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La sessualità: valutazioni cliniche e novità terapeutiche – Report da Firenze

Martedi 29 maggio si è svolta a Firenze una giornata di formazione “La sessualità: valutazioni cliniche e novità terapeutiche”, organizzata dalla Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi. L’obiettivo centrale dell’evento è stato quello di descrivere le principali novità del trattamento psicoterapeutico e farmacologico nei disturbi sessuali all’interno del contesto di coppia.

La mattina si è aperta con l’introduzione del direttore della Scuola Cognitiva di Firenze Dott. Filippo Turchi che, nel presentare il programma della giornata di formazione, si è soffermato sulla prevalenza ed incidenza dei disturbi sessuali sottolineando come, anche per motivi culturali, essi siano sottostimati e come solo recentemente le richieste di trattamento siano in aumento. Il Dott. Turchi ha, inoltre, sottolineato quanto sia importante una corretta valutazione clinica della problematica sessuale affinchè possa dare ulteriori informazioni sul funzionamento globale del paziente.

FIRENZE GIORNATA SESSUALITA - 2

Sessualità: trattamento con Terapia Mansionale Integrata e farmaci

La prima relazione, da parte del Dott. Luca Calzolari, didatta Studi Cognitivi di Firenze, ha avuto come obiettivo quello di descrivere la terapia mansionale integrata, trattamento elettivo per le disfunzioni sessuali laddove queste non siano secondarie a disturbi psicologici e relazionali primari. Dopo aver illustrato le varie fasi che accompagnano la risposta sessuale l’intervento si è focalizzato sulle mansioni, aspetto peculiare della Terapia Mansionale Integrata, e sulla loro prescrizione nelle quattro tappe della terapia: la conoscenza di sé, di sé tramite l’altro e del piacere, proprio e della coppia.

Impatto della terapia farmacologica sulla sessualità

La Prof.ssa Fiammetta Cosci, Università degli Studi di Firenze, ha focalizzato l’attenzione sulle problematiche connesse al trattamento farmacologico nei disturbi sessuali e nella sua influenza rispetto al funzionamento sessuale dei pazienti in cura per altri tipi di problematiche mediche. Nella prima parte della relazione la Prof.ssa Cosci ha sottolineato l’impatto della terapia farmacologica sulla sessualità analizzando per classi di farmaci (antipsicotici, stabilizzatori dell’umore, antidepressivi e ansiolitici) quelli che presentano maggiori effetti collaterali sulla sfera sessuale. La seconda parte dell’intervento è stata invece centrata sulla valutazione delle disfunzioni sessuali durante la fase di riduzione del dosaggio e al momento della sospensione della terapia farmacologica sottolineando come mentre alcuni sintomi regrediscono in un tempo variabile da qualche giorno a qualche settimana in altri casi, con una incidenza comunque ridotta, rimangono sintomi anche a carico della sfera sessuale.

FIRENZE GIORNATA SESSUALITA - 3

Sessualità: focus su funzionamento interpersonale e concettualizzazione LIBET

Nella terza relazione la Dott.ssa Daniela Rebecchi, direttrice Studi Cognitivi di Modena, integrando il primo intervento ha concentrato l’attenzione sul funzionamento interpersonale affrontando la problematica sessuale all’interno della dinamica di coppia e introducendone i fondamenti della terapia cognitivo comportamentale. Successivamente ha portato degli esempi clinici concettualizzati attraverso il modello LIBET illustrandone i possibili interventi terapeutici e stimolando la platea ad un riflessione condivisa.

Parafilia e Disturbi Parafilici, e trattamenti psicoterapici

Il Professor Davide Dettore, Università degli Studi di Firenze, ha concluso gli interventi approfondendo la distinzione tra parafilia e disturbi parafilici, questi ultimi caratterizzati rispetto ai primi da una percezione di sofferenza psichica del soggetto. Nella seconda parte della relazione il Professor Dettore si è successivamente concentrato sul trattamento psicoterapeutico dei disturbi parafilici descrivendo i modelli attualmente più efficaci per la cura di questa psicopatologia.

FIRENZE GIORNATA SESSUALITA - 4

L’evento si è concluso con una tavola rotonda che ha visto partecipare tutti i relatori ed all’interno della quale è stato discusso un caso clinico di deficit erettile. Diverse sono state le domande e le riflessioni che hanno accompagnato i vari interventi, indice di un interesse sempre costante per tutto l’arco della giornata.

Da questo evento organizzato dalla Scuola Cognitiva di Firenze sono stati molteplici gli spunti di riflessione rispetto sia ai modelli che al trattamento della sessuologia clinica evidenziando come spesso però sia un tema, quello della sessualità, poco esplorato in psicoterapia privando l’accesso a quelle informazioni molto utili per una più corretta valutazione clinica del paziente.

Inconscio cognitivo Vs inconscio dinamico: il falso mito della censura. Un modello di spiegazione sui processi mentali di simbolizzazione

Il processo di simbolizzazione alla base dei meccanismi inconsci della nostra mente costituisce una tendenza psicologica di estremo interesse tanto all’interno del panorama psicoanalitico quanto di quello cognitivo. Tre i costrutti teorici che ci guidano nella scoperta dell’inconscio cognitivo: euristica, memoria e dissociazione.

Alessandra Signorile

 

L’inconscio alla luce delle moderne teorie cognitive non è più il luogo della rimozione, il magazzino in fondo a cui l’io getta i suoi rifiuti, bensì è la condizione strutturale senza cui l’io cosciente non sarebbe possibile, l’insieme di tutte le complesse relazioni tra processi neurobiologici e atti mentali automatici generati in risposta a specifici stimoli.

A questo punto però, sul piano epistemico della giustificazione scientifica di una teoria, ci si trova di fronte a un problema ancora insoluto: Da un lato, abbiamo già da tempo modelli scientifici sul mentale che fanno a meno del concetto di censura, poiché considerata sperimentalmente non controllabile, dall’altra però, le terapie psicologiche partono spesso da essa come premessa fondante del comportamento del paziente. Colpisce la distanza tra questi punti di vista che riflette una perdurante disconnessione tra coloro che affermano di osservare il fenomeno o i suoi effetti e coloro che ribadiscono la necessità di precisare e valutare questo costrutto con il massimo rigore.

Si vuole presentare una proposta di ricerca: trovare un modello cognitivo ed evoluzionistico, esplicativo che riesca a mettere in luce le cause sottostanti ai processi di simbolizzazione (sogni, lingua, arte, mito e in genere ogni comportamento propriamente simbolico) falsificando la teoria freudiana della rimozione per mezzo di un approccio scientifico logico e verificabile. Con il progetto qui proposto si tenta di giustificare la tendenza psicologica al simbolico, facendo ricorso a tre costrutti teorici: euristica, illustrata da Kahneman in seno al cognitivismo evoluzionistico, (Kahneman, trad. it., Serra 2012) memoria e dissociazione. Tuttavia si farà leva principalmente sul primo dei tre, sia perché è quello di cui si possiede maggiore competenza, sia perché si pensa che indebolendo il paradigma della rimozione con una teoria cognitiva, possa emergere una visione maggiormente rinforzata della psicologia dell’arte e più autonoma.

Simbolizzazione e inconscio. Lo sfondo culturale e teorico

L’approccio cognitivista nella comprensione dei fattori mentali inconsci non è certamente una novità; se un secolo fa il paradigma psicoanalitico era quasi l’esclusiva colonna portante delle scienze mentali, dà gli anni 50, il metodo di Allan Mellis (sviluppatosi proprio in seno alla psicoanalisi) avrà un eco altrettanto forte per la psicologia moderna e contemporanea, non più univocamente incentrata su concetti edipici, pulsioni e principio di realtà, cioè non solo sui contenuti mentali ma anche, piuttosto sulle modalità, gli schemi attraverso cui la mente elabora le informazioni.

L’inconscio alla luce delle moderne teorie cognitive non è più il luogo della rimozione, il magazzino in fondo a cui l’io getta i suoi rifiuti, bensì è la condizione strutturale senza cui l’io cosciente non sarebbe possibile, l’insieme di tutte le complesse relazioni tra processi neurobiologici e atti mentali automatici generati in risposta a specifici stimoli.

A questo punto però, sul piano epistemico della giustificazione scientifica di una teoria, ci si trova di fronte a un problema ancora insoluto: Da un lato, abbiamo già da tempo modelli scientifici sul mentale che fanno a meno del concetto di censura, poiché considerata sperimentalmente non controllabile, dall’altra però, le terapie psicologiche partono spesso da essa come premessa fondante del comportamento del paziente. Colpisce la distanza tra questi punti di vista che riflette una perdurante disconnessione tra coloro che affermano di osservare il fenomeno o i suoi effetti e coloro che ribadiscono la necessità di precisare e valutare questo costrutto con il massimo rigore.

Si vuole presentare una proposta di ricerca: trovare un modello cognitivo ed evoluzionistico, esplicativo che riesca a mettere in luce le cause sottostanti ai processi di simbolizzazione (sogni, lingua, arte, mito e in genere ogni comportamento propriamente simbolico) falsificando la teoria freudiana della rimozione per mezzo di un approccio scientifico logico e verificabile.

Un dizionario attuale di psicologia, definisce il simbolo in questo modo:

[blockquote style=”1″]Termine derivante dal greco synballein, che significa mettere insieme. In origine, designava le due metà di un oggetto spezzato, un anello o una moneta, ad esempio, ricomponibile attraverso il loro avvicinamento: in tal senso, ciascuna parte diveniva un segno di riconoscimento. Il s. ha tratto dall’evoluzione di tale funzione pratica una funzione rappresentativa, configurante lo stare al posto di, che da una parte lo avvicina al segno, a tal punto da esserne talvolta assimilato, e dall’altra lo oppone a esso. In quest’ultimo caso, mentre il segno combina convenzionalmente qualcosa con qualcos’altro, il s., richiamando la sua parte corrispondente, rimanda a una particolare realtà non determinata dalla convenzione, bensì dalla ricomposizione delle parti. Al di là della filosofia, della teologia e dell’antropologia, in cui il s. è un tema centrale, largo è l’impiego di tale concetto da parte della psicoanalisi e soprattutto della psicologia analitica.[/blockquote](dizionario di scienze psicologiche).

 

L’attività simbolica è un’opera di sostituzione tra ciò che è assente e ciò che invece è disponibile, un mezzo di rappresentazione per contenuti inaccessibili, velati e svelati da materiale accessibile, e soprattutto è un processo di sintesi tra due sistemi che altrimenti, cognitivamente, rimarrebbero scissi: significante e significato.

Come sostiene Umberto Fontana:

[blockquote style=”1″]La dinamica del simbolo sostiene tutti i processi del pensare: sostiene la codifica della sensazione (la percezione organizzata), permette il formarsi delle sequenze di contenuti provenienti dall’esterno, mantiene la memoria, media la rielaborazione astratta e la formazione dei concetti, collega il pensiero individuale ai contenuti del sociale (la cultura).[/blockquote](U. Fontana, 2011, pp. 22).

Quello che ancora non sembra chiarito completamente è il perché strutturale di questo sofisticato processo mentale di sostituzione e sintesi. Bisogna davvero comprendere le ragioni per cui così tanti contenuti mentali non sono rappresentabili per sé stessi e quindi non sono cognitivamente disponibili alla coscienza, al punto di attivare quella precisa funzione evolutiva del simbolico.

Conosciamo la risposta della psicoanalisi: la simbolizzazione è la funzione primaria affidata alla censura.

Inevitabilmente, in L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899), Freud nel sesto capitolo parla del contenuto onirico manifesto come di una traduzione di una scrittura a geroglifici che va decifrata per poter giungere al contenuto latente e insiste sulla necessità di oltrepassare il segno per accedere al contenuto originale. Il processo di simbolizzazione quindi consentirebbe di escludere dalla coscienza determinati fatti connessi a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con altre esigenze psichiche. Il processo rimotivo però, non è sistematizzabile all’interno dell’intero corpus freudiano se non al prezzo di qualche tollerante piccola incoerenza come questa: il materiale rimosso non smette mai di operare, esso si manifesta in forme diverse dal suo contenuto, più distorte e lontane quanto più è forte la resistenza, accrescendo la connotazione emotiva relativa a tali esperienze (Freud 1938). Ci sarebbe molto d’approfondire e non è affatto così scontato immaginare una natura che elabori strategie per allontanare il dispiacere escogitando meccanismi di difesa che poi però…non funzionerebbero come vorrebbe; un rimosso non rimosso, una censura che galleggia, che non urla la verità è vero, ma neanche tace come la censura dovrebbe fare!

Il pensiero simbolico trova una sua spiegazione anche alla luce di teorie moderne come ad esempio il famoso sistema del codice multiplo TCM, che pur affondando ancora le sue radici in concetti psicoanalitici, parallelamente ne tenta un superamento tramite il modello delle scienze cognitive. Esistono, secondo questo modello teorico (Bucci 1997), tre modalità di base in cui gli esseri umani elaborano le informazioni e ne costruiscono rappresentazioni: modalità subsimboliche (risposte fisiologiche automatiche generate da singole unità prive di significato) simboliche non-verbali e simboliche verbali, connesse tra loro da quello che la Bucci definisce processo referenziale. La nozione di simbolo è qui definita in senso generale come elaborazione dell’informazione (Fodor e Pylyshyn, 1988), le funzioni simboliche non verbali sono immagini mentali di esperienze provenienti da canali sensoriali differenti. Il linguaggio poetico ad esempio:

[blockquote style=”1″]Comprende e riassume in sé quasi tutte le forme di comunicazione verbale e non verbale, evoca forme, colori, immagini, odori, è dotata di un ritmo come la musica e anche questo ha a che fare con la corporeità.[/blockquote](G. Bosco 2015).

Da questa prospettiva appare più facile osservare la differenza tra un processo di simbolizzazione sano e uno patologico, che all’interno della psicoanalisi classica non è del tutto comprensibile. Infatti la teoria del codice multiplo vede i simboli come pacchetti contenenti tante unità e sub unità operative e questi pacchetti sono opere di significazione attraverso cui il soggetto attribuisce senso al proprio vissuto grazie a un atto sintetico e unitario in cui si risolve tutto il molteplice sensoriale. Se le cose stessero così, non solo il meccanismo di difesa comincerebbe ad apparire una premessa superflua, ma ci si ritroverebbe dinnanzi a una simbolizzazione univoca, inevitabile e sana, mentre il disturbo sarebbe imputabile non tanto a un processo simbolico bensì a una rottura, una dissociazione tra significante e significato, dove alcune emozioni non troverebbero una spiegazione e rimarrebbero indicibili fino alla successiva fase di una risignificazione che però sarebbe parziale e incompleta ( ad esempio la somatizzazione).
La Bucci fa un importante passo scientifico avanti: riesce, con la TCM, a spiegare la simbolizzazione senza il ricorso del meccanismo di difesa, ma quest’ultimo non è ancora eliminato dalla spiegazione, viene solo trasferito dal processo di simbolizzazione a quello della dissociazione, cioè il simbolico non è inconscio rimosso, ma la dissociazione e l’incapacità di significazione lo sono oppure no?
Si diceva…se le cose stessero cosi, ecco che resterebbero comunque aperte in ogni caso delle domande:

  1. A quale precisa funzione cognitiva ed evolutiva assolve specificatamente il processo di simbolizzazione?
  2. Perché e secondo quali modalità tali esperienze emotive sono inaccessibili alla memoria?
  3. Perché e come, al contrario, porzioni di realtà vissuta, vengono dissociate dall’io?

Dalla prospettiva del presente testo, è prioritaria la risoluzione della prima questione.

Le teorie della Bucci oltre che spiegare come il mentale implichi l’integrazione di diversi sistemi organici e cognitivi, non sembra approfondire del tutto la fase del simbolico non verbale. Infatti, a prescindere dalla TCM, risulta evidente esserci un’ulteriore demarcazione all’interno di questo processo: c’è una differenza significativa tra le rappresentazioni comuni denotanti direttamente la realtà (l’immagine del sole per indicare il sole, l’immagine della casa per rappresentare la casa ecc.) e quelle che invece sono rappresentazioni simboliche sostitutive (l’immagine del sole che denota indirettamente la forza, o l’immagine della casa che rappresenta la sicurezza).

Queste ultime sono proprie del simbolismo onirico, o dei fenomeni espressivi quali l’arte, la religione o più in generale la cultura e mentre il primo tipo è spiegabile come processo intermedio, essenziale alla successiva categorizzazione linguistica, il secondo appare come una funzione indipendente che non necessita di essere concettualizzata. Perché, ad esempio, nelle fasi oniriche del sonno, posso sognare un sole enorme e luminosissimo senza giungere coscientemente alla concettualizzazione di forza, energia, felicità? Perché nel sogno, il simbolico non verbale non si completa del tutto nel simbolico verbale e la coscienza preferisce restare nel limbo delle immagini?

Anche in questo caso Wilma Bucci ci offre un tentativo di spiegazione, chiarendo che esistono entità prive di etichette disponibili, come ad esempio una certa sfumatura di colore, o certi processi subsimbolici come i pattern di attivazione viscerale e somatica, Questi ultimi possono essere elaborati solo grazie al fatto di essere connessi in prima istanza alle immagini specifiche del livello non verbale, come è evidente nel potere delle metafore poetiche di evocare emozioni che sorgono da tali connessioni; inoltre il processo referenziale da lei teorizzato è bidirezionale, cioè non va solo dal subsimbolico al verbale ma compie anche la direzione opposta, a partire da categorie concettuali si forniscono rappresentazioni che a loro volta influiscono su singoli pattern sensoriali, generando dunque ulteriori effetti di feedback, ma con una sostanziale differenza: le connessioni referenziali dal sistema verbale a quello non verbale sono più indirette e parziali per termini astratti e generali come verità, bellezza, giustizia, postmodernismo, epistemologia. Il significato di queste parole astratte e categoriali deriva dalle connessioni con altre parole nell’ambito delle gerarchie logiche del linguaggio e può essere connesso con le rappresentazioni non verbali solo indirettamente, quando ci si riesce, attraverso connessioni con le parole concrete e specifiche all’interno delle gerarchie verbali. Ecco perché diventa utile fornire esempi quando si presenta del materiale astratto. (Bucci 1984). Da qui la comprensione del valore sostitutivo dell’immagine, che non denota il concetto se non per somiglianza e analogie.

In sintesi, il modello del sogno secondo la teoria del codice multiplo è questo (Bucci 1999, Bellavia 2007):

modello del sogno teoria del codice multiplo

Tuttavia, potrebbe trattarsi di un modello parziale, non del tutto soddisfacente, poiché le ultime fasi (3 e 4) non sono in rapporto di continuazione diretta con le prime, si attivano solo in fase di veglia, e la coscienza onirica e quella ordinaria sono due sistemi di riferimento ben distinti seppure in connessione. Infatti i contenuti onirici che vengono verbalmente elaborati sono solo quelli dell’ultima fase del sonno prima della veglia e di cui il soggetto conserva quindi un ricordo; si tratta di un processo referenziale incompleto in cui innanzi tutto è necessario troppo tempo affinché ci sia il passaggio dal simbolico al concettuale e infine i due livelli risultano spezzati e separati, ognuno è chiuso nel relativo stato di coscienza a sé consono con i propri valori di riferimento, non convertibili del tutti da un sistema all’altro.

Si crede dunque, che il simbolo non sempre necessiti di un’elaborazione verbale per assolvere alle sue funzioni energetiche e cognitive, poiché potrebbe essere visto esso stesso come un’elaborazione autosufficiente ed esaustiva e, il processo referenziale potrebbe completarsi già a un livello puramente rappresentativo e iconico. In sintesi, non necessariamente bisogna recuperare il presunto contenuto originario indisponibile a cui rimanda un’immagine sostitutiva, dato che la sostituzione simbolica, se ben fatta, può da sola produrre un senso compiuto. Si pensi al valore intrinseco di una canzone, di una poesia, di un’opera d’arte o di un rituale religioso: si tratta di processi creativi non convertibili del tutto in schemi razionali e che se trasferiti sul piano concettuale perderebbero gran parte del loro valore emotivo.

Simboli e immagini come scorciatoie. L’euristica cognitiva

A questo punto occorre chiedersi quale potrebbe essere questa specifica funzione cognitiva di cui si è accennato fin ora e l’idea qui proposta tenta di giustificare la tendenza psicologica al simbolico, facendo riscorso all’idea di euristica illustrata da Kahneman in seno al cognitivismo evoluzionistico (Kahneman, trad. it., Serra 2012).

Le euristiche sono strategie acquisite dal cervello nel corso dell’evoluzione, esse agiscono visceralmente nel pensiero grazie alla funzione intuitiva che pur non fornendo al soggetto, risposte precise ed ottimali come invece è in grado di fare la funzione analitica, possiede un enorme vantaggio in termini di costi e benefici: permette un problem solving molto rapido in cui viene generata una risposta non ottimale ma abbastanza sufficiente e adeguata a risorse limitate, per arrestare il processamento d’informazioni, risparmiando quindi considerevoli costi in termini di tempo ed energia.

L’euristica cognitiva funziona per mezzo di un sistema chiamato sostituzione dell’attributo, che avviene senza consapevolezza. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso da un punto di vista inferenziale, risulta essere sostituito da un’euristica che è un concetto affine a quello precedente, ma formulato più semplicemente. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo e funzionano come una scorciatoia mentale permettendo di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria
 (Kahneman e Frederick, 2002).

Kahneman non affronta direttamente i processi di simbolizzazione, poiché le euristiche sono descritte come schemi mentali generali, non ascrivibili direttamente al modello psicoanalitico, incentrato invece sul valore specifico dei significati creati da un inconscio mitopoietico. Così, da un lato ci troviamo immersi nel suggestivo mondo della psicologia classica, fatta di archetipi, paure tormenti ed eroi, dall’altro, cominciamo a conoscere i macchinosi processi cerebrali, molto più controllabili degli assiomi psicoanalitici, meno inquietanti, ma con l’ovvio problema di essere strutture vuote a cui è difficile attribuire un senso e un significato. L’obiettivo è quello di favorire l’incontro tra il paradigma cognitivo dell’elaborazione dati e quello psicoanalitico (o meglio, estetico) della creatività simbolica, dimostrando che quest’ultima può essere considerata proprio una modalità euristica utile dal punto di vista del costo energetico e cognitivo dell’organismo. Kahneman pur non parlando esplicitamente di simboli, distingue due sistemi cognitivi: quello analitico, pigro, lento ma tendenzialmente preciso, e quello intuitivo che è fulmineo, spesso molto produttivo ma non garante di esatta informazione (Kahneman, trad. it Serra 2012).

Già a questo primo livello di spiegazione è facile intravedere una certa somiglianza di famiglia tra la proprietà simbolica e la categoria mentale dell’intuitivo. Inoltre egli definisce le euristiche così:

  • escamotage di accesso alle informazioni in memoria
  • tecniche di sostituzione
  • sistemi emotivamente carichi
  • schemi che fanno uso di memoria associativa in cui l’informazione ignota viene sostituita da una disponibile che ne è affine per rappresentazione e similarità

Si tratta di definizioni che lasciano ben pochi dubbi riguardo alla compatibilità tra le euristiche e le simbolizzazioni, in quanto tutte le citate proprietà sono attribuibili anche a quest’ultime.

Persino nelle teorie sulle euristiche della matematica di George Poyla si legge di uno stretto legame tra il problem solving e la rappresentazione (Pòlya 1975):

  • Provare a fare un disegno quando si ha difficoltà nel comprendere un problema
  • Provare ad esaminare un esempio concreto nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un problema molto astratto

(torna anche qui il discorso su l‘immagine)

L’euristica ha come caratteristica principale la rapidità di esecuzione e si vuole sostenere in queste pagine che anche la simbolizzazione sia una un’euristica e che la funzione sia la stessa: risparmiare tempo, velocizzando l’elaborazione dell’informazione che se non fosse simbolica ma concettuale richiederebbe costi maggiori in termini temporali. Per fare un esempio, la media delle fasi oniriche vissute in una notte è di 112 minuti (Jovanović U. J,1975) e ogni fase REM dura in media 20 minuti, senza addentrarci in questioni neurobiologiche immaginiamo che l’elaborazione dati nella fase onirica non superi una certa soglia temporale e che questa soglia potrebbe essere relativamente piccola.

Un individuo vive una vita frustrante, condizionata dalle aspettative altrui, una vita che fatica a essere autonoma, il signor x si sente sottomesso e vorrebbe sentirsi finalmente libero.

Quante emozioni! Tutte messe al punto giusto e sistematizzate in un’espressione coerente. Però, una proposizione, un pensiero più o meno articolato, è formulabile in tempi più ampi rispetto alle immagini e al linguaggio metaforico, insomma appare uno scarto tra la breve intensità di una sensazione e la lunga successiva concettualizzazione, uno scarto compensabile solo con il simbolo:

Mi sento immobilizzato da catene di ferro mentre io sto qui e sogno di volare.

Prima si faceva l’esempio del sole come metafora di forza. C’è un modo altrettanto veloce di spiegare cosa è la forza?

Energia fisica, vigore, capacità di resistenza, sopportazione, determinazione. Si tratta a loro volta di categorie così astratte che per essere comprese necessitano il rimando a ulteriori enti linguistici:

Energia: efficienza psicofisica

ma che vuol dire efficienza? Che vuol dire psicofisico?

Resistenza: saper contrastare determinati effetti

Ma il contrasto a sua volta è un’opposizione ecc.

In tutti questi casi il passo dal concetto alla sensazione denotata implica fasi molto lente, in cui il contenuto emotivo con il tempo rischia di essere troppo diluito.

Sole = forza

Sintetizza in un solo atto informativo il modo in cui mi sento: non mi sento efficiente, mi sento proprio forte come la luce del sole!

Quest’idea sull’utilità cognitiva della rappresentazione simbolica, può fare luce anche sulla comprensione terapeutica delle emozioni: dichiariamo di soffrire per un motivo ed etichettiamo questo motivo con un concetto.

Possiamo immaginare una semiretta in cui sono disposti via via dei termini e in cui gradualmente si passa  da parole con un referente diretto ad altre più astratte. Maggiore è la probabilità di accesso a termini concreti (attivati più direttamente da precisi circuiti sensoriali e quindi passibili di una rappresentazione meno simbolica), maggiore è la possibilità che la sofferenza sia innescata da quel motivo; mentre, inversamente, maggiore è la tendenza all’astrazione concettuale, più diventa alto il rischio di un’informazione erronea e di un motivo illusorio. Quest’ultimo infatti, implica rappresentazioni sostitutive per analogie e le seguenti simbolizzazioni risulterebbero compatibili con diversi schemi cognitivi, la causa reale sarebbe quella che ha un rapporto più diretto con l’immagine.

Un conto è credere di stare male per aver vissuto un abbandono, un altro è convincersi di stare male per un mancato riconoscimento professionale. La seconda categoria è molto più sfumata, è rappresentabile in mille modi diversi, è relativa alla cultura di riferimento ed è scomponibile fino al recupero di altri bisogni più specifici: autoaffermazione-identità- autostima- attaccamento.

A questo punto non solo si può finalmente dare forma alla sensazione iniziale ma si può anche capire che la frustrazione non era realmente imputabile alla professione. Semplicemente questa era un frammento segnico, un’interpretazione di significato parziale in cui si è investita l’intera esperienza interiore.
Tempistica quindi, come fattore determinante nello spiegare i processi cognitivi relativi al lavoro sulle informazioni, sul problem solving e dunque anche sulle rappresentazioni simboliche, intese come strategie informative e veloci.

Per quando riguarda le due problematiche successive (contenuti inaccessibili alla memoria e dissociazione), esse rimanderebbero a spiegazioni approfondite e a ricerche specificatamente cliniche che in seno a queste pagine e in base alle conoscenze fin ora ottenute, non è il caso di ampliare. Si propone comunque un abbozzo di ipotesi, con l’invito di approfondire ulteriormente tale modello per mezzo d’indagini sperimentali.

Rimozione o memoria implicita? L’impossibilità di verbalizzare e catalogare consciamente dati emotivi non categoriali

Ritorniamo alla seconda domanda che ci eravamo posti: Perché e secondo quali modalità, alcune esperienze emotive sono inaccessibili alla memoria? Si tratta di una risposta per niente esoterica all’interno delle scienze psicologiche, una teoria già da tempo riconosciuta, si è deciso di illustrarla (brevemente) solo per chiamarla a testimoniare contro il meccanismo di difesa e utilizzarla come argomento contro di esso.

La teoria sulle due memorie, esplicita (dichiarativa, conscia, consapevole) ed implicita (procedurale, corporea, automatica, inconsapevole), riesce da sola a fronteggiare la questione poiché è chiaro che non ricordare un evento non significa averlo rimosso ma vuol dire essere sprovvisti di memoria dichiarativa per accedere a quel contenuto, mentre però, il contenuto è presente ugualmente alla memoria, esiste, ma solo per mezzo del fattore mnemonico implicito.

Un arricchimento ulteriore della questione proviene dai contributi di Mauro Mancia che in Psicoanalisi e Neuroscienze spiega come le due memorie si sviluppino in fasi evolutive differenti e che mentre quella implicita è posseduta dalla nascita, la seconda si attiva dopo i due anni di vita. Dunque, la memoria precoce non è collegata in nessun modo alla rimozione seppur condizionante l’intera vita futura dell’adulto (Mancia, 2007).

Si obbietterà che la seguente ipotesi riesce a spiegare solo l’evento infantile, non recuperato consciamente dall’adulto ma cosa ne è delle esperienze traumatiche vissute in età matura e comunque non recuperabili consapevolmente? Già con Le-Doux nel 1996 possiamo provare a rispondere e anche in questo caso possiamo fare a meno del processo rimotivo: l’evento spiacevole o meglio l’evento emotivamente intenso, sarebbe in ogni caso mediato prima dalla memoria implicita. La valutazione di uno stimolo esterno o interno ad un trauma, sarebbe valutato prima dall’amigdala (coinvolta nella memoria implicita) rispetto all’ipotalamo (coinvolto nella memoria esplicita), si tratterebbe di una valutazione rapidissima e grossolana ( anche questa può essere letta come conferma del legame tra tempo, velocita e simbolico) e ciò comporta che la persona sia portata a rispondere in modo condizionato prima che possano intervenire modalità di controllo più raffinate come quelle corticali (LeDoux, 1996).

Dissociazione e abito mentale appreso

Ricapitolando, il modello fin qui esposto ha illustrato:

  • come il vissuto psicologico non accessibile alla coscienza, non sia implicato da nessun meccanismo di difesa, ma piuttosto da un dislivello fisiologico tra i fattori emotivi e quelli razionali, dove essendo i primi a predominare, è inibita gran parte della memoria esplicita
  • come di fronte all’impossibilità del ricordo cosciente siano possibili due modalità opposte di reazione, una vantaggiosa e l’altra no, simbolizzazione o dissociazione

Da cosa deriva la scelta di intraprendere una via e non l’altra? Abbiamo visto che con la Bucci il simbolo non scaturisce da rimozione ma il dissociato si, la risposta consueta sarebbe quindi che la scelta sia dettata dalla specifica resistenza che si metterebbe in atto.

In queste ultime pagine si cercherà di rispondere in modo alternativo all’ultimo quesito, debellando completamente dalla spiegazione tutti i resti mitici della difesa freudiana anche per il caso della dissociazione.

La prima considerazione da fare è che nell’elaborazione simbolica, nonostante l’impossibilità d’accesso al contenuto originario, è possibile l’accesso alla connotazione emotiva suscitata da tale contenuto; non si riconosce il fatto ma si riconosce l’emozione (che ne è l’aspetto primario ai fini dell’elaborazione psicologica), l’emozione è trasferita in rappresentazioni simboliche a lei consone, che le permettono l’adeguato sbocco energetico.

La dissociazione al contrario, sembra essere manchevole di questo tono emotivo, essa si caratterizza anzi, per essere emotivamente più neutra mentre invece è più densa di esperienze percettive primarie, non ancora elaborabili come emozioni (da qui la malattia psicosomatica), e non a caso, il disturbo di alessitimia (incapacità di riconoscere emozioni) è ampiamente connesso con il disturbo dissociativo somatico (Bucci 1997).

La menomazione emotiva non può essere simbolizzata, ma da cosa deriva? L’idea che si vuole sostenere parte dalla premessa del codice multiplo: Ogni esperienza psicologica è una sintesi tra diversi stimoli sensoriali inizialmente separati e lavorati da organi diversi.

Ora, s’immagina che tra questi stimoli, alcuni suscitino reazioni emotive forti e immediate, per esempio secondo LeDoux, gli stimoli mediati dall’amigdala, cioè quelli emotivamente carichi, sono percepibili prima che si attivino sistemi di controllo più raffinati (come quelli corticali) e prima ancora che venga portata a termine l’attività percettiva (LeDoux 1996). Da questa prospettiva sembra che moduli emotivi, moduli razionali e moduli sensitivi (per intenderci, quelli più propriamente subsimbolici), anche se in connessione, restano sistemi separati e abbastanza autonomi.

D’altro canto tra le varie unità sensoriali costituenti l’esperienza, alcune sono invece più specificatamente fisiche, percettive e sensitive a un livello più grossolano rispetto ad altre unità, e in questo caso l’elaborazione emotiva dello stimolo, appare mediata di molto da sensazioni fisiche primarie che attirano l’attenzione del soggetto maggiormente verso il corpo che verso la mente.

L’ipotesi è che non tutti i traumi siamo ematogeni, sembrerebbe un paradosso ma si vuol credere che un vissuto sia significativo per la persona anche se sprovvisto di carica emotiva.

Un trauma emotivamente intenso potrebbe essere quello provocato da stimoli sopraggiunti all’improvviso, verso cui l’individuo non può avere controllo e la reazione emotiva è scatenata prima ancora di percepire sensazioni fisiche. Un urlo improvviso mentre dormo, un terremoto, un pestaggio, tutto ciò che inneschi un’interpretazione immediata di fuga, pericolo ecc. Si tratta di esperienze a cui il soggetto non è abituato e a cui è costretto a rispondere emotivamente per interpretare cognitivamente segnali non riconosciuti.

Non tutti i traumi presentano queste proprietà. Alcuni non sono imprevedibili, non subentrano in modo violento e intenso, sono stimoli che vengono ripetuti nel tempo al punto che la persona li riconosce come familiari aspetti della sua quotidianità (nonostante l’elemento patogeno da cui sono connotati). Ripetuti abusi sessuali vissuti da un bambino da parte di un caregiver, ripetuti episodi di violenza… sono tutti casi in cui la componente emotiva è decisamente piatta, componente che si attiverebbe sono per innescare segnali di riconoscimento e che in queste circostanze sarebbe superflua poiché la persona, ormai abituata, riconoscerebbe il modello traumatico come normale.

Assenza di emozioni però, non vuol dire assenza di stimolazioni fisiologiche; l’esperienza in sé resterebbe comunque composta da stimoli sensoriali percepiti direttamente dal corpo e questi a differenza delle emozioni, restano esattamente dove sono entrati: nel corpo. Le percezioni non sono convertibili da una rappresentazione simbolica all’altra, solo le emozioni hanno questo vantaggio, da qui il motivo per cui le emozioni sono elaborabili positivamente con i simboli, mentre le percezioni fisiche restano relegate all’organico, incatenate al corpo e dissociate negativamente dalla mente.

L’assenza delle emozioni quindi, anche qui, non sarebbe imputabile a un meccanismo di rimozione bensì alla caratteristica tipica di alcune esperienze che sebbene traumatiche, si sarebbero infiltrate in modo così subdolo nella vita del soggetto che alla fine questo ci si sarebbe perfettamente abituato; e tali esperienze connotate più dal percettivo che dall’emotivo, non troverebbero altra via se non nella dissociazione.

Ecco presentata un’ipotesi di spiegazione alle problematiche connesse al fenomeno della rimozione, un’ipotesi primariamente basata sui processi di simbolizzazione intesi non più come maschere ma come euristiche necessarie a velocizzare i tempi di elaborazione cognitiva. L’assenza di memoria non più come rimozione ma come impossibilità di recuperare razionalmente vissuti emotivi che non hanno natura razionale; dissociazione non come difesa ma come risposta organica a eventi che essendo famigliari non innescano reazioni emotive intense, restano impressi solo nel codice corporeo non trasferibile in codici differenti.

A casa tutti bene (2018) di Gabriele Muccino – Recensione del film

A casa tutti bene è il titolo del nuovo film diretto da Gabriele Muccino, uscito da pochi giorni nelle sale cinematografiche italiane, forte di un cast corale che vede nomi come quello di Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Massimo Ghini, Giammarco Tognazzi, Stefania Sandrelli e Claudia Gerini.

A casa tutti bene: una famiglia costretta su un’isola

Alba e Pietro festeggiano le loro nozze d’oro e invitano figli e nipoti su questa loro isoletta volutamente a parer mio utilizzata come chiave simbolica. Il programma come per tutte quelle occasioni di festeggiamento implicitamente imposte da questa nostra società è cerimonia, pranzo e ritorno.  Il traghetto però, causa mal tempo, non riesce a riportare indietro gli invitati costringendoli a rimanere sull’isola; questo mette in moto forti emozioni e costringe gli ospiti a far fronte a scomode verità. Le buone maniere crollano, gli atteggiamenti di circostanza cedono, gli altarini si scoprono, il tutto in uno stile Mucciniano tornato finalmente alle origini. Isterico e nevrotico, ma non troppo, il tema portante del film è la famiglia ed i valori che essa rappresenta.

Paragonando la famiglia ad un palcoscenico, è facile rendersi conto di quanti ruoli è possibile giocare al suo interno, anche in funzione del suo tempo ciclico che permette l’intrecciarsi e il susseguirsi di vite diverse, nonché l’alternarsi delle generazioni.

I modi e le strategie per vivere insieme sono molteplici, ma ognuna fa capo al particolare momento di ciclo vitale che si sta vivendo: lo svincolo dalla famiglia d’origine e la decisione di crearsi una propria famiglia, la vita di coppia, la nascita dei figli, le cure per la loro crescita, l’allontanamento dei figli, di nuovo la vita di coppia ma nella condivisione della vecchiaia.

Sono tutti momenti questi in cui l’assetto di base della struttura familiare deve essere riformulato, momenti di “crisi”, dove si rende necessaria la rielaborazione delle regole e dei confini al suo interno per ripristinare l’equilibrio delle relazioni e dei ruoli.

A casa tutti bene: coppie di ieri e di oggi a confronto

Come seguire le regole del ciclo della famiglia se questo ciclo oramai è diverso? Arricchito, deprivato, svalutato, il ciclo della famiglia non segue più rigidamente queste regole, questo ciclo di vita, e nel film il tema è ampiamente trattato, da più punti di vista.

Lo stampo tradizionale è raccontato da Alba e Pietro che festeggiano le loro nozze d’oro e invitano i tre figli e i diversi nipoti. Sono benestanti, sono solidali tra loro, sono belli da vedere, mentre cercano in ogni modo di sorreggere i figli ormai adulti, ormai apparentemente formati, in quelle situazioni anomale che loro non comprendono, o meglio, che loro magari hanno affrontato diversamente, avendo vissuto con i principi della coppia tradizionale. In quelle vecchie coppie ci si rifugia, si trova certezza, conforto, forza. Coppie da ammirare, che sono state brave a tener duro insieme, a non far trapelare mai il sicuro momentaneo cedimento. Può sembrare che queste coppie non abbiano subito mai paure, rabbia, noia, tradimenti e invece certo che hanno subito, ma hanno continuato a costruire anche nelle difficoltà. Costruire richiede costanza, costruire è mettere in conto che qualche volta qualcosa si può rompere, costruire è pazienza, chi crede nel voler costruire va avanti e nei cedimenti trova risorse per migliorare, fortificare. Costruire è amare sempre e comunque quella persona, perché si sceglie di continuare a farlo, nonostante tante cose.

Carlo, Paolo e Sara invece? I tre figli che da una coppia cosi solida avrebbero dovuto trarre esempio che cosa ci raccontano? Ci raccontano la modernità generazionale portando non pochi spunti di riflessione.

Carlo con la sua doppia famiglia tutta al femminile. Paolo, artista, libertino, un po’ zingaro e dedito solo a se stesso. Sara: apparentemente inserita in un contesto famigliare tradizionale ma tradita, consapevolmente, dal marito.

A casa tutti bene: cosa offre la famiglia moderna

Quanto è difficile di questi tempi perseguire e mantenere un valore così importante come quello della famiglia? E’ un valore fondamentale da cui scaturiscono tutte le nostre diverse particolarità di vita, che ci condiziona, soprattutto nella costruzione della nostra identità.

Il ciclo di vita della famiglia come accennato è in continuo riassestamento. Nella famiglia tradizionale la condizione fondamentale per l’attuazione del cambiamento e il raggiungimento del nuovo equilibrio risultano essere l’elasticità, la non rigidità delle regole e delle relazioni e la facoltà di riformulare i ruoli; si tratta di armi a doppio taglio, soprattutto oggi e soprattutto in quelle famiglie dove i ruoli sono altresì fragili e confusi. Il conflitto invece? E’ un altro elemento chiave da un punto di vista evolutivo per la famiglia, gioca un ruolo cruciale. Saperlo gestire risulta più difficile del suo superamento, soprattutto nelle famiglie “modificate” che non devono cedere a sensi di colpa o all’opposto a ferrea rigidità, in quanto portatore di nuovi elementi della costruzione del sé.

Muccino descrive la famiglia e lo fa senza troppi fronzoli, siamo una generazione confusa, troppo libera, dove il venir meno di una buona e marcata definizione di ruoli ha degradato calore e conforto. Ognuno di noi proietta nel proprio desiderio di famiglia molte cose, desideri agli antipodi alle volte. Chi ha vissuto nella tradizione necessità di libertà, chi in una famiglia allargata ha desiderio di tradizione.

Paolo dice alla mamma “Vorrei solo avere una vita normale”, Alba lo conforta, gli risponde “ Le vite normali non esistono” e se la frase arriva da una figura cosi tradizionale, possiamo ancora ben sperare.

A CASA TUTTI BENE – IL TRAILER

L’aborto non è causa di depressione

Da tempo gli studiosi cercano di capire il rapporto tra aborto e salute mentale delle donne, specialmente per quanto riguarda la depressione. È un tema di salute psicologica delle donne che viene sempre più spesso usato a scopi sociali e politici.

 

Secondo un recente studio pubblicato dal JAMA Psychiatry, che ha visto la partecipazione di quasi 400.000 donne, subire un aborto non aumenta il rischio di depressione. Nonostante la recente letteratura scientifica abbia dimostrato come l’ aborto non influisca negativamente sulla salute mentale delle donne, continuano ad essere pubblicati articoli che dichiarano il contrario, giustificando così le diverse politiche pubbliche degli Stati Uniti che limitano l’accesso all’ aborto.

Aborto e depressione: c’è una relazione?

La Dott.ssa Julia R. Steinberg, della University of Maryland School of Public Health, e colleghi, allo scopo di comprendere meglio che tipo di relazione intercorra tra l’ aborto e la salute mentale delle donne, hanno analizzato dati di donne danesi nate tra il 1980 e il 1994. I dati includevano informazioni riguardo gli aborti, le nascite e le prescrizioni di antidepressivi. È il primo studio che indaga la relazione tra aborto ed assunzione di antidepressivi (Steinberg et al., 2018).

Dalla ricerca emerge come, tra l’anno precedente all’ aborto e quello successivo, non risultano esserci differenze nell’assunzione di antidepressivi. Inoltre sembrerebbe che in seguito all’ aborto, con il trascorrere del tempo ci sia una diminuzione nell’uso di antidepressivi.

La presenza di un maggiore rischio di depressione per le donne che hanno abortito rispetto alle donne che non l’hanno avuto è contestato dalla Dott.ssa Steinberg, la quale sostiene che il rischio è lo stesso sia prima che dopo l’ aborto, ed il maggior utilizzo di antidepressivi non è dovuto all’ aborto, ma a problemi di salute mentali preesistenti o altre esperienze avverse.

Aborto e depressione: l’informazione negli Stati Uniti

Secondo il Guttmacher Institute, in almeno otto paesi degli Stati Uniti vengono divulgate informazioni riguardo all’ aborto che ne enfatizzano gli aspetti psicologici negativi.

In ben 27 stati, viene chiesto alle donne di aspettare un determinato periodo di tempo, che va dalle 24 alle 72 ore, tra il momento in cui ricevono una consulenza e il momento in cui decidono di abortire, spesso con la giustificazione che l’ aborto può danneggiare la salute mentale.

Visto il numero crescente di leggi emanate negli Stati Uniti per limitare l’ aborto, i risultati dello studio “Examining the Association of Antidepressant Prescriptions With First Abortion and First Childbirth” (Steinberg et al., 2018) forniscono importanti evidenze che potrebbero essere di grande aiuto per lo sviluppo di nuove politiche.

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori?

I comportamenti aggressivi dei bambini in età scolare, soprattutto nelle società occidentali, costituiscono un problema a più livelli, sia per la problematicità del comportamento stesso e della sua gestione, sia a lungo termine, per il fatto che i “bambini aggressivi” presentano più frequentemente difficoltà relative al rendimento scolastico (Rubin et al., 1998) e alle competenze sociali, con conseguenze che si ripercuotono negli anni, come lo sviluppo di comportamenti criminali, l’abuso di sostanze e comportamenti che mettono a rischio la propria salute e incolumità fisica.

I comportamenti aggressivi dei bambini

Ma in cosa consiste esattamente un comportamento aggressivo e come si differenzia da altre forme di condotte problematiche come, per esempio, quelle antisociali? Si può generalmente affermare che l’aggressività viene considerata come sotto-categoria del più ampio comportamento antisociale (Coie & Dodge, 1998). In particolare, scale che misurano i comportamenti aggressivi nei bambini includono la disobbedienza alle insegnanti, inventarsi storie mai accadute e mentire, mettersi nei guai, attuare comportamenti che infastidiscono gli altri e iniziare uno scontro sia fisico che verbale con i compagni.

In generale, per considerare aggressivo un comportamento, il bambino deve agire con l’intenzione di creare disagio agli altri – sia ai pari che agli adulti; anche se spesso questi atteggiamenti vengono segnalati dalla scuola primaria, numerose ricerche longitudinali hanno mostrato che l’insorgenza di comportamenti aggressivi si collochi addirittura in età pre-scolare (Loeber & Stouthamer-Loeber, 1998): uno studio longitudinale di Trembley (1999) nel Quèbec che ha considerato tali problematiche in ragazzi fino ai 17 anni, indica che l’80% degli adolescenti considerati aggressivi, aveva mostrato una qualche forma di aggressività già prima dei 2 anni di età, secondo quanto riportato retrospettivamente dalle madri.

Comportamenti aggressivi in adolescenza

Che cosa succede allora in adolescenza, quando oltre il 40% di questi bambini vengono segnalati dalla scuola per la prima volta, rendendo consapevoli i genitori di tale problema? La risposta è semplice: succede che questi bambini, oramai cresciuti, iniziano a mettere in atto comportamenti fisicamente violenti o rischiosi per sé e per gli altri con intenzionalità e in maniera eclatante. Questo dato ha una grande importanza dal punto di vista clinico e della prevenzione, per la credenza ancora diffusa di sovrapporre l’aggressività alla violenza fisica e alla “serietà” del comportamento aggressivo: per chiarire, se un bambino della scuola materna ripetutamente risponde male alle maestre o dà un pizzicotto ai compagni, verrà più facilmente giustificato o non considerato propriamente aggressivo. Questo è dovuto a un errore negli adulti di ignorare tutti i segnali “aggressivi” del bambino più piccolo giustificandoli come “non intenzionali”, “non gravi”, “senza la volontà di fare davvero del male” e di sottovalutare tutte le forme di aggressività non fisica, come quella verbale o indiretta (Cynader & Frost, 1999). Come a dire: se una mamma riceve uno schiaffetto dal suo bimbo di 5 anni o se riceve un “no” deciso, non lo considererà comportamento aggressivo perché, nella mente del genitore, il piccolo “non sa quel che fa”, mentre il discorso è diverso se ad alzare le mani o ad opporsi è un ragazzino di 12 anni.

Quali sono allora le cause di questi comportamenti, che ruolo giocano i modelli, la società e la famiglia in tutto ciò? Anche se rimane indubbiamente vero che l’esposizione a modelli violenti sia nei mass media che nel mondo reale rappresentano una parte centrale nel creare una struttura cognitiva ed emotiva nel bambino favorevole allo sviluppo e al mantenimento di comportamenti aggressivi (Huesmann, 1998), il ruolo chiave ce l’hanno sempre i genitori. Ebbene sì. Sembrerebbe che ancora una volta la “colpa” o, meglio, la responsabilità di tutto ciò, cada su mamma e papà.

Aggressività nei bambini e comportamenti aggressivi: il ruolo della famiglia

In questa seconda parte vedremo in che modo e perché lo stile genitoriale influisce direttamente sul comportamento aggressivo dei figli. Anche se il luogo comune “E’ sempre colpa dei genitori” è effettivamente limitativo e i fattori in gioco nella crescita di un figlio sono tanti, non si può ignorare che i genitori svolgano, indipendentemente dalle altre variabili, un ruolo determinante nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale del bambino.

Uno studio pubblicato sulla rivista Child Development dimostra proprio questo: 260 diadi madre-bambino sono state osservate dalla nascita del bambino fino alla prima elementare. Dal primo mese di vita fino ai tre anni, le misure di valutazione includevano l’osservazione diretta della diade da parte di uno psicologo accompagnate ai resoconti della madre; successivamente, i ricercatori hanno osservato e codificato i comportamenti delle madri in situazioni create ad hoc, come ad esempio il dare un compito che mettesse in difficoltà il bambino e che richiedesse l’aiuto della madre; durante il primo anno di scuola, infine, i comportamenti dei bambini venivano rilevati in classe dalle insegnanti e a casa dai genitori.

Uno stile genitoriale negativo: lo stile genitoriale autoritario

I risultati dello studio parlano chiaro: ciò che conta nell’insorgenza di problematiche comportamentali aggressive, più del temperamento del bambino o dell’ambiente esterno, è lo stile genitoriale negativo. Nello specifico, quando il genitore esprime emozioni negative dirette al proprio figlio e quando vi siano presenti conflitti tra la mamma e il bambino, si creerebbe un circolo vizioso in cui la negatività della madre suscita alti livelli di rabbia, nervosismo e ostilità nel piccolo, il quale a sua volta, così facendo, stimola più ostilità nella madre stessa. I bambini, con il passare del tempo, diventerebbero incapaci di regolare le proprie emozioni negative quando queste si manifestano nel gruppo dei pari, portando quindi all’insorgenza del comportamento aggressivo.

Connesso a questa problematica è lo stile genitoriale autoritario, caratterizzato da bassa responsività ai bisogni del bambino, poco calore nella relazione parentale ed elevato controllo coercitivo, espresso attraverso punizioni anche fisiche, ostilità verbale e mancanza di spiegazioni date ai figli relativamente ai comportamenti sbagliati che hanno portato alla punizione.

Tale modalità nel relazionarsi favorirebbe l’insorgenza di comportamenti oppositivi e aggressivi per svariati motivi: prima di tutto per un basico meccanismo di apprendimento, in cui il bambino utilizza la disciplina imparata dal genitore anche con il gruppo dei pari. In secondo luogo, vi è il motivo menzionato sopra, ovvero un’emotività negativa e ostile nei confronti del figlio che non fa altro che suscitare nel bambino stesso emozioni altrettanto negative, e quindi lo renderebbe meno capace di focalizzarsi su altri modi di risolvere i problemi e di programmare attività diverse. E quando queste capacità sono sotto-stimolate, diventano presto anche sotto-sviluppate.

Questi dati devono farci riflettere a livello clinico, sia per orientare l’intervento il più precocemente possibile, addirittura nei primi mesi di vita del bambino, sia per sottolineare ancora una volta come il lavoro vada pensato prima di tutto rivolto ai genitori e alla famiglia.

La prossima settimana vedremo come si può lavorare su problematiche comportamentali di questo tipo, sia a livello genitoriale sia scolastico.

I Comportamenti aggressivi dei bambini: allora diteci che cosa fare!

Genitori che reagiscono alla rabbia dei figli con altrettanta rabbia e aggressività o che usano la minaccia e toni di voce molto elevati hanno possibilità marcatamente maggiori di avere figli aggressivi rispetto a genitori che utilizzano, invece, strategie positive (Weiss et al., 1992). Anche la sola aggressione verbale è associata allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini, così come la delinquenza e i problemi interpersonali dall’età pre-scolare fino all’adolescenza (Vissing et al., 1991).

Se è vero che i genitori hanno una così forte influenza nel modellare i comportamenti dei figli, non dobbiamo disperarci. Anzi, proprio per questo motivo, i suggerimenti provenienti da pediatri e terapeuti ci dicono di utilizzare proprio il comportamento di mamma e papà per cambiare quello del bambino.

ABC comportamentale

Prima di iniziare qualsiasi intervento, il primo passo da compiere è quello di individuare con precisione gli episodi di comportamenti aggressivi del bambino e il contesto in cui questi si manifestano. Una delle metodologie più semplici e diffuse è quella dell’ “ABC- Antecedent, Behaviour, Consequences” comportamentale (attenzione a non confonderlo con l’ABC usato nella terapia cognitiva):

A- antecedente: quali sono stati gli eventi che hanno preceduto i comportamenti aggressivi?

B- comportamento: in che cosa consiste precisamente i comportamenti aggressivi?

C- conseguenze: che cosa hanno fatto i genitori per risolvere la situazione?

Questa fase serve per avere una descrizione il più precisa possibile del comportamento-problema; per questo sarebbe utile, anche attraverso griglie osservative che possono utilizzare insegnanti o specialisti, informarsi sulla frequenza e i luoghi in cui i comportamenti aggressivi si manifestano, ad esempio sia a casa che a scuola o solamente a casa. Solitamente, infatti, più un comportamento è pervasivo e generalizzato a situazioni diverse, più è indice di problematicità e indica la necessità richiedere un parere specialistico. Inoltre, quando si vanno a osservare i comportamenti aggressivi, bisogna considerare, ad esempio, la modalità con cui la famiglia stabilisce delle regole chiare e come si impegna per farle rispettare.

Se infatti, un bambino è sempre aggressivo a casa e mai nel contesto scolastico, si potrebbe ipotizzare un problema specifico del setting casalingo, dove per esempio vi potrebbero essere regole poco chiare.

Una volta escluse cause mediche o legate a disturbi dello sviluppo (che richiedono l’intervento più complesso di diversi specialisti con procedure appropriate al disturbo specifico) i genitori possono provare a mettere in pratica delle strategie alternative di gestione del problema.

Bambini che hanno comportamenti aggressivi: che cosa possiamo fare? Alcuni suggerimenti pratici.

Sul numero di Settembre 2011 di Child Development troviamo una guida su come impostare un lavoro con bambini che hanno comportamenti aggressivi. A fornirci questi spunti, riassunto di ricerche internazionali e di casi clinici, sono il medico Angela Luangrath, del Royal Children’s Hospital di Melbourne e Harriet Hiscock, pediatra e ricercatrice presso l’Università di Melbourne.

Come comportarsi con bambini aggressivi: le linee guida

(1)Incoraggia i comportamenti positivi: anche se può sembrare contro-intuitivo, le punizioni servono a poco e soprattutto non fungono da deterrente per il comportamento aggressivo futuro. Ciò che invece diventa determinante è il rinforzo dei comportamenti positivi, ad esempio sottolineando e lodando il bambino quando si comporta in maniera appropriata. Si possono dare dei piccoli “punti” per ogni comportamento adeguato, come ad esempio delle figurine, e al raggiungimento di un certo numero di punti si può stabilire il guadagno di un premio.

(2)Sii costante nei comportamenti con i bambini: è fondamentale che il bambino sappia che a un determinato comportamento seguirà una certa conseguenza. È altrettanto importante che si renda conto che il genitore terrà una linea costante e coerente nell’educazione (rispetto delle regole, che cosa fare nel caso vengano infrante, come stabilire le eccezioni ecc…), in modo da non essere confuso e da poter stabilmente prevedere cosa è concesso e cosa è vietato. Sarebbe molto utile che venisse tenuta una linea comune tra famiglia e scuola. Sono molto frequenti, infatti, i casi in cui i bambini sembrano “degli angeli” in classe e a casa “fanno disperare”. Questo problema potrebbe proprio essere dovuto a una mancanza di coerenza che il bambino percepisce nell’ambiente domestico, dove magari vengono applicare regole troppo flessibili e poco chiare.

(3)Stabilisci dei limiti chiari e crea delle aspettative: i bambini, soprattutto i più piccoli, dovrebbero avere una chiara comprensione di ciò che ci si aspetta da loro e tali aspettative vanno loro spiegate con precisione, ad esempio il condividere un giocattolo.

(4)Stabilisci che cosa fare di fronte ai comportamenti aggressivi: ovviamente in questo caso dipende dall’età e dal tipo di comportamento aggressivo messo in atto da bambino. In generale è importante che i genitori abbiano chiaro che cosa fare nel momento in cui si verifichi un problema e che tengano una linea comune e costante nel tempo. Una strategia generalmente usata è quella di ignorare il comportamento problematico o di distrarre il bambino – se si tratta di aggressività “minore”, ovvero che non implichi pericolo per sé o per gli altri. È utile che i genitori, al posto di arrabbiarsi a loro volta, spieghino con calma le conseguenze delle azioni del bambino. Anche per i comportamenti aggressivi più importanti è bene ricordare di non alzare il tono di voce e di porre fine al comportamento aggressivo e lasciare calmare il bambino – in queste situazioni, infatti, solitamente il bambino proverà a rimettere in atto il comportamento più volte e sarà troppo attivato per comprendere una spiegazione. È bene quindi allontanarlo dalla situazione in caso di pericolo, se ad esempio sta lanciando oggetti contro la sorella, e dargli il tempo il calmarsi. Anche se può sembrare a prima vista difficile, è molto importante lodare sempre il proprio bambino quando smette il comportamento-problema, proprio per andare a rafforzare il comportamento positivo.

Arteterapia: la creatività che cura.

L’incontro con la malattia ci fa sperimentare l’esistenza di un limite doloroso, che nasce all’interno: un vuoto, un lutto, un trauma. Attraverso l’esperienza dell’arteterapia, si rende possibile la ricerca del nascosto, del represso e del bizzarro.

L’arte diventa un modo per liberare ciò che blocca la persona e così si possono scoprire nuove risorse per migliorare la qualità della vita.

Arteterapia: le origini con F. D. Brandeis

In Europa, tra le due guerre, la prima pioniera dell’arteterapia, fu Frield Ducker Brandeis, che specializzandosi nel campo dell’arte tessile e fotografia, impara che l’arte può tessere un legame con la parola, il suono, la forma, il colore, il gesto. Apre un negozio di belle arti e parallelamente inizia a collaborare con il Partito Comunista, dedicandosi all’attività politica clandestina, che la porta ad essere arrestata.

Dal 1934 al 1938, diventa insegnante d’arte per i bambini del ghetto di Praga, dove ha modo di osservare come i suoi piccoli allievi utilizzavano l’arte per far fronte alla discriminazione e al sopruso, vissuto ogni giorno e per elaborare i traumi, i lutti e le violenze che alcuni di loro si trovavano a subire.

Nel 1942, viene deportata nel campo di concentramento per le sue origini ebree e nel campo di transito di Terezin, diventa insegnante d’arte per centinaia di bambini, allontanati dalle loro famiglie e ricoverati presso i dormitori infantili del campo. A Terezin, con i suoi laboratori artistici, ella pone l’obiettivo di riequilibrare il mondo emozionale dei bambini, attraverso le lezioni d’arte e i disegni creati dai bambini. In questo modo sostiene e aiuta i bambini sottoposti a situazioni traumatiche.

Arteterapia: l’evoluzione ad opera di E. Kramer e M. Naumburg

Negli Stati Uniti, a partire negli anni ’50, inizia l’esperienza più importante ai fini della definizione metodologica dell’arteterapia, con la nascita dei due importanti orientamenti di arteterapia, legati ai nomi di Edith Kramer e di Margeret Naumburg. La Naumburg, psichiatra e psicoanalista, elabora uno specifico approccio dell’arteterapia.

Ella parte dal presupposto che i sentimenti inconsci sono più facilmente riconoscibili nelle immagini che nelle parole e stimola la comunicazione simbolica tra paziente e arte terapeuta, facendo riferimento alle immagini prodotte dal paziente sulle quali inevitabilmente vengono proiettate emozioni e vissuti personali. Le stesse immagini vengono analizzate attraverso la cornice teorica freudiana. La Naumburg elabora un metodo di orientamento dinamico, con cui utilizza l’arte come strumento per svelare significati inconsci, che vengono poi descritti e resi comprensibili, grazie l’utilizzo della comunicazione verbale utilizzata nella seduta di psicoterapia.

Diversa è l’impostazione di Edith Kramer: provenendo dal mondo dell’arte, riserva un valore particolare all’espressione artistica.

La Kramer considera la terapia d’arte distinta dalla psicoterapia e sostiene che le sue virtù curative dipendono da quei procedimenti psicologici che si attivano nel lavoro creativo.

Attraverso le sue esperienze, la Kramer si è resa consapevole del grande aiuto dell’arte sia per il disagio psichico che nella sofferenza esistenziale.

E’ a partire dalla sua esperienza di arteterapeuta con bambini ed adolescenti e dai suoi approfonditi studi psicologici che nasce l’elaborazione di una precisa linea metodologica che vede la centralità del processo creativo ed artistico nel percorso terapeutico e che rientra sotto il nome di “Arte come terapia”.

L’arte diventa terapia, il prodotto artistico rimane subordinato al processo e la tecnica terapeutica non cerca tanto di svelare e interpretare il materiale inconscio, ma diventa percorso significativo e simbolico in cui vengono attivate capacità, risorse e processi, diventando un vero e proprio mezzo di sostegno per l’Io, favorendo lo sviluppo del senso d’identità e promuovendo una generale maturazione. La Kramer sottolinea il fatto che l’arteterapeuta debba avere una profonda conoscenza sia dei processi artistici che delle caratteristiche e possibilità dei materiali proposti, condizione indispensabile all’intuizione artistica che deve sostenere la relazione terapeutica.

Arteterapia: una definizione, oggi

Essa è una forma di intervento, nel quale si fa uso di differenti mediatori artistici al fine di favorire l’empowerment della persona o del gruppo, la piena utilizzazione delle proprie risorse e il miglioramento della qualità della vita.

L’arteterapia si caratterizza come un approccio di sostegno non-verbale, mediante l’utilizzo di materiali artistici, basandosi sul presupposto secondo cui il processo creativo corrisponda a un miglioramento dello stato di benessere della persona, migliorandone la qualità del vissuto. Tra i mediatori artistici si annoverano: la danza, la musica, il teatro, la fotografia, la pittura.

Questi mediatori artistici vengono usati in laboratori di arteterapia che rispettano tutte le regole del setting: lo spazio e il tempo sono ben definiti e tutto ciò che accade all’interno di tale spazio e tempo acquisisce un significato che facilita la comprensione del paziente. Questi laboratori sono un ambiente molto diverso dal classico studio dello psicologo. Il laboratorio è uno spazio ampio, luminoso e ricchissimo di stimoli. Vi si trova di tutto: carta, matite, colori, das, stoffe, lane, legno, farina, teli, burattini, strumenti musicali. Si può trovare anche uno spazio vuoto, libero da stimoli, da riempire come si vuole.

Nel laboratorio, su indicazioni dell’arteterapeuta, ci si può dedicare a:

  • Arti visive: si può disegnare, colorare, modellare das o creta, utilizzare fotografie o filmati
  • Musicaterapia: si può ascoltare musica per favorire una maggiore attivazione o il rilassamento
  • Danzaterapia: con cui di certo non si apprendono coreografie ma si impara a liberare il corpo consentendogli di esprimere pensieri, emozioni e sentimenti
  • Teatroterapia: che permette di comunicare con il corpo e con la voce, di osservare il mondo con gli occhi di un altro e di giocare con ciò che è finzione e ciò che è verità
  • Gioco: si propongono i giochi che fanno i bambini: rubabandiera, nascondino, lanciare la palla, ecc. Il gioco allena il bambino (e anche l’adulto) alla vita e gli permette la ricerca del sé, di un sé corrispondente ai proprio bisogni.

Arteterapia: aree d’intervento e i destinatari

Le aree di intervento dell’arteterapia sono tre:

1- Area Terapeutica: l’arteterapia può essere inserita nel programma riabilitativo dei casi di handicap gravi e disturbi psichiatrici

  • in aggiunta ai trattamenti psicoterapici e psichiatrici protocollari/di routine
  • integrandosi al lavoro di equipe fatto di diverse competenze e professionalità, può portare il paziente al raggiungimento di buoni risultati.

In questi casi le tecniche espressive non sono mai le uniche responsabili dei miglioramenti, poiché ciò che “cura” è la relazione terapeuta-paziente, ma diventano gli strumenti che un operatore sensibile può utilizzare per scoprire e conoscere le immagini, le sensazioni e i sogni di un paziente che non riesce ad esprimersi con le parole

2- Area riabilitativa: l’arteterapia può essere utilizzata anche con bambini, anziani, adolescenti e adulti portatori di handicap fisici in assenza di vere e proprie patologie psichiche. L’arteterapia diventa un’esperienza ludica, di gioco in cui si è liberi di esprimersi attraverso le proprie possibilità senza ricevere giudizi, né condizionamenti. L’obiettivo non è “fare bene”, ma è comunicare i nostri pensieri ed emozioni così come viene istintivamente fare. Si può produrre anche uno scarabocchio se è questo che riusciamo a fare e ci rappresenta. In questa maniera l’utente con un corpo trasformato o diversamente abile vive il proprio corpo, non lo subisce.

3- Area preventiva ed educativa: le tecniche espressive sono utili per favorire una maggiore conoscenza di sé stessi nei momenti di cambiamento che capitano nella vita. Durante una crisi coniugale, un cambiamento di lavoro, nei casi di leggera depressione a seguito del pensionamento può essere utile liberare le proprie energie creative attraverso un percorso in un laboratorio artistico.

Arteterapia: i benefici

L’arteterapia cura attraverso il lavoro artistico: il soggetto, attua un riconoscimento di sé e della propria presenza in grado di lasciare una traccia. Inoltre nel momento in cui le sensazioni si traducono nell’oggetto artistico avviene un processo di auto comprensione più profonda. Il riuscire a raffigurare immagini, sentimenti ed emozioni esprimendoli simbolicamente in una forma visiva concreta permette di poterli osservare come qualcosa di staccato da sé. Ecco allora che anche nelle immagini più cariche di sofferenza e di angoscia si crea uno spazio di comprensione ed elaborazione che può essere di aiuto all’individuo nella ricerca di nuove modalità di interazione tra il proprio mondo interno e il mondo relazionale esterno.

L’arteterapia potenzia l’autostima, migliora l’immagine di sé e il rapporto con gli altri, promuove il benessere e sviluppa le potenzialità individuali. L’arte dà gioia e con la gioia cadono le difese, sparisce la paura, la creatività coincide con l’essere vivi; nel creare e nel dipingere si è liberi, ci si permette di vivere esperienze di trasgressione e di libertà.

L’arteterapia, vissuta come un’attività ludica e divertente, accompagna l’individuo in uno dei viaggi più affascinanti dell’uomo: la scoperta di se stessi.

Siamo sempre più sensibili, ma sempre meno tolleranti e maniaci del controllo: cosa è successo a Bessel van der Kolk

Da decenni il lavoro di Bessel van der Kolk è fondamentale per capire gli effetti del trauma sulla vita delle persone. Quali riflessioni possiamo fare apprendendo che è stato licenziato dal Trauma Center del Justice Resource Institute, che dirigeva, in seguito a denunce per maltrattamento e bullismo?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su linkiesta il 21/05/2018

Il nome Bessel van der Kolk probabilmente non dirà molto ai lettori, eppure la sua storia ci racconta qualcosa su quello che ci sta accadendo negli ultimi anni. Van der Kolk è uno psichiatra di Boston noto per le sue ricerche nel campo del disturbo post-traumatico da stress sin dagli anni ’70. Da decenni il suo lavoro scientifico è fondamentale per capire gli effetti del trauma sulla vita delle persone. Il suo libro più importante, il successo di vendite “The Body Keeps the Score”, descrive come il cervello sia modellato dalle esperienze traumatiche e come tale conoscenza possa essere integrata nelle pratiche psicoterapeutiche. Il libro è stato pubblicato anche in italiano col titolo “Il corpo accusa il colpo”. E anche tra noi è stato un successo di vendite.

In seguito alle ricerche di Van der Kolk la consapevolezza e la conoscenza dell’influenza delle esperienze traumatiche sul benessere psichico si sono enormemente ampliate. Non solo il cervello ma perfino il corpo sono rimodellati radicalmente dal trauma. Le ricerche di Van der Kolk sull’istinto di sopravvivenza spiegano come le persone traumatizzate sperimentino un’ansia e una rabbia intollerabili, come sia degradata la loro capacità di provare benessere e come sia accentuata quella di percepirlo violentissimamente nella carne del proprio corpo.

Tutto questo è scienza, scienza rigorosa e confermata. Tuttavia è anche cultura, ed è anche grande cultura. Una cultura che ci permea sempre di più, rendendoci sensibili al trauma, nostro e altrui. Malgrado alcune notizie sembrino dirci il contrario, la nostra è un’età altruistica ed empatica, desiderosa di comprendere la sofferenza degli altri e soprattutto dei deboli. Ben prima delle ricerche di Van der Kolk nelle religioni e in letteratura si era propensi a comprendere le ragioni della vittima e del debole. Concepire la vittima come un traumatizzato è il coronamento scientifico di una sensibilità che nasce con i bambini trascurati e maltrattati di Dickens o ancora prima, fino a risalire al trauma della crocifissione o a quel che volete.

In questi giorni uno sfortunato accidente ha colpito Van der Kolk nel luogo che dirige, il Trauma Center del Justice Resource Institute (JRI) di Boston, una organizzazione senza scopo di lucro che fornisce servizi di salute mentale agli svantaggiati. Il 7 marzo il Boston Globe ha riportato che il JRI ha licenziato Van der Kolk in seguito alle denunce per maltrattamento e bullismo che lui avrebbe perpetrato ad alcuni operatori del suo staff.

Le riflessioni che un simile evento possono ispirare sono a mezza strada tra la nobile pietà, l’umana preoccupazione, l’infantile curiosità e infine un’emozione più confusa e indecifrabile, che confesseremo in seguito. La pietà la proviamo prendendo atto che nemmeno le persone più consapevoli della traumaticità del comportamento umano violento -e chi dovrebbe essere più consapevole di Van der Kolk?- sembrano essere in grado di non cadere in quel peccato originale. La preoccupazione ci colpisce di fronte al timore opposto, il timore di una possibile caccia alle streghe che ormai rischia di non risparmiare più nessuno, timore che nasce quando leggiamo l’elenco molto lungo di colleghi di lavoro che hanno dichiarato innocente Van der Kolk. Stiamo diventando una società così desiderosa di difendere la vittima da accettare il rischio di condannare eccessivamente qualunque comportamento meno che appropriato? Dal quel che si capisce, Van der Kolk sembra essere colpevole di un’eccessiva propensione alla rabbia. Un tempo lo si sarebbe definito un tipo scorbutico. Se è così, gli aspetti penali delle sue sfuriate saranno probabilmente futili e si sgonfieranno; intanto però è stato licenziato dal JRI, o almeno così pare.

E si finisce con il sentimento peggiore, che sarebbe bene non nominare: la shadenfreude. Con questo termine i tedeschi nominano un sentimento più inconfessabile dell’invidia: il piacere per le disgrazie altrui. Intendiamoci, non vi è alcun piacere nell’apprendere che un collega ha subito un brutto infortunio. Anzi, si provano pietà e preoccupazione. Quella piccola lucetta ignobile che si accende accanto a queste due più decorose luci va repressa e confessata solo per un attimo e solo perché forse c’è qualcosa da imparare anche dal fango che ci sporca il cuore. Perché è vero che il merito –o la colpa- di aver innalzato l’asticella dei comportamenti accettabili è anche delle trentennali ricerche scientifiche di Van der Kolk, le quali si sono fatte non solo scienza ma anche cultura e costume morale. Se siamo tutti molto più sensibili al minimo sgarro è un bene per il vivere civile e la buona educazione. Al tempo stesso però molti (e molte, è proprio il caso di usare anche il femminile ora più che mai) di noi sono un po’ infastiditi (e infastidite) e preoccupati (e preoccupate) da un ideale che sembra sempre più difficile da rispettare e che rischia di imbalsamare i rapporti umani in una impersonale buona educazione. E fosse solo questo, passi; ma se si aggiunge il rischio di essere denunciati il malumore aumenta e i rapporti umani s’improntano sempre più a un’estrema prudenza e a un soffocante controllo reciproco. La conseguenza è che il giorno in cui questi fastidi finiscono per colpire Van der Kolk, a suo modo uno degli apostoli di questa nuova grande sensibilità all’offesa, per un attimo e solo per un attimo proviamo il guilty pleasure di vedere il prete sul pulpito colto con le mani nel sacco del peccato. Dopodiché torniamo rapidamente a ricomporci, decisi (e decise) ancora più di prima a comportarci sempre meglio, sempre più educatamente. Sempre più perfettamente.

Come le emozioni influenzano la nostra percezione della realtà

Gli esseri umani recepiscono le informazioni provenienti dall’ambiente grazie i cinque sensi. Gli input sensoriali, attraverso un processo di integrazione, formano un percetto. Quest’ultimo non è una rappresentazione della realtà; infatti, lo stato emotivo in cui le persone si trovano ha un ruolo fondamentale rispetto al significato che viene attribuito alla rappresentazione percettiva.

 

Un esempio molto semplice: raggiungiamo un gruppo di nostri amici e nel momento in cui arriviamo da loro, questi smettono di parlare. In questa situazione, una persona potrà reagire in maniera differente sulla base al suo stato d’animo. Nel caso di uno stato d’animo piacevole, la persona potrà pensare: ”Che gentili, hanno messo fine alla loro discussione per me”; oppure, nel caso di uno stato d’animo negativo, la persona potrebbe pensare: ”Sicuramente stavano parlando male di me”. Questo semplice esempio, mette in evidenza che gli esseri umani vedono il mondo in maniera diversa, quando si trovano in uno stato d’animo piacevole o spiacevole.

Emozioni: influenzano la nostra percezione della realtà

A tal proposito, uno studio condotto da Siegel e collaboratori, mette in evidenza come gli esseri umani non ricevano passivamente le informazioni, ma abbiano un ruolo attivo nell’elaborazione degli stimoli. In questa ricerca, Siegel e colleghi volevano studiare se il cambiamento degli stati emotivi delle persone, che avviene al di fuori della consapevolezza, potesse effettivamente cambiare il modo in cui giudicavano e valutavano le facce neutre.

I ricercatori, utilizzando una tecnica chiamata “soppressione continua del flash“,hanno presentato ai partecipanti degli stimoli al di fuori della loro consapevolezza. Ai 43 partecipanti alla ricerca, è stata presentata al loro occhio dominante un’immagine di un volto neutro;invece, al loro occhio non dominante sono state presentate un’immagine di un volto sorridente, accigliato o neutro. Quest’ultima immagine, presentata all’occhio non dominante, era soppressa dallo stimolo presentato all’occhio dominante, e i partecipanti non lo sperimentavano consapevolmente.

Emozioni inconsapevoli: influenzano le nostre decisioni

Alla fine di ogni prova, veniva presentato ai partecipanti un set di cinque diversi volti, tra cui scegliere. Nonostante il volto che veniva presentato all’occhio dominante dei partecipanti fosse sempre neutrale, essi tendevano a selezionare i volti che avevano una migliore corrispondenza con l’immagine che veniva presentata al di fuori della loro consapevolezza. Ad esempio, quando veniva presentato all’occhio non dominante un viso sorridente, questo incideva positivamente sullo stato d’animo del partecipante, che a sua volta, tendeva a scegliere, alla fine della prova, un volto più sorridente.

Quindi, influenzare inconsapevolmente gli stati emotivi dei partecipanti, indirizzava questi ultimi a focalizzarsi e selezionare volti più o meno simpatici, più o meno affidabili.

In definitiva, stimoli positivi e negativi influiscono in modo significativo sul processo decisionale. Siegel e colleghi, infine, aggiungono che tali risultati potrebbero avere ampie implicazioni nelle interazioni sociali quotidiane e in situazioni più delicate, come quando i giudici o i membri della giuria devono valutare se un imputato è pentito.

Disturbo da binge-eating associato all’obesità: il problema non risolto della perdita di peso 

Il binge eating disorder (BED) viene oggi trattatato con la CBT-ED, la IPT e l’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED. Tuttavia, sebbene questi siano gli approcci che hanno maggiore evidenza di efficacia, non riescono ancora ad incidere sulla riduzione di abbuffate e di peso nel lungo termine.

La terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED) e la psicoterapia interpersonale (IPT) sono gli interventi per il disturbo da binge-eating (BED) con la maggiore evidenza di efficacia. Entrambi gli interventi producono un tasso di remissione del BED maggiore del 50% fino a un follow-up di 48 mesi, ma non determinano una perdita di peso significativa [1].

Risultati promettenti (46% di remissione) sono stati ottenuti anche dall’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED, un trattamento in cui il terapeuta guida il paziente a seguire le indicazioni di un manuale in 10-12 incontri di 20-30 minuti, ma anche questo intervento non produce una perdita di peso significativa [1].

Tuttavia, le linee guida NICE del 2017 raccomandano come trattamento di prima scelta per gli adulti con BED l’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-E. Se questo intervento è inaccettabile, controindicato o inefficace dopo quattro settimane, le linee guida raccomandano di offrire ai pazienti la CBT-ED di gruppo o individuale [2]. Le linee guida di NICE consigliano anche di spiegare ai pazienti con BED che “i trattamenti psicologici finalizzati al trattamento degli episodi di abbuffata hanno un effetto limitato sul peso corporeo e che la perdita di peso non è un obiettivo terapeutico di per sé” [2].

Il trattamento di pazienti con Binge Eating Disorder associato all’obesità

Al  fine di fornire un’opzione di trattamento a “tuttotondo” per i pazienti con BED associato all’ obesità, sono stati testati programmi di perdita di peso basati sulla terapia comportamentale dell’obesità (BT-OB) e la chirurgia bariatrica.

Tuttavia, i dati disponibili suggeriscono che la BT-OB non è efficace quanto la CBT o la IPT nel ridurre la frequenza degli episodi di abbuffata. Inoltre, sebbene la BT-OB produca una maggiore perdita di peso a breve termine, al follow-up a 2 anni la perdita di peso non è più significativamente diversa da quella raggiunta con la IPT e l’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED [3]. La presenza di BED sembra anche predire una minor perdita di peso e un aumento di peso maggiore nei pazienti trattati con la chirurgia bariatrica. In molti pazienti con BED, infatti, dopo l’intervento chirurgico ricompaiono episodi ricorrenti di  abbuffata che, sebbene nella maggior parte siano soggettivi per le limitazioni anatomiche imposte dalla resezione gastrica, nel lungo periodo producono inevitabilmente un recupero del peso [4].

Terapia farmacologica

I numerosi farmaci testati per il BED hanno determinato nella maggior parte dei casi una riduzione degli episodi di abbuffata superiore al placebo [5]. Tuttavia, ad eccezione del topiramato, che ha dimostrato di ridurre a breve termine (12 settimane) in modo significativo sia gli episodi di abbuffata sia il peso corporeo nel breve termine, ma è gravato spesso da importanti effetti collaterali, tutti gli altri farmaci testati hanno avuto un effetto minimo sulla perdita di peso.

Nel 2015 la Food and Drug Administration ha approvato lisdexamfetamina dimesylate (LDX) sulla base di alcuni studi che hanno dimostrano la sua superiorità a breve termine rispetto al placebo nel ridurre gli episodi di abbuffata dopo 12 settimane di trattamento (40% remissione con LDX  vs 21% con placebo [5]. Tuttavia, la LDX (non in commercio in Italia) è uno stimolante e il suo uso è limitato, perché non è indicato per la perdita di peso o per l’obesità; inoltre ha un elevato rischio potenziale di causare abuso/dipendenza. L’aggiunta dei farmaci alla CBT-ED non ha neanche mostrato di migliorare l’esito del trattamento sia a breve che a lungo termine del BED [2].

Conclusioni

In conclusione, i dati disponibili indicano che il BED risponde abbastanza bene agli interventi psicologici, in particolare alla CBT-ED, alla IPT e all’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED, ma l’efficacia di questi trattamenti è limitata dal fatto che nessuno di essi produce una significativa perdita di peso. Anche la BT-OB e gli approcci farmacologici hanno fallito nel determinare una significativa perdita di peso a lungo termine, e la chirurgia bariatrica, un trattamento riservato solo al sottogruppo di pazienti con obesità grave, non sembra risolvere nel lungo termine il problema della perdita di controllo nei confronti dell’alimentazione.

Questi dati, confermati da numerosi studi controllati e randomizzati, indicando la necessità e l’urgenza di progettare e testare nuovi trattamenti per il BED associato all’ obesità che siano in grado di produrre sia la remissione dagli episodi di abbuffata sia una riduzione significativa e salutare del peso a lungo termine.

Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali di Michael Bader (2018) – Recensione

“Eccitazione” aiuta a comprendere quali i sono i meccanismi di base con cui vengono sviluppate le fantasie sessuali necessarie all’eccitarsi, partendo da numerosi esempi tratti da casi clinici. Persino la fantasia più bizzarra e apparentemente incomprensibile ha sempre una logica!

Si deve ammettere che hanno ragione i poeti di scrivere di persone che amano senza sapere, o che sono incerte se amano, o che pensano di odiare quando effettivamente amano. Sembra, quindi, che le informazioni ricevute dalla nostra coscienza che riguardano la vita erotica siano particolarmente soggette all’incompletezza, lacunose o false

Sigmund Freud

Michael Bader è uno psicologo e psicoanalista con 30 anni di esperienza clinica. Fa parte del San Francisco Psychotherapy Research Group (SFPRG) fondato da Joseph Weiss e Harold Sampson, fondatori della Control-Mastery Theory (CMT), al quale lo stesso Bader si ispira per illustrare le sue teorie sull’eccitazione sessuale.

Eccitazione: Bader usa l’approccio Control Mastery Therapy

La prima pubblicazione di “Eccitazione” risale al 2002, la versione presentata da Raffaello Cortina editore è stata riveduta e aggiornata per il pubblico italiano e contiene un’introduzione aggiuntiva dello stesso autore.

Bader utilizza l’approccio della Control – Mastery Therapy (CMT) sviluppato da Joe Weiss a partire dal 1994 e da Harold Sampson, mentore dell’autore. Uno dei concetti chiave della CMT è il senso di sicurezza attorno al quale ruota la vita psichica delle persone. In quest’ottica il bisogno di sicurezza psicologica è un motore potente che contrasta le credenze patogene, originate dalle esperienze di vita e in particolare dai traumi.

Il lavoro nasce dalle necessità dello psicoanalista di spiegare in che modo l’eccitazione si sviluppa e viene mantenuta concretamente nella vita sessuale: attraverso le fantasie. Bader parte dall’ipotesi che le preferenze rispetto a questo tema siano un mezzo che uomini e donne usano per ricreare un senso di sicurezza tale da potersi eccitare. Secondo questa teoria sessuale, le fantasie, infatti, hanno lo scopo di disconfermare i vissuti di preoccupazione, colpa, vergogna, ma anche disapprovazione e odio per se stessi originate da credenze patogene che, diversamente, non permetterebbero di eccitarsi e quindi di avere una vita sessuale.

Le fantasie sessuali sono il buco della serratura attraverso cui potremo vedere il nostro vero sé

Eccitazione: ovvero provare piacere in sicurezza

Le fantasie sessuali “bizzarre” non vanno demonizzate o considerate come semplici aspetti di una patologia, ma vanno viste come un percorso obbligato per provare piacere in sicurezza. Molte delle difficoltà sessuali, di contro, nascono da credenze irrazionali e da emozioni e sentimenti che ne derivano, su se stessi e gli altri.

L’opera è suddivisa in capitoli, si parte dallo spiegare le basi del funzionamento sessuale per poi proseguire illustrando la funzione delle fantasie. Per Bader, fantasticare sessualmente ha lo scopo di contrastare le emozioni negative, ogni capitolo si concentra su emozioni specifiche ed è corredato da diversi esempi clinici che permettono di spiegare l’associazione tra la fantasie e il sentimento corrispondente. L’idea alla base è che i sensi di colpa interferiscono con la capacità di provare piacere, non ci si può eccitare nemmeno se ci si sente deboli e impotenti. Le preferenze sessuali nell’intimità hanno, in questa chiave, un valore fortemente simbolico nel contrastare le forze psicologiche che frenano il desiderio. All’interno di questa prima parte è incluso un interessante sezione le varie tipologie di fantasie in cui sono interpretate da Bader, dalle più comuni alle più insolite, similmente allo stile delle antologie pubblicate per interpretare i sogni partendo dalle associazioni psicoanalitiche. La parte centrale del libro, invece, è spesa ad approfondire le ricadute relazionali delle fantasie sessuali, portando ad esempio casi clinici di coppie in terapia. Un aspetto importante è giocato dal ruolo che internet ha assunto negli ultimi decenni rispetto alle difficoltà sessuali derivanti dal confinamento del partner in ruoli stereotipati e idealizzati e come i siti porno o le chat room abbiano permesso di creare scenari sessuali alternativi. L’ultima parte dell’opera è dedicata, poi, all’uso che il terapeuta fa in terapia delle fantasie sessuali dei pazienti per spiegare il ruolo organizzatore delle credenze patogene.

Mentre il nostro desiderio e la capacità di provare piacere sono istintivi, la strada per raggiungere il piacere è complicata

Eccitazione: comprendere le nostre fantasie per non vergognarsi

Il metodo dell’autore è partire dalla fantasia sessuale per scoprire la logica inconscia e la connessione con il problema psicologico che ne è alla base. Lo scopo non è cambiarle o aggiustarle, a meno di esplicita richiesta da parte dei pazienti, ma utilizzarle per capire i meccanismi di funzionamento della mente. Comprendere le motivazioni sottostanti permette di ridurre la vergogna per i propri desideri e fantasie. Una volta superato l’imbarazzo nel comunicarle, la consapevolezza aumenta sempre l’accettazione di sé stessi.

In “Eccitazione” viene proposta una teoria che spiega il funzionamento sessuale in uno stile espositivo chiaro e semplice. L’opera è caratterizzata da numerosi esempi, tratti dall’esperienza clinica dell’autore che spiegano la sua formulazione teorica. Lo psicoanalista è molto bravo, infatti, a presentare casi in cui le fantasie sessuali sono la manifestazione di credenze patogene, spesso sviluppatesi nell’infanzia a partire dal rapporto con i genitori, su se stessi e gli altri. L’opera, così composta, è destinata sia ai professionisti della salute mentale che a quelli formati e specializzati nel trattamento dei disturbi sessuali e nei problemi di coppia.

Cosa rende un uomo attraente agli occhi delle donne?

Un nuovo studio del dipartimento di psicologia e psicologia evoluzionistica dell’Università di Cambridge, pubblicato dalla Royal Society Open Science svela cosa rende un uomo attraente agli occhi di un gruppo di donne eterosessuali e a cosa sia dovuta la scelta del probabile partner sessuale da un punto di vista evoluzionistico.

L’attrattività ha un notevole impatto sia in un’ottica evoluzionistica che di percezione sociale: è infatti risaputo come gli individui considerati più attraenti siano percepiti come più socievoli, intelligenti e in salute rispetto alle loro controparti meno attraenti (Brierley, Brooks et al., 2016).

Uomo attraente: che cosa lo rende tale?

Alcuni studi hanno evidenziato come queste attribuzioni positive, che costituiscono il cosiddetto “effetto alone” (Dion, Berscheid, Walster, 1972), associate all’essere attraenti, influenzino positivamente le prospettive lavorative, la retribuzione professionale, la stabilità matrimoniale e la fecondità biologica (Jokela, 2009; Fales, Frederick et al., 2016).

Una chiave determinante per stabilire l’attrattività di un individuo è la morfologia del suo corpo, la costituzione del suo fisico (Brierley, Brooks et al., 2016). Da un punto di vista puramente biologico ed evoluzionista, i giudizi di una persona ritenuti decisivi per la scelta di un probabile compagno riproduttivo, deriverebbero da tratti morfologici che riflettono il suo buon stato di salute, in particolare la sua abilità di sopravvivere nell’ambiente e riprodursi.

A questo proposito, Bogin e colleghi (2010) hanno sottolineato come la percezione di un buono stato di salute nel partner riproduttivo fosse fortemente associata all’idea che questo con maggiore probabilità sarà in grado di fornire cure, cibo, protezione e un ottimo patrimonio genetico da trasmettere alla prole con una minore probabilità di trasmettere malattie o patogeni.

Uomo attraente: sarebbe questione di proporzioni

Dal momento che alcuni aspetti dello stato di salute correlano con alcuni tratti morfologici, diversi studiosi hanno cercato di individuare nello specifico quali fossero le componenti anatomiche predominanti che influenzano maggiormente il giudizio di attrattività, come ad esempio la forma del volto, la percentuale di massa grassa nel corpo o l’altezza (Sear & Marlowe, 2009).

Seguendo questa prospettiva, alcuni studi si sono concentrati sulla proporzionalità degli arti in particolare tra gambe e corpo (leg to body ratio; LBR) che definisce il rapporto tra la lunghezza delle gambe e l’altezza del corpo, dal momento che Swami e colleghi (2006) hanno riportato una maggiore mole di giudizi di attrattività nei confronti di corpi con un minor LBR.

Tuttavia uno studio di Versluys e colleghi (2017) ha evidenziato come in un gruppo di donne americane, l’attrattività massima era costituita da corpi maschili che raggiungevano una LBR leggermente maggiore rispetto la media della popolazione.

Lo studio, poc’anzi citato, inoltre mostrava come agli uomini con proporzioni gambe-corpo leggermente sopra la media fossero associati ad uno status socio-economico maggiore, un buono stato di salute e una buona stabilità soprattutto nella locomozione (Versluys et al., 2017).

In contrasto, deviazioni significative dalla media di LBR della popolazione maschile sia di molto al di sopra che al di sotto della media, fosse stata associata ad una scarsa salute; in particolare gambe troppo piccole rispetto al tronco sono state associate con il diabete di tipo 2 e con la sindrome da resistenza insulinica, patologie cardiache e coronariche e infine con la demenza (Prince, Acosta et al., 2011) mentre gambe troppo lunghe sono state associate a patologie genetiche come la sindrome di Marfan (Pyeritz, 2000).

La preferenza da parte di gruppo di donne americane nei confronti di uomini con LBR leggermente al di sopra della media si accorda con l’idea che una particolare morfologia degli arti sia un segnale importante dello stato di buona salute ed è da considerarsi cruciale nel momento in cui si procede alla scelta del partner riproduttivo (Versluys, 2017).

Per cercare di fare ulteriormente chiarezza e comprendere quale componente fosse predominante nel giudizio di LBR, un recente studio di Versluys, Foley & Skylark (2018) ha cercato di investigare due componenti della morfologia degli arti che non erano mai stati presi in considerazione e che potrebbero essere in relazione con il giudizio di attrattività: il rapporto tra la lunghezza totale degli arti con l’altezza totale (arm-to-body ratio; ABR) e il rapporto tra gli arti distali e prossimali (intra-limb ratio; IR).

Per tale scopo, i ricercatori hanno creato immagini computerizzate modificate di corpi maschili utilizzando come misura di riferimento la media delle proporzioni corporee di più di 9 mila uomini appartenenti alle forze militari americane. Una volta ottenuta la media, le immagini dei corpi sono state aumentate o diminuite di alcune deviazioni standard rispetto la media, creando corpi maschili con arti superiori e gambe leggermente più lunghi o corti. Successivamente i ricercatori hanno chiesto ad un gruppo di 800 donne eterosessuali statunitensi, dai 18 anni in su, di giudicare l’attrattività di ciascuna immagine di corpo maschile generata al computer (Versluys, Foley & Skylark, 2018).

Uomo attraente: il migliore ha Leg to Body Ratio entro o sopra la media

I risultati hanno mostrato una chiara preferenza per corpi maschili con LBR leggermente sopra la media complessivamente all’interno del gruppo femminile, come già evidenziato dallo studio precedente di Versluys e colleghi (2017).

In aggiunta, i ricercatori però non hanno riscontrato alcuna influenza di ABR sui giudizi di attrattività lasciando supporre che probabilmente questo non influisce in modo determinante sulla scelta di un partner maschile in quella popolazione da parte del gruppo femminile, mentre hanno rilevato un’influenza ridotta di IR sul giudizio complessivo di attrattività (Versluys, Foley & Skylark, 2018).

In conclusione, Versluys, Foley e Skylark hanno interpretato i risultati ottenuti dal loro studio basandosi sull’idea che la preferenza, riscontrata nel gruppo femminile per una specifica lunghezza delle gambe, possa riflettere un compromesso tra i “vantaggi genetici” osservabili in proporzioni corporee nella media, ritenute segnali cruciali di immunocompetenza e minori probabilità di trasmettere patologie da parte del maschio scelto alla futura prole, e i vantaggi dovuti a tratti che sono leggermente al di sopra della media, segni invece di una buona efficienza biomeccanica nella locomozione e di un ottimo stato di salute e di conseguenza socio-economico.

Il Disegno Narrativo Condiviso (2017) di Gianluigi Passaro – Recensione del libro

Il Disegno Narrativo Condiviso di Gianluigi Passaro, è un invito a immaginare e giocare con la propria fantasia, non un manuale teorico sul disegno infantile. L’autore afferma che il suo scopo è: “rendere partecipe il lettore del mio mondo interno e del mio modo di essere in terapia così da rendere l’attività solitaria della scrittura un’opera a due che riguarda la coppia narrativa scrittore-lettore”.

Per questa ragione il testo si legge, si studia e si guarda. Ho letto il testo e ho ritrovato elementi teorici della psicoanalisi infantile e della psicologia della gestalt. Ho seguito le indicazioni dell’autore ed ho giocato con la mia fantasia, mi sono divertita e rilassata piacevolmente con il frutto delle mie storie inventate e disegnate immaginandomi in un dialogo virtuale con l’autore.

Il Disegno Narrativo Condiviso

L’autore condivide generosamente con il lettore il suo metodo di lavoro in psicoterapia fondato sul suo patrimonio di conoscenze certamente sia teoriche sia metodologiche nell’ambito di psicoanalisi, psicologia della gestalt, arte e letteratura, il mito, la fiaba.

In particolare Passaro riprende dall’ambito psicodinamico la tecnica dello Scarabocchio di Winnicott, nella quale il disegno è un esperienza di relazione e di condivisione.

Il disegno è un mezzo per il bambino di rielaborazione della realtà e di espressione del suo punto di vista. Usare carta e matita per la sciare una traccia di se è un esperienza importante per il bambino, che inizierà ad usare il disegno anche come mezzo di comunicazione del proprio mondo interno (pensieri e emozioni) con il mondo sociale.

Il disegno del bambino, a differenza delle parole o del pianto, resta nel tempo una volta realizzato e potrà essere guardato e riguardato sia dal bambino sia da mamma e papà e da molti altri osservatori. Lasciare una traccia di sé è una meraviglia di esperienza per il bambino!

Come afferma l’autore:

Il disegno è un oggetto sociale, è fatto per essere guardato dal bambino e visto dagli altri ed è una delle prime proiezioni del mondo interno per i genitori e gli altri in generale.

Attraverso i disegni dei bambini possiamo ricostruire il loro percorso di maturazione cognitiva, motoria, creativa ed emotiva.

Il disegno infanitle è a tutti gli effetto uno strumento psicoterapeutico .

Il Disegno Condiviso: dallo scarabocchio di Winnicott al puntastorie

Come per primo Winnicott, anche Passaro unisce il disegno al gioco e costruisce un procedimento ove i partecipanti, terapeuta e bambino, disegnano, costruiscono una storia che diviene un prodotto condiviso, l’incontro di due mondi interni.

A differenza dello Scarabocchio di Winnicott, il Puntastorie è una tecnica più strutturata, come spiega lo stesso autore:

la tecnica proposta da Winnicott lascia al bambino la possibilità di proiettare fantasie e immagini sul foglio senza alcuna regola formale, il Puntastoria presuppone uno spazio contenitivo, che lascia libertà di espressione e di invenzione al bambino, ma chiede alcune regole.

Sebbene con alcune regole la tecnica di Passaro permette l’espressione piena della creatività del bambino in una relazione di reciprocità e contenitore. Il puntastorie po’ essere unsato sia in una seduta con un singolo bambino, sia in gruppo, sia con bambino, mamma e papà.

Il Disegno Condiviso: cosa serve per il puntastoria

  • due fogli bianchi, uno per il disegno e uno per trascrivere la storia e i personaggi (formato A4 per un un incontro individuale, formati A3 o i cartoncini Bristol se in piccolo gruppo o con i genitori)
  • una matita per ciascun partecipante
  • una gomma per cancellare
  • un temperamatite
  • per colorare: pastelli, colori a cera, tempere, acquerelli.

La consegna, dalle parole dello stesso autore, è la seguente:

Adesso disegniamo dei puntini sul foglio, dove vogliamo noi, io farò i miei e tu i tuoi. L’unica cosa importante è che si vedano bene.

In media per un Puntastoria occorrono circa trenta minuti; la durata dipenderà dalla tecnica di colorazione usata e dalla ricchezza delle associazioni che emergeranno nella storia. Il terapeuta non dovrà avere fretta di finire o interpretare, perchè talvolta occorre un intera seduta solo per il disegno e la storia. L’autore, riferendosi alla propria esperienza clinica, consiglia la metodologia dai quattro sino ai quattordici anni di età.

Il disegno narrativo condiviso è una tecnica ma soprattutto un’esperienza relazionale e di creatività.

Nel testo, che consiglio vivamente agli psicologi dell’età evolutiva, l’autore nonché, il clinico spiega passo a passo il metodo che ha messo a punto; egli inoltre ha arricchito la sua descrizione con numerosi esempi clinici e disegni condivisi.

Concludo, sottolineando ciò che tutti i terapeuti che lavorano con i bambini sanno, ovvero l’importanza di mettersi in gioco ed avere le mani in pasta, citando l’autore:

nella psicoterapia con i bambini, giocare, disegnare e raccontare sono atti immaginativi che hanno un potere trasformativo: giochi, storie e parole diventano semi.

Ossitocina: un ormone che influenza le nostre interazioni sociali

L’ ossitocina è un ormone peptidico composto da 9 aminoacidi, prodotto dai nuclei ipotalamici, in particolare sopraottico e paraventricolare, e prodotto dalla ghiandola pituitaria posteriore (neuroipofisi).

 

È ormai da tempo assodato come questo ormone giochi un ruolo centrale durante il travaglio e il parto e successivamente nel processo di allattamento. Più recentemente è stato inoltre indicato come elemento chiave nelle interazioni sociali e nelle nostre reazioni sentimentali, da questo il soprannome di “ormone dell’amore”. L’ ossitocina difatti aumenta i comportamenti pro-sociali come altruismo, generosità ed empatia e ci porta ad essere più propensi a fidarci degli altri. Questi effetti socio-cognitivi emergono in conseguenza della soppressione dell’azione dei circuiti prefontale e cortico-limbico, con conseguente abbassamento dei freni inibitori sociali come la paura, l’ansia e lo stress.

Il ruolo dell’ossitocina nella percezione dei rapporti sociali

In merito a questo aspetto, l’ ossitocina sembra essere implicata in particolare nella percezione dei volti, delle emozioni e di altre informazioni sociali. Negli ultimi anni sono stati numerosi gli studi che hanno cercato di indagare tale fenomeno, alcuni mediante anche la somministrazione dell’ormone per via nasale. I risultati hanno dimostrato, ad esempio, che la somministrazione intranasale di ossitocina può aumentare il riconoscimento delle emozioni e l’attività cerebrale durante la percezione di un volto. L’ormone in questione, quindi, sembra giocare un ruolo significativo nell’elaborazione delle informazioni interpersonali e nel mantenimento dei legami sociali.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, però, in alcune situazioni sarebbe proprio l’ ossitocina ad impedirci di comprendere a fondo le intenzioni non del tutto amichevoli del nostro interlocutore, inibendo la nostra capacità di rilevare le intenzioni nascoste nelle facce degli altri. La psicologa ricercatrice Eyal Winter e il suo team hanno chiesto a un campione di 84 individui di guardare il programma “Friend or Foe?” (amico o nemico?) e valutare, dopo dopo essere stati istruiti per farlo, chi era sincero e degno di fiducia e chi no. Prima di guardare lo spettacolo, alcuni partecipanti hanno ricevuto una dose intranasale di ossitocina, mentre altri hanno ricevuto un placebo. Nel complesso, entrambi i gruppi erano in grado di identificare i volti amichevoli e quali concorrenti sarebbero stati in grado di cooperare. Tuttavia i risultati nei due gruppi si discostavano quando si trattava di identificare i concorrenti più falsi e ingannevoli. Secondo i ricercatori, infatti, l’ ossitocina sopprimerebbe l’attenzione per gli stimoli sociali negativi, con conseguente diminuzione della capacità di identificare l’astuzia nascosta in un volto apparentemente amichevole: “Quando motivazioni miste si nascondono sotto la patina di un volto amico, l’ ossitocina può ostacolare la nostra capacità di riconoscere che qualcosa non quadra” concludono.

Ossitocina e disturbi psichici

Proprio perché l’ ossitocina gioca un ruolo di grande importanza nella regolazione delle abilità sociali, è stato naturale il chiedersi da parte della comunità scientifica quale potesse essere il ruolo di quest’ormone nello sviluppo di quelle patologie che proprie nelle abilità relazionali trovano il loro principale aspetto di deficit.

Alcuni studi hanno riportato una “disfunzione nel processo dell’ ossitocina” nei bambini con disturbi autistici. Ci sono anche prove che i geni che influenzano l’ ossitocina, ad esempio il gene del recettore dell’ ossitocina, OXTR – possano essere coinvolti nello sviluppo dei disturbi dello spettro autistico.

Studi sul rapporto tra ossitocina e schizofrenia hanno prodotto risultati contrastanti: le associazioni con geni legati all’ ossitocina non appaiono così forti come per l’autismo. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che l’ ossitocina potrebbe essere un trattamento utile per i pazienti affetti da schizofrenia, in alcuni trial sperimentali infatti ci sono stati effetti incoraggianti sulla gravità della schizofrenia e sulla cognizione sociale.

Poiché l’ ossitocina è coinvolta nelle risposte allo stress, è stato anche studiato il suo potenziale ruolo nei disturbi dell’umore e disturbi d’ansia. Ad esempio, ci sono prove che l’ ossitocina possa essere coinvolta nelle risposte positive alla terapia elettroconvulsiva per la depressione grave. Finora ci sono  tuttavia poche prove che l’ ossitocina possa costituire un trattamento utile per l’ansia e la depressione. Lo stesso vale per i primi studi sull’ ossitocina per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo di personalità borderline.

In conclusione “l‘evidenza suggerisce un ruolo dell’ ossitocina nella fisiopatologia di alcuni disturbi psichiatrici, in particolare quelli caratterizzati da menomazioni nel funzionamento sociale” scrive Cochran, dell’University of Massachusetts Medical School. “Tuttavia, la natura preliminare dei dati attualmente disponibili preclude una chiara comprensione della natura esatta di questo ruolo”. Così, nonostante alcuni risultati promettenti, è troppo presto per concludere che l’ ossitocina possa essere un trattamento utile per l’autismo, la schizofrenia, o qualsiasi altro disturbo psichiatrico.

Non è affatto detto che riempire i pomeriggi dei bambini di attività extrascolastiche sia fonte di benessere!

Sempre più bambini e ragazzi sono coinvolti in attività extrascolastiche che si vanno necessariamente ad inserire nella routine della vita familiare. Lezioni di musica, di teatro, attività sportive, etc. scandiscono quasi tutti i giorni della settimana.

 

Gli autori del presente studio, i ricercatori Wheeler e Green della Chester University, vogliono indagare l’impatto che le attività extrascolastiche dei figli hanno sulla vita familiare.

I genitori, anche come conseguenza dell’emancipazione femminile, tendono a considerare i propri figli “progetti di sviluppo”, investendo considerevolmente nel loro sviluppo educativo con l’obiettivo di garantire loro un futuro migliore. In particolare, per quanto riguarda lo sport viene ritenuto che l’infanzia sia l’età migliore in cui poter gettare le basi per costruire future carriere agonistiche sportive.

Seguendo questa rotta il settore commerciale si è aperto al mondo dell’istruzione primaria, rispondendo ai bisogni dei genitori di sviluppo delle competenze e abilità dei loro figli.

Lo studio

I dati del progetto di ricerca sono stati ricavati attraverso 90 interviste semi-strutturate rivolte ai genitori e bambini di 62 famiglie inglesi, abitanti in aree urbane (25), semi-rurali (16) e rurali (7).

Il reclutamento è avvenuto attraverso 24 scuole situate entro 4 km dal centro cittadino. Le famiglie partecipanti erano per la maggior parte dei casi composte da due genitori biologici (41), 4 famiglie composte dai figli, madre biologica e padre non biologico e 3 famiglie composte dai figli e dalla madre single. Inoltre, la maggior parte delle famiglie era composta da due figli (30), alcune famiglie composte da un figlio (7) ed altre famiglie composte da tre o più figli (11).

Le interviste semi-strutturate, di durata di circa 2-3 ore per genitore e di 15 minuti per bambino, progettate ad hoc per indagare i processi sociali e le dinamiche interne alle famiglie si sono basate su tre punti centrali:

  • Modalità con cui i genitori sono stati coinvolti nell’istruzione dei propri figli e nelle attività extrascolastiche;
  • I fattori che hanno influenzato il coinvolgimento dei genitori nelle attività extrascolastiche;
  • I cambiamenti generazionali nel coinvolgimento dei genitori nelle attività extrascolastiche dei propri figli.

Durante l’intervista sono stati inoltre indagati il tipo di attività, la cadenza ed i luoghi in cui tale attività avvengono.

Le interviste sono state registrate e trascritte, per essere analizzate su base settimanale durante il corso dello studio, attraverso un software NVivo per l’analisi qualitativa computer assistita.

I risultati: attività extrascolastiche e conseguenze sulla vita familiare

Dai risultati emerge come la maggior parte dei bambini (88%) svolge attività extrascolastiche 4-5 pomeriggi alla settimana ed il 58% del campione svolge più di una singola attività extrascolastica a pomeriggio/sera.

Da questi dati risulta come il coinvolgimento extrascolastico domina la vita familiare, in modo particolare per le famiglie con più di un figlio. Questo determina un minor tempo di qualità vissuto in famiglia, una minore quantità di risorse in termini di denaro ed energia dei genitori.

Dunque, di fronte alla pressione di avere un programma settimanale extrascolastico completo, sembra che gli effetti di questa costante occupazione gravino in maniera significativa sul benessere familiare.

Conclusioni

La Dr.ssa Wheeler, principale ricercatrice dello studio, afferma:

[blockquote style=”1″]I genitori sono particolarmente desiderosi di assicurare che i loro figli entrino a pieno nella vita adulta: i genitori avviano e facilitano la partecipazione dei loro figli alle attività organizzate dimostrando di essere dei buoni genitori. Sperano che tali attività possano avvantaggiare i loro figli sia a breve termine (mantenendoli in forma e sani e aiutandoli a sviluppare gruppi di pari) sia a lungo termine (migliorando le loro prospettive di lavoro). Tuttavia, la nostra ricerca evidenzia che la realtà può essere in qualche modo diversa: mentre i bambini potrebbero sperimentare alcuni di questi benefici, un programma di attività organizzate può mettere a dura prova le relazioni dei genitori e delle famiglie, nonché potenzialmente danneggiare lo sviluppo e il benessere dei bambini.[/blockquote]

 

Le riserve di tempo, denaro ed energia dei genitori sono spesso notevolmente esaurite ed i matrimoni possono essere messi a rischio a causa delle esigenze di sostenere la partecipazione dei loro figli alle attività pomeridiane per garantirgli un futuro migliore.

Sulla base di quanto emerso, è dunque possibile affermare che il benessere personale dei componenti della famiglia ed il benessere della famiglia stesso sembra esser messo al secondo posto rispetto a speranze sociali, presenti e future, per i propri figli.

Aumentare la consapevolezza rispetto alle conseguenze sul benessere/malessere di questa pressione può aiutare i genitori a pianificare un programma meno frenetico per i propri figli. A supporto di questo difficile compito che attende i genitori e, più in generale l’intera famiglia, è importante che la ricerca futura continui ad indagare lo stato di salute fisica, mentale e sociale associato alla partecipazione costante ad attività extrascolastiche organizzate.

Il Training Autogeno, una pratica di auto distensione. Cos’è e come funziona

Il training autogeno è un metodo di auto distensione mente-corpo che una volta acquisito, praticato ed allenato può essere di sostegno nelle situazioni di difficoltà.

In primis è un metodo, cioè significa che consta di precise regole per l’apprendimento e, in quanto tale, di applicazioni ripetute nel corso del tempo perché risulti efficace. Il training autogeno è un metodo, appunto,  di auto-distensione, ciò significa che chiunque lo impari poi lo potrà gestire in maniera autonoma in praticamente qualsiasi situazione e luogo. Ciò conferisce a colui o colei che lo apprende l’opportunità di avere un “asso nella manica” da utilizzare in estrema autonomia senza il bisogno di aiuto da parte di altre persone. Per apprendere ed utilizzare la tecnica del training autogeno ci vogliono diversi mesi ed è necessario inoltre mantenere fresca la tecnica nel corso del tempo una volta terminano il training di base.

Questo metodo, che non è il solo utilizzato, è stato introdotto per la prima volta negli anni trenta da Johannes Heinrich Schultz, psichiatra tedesco, e risulta essere il cugino delle ben più note meditazione ed ipnosi.

Le applicazioni del training autogeno

Il training autogeno è risultato essere uno strumento estremamente versatile ed utile in molteplici situazioni problematiche. In particolare è di aiuto in situazioni di ansia e stress nelle quali avvengono molte attivazioni a livello fisico ed emotivo. La finalità degli esercizi è quella di riuscire ad esercitare una maggiore controllo per prevenire l’acutizzarsi di questo tipo di reazioni che possono, se non controllate, sfociare in attacchi di panico con le relative conseguenze.

Il training autogeno è inoltre indicato per problematiche legate all’insonnia e in tutte quelle manifestazioni dolorose acute quali l’emicrania dove l’aspetto psicosomatico risulta estremamente rilevante.

Altro ambito di applicazione del training autogeno è il settore sportivo, questa tecnica viene infatti utilizzata per stimolare e facilitare la concentrazione alla vigilia di importanti eventi sportivi.

Risulta inoltre molto utile in casi di fobie specifiche come ad esempio la paura di volare ed è inoltre consigliato in casi di somatizzazioni quali disturbi gastrointestinali, disturbi della pelle e disturbi sessuali.

Pur essendo estremamente versatile il training autogeno non è adatto a tutti, è infatti fortemente sconsigliato nelle patologie depressive e psicotiche. Un occhio di riguardo va dato nella pratica alle donne in stato di gravidanza che possono comunque avvicinarsi alla tecnica con alcune dovute accortezze, è infatti necessario apporre alcune modifiche nell’esecuzione dell’esercizio del calore e della pesantezza a causa della presenza di eventuali cambiamenti nel sistema circolatorio.  La pratica del training autogeno è inoltre controindicata per persone in fasi acute di cardiopatie, soprattutto in soggetti che hanno riportato infarti negli ultimi sei mesi.

La pratica del training autogeno: gli esercizi della calma, della pesantezza, del calore

La pratica del training autogeno necessità di abiti comodi e di un luogo preferibilmente protetto da rumori e luci intense. Gli esercizi si possono attuare in tre posizioni, la posizione sdraiata, la posizione seduta e la posizione del cocchiere. In genere la posizione privilegiata nella fase di apprendimento è quella distesa. Il soggetto deve sentirsi comodo e a proprio agio.

Il primo passaggio è l’acquisizione della respirazione che generalmente è una respirazione diaframmatica e profonda che ossigenando i tessuti induce un primo stato di rilassamento psicofisiologico. Seguono poi gli esercizi di base chiamati: esercizio della calma, esercizio della pesantezza ed esercizio del calore. L’acquisizione e la padronanza di questi tre esercizi in aggiunta alla respirazione sono da considerarsi gli elementi base per la pratica del training.

A questi tre esercizi ne seguono altri tre che sono secondari ed aiutano a stabilizzare le sensazioni positive provocate dagli esercizi svolti precedentemente: l’esercizio della fronte fresca, l’esercizio del cuore e l’esercizio del plesso solare.

Al termine della sessione di training autogeno è inoltre buona prassi praticare degli esercizi di risveglio e recupero delle normali funzioni vitali, è consigliabile consentire a ciascun soggetto di prendersi il tempo necessario per quest’ultima fase.

Generalmente al termine di ciascuna sessione, svolta in sede di training o svolta a casa come esercitazione viene chiesto ai partecipanti un breve feedback riguardo all’esperienza appena conclusasi nella quali generalmente si approfondiscono le sensazioni fisiche e psichiche provate durante gli esercizi.

Per concludere questo metodo risulta essere efficace per la maggior parte delle persone e una volta applicato può essere interiorizzato come un utile e sempre disponibile strumento per far fronte ad alcune piccole o grandi difficoltà della vita quotidiana!

 

Arte e disabilità a confronto: al via la seconda edizione di ETD #ètuttodiverso.

COMUNICATO STAMPA

10 giugno 2018 a Milano, presso la Cascina Linterno – Parco delle Cave

Milano, 4 giugno 2018. In arrivo la seconda edizione di ETD #ètuttodiverso, il festival dedicato interamente al dialogo tra disabilità e arte: un viaggio sensoriale tra musica, informazione, arte e nuove tecnologie.

ETD #ètuttodiverso vuole valorizzare la diversità attraverso la sperimentazione artistica, sfidando le persone a capovolgere il proprio punto di vista: “Si può sentire la musica senza ascoltarla? Si può gustare il cibo toccandolo?”.

L’intera giornata del 10 giugno, da vivere nella suggestiva cornice del Parco delle Cave, sarà dedicata alla sperimentazione di inedite forme di arte e di intrattenimento: il pubblico potrà viverle dalla prospettiva di chi è diversamente abile. ETD #ètuttodiverso si propone di sollevare l’attenzione su un tema poco conosciuto e raramente approfondito, la disabilità, e di sensibilizzare giovani e adulti alla conoscenza di una differente condizione di vita, considerando la diversità una risorsa dell’uomo.

Un programma ricco di appuntamenti guiderà le persone tra gli spazi della Cascina Linterno, in un viaggio a più tappe tra workshop, talk, mostre e i live musicali di alcuni degli artisti più interessanti del panorama emergente italiano.

Sul solco della prima edizione, la programmazione sarà suddivisa in tre momenti:

▪ Diurno 11:00- 12:30, dedicato a conferenze e workshop, tra i tanti: un approfondimento del metodo Montessori in collaborazione con Boboto, associazione che promuove attività orientate al mondo dell’educazione, dell’inclusività e dell’innovazione sociale; lezioni di musica con i fondatori dell’orchestra per disabili AllegroModerato; esperienze culinarie tattili a cura della food designer Giulia Soldati.

▪ Pomeridiano 12.30 – 21:00: dopo l’esibizione di Checcoro, un coro composto da trenta elementi che accompagnerà il pranzo in cascina, il talk Netflix & Think, un’occasione di confronto sul rapporto tra media e disabilità a cura della webzine The Submarine con ospiti: Laura Faraone, psicologa, Diego Cajelli, sceneggiatore, autore televisivo e radiofonico, e Violetta Bellocchio, scrittrice e docente della Scuola Holden di Torino. A seguire dj set e concerti dBEETH, Eurocrash, Mr. Island.

▪ Serale – 21:00 – 00:00: Typo Clan, Materianera e una passeggiata notturna guidata all’interno del Parco delle Cave per scoprire che la magia delle lucciole è possibile anche a Milano.

L’intero ricavato del festival verrà devoluto in beneficenza all’Associazione Il Gabbiano: noi come gli altri attiva dal 1987 nella zona 7 di Milano, che opera al servizio delle persone disabili e delle loro famiglie. Il contributo raccolto andrà a finanziare i lavori di ristrutturazione della Comunità Alloggio per persone disabili in via Don Gervasini.

Già nella scorsa edizione ETD #ètuttodiverso, grazie all’ottimo riscontro ottenuto in

termini di pubblico con circa 900 presenze, ha raccolto 1400 € devoluti in beneficenza all’Associazione ATLHA, che promuove tempo libero, vacanze e viaggi in tutto il mondo per giovani disabili.

ETD #ètuttodiverso

Pagina Facebook: www.facebook.com/ETDetuttodiverso/
Crowdfunding: https://www.produzionidalbasso.com/project/etd-etuttodiverso-one-day-festival/

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La manifestazione è organizzata da TO.T.EM, associazione culturale nata nel 2014 per creare progetti innovativi partendo da tematiche di rilevanza sociale e
culturale, in collaborazione con “Associazione amici cascina Linterno”, che dal 1994 opera a Baggio ed organizza attività di carattere didattico, sociale, ricreativo e culturale all’interno degli spazi in gestione.

Contatti Ufficio Stampa

Olga Di Bello 340.1553169 – [email protected]

Annalisa Baiocco 3336789222 – [email protected] Alessandra Di Caro 340.1575562 – [email protected]

 

Adolescenti e ACT: il lavoro con il modello DNA-V.

Intercettare l’adolescente nel suo specifico “qui ed ora”, anziché adeguare ad una delicata fase evolutiva modelli concepiti per l’infanzia o l’età adulta. Questo un importante obiettivo del lavoro che ha condotto Louise Hayes e Joseph Ciarrochi (tra i massimi esperti dell’Acceptance and Commitment Therapy, specializzati nel trattamento dell’adolescenza) al modello DNA-V, ricco di spunti, metafore, strumenti, decisamente a misura di adolescente.

Il modello DNA-V, di chiara matrice ACT, è finalizzato all’azione terapeutica nello specifico contesto adolescenziale, con l’obiettivo di aiutare il giovane ad individuare e sviluppare i propri valori e vivere in modo pienamente vitale.

DNA-V Model: l’ACT per gli adolescenti

L’acronimo DNA-V rivela con immediatezza la struttura del modello per adolescenti, imperniato su 3 competenze fondamentali:

  1. Esploratore (Discoverer)
  2. Consulente (Advisor)
  3. Osservatore (Noticer)

utilizzate al servizio dei Valori (Values). Il presupposto di base è che i giovani, spesso, facciano fatica a spostarsi in modo flessibile tra tali competenze, o necessitino di svilupparle.

Inoltre, nella sigla DNA-V vi è il richiamo a quella materia essenziale che costituisce ciascuno di noi: ogni ragazzo o ragazza può esprimere il proprio pieno potenziale, se riceve il giusto sostegno e una formazione adeguata.

DNA-V Model: le 3 competenze Consulente-Osservatore-Esploratore

Il Consulente: è la competenza finalizzata ad utilizzare insegnamenti ed esperienze passate per farsi strada nel presente. Nel modello, quella “voce interiore” che – attraverso il linguaggio e la cognizione – da senso al passato, al presente, al futuro, anche in assenza di un contatto diretto con l’esperienza. Da un lato, dunque, una competenza che ci orienta e ci preserva; da un altro, una possibile fonte di fusione cognitiva e di blocco della vitalità.
Il DNA V promuove, attraverso metafore ed attività mirate, la defusione cognitiva del ragazzo e la flessibilità in favore delle altre competenze vitali.

L’Osservatore: è la classe di comportamenti che ci permettono di notare gli eventi fisici, psicologici ed ambientali così per come accadono, trovando il nostro centro e la nostra stabilità. Una caratteristica molto presente nell’infanzia (il mondo di un bambino è tutto ciò che vede, sente, tocca, annusa o gusta) e che viene via via assottigliandosi con lo sviluppo del pensiero e del linguaggio.
Notare permette di creare uno spazio tra le esperienze interne (sentimenti, pensieri, sensazioni) ed il comportamento overt, offrendoci la possibilità di scegliere come reagire, anziché dar seguito all’azione automatica, quando fronteggiamo pensieri o emozioni difficili. Consente inoltre di acquisire consapevolezza dell’esito delle nostre azioni.
Il DNA V presenta training, metafore ed attività utili a potenziare l’Osservatore, competenza utilizzabile strategicamente per sbloccarsi dallo spazio del consulente, quando necessario.

L’Esploratore: incarna il legame tra valori, flessibilità ed azione impegnata, aspetti fondamentali dell’ACT. Lo scopo di questa competenza è quello di stimolare l’espansione del repertorio comportamentale, attraverso l’esplorazione di nuove esperienze, l’osservazione e la mappatura dell’efficacia a livello individuale, l’individuazione dei Valori e, di conseguenza, la costruzione dei propri punti di forza.

Per Valori si intendono quelle qualità dell’agire che, come una bussola, possono orientarci nelle direzioni “importanti per noi”. Vivere in maniera coerente ai propri valori dona pienezza, vitalità ed energia. Il repertorio dei valori, in adolescenza, è in fase di sviluppo: il ruolo del terapeuta è quello di accompagnare il giovane alla scoperta e sperimentazione dei propri valori.

DNA-V Model: Adolescente e terapeuta nella danza della vitalità

Quali scenari terapeutici si aprono, dunque, attraverso l’utilizzo del DNA-V?
Nei giovani, il modello promuove la flessibilità psicologica, o meglio una “forza flessibile”, intesa come capacità di utilizzare le 3 competenze di base per promuovere la crescita, la vitalità e le azioni orientate verso i valori.
Ai terapeuti, il DNA V permette (anche attraverso il lavoro sulla visione di sé e sulla visione sociale) di creare contesti idonei a promuovere le 3 competenze, per costruire nuovi comportamenti orientati ai valori.
Come sottolinea la Hayes, è fondamentale che terapeuta e adolescente “danzino insieme”. La flessibilità riguarda dunque anche lo psicologo, che si lascia condurre nel mondo adolescenziale, attivando le proprie competenze di Esploratore, Osservatore, Consulente, insieme al ragazzo, in un tempo scandito dal suo ritmo e dalle sue passioni.

In Italia è attivo il gruppo di ricerca di ACT for Kids and Teens, che si occupa di sviluppare ed applicare nuove terapie cognitivo comportamentali all’età evolutiva. Di recente validazione due importanti strumenti di assessment: l’Avoidance and Fusion Questionnaire for Youth (I-AFQ-Y, misura dell’inflessibilità psicologica dell’adolescente) e la Child and Adolescent Mindfulness Measure (I-CAMM, misura delle abilità di mindfulness).

La ricerca smentisce: intimità sessuale e declino cognitivo in terza età non sembrano essere tra loro connessi – FluIDsex

Il declino cognitivo, in particolare delle prestazioni della memoria, non sembra  essere correlato all’ attività sessuale o alla vicinanza emotiva con il proprio partner.

 

La letteratura ha mostrato varie volte come le persone anziane che godono di una vita sessualmente attiva ed emotivamente stretta con il proprio partner tendono a migliorare nei test cognitivi rispetto alle persone anziane inattive sessualmente. In particolare, un precedente lavoro sperimentale aveva stabilito come l’ attività sessuale migliora la memoria episodica e la salute cognitiva di roditori, ovvero l’ attività sessuale ha stimolato la crescita dei neuroni presenti nell’ippocampo, regione cerebrale deputata alle attività mnemoniche (Andreano & Cahill, 2009; Leuner, Glasper & Gould, 2010; Wright & Jenks, 2016).

L’anno precedente era stato pubblicato sul The Journals of Gerontology (series B) uno studio della Coventry University e Oxford University su un campione umano, nel quale emergeva come un’ attività sessuale regolare fosse collegata al miglioramento della funzione cerebrale negli anziani (73 soggetti di età compresa tra i 50 e gli 83 anni), in particolare in compiti di fluidità verbale ed in compiti visuo-spaziali (Wright et al., 2017).

Esiste davvero una relazione tra attività sessuale e declino cognitivo?

Nel presente studio, condotto da Mark Allen della Wollongong University (Australia), vengono presi in considerazione i dati di 6000 adulti maggiori di 50 anni (media 66 anni, deviazione standard 8 anni) e ciò che emerge è in contrasto con quanto emerso nei precedenti studi: non esiste alcun legame tra attività sessuale e tasso di declino cognitivo.

Nonostante diversi fattori legati allo stile di vita, tra i quali livelli di istruzione, abitudini di consumo di fumo e alcol e livelli di attività fisica giochino un ruolo nella velocità e nell’estensione del declino cognitivo dell’anziano, l’ attività sessuale non sembra rientrare in questi fattori. In particolare, l’autore ha indagato se l’ attività sessuale continua e l’esperienza della vicinanza emotiva con un partner hanno qualche effetto sulla memoria e sul suo decadimento.

I dati analizzati da Allen fanno parte degli elementi registrati durante lo studio longitudinale inglese dell’invecchiamento (ELSA) tenutosi dal 2012 al 2014. Il bagaglio di dati contenuti in questo studio include informazioni sulla salute, sulla dieta, sul benessere e sullo stato socio-economico di un gruppo di 6016 adulti inglesi, i quali hanno completato compiti di memoria episodica ed un questionario in cui hanno riportato la frequenza di attività intime (baci, contatto sessuale e rapporti sessuali).

Ciò che è emerso è stato un calo generale del punteggio al test di memoria proporzionale all’aumentare dell’età, in tutti i partecipanti. L’autore ha infatti dichiarato:

[blockquote style=”1″]Il declino delle prestazioni della memoria nel tempo non era correlato all’ attività sessuale o alla vicinanza emotiva durante l’ attività sessuale associata.[/blockquote]

In base ai risultati ottenuti, Allen non può riconfermare quanto emerso da precedenti studi rispetto al miglioramento cognitivo come conseguenza di un’ attività sessuale frequente.


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

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