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Forze del destino (2021) di Christopher Bollas – Recensione

'Forze del destino' ripropone il concetto di “vero sé” di Winnicott per dare un’enfasi particolare a quella che risulta la configurazione unica dell’essere

Di Marvin Rosano

Pubblicato il 27 Ott. 2021

Bollas, nel suo testo Forze del destino, descrive quella che definisce come pulsione del destino, affrontando in maniera molto chiara la distinzione tra fato e destino.

 

Bollas, in questo testo, ripropone il concetto di “vero sé” esposto da Winnicott, al fine di dare un’enfasi particolare a quella che risulta la “configurazione unica dell’essere” o, come viene definita da lui, “idioma personale” e quanto, in questo processo, sia fondamentale l’uso che il paziente fa degli elementi dello psicoterapeuta, “l’uso dell’oggetto” descritto da Winnicott, lo sviluppo di “spazi intermedi e potenziali” e la possibilità di stimolare un processo creativo di realizzazione del proprio potenziale.

Uno degli aspetti fondamentali che caratterizza questo lavoro di Bollas, è proprio l’importanza dell’uso dello psicoterapeuta da parte del paziente, attraverso il quale articolare ed elaborare il proprio idioma personale, che si potrebbe ricollegare a ciò che Recalcati (2020) definisce come un “dare forma alla forza della vita”.  Winnicott, definisce il vero sé come “una potenzialità ereditata di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio, con un proprio ritmo, una realtà psichica e uno schema corporeo personali”. Il vero sé della persona, o l’idioma per come viene definito da Bollas, è un insieme di possibilità specifiche che, per potersi articolare, hanno bisogno dell’esperienza vissuta nel mondo reale, e quindi, nei singoli villaggi viventi, composti da oggetti scelti per coltivare necessità, desideri, interessi e che vengono costantemente creati nella vita di ciascuno di noi. Quindi, nel dare vita a spazi potenziali, “spazi psichici” che consentano l’espressione del proprio idioma, risulta essenziale una dialettica tra idioma personale e cultura umana, che favorisca un sano equilibrio di forze tra il vero sé della persona e il mondo reale.

In particolare, questa dialettica, rappresenta ciò che venne messo in rilievo da Winnicott, attraverso “i fenomeni transizionali”. Esperienze di attaccamento sicuro, che consentano al bambino di sperimentare un senso di continuità nell’esperienza di sé e dell’altro, in cui i genitori abbiano un buon senso intuitivo del figlio, riescano a rappresentarselo nel viso, nei gesti, nel linguaggio in modo sensibile al suo idioma personale e, a detta di Bollas, gli presentino gli “oggetti da usare”, permettono al bambino di “giocare con la realtà”, di godere nel rappresentare se stesso, di acquisire quella che Fonagy definisce “mentalità psicologica” e celebrare quindi l’arte della trasformazione nell’esperienza con l’altro. Per Winnicott, un iniziale adattamento attivo ai bisogni del bambino risulta essenziale per dar vita ai fenomeni transizionali, i quali quindi non possono prescindere da una condizione di dipendenza. In particolare, esperienze di illusione da parte dei caregiver, consentono al bambino di fare esperienza di onnipotenza.

Winnicott (1965), scrive: “La madre colloca il seno reale, laddove il bambino è pronto a crearlo e al momento giusto”. Senza l’esperienza dell’illusione, non c’è per nessun essere umano alcun significato nell’idea di una relazione con un oggetto e che quindi costituisce la base fondante della creatività primaria. Sempre Winnicott (1965) scrive come le graduali esperienze di delusione portino ad un rapporto con la realtà esterna che riconosca il limite, ma senza un equilibrio tra esperienze di illusione e delusione il bambino non impara che esiste un limite all’esperienza della frustrazione, non crea spazio psichico e la continuità dell’esperienza resta bloccata in stati mentali congelati. Bollas, inoltre, scrive che il concetto di uso dell’oggetto presuppone che il bambino possieda un senso relativamente sicuro dell’amore dell’oggetto, il che gli permette di sperimentare tutta un’ampia gamma di stati emotivi e mentali in relazione a se stessi e all’altro e quindi di comprendere la realtà in termini di stati mentali intenzionali e del loro rapporto con l’esterno. L’oggetto è reale e sopravvive alla distruzione in quanto oggetto interno, dotato di uno spazio psichico. Ciò, a mio avviso, si riconnette a quello che Bromberg (2011) definisce come capacità di essere sé stessi nel cambiamento. Winnicott (1965) afferma: “Si suppone quindi che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà esterna con quella interna e che tale sforzo venga alleviato da quest’area intermedia”.

Bollas, nel suo testo, continua descrivendo quella che lui definisce come pulsione del destino, affrontando in maniera molto chiara la distinzione tra fato e destino, essenziale peraltro nella distinzione tra le manifestazioni di un “vero sé” e di un “falso sé”. Fato, participio passato del verbo fari, che significa parlare, viene definito nel testo come il potere che si ritiene determini il risultato degli eventi prima che essi avvengano e che, quindi, volendolo utilizzare come metafora, permette di cogliere come la persona maturi l’impressione, che può diventare certezza, di essere determinata dalla propria storia di vita. Una persona colpita dal fato, è già una persona che non ha sperimentato la realtà favorevole alla soddisfazione del suo idioma interno e che quindi darà agli oggetti interni scissi e proiettati all’esterno maggior potere di influenzare la propria vita, con il solo risultato di avere delle esperienze abortite di se stesso in relazione agli altri. Il soggetto in questione si cristallizza nella credenza che gli eventi gli accadano, in una realtà dove ciò che prevale è lo stimolo e non la rappresentazione, in cui il sé è formato da isole e in cui le aree intermedie di esperienza tra l’interno e l’esterno risultano morte.

Una persona che si sente predestinata può immaginare opzioni per il futuro che portano il peso della disperazione. Invece di possedere opzioni per il futuro che nutrono la persona nel presente e che servono ad esplorare creativamente i percorsi di viaggi potenziali, la persona predestinata proietta solo gli oracoli. Bollas, all’interno del testo, accenna al caso di Nancy, la quale, per come descritto dall’autore, era solita fare affermazioni sciocche che mettevano un sigillo alle azioni, privando se stessa e l’altro di ogni potenziale autenticità d’incontro. Ad esempio, seduta in salotto con il suo ragazzo gli diceva: “Andiamo all’opera”. Non usava espressioni che coinvolgessero realmente l’altro come del tipo: “Mi piacerebbe andare all’opera”. Poteva annunciare azioni improvvise che potevano alterare il corso della vita in qualunque momento. La relazione con i genitori era pervasa da un clima di costrizione e assolutizzante, in cui obbligavano lei e loro stessi ad azioni drasticamente alternative, quali cambiare improvvisamente scuola, stile di abbigliamento, casa, amici. La continuità nell’esperienza di sé e dell’altro, l’equilibrio tra illusione e delusione, la possibilità di fare esperienza di una molteplicità di aspetti di sé e dell’altro, di coltivare un senso di responsabilità nei confronti della propria libertà, erano state del tutto soffocate. Bollas, continuando il racconto dell’esperienza con questa paziente, fa riferimento ad un’apparente spontaneità nel modo in cui Nancy esordiva in tali affermazioni, maturando pertanto l’impressione che i suoi annunci impulsivi fossero una via di mezzo tra comandamenti fatali e destino. In particolare, un impulso poteva essere considerato un’espressione del movimento del vero sé e quindi, quando dichiarava di volere andare all’opera, in parte sposava un futuro per dare spazio ad un elemento che necessitava di un’esperienza particolare in quel momento. Ma ciò che veniva a mancare era il rispetto della soggettività dell’altro, del suo idioma, di cui probabilmente ne veniva colta una parte, ma che veniva comunque strumentalizzata e quindi soffocata nel tentativo di prepararsi a riattualizzare uno scenario fatale. Tutto ciò rappresenta la morte dell’oggetto transizionale, a detta di Bollas, un oggetto interno morto, che rimane in un aldilà spettrale e quindi impossibilitato a trasformarsi nell’esperienza.

Ricollego quest’esperienza di morte dei fenomeni transizionali e quindi di ogni generatività nel rapporto con gli altri, a ciò che Yalom (1980) dice a proposito di individui terrorizzati dalla propria solitaria vulnerabilità. Questi individui, tentano di mitigare l’angoscia attraverso modalità relazionali rigide e coatte in cui l’altro viene incorporato, o meglio la relazione con l’altro viene svuotata di potenzialità trasformative. Bollas fa riferimento a quelle che definisce “personalità spettrali”, in cui vi è il netto rifiuto di permettere agli oggetti interni di diventare esseri esistenziali, definiti dallo stesso Bollas come “oggetti alternativi”. Essi sono segreti del soggetto, che devono essere agiti verso l’interno. Il soggetto si sente come se nutrisse questi altri sé e oggetti e allo stesso tempo li incarcerasse. Questi sé vengono costantemente scissi e mantenuti interni. Secondo l’autore, ciò rappresenta una continua uccisione, in cui prevalgono sentimenti di colpa (a mio avviso connesso anche alla colpa esistenziale di cui parla Yalom (1980), in cui l’individuo si sente costantemente in difetto, esiliato dal proprio potenziale generativo e dal proprio idioma), di paura inconscia di un attacco vendicativo da parte di questi sé soffocati e di odio. Queste persone conservano il vero sé come potenziale, in uno spazio interno non intermedio, né tantomeno psichico, ma piuttosto si tratta dell’immagine di un aborto in cui il vero sé, totalmente separato dal resto del mondo, rimane potenziale senza alcuna possibilità di articolazione di un idioma personale.

All’interno del testo, viene fatto riferimento al caso di Adreinne, la quale conobbe un ragazzo in spiaggia che la invitò a cena. Fecero passeggiate romantiche sulla spiaggia e dopo qualche giorno l’uomo le dichiarò il suo amore e le disse che voleva vederla spesso. A questo punto lei non sapeva cosa fare. Andava bene come bell’oggetto sulla spiaggia, ma come persona vera con cui vivere nel tempo, era soltanto fonte di angoscia assoluta. Così cominciò a rivolgerglisi con toni sempre più bassi, come se stesse parlando ai suoi spettri, per poi interrompere il contatto visivo diretto con lui e cominciare a fargli maglioni, comprargli libri e circondarlo di doni. A detta di Bollas, questa paziente tentava di trasformare una persona viva in un oggetto interno. Una vera e propria lotta contro la vita, afferma Bollas, come se in seduta questa paziente dicesse costantemente: “Non azzardarti a portarmi alla vita”. Si sentiva costretto esistenzialmente alla non esistenza.

Altro aspetto importante, è il concetto di destino fornito da Bollas. Come accennato precedentemente, nel destino e quindi nel dare forma all’idioma personale è implicato l’uso degli oggetti e la creazione di spazi potenziali, che non può prescindere da un senso interno di aver creato la propria vita. In questo è importante che i genitori favoriscano “l’esperienza dell’onnipotenza”, la quale si sposa con un altrettanto senso interno dell’evoluzione personale nello spazio e nel tempo. Un’evoluzione che segue la maturazione progressiva dell’individuo e quindi l’integrazione tra passato, presente e futuro. Un senso del destino si potrebbe pertanto definire come quella sensazione da parte del soggetto di stare compiendo alcuni dei termini del suo idioma personale mediante oggetti familiari, sociali, culturali e intellettuali. Nondimeno quindi, lo si potrebbe intendere come un corso naturale del vero sé che, tramite spazi potenziali creati all’interno dei vari tipi di uso dell’oggetto, e quindi anche di connessione psichica con l’ambiente, coltiva un senso interno di intimità permanente che non preclude la scoperta di sé nell’incontro con l’altro ma piuttosto la incoraggia.

Nell’esperienza della psicoterapia, Bollas, indica un elemento essenziale al fine di permettere al paziente di dar forma all’idioma personale, ovvero la “spietatezza” e la disponibilità da parte dello psicoterapeuta “a farsi distruggere”. Ogni uso di transfert dell’analista è, per certi versi, una distruzione della vera personalità del terapeuta e questo uso spietato risulta essenziale per consentire al paziente di formarsi rappresentazioni sulla vita psichica in termini di stati della mente e per oltremodo riuscire ad elaborare il vero sé attraverso l’esperienza. Ma per fare esperienze di “gioco con la realtà” che permettano fenomeni transizionali, e quindi anche quella che a detta di Fonagy (2005) risulta una comprensione della realtà in termini di “stati come se”, il terapeuta deve indicare al paziente quando sia pronto ad essere distrutto. In questo senso è importante che vi sia uno spazio che consenta l’uso immaginativo del terapeuta. In questa direzione bisogna anche considerare l’uso che il terapeuta faccia del paziente, attraverso le manifestazioni del controtransfert. Interessante, a tal proposito, risulta un altro caso presentato da Bollas, in cui la paziente Jill, durante le sedute, sprofondava in silenzi mortali. Le iniziali interpretazioni di Bollas in merito alla fredda rabbia della paziente, al suo sentirsi tradita e trattata ingiustamente rispetto al fatto di non poter incontrare il terapeuta durante il fine settimana, non sembravano sortire alcun effetto, se non un ulteriore congelamento della paziente. E ciò inoltre, non permetteva alla paziente di sperimentare più parti di sé nella relazione e di formare rappresentazioni, precludendo oltretutto al terapeuta la possibilità di viaggiare tra stati della mente. Perciò, iniziò a chiedersi come si sentisse in presenza di questa paziente, che sensazioni, stati d’animo, emozioni, sentimenti stesse provando e che parte avesse lui nell’incoraggiare la paziente in questi comportamenti. Si rese conto, di non riuscire a sopportarla un minuto di più e che questi congedi freddi e morti, fossero semplicemente orribili. Perciò decise di dirglielo spontaneamente: “Lei è un mostro”, “Ciò che lei fa è mostruoso, un comportamento disumano”. La paziente, dopo un iniziale pianto di rabbia, cominciò a protestare sostenendo l’enorme ingiustizia da parte del terapeuta per poi arrivare a litigare con lui. Questa affermazione di Bollas, per quanto apparentemente possa sembrare non etica, in realtà ha favorito una molteplicità di usi dell’analista, la quale ha permesso alla paziente di passare a nuovi stati del sé. Il litigio, in questo, ha favorito un’aggressione reciproca con l’oggetto, esperienza che le era totalmente nuova. Jill si identificava con il suo fato, rendendo morta se stessa e gli altri. L’affermazione fatta da Bollas, oltre ad avere spezzato un circolo, ha avuto un carico di spietatezza non indifferente, nell’ottica presentata in questo libro. Lo stesso autore scrive: forse era determinata dal bisogno del mio vero sé di distruggere un rapporto oggettuale patologico nel tentativo di trovare e usare gli oggetti che formano la mia identità professionale e dare alla paziente la possibilità di riscoprire il suo vero sé nel processo psicoterapeutico.

Una persona colpita dal fato sprofonda in un mondo interiore in cui si ripete lo stesso scenario, o meglio, la persona si prepara a rivivere lo stesso scenario, disponendo di uno scarso senso del futuro che può essere completamente diverso dall’ambiente interno che essa porta con sé. In questo senso, la persona dispera di poter influire sul corso della propria vita, tutto le accade, si sente travolta dagli eventi. Nel senso del destino, la persona sente di muoversi nel progredire della propria personalità. Le persone che hanno un senso del destino investono psichicamente sul futuro, con una “spietatezza necessaria” e una distruttività creativa, del passato e del presente, per cercare le condizioni necessarie alle opzioni sul futuro. E, in tutto questo, vivono uno stato di solitudine fondamentale ed esistenziale che caratterizza tutti gli incontri autentici con l’altro. Winnicott scrive: “Essere soli è la condizione di fondo del nostro essere; la solitudine è il contenitore del sé”. Nel vero sé siamo soli. Anche se negoziamo il nostro io con gli altri, e popoliamo il nostro mondo interiore di sé ed altri, veniamo espressi da quell’altro che è la parola (teoria del simbolico di Lacan), il nucleo assoluto dell’essere è una solitudine senza parole e senza immagini. Scrive Bollas: “La psicoterapia è un’esperienza di solitudine”. A mio parere, la solitudine di cui parla Bollas può essere connessa alla solitudine esistenziale a cui fa riferimento Yalom, ovvero un abisso incolmabile tra l’individuo e ogni altro essere, che porta ad incontrare l’altro su un piano umano.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bollas, C. (2021). Forze del destino. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Fonagy, P; Jurist, E; Gegely, G; Target, M. (2005). Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Yalom, I. D. (2019). Psicoterapia esistenziale. Vicenza: Neri Pozzi Editore
  • Winnicott, D. (2018). Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando Editore
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