda le frasi seducenti del prete: “Tutto quello che vedi è opera del Signore… Tu sei stato col messaggero del Signore”. Continua raccontando in modo particolareggiato gli incontri sessuali, aggiungendo che nonostante gli venisse da vomitare, veniva sempre invitato a continuare.

All’inizio del film, su uno sfondo buio compare la scritta: “E Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” Genesi 1, 4.

In un’intervista Larrain spiega: “La prima scena [dopo la citazione della Bibbia] ci mostra un uomo e un cane che giocano nella sabbia, facendo un cerchio: perchè io penso che non è possibile separare il buio dalla luce, e questa è l’idea del film” (22).

Il buio a cui il regista si riferisce ha sicuramente a che fare con gli atti di disumanità che i protagonisti della storia filmica hanno compiuto. Io vorrei usare questa terminologia anche per quanto riguarda il buio che talvolta gli esseri umani fanno scendere sui bisogni di umanità, di contatto fisico e affettivo, di cura e di condivisione.

Ai sacerdoti viene insegnata una dura disciplina riguardo agli scambi fisici e affettivi che possono scambiare con i fedeli. Nessuno li ha costretti a tale rigore se non loro stessi. C’è chi riesce a ritrovarsi in un regime di privazione e di sublimazione, chi invece soffre. Ma chi soffre dovrebbe consentirsi di portare un po’ di luce sulle necessità di intimo contatto che non è riuscito a spegnere. Se la presunzione di essere come si dovrebbe essere, invece di come si è, è molto elevata, può portare a scindere da sé e a mascherare qualsiasi esigenza esuli dal ruolo ricoperto, anche a scapito della realtà e delle leggi che regolano i rapporti umani e civili.

I preti di queste case sono sottratti alla giustizia umana e messi in una condizione sospesa che non permette loro di redimersi per davvero, perché non ammettono la colpa” dice Larrain nella intervista (23).

Prima della colpa c’è la responsabilità di guardarsi e di capire, di accettarsi per quello che si è, non negando che esistano bisogni e conflitti, afferrando la paura di essere fragili, dipendenti, talvolta soli e mortificati, talvolta presi da una rabbia vendicativa. Se da una parte una carenza strutturale dell’Io non consente al pedofilo di vedersi nei panni di colui che manca di qualcosa, di colui che confonde sé e l’altro pur di guadagnarsi la sensazione di essere vivo, dall’altra la carenza della funzione protettiva di oggetti interiorizzati validi, fa sì che prevalga l’oscurità, la clandestinità e il travestimento ingannevole di un desiderio originario pur legittimo. Dietro il funzionamento maniacale (24) che guida quel tipo di azione erotica, vi è un aspetto di crudeltà diretto verso il Sé dello stesso pedofilo, che mira alla cancellazione dei suoi aspetti infantili e bisognosi (25).

L’abuso avviene quindi su due fronti. Tanto il minore quanto il pedofilo vengono oscurati nel loro diritto di essere seriamente amati, protetti e guidati.

 

Note

(1) Si può trovare un esempio, descritto in modo abbastanza dettagliato, nello scritto di Cosimo Schinaia Figures of clandestinity. Notes on a clinical case of occasional paedophilia, 2015

(2) I termini pedofilia (DSM) e preferenza pedofila (ICD) dovrebbero essere riservati ai casi di preferenza più o meno esclusiva per bambini di solito prepuberi, solitamente non associati a violenza fisica. Friedmann Pfäfflin (2004). Psicoterapia forense: lavorare con gli autori di abusi sessuali contro minori in Marco Casonato (a cura di) Pedofilia Quattro Venti, Urbino.

(3) “It appears, from the clinical literature, that some child sexual abusers feel some genuine affection for their victims, and most are probably calloused rather than hostile … Most child sexual abuse does not involve violent attacks on children, but rather the use of authority or misrepresentations to manipulate children into sexual contact” David Finkelhor e Ian A. Lewis An epidemiologic approach to the study of child molestation in “Human Sexual Aggression: Current Perspectives” Annals New York Academy of Sciences 1988, 528: 64-78.

(4) “Gustav von Aschenbach, inquieto scrittore di successo, abbandona la sua città, Monaco, alla ricerca del bello. A Venezia, preso alloggio in un lussuoso albergo del Lido, spera di rigenerarsi come scrittore e come uomo. Qui è affascinato dalla efebica bellezza di un giovanissimo polacco di nome Tadzio, ospite insieme con la madre del medesimo albergo. Inizialmente ritiene che l’attrazione nasca dalla bellezza statuaria del giovane, che sembra incarnare l’equilibrio e l’armonia dell’arte classica greca, cui egli si ispira. Ma, gradualmente, Aschenbach si rende conto che le sue emozioni sono di natura erotica, e che un sentimento torbido e voluttuoso si è impadronito di lui. Neanche il pericolo di contrarre il colera che si sta diffondendo nella città lo induce a lasciare Venezia, nell’illusione che il suo sentimento possa essere ricambiato. Aschenbach muore il giorno stesso della partenza di Tadzio dalla città” B. Panebianco, C. Pisoni, L. Reggiani, M. Malpensa Testi e scenari – L’età delle avanguardie vol. 6, Zanichelli 2009, Bologna p. 665.

(5) “In Morte a Venezia non vi è nulla di inventato: il viaggiatore nel cimitero di Monaco, la tetra nave polesana, il vecchio bellimbusto, il gondoliere sospetto, Tadzio e i suoi, la partenza fallita per lo scambio dei bagagli, il colera, l’onesto impiegato dell’ufficio viaggi, il maligno saltimbanco, o che so io; tutto era vero e bastava metterlo a posto” Thomas Mann Romanzo di un romanzo e altre pagine autobiografiche trad. it. Il Saggiatore, Milano 1972, p. 38.

(6) “All the details of the story are taken from experience. In the dining-room, on the very first day, we saw the Polish family, which looked exactly the way my husband described them: the girls were dressed rather stiffly and severely, and the very charming, beautiful boy of about 13 was wearing a sailor suit with an open collar and very pretty lacings. He caught my husband’s attention immediately. This boy was tremendously attractive, and my husband was always watching him with his companions on the beach. He didn’t pursue him through all of Venice – that he didn’t do but the boy did fascinate him, and he thought of him often” Katia Mann Unwritten memories Alfred A. Knopf, New York 1975, pag. 62.

(7) “A lui ho veramente voluto bene; fu davvero il mio primo amore e non me ne fu concesso uno più tenero, più beato e insieme più doloroso” Thomas Mann Lettere trad. it. Mondadori, Milano 1986 p. 948.

(8) “Il pedofilo spesso idealizza questi bambini; l’attività sessuale con loro comporta pertanto la fantasia inconscia di fusione con un oggetto ideale o di ristrutturazione di un Sé giovane, idealizzato. L’ansia riguardo all’invecchiamento e alla morte può essere tenuta a distanza attraverso l’attività sessuale col bambino” Glen O. Gabbard Psichiatria psicodinamica trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 315. Vedi anche Patricia A. Harrison, Jayne A. Fulkerson, Timothy J. Beebe Multiple substance use among adolescent physical ad sexual abuse victims in “Child Abuse & Neglect” 1997, 21: 529-539.

(9) “Le leggi dello spazio, del tempo e della logica, che promuovono la differenziazione, sono sospese” Gerald I. Fogel, Wayne A. Myers Perversioni e quasi-perversioni nella pratica clinica trad. it. Il Pensiero Scientifico, Roma 1994, p. 83.

(10) “E’ molto delicato, non ha salute -pensò Ascenbach- probabilmente non diventerà vecchio” Thomas Mann La morte a Venezia cit. p. 44.

(11) “Per Ascenbach rintracciare i segni di una gracilità del suo amato, di una prossimità a una dimensione di malattia e di morte, significa tentare di renderlo somigliante a sé proprio in ciò -giovinezza e salute- in cui Ascenbach si sente più fragile, disarmato e perdente” Valeria Turra Le palinodie della bellezza: una lettura platonica de La morte a Venezia in “Atti Accademia Roveretana degli Agiati” 2006, serie VIII vol. VI A: 387-412.

(12) “In quell’istante Tadzio gli sorrise, d’un sorriso eloquente, confidenziale, carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco. Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio della fonte” Thomas Mann La morte a Venezia cit. p. 97.

(13) “Questo riferimento è tanto più suggestivo, perchè Tadzio non sta contemplando se stesso quando sorride, ma Ascenbach, la cui funzione diverrebbe quindi quella di uno specchio che, come l’acqua per Narciso, riflettesse la bellezza di Tadzio” Valeria Turra Le palinodie della bellezza: una lettura platonica de La morte a Venezia cit.

(14) “Di fronte alla dolce giovinezza che lo aveva innamorato, provava ribrezzo del proprio corpo in declino; quando guardava allo specchio i suoi capelli grigi, i lineamenti marcati, vergogna e disperazione lo assalivano. Istintivamente cercava di riposarsi, di riacquistare freschezza; andava sovente dal parrucchiere” Thomas Mann La morte a Venezia cit. p. 90.

(15) “Nulla temeva l’innamorato quanto la possibile partenza di Tadzio, e non senza sgomento dovette riconoscere che non avrebbe più saputo vivere se quella partenza fosse avvenuta” ivi, p. 70.

(16) E’ bene ricordare che i greci si riferivano sempre a ragazzi nell’età dell’adolescenza. I rapporti sessuali con impuberi erano severamente proibiti.

(17) Mauro Mancia recensione al libro di Gerald I. Fogel, Wayne A. Myers Perversioni e quasi-perversioni nella pratica clinica in “Rivista di Psicoanalisi” 1995: 510-515.

(18) “Childhood sexual abuse may negatively affect only the risk of developing a mental disorder, but also course of illness and treatment outcomes: a recent meta-analysis suggested that childhood maltreatment and sexual abuses are associated with an elevated risk of developing recurrent and persistent depressive episodes, and with a lack of response to treatments” Giulia A. Capra, Barbara Forresi, Ernesto Caffo Current scientific research on paedophilia: a review in “Journal of Psychopatology” 2014, 20: 17-26.

(19) “Nell’estate del 2001 il giornalista M. Baron arriva da Miami per prendere incarico come direttore del quotidiano Globe e per prima cosa incarica il team Spotlight di indagare sul caso di un sacerdote locale, accusato di aver abusato sessualmente di decine di giovani parrocchiani. Consapevoli che perseguire la Chiesa cattolica di Boston provocherà serie conseguenze, il caporedattore W. Robinson, i giornalisti S. Pfeiffer e M. Rezendes iniziano a scavare attraverso colloqui con l’avvocato delle vittime, interviste ad adulti che sono stati molestati da bambini e perseguendo il rilascio dei casellari giudiziari sigillati. Ben presto per il gruppo diventa evidente quanto la protezione sistematica dei sacerdoti implicati da parte della Chiesa sia molto più ampia di quanto avessero mai immaginato. Nonostante la ferma resistenza dei funzionari religiosi, tra cui il Cardinale Law di Boston, nel gennaio 2002 il Globe decide di pubblicare l’inchiesta, aprendo la strada per ulteriori rivelazioni, anche a livello internazionale” Il Giornale del 29/2/2016.

(20) Secondo Kohut le attività e le fantasie perverse sono in un’area scissa e compartimentalizzata della personalità. Vedi Heinz Kohut Narcisismo e analisi del Sé trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

(21) “Physical contact is withdrawn from boys at an earlier age. Along with this goes a variety of attitudes that discourage physical affection and emotional dependency among boys. Boys are not supposed to need comforting. Boys are not supposed to be dependent and clingy. Thus boys are thwarted in the pursuit of needs that are normal in young children. Later, when young boys become adolescents and then young men, they are offered the opportunity to meet these needs, but now through sex. In sexual interactions a man can be touched, a man can be nurtured, a man can be clingy, a man can be close. These needs are acceptable in a sexual context. To fulfill them in this way does not diminish his manliness. The result is that when all kinds of natural human emotional needs arise, men are more likely to try to fulfill them in a sexual context” David Finkelhor e Ian A. Lewis An epidemiologic approach to the study of child molestation cit.

(22) La Repubblica del 7/10/2015.

(23) Ibidem.

(24) C. Schinaia così scrive del paziente che ha avuto in cura: “I had the feeling that the act of paedophilia might have been a genuine manic exploit, that is to say, the reactive result of having his feelings of exclusion following the birth of his son … His maniacal aspects were realized in a triumphant and excited state and in a state in which he damaged his objects at the same time” Cosimo Schinaia Figures of clandestinity. Notes on a clinical case of occasional paedophilia cit.

(25) A proposito di due giovani pazienti seguiti da una collega che presentavano problemi riguardanti il senso del limite, Giovanna Giaconia così scrive: “I casi descritti pur nella diversità mostrano, come tratto comune, la mancanza della funzione protettiva del Super-Io e l’accentuazione dei suoi tratti crudeli che mirano alla cancellazione degli aspetti infantili e bisognosi e ostacolano la crescita” (Giaconia, a cura di, Adolescenza ed etica Borla, Roma 2005, p. 7).

Smetto quando voglio – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 30

Secondo George Kelly il cambiamento è dato e non necessita di essere spiegato, semmai ciò che va spiegato e che è la radice ultima di ogni psicopatologia è il suo blocco.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Smetto quando voglio (Nr. 30)

 

Da un esame delle lettere dei lettori alle rubriche più o meno psicologiche dei più importanti quotidiani e settimanali (condotta dall’istituto europeo Psychopress nel dicembre 2016) emergono due evidenze: in primo luogo i temi riguardano per l’80% le cosiddette “questioni di cuore” e comunque sempre le relazioni interpersonali affettive; in secondo luogo il soggetto stesso sa perfettamente come sarebbe  giusto comportarsi e cosa vorrebbe ma non riesce a metterlo in atto.

Spesso le persone si criticano aspramente per non riuscire a interrompere comportamenti che non gli piacciono, che si tratti di un rituale ossessivo, di una cattiva abitudine o di un impresa inutilmente dispendiosa. Sanno cosa sarebbe sensato fare, lo vogliono ma non ci riescono.

In questi casi può essere utile un consulto con uno psicoterapeuta che aiuti a uscire dalla trappola in cui ci si è cacciati pur senza essere matti. Spesso sono sufficienti pochi incontri per fare il punto della situazione.

Cambiamento e Psicopatologia

Secondo George Kelly il cambiamento è dato e non necessita di essere spiegato, semmai ciò che va spiegato e che è la radice ultima di ogni psicopatologia è il suo blocco. Prima di lui ad Eraclito con il suo famosissimo “panta rei” era stato attribuito lo stesso concetto.

Il cambiamento è la normale risposta con cui un sistema vivente supera gli ostacoli che un ambiente, a sua volta mutevole, pone al raggiungimento dei propri scopi. Si ha dunque un continuo fluttuare della relazione tra organismo e ambiente in cui il cambiamento di ciascun polo è conseguenza e causa del cambiamento dell’altro. Essendo il nostro interesse centrato sull’organismo, diremo che esso si adatta ai mutamenti dell’ambiente modificando le mappe dell’ambiente e di se stesso e dunque elaborando nuove e più efficaci strategie di perseguimento dei propri scopi o, al limite, cambiando gli scopi che si rivelano irraggiungibili (è il famoso lavoro del lutto).

In estrema sintesi il problema della psicopatologia può essere ridotto alla domanda “perchè non si cambia (strategie e/o gli stessi scopi) quando sembrerebbe possibile e conveniente farlo?”.

Come i nostri scopi influenzano il processo di cambiamento?

In questo breve scritto intendiamo soffermarci soltanto su uno dei fattori che impediscono il cambiamento la cui potenza è sottovalutata e che vediamo costantemente all’opera nelle scelte della vita quotidiana, ben al di là della psicopatologia, al punto da minarne la razionalità pratica (intesa in senso Baroniano del “basta che funzioni”). La sua pervasività è tale che al termine dell’esame dei suoi effetti dannosi sul benessere emotivo e più semplicemente sul buon senso ci correrà l’obbligo di ipotizzare i motivi per cui è stato evolutivamente selezionato entrando a far parte del patrimonio umano.

Il tema è stato studiato magistralmente da Kaneman ed è noto con il nome di bias dei costi sommersi. Con ciò si intende che il valore di uno scopo, direttamente proporzionale alle risorse che si è disposti ad investire per il suo perseguimento determinando così il comportamento, è formato da due componenti.

Un valore strutturale o stabile definito dalla sua collocazione nella gerarchia piramidale degli scopi, ovvero quanto è semplicemente strumentale ad altri scopi o quanto rappresenta esso stesso uno scopo apicale (detto in parole povere quanto è direttamente connesso con la sopravvivenza). È evidente che è più importante avere una casa sicura che un ottimo corredo da golf.

Un valore aggiuntivo o “plus valore variabile” determinato dalle risorse che si sono fino ad allora già investite per il suo perseguimento. È l’altra faccia della medaglia della bellissima affermazione del Piccolo Principe quando spiega che il valore della sua rosa è molto superiore a quello delle altre rose a motivo delle cure e del tempo che vi ha dedicato. È il motivo per cui molti continuano a leggere un brutto libro o a vedere un pessimo film fino in fondo solo perché hanno iniziato. Probabilmente smettere di farlo comporterebbe dover ammettere di aver fatto una scelta sbagliata e di aver perso tempo (insomma di aver sprecato risorse) e per questo motivo si sprecano ulteriori risorse per perseguire un progetto perdente. Purtroppo non si tratta solo di libri o film, per lo stesso motivo non si abbandonano investimenti economici in perdita, non si lascia il tavolo da gioco tanto più si sta perdendo, si continuano terapie mostratesi inefficaci e soprattutto si persevera in relazioni interpersonali insoddisfacenti, mortificanti e talvolta mortali (“dopo tutti questi anni!!!”). In taluni casi si conserva la speranza in un cambiamento, in un esito inaspettatamente diverso, ma in genere è sufficiente la constatazione di quanto un’impresa sia costata fino a quel momento per renderla irrinunciabile secondo il ben noto adagio “abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno” che sarebbe da sostituire piuttosto con il più saggio “ho già dato!” .

L’aspetto inquietante e pericoloso è che si attiva un circolo di rinforzo a feedback positivo inarrestabile in quanto ovviamente questo plus valore non può che accrescersi aumentando dunque le risorse che si investiranno nello scopo che di conseguenza continuerà ad accrescere il suo valore complessivo. Come un buco nero interstellare assorbe tutto aumentando continuamente il suo potere attrattivo. Un osservatore esterno la descriverebbe come “una impuntatura” testarda e immotivata notando la discrepanza tra l’apparente scarsa importanza del risultato che si persegue nell’ambito dell’economia esistenziale del soggetto e l’enormità degli sforzi inutili che vengono messi in atto per perseguirlo, nonché la sofferenza emotiva che li accompagna. A ben guardare nella vita di ognuno si possono trovare  aree di tale accanimento inutile e dannoso di cui in genere l’interessato non si avvede neppure.

Qual è il motivo di questo comportamento?

Ma se ci  comportiamo così da stupidi un motivo dovrà pur esserci. Proviamo a ragionarci.

È evidente che tale meccanismo spinge alla fedeltà indipendentemente se ciò a cui si è fedeli sia positivo o negativo. Il che farebbe supporre sia stato predisposto da un creatore a sua volta fissato con l’istituzione matrimoniale ma questo è poco credibile al di fuori di una certa ortodossia cattolica e comunque data l’inefficienza del meccanismo stesso proprio nella preservazione dei matrimoni ne invaliderebbe la presunta onnipotenza e dunque Lui stesso sembra non rivendicarne la paternità.

C’è tuttavia un altro campo in cui è importante fare grossi investimenti a fondo perduto, senza badare a spese e senza la certezza di riceverne i frutti, dunque un’impresa ragionevolmente folle per un individuo ma vantaggiosissima per la specie, ed è l’allevamento dei figli.

La specie, per utilizzarci al suo servizio, ha predisposto due trappole. La prima connotando di piacere le procedure propedeutiche alla fecondazione; la seconda, più importante e duratura, è appunto il bias dei costi sommersi per cui più un figlio è bisognoso di cure perché piccolo o malato più aumenta il suo valore e l’impegno del genitore. Le notti passate in bianco, i chilogrammi di cacca tolta con i pannolini, gli enormi costi per il loro mantenimento rendono i figli importanti per i genitori non meno delle soddisfazioni che gli danno e i sorrisi che gli fanno. E non sono forse le relazioni affettive più sofferte e strazianti ad essere le più difficili da interrompere?

Succede spesso che meccanismi selezionatisi in certi contesti generali dove sono utilissimi finiscano per essere dannosi in ambiti diversi ed individuali. Insomma se è un bene perseverare “costi quel che costi” nell’allevamento di un figlio, sia per la specie che per lo stesso individuo, è stupido e dannoso farlo rispetto ad un lavoro, un’impresa e soprattutto una relazione. Lo psicoterapeuta ci può aiutare a distinguere tra un figlio e un brutto libro per tenere il primo e gettare il secondo e a non crepare in giardino perché va bene che è la nostra, ma è pur sempre solo una rosa.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

La storia del mio Paese sono io! – Il fenomeno del narcisismo collettivo

Quando si parla del proprio Paese, le persone assumono un punto di vista auto-celebrativo, arrogante, esagerato e solo recentemente gli psicologi hanno cominciato a studiare questo fenomeno, definendolo come narcisismo collettivo.

 

In ricorrenza dell’Independence Day, un gruppo di ricercatori si è posto la seguente domanda: l’America è un paese di narcisisti?

Nello studio, pubblicato sulla rivista Psychological Science, è stato chiesto a 2800 residenti americani quanto le loro origini, secondo loro, abbiano contribuito alla storia degli Stati Uniti.

Cosa è emerso dalle risposte degli intervistati?

Le percentuali ottenute cambiano di Stato in Stato: nel Delaware gli abitanti hanno ritenuto di aver contribuito alla storia americana per il 33%, in Georgia è stato raggiunto il 28%, in Texas il 22% e in California il 22%. Le percentuali più alte sono state toccate dallo Stato della Virginia con il 41% e nel Massachusetts con il 35%.

La domanda che abbiamo posto era in un certo senso strana – sostiene l’autore Roediger – non c’era una risposta esatta, ma quello che è emerso ha dato molte informazioni sul modo di essere e di pensare di queste persone.

Quando si parla del proprio Stato, le persone assumono un punto di vista auto-celebrativo, arrogante, esagerato, e solo recentemente gli psicologi hanno cominciato a studiare questo fenomeno, definendolo come narcisismo collettivo.

La somma delle percentuali di ogni Stato ha raggiunto una cifra inaspettata anche per i ricercatori, di circa il 907%. Gli autori si aspettavano percentuali alte, ma non a tal punto.

In seguito a questi risultati, per comprendere meglio le risposte date, è stato proposto ai partecipanti un quiz di storia, che mettesse in risalto la mole della storia americana e il fatto che gli Stati Uniti sono composti da 50 stati. Obiettivo dei ricercatori era quello di far confrontare i partecipanti con l’evidenza dei fatti, in modo tale da farli ragionare e dire: “Beh, nulla di tutto ciò è accaduto nel Wyoming”.

Sorprendentemente però il quiz non ha prodotto alcun effetto e le percentuali non si sono abbassate!

Una scala per il narcisismo collettivo

I ricercatori hanno anche creato una scala del narcisismo, definita da loro “Narcissism Index”. Secondo questo indice ai primi posti per narcisismo collettivo si trovano il Virginia e il Delaware, a seguire ci sono New York, Pennsylvania, Georgia e New Jersey.

I ricercatori ritengono che questo atteggiamento narcisistico, possa essere ricondotto ad una serie di fattori:

  • la storia di quello Stato viene inculcata a scuola
  • le persone non sono molto capaci di fare stime con piccoli numeri
  • in generale vi è una tendenza delle persone a ritenersi migliori rispetto alla media e ad associarsi a gruppi di successo

Un secondo studio per valutare il narcisismo collettivo

In un secondo studio, è stato applicato lo stesso approccio su una scala globale. È stato chiesto a residenti di 35 paesi, quanto la loro nazione abbia contribuito alla storia di tutto il mondo.

Emerge da quest’ultimo un narcisismo collettivo addirittura più forte del precedente. Gli abitanti di 195 paesi nel mondo riportavano stime astronomiche del loro ruolo nella storia mondiale.

Persino in Svizzera, il paese che ha riportato il punteggio più basso e che storicamente è un paese neutrale, si raggiungeva l’11,3% delle stime globali.

I paesi più piccoli, come la Malesia, ritengono di avere una grande importanza, infatti è stata calcolata una percentuale del 49%. In portogallo si è arrivati al 38% e in Canada al 40%.

Con grande sorpresa, gli Stati Uniti, la potenza leader mondiale negli ultimi decenni, hanno riportato una percentuale del 29,6%, dietro al Perù, Bulgaria e Singapore.

Il leader del narcisismo collettivo a livello mondiale, che si aggiudica quindi il primo posto in questo studio, è la Russia, che con il 60,8% ritiene di aver contribuito alla storia del mondo. Questo risultato è in linea con gli studi effettuati nell’ultimo decennio sulla Russia. In una ricerca veniva chiesto ai russi e agli americani come valutavano i loro contributi alla seconda guerra mondiale. Quando è stato chiesto di nominare gli eventi più importanti, gli studenti americani hanno citato Pearl Harbor e il D-Day. Gli studenti russi invece hanno nominato la Battaglia di Stalingrado e la Battaglia di Mosca.

Conclusioni

Recentemente gli psicologi si stanno interessando molto a elementi come la memoria collettiva e il narcisismo collettivo, per comprendere gli effetti che hanno nel mondo reale.

Secondo William Hirst, uno psicologo non coinvolto negli studi sopra riportati, è importante comprendere come narcisismo e memoria collettiva agiscono. Si può pensare che possano promuovere razzismo, nazionalismo e xenofobia, ma ci sono anche dei vantaggi in essi, per esempio promuovono la comprensione comune del nostro passato, aiutando a creare la nostra identità come paese o popolo.

Formazione in psicoterapia: l’aggiornamento del corpo didattico di Studi Cognitivi

Il 29 e 30 maggio 2018 il corpo didattico della rete di scuole “Studi Cognitivi” ha partecipato a due giornate di aggiornamento a San Benedetto del Tronto. Lo scopo era imparare cose nuove attinenti alla teoria della clinica, alla ricerca e alla didattica.

 

L’aggiornamento ha permesso ai didatti di familiarizzare con le procedure di concettualizzazione del caso Life themes and plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment (LIBET) di concettualizzazione del caso, pianificazione del trattamento e monitoraggio della terapia, procedure che saranno insegnate agli allievi nei prossimi anni in maniera sempre più precisa e standardizzata, senza però perdere l’attenzione per l’irripetibilità del caso clinico e della sua storia di vita personale.

Il 29 giugno il corpo didattico si è esercitato su un caso clinico riflettendo e familiarizzando con le diverse aree operative della LIBET, dalla concettualizzazione del caso in temi, piani e processi, all’organizzazione della psicoterapia con la scelta di priorità e modalità di intervento.

Nella mattinata del 30 giugno sono stati presentati i dati preliminari di validazione del modello LIBET basati sia sul BOOKLET, l’intervista di valutazione della LIBET, che sul questionario autosomministrato LIBET-Q, agile e rapido strumento di accertamento che in futuro andrà ad affiancarsi al più laborioso BOOKLET.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DELL’EVENTO:

Studi Cognitivi - l'aggiornamento del corpo didattico IMM.1Imm. 1 – La Dott.ssa S. Sassaroli e il Dott. Giovanni Maria Ruggiero

Studi Cognitivi - l'aggiornamento del corpo didattico IMM.2Imm. 2 – La Dott.ssa S. Sassaroli illustra la LIBET

Studi Cognitivi - l'aggiornamento del corpo didattico IMM.3Imm. 3 – Una lezione del Dott. Giovanni Maria Ruggiero

Studi Cognitivi - l'aggiornamento del corpo didattico IMM.4Imm. 4 – La Dott.ssa S. Sassaroli e il Dott. G. Caselli

Studi Cognitivi - l'aggiornamento del corpo didattico IMM.5

Studi Cognitivi - Aggiornamento del corpo didattico - IMM. 6Imm. 5 e 6 – Gruppi di lavoro e di confronto tra i didatti di Studi Cognitivi

 

Nella stessa mattinata è stato presentato al corpo didattico una novità tecnologica, lo strumento “Intherapy”, un’applicazione mobile per smartphone che dal 2019 sarà fornita come strumento didattico e clinico agli allievi che iniziano la scuola e agli allievi già in corso che ne facciano richiesta. Intherapy sarà l’ambiente tecnologico in cui i nostri allievi impareranno a seguire i propri pazienti, a dialogare e a monitorare l’andamento della psicoterapia.

Nel pomeriggio finale delle due giornate il corpo didattico si è dedicato a un’analisi approfondita del metodo didattico con cui sono condotte le lezioni di codidattica, di didattica e le supervisioni. Anche in questa parte della discussione si sono raccolte le idee e i suggerimenti del nostro gruppo di colleghi arrivando poi a una ampia discussione. Il prossimo appuntamento sarà a Riccione, il 5 e il 6 maggio del 2019 subito prima del congresso interno degli allievi di Studi Cognitivi.

Dopo quasi 20 anni di attività, vi è la sensazione nostra che stia crescendo un grande numero di ottimi clinici e didatti che consapevolmente aderiscono alla linea scientifica culturale che si sta mettendo a punto all’interno della scuola. La volontà di stimolare il dibattito scientifico e di approfondire i temi significativi sta dando i suoi frutti in una maggiore consapevolezza della qualità della riflessione sulla clinica che si può portare avanti e del ruolo importante che Studi Cognitivi ha nel mondo della psicoterapia italiano. Si sta sempre più perfezionando lo scopo – presente fin dalla fondazione della scuola – di poter fornire ai propri allievi l’apprendimento delle tecniche di base fondamentali della terapia cognitiva comportamentale standard, delle tecniche processuali e metacognitive più avanzate che ci rendono in grado di agire sui meccanismi rimuginativi e ruminativi, e la competenza di costruire percorsi di terapia per casi clinici con disturbi di personalità e molteplici comorbilità che tengano conto della tradizionale attenzione della scuola italiana per la storia di vita personale dei pazienti e del processo di apprendimento dei disturbi emotivi.

Negli stessi giorni è stata divulgata la lista dei nuovi didatti dei corsi delle scuole della rete di Studi Cognitivi. Anche quest’anno la coppia dei didatti è stata scelta con l’obiettivo di unire un docente specializzato all’aspetto tecnico con uno focalizzato sulla supervisione e sull’aspetto relazionale.

Ecco la lista dei didatti nelle varie sedi:

Nutrizionisti obiettori di scienza e il loro ruolo nel trattamento dell’obesità

I dati disponibili concordano nel considerare l’ obesità come conseguenza dell’interazione fra un ambiente obesogeno e una suscettibilità genetica (Kyle et al. 2016). Ciononostante non si riduce la visione sociale che etichetta le persone con eccesso di peso, considerati colpevoli della propria condizione. Questo favorisce il fallimento dei trattamenti dimagranti e lo sviluppo di patologie legate all’obesità.

Francesco Iarrera

 

La narrazione filosofica attuale spinge a credere che le persone debbano governare con disinvoltura ogni forma di cambiamento, incluso dimagrire. È una visione uomo-centrica, sublimata nell’assioma “volere è potere”, spesso evocato negli ambulatori di Nutrizione. Secondo questo principio, nulla può sfuggire alla persona che davvero lo vuole. Va da se che chi non raggiunge il traguardo sperato è perché non lo desidera abbastanza. Non desidera perdere peso.

Obesità: i pregiudizi sul controllo

È un potente pregiudizio sostenuto dai numerosi miti che caratterizzano la nutrizione e la cura dell’ obesità; notizie senza alcuna evidenza scientifica o con evidenza contraria. Su tutte, quella che intende il peso corporeo sotto il totale controllo individuale (Greenhalgh et al. 2015).

L’attuale visione del super io “magro”, associata all’attribuzione di caratteristiche negative alle persone sovrappeso, produce una spirale al termine della quale, chi ha un eccesso di peso, riceve la lettera scarlatta dell’ obesità, ben visibile agli occhi di una società miope ai bisogni degli individui.

L’impatto di questi pregiudizi ha conseguenze mediche, psicologiche e sociali.

Le persone raggiunte da questi preconcetti hanno maggiori probabilità di sviluppare un disturbo da alimentazione incontrollata, introdurre un elevato apporto calorico e una minore motivazione verso l’attività fisica  (Puhl et al, 2016). Per loro sarà più facile aumentare di peso e più difficile ridurlo (Sutin et al. 2013). Questo implica lo sviluppo di complicazioni mediche, dall’ipertensione al diabete, che compromettono la durata e la qualità della vita (Tomiyama et al. 2014).

Obesità: le conseguenze del senso di colpa

Nelle persone cui è attribuita la colpa del proprio eccesso di peso aumenta il rischio di depressione, ansia, bassa autostima, insoddisfazione corporea, abuso di sostanze e di suicidio (Puhl et al, 2016). Il disagio verso il proprio peso compromette le relazioni, induce a un isolamento sociale che aggrava ulteriormente i danni psicologici.

Un ruolo chiave nel sostenere e veicolare messaggi fuorvianti riguardo al peso e la sua gestione l’hanno i media, talvolta anche quelli considerati autorevoli. Gli attuali strumenti di comunicazione hanno una capacità d’impatto e di penetrazione delle menti, tale da modificare le convinzioni di base delle persone. Tanto più una notizia trova diffusione tanto più tende a essere considerata vera. E questo indipendentemente dalla sua veridicità.

È una visione che conduce alla distopia nutrizionale, in cui le informazioni scientifiche o sono alterate o sono travisate o sono taciute. Assistiamo a una deriva lenta e inesorabile dalle verità fattuali per dar credito a soluzioni che aggravano i problemi e che caricano di nuove responsabilità chi lotta contro il peso. Il continuo proliferare di approcci fraudolenti contribuisce a creare nel popolo della nutrizione false e illusorie aspettative. È frequente fra le persone in sovrappeso pensare: “Se cosi tante soluzioni esistono, tutte efficaci, ed io non riesco, significa solo che non valgo nulla.”

È a questo punto che cala il sipario su ogni possibilità di cambiamento, poiché la porta delle motivazioni si chiude a doppia mandata: le persone si sentono colpevoli del problema e sfiduciate a cambiare.

Obesità: i pregiudizi di chi la cura

L’aspetto inquietante è che molti messaggi controfattuali sono avallati dai professionisti della nutrizione, nelle cliniche private e negli ospedali pubblici (Greenhalgh et al. 2015).

È curioso dover osservare, da un lato, lo slancio salvifico con cui noi nutrizionisti ci prodighiamo a “guarire” i pazienti, dall’altro, la responsabilità che abbiamo nel favorire il proliferare di miti che accrescono il problema. Come un vaso in bilico che è fatto cadere dal tentativo maldestro di metterlo al sicuro. Talvolta diventiamo corresponsabili dell’indisponibilità delle persone a lottare per il loro cambiamento, spingiamo quel vaso giù dal tavolo e non ce ne rendiamo conto.

È documentata, infatti, la tendenza di medici, psicologi e nutrizionisti a considerare pigrizia e poca determinazione, quali cause del mancato raggiungimento degli obiettivi del trattamento dimagrante (Puhl et al, 2016). Questo pregiudizio è comunemente inconsapevole, talvolta celato tra le pieghe di un tentativo di esortare la persona a cambiare. Ad esempio, sono frequenti sui social, conversazioni in cui nutrizionisti incitano il proprio paziente a superare le difficoltà, facendo leva sulla propria forza di volontà. Questo equivale ad attribuire il fallimento alla sua assenza, dunque a un proprio limite temperamentale (Bocquier et al. 2005). Il resto degli eventi segue come un tuono, il fulmine.

È necessario tagliare gli interventi su misura del paziente, tenendo conto dei bisogni e delle risorse di ognuno. Per riuscirci, bisogna investire tempo a costruire una relazione basata sull’accettazione e l’empatia (Binetti et al, 2006).

In questo modo si favorirà la disponibilità a osservare il problema in maniera multi comportamentale, riducendo il ricorso disperato ai metodi bizzarri che contemplano, diete iper di qualche elemento, di eliminazione, che inneggiano a un alimento o che sbloccano il metabolismo come si trattasse del bullone di una vecchia ruota di un trattore.

Obesità: la necessità di seguire le Linee Guida

Niente di tutto questo si trova nelle Linee Guida redatte dal ministero della salute (quaderni del ministero della salute, 2017). Peraltro, non è raro incappare in professionisti che affermano di non sentire alcuna necessità di seguirle (Puhl et al, 2016). Si tratta di obiettori della scienza, professionisti che assurgono a deus ex machina dell’ obesità.

Fino a quando i messaggi sui temi dell’ obesità e del controllo del peso, non includeranno informazioni accurate, basate sull’evidenza, continueremo a promuovere atti di accuse, invece che soluzioni al problema.

Credo tocchi a noi specialisti della nutrizione sforzarsi maggiormente di fornire a chi ci chiede aiuto, informazioni certe e certificabili, chiare e inequivocabili.

Se s’intende riqualificare la nostra posizione di professionisti della salute e riappropriarsi di un ruolo troppo spesso confuso con altre figure che di scientifico non hanno nulla, è nostro preciso dovere assumere una posizione contrapposta alle numerose notizie antiscientifiche che invadono il nostro lavoro.

Professor George Bonanno: lectio magistralis su perdita, trauma e resilienza – Sigmund Freud University, Milano

Ho avuto il piacere di ospitare Il Professor George Bonanno alla Sigmund Freud University, dove ha tenuto una lectio magistralis dal titolo Loss, Trauma e Human Resilience: An Elementary Approach

Mattia Ferro

 

Il Professor George Bonanno è uno dei massimi studiosi di lutto, trauma e resilienza (intesa come la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà), porta avanti le sue indagini integrando più punti di vista (“come salire su una montagna e guardare l’orizzonte” dirà durante la sua lecture a proposito del suo approccio scientifico): quello della psicologia clinica, della psicologia sociale, delle neuroscienze, della biologia e della gentica.

È professore di psicologia clinica, direttore del Loss, Trauma, and Emotion Lab, e direttore del Resilience Center for Veterans and Families alla Columbia University di New York, USA.

Stress, trauma e resilienza

Nella sua lezione, ha passato in rassegna i suoi numerosi lavori che si sono concentrati sull’indagine degli effetti di stress, trauma e resilienza in differenti categorie di persone: soggetti colpiti da patologie mediche acute (infarti) e croniche (lesioni spinali), persone che sono state esposte a forti shock (il crollo delle torri dell’11 settembre, disastri ambientali come terremoti così come militari reduci della guerra in Afganistan/Iraq) fino ad arrivare ai modelli animali di stress.

L’idea base del Prof. Bonanno è che la resilienza è la reazione più comune e “geneticamente determinata” alla perdita o al trauma che ha descritto (per la prima volta) come una naturale, appunto, capacità di recupero come componente principale delle reazioni di dolore e trauma nelle persone che subiscono gravi perdite, come la morte di un coniuge, la perdita di un figlio, o in situazioni di forte stress come le precedenti descritte. Tali ipotesi sono state sviluppate introducendo metodi scientifici di ricerca rigorosi, necessità che Bonanno ha ripetuto più volte essere necessaria in qualunque indagine di ordine psicologico che si intenda portare avanti.

Le risposte di George Bonanno alle nostre domande

Ho potuto rivolgere alcune domande al Professor Bonanno, che ho voluto riportare per State Of Mind in questa mini-intervista, al fine di aiutare a delineare il pensiero di questo celebre ricercatore.

Intervistatore: Ciao George, mi interessa sapere come è nato il tuo interesse per la psicologia e perché ti sei concentrato sul trauma e sulla resilienza.

Professor George Bonanno: Sono entrato nel mondo della psicologia per caso. Non ero ancora andato all’università. Ho ritardato la mia educazione universitaria, esplorando prima un po’ il mondo. Avevo 25 anni e ancora non avevo una laurea quando sono stato assunto per aiutare a deistituzionalizzare un ospedale statale. Vidi persone che erano state rinchiuse lì per anni, chiaramente psicotiche, improvvisamente diventate molto più sane semplicemente perché erano state portate fuori dall’ospedale. Questo mi ha stupito e ho deciso di andare all’università a studiare psicologia.

Diversi anni dopo, dopo aver conseguito la laurea e poi un Ph.D alla Yale University, stavo lavorando come ricercatore post-dottorato a San Francisco (University of California). Lì ho avuto modo di progettare un ampio studio di persone affette da lutto e abbiamo deciso di seguire queste persone nel corso del tempo, raccogliendo i dati nel modo più preciso possibile. Volevo anche assicurarmi di avere tutti le “tipologie” di persone nello studio, non solo le persone che mostravano una sintomatologia luttuosa molto importante. In quello studio, e in molti studi successivi, abbiamo visto molte persone che sembravano affrontare molto bene i loro eventi luttuosi. Diventavano evidentemente turbati quando veniva loro chiesto di parlare della loro perdita, senza però mostrare crolli emotivi, riuscivano comunque ancora a “funzionare bene” nelle loro vite. Mentre questa ricerca andava avanti, iniziai a studiare altri tipi di eventi traumatici, cercando di creare modi formali per mappare i risultati e costruendo delle traiettorie che potessero rappresentare l’andamento di tali processi. Abbiamo definito quindi la resilienza come una traiettoria stabile di funzionamento sano che inizia subito dopo l’evento potenzialmente traumatico.

Intevistatore: Quale scoperta che hai fatto consideri la più importante?

Professor George Bonanno: La maggior parte delle persone, ho trovato, erano resilienti anche dopo eventi traumatici molto duri e difficili. Ora abbiamo replicato questa scoperta in molti studi. Per me questa è la scoperta più importante, perché mostra che la resilienza è la normale e tipica risposta ad un potenziale trauma.

Intervistatore: In che modo pensi che i risultati dei tuoi studi possano essere utili alla comunità?

Professor George Bonanno: Abbiamo scoperto che la maggior parte delle persone rimane sconvolta, disorientata e ansiosa, dopo un potenziale trauma. questo è normale e naturale, ma è importante per le comunità sapere che nella maggior parte delle persone questa reazione iniziale è di breve durata, di solito non più di pochi giorni o al massimo qualche settimana, e che alla fine la maggior parte delle persone starà bene, in grado di andare avanti in modo sano in quello che è il proprio percorso di vita, anche dopo eventi orribili e terribili. In genere dopo circa un mese appare evidente che la maggior parte delle persone recupera, un sottogruppo di persone più piccolo (10%) però non si riprenderanno neanche dopo questo periodo di tempo. Per queste persone un aiuto professionale può essere utile e importante potendo probabilmente trarre beneficio da quei supporti, dalle reti sanitarie e da quelle figure presenti nelle comunità sociali.

Intervistatore: Cosa consiglieresti oggi ad uno studente che è al suo primo anno di psicologia?

Professor George Bonanno: Consiglierei ai nuovi studenti di dare un’occhiata molto critica alle ipotesi presenti nelle diverse teorie della psicologia. Uno dovrebbe sempre chiedersi, qual è la prova per questa assunzione o questa conclusione? È proprio vero? C’è un altro modo col quale possiamo pensare a ciò? Possiamo mettere insieme le prove di ricerca disponibili per suggerire un’idea alternativa? In breve, pensa sempre in modo critico alle idee della psicologia.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE.

George Bonanno - Lezione Magistrale Resilienza SFU Milano

George Bonanno ha 68 anni pur dimostrandone 18 in meno. Ho una foto scattata da una collega della SFU, che mi ritrae intento a parlare con lui, che ho mostrato ad un mio amico. Mi ha detto che sembriamo coetanei, pur avendo 33 anni di differenza. La resilienza rende (anche) giovani?

Depressione in età pre-scolare: riconoscerla e trattarla con la terapia genitore-bambino

La prevalenza del disturbo depressivo maggiore nei bambini in età pediatrica è pari a circa 1-2%. In questo periodo evolutivo, la depressione si manifesta diversamente rispetto agli adulti, per la minore presenza di sintomi della sfera cognitiva.

 

In particolare, i bambini depressi possono presentare: tristezza, irritabilità, scarso interesse per il gioco, lamentele somatiche, disturbo del sonno e/o dell’appetito, aggressività, tendenza all’evitamento sociale, apatia/rallentamento etc..

Depressione prescolare: la terapia genitori-bambini

Una recente ricerca, svolta da Washington University School of Medicine in St. Louis, ha dimostrato che una terapia interattiva, che coinvolge i genitori e i bambini depressi, può ridurre i tassi di depressione e la gravità dei sintomi dei bambini. Joan L. Luby, direttore del programma di sviluppo emotivo precoce dell’università, sostiene l’importanza di identificare precocemente i sintomi depressivi; e successivamente, di aiutare i bambini a modificare il modo in cui elaborano le loro emozioni. In questo modo, secondo l’autore, sarebbe possibile migliorare la sintomatologia depressiva e, forse, ridurre o prevenire attacchi ricorrenti del disturbo nel corso della vita.

Luby e collaboratori hanno adattato un trattamento noto come Parent-Child Interaction Therapy (PCIT), sviluppato negli anni ’70 per trattare il comportamento dirompente nei bambini in età prescolare. A questo trattamento sono state aggiunte una serie di sessioni incentrate sulle emozioni; infatti gli autori concettualizzano la depressione come una compromissione della capacità di sperimentare e regolare le emozioni.

In altre parole, l’obiettivo del programma di trattamento consiste nel miglioramento dello sviluppo emotivo del bambino. Una delle modalità per raggiungere quest’obiettivo consiste nell’insegnare ai genitori come gestire le risposte emotive del bambino a determinate situazioni stressanti.

Depressione nei bambini: i risultati dello studio

Il team di Luby ha preso in esame 229 coppie genitore-figlio. I bambini nello studio, di età compresa tra i 3 e i 7 anni, avevano avuto una diagnosi di depressione. Solo la metà di questi ha usufruito della terapia adattata, denominata PCIT-ED.

Rispetto ai bambini che sono stati inseriti in una lista di attesa e che non avevano ancora iniziato la terapia, quelli che avevano ricevuto l’intervento sin da subito, presentavano tassi di depressione più bassi dopo 18 settimane e un complessivo miglioramento. Per i bambini trattati, se la depressione continuava dopo il trattamento, tendeva ad essere meno grave rispetto a quella osservata nei bambini che non avevano ancora usufruito della terapia.

Luby ha affermato che i bambini nello studio saranno seguiti nel tempo per misurare la durata degli effetti della terapia. In particolare, i ricercatori sperano di poter seguire i bambini fino all’adolescenza, allo scopo di osservare se l’intervento, svolto nella prima infanzia, fornisce benefici a lungo termine.

Infine, è interessante notare che gli studiosi, al termine della ricerca, hanno scoperto che i sintomi della depressione clinica, non solo sono migliorati nei bambini, ma sono anche migliorati nei genitori che hanno lavorato con i propri bambini durante lo studio.

Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo

Il cosiddetto verdetto del dodo asserisce che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni, primo fra tutti la relazione terapeutica.

Tratto dall’articolo di Freeman & Freeman pubblicato nel 2014 sul The Guardian

 

“Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”.

Per chiunque abbia studiato psicologia questa frase non è una semplice citazione tratta da Alice nel Paese delle Meraviglie: il verdetto del dodo è il simbolo di uno dei più grandi terremoti che abbia mai sconquassato il mondo della psicoterapia.

Infatti, nel 1936 Saul Rosenzweig suggerì che tutte le psicoterapie fossero ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni; nessuna tecnica specifica rendeva un approccio psicoterapeutico più efficace di un altro.

Quasi 40 anni dopo, Luborsky et Al. (1975) pubblicarono uno studio i cui risultati supportavano la tesi di Rosenzweig, ipotizzando che il fattore aspecifico determinante potesse essere la relazione terapeutica.

Da allora, si sono susseguiti una miriade di studi di outcome volti a confermare o smentire il verdetto del dodo psicoterapeutico.

Sebbene i risultati sembrino in realtà asserire che no, non è vero che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci, è anche vero che tendenzialmente gli studi vengono condotti nel tentativo di dimostrare l’efficacia e la superiorità del proprio approccio sugli altri e quindi potrebbero essere non proprio imparziali.

Ed è proprio alla luce di quest’ultima considerazione che uno studio del 2014 pubblicato sull’American Journal Psychiatry assume particolare rilevanza all’interno del dibattito.

Questo studio clinico controllato randomizzato, condotto da Poulsen e colleghi su 70 soggetti, aveva come obiettivo il confronto tra psicoterapia psicoanalitica e psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) nel trattamento della bulimia nervosa.

I pazienti furono divisi in due gruppi: a un gruppo fu assegnata una psicoterapia psicoanalitica una volta a settimana per due anni, all’altro 20 sedute di CBT nell’arco di 5 mesi.

Entrambi i gruppi mostrarono miglioramenti, ma i risultati ottenuti per il gruppo trattato con CBT furono nettamente maggiori: dopo 5 mesi il 42% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate, contro il 6% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica; dopo 2 anni il 44% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate (a distanza di un anno e mezzo dal termine del trattamento), contro il 15% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica.

Perché questo studio è così importante per la discussione sull’efficacia delle psicoterapie?

Perché i terapeuti che hanno condotto il trial e che hanno somministrato la CBT erano… psicoanalisti! Per l’occasione infatti Stig Poulsen e Susanne Lunn hanno seguito per due giorni un training CBT per i disturbi del comportamento alimentare condotto niente meno che da Christopher Fairburn, oltre a essere costantemente supervisionati nel lavoro terapeutico durante i 5 mesi di psicoterapia.

E nel probabile tentativo di dimostrare l’efficacia del proprio approccio sono giunti alla conclusione opposta, tanto da auspicare lo sviluppo di una versione della psicoterapia psicoanalitica per la bulimia più strutturata e focalizzata sul sintomo.

Il verdetto del dodo risulta quindi ormai superato; è invece importante riconoscere che esistono trattamenti maggiormente indicati per determinati disturbi e che è necessario muoversi in questa direzione per identificare e migliorare sempre più interventi e protocolli specifici, così da indirizzare i pazienti verso il miglior trattamento evidence based disponibile ed efficace per la loro condizione; con buona pace di Rosenzweig, Luborsky e del dodo.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Compassion Focus Therapy – Report dal workshop con Nicola Petrocchi

Che cos’è la compassione? “Una particolare sensibilità alla sofferenza di sé stessi e degli altri, unita ad un forte desiderio, motivazione ed impegno ad alleviarla.” (Aristotele).

 

Già secondo Aristotele, la Compassione era intesa come una emozione che riguarda la sofferenza che colpisce le altre persone.

Compassione: cos’è

Essa si baserebbe, sempre secondo il grande filosofo, su tre requisiti cognitivi:

  • La credenza, o valutazione, che la sofferenza sia seria e non banale
  • La convinzione che la persona non meriti tale sofferenza
  • La consapevolezza che ciò che capita all’altro, un giorno potrebbe capitare a noi stessi.

Nella giornata del 30 giugno e 1 luglio si è svolto un workshop formativo ed esperienziale in collaborazione con l’Associazione “Centro di Psicologia e Psicoterapia Funzionale” di Padova avente come tema centrale la Compassion Focus Therapy, tenuta da Nicola Petrocchi.

Nicola Petrocchi è Psicologo e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, Ph. D. in psicologia e neuroscienze sociali; rappresentante italiano dell’approccio terapeutico della Compassion Focus Therapy, fondatore e presidente insieme a Paul Gilbert dell’associazione Compassionate Mind Italia; traduttore e curatore del libro “La terapia focalizzata sulla compassione.” Di Paul Gilbert, edito da Franco Angeli.

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Compassione e regolazione delle emozioni Compassion Focus Therapy foto 2

Imm. 1 – Nicola Petrocchi parla della Compassion Focus Therapy

Compassione e Compassion Focus Therapy (CFT)

La CFT rappresenta un nuovo approccio psicoterapeutico nato nell’ambito della terapia cognitivo comportamentale di terza generazione, sviluppata nel 2005 da Paul Gilbert, psicologo e psicoterapeuta cognitivo comportamentale, il quale durante il suo lavoro con i pazienti, notò come in alcuni di questi, soprattutto pazienti con disturbi depressivi, fosse più forte la resistenza al cambiamento e che la stessa non riusciva ad essere risolta facendo ricorso esclusivamente al lavoro sulla credenza disfunzionale e le distorsioni cognitive.

Tale osservazione, in linea con i contributi provenienti dalle Teorie dell’Attaccamento che sottolineano come il primo terreno affettivo all’interno del quale noi nasciamo e cresciamo, sia in grado di incidere sulle future modalità che adotteremo con noi stessi, nei confronti degli altri e degli eventi che incontreremo nella vita, unite alle teorie evoluzionistiche che sempre di più mettono in luce l’evoluzione del nostro cervello e il suo funzionamento, da quello più arcaico che ci rende più simile ai mammiferi, fino alla sviluppo della neocorteccia e relativo funzionamento, si comincia a concettualizzare che nella nascita della psicopatologia e nel suo mantenimento possono essere rintracciate nelle dinamiche di attivazione di alcuni sistemi di regolazione emotiva presenti nel nostro cervello. E grazie anche contributi delle neuroscienze si cominciano a distinguere tre sistemi di regolazione affettiva:

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Compassione e regolazione delle emozioni Compassion Focus Therapy foto 1

Imm. 2 – Nicola Petrocchi parla dei tre sistemi di regolazione affettiva

  • Sistema di protezione della minaccia (threat system) o sistema rosso come lo chiama Petrocchi, responsabile del sistema attacco-fuga, volto a garantirci la sopravvivenza, mobilitandoci di fronte a una possibile minaccia, al fine di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza (safety). Responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna. Si accompagna, oltre ad una maggiore attenzione selettiva di fronte a una potenziale minaccia, un tipo di ragionamento conservatorio e comportamenti di evitamento e protettivi.
  • Sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive and excitement system) o sistema blu, legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al circuito dopaminergico che ci consente di sperimentare sensazione di benessere e piacere. Ne sono un esempio come ci sentiamo dopo un esame finito positivamente, l’ottenimento di una promozione al lavoro, il vincere una gara… Ma in tale sistema emotivo, il soggetto è fortemente autocentrato e viene meno la motivazione verso l’altro; il soggetto è più propenso a credere che la sensazione di benessere sia legata al fare. Per certi versi, in tale sistema “stiamo bene finché le cose ci vanno bene” e in perfetta sintonia con le nostre aspettative, bisogni e desideri.
  • Sistema di regolazione emotiva, quello definito da Paul Gilbert sistema calmante (soothing system) o sistema verde. Un sistema responsabile di emozioni piacevoli e di benessere ma ben distinte da quelle prodotte dal sistema blu. Caratterizzato da stati emotivi come la calma, la tranquillità, l’appagamento ed il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo in pericolo; sembrerebbe strettamente connesso all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi connessi agli altri, ed inoltre connesso anche a un maggior rilascio nell’organismo dell’ossitocina, una sostanza in grado di produrre sensazioni appaganti e calmanti. Diversi studi infatti, concordano sul fatto che una maggiore presenza di tale sostanza nel sangue, sia strettamente connessa ad un aumento della sensazione di fiducia nei confronti di se stessi e negli altri, dovuto anche all’azione inibente che l’ossitocina svolge in alcune zone cerebrali associate alla paura.

Compassion Focus Therapy: riequilibrare i sistemi di regolazione emotiva

La Compassion Focus Therapy pone dunque la sua attenzione e cerca di intervenire proprio sullo squilibrio che alcune persone presentano fra questi tre sistemi, cercando di sviluppare ed allenare il sistema verde, ossia il sistema calmante, che in molti pazienti risulta ipoattivo. Infatti, la tesi portata avanti dalla CFT, è legata alla convinzione che aumentando e fortificando il sistema verde, un eventuale squilibrio negli altri due sistemi, il sistema blu e il sistema rosso, sia meglio gestito dal soggetto.

La CFT, a tal proposito, ha sviluppato una serie di tecniche volte a coltivare e sviluppare il Sé compassionevole, che abita il sistema verde, in grado da accogliere e stemperare altri aspetti caratteristici della specie umana come l’autocritica, la vergogna ed il senso di colpa, per renderli più funzionali per la persona che li sperimenta.

Ne sono esempi la mindfulness, la respirazione profonda e calmante, tecniche di immaginazione, dove la persona è invitata a provare a visualizzare un suo luogo sicuro; la visualizzazione del Sé compassionevole, provando a creare l’immagine di una figura, un soggetto, in grado di calmarci e rassicurarci, che ci trasmetti un messaggio di accettazione incondizionata, di fronte alla quale sentiamo di essere i benvenuti ed accolti così come siamo; ed ancora la lettera compassionevole e tante altre tecniche, la cui finalità non è quella di eliminare il dolore e la sofferenza, ma di aumentare la fiducia in noi stessi circa la sensazione di poter disporre di abbastanza risorse per affrontare, tollerare e reagire “agli urti della vita” (strettamente connesso al concetto di resilienza).

 

Studenti con disabilità e DSA nelle lauree e nei percorsi abilitanti: criticità e prospettive – Report dal convegno

Purtroppo oggi si fa ancora molta fatica ad accettare di avere un medico con disabilità. Su questo fronte nessuna riforma sanitaria o universitaria può essere sufficiente, occorre piuttosto recuperare l’empatia che un tempo legava medico e paziente.

 

Il rapporto medico-paziente è da sempre al centro del dibattito pubblico. Nell’immaginario collettivo il medico è il primo degli eroi, colui che fa nascere e accompagna per tutta la vita. La pubblicità, a sua volta, diffonde immagini di medici prestanti, capaci di scalare montagne, pur di arrivare a salvare uomini in difficoltà.

Ma cosa succede nella realtà quando il medico si ammala? Come reagiscono pazienti e colleghi davanti ad uno specialista con disabilità?

Se ne è discusso al convegno “Studenti con disabilità e DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) nelle lauree e nei percorsi abilitanti: criticità e prospettive”, organizzato dal CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria dei Delegati per la Disabilità) e dal CALD (Coordinamento degli Atenei Lombardi per la Disabilità), presso l’Auditorium Testori di Milano.

Sono paraplegica da più di vent’anni e ancora oggi molti pazienti, quando varcano la soglia del mio ambulatorio, rimangono perplessi. Alcuni mi domandano come possa lavorare! Il mio carattere forte mi consente di non avere complessi, ma conosco specialisti con disabilità che, nonostante il loro talento, sono stati esclusi dalla possibilità di fare carriera – ha testimoniato Pasqualina Bardino, medico chirurgo, mediatore civile e commerciale di Sassari.

Il diritto di accesso ai livelli superiori dell’istruzione per le persone con disabilità e DSA – hanno sottolineato i promotori del convegno – è riconosciuto e garantito dalle Università italiane.

Per le lauree abilitanti, che consentono l’accesso al lavoro alla fine del percorso di studio, la Costituzione impone di considerare le condizioni fisiche e psichiche del neolaureato. Ecco perché gli Atenei dovrebbero formare professionisti in grado di svolgere compiutamente il proprio ruolo professionale. È in gioco la responsabilità che il mondo accademico si assume nei confronti dei soggetti terzi.

Ma è in gioco anche la dignità dei laureati portatori di handicap. Come risolvere il problema?

All’incontro, che si è svolto con il contributo di Lisa Meeks, presidente di Coalition for Disability Access in Health Science and Medical Education, tutti sono apparsi concordi nel ritenere che il rafforzamento del lavoro d’équipe possa essere la risposta.

Un medico con disabilità può essere affiancato da un infermiere, purché il rapporto sia paritario. Laddove si pensasse di dare un aiuto al medico, si porrebbe quest’ultimo in uno stato di umiliante passività. Medico ed infermiere sono entrambi professionisti con ruoli diversi, ma complementari.

Sono già tanti, per fortuna, i buoni esempi.

Resta un po’ di strada da fare sul fronte culturale. I pazienti stentano ad accettare un medico cieco o in sedia a rotelle. Su questo fronte nessuna riforma sanitaria o universitaria può essere sufficiente. Occorre, allora, recuperare l’empatia che un tempo legava il medico al paziente.

Oggi, attraverso l’uso delle tecnologie digitali, gli specialisti possono monitorare i malati 24 ore su 24, tramite un semplice device. Senza dubbio, ciò è una conquista. Purché non si dimentichi che il buon medico non cura soltanto il sintomo, ma l’uomo nella sua interezza, anima compresa.

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