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Istituto di Terapia Cognitiva e Comportamentale di Rimini & Studi Cognitivi iniziano una collaborazione

COMUNICATO STAMPA

Dal 2019 ITC e Studi Cognitivi danno vita a una nuova collaborazione fra scuole

L’Istituto di Terapia Cognitiva e Comportamentale affiancherà alla sua tradizione didattica e scientifica l’esperienza e il modello di insegnamento di Studi Cognitivi.

Terremo vive le competenze cliniche nella tradizione cognitiva e comportamentale dell’ITC, come ad esempio il training di assertività, di rilassamento, le tecniche comportamentali, l’esposizione e l’intervento sull’autoefficacia, e le integreremo con gli insegnamenti tipici derivanti dall’esperienza didattica di Studi Cognitivi, come le tecniche cognitiviste di disputa di Albert Ellis, le tecniche di questioning di Aaron Beck, le tecniche base della terapia metacognitiva di Adrian Wells e Il modello di intervento LIBET,  che analizza le sensibilità personali apprese nelle storie di vita e i conseguenti piani disfunzionali.

Colloquio di ammissione

È già possibile prenotare il colloquio di ammissione al corso 2019-2022: cliccando qui.


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Interessi pedofilici negli adulti: eziologia

Quali condizioni possono influire nell’insorgenza di  interessi pedofilici negli adulti? Uno studio recente ha cercato di rispondere a questa domanda, considerando un campione non clinico di soggetti.

Uno studio condotto dalla dottoressa Sandy Wurtele contribuisce al corpo di letteratura che esamina l’eziologia degli interessi sessuali pedo-filici in campioni non clinici. Alcuni studi hanno rilevato come anche nella popolazione generale, una minoranza di adulti – uomini e donne – rievoca un interesse sessuale in un gruppo di giovani. Lo scopo del presente studio, condotto dalla dottoressa Sandy Wurtele, professoressa e ricercatrice presso l’University of Colorado Springs, e colleghi, è quello di identificare i fattori associati all’interesse sessuale per i bambini in un gruppo di uomini.

Interessi pedofilici in campione non clinico: lo studio

Quattrocentotrentacinque soggetti adulti sono stati reclutati online per uno studio su esperienze sessuali e attitudini. Nonostante il campione iniziale fosse composto da 173 soggetti di genere maschile e 262 persone di genere femminile, i ricercatori hanno scelto di prendere in considerazione solo i dati dei soggetti di genere maschile a causa della bassa proporzione, capace di precludere le analisi statistiche, di soggetti di genere femminile che riporta interesse sessuale verso i bambini.

Il campione finale non clinico e non forense è stato dunque di 173 uomini, di età media di 27 anni (deviazione standard 10 anni), single (59%), diplomati ed eterosessuali (89%). Il restante 11% che ha riportato di non essere attratto esclusivamente da soggetti di genere femminile ha riportato di essere attratto da uomini, uomini e donne, bambini e animali.

Sono stati misurati diversi tipi di avversità verificatesi in infanzia (violenza genitoriale, abuso sessuale, fisico ed emotivo) oltre ad esperienze sessuali atipiche nell’infanzia. Oltre a ciò è stata indagata anche la probabilità auto-riferita dei partecipanti di impegnarsi in una varietà di comportamenti correlati all’interesse sessuale nei confronti dei bambini.

Interessi pedofilici: i risultati dello studio

I risultati mostrano come i mediatori della relazione tra esperienze avversive precoci e interesse sessuale nei bambini sono la masturbazione precoce e l’ipersessualità, intesa come spinta sessuale marcata.

Questo ha portato i ricercatori a sostenere che per alcuni soggetti di genere maschile, appartenenti ad un gruppo non clinico e non forense, le esperienze avversive precoci possono condurre alla sperimentazione di sensazioni sessuali marcate in adolescenza, che si protraggono fino alla prima età adulta, comportando un interesse espresso nei confronti di partner sessuali non convenzionali (tra cui bambini).

È inoltre emerso che spesso gli adolescenti con una marcata spinta sessuale consumano molta pornografia e spesso questo materiale pornografico può (inavvertitamente o deliberatamente) mostrare attività con soggetti in fase prepuberale.

È necessario considerare che questo studio si è basato su misure retrospettive, le quali potrebbero essere inficiate da eventuali bias mnemonici.

Eppure, l’importanza di tale studio a livello preventivo è spiccata: la vittimizzazione in infanzia può giocare un ruolo causale nello sviluppo di interessi sessuali nei confronti dei bambini. Per questo motivo, la prevenzione di esperienze avversive precoci può giovare alla società intera, ricordando inoltre come coloro che hanno pensieri sessuali rivolti ai bambini necessitano di supporto per prevenire lo sviluppo di comportamenti abusivi.

La qualità delle interazioni precoci madre-bambino e problematiche attentive dei bambini in età scolare

Uno studio longitudinale ha provato a verificare l’impatto della qualità delle interazioni precoci tra madre e bambino su problemi attentivi del bambino in età scolare.

Lorena Caiati, Elena Ierardi, Margherita Moioli

La letteratura indica che l’inadeguatezza della relazione mamma-bambino nei primi anni di vita è un importante fattore di rischio per lo sviluppo socio-emotivo e per l’emergere di problemi psicopatologici nei bambini (Sroufe, Egeland, Carlson, & Collins, 2005). Si può quindi ipotizzare che la genitorialità non sia uno stato univocamente e geneticamente predeterminato, né tanto meno un semplice ruolo, ma sia invece un processo multideterminato ed evolutivamente aperto che è necessario per uno sviluppo psichico del bambino armonico ed efficacemente adattivo rispetto alle necessità ambientali.

Madre-bambino: le interazioni precoci hanno importanti conseguenze

Lo studio della relazione tra competenza comunicativa infantile e responsività materna ha inoltre permesso di mettere in luce come diversi aspetti del caregiving genitoriale e della comunicazione infantile abbiano degli effetti a breve e medio termine sullo sviluppo socio emotivo e relazionale del bambino (Riva Crugnola, 2012). Infatti, la qualità del parenting durante i primi anni di vita del bambino è collegata allo sviluppo sociale e relazionale; nello specifico, la scarsa sensibilità genitoriale e l’intrusività materna in infanzia predicono problemi esternalizzanti e internalizzanti durante lo sviluppo successivo del bambino. Invece la sensibilità materna è associata a maggiore competenza di resilienza del bambino in età prescolare e scolare (Cumberland-Li, Eisenberg, Champion, Gershoff, & Fabes, 2003; Kok et al., 2013; Mäntymaa, Puura, Luoma, Salmelin, & Tamminen, 2004).

Inoltre la difficoltà da parte del bambino di regolare le emozioni durante l’interazione con la madre nel primo anno di vita può essere un fattore di rischio per lo sviluppo di sintomi e problematiche nell’area dell’iperattività e della disattenzione. È stato anche identificato che comportamenti non responsivi materni quali aggressività, intrusività e ostilità fungono da mediatore dell’associazione tra le difficoltà del bambino a livello emotivo nei primi mesi e i successivi problemi comportamentali in età scolare (Morrell & Murray, 2003) fino all’età adulta (Najmi, Bureau, Chen & Lyons- Ruth, 2009).

In ambito clinico è sempre più frequente la richiesta di consultazione su problematiche di tipo esternalizzante e in particolare inerenti l’irrequietezza, l’impulsività, la distraibilità e la disattenzione. Al fine di attuare interventi precoci, è quindi importante riuscire a individuare, come fattori di rischio, i predittori precoci per problematiche attentive.

Interazioni Madre-bambino e impatto su problemi attentivi in età scolare

Interessante a questo proposito uno studio longitudinale (Caiati, Ierardi & Moioli, 2016) volto ad analizzare in un campione di 27 diadi madre-bambino la relazione tra gli stili di interazione della madre e del bambino a 9 mesi e le problematiche attentive in età scolare. A 9 mesi del bambino sono state videoregistrate le interazioni diadiche di gioco libero e codificate con il sistema di codifica NVA (Moioli, 2008; Moioli, Gazzotti, & Walder, 2010), uno strumento per l’osservazione strutturata, la valutazione e la codifica di sequenze videoregistrate di interazioni genitore-bambino. A 6 anni del bambino, alle madri è stato somministrato il Conners Rating Scales-Revides (Conners, Sitarenios, Parker, & Epstein, 1998) per valutare gli atteggiamenti che i loro figli mettono in atto durante le quotidiane attività che svolgono a casa come lo studio o il gioco e individuare problematiche attentive. I risultati ottenuti da questa ricerca mostrano una relazione tra i comportamenti di madre e bambino a 9 mesi e le problematiche attentive in età scolare. In particolare, i bambini che hanno più comportamenti passivi e di evitamento nelle interazioni con la madre a 9 mesi hanno poi punteggi più alti nella sottoscala dell’inattenzione a 6 anni. L’aggressività e l’intrusività materna nei confronti del bambino nelle interazioni a 9 mesi sono correlate a maggiori problematiche del bambino nell’area dell’iperattività a 6 anni. Inoltre le problematiche attentive e dell’iperattività dei bambini sono risultate associate tra di loro.

I risultati di questo studio sottolineano l’importanza di valutare precocemente gli indicatori di rischio per la relazione mamma-bambino quali inadeguatezza, non responsività del caregiver e difficoltà di coinvolgimento positivo del bambino, al fine di prevenire rischi per lo sviluppo di problematiche di tipo psicopatologico in età scolare. I problemi relazionali precoci sono segnali predittivi di difficoltà del bambino negli anni successivi, è quindi importante attuare interventi preventivi per sostenere e migliorare la qualità della relazione della diade madre-bambino al fine di prevenire disturbi della salute mentale del bambino.

Dieta e comportamenti a rischio: quale associazione?

Curare la propria immagine, oggi, pare un aspetto di fondamentale importanza ed elemento (quasi) irrinunciabile delle nostre vite. Sempre di più sono le persone, soprattutto ragazze adolescenti, che, proprio per questo motivo, seguono diete alimentari dimagranti, spesso anche molto rigide.

 

La tendenza a seguire diete dimagranti è un fenomeno al quale è bene prestare la massima attenzione, soprattutto quando riguarda giovani ragazzi e ragazze adolescenti. L’adolescenza è, infatti, una fase evolutiva che può portare ad un aumento di peso, e tale tendenza, associata all’influenza delle immagini promosse dal web e dai social media, può portare i giovani a spingersi verso standard fisici ideali molto difficili da raggiungere.

Dieta e sviluppo di altri comportamenti a rischio

Uno studio condotto presso l’Università di Waterloo ha messo in evidenza come le ragazze adolescenti che seguono una dieta, hanno maggiori probabilità di mettere in atto altri comportamenti a rischio per la loro salute, quali ad esempio: fumare, bere alcolici e saltare la colazione. Nello specifico, i risultati ottenuti dimostrano che le ragazze adolescenti a dieta presentano una probabilità di 1,6 volte maggiore di fumare e saltare la prima colazione e di 1,5 volte maggiore di fumare e impegnarsi in comportamenti di binge drinking.

L’esistenza di un legame tra il seguire una dieta e la messa in atto di comportamenti come il fumare o il saltare i pasti può essere abbastanza intuitivo. Lo è meno il legame con comportamenti quali il binge drinking.

Amanda Raffoul, principale autrice dello studio, sostiene che alla base del legame tra il seguire una dieta e tali comportamenti a rischio vi siano alcuni fattori comuni tra i quali identifica, in particolare, la percezione di un’immagine corporea disfunzionale.

Sulla base di quanto emerso dallo studio, Raffoul si è espressa dunque in maniera critica rispetto alla prospettiva di cominciare una dieta. La perdita di peso non è qualcosa che si dovrebbe incoraggiare, specialmente tra la popolazione che riguarda le ragazze adolescenti, dal momento che il fatto di iniziare una dieta potrebbe promuovere la messa in atto di comportamenti disfunzionali, causando più danni che benefici. Secondo l’autrice ci si dovrebbe invece focalizzare maggiormente sulla salute in generale delle persone, piuttosto che esclusivamente sul peso come indicatore di salute.

A sostegno di quanto sostenuto da Raffoul, va anche un’altra ricerca che ha coinvolto oltre 3.300 ragazze delle scuole superiori in Ontario in uno studio longitudinale, chiamato COMPASS. Sharon Kirkpatrick, professoressa alla Scuola di sanità pubblica, attraverso questo studio, ha voluto sottolineare l’importanza di considerare i fattori legati alla salute, alimentazione, comportamenti, stile di vita, etc. nella loro complessità e in interazione tra loro. Solo comprendendo i modi complessi di interagire tra questi fattori, può infatti essere possibile identificare possibili interventi di prevenzione e di cura efficaci.

In conclusione, entrambi gli studi citati e i risultati di tali ricerche assumono il ruolo fondamentale rispetto alla salvaguardia della salute delle giovani adolescenti. Allo stesso tempo, aprono nuovi scenari verso la considerazione di un concetto di salute che esula dalla considerazione dell’unico fattore del peso e dell’immagine corporea come fattore di valutazione dello stato di benessere dell’individuo.

Cannabis: uso e abuso dell’erba più famosa al mondo – Report da Palermo

Un titolo che preannunciava un dibattito culturale, medico e scientifico di alto spessore e che, lo scorso 9 giugno, all’interno della cornice naturalistica di Villa Trabia a Palermo, ha raccolto studiosi e Istituzioni nel non semplice compito di coniugare uso terapeutico e ricreativo di una sostanza dibattuta, a livello sociale e istituzionale, a partire dalla questione della legalizzazione.

La cannabis è una sostanza psicoattiva che può essere utilizzata a scopo ricreativo o per le sue proprietà terapeutiche: in ogni caso la reazione è geneticamente determinata e dipende altresì da variabili quali frequenza, durata dell’assunzione, quantità e precocità

apre i lavori il Prof. Daniele La Barbera, psichiatra e direttore della Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di Palermo

Cannabis: effetti positivi e negativi

Tra gli effetti positivi ricordiamo la modificazione delle percezioni, il senso di rilassamento e di sicurezza per l’attivazione dei recettori del sistema endocannabinoide, l’ottundimento dello stato di coscienza: ecco perché la cannabis è una sorta di ausiliare dello stress, agendo con effetti benefici in condizioni di stress. Riguardo alla legalizzazione, la cannabis è stata legalizzata in Canada e a mio avviso ciò costituisce un’opzione da considerare. Le motivazioni sono varie e vincenti rispetto all’opzione legalizzazione, ovvero la sottrazione dei capitali alla criminalità e il controllo dell’uso e consumo/abuso, con riduzione del passaggio a sostanze pesanti, come il crack.

E sugli effetti positivi e negativi, nonché sul confronto con altre sostanze di abuso, si è concentrata la relazione del Dr. Gianpaolo Spinnato, psichiatra del Sert 2 ASP 6 di Palermo.

Cannabis uso e abuso dell’erba più famosa al mondo - Report da Palermo foto

La cannabis fa male e fa bene, come le persone. Il problema più evidente derivante dall’uso è la precocità e la frequenza/durata: se si introduce regolarmente la cannabis il cervello si adatta all’uso, gli effetti positivi del primo periodo si riducono, quindi è necessario aumentarne la quantità e il periodo di utilizzo per avere effetti simili, aumentando in tal modo la probabilità di sviluppare sintomi psichiatrici o perdita di memoria, con uso continuativo; inoltre sospendendo l’assunzione si entra in astinenza. Ancora, più precoce è l’utilizzo più gli effetti saranno negativi: una cosa è portare un peso a 12/13 anni, un altro a 25 anni, poiché maggiore sarà l’incidenza sulla struttura del cervello, nel primo caso. C’è però da dire che si fa un gran parlare degli effetti negativi della cannabis, ma, da un punto di vista medico, l’alcool, sostanza legale, ha maggiori proprietà psicoattive della cannabis; in ultimo vi è la nicotina.

Sui dati statistici ufficiali e sull’uso ricreazionale della sostanza si è espressa la Prof.ssa Maria Di Blasi, Professore associato in Scienze Psicologiche dell’Università degli studi di Palermo.

Poco si sa degli effetti benefici della cannabis: questo è dovuto al fatto che le ricerche di cui disponiamo sono per lo più finanziate da enti interessati allo studio dei danni. Come dare indicazioni agli utilizzatori ricreazionali per evitare che esitino in utilizzatori problematici, alla luce dell’aumento delle richieste di trattamento per uso problematico rilevate dall’ultimo Rapporto Europeo sulle droghe? A mio avviso forse non ha senso che entriamo nelle scuole e diciamo cosa fare, ma piuttosto che aiutiamo a costruire le conoscenze. È poi importante, ai fini di una riduzione dei danni, intercettare l’insorgenza dei problemi il più precocemente possibile, considerando per esempio la maggiore tossicità della cannabis di strada, quindi intervenire in quei contesti dove più problematico ai fini della salute e valutare il suo utilizzo.

Cannabis: uso ricreativo e terapeutico

Su uso ricreativo, da valutare con attenzione per le ricadute sulla salute, ed effetto terapeutico, si è focalizzato l’intervento del Dr. Carlo Privitera, medico chirurgo.

È importante dire che il sistema cannabinoide ha una sua funzione vitale, nella misura in cui regola il sistema immunitario e il sistema nervoso. Tutte le malattie umane si possono considerare patologie infiammatorie, come l’artrite o la fibromialgia, ma anche il Parkinson e la demenza: ecco perché, in quanto sostiene i due sistemi, la cannabis va bene per tutti, anche se non è certo la panacea di tutti i mali. Il problema non è tanto nell’uso terapeutico, poiché in questo senso la cannabis non provoca dipendenza, ma nell’uso ricreativo. Infatti la dipendenza è relazionale, essendo collegata a fattori quali le motivazioni dell’assunzione, il contesto o gli stati d’animo, anche se il farmaco, nei due utilizzi, è esattamente lo stesso.

Circondati da psicopatici (2017) di B. Mechler – Recensione del libro

In questo libro l’autrice intende come psicopatici le persone che sfruttano e manipolano gli altri: sono più di quelle che pensiamo ed è utile sapere come gestire il rapporto con loro.

Trovandomi tra le mani questo libro la mia attenzione è stata catturata dal titolo.

Mi sono chiesta cosa intendesse l’autrice con il termine “Psicopatico”. Nel DSM-5 la Psicopatia coincide con il Disturbo Antisociale di Personalità inserito nel cluster B dei Disturbi di Personalità. La Mechler non è una psicoterapeuta ma un esperta di comunicazione e utilizza quindi il termine Psicopatico, in modo clinicamente improprio, al fine di tratteggiare i contorni di una personalità manipolatrice e pericolosa per chi ne entra in contatto.

Già nelle prime pagine del suo libro l’autrice ci espone ciò che in realtà lei intende per “Psicopatico”: si tratta del cosiddetto strumentalizzatore, quel manipolatore che non tenendo affatto in considerazione il punto di vista altrui domina l’altro, colui che con atteggiamento di minaccia riesce a dominare il più debole rendendolo impotente e incapace di difendersi. Detto in questi termini molti sicuramente chiuderebbero il libro, con la convinzione che uno “psicopatico” non è affatto presente nelle proprie vite, di conseguenza l’argomento non li riguarda.

Circondati da psicopatici…anche se non ce ne rendiamo conto

Ma è fondamentale andare avanti con la lettura, per lasciarsi convincere dall’autrice che gli “psicopatici” non sono affatto pochi, e che in effetti tutti noi ne siamo addirittura “circondati”. Questo perché lo psicopatico è abile a mascherarsi. Egli mente, e ha la capacità di mentire senza contraddirsi. E di conseguenza inganna l’altro, lo domina, sovrastandolo.

E non solo, lo psicopatico incolpa l’altro senza pietà, mostrandosi pubblicamente affidabile e corretto.

Ma questa è solo la maschera pubblica dello psicopatico della Mechler. L’autrice infatti si sofferma su ciò che lo psicopatico cela dentro di sè: insoddisfazione e insicurezza. È proprio lui ad essere diffidente, paranoico e malfidato, un soggetto insicuro e per nulla gratificato dalla vita.

In questo modo il libro dà un messaggio di sollievo a tutti coloro che sono o sono state vittime di psicopatici: non si tratta di persone forti e dall’alta autostima, bensì di soggetti deboli, che usano l’altro per il bisogno di affermare se stessi.

L’autrice correda i capitoli del testo con aneddoti di storie realmente accadute riportando frasi e dialoghi con lo scopo di rendere semplice la comprensione e l’individuazione dei soggetti “psicopatici”. E ci riesce bene. Ognuno di noi ha certamente incontrato degli psicopatici lungo il suo cammino, sul luogo del lavoro o tra le proprie conoscenze.

Circondati da psicopatici… di cui ci si può innamorare

Ma se di uno psicopatico dovessimo disgraziatamente innamorarci? È uno scenario alquanto possibile, vista l’abilità di questi soggetti di manipolare gli altri e mostrarsi impeccabili.

L’autrice dedica un intero capitole del suo libro allo psicopatico e l’amore.

Si tratta di un soggetto in grado di farsi amare. Con il suo modo di attribuire tantissima considerazione all’altro riceverà in cambio una gran dose di gratitudine. Nel primo periodo di una relazione amorosa lo psicopatico è perfetto, non sarà tale con il trascorrere del tempo. Si tratterà di un soggetto possessivo, manipolatore, dal quale sarà difficile anche allontanarsi, qualora lo si voglia. Ma quindi cosa si potrebbe fare?

Mechler dà ottime indicazioni in merito a ciò. Inizialmente ci guida facendoci conoscere la struttura dello “psicopatico”, il suo modo di ragionare, di porsi nei confronti dell’altro. Ci dà anche una buona illustrazione di quella che potrebbe essere la sua famiglia, di tutte le motivazioni che sottendono ai suoi comportamenti, su come si formano e si costruiscono i suoi atteggiamenti manipolatori.

Poi l’autrice ci prepara alla difesa: fornisce consigli ben concreti, con schede di facile utilizzo per tutti, facendoci comprendere come contrattaccare uno psicopatico; questo per mettere fine alle sue manipolazioni, liberandosi dai soprusi e innalzando la propria autostima. Perché è così che ci si sente a seguito di una cosiddetta “vittoria” sul comportamento psicopatico: forti, abbiamo vinto!

E sentendoci forti avremo sicuramente anche un motivo in più per poter perdonare; perdono non semplice in alcuni casi, ma Mechler ci fa comprendere l’importanza di questo gesto, perché si tratta in fondo di perdonare se stessi. Si è stati vittime di una manipolazione che ha messo in secondo piano la propria dignità.

Si tratta di un libro che apre gli occhi su tutti quei comportamenti velati altrui di cui siamo spesso vittime senza rendercene conto.

È durante il riposo che il nostro cervello elabora le informazioni sociali

Il nostro cervello è ossessionato dall’essere social. Un nuovo studio della Columbia e California University dimostra la maggiore connessione sperimentata da due regioni del cervello durante il riposo, in seguito alla codifica di nuove informazioni legate alla socialità.

 

Nel presente studio viene analizzato il ruolo di due regioni cerebrali, la corteccia prefrontale mediale e la giunzione tempoparietale, aree deputate all’inferenza sociale, alla capacità di valutare le personalità, gli stati mentali e le intenzioni altrui.

I ricercatori, guidati da Meghan L. Meyer, direttore del Dartmouth Social Neuroscience Lab, basandosi su ricerche precedenti, sono partiti dal presupposto che queste due aree mostrano un picco spontaneo nella connettività durante il riposo, ma ancora nessun studio ha dimostrato empiricamente come tale connettività funzioni in caso di socialità.

Lo studio sperimentale

Lo studio è stato condotto su 19 partecipanti, i quali sono stati invitati a completare delle attività di codifica sociale e di codifica non sociale, durante una sessione di scansione del cervello fMRI.

Il disegno sperimentale prevedeva la scansione di uno stato di riposo al basale, separando le scansioni dello stato di riposo dalle scansioni di codifica sociale e codifica non sociale. Durante il riposo (di 8,4 minuti) i soggetti ricevevano l’indicazione di poter pensare a qualsiasi cosa purché rimanessero svegli. Il compito di codifica sociale prevedeva l’osservazione della fotografia di una persona, “un professionista”. In seguito all’osservazione, i partecipanti avevano il compito di valutare l’impressione della persona valutandone il calore e la competenza su una scala da 1 a 100 sullo schermo di un computer. Il compito di codifica non sociale era basato sull’osservazione di un luogo abbinato a due tratti utilizzati per descriverlo: calore (in termini di temperatura) e piacevolezza, utilizzando sempre una scala da 1 a 100. Nessuna fotografia di persona è stata mostrata in questa fase.

Le prove codificate dai partecipanti erano 120, 60 sociali e 60 non sociali. Le fotografie usate per queste 120 prove sono state recuperate da un database online.

In seguito alla scansione fMRI, i partecipanti hanno completato una prova di memoria associativa a sorpresa, con lo scopo di valutare se potevano identificare con precisione determinate foto di persone e luoghi e il loro rispettivo insieme di tratti, presentati in precedenza durante le 120 prove.

I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: il primo gruppo di partecipanti svolgeva prima i compiti sociali ed in seguito i compiti non sociali, mentre il secondo gruppo di partecipanti svolgeva prima i compiti non sociali e poi quelli sociali.

I risultati

Dai risultati è emerso che durante il periodo di riposo in seguito alla codifica seriale, si è verificato un aumento della connettività tra la corteccia prefrontale mediale e le regioni della giunzione tempo-parietale. È inoltre emerso che maggiore è la connettività tra queste due regioni predefinite, maggiore è il livello delle prestazioni della memoria sociale.

Ciò che i ricercatori hanno avuto modo di osservare è un effetto per cui i partecipanti del primo gruppo hanno mantenuto livelli più elevati di connettività tra le due aree cerebrali durante il periodo riposo post-compito sociale e anche durante il periodo di riposo post-compito non sociale. Questo elemento non è emerso nel secondo gruppo, ovvero tra coloro che svolgevano prima i compiti non sociali.

Tale studio dimostra come il cervello consolida le informazioni sociali non appena ha l’opportunità di riposare. Meyer ha infatti aggiunto “quando la nostra mente ha una pausa, possiamo dare priorità a ciò che apprendiamo sul nostro ambiente sociale”.

FotografiaTerapia

La fotografia nella vita contemporanea, oltre ad essere un’arte, un registratore di ricordi, uno strumento atto all’informazione (come possono essere, ad esempio, i reportage), può essere considerata un modo di esprimere i sentimenti di un determinato istante, di un momento ben preciso.

 

Spesso, ad esempio, accade per ognuno (o per la maggior parte) di fotografare, con uno smartphone o con una fotocamera, dei soggetti particolari, come un palazzo, una persona, un oggetto…poi, dopo qualche ora oppure il giorno dopo, si nota che la stessa fotografia non mostra più quel significato particolare che aveva nell’istante in cui è stata scattata, e questo rende difficile spiegare il motivo per cui quella fotografia sia stata realizzata (in questo caso si parla dell’atto del fotografare e del registrare pensando che il soggetto debba essere mantenuto nella memoria, e non alle fotografie fatte per essere inviate agli altri o per dimostrare qualcosa agli altri).

Fotografia, tecnologia e cervello

Ma il motivo di questa incapacità di dare una spiegazione oppure il fatto di non poter esprimere una sensazione precisa guardando quella foto, quale può essere? Perché si sente l’esigenza di eliminare, o meglio, di distruggere tante fotografie scattate durante il quotidiano? Il cervello umano, avendo la caratteristica di decentratore, oltre a concentrarsi sui soggetti che interessano al conscio, include nel raggio d’interesse anche i soggetti che affascinano l’inconscio; essi, normalmente volatili e legati al tempo, allo spazio e alla situazione fisica e mentale dell’individuo, per diverse ragioni, che possono essere l’autocensura (proveniente dalla morale personale e sociale), le paure, la stanchezza, si celano nella nebbia e vanno a formare il margine, la cornice dei soggetti principali. Quelli secondari registrati nelle fotografie (che possono essere definiti soggetti invisibili), oltre a dare una sensazione piacevole a chi fotografa (e a volte anche non piacevole), permettono, attraverso l’analisi sui soggetti stessi e la concentrazione dell’analisi, di conoscere il processo d’azione dell’inconscio, che può essere di impronta grottesca oppure realistica. Per conoscere qualsiasi cosa, senza dubbio, c’è bisogno dell’ausilio del cervello, ma per conoscere il nostro sistema nervoso centrale e le sue forme psichiche, che strumento bisogna usare? Sicuramente il cervello stesso. E proprio l’impiego di questo strumento, usato per conoscere lo stesso strumento, complica il lavoro ed obbliga ad entrare nello stato di dormiveglia o di anestesia del cervello, al fine di conoscere ed analizzare tutti gli angoli che sono fuori dalla sua forma naturale; questo è il caso specifico del fotografare venuto dall’inconscio che, come l’ingresso nel mondo nebbioso del dormiveglia, aiuta ad illuminare, appunto, gli angoli nascosti del cervello. Un altro motivo per cui si sceglie la fotografia per conoscere questi punti bui, è il metodo secondo cui agisce il cervello nella fase di salvataggio delle informazioni ed in quella di protezione delle informazioni già salvate e catalogate. Il motivo di questo risiede nel fatto che, il cervello umano, invia tutte le informazioni ricevute dai sensi al centro di salvataggio delle stesse ed utilizza la memoria come uno scudo, per evitare che le informazioni immagazzinate salgano in superficie, in quanto, così facendo, le allontana dall’erosione e poiché, salendo in superficie, esse potrebbero perdere le loro peculiarità ed infine perché così evita che il funzionamento del cervello diventi caotico, visto l’alto volume di dati che esso contiene. Per questo motivo, una grande quantità d’informazioni non è a portata di mano, quindi, quelle alle quali si tende, è necessario raggiungerle trovando una strada per attraversare questo confine, questo scudo, giungendo a quelle stesse informazioni che è possibile ottenere attraverso la fotografia e che consentono di conoscere l’inconscio di un individuo.

Le informazioni ottenute con la fotografia, possono essere più utili rispetto a quelle ottenute con altri metodi di Arteterapia, quali l’analisi, la pittura, la danza e, più in generale, con tutti i metodi di espressione in cui esse sono nascoste in modo complicato ed in circonlocuzione.

È possibile, attraverso le fotografie scattate in questa maniera, arrivare alle informazioni che si trovano dietro lo scudo della memoria, anche in un modo diretto e chiaro, già con la prima analisi, in modo da decifrare i soggetti primari ed ottenere una quantità maggiore di informazioni dall’inconscio. Un’altra caratteristica unica della Fotografia-terapia, è il fatto che la documentazione delle espressioni dell’individuo che fotografa, può avvenire in ogni momento e all’improvviso; questo modo di psicoanalizzare, offre all’individuo la possibilità di esprimersi nella sua vita quotidiana ed in ogni luogo, come ad esempio in ufficio o dietro la finestra di casa, potendo cogliere maggiori opportunità e libertà assolute. Ciò significa che, il soggetto in analisi, per esprimersi non deve essere necessariamente in un luogo preciso ed in un momento esatto sotto il microscopio di uno psicologo; infatti, questa circostanza, oltre a dare uno spiccato senso di libertà ed una sensazione piacevole, rende le espressioni più profonde, poiché la mente della persona, in questa assoluta libertà spaziale e temporale, si esprime in un modo meno intenzionale, usando, quindi, meno energia per farlo. Così il risultato sarà di certo più profondo.

Come fare fotografie?

Per realizzare la ricerca secondo questo approccio, la fotografia deve essere scattata attraverso una fotocamera compatta oppure uno smartphone, poiché lo strumento impiegato non deve creare limiti nell’individuo che fotografa e non deve stancarlo, infatti usare una fotocamera di dimensioni normali, sarebbe come tornare al punto di partenza (in un posto preciso ed in un momento preciso), non essendo uno strumento usuale nella vita quotidiana. Fotografare deve essere un’azione continua ma racchiusa in un determinato periodo di tempo (un esempio potrebbe essere fotografare a giorni alterni per 10 giorni) per creare una struttura ritmica nel cervello del paziente, una situazione che pone chi fotografa nei panni di chi riveste un ruolo importante.

Il modo di illustrare lo svolgimento della ricerca al paziente deve essere chiaro, non deve presentare dettagli nascosti, in modo da permettere al paziente di comprendere bene la sua reazione in qualsiasi momento e rispetto a qualsiasi scena (anche se potrebbe sembrare infantile o volgare), perché nel periodo di svolgimento della ricerca, questo potrà fornire una fotografia-chiave, la soluzione. Nel realizzare questa ricerca, il paziente deve sentirsi, quindi, totalmente libero, il che significa che egli potrà fotografare tutto ciò che ritiene interessante e tutto ciò a cui guarda in modo conscio, oltre ai soggetti secondari che, in un istante, suscitano il suo interesse.
A questo punto, è bene sapere che le fotografie che mostrano soggetti primari chiari, sicuramente avranno in esse anche soggetti secondari; se si pensa, ad esempio, alla foto di un palazzo, nei dettagli si potrebbe notare il colore rosso di una tenda dietro una delle finestre, oppure una porta aperta a metà, tutti dettagli che possono essere molto preziosi per il ricercatore. Il risultato di questa ricerca è legato al paziente e può avere un tempo di realizzazione variabile, in base a diversi parametri quali: età, voglia di collaborare, presenza (più o meno forte) di inconscio represso e situazione fisica del paziente, caratteristiche molto importanti se proiettate verso il raggiungimento dell’esatta risoluzione del problema ed alle quali il ricercatore deve porre molta attenzione, poiché esse si rivelano fondamentali durante la fase di osservazione e durante l’intero processo di analisi.

Al termine della ricerca, le foto raccolte, per prima cosa devono essere divise in quattro categorie dal paziente; la prima divisione deve basarsi sull’importanza delle fotografie, vale a dire che egli dovrà dividere, appunto, le sue fotografie in due categorie principali: le fotografie più importanti e quelle meno importanti. Successivamente, tra le più importanti, dovrà selezionare quelle che hanno un’importanza maggiore e, tra quelle meno importanti, quelle che hanno un’importanza minore. Attraverso tale suddivisione nelle quattro categorie sopra descritte, il paziente metterà, inconsciamente, le fotografie con i soggetti più nascosti (che saranno le fotografie-chiave per il ricercatore) tra il gruppo delle fotografie meno importanti, in modo graduale, ovvero posizionando le fotografie che contengono i soggetti più nascosti nel secondo gruppo delle fotografie meno importanti, ovvero tra quelle meno importanti tra tutte. Per la prima analisi dei prodotti fotografici, bisogna considerare le seguenti sei caratteristiche:

1. i soggetti primari

2. i soggetti secondari

3. i colori, la loro quantità ed il modo di combinarsi tra loro nelle immagini

4. il momento dello scatto

5. le condizioni dello spazio, comprese le condizioni acustiche, climatiche, ecc. in cui il paziente fotografa

6. la quantità di fotografie

Nel trovare i soggetti primari, sicuramente il ricercatore non riscontrerà molti problemi, poiché essi sono molto chiari, come ad esempio il mare, gli alberi, il sesso delle persone nelle fotografie, gli oggetti medio-grandi; questi ultimi, di sicuro, riflettono in modo molto chiaro le sensazioni ed il significato che, quegli stessi soggetti, danno al paziente. L’analisi dei soggetti secondari, invece, si deve concentrare su aspetti diversi, prendendo il via dalla conoscenza della simbologia delle forme e della sensazione psicologica dei materiali che sono racchiusi nella fotografia (metallo, legno, plastica…); ad esempio, il desiderio inconscio di fotografare soggetti triangolari, può indicare un animo combattente e guerriero, ma può essere anche l’espressione di una sensualità forte e molto viva, siccome il triangolo dà esattamente queste sensazioni, per i suoi angoli molto appuntiti, così come il quadrato o il cerchio, esprimono sensazioni diverse, in base alle loro caratteristiche.
Anche le sensazioni psicologiche date dai materiali, come visto, possono aiutare a conoscere altre caratteristiche che sono più nascoste; ad esempio, la voglia inconscia di fotografare il color oro, può essere un segno del desiderio di lusso e può simboleggiare la ricerca della ricchezza.

I colori e la loro quantità in combinazione, devono essere analizzati da due punti di vista differenti: sensazione psicologica e sensazione fisiologica. Si prenda ad esempio il colore azzurro: esso indica la sensazione fisiologica del sapore dolce ed è noto per il fatto che provoca l’abbassamento della temperatura corporea, ma, allo stesso tempo, dal punto di vista delle sensazioni psicologiche, esso è noto per essere portatore di tranquillità e del senso di calma. Altrettanto utile nella decifrazione del paziente durante la ricerca, è la combinazione dei colori in un’immagine; ad esempio i colori grigio e nero, che si trovano insieme in una foto, possono simboleggiare insoddisfazione e bisogno di scappare da una pressione psicologica, nonché dallo stress (in questo caso è possibile trarre aiuto dal Color Test, la ricerca effettuata dal Dr. Max Lüscher).

Il tempo, ovvero il momento in cui è stata scattata una fotografia, nell’analisi dell’inconscio può essere molto significativo; ad esempio, una foto scattata alle ore 20.00 (8 pm) da un impiegato d’ufficio, che scatta quella foto tornando a casa da lavoro, potrebbe esprimere il senso di liberazione delle sensazioni represse durante il giorno, siano esse positive o negative.

Infine, le condizioni spaziali, che non sono visibili nella foto, possono essere notevoli se, da parte del paziente, esiste la possibilità di ricordarle e raccontarle. In particolare, sono interessanti le condizioni create dalle persone che gli sono intorno nel momento dello scatto, dalla loro sessualità, dalle loro voci, dagli odori.

Fotografia come terapia: conta anche la quantità

A questo punto, è necessario passare all’analisi del carattere del paziente attraverso un particolare elemento: la quantità delle foto. Se si pensa a tutto ciò che è stato detto fino ad ora, è facile comprendere che le foto prodotte in questa maniera, affermano un tipo di volontà o di espressione che possono essere validi non solo per registrare i soggetti primari e secondari (sia visibili che invisibili) ma, viceversa, anche per fuggire dagli stessi. Nell’analizzare le foto che l’individuo cerca di non considerare oppure di eliminare, a volte ci si trova di fronte a delle fotografie che sembra derivino non da sensazioni piacevoli, ma da uno stato di repressione o da una deviazione della tensione creata da uno stato di ansia o di insicurezza insita nell’individuo.
Nella vita di oggi, a volte, si può considerare l’atto di fotografare come un atto di repressione, come un modo conveniente, accettabile e piacevole (dovuto alla memoria di grande capacità dei cellulari) per la maggior parte della società, oppure come un gesto intellettuale, o ancora come un gesto fatto a dimostrazione della soddisfazione del fotografo. Si immagini, ad esempio, un individuo seduto al ristorante al tavolo con alcune persone che non ritrova nel suo stesso livello: questa è un’incongruenza che abbassa il livello di sopportazione di quell’individuo, ma innalza la sua tensione fino al punto massimo. Così quest’individuo, che si vede soggetto ad una serie di disturbi che si verificano nelle sue sensazioni interiori, sente la necessità di compiere un’azione o, invece, di abbandonare questa situazione ed uscire, il che potrebbe risultare una mancanza di rispetto. In questo istante egli prende il suo cellulare e si mette a fotografare persone o qualsiasi altro oggetto intorno a sé, in modo da abbassare il livello della sua tensione interiore e mostrare, invece, agli altri, di trovarsi in un momento di gioia, un momento da ricordare e che va registrato, oppure lasciar trasparire di aver trovato qualcosa di prezioso da fotografare, qualcosa che gli altri non sono riusciti a vedere o a capire! E questo suscita la curiosità degli altri, li spinge a cercare cose piacevoli e, al tempo stesso, aiuta se stesso a mostrare il suo aspetto intellettuale e la sua soddisfazione. Ci può essere, però, la possibilità che anche quelle persone conoscano questo “gioco” e che, quindi, il risultato sperato non venga raggiunto, ma resta comunque conveniente, in qualsiasi senso, per chi si sente a disagio! È possibile fare un altro esempio: si immagini un individuo seduto in treno, stufo del ritardo rispetto all’orario di partenza; egli cerca, attraverso la produzione di foto, di soddisfare se stesso e di mostrarsi soddisfatto agli altri, anche se tra il “pubblico” non ci sono conoscenti.

Perchè fotografiamo?

Se si guarda alle esperienze nel campo della psicologia, si comprende bene che l’individuo che vive sotto la pressione creata dal mondo degli istinti interiori (o ID), oppure sotto la pressione creata dal mondo dei limiti dell’IO (detto anche Ego o Super Ego) a volte cerca, attraverso atteggiamenti anormali o isterici, come il muovere convulsamente il piede, di abbassare la tensione finché è possibile, o quanto meno di deviarla. Ma si può considerare la fotografia, o l’uso del cellulare, come un atto fuori dal proprio controllo, esattamente come quel muovere il piede o mangiare le unghie?
Il sistema nervoso umano e la complessa rete che lo controlla, sono divisi in due parti: il sistema nervoso centrale e il sistema nervoso autonomo, di cui il primo è responsabile dei movimenti fisici e dei sensi che si trovano vicino o al di sopra della conoscenza (come l’atto di imparare), mentre il secondo è responsabile di gran parte della memoria. È quest’ultimo che ha la responsabilità riflessiva (Reflex Apparatus) come la paura, la rabbia e l’emozione; per questo motivo, si divide ulteriormente in due parti: Sistema Nervoso Simpatico e Sistema Nervoso Para-simpatico. Il primo, sotto l’effetto dell’emozione, fa aumentare il battito cardiaco ed alzare la temperatura corporea, mentre il secondo, nel momento in cui termina lo stato emotivo, fa tornare il corpo alla sua situazione normale. La collaborazione tra il sistema nervoso simpatico e quello parasimpatico, però, non sempre può risolvere tutti i “disagi” del corpo. Ad esempio, quando l’occhio incontra una luce molto forte, il sistema nervoso, diminuendo l’ampiezza della dilatazione della pupilla, abbassa la quantità di luce che entra nell’occhio e, se sente ancora il bisogno di resistere alla luce, reagisce istintivamente chiudendo l’occhio e risolvendo il problema. Diverso è il caso del senso di fame, che non si risolve solo attraverso il cambiamento del movimento dei muscoli dello stomaco, ma con la contrazione dei muscoli e la secrezione di ormoni attraverso il sistema simpatico, arrivando, così, come un messaggio al sistema nervoso centrale che darà all’individuo l’input di muoversi per cercare cibo, ma in modo conscio. Lo stesso accade nei neonati che, per l’incapacità di procurarsi autonomamente da mangiare, dimostrano la fame (in modo simbolico) con il pianto, utile a richiamare i genitori.

Fotografia e atteggiamenti anormali

Le nuove ricerche odierne hanno dimostrato che, oltre all’ansia, anche le sensazioni di frustrazione e di desiderio del perfezionismo sono la causa dell’insorgere di atteggiamenti anormali, come mangiare le unghie o muovere il piede, esattamente come un individuo che crede di dover essere in una situazione di un livello più alto rispetto a quella in cui si trova, ma che di fatto non lo è, né in un determinato momento né in un tempo indeterminato; così egli si pone in quegli atteggiamenti anormali. Appurato che queste sensazioni di ansia e frustrazione derivano dal conscio dell’individuo, essendo l’individuo incapace di cambiare la situazione in cui si trova, trasforma il suo comportamento, inconsciamente, in quegli atteggiamenti di cui sopra. Si immagini, ad esempio, una persona che in ufficio, si sente in un livello più alto rispetto al suo posto di lavoro, o una persona che si trova in un momento sbagliato nel posto sbagliato: entrambe si sentiranno a disagio ed in ansia. In questi due esempi, accomunati dal fatto che lo stato di ansia degli individui deriva dal loro conscio, si nota che o per l’incapacità di cambiare la situazione o per la loro educazione sociale, essi non riescono a cambiare quella situazione, quindi, attraverso il sistema nervoso simpatico, sprigionano la tensione e la repressione. In questo punto si pone, però, una domanda: visto che è possibile abbassare le tensione sempre con comportamenti del corpo simbolici, si può considerare l’uso del cellulare o l’atto di fotografare come un atteggiamento anormale del corpo? Oppure, si può considerare un dispositivo come una parte del corpo? Oggigiorno, le nuove esperienze e le nuove scoperte sul sistema cerebrale hanno dimostrato che il cervello non è un sistema duro e fermo, come si è potuto notare, ad esempio, nelle persone che hanno perso un braccio o una gamba in un incidente; è dimostrato che quella parte del loro cervello atta a registrare i sensi degli arti perduti, dopo l’incidente, si mette a disposizione delle altre parti del corpo, rapidamente, così come è stato confermato scientificamente anche degli studi di Alvaro Pascual Leone (1993) svolti circa l’uso della parte ottica del cervello impiegata per la Lettura Breil. I ricercatori, tenendo sempre in considerazione le ricerche svolte in passato, hanno confermato l’idea della flessibilità celebrale come un sistema di cura in casi di danno al cervello o alle sue parti sensibili, mentre le analisi successive hanno dimostrato che la flessibilità è continua ed immensa, e che è presente anche nei sistemi nervosi sani e normali. Quindi, i neurologi hanno concluso che il cervello è in continuo cambiamento e che esso si adatta anche ai più piccoli cambiamenti spaziali e comportamentali. Mark Hallet , direttore della Facoltà di Medicina Cerebrale dell’Istituito Sanitario dell’America, dice:

abbiamo capito che la flessibilità del sistema celebrale non solo è possibile, ma è anche un atto continuo, vuol dire che è un modo attraverso cui noi ci adattiamo sempre all’ambiente che ci circonda, scopriamo verità nuove ed impariamo formule nuove.

Negli anni passati, sono state svolte delle ricerche sulle scimmie, durante le quali esse sono state educate ad usare la forca per raggiungere il cibo che era lontano da loro; in questa ricerca, gli scienziati hanno compreso che le zone ottiche ed i movimenti della parte del cervello responsabile del lavoro manuale (la “mano” con cui loro prendevano il dispositivo, la forca), durante la fase di educazione hanno avuto una grande crescita e che anche la forca o la pinza sono diventate parte della mappa celebrale dell’animale. In altre parole, la forca è diventata una parte del corpo dell’animale. Un’analisi simile è stata svolta sui tassisti inglesi (1990): i ricercatori inglesi, durante queste analisi, hanno effettuato una scansione dei cervelli di 16 tassisti che avevano esperienza in questo lavoro, variabile tra i 2 ed i 42 anni. I risultati hanno dimostrato che la parte lobo-occipitale dell’Hippocampus, cioè la parte che ha un ruolo chiave nel salvataggio e nell’elaborazione della vista spaziale dell’ambiente intorno alla persona, nei tassisti è molto più grande rispetto alla dimensione normale e, inoltre, hanno mostrato che, quanto più elevata è l’esperienza, tanto più grande è la parte lobo-occipitale dell’Hippocampus. Un’ulteriore scoperta interessante è stata che la parte lobo-frontale dell’Hippocampus, responsabile della sfera emotiva e caratteriale della persona, in questi tassisti era più piccola, aspetto che deriva dal fatto che la parte lobo-occipitale dell’Hippocampus, invece, si è sviluppata molto di più per il tipo di lavoro che svolgevano. Alla fine è stato possibile affermare che guidare nella complessa rete stradale di Londra, ha cambiato l’equilibrio tra le due parti del cervello degli autisti.

Ora, considerando tutte queste ricerche ed apprezzandole, è possibile affermare che, in questa realtà carica dell’iper-uso del cellulare e della fotocamera, ha reso questi oggetti parte del corpo per alcuni di noi, modificando la struttura flessibile del nostro cervello. Tenendo questo bene a mente, si può dire che l’atto di prendere il cellulare e fare una foto, per tanti è come usare una parte del proprio corpo; in altre parole, si può dire che, piuttosto che mangiare le unghie o muovere convulsamente il piede, alcuni prendono il cellulare e scattano delle fotografie. Infine, è possibile dire che alcune foto raccolte da una persona, sono piene di sensazioni quali ansia, insicurezza o fallimento, e sono fotografie che rendono vivo il ricordo di quel momento e di quello spazio che risultano fastidiosi; per questo motivo, l’individuo cerca di distruggere quelle foto, non solo di non considerarle. Il lavoro che intendiamo svolgere, quindi, è proprio l’analisi sulle foto che risultano essere al confine con questa distruzione, in cui si possono cogliere i momenti, gli ambienti, le persone, ma anche i fastidi ed allontanarli dall’individuo per trovare una sensazione di sicurezza per il­ pazi­ente.

L’ultimo livello dell’analisi delle fotografie, è dare la possibilità al paziente di modificare le foto scattate, dandogli la possibilità di apportare modifiche quasi impercettibili, attraverso applicazioni semplici, quelle stesse già contenute in fotocamere compatte, smartphone e pc, con le quali può essere modificata la luce ed il colore, magari utilizzando dei filtri già impostati. Inoltre, egli potrebbe modificare la cornice e le dimensioni delle fotografie con il ritaglio. Nelle fotografie ritoccate, qualsiasi modifica effettuata può dimostrare un dettaglio importante, un dettaglio che può rivelarsi la chiave, la soluzione. Ad esempio, se il paziente sceglie di perfezionare una foto scattata in casa sua, applicando un filtro che tende all’azzurro, oppure abbassando il calore dei colori della foto, mostrerà il suo desiderio di creare un ambiente calmo e confortevole tra le mura casalinghe. Un altro esempio può essere il taglio di una fotografia, un taglio che esclude un dettaglio dalla foto stessa, che indica il desiderio di eliminare, naturalmente in modo simbolico, quel determinato soggetto dalla sua vita. Nel caso di eventuali fotografie in bianco e nero, esse devono essere considerate con attenzione, poiché acquisiscono il valore di un sogno: modificando le foto in questo senso, il paziente sta indicando la strada della volontà di creare un legame profondo ed intimo con il suo inconscio, con i suoi sogni, ma anche con i suoi incubi. I risultati raccolti da ogni punto di quest’analisi, di sicuro hanno un legame forte tra loro, e possono completarsi l’un l’altro, essendo l’uno il supplemento dell’altro, in modo che, il risultato finale, sicuramente, sarà un insieme della relazione tra tutti i risultati ottenuti.

“Non sono un algoritmo” – Book Trailer di Claudio Lombardo

L’interazione tra uomo e robot si fa sempre più concreta e porta con sé alcuni interrogativi sulle possibili modalità di interazione e comunicazione con questi nuovi “compagni umanoidi”.

[blockquote style=”1″]Il mio corpo è vergine dal punto di vista elettronico. Io non incorporo chips al silicio, impianti retinici o cocleari, […] ma lentamente sto diventando sempre più un cyborg. Lo stesso succede a voi. […] Perché noi diverremo cyborg non nel banale senso di combinare carne e metallo, ma nel senso più profondo di essere simbionti umano-tecnologici: sistemi che pensano e ragionano, le cui menti e i cui Io sono distribuiti tra cervello biologico e circuiteria non biologica.[/blockquote]
Clark (2005)

“Non sono un algoritmo” è un libro che cerca di rispondere a più domande inerenti alla reciprocità comunicativa che si instaura tra uomo e robot, essendo tale interazione un processo basato principalmente: 1) su come l’essere umano concepisce la relazione con il robot (credenze, convinzioni, modelli mentali ecc.) che dipende anche 2) dalle caratteristiche (l’architettura o il design robotico, le competenze e abilità del robot: intenzionalità, emotività, personalità). Fattori che i ricercatori tentano di studiare e/o manipolare per rendere capaci i robot di partecipare alla ricchezza della società umana.

Un nuovo modo di fare psicologia

Domanda iniziale di questo libro è “Come pensiamo al robot”. Ma non possiamo non far caso al modo in cui il “pensare al robot” ha trasformato come “pensiamo alla psicologia”: i metodi di indagine, di analisi e le teorie, come son cambiati?

A differenza dei tradizionali studi sui soggetti umani, i ricercatori del campo multidisciplinare della robotica, ricalcando passo dopo passo i meccanismi soggiacenti fenomeni psico-sociali, producono un modello empirico in cui la dimostrazione è il comportamento del robot.

In altri termini un modello scientifico di psicologia che utilizza un “andirivieni” tra HHI e HRI per dimostrare con assoluta certezza le proprie ipotesi: l’HRI parte da ipotesi di ricerche di modelli dell’HHI coinvolgendo e accrescendo la comprensione di quest’ultima, così, ad esempio, un robot potrebbe rappresentare una “sonda interattiva” per valutare i meccanismi sensoriali e motori alla base dell’interazione uomo-uomo (Sciutti, Sandini, 2017). Facciamo un esempio.

Tornando alla ricerca di Becchio e collaboratori (2017), il principio di osservabilità/inosservabilità può essere esteso anche ad altri aspetti del comportamento utilizzando la stessa e identica logica presentata in questo studio: 1) prima verificare se in un dato comportamento (ad esempio, oltre al movimento proposto nella ricerca, nell’eloquio) sia presente un’informazione sufficiente che discrimini due stati differenti (felice o triste) 2) identificare quali sono le caratteristiche (del linguaggio) che permettono di discriminare tra questi due stati 3) verificare se un osservatore esterno è in grado di utilizzare l’informazione presente 4a) se la risposta è sì: quale e a quanta di questa informazione è in grado di utilizzare (efficienza percettiva) 4b) Di contro, se colui che deve percepire non riesce, l’osservabilità sarà nulla e, quindi, il “modello psico-comportamentale” andrà modificato fino al raggiungimento del punto 4a.

Questo si traduce non soltanto in un arricchimento delle teorie psicologiche ma implementando, ad esempio, una cinematica o modulazione vocale intenzionale, è possibile studiare approfonditamente le dinamiche della Teoria della Mente (ToM), dato che, in tali termini, uno stato mentale è osservabile.

Psicologia e intelligenza artificiale

Nei vari passaggi multidisciplinari di questo libro si ravvisa un modo di guardare le valutazioni in corso legato alla ricerca psicologica e all’intelligenza artificiale: la presa di coscienza dell’irriducibile complessità di ogni fenomeno che invita a non trascurare gli aspetti meno evidenti dei fenomeni e non tentare una loro riduzione ad aspetti considerati più evidenti e “fondamentali”, come in passato è accaduto con l’intelligenza artificiale in cui la frettolosa creazione di un surrogato cerebrale – appunto, il “cervello artificiale” –, non provvisto di supporto fisico umanoide, ha direzionato la ricerca al fallimento nell’aver trascurato l’essenziale componente embodiment. Un’intelligenza che non può essere rappresentata da una parte riprodotta artificialmente del sistema-uomo ma che nella complessità di tale sistema trova un reale equivalente. (La robotica ha dimostrato in modo tangibile come corpo e cervello siano un’unità e come l’apprendimento non sia essenzialmente una questione mentale.)

HRI/HHI, ToM e evoluzionismo

Le ricerche, come abbiamo visto, suggeriscono che, dal punto di vista dell’utente, l’interazione con un’entità artificiale è simile all’interazione con gli altri umani (Krämer, et al., 2012), anche se l’intera ricerca che gravita attorno l’HRI mira a superare l’ipotesi dell’uncanney valley, ovvero quel senso di spiacevolezza e inquietudine nel momento in cui il robot raggiunge un livello di somiglianza paritetica all’uomo.

Non indagata nelle attuali ricerche la radice di tale ipotesi, tra le righe di questo libro, l’uncanney valley è riconducibile ad aspetti prettamente evoluzionistici e letture freudiane.

Il richiamo alla componente evoluzionistica è in riferimento ad un automatismo primordiale al quale l’uomo si attiene durante l’interazione con un umanoide artificiale: è come se ci fosse una lettura coerente tra l’aspetto umanoide e le sue abilità interne, e se violata tale coerenza si cadesse nell’ipotesi dell’uncanney valley. Si può dedurre che qualsiasi algoritmo/software, il design, la meccatronica dovranno essere implemente in modo da non deludere le aspettative dell’utente umano. I disegni esterni, l’hardware del robot, dovranno essere creati sotto un profilo che rispecchi il software, la parte interna. Nell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) è stato superato questo impasse realizzando un robot (iCUB) con un corpo che non rifletta in maniera identica quello umano, infatti, in iCUB – come ormai in molti robot costruiti in tutto il mondo – troviamo un accenno del naso, ma non la riproduzione del naso vero e proprio come in alcuni robot umanoidi creati quasi per sfida in modo speculare all’uomo, dove, l’ipotesi dell’uncanney valley, trova terreno fertile.

L’altro aspetto considerato riguarda la prospettiva freudiana, ovvero di uno stato di categorizzazione percettiva di incertezza “vivo o morto” dove ne scaturiscono giudizi percettivi necessari a produrre reazioni perturbanti come nel caso di statue, bambole e automi simili a umani. Rendere più “vivi” i robot umanoidi può alleviare o sopperire ai sintomi dell’uncanney valley. La ToM nel robot si configura come una competenza che può permettere di far raggiungere tale obiettivo.

In base a questa incoerenza, si potrebbe sostenere come un robot senza una ToM di base (ad esempio quella riscontrabile nei primissimi anni di vita dei bambini) sia destinato a svolgere un lavoro limitato, in quanto delude le aspettative dell’utente e non potrà così mai coinvolgere efficacemente gli esseri umani o lavorare in modo cooperativo.

In altri termini l’implementazione della complessità dei meccanismi cibernetici degli umanoidi artificiali interattivi con la coesistenza di una ToM artificiale – che possa consegnare quella “coerenza” nell’interazione tra uomo e robot – potrà permettere di superare l’uncanney valley, ovvero quella “dissonanza cognitiva” che proviene dall’incongruenza tra le prestazioni dell’hardware e il software (la perfezione estetica non rispecchia le competenze che gli si potrebbero attribuire con una conseguente uncanney valley. Una dissonanza calcolata in base al livello di trust delle persone in relazione alle skills dimostrate dal robot (Freedy, Amos, et al., 2007; Yagoda, Gillan, 2012; Salem, et al. 2015).

E se nell’introduzione di questo libro è stata utilizzata la metafora di Polifemo nella conclusione possiamo far riferimento al racconto de “La volpe e l’uva”, in cui il desiderio dell’uva (desiderio dell’interazione con il robot da parte dell’uomo) e l’incapacità di arrivarci (impossibilità di interagire in accordo al grado di evoluzione dell’aspetto mostrato) porta alla conclusione che “l’uva è acerba” (uncanney valley).

Lasciamoci guidare dagli odori! L’esperienza sessuale passa dal nostro naso

L’ olfatto gioca un ruolo importante e delicato nell’ esperienza sessuale dei mammiferi. In particolare sembra influenzare la selezione, la scelta o l’evitamento di un probabile partner sessuale con il quale accoppiarsi e l’abilità di riconoscimento delle emozioni altrui.

 

Uno studio di Bendas, Croy e Hummel, recentemente pubblicato su Archives of Sexual Behavior, ha mostrato come un’alta sensibilità agli odori negli adulti sia fortemente legata alla percezione di un maggiore piacere nelle attività sessuali, supportando l’ipotesi per la quale l’ olfatto è in grado di arricchire e migliorare l’ esperienza sessuale.

“[…]non va più via l’odore del sesso che hai addosso” cantava Ligabue in una sua famosa canzone.

Il verso della canzone riporta una relazione tra l’odore, l’ olfatto e il comportamento sessuale che recentemente è stata evidenziata e confermata anche dalla ricerca.

Il senso dell’ olfatto infatti gioca un ruolo importante e delicato nelle interazioni sessuali dei mammiferi. In particolare sembra influenzare la selezione, la scelta o l’evitamento di un probabile partner sessuale con il quale accoppiarsi e l’abilità di riconoscimento delle emozioni altrui (Stevenson, 2009).

I deficit della funzione olfattiva influenzano la qualità dell’esperienza sessuale

Uno studio di Burke, Veltman, Gerber e colleghi (2012) ha sottolineato come la percezione olfattiva di alcuni componenti degli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e testosterone, presenti nell’odore naturale che contraddistingue un individuo, eliciti l’attivazione dell’arousal sessuale nei maschi e nelle femmine andando a stimolare in modo diretto l’ipotalamo.

Da qui l’assunzione che l’odore possa in qualche modo contribuire al comportamento e all’attivazione sessuale negli individui adulti, assunzione ulteriormente confermata da studi condotti su pazienti affetti da disosmia, un’alterazione del senso dell’olfatto, che riportano una ridotta qualità di vita in differenti aree della vita quotidiana soprattutto inerenti alla sfera sociale e sessuale (Croy, Nordin et al., 2014).

In una survey condotta online per la rilevazione delle caratteristiche principali dei disturbi chemo-sensoriali, deficit legati alle facoltà olfattiva e gustativa, più della metà dei partecipanti ha riportato un impatto negativo del disturbo sul loro comportamento sessuale (Merkonidis et al., 2015).

Pertanto un impoverimento della funzione olfattiva sembrerebbe influenzare la vita sessuale di un individuo, che consiste nella riduzione dell’appetito sessuale a seguito dell’esordio del disturbo. Quest’effetto associato alla compromissione dell’olfatto pare più evidente nella popolazione maschile anziché in quella femminile e si manifesta in una mancanza di desiderio sessuale nei confronti di un partner sessuale.

Allo stesso modo uno studio di Passi e colleghi (2003) ha evidenziato come nei pazienti con disturbi sinonasali che compromettono la respirazione nasale, vi sia la riduzione della qualità delle proprie esperienze sessuali a seguito dell’inibizione dell’iperventilazione nel corso di una rapporto sessuale, meccanismo che molto probabilmente intensifica l’ esperienza sessuale.

Tali studi passati velocemente in rassegna sottolineerebbero come vi sia una relazione significativa tra deficit olfattivi e comportamento sessuale che potrebbe essere moderata da un umore depresso, insicurezza sociale e altre comorbilità.

Uno studio specifico su soggetti senza deficit olfattivi

Tuttavia, fino a questo momento, nessuno studio ha indagato la relazione tra olfatto e alcuni specifici aspetti costituenti il comportamento sessuale come il desiderio sessuale, l’esperienza sessuale e la prestazione sessuale, in giovani adulti senza alcuna compromissione della funzione olfattiva.

Utilizzando il “Sniffin Sticks” per la valutazione della sensibilità all’odore e alcuni questionari come il Sexual desire inventory (SDI; Spector, Carey & Steinberg, 1996), la Visual Analogue Scale (VAS) per la valutazione della piacevolezza dell’ esperienza sessuale e della prestazione sulla base della frequenza dei rapporti sessuali e la media di durata in minuti con il proprio partner sessuale, Bendas, Croy e colleghi (2018) hanno studiato la relazione tra sensibilità olfattiva e comportamento sessuale sulle componenti pocanzi descritte (desiderio, esperienza e prestazione sessuale).

Il gruppo sperimentale comprendeva 70 individui subclinici sia di genere maschile che femminile, soprattutto studenti, di età compresa tra i 18 e i 40 anni. Dal gruppo sono stati esclusi soggetti con patologie psicologiche e individui che avevano avuto in passato esperienze sessuali traumatiche.

Ciascun soggetto è stato bendato per evitare che vi fosse una qualche detezione visiva dei cue e sottoposto agli “Sniffin Sticks”, una serie di tre penne, alcune contenenti in misure e diluizioni diverse un solvente odoroso (il feniletilene) e altre inodori.
Il compito del soggetto sperimentale era quello di indicare le penne in cui aveva avvertito un odore; i soggetti che consecutivamente avevano identificato in modo corretto le “penne odorose” venivano indicati come individui con un’alta sensibilità olfattiva, al contrario se l’identificazione non era corretta come individui con una bassa sensibilità olfattiva.

Conclusioni

Lo studio di Bendas, Hummel & Croy (2018) ha confermato la relazione tra i livelli olfattivi e i comportamenti sessuali, evidenziando però una correlazione forte tra un’alta sensibilità all’odore e misure della generale percezione di piacevolezza della propria esperienza sessuale contrariamente con il desiderio e la prestazione sessuale.

Un’alta sensibilità olfattiva ha pertanto degli effetti sull’ esperienza sessuale, in particolare influenza la percezione di piacevolezza dell’interazione sessuale con il partner, maggiormente per il gruppo maschile suggerendo un’influenza maggiore degli input olfattivi per gli uomini sui rapporti sessuali.

Similmente nel gruppo femminile si è osservata una forte correlazione tra alta sensibilità olfattiva e la frequenza degli orgasmi, suggerendo un importante contributo dell’odore sull’ esperienza sessuale femminile.

L’odore di per sé non sembra mediare il modo in cui gli individui desiderano o si comportano durante un rapporto sessuale ma l’attività sessuale stessa, la sua percezione come piacevole sembra essere influenzata da certi cue olfattivi come i fluidi vaginali, lo sperma e il sudore che l’arricchiscono migliorandola (Bendas, Hummel & Croy, 2018).

Paul Ekman e i suoi importanti studi sull’universalità delle emozioni e delle espressioni facciali- Introduzione alla Psicologia

Paul Ekman è l’autore della cosiddetta “teoria neuroculturale” che, riprendendo gli studi di Darwin sulle espressioni facciali delle emozioni, dimostra l’universalità delle emozioni.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Paul Ekman nacque a Washington il 15 febbraio del 1934. Egli è cresciuto nel Newark nel New Jersey, poi si è trasferito con la famiglia in Oregon, e successivamente nel Sud della California. Ekman frequentò l’università di Chicago e completò i suoi studi alla New York University. Nel 1958 conseguì il dottorato all’Adelphy University in Psicologia Clinica, dopo aver svolto uno stage della durata di un anno presso il Langley Porter Neuropsychiatric Institute. In seguito, ha lavorato per due anni nell’esercito statunitense come psicologo e nel 1960 decise di tornare all’Istituto Neuropsichiatrico di Langley Porter, dove lavorò fino al 2004, anno in cui è andato in pensione. Ekman, inoltre, è un professore di psicologia del Dipartimento di Psichiatria dell’Università della California di San Francisco.

Ricerche sulle emozioni

Paul Ekman iniziò la ricerca scientifica alla fine degli anni ‘50, periodo in cui portò a termine un esperimento sulle espressioni facciali e sui movimenti e comportamenti del corpo. Questa ricerca nel 1955 divenne la sua tesi di Master e nel 1957 è stata pubblicata.

Egli considerava il comportamento non verbale il terreno feritile su cui si poggiava lo studio della personalità ma, in seguito, mostrò un crescente interesse per la psicologia sociale e per gli studi transculturali, in ottica evolutiva e semiotica. Nel corso del tempo, le sue ricerche si andarono a focalizzare poi sempre più sullo studio delle emozioni, che divenne il vero e proprio interesse di Ekman.

Confermando quanto sostenuto da Darwin, che considerava le espressioni delle emozioni universali e generate da pattern neurobiologici ereditari, Ekman è l’autore della cosiddetta “teoria neuroculturale” delle emozioni.

Egli, dunque, sostiene che esistano espressioni facciali derivanti da emozioni esperite in determinate situazioni, caratterizzate da mimiche universali. Secondo la teoria neuroculturale, oltre alla universalità dell’espressioni emotive, esistono le display rules, ovvero regole sociali di espressione delle emozioni, culturalmente apprese, che determinano il controllo e la modificazione delle espressioni emozionali a seconda della circostanza sociale.
L’esistenza di tali regole fu dimostrata empiricamente da Ekman in uno studio in cui furono analizzate le risposte espressive di soggetti americani e giapponesi alla visione di film contenente elementi stressanti sia in presenza di uno sperimentatore sia quando erano in una condizione di solitudine. I risultati ottenuti dimostrarono che esprimere il proprio giudizio al cospetto di un’altra persona impedisce ai soggetti giapponesi di manifestare le emozioni negative, cosa che non accadeva per gli americani. I dati così ottenuti confermano che le emozioni possono essere modificate grazie a elementi appresi dalla cultura. Per cui, le uniche differenze culturali identificabili nelle espressioni facciali non riguardano l’espressione in sé, derivante dalla spontaneità nell’esprimere una determinata emozione, ma dal controllo esercitato sulla stessa.

Universalità delle emozioni

Paul Ekman per dimostrare la teoria dell’universalità dell’espressione delle emozioni svolse diverse ricerche.

La sua prima ricerca consisteva nel mostrare delle fotografie di espressioni facciali emotive a persone appartenenti a cinque culture diverse: Cile, Argentina, Brasile, Giappone e Stati Uniti. A ciascuno dei partecipanti era chiesto di indicare che tipo di emozione era in grado di riconoscere, tra tante che gli venivano mostrate in relazione a diverse espressioni facciali mostrate tramite delle foto. I risultati attestarono che tra i diversi gruppi culturali emergeva una concordanza rispetto all’emozione indicata e questo dato confermava l’esistenza di una reale universalità delle emozioni. 
Malgrado i convincenti risultati ottenuti, c’erano ancora dei dubbi dovuti al fatto che i soggetti partecipanti alla ricerca potessero avere “appreso” le espressioni facciali grazie alla visione di film occidentali largamente proiettati su scala globale, e questo avrebbe potuto influire sui risultati ottenuti. 

Per ovviare a questo bias Ekman e collaboratori pensarono di effettuare uno studio su delle culture primitive che non avessero mai avuto contatti con l’occidente.

Per questo, nel 1967, Paul Ekman si recò in Papua Nuova Guinea per studiare il comportamento non verbale del popolo Fore, tribù isolata dal mondo civilizzato e con usi e costumi risalenti dall’età della pietra. Per procedere con questo esperimento, Ekman modificò anche il metodo di somministrazione. I Fore erano una popolazione pre-letterata e di conseguenza non si potevano somministrare foto unitamente a una serie di emozioni scritte tra le quali scegliere. Decise dunque di selezionare tre o quattro fotografie di espressioni facciali alle quali i soggetti dovevano indicare quelle che più si adattavano a un breve episodio emozionale che era raccontato in contemporanea. 
I risultati dimostrarono che la percentuale di associazioni corrette tra espressioni facciali e racconti erano molto alte.

Per eliminare ulteriori dubbi, Paul Ekman e i sui collaboratori eseguirono un altro esperimento sempre con i Fore. In questo esperimento un interprete leggeva una storia e chiedeva ai Fore di mostrare che espressione facciale avrebbero mostrato se avessero assunto i panni del protagonista. Ancora una vota, i risultati confermarono l’esistenza di emozioni universali.

Un ultimo esperimento fu quello che Ekman condusse sui Dani, gruppo etnico isolato situato in una parte dell’Indonesia chiamata oggi West Irian. In realtà non fu Ekman in persona a eseguire lo studio, ma Karl Heider, un antropologo sostenitore dell’opposta teoria di Ekman. Se anche in quel caso si fossero ottenuti i risultati degli esperimenti precedenti, allora non ci sarebbe stato più nessun dubbio circa l’universalità delle espressioni emotive. E così fu: i dati confermarono quanto ottenuto fino a quel momento dagli studi precedenti.

Ekman, di conseguenza, sostiene che esistano emozioni universali ovvero emozioni comuni, uguali per tutti in tutte le culture e che possono essere definite come primarie. Tali emozioni primarie sono:

  1. Rabbia
  2. Paura
  3. Tristezza
  4. Felicità
  5. Sorpresa
  6. Disgusto

Successivamente, ampliò la lista delle emozioni aggiungendo altre emozioni definite secondarie:

  • Divertimento
  • Disprezzo
  • Contentezza
  • Imbarazzo
  • Eccitazione
  • Colpa
  • Orgoglio dei successi
  • Sollievo
  • Soddisfazione
  • Piacere sensoriale
  • Vergogna

Ricerche sulla menzogna

Oltre alle ricerche sulle emozioni e le loro espressioni, Paul Ekman approfondì i meccanismi che sono alla base della menzogna. Queste ricerche hanno portato alla scoperta dell’esistenza delle micro espressioni, mimiche connesse alla menzogna che si consumano in una manciata di secondi. Le espressioni possono riguardare tutto il volto o solo in una sua parte di esso, superiore o inferiore. In quest’ultimo caso sono definite espressioni sottili.

Nuovi strumenti all’avanguardia

Negli ultimi anni, Ekman ha sviluppato e messo a disposizione una serie di software utili al riconoscimento delle micro espressioni facciali e delle espressioni sottili, come il F.A.C.E., il Micro Expression Training Tool e il Subtle Expression Training Tool, il Facial Action Coding System.

Ekman ha poi sviluppato il metodo Evaluating Truthfulness and Credibility (ETaC), che consente di analizzare la comunicazione per valutare la credibilità della persona. Recentemente, Ekman si occupa anche del ruolo delle emozioni in ottica Mindfulness e Compassion Theory.

Riconoscimenti

Dal 1971 il National Institute of Mental Health (NIMH) ha sostenuto gli studi di Ekman attraverso contributi, riconoscimenti, donazioni e con l’istituzione di un premio alla ricerca scientifica dal titolo: Research Scientist Award.

Nel 2001, Ekman ha collaborato per la realizzazione della serie documentaristica “The Human Face”, per la serie televisiva “Lie to me” e per il film edito dalla Walt Disney “Inside out”.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La nostra postura e i nostri gesti possono essere il risultato delle prime interazioni di attaccamento?

La postura e il modo in cui ci muoviamo nel mondo si delinea fin dalle primissime interazioni di attaccamento, a partire dal momento in cui veniamo presi in braccio da nostra madre, a seconda di come lo fa, di come ci allatta al seno, e di conseguenza di come reagiamo al suo contatto e al suo comportamento.

 

La postura di una persona dipende dal suo sviluppo ontogenetico ma affonda le sue radici anche nella storia della sua famiglia (Lowen 2007). In pratica, la postura dipende da fenomeni genetici ed epigenetici, ovvero come risposta automatica agli stimoli provenienti dall’ambiente che ci circonda, che favoriscono così uno schema corporeo responsabile di un adattamento posturale all’ambiente in cui si cresce, piuttosto di un altro.

Molto spesso si ritrova lo stesso atteggiamento posturale in più membri di una stessa famiglia. Questo perché, al pari delle patologie, dei comportamenti e delle affettività familiari, si riscontrano anche diversi tipi di atteggiamenti posturali simili e, se si osserva il fenomeno da una prospettiva più generale, è possibile individuarli nella stessa cultura e società di appartenenza della famiglia.

La postura, infatti, dipende dal portamento delle spalle e della schiena ma anche dal peso corporeo dei membri della famiglia e dal carattere emotivo del sistema familiare.

L’importanza delle prime interazioni madre-bambino

Gli atteggiamenti posturali si vanno delineando nelle primissime interazioni della madre con il suo bambino (Bowlby 1952), iniziando dal momento in cui lei lo prende in braccio, a seconda di come lo fa, di come lo allatta al seno, e di conseguenza di come il neonato reagisce al contatto e al comportamento della madre .

Nell’interazione tra una madre ed il proprio bambino si determina, in un certo qual senso, l’affettività, i movimenti e la postura del piccolo. Di conseguenza, l’evoluzione di una persona risente dei comportamenti, degli atteggiamenti, ma soprattutto del suo rapporto diadico con il proprio caregiver. Una spiegazione in tal senso è data dalla teoria dell’ attaccamento di Bowlby (1988, 1982, 1973) che fornisce un’interpretazione della relazione che il bambino intraprende con il proprio genitore, dei loro modi di relazionarsi, delle loro motricità, gestualità, atteggiamenti corporei e della gestione dell’allontanamento-esplorazione, sino alla comunicazione non verbale e verbale.

Dall’osservazione dell’interazione tra genitore e bambino, dalle loro modalità di allontanamento e di riunione nonché dalle interazioni con un estraneo (strange situation), Ainsworth e Blehar, (1978) hanno valutato gli stili di attaccamento, individuando alcuni tipi quali l’ attaccamento A insicuro-evitante, l’ attaccamento B sicuro, l’ attaccamento C insicuro-ambivalente e l’ attaccamento D disorganizzato/disorientato.

Perché sono così importanti questi tipi di attaccamento nella relazione diadica? Perché, secondo la teoria dell’attaccamento, le interazioni con figure di attaccamento evitanti, inaffidabili, insensibili, riducono la resilienza nell’affrontare eventi di vita stressanti e riducono le capacità di coping individuale nei momenti di crisi. L’ attaccamento insicuro, può quindi essere visto come una vulnerabilità che può portare a disturbi mentali, a seconda anche dei fattori genetici, di sviluppo e ambientali che entrano in gioco. Perché, anche se la qualità dell’ attaccamento dalla primissima infanzia all’adolescenza non sia un predittore univoco dello sviluppo di una psicopatologia sembrerebbe che essa sia collegata ad alcuni dei sintomi che sono presenti negli individui affetti da disturbi mentali (Lewis et al., 1984 ; Wright et al., 1995). Vediamo meglio in dettaglio i tipi di attaccamento e cosa questi comportino.

Attaccamento A insicuro-evitante: conseguenze sulla postura

Nell’ attaccamento A insicuro-evitante, il bambino si allontana dai genitori in esplorazione senza richiedere il loro aiuto o sostegno. Di fronte ad un estraneo è capace di avvicinarsi ed interagire con un atteggiamento attento e curioso e se resta solo con lui, non mostra particolare disagio, reagisce però con movimenti non direzionali e non indirizzati al contatto con l’interlocutore. Mette in atto, come difesa, il non seguire con lo sguardo il genitore che si allontana per evitare di innescare risposte negative e non confortanti da parte dei genitori. Al suo rientro, evita di guardarlo, rimanendo concentrato nell’interazione con l’estraneo.

Regola la sua affettività mettendo distanza dal caregiver e inibendo qualsiasi manifestazione affettiva di disagio nei contesti di minaccia. Tutt’al più chiude gli occhi o distoglie lo sguardo, gira la testa per diminuire la percezione di stimoli di disturbo ed eccessi sensoriali accompagnati da emozioni spiacevoli in modo da evitare di fuggire. Il suo comportamento appare autonomo e indirizzato all’esplorazione dell’ambiente e dei giocattoli più che alla presenza del caregiver.

Nell’età scolare i bambini con attaccamento A insicuro-evitante affermano in maniera più decisa i comportamenti, gli atteggiamenti e gli stili corporei delineatisi nella prima infanzia.

L’organizzazione dei corpi in questi bambini è in funzione dell’accessibilità alla figura di attaccamento ma minimizzando il coinvolgimento emotivo e fisico. Valutano il comportamento dei genitori prima di avvicinarsi per evitare il rifiuto e modulano il loro stato affettivo e comportamentale in funzione delle aspettative di comportamento delle figure di attaccamento. In tale ottica, latteggiamento posturale secondo Lambruschi (2004) può essere neutro, quando cercano di rendersi invisibili stando lontani dalla figura di attaccamento, evitando il contatto fisico, adottando una postura più possibile raccolta, gestualità ed espressioni più neutre possibili. Oppure l’organizzazione corporea può essere falsamente allegra, manifestando cioè stati affettivi non spontanei, incompleti come il sorridere con le labbra e non con lo sguardo (sorriso obliquo o storto) o sorrisi intervallati dall’espressione di emozioni contrastanti. Gli indicatori corporei più evidenti sono i rapidi contatti con il genitore privi di una intimità interpersonale vera, come il baciare in “punta di bocca” e il “carezzare in punta di dita”. In genere sono bambini che presentano una forte tendenza all’accudire il genitore mettendo in azione una mimica facciale mobile (ampi sorrisi, modulazioni vocali accattivanti ecc).

Possono presentare anche un atteggiamento posturale sottomesso, specie in presenza di segnali di tensione con la madre in modo da assumere un comportamento da“bravo” e da “buono”. In questi frangenti, i bambini presentano ipertonicità corporea dovuta alla percezione di allarme di fondo, che li rendono pronti a parare i colpi. Assumono una postura chiusa con l’addome esposto, testa reclinata in maniera da mettere in evidenza la nudità del collo.

Il bambino è sempre attento a monitorare la figura di attaccamento e nel cercare di soddisfare le sue esigenze, per mezzo di sguardi indiretti e obliqui, segnale di una volontà di voler mantenere il contatto, o con altri atteggiamenti disarmanti come bocca aperta e denti nascosti.

Durante l’adolescenza, invece, i ragazzi che hanno avuto un iter di sviluppo di attaccamento di tipo insicuro-evitante possono andare incontro a delle risoluzioni come quella depressiva, caratterizzata da sentimenti di inadeguatezza, di non amabilità, e di accudimento compulsivo verso il caregiver o verso eventuali pari. Si tratta di un accudimento improprio che spesso però non viene considerato da chi lo riceve, per cui soffrono per la mancanza di considerazione che ricevono. Così finiscono per soffrire di sensi di colpa e si autopuniscono. Alcuni, per poter essere stimati, si impegnano nello studio, altri, al contrario, abbandonano gli studi scolastici come estremizzazione di alienazione e per mancanza di speranza di essere considerati. A livello posturale si nota un atteggiamento posturale chiuso, gestualità contenuta e una mimica poco espressiva in genere afflitta. Gli adolescenti che hanno avuto questo tipo di attaccamento possono andare incontro a una risoluzione psicosomatica con tendenza ad avere scompensi in termini di obesità o bulimia.

Attaccamento B sicuro: conseguenze sulla postura

Nell’ attaccamento di tipo B sicuro, l’ attaccamento diadico della prima infanzia è equilibrato, per cui la madre assume una postura attenta ai bisogni del suo bambino e, in risposta di ricambio, il bambino acquisirà un atteggiamento posturale speculare.

Il bambino comunica alla madre le sue emozioni e stati d’animo durante l’esplorazione dell’ambiente, che vengono prontamente comprese e recepite da lei.

Anche nel gioco, è evidente la reciprocità dei comportamenti e della postura nella coppia diadica. Il bambino segue i movimenti del genitore quando questi si allontana e si lamenta per la sua assenza, ma trova conforto piangendo o giocando da solo o con l’estraneo sopraggiunto. La reazione del bambino al rientro del genitore è inizialmente di protesta e di rabbia ma subito cede alle manifestazioni affettive così che si calma subito e riprende a giocare.

In questo tipo di attaccamento i bimbi, raggiunta l’età scolare, esprimono i loro sentimenti in maniera diretta, riescono a negoziare con le proprie figure di attaccamento, sino ad assumere il punto di vista dell’altro, il che infonde nel bambino fiducia verso il proprio genitore.

Per mantenere il contatto con il genitore, sviluppano un corpo flessibile in grado di esprimere diversi segnali corporei e affettivi, in base alle diverse situazioni o necessità. La relazione con la figura di attaccamento è armonica il che consente loro, grazie alla flessibilità corporea, di assumere diverse posture e gestualità, in equilibrio euritmico tra corpo, mente, affetti e genitore.

Attaccamento C insicuro-ambivalente: conseguenze sulla postura

In un attaccamento C insicuro-ambivalente la madre, invece, assumerà un atteggiamento asincrono e, a momenti, distaccato. Per contro, il suo bambino alternerà momenti di sincronia per avvicinarla a momenti di indifferenza come se non fosse presente. Presenta stati affettivi negativi, è frenato nell’esplorazione, cerca una vicinanza fisica con il genitore, mostra disinteresse o avversione verso un estraneo o per i giocattoli. La separazione dai genitori è drammatica, la presenza dell’estraneo non lo tranquillizza e a volte neanche il rientro del genitore.

Il bambino desidera la vicinanza e l’allontanamento dal genitore nello stesso momento per cui comunica, per esempio, di voler essere preso in braccio per poi voler essere rimesso subito giù, oppure evita di guardare il genitore, divincolandosi e scalciando. Questi bambini sono caratterizzati da una affettività genitoriale incostante e ambigua.

Questa ambiguità affettiva e comportamentale si riflette anche nella postura che appare anch’essa insicura oppure rigida, pronta a distanziare ogni tipo di stimolo affettivo, anche quelli non pericolosi.

In età scolare, questi bambini cercano di mantenere il più possibile la disponibilità della figura di attaccamento, rispondendo con una forte emotività a tutti gli stimoli provenienti dalla relazione di attaccamento e chiudendosi ai contatti con i pari e alle attività esterne. In questo modo, la relazione di attaccamento diventa stressante.

A livello fisico questi stati emozionali si manifestano attraverso un corpo così detto arrabbiato per via degli stati affettivi amplificati per poter mantenere il controllo della figura di attaccamento ponendosi in una posizione centrale. In questo caso, i segnali posturali e il linguaggio non verbale, sono impiegati in maniera determinante assumendo una postura aperta e dominante con numerosi ravvicinamenti minacciosi nella distanza interpersonale. Presentano iperespressività della mimica facciale se non addirittura aggressività, sostenendo il contatto oculare a lungo. Possono anche essere presenti segnali corporei di paura, come sguardo rabbioso, fisso dominante, che oscilla da destra a sinistra per controllare l’ambiente. La gestualità è diretta ed autoritaria mentre il tono ed il volume della voce sono molto sostenuti. Questi bambini con attaccamento C insicuro-ambivalente possono però presentare anche un corpo fragile e grazioso, uno stile disarmante con una postura fragile che sottintende una richiesta d’aiuto. Si accompagnano a una mimica facciale e posturale molto espressiva, spesso rattristata, con occhi grandi che catturano l’attenzione se non addirittura seducono. La gestualità è calma, educata e delicata. Sono portati ad accorciare la distanza interpersonale per favorire il contatto fisico. Il corpo può essere flaccido per una ipotonia muscolare cronica, lenti e impacciati nei movimenti che nella andatura. La mimica facciale è minima e la voce è bassa e rallentata, anche il respiro è lieve e leggero.

Gli adolescenti con modello di attaccamento insicuro-resistente vanno incontro a risoluzioni di tipo fobico. Avendo infatti, ricevuto un attaccamento iperprotettivo e ansioso, nei confronti di un mondo pieno di pericoli, si sente sicuro solo con la figura di attaccamento principale. Tutto questo comporta l’arresto dell’esplorazione, la limitazione di vivere nuove esperienze, sia la possibilità di mettersi alla prova, il che comporta uno smisurato controllo su qualsiasi tipo di evento per poter evitare rischi. In genere, mostrano un eccessiva cura del proprio aspetto fisico per nascondere i loro difetti e presentano un eccessivo controllo delle emozioni, delle aspirazioni e della libido. Sono frequenti delle somatizzazioni, con tachicardia, iperidrosi, tremori, sensazione di svenimento, oppure paure immotivate (di morire, di perdere il controllo, di impazzire). A livello posturale sono adolescenti con un atteggiamento chiuso ma molto attento a tutti gli stimoli.

Altri adolescenti possono andare incontro anche a una risoluzione ossessiva nel caso i loro genitori siano stati attenti ma distanti affettivamente o addirittura poco solleciti alle esigenze quando erano piccoli. In pratica, mentre nell’infanzia hanno sempre ubbidito alle richieste dei genitori, durante l’adolescenza, età in cui si tende a distanziarsi, questi ragazzi non riescono a gestirsi e rinunciano ai cambiamenti per confrontarsi con ciò che è diverso. Per questo sono portati ad evitare nuove esperienze sia amicali che sessuali. Assumono una postura estremamente rigida (a soldatino di piombo) e sono impacciati nei movimenti nuovi. Anche la mimica è rigida e non lascia vedere alcuna emozione, se non quelle di smarrimento per tutto ciò che è nuovo o diverso.

I giovani che presentano invece, una risoluzione psicosomatica, tenderanno ad avere disturbi somatoformi o anoressia. In questi casi l’adolescente avrà difficoltà nel costruire una propria immagine di sé, e nel capire le proprie emozioni, sensazioni. Tuttavia il corpo rimane sempre un mezzo fondamentale per esprimere ciò che non si riesce ad esprimere attraverso le emozioni. Sono persone che curano sino alla mania il loro aspetto e la forma fisica, senza però essere soddisfatti del risultato ottenuto. Per questo tendono a celare il corpo con atteggiamenti e comportamenti sia con abbigliamenti larghi che nascondono i difetti di un corpo che non è da mostrare. Tendono ad una postura con la schiena curva su se stessa per nascondersi con una mimica molto pronunciata.

Attaccamento D disorganizzato: conseguenze sulla postura

Infine l’ attaccamento D disorganizzato, è caratterizzato da un livello di disorganizzazione nel rapporto diadico maggiore del precedente e soprattutto da una imprevedibilità nei comportamenti e nelle risposte. Di conseguenza questi bambini tendono ad assumere comportamenti contraddittori che vanno da una intensa ricerca di attaccamento a dei comportamenti di evitamento oppure anche comportamenti simultanei contraddittori del tipo avvicinamento al genitore con la testa girata dalla parte opposta, oppure riavvicinamenti interrotti da attacchi di rabbia o mal direzionati (verso un giocattolo, o altro) o, ancora, che finiscono in una posizione di stilling, ovvero di arresto per alcuni secondi in una posizione forzata o ancora di freezing in cui rimane immobile per diversi secondi. Possono anche mostrare inquietudine nei confronti del genitore avvicinandosi in maniera incerta e allontanandosi di scatto o mettendo le mani in bocca e piangendo restando lontano dal genitore. Durante il ricongiungimento possono manifestarsi anche stereotipie, movimenti asimmetrici e posizioni anomale (vacillare, tirarsi i capelli etc.) reputati degli indici di stress. Durante la strange situation possono assumere diversi comportamenti anormali o conflittuali in presenza dei genitori come dondolarsi sulle ginocchia con il viso rivolto da un’altra parte, immobilizzarsi con le braccia alzate e in trance, staccarsi dal genitore per appoggiare la testa contro il muro; alzarsi per salutare il genitore per buttarsi a terra e così via.

Musica ed ecologia dei sentimenti. Intervista a Franco Mussida

Franco Mussida, musicista fondatore della PFM, racconta in questa intervista i suoi ultimi progetti per portare la musica nelle carceri italiane e come, dopo 30 anni di lavoro sociale in questo ambito, sia arrivato a capire che la musica ci aiuta nel fare “ecologia di sentimenti”.

Franco Mussida è un personaggio di primo piano nella storia della musica italiana per aver fondato la Premiata Forneria Marconi (PFM) e averne firmato diversi successi, come la celeberrima “Impressioni di settembre”. La band, attiva dagli anni settanta, ha ancora molto seguito in Italia,  ha fatto incursioni sul mercato internazionale (Stati Uniti in particolare) e ha impreziosito con indimenticabili arrangiamenti diversi brani di Fabrizio De Andrè (la perla più nota probabilmente è l’arrangiamento progressive de “Il pescatore”).

Oltre ad avere suonato la chitarra con la PFM fino al 2015, Mussida è anche il fondatore e presidente del Centro Professione Musica (CPM) di Milano (dove ho avuto la fortuna di frequentare anche io tanti anni fa un corso per autori), un centro nato nel 1984, che è molto di più di una normale scuola di musica, un luogo che ha come obiettivo la maturazione musicale e umana dei propri allievi, e che si dedica anche alla ricerca nella pedagogia musicale e ad altri progetti sociali.

Già da alcuni anni è ad esempio attivo CO2, un progetto presente in dodici carceri italiane sostenuto dal Ministero della Giustizia e dalla Società Italiana Autori ed Editori (SIAE), che consiste nella realizzazione di speciali audioteche divise per “stati d’animo”, usufruibili dai detenuti.

Il CPM lancia in questi giorni un’iniziativa davvero interessante sull’uso della musica per incrementare la propria coscienza emotiva. Il corso, rivolto soprattutto a formatori, educatori, insegnati, assistenti e da chi intende operare nel mondo del sociale, si articolerà in sei incontri mensili e il primo sarà Introduzione all’ecologia dei sentimenti, un titolo sicuramente intrigante.

Musica ed ecologia. Franco Mussida si racconta - foto1

Ne abbiamo parlato (via Skype) con Franco Mussida in una interessantissima chiaccherata sul rapporto tra musica ed emozioni (e tante altre cose…).

State of Mind (SoM): Ciao Franco e grazie di averci dedicato il tuo tempo. Ci racconti come nasce questa esperienza dell’uso della musica in carcere?

Franco Mussida (FM): La mia personale esperienza nell’uso della musica in abiti di forte disagio sociale e psichico è iniziata nel 1988, nel carcere di San Vittore a Milano. Si era appena insediato Luigi Pagano, l’attuale provveditore alle carceri della Regione Lombardia. Al tempo l’ASL ha preso atto che si era interrotto ogni servizio di assistenza psicologica ai detenuti nel raggio dei detenuti tossicodipendenti di quel carcere e chiese l’introduzione di attività artistiche. Sono di quel periodo i primi laboratori musicali che utilizzavano l’intervallistica musicale per stabilizzare l’umore dei detenuti. Lo si faceva attraverso una delle attività più sociali del fare Musica: il coro. La sintesi di quell’esperienza la racconto in due libri: “La Musica Ignorata” e “Le Chiavi nascoste della Musica”, entrambi editi da Skirà. Il primo traccia la filosofia di base di un lavoro che partì appunto nell’ottantotto e si è evoluto in ricerche anche in altri ambiti sulle quali si fonda il progetto di particolari audioteche del progetto CO2, che chiamo SAEM Stazioni di Ascolto Emozionale della Musica. Il secondo ne descrive e riporta il resoconto e i risultati della sperimentazione triennale in quattro carceri.

Risultati pubblicati su una importante rivista scientifica, verificati e certificati dal comitato scientifico CO2 e dall’Università di Pavia nella figura del Prof. Flavio Ceravolo, Rettore di un collegio di Scienze Sociali, esperto in certificazioni di procedure sperimentali. I risultati che riguardavano attività continuative con più di 15 mila ascolti e il coinvolgimento di un centinaio di detenuti che vi hanno partecipato.

SoM: Se ho capito bene in questa esperienza in carcere l’uso della musica ha quindi finalità pedagogico- emozionali, ma non terapeutiche, giusto?

FM: Considero la Musica un mezzo, un chiavistello per accedere a luoghi interiori altrimenti inaccessibili. Le attività sono a favore di persone che non hanno cultura musicale, sono comuni ascoltatori. La Musica fa in modo del tutto naturale ciò che normalmente dovrebbe, stabilizza l’umore ma non riesce se non le si dà il tempo, esclusività, vera attenzione emotiva. Con un particolare approccio alla Musica indico e oriento un diverso modo di ascoltarla, offrendolo alle persone recluse in carceri o che soggiornano in comunità, gente che spesso vive in uno stato di carcerazione non solo fisica ma interiore. Attraverso una procedura di ascolto affettivo consapevole di Musica strumentale registrata, di tutti i generi, si sollecita la percezione, di un valore interiore grande, la presenza in noi di un mondo che va oltre ciò che gli occhi ci mostrano, quello di un pianeta invisibile che si sposa con la Musica, quel pianeta che chiamiamo interiorità. La Musica ha la capacità di illuminarlo, in modo naturale e senza rischi, rendendo percettibile quello che gli psicologi, per definire l’area emotiva che ci pervade, definiscono con uno parola: inconscio.

SoM: Ci racconti qualcosa di più su queste audioteche divise per stati d’animo?

FM: Finita la fase sperimentale da quattro sono diventate 12, sparse sul territorio nazionale. Sono normali audioteche con playlist non più divise per generi musicali ma per stati d’animo. Sulla scorta di una codifica particolare che si rifà ad un mio modo di intendere l’intervallistica emozionale. Ho sviluppato un sistema che confronta il filtro soggettivo della persona con l’elemento oggettivo della Musica. In principio ho accostato le correnti emozionali che governano il nostro sistema di percezioni emotive confrontandole con circa duecento grandi climi o condizioni emozionali codificati, che ho poi ridotta a ventisette e quindi a nove. A ciascuno di questi 27 stati emozionali vengono associate composizioni musicali, i brani dell’audioteca. Con me c’è una squadra di una ventina di persone, tra musicisti, psicologi, criminologi, neurologi, tecnici informatici e professori universitari. A inserire i brani nelle audioteche da anni sono musicisti, ascoltatori, (si può fare anche ora andando si co2musicaincarcere). Ora lo fanno anche i detenuti, i custodi delle audioteche che inseriscono 50 brani al mese con l’indicazione emotiva dei nove grandi stati emotivi. Da poco è iniziata la fase sei. Una ulteriore fase sperimentale nelle tre carceri (il progetto Nassa). Tutte sono ora tradotte in otto lingue che rappresentano le grandi etnie, comprese quelle dei paesi da dove arrivano i migranti. Quindi anche in arabo, rumeno, albanese, indiano… Supportati dall’organizzazione del CPM stiamo entrando in contatto con le relative Ambasciate per inserire con particolari procedure le loro musiche. Le audioteche sono quindi dei luoghi di incontro, di libertà emotiva dove la musica si ascolta in luoghi silenziosi e protetti. Tutto è supportato da momenti di formazione che coinvolgono anche gli educatori. Tutt’ora entro in carcere decine di volte l’anno per tenere personalmente incontri di ascolto emotivo guidato con gruppi di detenuti in tutt’Italia.

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SoM: Quindi una persona può chiedere di ascoltare un particolare brano che sa che di solito gli genera un certo stato d’animo se ne sente il bisogno?

FM: Sì, lo chiede all’audioteca e ne valuta l’effetto dopo l’ascolto. Scegliendo tra speciali simboli grafici, la persona decide cosa vuol vivere, trovarne conferma o negazione. C’è una fase di ricerca, poi di ascolto, confronto interiore, e quindi di valutazione. Tutti i dati restano memorizzati, grazie ad un personale codice d’accesso.

SoM: Prima accennavi che avete lavorato anche con l’esperienza del coro?

RM: Nel 1988 formavo gruppi corali. Scrivevo musiche, facevo sperimentare la bellezza di cantare assieme accordi anche facili in sequenza, con una intervallistica, che li sollecitata a vivere a manifestare direttamente cantando il loro interiore essere emotivo. Il coro dà la possibilità di vivere l’armonia, cosa che il singolo non può fare, non siamo esseri polifonici. Se ti parlassi adesso in Fa maggiore sarebbe meraviglioso, ma purtroppo non è possibile! E’ anche il nostro limite intellettuale, siamo solo esseri melodici, l’armonia la creiamo insieme. Vale anche per il mondo degli affetti, ne possiamo osservare lucidamente solo un suono per volta, gestiamo un solo sentimento per volta. Quando ce ne arrivano tanti contemporaneamente cominciamo a sognare. E’ questo il potere dell’armonia.

SoM: Mi pare di capire che il vostro lavoro sia più legato all’entità suono, che allo strumento canzone, composta da musica e testo.

FM: E’ così. Le audioteche contengono solo musiche strumentali di molti generi diversi ma non canzoni. Il testo impegna la mente. Spesso mi è capitato di dire che i cantautori capiscano poco di Musica. Il loro obiettivo è usarla per aiutare il viaggio della parola ad essere captata non solo l’intelletto ma dal cuore attraverso il clima sonoro. Il mondo del suono puro è un’altra storia. Le parole nel mondo del suono si chiamano timbri, e i racconti dei timbri, melodie.

SoM: Parlaci invece degli incontri che sono cominciati il 26 maggio rivolti agli operatori. Mi è piaciuta molto la definizione “Ecologia dei sentimenti”. Mi ricorda un po’ l’Ecologia della mente di Gregory Bateson…

FM: La sorgente di questi incontri è sempre la stessa. Raccontare a comuni ascoltatori che nella vita fanno gli operatori, gli educatori, gli psicologi, gli insegnanti come il fenomeno musicale agisce affettivamente su di loro mostrando qualcosa del loro pianeta affettivo che non conoscono. Osservare come attraverso la Musica si possa staccare la mente. Un processo che aiuta a godere del piacere di legarsi affettivamente non solo ai fenomeni musicali, ma alla natura stessa, a ricevere un’energia affettiva in grado di ricaricarci, entrare in contatto con il potente senso della bellezza. Energie utili a supportare chi opera nell’ambito del disagio sociale.

Gli incontri sono frutto della mia esperienza di una trentina di anni di lavoro in ambito sociale in una prospettiva che non ha a che fare solo con chitarre, assoli, composizione di brani, ma con l’incontro diretto con migliaia di persone attraverso il massimo comune denominatore affettivo della Musica. Orientare la propria vita nel senso di una ecologia dei sentimenti credo sia una necessità. Il comportamento delle persone poggia essenzialmente della comunicazione emotiva e oggi più che mai ce ne accorgiamo. Menzogne ed esagerazioni appartengono alla comunicazione pubblicitaria, a quella politica. Entrambe si prefiggono di orientare i sentimenti della gente e con questi le loro scelte. Lo fanno per i loro interessi per soddisfazioni economiche, per potere narcisistico. Tutte queste comunicazioni sono di solito condite di elementi emotivi per essere assorbite e digerite. Vengono usate dosi massicce di finto entusiasmo, di collera e rabbia comunicati ad orologeria dai grandi professionisti del consenso popolare. Insegnano fin da piccoli a giudicare qualsiasi cosa non ad apprezzarne sforzi e differenze.

Ma detto questo convivere con un minimo di serenità con la nostra istintività è complicato. Per cui è importante conoscere come funzioniamo interiormente. E’ la base per potersi muoversi nella direzione dell’ecologia dei sentimenti per realizzare una comunità affettiva più consapevole e cosciente del ruolo del mondo degli affetti nella società. Oggi si vuole far credere che il mondo emotivo intralcia tutto ciò che è logica o intelletto, alimentando la tendenza a volerlo sopprimere più che reprimere. Ci sono tanti modi per farlo, sono state addirittura inventate apposite religioni con questa finalità. Eppure noi rimaniamo principalmente esseri senzienti, bombe emotive con le gambe. In un modo o nell’altro questo è il senso della nostra esistenza, diamo all’intelletto e al pensiero il compito di orientarlo eticamente. Siamo gli unici esseri sul pianeta che lo possono fare. La musica esiste per ricordarcelo, per aiutarci a stabilizzare quell’ immenso mondo emotivo, ad elaborarlo nel tempo fino a trasformare le emozioni in sentimenti. Creare una comunità affettiva basata non solo sulla tolleranza, ma sulla comprensione delle differenze caratteriali è indispensabile per il nostro futuro. Lavorare in luoghi estremi come il carcere lo conferma e la Musica è l’arte che più di altre ci aiuta a renderci emotivamente consapevoli.

Musica ed ecologia dei sentimenti Franco Mussida si racconta foto3

SoM: Hai qualche riferimento teorico specifico che ti ha guidato maggiormente in questo percorso di ricerca?

FM: Ho fatto le mie sintesi. La musica si lega a 360 gradi al mondo del sentire individuale, il suono è il bisogno di esprimere il proprio stato affettivo, i bisogni emotivi interiori dell’essere umano. E’ stato così fin dagli inizi dei tempi. Anche grazie alle testimonianze degli etnomusicologi da Marius Schneider ad altri, che hanno raccolto credenze, leggende tutto ciò che ci arriva fin dagli scritti dei Veda, ci rimanda ad un patrimonio che definisco, periodo pre-espressivo, dove la Musica era fatta da maghi, da medium e iniziati che fungevano da tramiti. Figure che collegavano il mondo del suono al reale visivo planetario alla natura. E’ il periodo prerazionale e appunto i Veda ce lo raccontano. Poi arriva Pitagora che inizia a organizzare e codificare tutto. Passiamo da 4000 anni prima di Cristo a 400 anni prima di Cristo. Il periodo greco diventa già il primo periodo espressivo. Ma serve all’uomo per capire come la Musica è più che altro un elemento educatore del sentire. Tutto il periodo ellenico con Pitagora, Aristotele, Platone, Aristosseno, danno alla Musica questo valore. Ma comincia ad essere intellettualizzata nei suoi principi fisici nonostante si porti dietro il ricordo di quell’altra cosa. Il vero periodo espressivo passa attraverso Guido d’Arezzo e arriva ai giorni nostri. L’intelletto prende il sopravvento e l’uomo comincia a godere nell’utilizzare la Musica come mezzo espressivo, per mostrare le sue abilità nel maneggiarla. “Che bello, come mi piace, vi faccio vedere come sono bravo, senti questa canzone!” Comincia a vivere l’esperienza musicale con uno spirito che non ha niente a che fare con quello precedente. Abbiamo ripercorso qualche milione di anni in poco tempo!

Nel futuro immagino che la Musica possa tornare ad essere considerata per quello che era, orientando l’intelletto verso una coscienza che abbracci il senso della sua origine. Di quell’origine ne parlano in tanti , dovrei citarti tutti gli autori che citavo prima compreso Rudolph Steiner, filosofo tedesco dei primi del 900. Un altro elemento guida sono le mie esperienze di vita, a partire dalle migliaia di concerti fatti e i due momenti fondamentali, il mio personale percorso di vita, aver vissuto a 4 anni un’esperienza potrei dire iniziatica in modo del tutto naturale come accadde anche a 31. Un’esperienza umana fortissima in cui pensiero e intelletto si sono come allontanati da me offrendomi in dono la meravigliosa occasione di vedere il mondo senza filtri. Un’esperienza naturale provocata dalla visione, dalla bellezza del creato e della natura Non so chi devo ringraziare, ma certamente non me stesso. La racconterò in un libro che uscirà l’anno prossimo. Ci ho messo un po’ a capirlo e a uscire dal profondo timore che mi attanagliava, tenermi tutto per me. Poi alla fine ho capito che se ricevi aiuti si ha il dovere di dirlo. Credo nell’arte come servizio, credo nell’arte come scienza sociale, ma non voglio essere scambiato per un santo, non lo sono per nulla.

La visione dell’uomo legato a filo doppio al sentire della natura mi accompagna da allora, e da allora ho perso il senso della solitudine affettiva, mantenendo quello che deriva della natura spirituale. Tutti i lavori fatti da quel lontano 1978 risentono di quella visione. Del resto senza una visione non si può fare arte.

SoM: Hai fatto altre esperienze particolari sull’uso della musica e del potere del suono al di fuori del carcere?

FM: I lavori con sculture vibranti nelle mostre esperienziali che ho realizzato dal 2013 raccontano questo. Ma c’è un luogo permanete dove è possibile leggere ascoltare e vivere ciò di cui abbiamo appena parlato. Il lavoro sull’intervallistica e sulla capacità dei poteri del suono e della Musica organizzata si possono infatti trovare anche in una grande installazione in Svizzera. E’ a Rivera, posizionata in una SPA. Si chiama “Suono di Sole” è stata inaugurata nel 2016.

E’ dentro un’enorme cupola di policarbonato trasparente. E’ composta da sette quadri i cui dipinti raccontano dei poteri dell’intervallo musicale sulla struttura affettiva. Dalle vibrazioni della tavola si diffonde una composizione fatta da 560 brani di tre minuti che sfumano uno nell’altro e legati attraverso un software ai movimenti del sole e delle stagioni. E’ una composizione per orchestra contemporanea e cori. Una composizione durata mesi che mi è costata un po’ di salute. Dovevo scrivere su Sibelius (un software musicale) direttamente sulla partitura senza toccare strumenti. Il progetto lavora al contrario di come normalmente lavora la musica, ovvero non accende in noi l’interesse affettivo, lo mitiga, lo consola, offrendo all’Io e all’intelletto l’opportunità di abbandonare il controllo del corpo assecondando uno stato di grande rilassamento fino a provocare il sonno. Un progetto che non ha niente a che fare con la musica ambient. Si può visitare anche a richiesta.

SoM: Hai mai avuto contatti con il mondo della musicoterapia?

FM: No. Il mio lavoro non è quello di sovrappormi ai medici. Non mi pare esista una fisiologia musicale conclamata e certificata. Mi interessa la sua opera di stabilizzatrice dell’umore e la capacità della Musica di poter essere osservata intellettualmente nei suoi effetti sulla comune struttura affettiva contribuendo a darci il senso di cosa sia davvero la nostra interiorità. Mi interessa divulgare un diverso modo di ascoltarla. Un modo che consente alla genialità dei musicisti di essere apprezzati per il loro vero lavoro: intrufolarsi nel comune spazio affettivo della gente muovendolo sino a farcelo percepire come il territorio di un Pianeta nascosto, invisibile e vibrante, il Pianeta degli affetti. I sei seminari che tengo in CPM, uno ogni mese, destinati a educatori, operatori, insegnanti non solo di musica, hanno proprio questo scopo: rendersi conto che il Pianeta degli affetti e quello della Musica in fondo sono la stessa cosa.

SoM: Grazie mille Franco e buona musica!


VIDEO – Franco Mussida live: Giugno ’73 (F. de André)

Cervelli simili in tutte le specie: il fondamentale equilibrio tra i neuroni

Si fa luce su uno dei misteri evolutivi: ecco come il bilanciamento tra le diverse cellule cerebrali potrebbe essere mantenuto tra le varie specie che presentano dimensioni del cervello molto diverse.

 

I ricercatori del King’s College di Londra hanno scoperto un processo fondamentale implicato nello sviluppo della corteccia cerebrale che potrebbe far comprendere anche le cause di disturbi quali l’autismo e l’epilessia.

La corteccia cerebrale è responsabile di numerose capacità cognitive come l’apprendimento, la memoria e l’abilità di pianificazione futura. Per svolgere queste attività la corteccia utilizza due tipi principali di cellule cerebrali: i neuroni eccitatori, che elaborano le informazioni e aumentano l’attività degli altri neuroni, e quelli inibitori, che frenano questa comunicazione in modo che non siano attivati contemporaneamente tutti i neuroni. Un’eccessiva attivazione porta alla crisi tipica dell’epilessia mentre invece troppa inibizione causa problemi cognitivi.

Lo studio sperimentale

Nello studio pubblicato su Nature, il team di ricerca inglese ha scoperto come si giunge al giusto equilibrio nel numero di neuroni eccitatori e inibitori studiando il cervello in via di sviluppo dei topi. Considerato che il rapporto tra i due tipi di cellule è molto simile in tutti i mammiferi, nonostante le notevoli differenze nelle dimensioni cerebrali, è probabile che i risultati si estendano anche agli esseri umani.

Il Professor Oscar Marin, autore dell’articolo, spiega “lo studio mostra che l’equilibrio tra i neuroni eccitatori e inibitori nella corteccia è rimasto costante con il progredire dell’evoluzione. È probabile che questo processo sia stato fondamentale per consentire l’espansione del cervello umano”.

Manipolando le cellule cerebrali dei topolini durante un periodo di sviluppo embrionale critico, gli studiosi hanno scoperto che il numero di neuroni inibitori prodotti dipendeva dal numero di neuroni eccitatori. Una delle autrici della ricerca ha chiarito “Dobbiamo immaginare l’attività cerebrale come una conversazione: i neuroni devono essere connessi tra loro per poter parlare. Nelle prime due settimane dopo la nascita, i neuroni inibitori sono programmati per la morte se non trovano neuroni eccitatori con cui parlare”.

Ciò che si è osservato è che i neuroni eccitatori impedivano la morte degli inibitori bloccando l’attività di una proteina chiamata PTEN. A riprova di questa teoria, si è visto che la mutazione nel gene che codifica per la proteina è fortemente associata all’autismo: quando la proteina PTEN non funziona correttamente, l’equilibrio tra i due tipi di neuroni viene alterato e questo causa diversi problemi nell’elaborazione delle informazioni, caratteristica che si ritrova in alcuni soggetti autistici. 
Su quest’onda i ricercatori, utilizzando i modelli animali, stanno cercando di comprendere le conseguenze di un eccessivo numero di neuroni inibitori provando ad estendere queste scoperte ai disturbi umani, come l’autismo per l’appunto.

La cura del silenzio (2017) – Kankyo Tannier racconta la sua esperienza di pratica meditativa come persona e psicoterapeuta

Kankyo Tannier, in “La cura del silenzio”, racconta con molta umanità, leggerezza e a tratti un po’ di sana autoironia, la propria vita e la propria pratica meditativa, guidando il lettore in un mondo completamente nuovo e da scoprire.

 

Il silenzio è d’oro diceva il proverbio. Quando ho iniziato a leggere le prime pagine di questo libro una delle cose che ho pensato è perché non venga istituito il cosiddetto “minuto di silenzio” come pratica quotidiana e universale, invece che dedicarlo solo a disgrazie nazionali o a lutti catastrofici.

Credo che anche l’autrice, Kankyo Tannier, potrebbe essere d’accordo quando scrive “Un minuto di silenzio strappato alle nostre giornate strapiene è come un piccolo ruscello che scende giù per la collina…e sapete dove va a finire!”.

Uno dei pregi di questo libro è il fatto di essere un racconto in prima persona, molto autentico e molto lontano dall’artificiosità di certa letteratura new age o mistica. Kankyo Tannier, monaca buddista della tradizione zen e psicoterapeuta, racconta la propria vita e la propria pratica meditativa con molta umanità, leggerezza e a tratti un po’ di sana autoironia.

In realtà è un libro tutt’altro che leggero, nel senso che è pienissimo di consigli, esercizi, spunti meditativi e concetti importanti resi semplici. Può essere consigliabile assaporarlo a poco a poco, intervallando le pagine con tanti respiri e cercando di mettere in pratica gli esercizi che vengono consigliati come l’osservazione della natura, il pasto consapevole (e silenzioso), la disintossicazione digitale (fino alla scomparsa digitale), la pausa visiva, il riappropriarsi della consapevolezza corporea. Il tutto al ritmo del bel motto delle 3 R e delle 3 S (Ripetere, ripetere, ripetere, sembra stupido ma serve!).

Una delle parti più belle descrive il rapporto dell’autrice con i propri cavalli, che definisce i grandi silenziosi, che alleva in un monastero in Alsazia. Le nozioni più tipicamente derivate dal buddismo si integrano inoltre a tratti con altri concetti derivati dalla PNL e dell’ipnositerapia, in particolare quando l’autrice racconta della propria esperienza di terapeuta.

Quindi è un libro tutt’altro che silenzioso, anche se i consigli sul silenzio sono preziosi: “È proprio di questo che si tratta: reimparare ad ascoltare. Ascoltare il silenzio, lo spazio tra le parole, la calma nella tempesta e il fluire del tempo”.

 


Eyes wide open on the present moment – is it the limit? | Kankyo Tannier | TEDxAlsace

Psiconcologia del ciclo di vita: il giovane adulto – Report dal Convegno di Palermo

Quali sono le specifiche sfide evolutive a cui devono rispondere i giovani adulti malati di cancro e le loro famiglie? E quali le risposte che la psicologia può dare per migliorare la qualità di vita, infondendo speranza per il futuro? A questi quesiti ha tentato di rispondere il corso di aggiornamento organizzato a Palermo dalla Società Italiana di Psiconcologia lo scorso 25 maggio.

 

La diagnosi di malattia oncologica, spesso a esito fatale, pone sempre familiari e pazienti di fronte a una serie di emozioni violente e impreviste, ansia, paura, rabbia, diniego, quanto più precoce è la scoperta della malattia.

Quali sono le specifiche sfide evolutive a cui devono rispondere i giovani adulti e le loro famiglie e quali le risposte che la psicologia può dare per migliorare la qualità di vita, infondendo speranza per il futuro?

A questi quesiti ha tentato di rispondere il Corso di aggiornamento organizzato a Palermo dalla Società Italiana di Psiconcologia lo scorso 25 maggio presso il Policlinico Paolo Giaccone, in un dialogo stretto tra Medicina e Psicologia, consapevole della necessità di un interscambio di saperi e di professionalità per il benessere di pazienti e famiglie.

Con il termine giovani adulti intendiamo persone la cui età va dai 16 ai 39 anni: si tratta di giovani per cui l’insorgenza del tumore pone difficoltà notevoli, perché incide su importanti decisioni per il proprio futuro, come la fertilità – apre i lavori la Dott.ssa Emanuela Mencaglia, psicoterapeuta – Un’altra decisione importante è quella relativa allo studio, se proseguirlo o interromperlo. Esistono poi tutte le conseguenze negative del tumore sulla sfera cognitiva (perdita di memoria), sulla sfera affettiva e sessuale e sulla vitalità (minore forza vitale). Si parla in questo caso di distress come perdita di anni importanti di vita e come interruzione dello sviluppo delle fasi evolutive fisiologiche.

Conseguenze fisiche e mentali che scatenano risposte emotive solitamente negative, variabili tra rabbia, diniego (con sentimenti di immortalità), paura del futuro, depressione, in una richiesta di visibilità, che può spingere a una dipendenza affettiva per avere conferme identitarie.

I giovani hanno paura di un futuro incerto a cui si intreccia il terrore della morte e della perdita, sensazione amplificata dal fatto di vivere in una condizione di isolamento sociale, per i lunghi periodi di ospedalizzazione e per la concentrazione dei vissuti sui sintomi, sulla loro durata e intensità: ciò provoca un’angoscia di essere esclusi dal mondo, aumentando la dipendenza relazionale o, reattivamente, portando alla decisione di non voler più utilizzare i social network, uno dei mezzi di cui potrebbero disporre per mantenere i contatti con l’esterno.

Quali allora le strategie utili per aiutare questi pazienti e donare una vita da vivere che diminuisca le ansie della morte e della sofferenza?

Per i nostri pazienti l’importante è avere un piano B, un’alternativa, raggiungibile attraverso un Counseling sul lavoro, per esempio sfruttando la facilitazione all’inserimento lavorativo dato dalle categorie protette, un Counseling nutrizionale o sessuologico – conclude Mencaglia.

Per entrare nello specifico dell’area sessuale, quali effetti collaterali delle medicazioni e dei trattamenti, troviamo, nelle donne, i disturbi del desiderio e dell’eccitazione, con cui si può intervenite attraverso tecniche comportamentali quali la lettura erotica o gli esercizi di focalizzazione sensoriale, oltre all’utilizzo di farmaci quali il testosterone – spiega Rossella De Luca, psico-oncologa – Problemi che di rimando interessano la relazione di coppia, con un impatto negativo sul benessere della donna e della coppia nel complesso.

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Psico-oncologia del ciclo di vita il giovane adulto - Report dal Convegno IMM1Imm.1 – Immagine dal Corso di Aggiornamento “Psico-oncologia del ciclo di vita: il giovane adulto”

 

Una sfida per una vita dignitosa e pienamente da vivere, intessuta di relazioni, impegni e decisioni importanti: un percorso che il giovane paziente può percorrere solo se coadiuvato da una rete professionale in costante dialogo.

Quale è il modello di cura specifico per questa fascia di età? Di certo l’integrazione tra chirurgo, psicologo, fisioterapista, educatori e assistente sociale, in dialogo tra loro – suggerisce il Professor Gianluca Lo Coco, Professore Ordinario di Scienze Psicologiche, Pedagogiche e della Formazione presso l’Università degli Studi di Palermo – Bisogna poi pensare al coinvolgimento della famiglia, ma in termini diversi da quanto avviene con il bambino. Il giovane adulto infatti necessita di un sostegno all’autonomia maggiore rispetto al bambino, benchè il dialogo con le famiglie e tra le famiglie e il paziente sia indispensabile per lenire la sofferenza che colpisce tutti i componenti. Un sostegno che gli operatori offrono, ma che non di rado può essere osteggiato, perché il giovane adulto spesso ritiene il suo malessere transitorio e utilizza molto meno i servizi psicologici rispetto agli over 40.

Quali sono le competenze specifiche di uno psicologo in questo settore così coinvolgente e delicato?

Lo psicologo analizza le possibilità evolutive di un progetto di vita influenzato dalla malattia fisica, dalla paura del futuro e dalla sofferenza, senza minimizzare la malattia e senza perdere e far perdere la speranza nel futuro, mantenendo un’attitudine positiva per la vita, attraverso una corretta informazione medica e la strutturazione di spazi dedicati, per esempio, al lavoro, con sale pc all’interno dell’ospedale, che creino una continuità nel progetto di vita, una traiettoria di vita che non rischi di interrompersi o di non proseguire, come purtroppo accade anche dopo la risoluzione del problema medico, soprattutto per la scarsa fiducia del giovane nel futuro e per l’ansia e i dolori fisici causati dal tumore. Ecco che, se lasciato da solo, decide il più delle volte di abbandonare gli studi o le attività di svago, con grave detrimento per la propria salute, fisica e mentale. Una situazione delicata e di complessa gestione emotiva, che richiede, da parte dello psicologo un serio e sereno confronto con il tema della vita e della morte, per elaborare eventuali angosce esistenziali che metterebbero a rischio il progetto di supporto al giovane.

L’educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale stimola i bambini a mangiare frutta e verdura

Secondo un recente studio condotto dall’Università della Finlandia orientale e pubblicato sulla rivista “Public Health Nutrition”, un’ educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale aumenta la volontà dei bambini di scegliere e mangiare frutta e verdura.

 

Questo nuovo metodo, bastato sulla percezione sensoriale, utilizza il naturale modo di affidarsi a tutti i cinque sensi, quando i bambini si approcciano per la prima volta a nuovi cibi.

I bambini hanno un ruolo attivo verso il cibo, e sono incoraggiati a condividere le loro esperienze sensoriali guardando, annusando, assaporando, toccando cose nuove da mangiare. Educare il gusto dei bambini, ad esempio, può esser fatto stimolandoli delicatamente all’utilizzo dei loro sensi.

In un mondo sempre più digitale, in cui si parla di come sviluppare le capacità cognitive dei bambini e una loro crescita sana, una buona educazione dei sensi diventa ancora più importante rispetto al passato. Gli asili in questo giocano un ruolo importante quando si parla di educazione alimentare, ad esempio nelle sessioni pratiche si possono introdurre diversi ortaggi e frutta, i bambini posso essere coinvolti nella coltivazione della verdura. Un aspetto molto importante per i bambini è proprio quello di sperimentare le cose insieme agli adulti, invitandoli a partecipare attivamente alle varie attività e stimolandoli maggiormente.

Educazione alimentare: lo studio sperimentale

In un recente studio condotto presso l’Università della Finlandia orientale, i ricercatori hanno messo a confronto diversi gruppi di bambini di scuola materna, tra i 3 e i 5 anni. Ad alcuni è stata proposta un’ educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale mentre ad altri no.

I risultati hanno mostrato come i bambini ai quali è stata proposta l’ educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale abbiano avuto una certa disponibilità e predisposizione nello scegliere verdura e frutta.

Un altro aspetto interessante è stato come questo metodo abbia incoraggiato i bambini, che erano ritenuti dai loro genitori “mangiatori schizzinosi” a scegliere una grande varietà di frutta e verdura. Inoltre è stato riscontato come i figli di genitori con un basso livello di istruzione, tendessero a scegliere più frutta e verdura.

Lo scopo dello studio è stato quello di far notare come, le preferenze alimentari positive apprese durante la prima infanzia e maturate poi nella scuola materna, possano essere d’aiuto a promuovere una buona alimentazione, e soprattutto a promuovere delle sane e corrette abitudini alimentari.

Autolesionismo e Adolescenza: “Non Potevo Farci Nulla”

Chi utilizza l’autolesionismo sostiene che farsi del male li riporti in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.

 

Cominci a prendere a calci la porta. Butti la roba in giro per la stanza, fuori dalla finestra. Non riesci a calmarti. Non sai neppure che cosa ti abbia ridotto in questo stato. Ti pianti le unghie nella pelle del polso. Non senti niente. É come se stessi guardando un film su qualcun altro, non sei tu. Ti togli la camicia, ti guardi allo specchio. Odio, disgusto, frustrazione, rabbia, rimorso. Quasi come in un rituale, senza nemmeno pensare a quel che fai, prendi la lametta… sangue che gocciola. Ci sfreghi su qualcosa di antisettico, lo rifai, fino a quando sei calmo, soddisfatto. Spalmi sangue in giro. É brutto, ma il sangue è reale, è umano, ti fa sentire bene! Al tempo stesso, provi dolore, te lo meriti. Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.”

Dal libro Un urlo rosso sangue di Marilee Strong.

Chiamato da alcuni autori autolesionismo intenzionale (deliberate self-harm, DSH, Favazza 1996), l’autolesionismo si riferisce a una serie di comportamenti che l’individuo mette in atto intenzionalmente per recare danni o lesioni al proprio corpo o ad alcune parti di esso. Secondo Armando Favazza (Favazza, 1996), che per primo ha identificato tali comportamenti come una sindrome con caratteristiche simili al Disturbo del Controllo degli Impulsi NAS, l’autolesionismo presenta alcune specifiche componenti:  pensieri ricorrenti di danneggiare il proprio corpo, incapacità di resistere agli impulsi di danneggiarlo, da cui deriva la distruzione o la alterazione del tessuto corporeo; crescente senso di tensione prima di mettere in atto condotte autolesionistiche, sensazione di gratificazione e di benessere successiva all’atto autolesivo.

Attualmente in Italia viene segnalato un tasso di incidenza che oscilla intorno al 30% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica, contro il 60% circa tra i malati psichiatrizzati. Ferirsi con tagli e ustioni sono le più comuni forme di autolesionismo tra i giovanissimi, alcuni degli altri metodi includono l’avvelenamento e l’overdose in età più adulta. L’autolesionismo è stato associato a depressione e ansia, a comportamenti antisociali e, soprattutto, all’uso di alcool (il rischio è raddoppiato), all’uso di cannabis e al fumo (Cerutti & Manca, 2009; Cerutti et al, submitted).

Vergogna e stigma nelle condotte autolesive

Una delle maggiori difficoltà connesse a questo disturbo è che i comportamenti autolesivi sono spesso sottostimati poiché vengono messi in atto in condizione di segretezza e sono frequentemente accompagnati da sentimenti di vergogna. Coloro che si autoferiscono, infatti, quasi sempre tendono a isolarsi e a nascondere le proprie ferite soprattutto per il timore di essere giudicati.  Ricordo E., 14 anni, che chiusa in bagno con il rasoio in mano si tagliava e guardava il sangue scorrere e cadere sul pavimento e intanto le lacrime le segnavano il viso. Sapeva di avere bisogno di aiuto ma in quella circostanza i suoi unici pensieri erano: “Che cosa penserà la gente di me? Penseranno che sono matta? Che cosa andranno in giro a dire quando lo sapranno? Penseranno che ho qualcosa che non va… Penseranno che lo faccio solo per attirare l’attenzione”.

Le ragioni per cui le persone si feriscono sono molteplici, ma va scardinato lo stereotipo dell’adolescente turbato, emotivamente labile e ribelle che compie gesti estremi come e che quindi può anche autolesionarsi. Questo è, a mio parere, solamente uno stereotipo, uno stigma che serve alle persone a ignorare la malattia mentale, ancora oggi vissuta con grande segreto e forse, come segno di debolezza.

Autolesionismo come meccanismo maladattativo di coping

L’autolesionismo non è un modo per attirare l’attenzione, né un tentativo di suicidio. Prendiamo ancora le parole di chi l’ha vissuto: F. ha 30 anni ora. Nel 1992, quando ha cominciato, non aveva mai sentito parlare di autolesionismo. “Non era la sensazione del dolore stesso, ma la reazione del corpo”, ha detto. “Una sorta di sensazione intorpidita. Quando mi facevo male mi sentivo completamente calma, la mia mente si concentrava sul dolore e la ferita e tutti gli altri pensieri e problemi sconvolgenti abbandonavano la mia mente nel frattempo. C’è un equivoco in base al quale l’autolesionismo sarebbe un tentativo di morire”, dice. “E ‘davvero l’esatto contrario. A volte, quando ho sentito che non volevo più vivere, mi facevo del male e mi sentivo più viva. E’ stato un meccanismo di sopravvivenza”.

Molte persone si fanno del male perché sono invase dalle loro emozioni, come la tristezza o l’ansia o forti stress e recare danno al proprio corpo rappresenta un modo per gestire queste emozioni vissute come intollerabili. Chi utilizza l’autolesionismo in questo modo sostiene che farsi del male li riporta in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.

Ci sono poi tutta una serie di altri motivi connessi a patologie psichiatriche che portano una persona a farsi del male (come purificarsi o tentare di espiare una colpa di un trauma subito), che qui non stiamo ad analizzare. Ciò che forse si può generalmente dire è che l’autolesionismo può essere meglio capito come un meccanismo maladattivo di coping che funziona – almeno al momento (Klonsky, 2007; DiLazzero, 2003).

 

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