Grazie alla sua attività lavorativa Donald Winnicott ha l’opportunità di riflettere a fondo sullo sviluppo nei primi mesi di vita del bambino e del rapporto speciale che lo lega alla madre. Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di un rapporto (Winnicott, 1964).
“Sotto mamma sta piangendo
piangendo
piangendo
in questo modo la conoscevo
Una volta, steso sul suo grembo
come ora su albero morto
Imparai a farla sorridere
a fermare le sue lacrime
ad annullare la sua colpa
a guarire la morte che aveva dentro
il rallegrarla era la mia ragione di vita”(Da “L’albero”, poesia di D.W. Winnicott)
Donald Winnicott: le sue origini
Donald Winnicott nacque il 7 aprile del 1896 a Plymouth, nel Devon, da un’agiata famiglia protestante. Terzo di tre figli, le due sorelle maggiori, di cinque e sei anni, lo accudirono e lo riempirono di attenzioni.
La madre era una donna affettuosa e tollerante, ma depressa, come emerge dalla poesia dello stesso Winnicott, che spesso si ritrovò, fin dalla più tenere infanzia, a dover divertire e sostenere la madre.
Il padre era un commerciante, sempre molto impegnato politicamente. Infatti fu sindaco, giudice di pace e, in seguito, nominato cavaliere. Da un lato la devozione civica paterna servì da modello per Donald Winnicot, ma la presenza-assenza del padre fu un comportamento ambivalente che generò diversi vissuti emotivi.
A 12 anni iniziò a frequentare cattive compagnie, motivo per cui il padre, rimproverando la madre per non aver controllato il figlio, lo mandò in un collegio.
Donald Winnicott: la formazione
Donald Winnicott, nel 1910, all’età di 14 anni, entrò alla Leys School di Cambridge, scuola metodista inglese, distante da Plymouth più di trecento chilometri. I quattro anni passati in questo collegio furono molto positivi, sia dal punto di vista intellettuale che sociale. Conobbe molti amici, giocò nella squadra di rugby del collegio, si dedicò a svariate attività di studio e agonistiche.
Questa esperienza in collegio lo fece crescere e maturare e fu proprio qui che incontrò la vita culturale che aveva solo potuto sfiorare durante l’infanzia osservando il padre.
In Winnicott adolescente crebbe sempre più il desiderio di diventare medico proprio quando, a causa di una frattura alla clavicola durante una partita di rugby, dovette assentarsi dall’attività sportiva per essere ricoverato nel sanatorio del collegio. Così, decise che non avrebbe più voluto dipendere da nessun medico e, dopo aver comunicato le proprie intenzioni al padre, grazie all’aiuto di un amico di famiglia che mediò per convincere il padre ad accettare la decisione del figlio, nel 1914 venne ammesso nel Jesus College di Cambridge, come studente del corso preparatorio di medicina.
All’università conseguì un bachelors of arts di terza classe e in seguito conseguì un Master of Arts. Gli anni trascorsi come studente di medicina furono interrotti dalla guerra, durante la quale Donald Winnicott lavorò nei college trasformati in ospedali militari. Essendo studente di medicina fu esonerato dall’esercito e la perdita di molti cari amici caduti in guerra divenne uno dei rimpianti della sua vita.
Nel 1917 Donald Winnicott riuscì ad arruolarsi nella Royal Navy e fu accettato come tirocinante a bordo di un cacciatorpediniere, nonostante non avesse mai seguito nessun training medico. Nel 1918, a guerra finita, Winnicott si recò al Saint Bartholomew Hospital di Londra per completare la propria formazione medica e nel 1920 si specializzò in medicina infantile, oggi chiamata pediatria. Già nei primi anni del suo lavoro come pediatra, emerse la grande attenzione di Winnicott per la componente psicologica, considerata un fattore primario nella patogenesi di molti disturbi. Ciò lo portò ad arricchire ulteriormente le proprie conoscenze, studiando psicoanalisi.
A 23 anni Donald ricevette in regalo il libro di Freud “L’interpretazione dei sogni”, che lo colpì profondamente. Iniziò così a studiare tutta l’opera di Freud, rendendosi conto di quanto fosse importante rendere accessibile alla coscienza ciò che è rimosso.
I matrimoni e l’analisi personale
Il 7 luglio del 1923 si sposò con Alice Buxton Tylor, nata a Birmingham da una famiglia metodista profondamente religiosa. Uno dei fratelli di Alice, Jim, divenne medico e buon amico di Donald Winnicott.
Nello stesso anno Winnicott acquistò uno studio nella zona di Harley Street e cominciò la professione privata.
Il matrimonio con la giovane Alice fu caratterizzato da una completa assenza di relazioni sessuali e, Winnicott, vedendosi come un ragazzo inibito in questa relazione, decise di intraprendere un’analisi personale.
Donald Winnicot divenne paziente di James Strachey, nove anni più vecchio di lui, con cui svolse il lavoro di analisi e di supervisione, che proseguì fino al 1933. Strachey fu uno dei membri del Bloomsbury, e fu analizzato e supervisionato da Freud per quattro anni, che lo considerò idoneo a diventare psicoanalista. Winnicott ad un certo punto si rese conto che il percorso individuale di Strachey era insufficiente e considerò di iniziare una seconda analisi con James Gloves.
Verso la fine degli anni ‘30, Winnicott lavorò al Paddington Green Hospital, dove studiò psicoanalisi infantile sotto la supervisione di Melanie Klein. Tra il 1935 e il 1939 lo stesso Winnicott analizzò il figlio della Klein, Eric. Proprio per questo motivo, egli rifiutò l’analisi con Melanie Klein, che gli consigliò di recarsi da Joan Riviér, una delle maggiori sostenitrici delle teorie kleiniane e uno dei membri fondatori della British Psychoanalytical Society, di cui Donald Winnicott entrò a far parte nel 1935.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Winnicott fu assunto come consulente nell’Oxfordshire, dove erano nati degli istituti per bambini evacuati dalla città. Fu qui che conobbe la seconda moglie, Clare Britton, un’assistente sociale che incontrava durante le riunioni dello staff. I due discutevano moltissimo di lavoro, sia durante gli incontri, sia attraverso le lettere, finché decisero di scrivere un articolo a quattro mani. A questo punto la loro relazione si trasformò in una vera e propria storia d’amore, nonostante Donald Winnicott fosse ancora sposato e vivesse con Alice. Questa nuova relazione, però, sfociò in un nuovo matrimonio nel 1951.
Winnicott visse nella sua casa di Hampstead fino al 1949, per poi trasferirsi a Londra, dove morì, dopo una serie di attacchi di cuore, nel 1971.
Donald Winnicott e la sua teoria
Tra fusione e separatezza: l’oggetto transizionale e il gioco
Grazie alla sua attività lavorativa Donald Winnicott ha l’opportunità di riflettere a fondo sullo sviluppo nei primi mesi di vita del bambino e del rapporto speciale che lo lega alla madre. Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di un rapporto (Winnicott, 1964). I bambini hanno, infatti, bisogno della madre: lo sviluppo ha luogo perché c’è una madre sufficientemente buona che, attraverso un comportamento adattivo e di identificazione con i bisogni del bambino, fa sì che questo gradualmente possa procedere lungo la propria linea di sviluppo. Una madre sufficientemente buona si adatta ai bisogni del neonato e ne supporta il senso di onnipotenza. Malgrado il bambino possieda un potenziale innato per svilupparsi, senza una madre sufficientemente buona, che si prodighi nella cura del figlio, non sarà in grado di divenire una persona indipendente.
Nel corso del tempo comincia a cessare questa fusione per permettere al bambino di comprendere che esiste un mondo esterno.
Nei primi anni di vita, nello stato simbiotico di unicità madre-bambino, infatti, “il bambino non esiste” (Winnicott, 1961), ma crescendo ha inizio la separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita.
Essere separati significa riconoscere i propri confini e i confini degli altri, riconoscere il proprio Sé come unico, riconoscere che “Io sono Io” e trovare conferma negli altri significativi che “Sì, tu sei tu” (Viorst, 2014). Separarsi significa diventare indipendenti, significa essere. Essere genitori, allo stesso tempo, significa promuovere e supportare lo sviluppo fisico, emotivo e mentale del bambino (De Carli et al., 2018): è grazie alle prime relazioni che egli può costruire mappe interiori di sé e del mondo, sulle quali si plasma il senso di sé.
Durante questo passaggio dalla fusione alla separatezza, ci si avvale spesso di quello che Donald Winnicott definisce oggetto transizionale, cioè quegli oggetti che accompagnano il bambino nel distacco dalla madre, offrendo un’alternativa intermedia tra la madre e la totale assenza di lei. Tipicamente si tratta di un gioco o di una coperta che il bambino porta con sé.
Tale oggetto dà inizio a un’area intermedia di esperienza a in cui si incontrano la realtà interna e la vita esterna del bambino.
L’uso che il bambino fa del suo oggetto transizionale, rappresenta per Winnicott il primo uso di un simbolo e la sua prima esperienza di gioco. Il gioco, dunque, risiede in questa stessa area transizionale, nella quale soggettivo e oggettivo sono indistinti, che nasce dal rapporto di fiducia del bambino nei confronti della madre e che dà origine alla idea del magico. In questa area di gioco il bambino raccoglie oggetti o fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale.
Il gioco, dunque, è per Donald Winnicott sempre un’esperienza creativa e la capacità di giocare consente al soggetto di esprimere l’intero potenziale della propria personalità, grazie alla sospensione del giudizio di verità sul mondo. In questo modo, attraverso un atteggiamento ludico verso il mondo, e solo qui, in questa terza area neutra e intermedia tra il soggettivo e l’oggettivo, può comparire l’atto creativo, che permette al soggetto di trovare se stesso, di essere a contatto con il nucleo del proprio Sé. Il gioco assorto dei bambini si colloca in uno spazio potenziale fra il Sé individuale e l’ambiente. Le principali caratteristiche del gioco sono:
- assorta partecipazione in uno stato di quasi isolamento;
- il bambino manipola fenomeni esterni al servizio del gioco;
- il gioco implica fiducia nell’ambiente e la capacità di stare solo;
- il gioco coinvolge il corpo (a causa della manipolazione degli oggetti);
- il gioco è soddisfacente.
È solo nel gioco che i bambini riescono ad essere creativi, usando la loro personalità e scoprendo se stessi, con l’obiettivo di formarsi come persona intera, diversa dagli altri con cui è in relazione.
La teoria dello sviluppo emotivo e il sé
Secondo Donald Winnicott la crescita è una forza motrice e motivante dell’uomo, fin dall’inizio della vita. La definizione di ciò che siamo è per Winnicott un progresso, determinato biologicamente e anteriore alla nascita, che implica l’evoluzione della persona, della psiche-soma, della personalità, della mente, della socializzazione e dell’adattamento ambientale.
Specificamente la teoria dello sviluppo emotivo si occupa dell’evoluzione del Sé, inteso come identità personale. Inizialmente, nel bambino, c’è un “Sé centrale primario”, che è il potenziale innato che sperimenta la continuità dell’essere, acquisisce una realtà psichica personale e uno schema corporeo e che diverrà poi “nucleo del Sé” (detto anche “vero Sé potenziale”). Successivamente, grazie all’esperienza, allo sviluppo neurologico, all’elaborazione mentale e all’ambiente favorevole, emerge il mondo interno del bambino. Quando l’individuo raggiungerà la maturità, la sua personalità si strutturerà in questo modo:
- Al centro porrà il sé centrale
- Alla base, l’IO, difensore del Sé e organizzatore delle strutture psichiche.
Una delle principali funzioni dell’Io è l’elaborazione mentale di eventi sensoriali e motori, che diviene successivamente la realtà psichica personale e definisce la persona nella sua interezza e unità.
Proprio lo stretto legame che vi è fra mente e corpo fa si che il Sé compaia “non appena c’è un accenno di organizzazione mentale e significhi poco più della formazione di dati sensoriali-motori” (Winnicott D., 1975).
Il processo per cui una persona si sente intera è l’integrazione dell’Io, resa possibile dall’esperienza della continuità e dall’idea che nulla di ciò che è accaduto andrà mai perso (anche se spesso sarà inaccessibile alla coscienza). Il bambino si trova, all’inizio della sua vita, in uno stato privo di integrazione, quindi, per raggiungere la sua integrazione, saranno necessarie le cure di una madre sufficientemente buona.
Falso Sé e Vero Sé
È da questa concezione del Sé che si origina la proposta dell’autore di distinguere tra un vero Sé e un falso Sé. Il vero Sé sarebbe il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo. Il falso Sé, invece non farebbe “altro che raccogliere insieme gli elementi dell’esperienza del vivere” (Winnicott D., 1971). La sua funzione sarebbe, dunque, quella di costruire una protezione di fronte ad un ambiente che si è rilevato molte volte inadeguato ad anticipare il bisogno del bambino, costringendolo a subire una realtà esterna frustante.
La madre non “sufficientemente buona” non ha colto e valorizzato il gesto del figlio ma ha sostituito “il proprio gesto chiedendo al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscenda. Questa condiscenda è lo stadio più precoce del falso Sé, e dipende dall’incapacità della madre di capire i bisogni del figlio”.
Il bambino pertanto, è costretto a dare senso da solo al proprio gesto, ma per farlo userà la condiscenda imitativa ma che è lontana dal vero Sé.
Il falso Sé nasce, dunque, come difesa del bambino di fronte ad un ambiente primario che non si adatta sufficientemente bene ai suoi bisogni.
Mediante il falso Sé il bambino si crea un sistema di rapporti falsi che sembrano reali, egli “diventa proprio come la madre, la balia, la zia, il fratello e qualsiasi persona che in quel momento domini la scena”. L’esistenza del vero Sé è così nascosta, poiché ci sono richieste ambientali impensabili e la realtà diviene non tollerabile.
Il bambino può esprimere la propria protesta per questa sua condizione tramite “un’irrequietezza generale e/o disturbi dell’alimentazione”. Queste manifestazioni possono scomparire o ripetersi in modo diverso o presentarsi, in forma più acuta, in altre fasi dello sviluppo.
Naturalmente ognuno di noi ha, in misura variabile, un falso Sé, poiché, senza di esso, saremmo persone “con il cuore in mano”, troppo vulnerabili di fronte agli altri (Gentile, 2017).
L’holding e l’handling
Una delle più importanti funzioni di una madre buona è quella di favorire il processo di integrazione dell’Io del bambino, attraverso la sua identificazione con esso (relazione egoica) e il suo contenimento (holding). L’holding, che sostiene l’Io debole e immaturo del bambino, implica due processi:
- Proteggere il bambino da eventi traumatici;
- Prendersi cura del bambino rispondendo ai suoi bisogni
Tali processi permettono inoltre di acquisire un senso di fiducia nella madre e nell’ambiente più in generale. Il bisogno di contenimento non è solo legato al periodo di assoluta dipendenza dalla madre, ma ritorna nella vita di ognuno, ogniqualvolta si presentano situazioni particolarmente minacciose o stressanti.
Una madre sufficientemente buona ha anche un’altra specifica funzione: la manipolazione (handling), che si riferisce alla modalità di maneggiare il figlio. La madre è capace di tenere il bambino naturalmente in modo che tutte le parti del corpo siano raccolte per formare, nella continuità, uno schema corporeo personale.
La dipendenza, inoltre, è un altro concetto centrale nella teoria di Donald Winnicott. Egli sostiene che si articoli in tre stadi:
- Dipendenza assoluta, il bambino sa solo trarre vantaggio o essere danneggiato dalle cure materne, non ha alcun controllo su di esse.
- Dipendenza relativa, il bambino si rende sempre più conto del bisogno di specifiche cure materne e le collega ad un impulso personale.
- Indipendenza, il bambino sviluppa dei propri modi per fare a meno delle cure concrete, attraverso i ricordi delle cure materne. L’indipendenza non è mai assoluta, in quanto l’individuo sano non si isola dall’ambiente, ma interagisce con esso in modo interdipendente.
Per arrivare all’interdipendenza, ogni individuo deve raggiungere tre obiettivi, ovvero l’integrazione delle diverse parti di sé, la personalizzazione, attraverso cui il bambino esperisce il corpo come parte di sé e a sentire il Sé sito nel corpo e la relazione d’oggetto, che permette di distinguere il sé dal non-Sè, la realtà interna dalla realtà esterna.
Lo sviluppo ha luogo dunque perché c’è una madre sufficientemente buona che, attraverso un comportamento adattivo e di identificazione con i bisogni del bambino, attraverso il sostegno e il contenimento fisico e psichico (holding), le cure corporee (handling) e la capacità di mettere a disposizione al bambino l’oggetto al momento giusto (object – presenting), fa sì che questo gradualmente possa procedere lungo la propria linea di sviluppo e conquistare i processi di integrazione, di separazione e la capacità di vivere il proprio corpo in relazione agli oggetti (Winnicott, 1961). In questo modo, gradualmente, si stabiliscono le condizioni necessarie secondo Donald Winnicott affinché il processo ereditario di crescita possa attuare le sue potenzialità, consentendo al bambino di arrivare a vivere un’esistenza integrata e separata, costruita su un Vero Sé (Winnicott, 1970).