Bollas nel suo volume Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.
Cristopher Bollas, psicoanalista britannico, noto per i numerosi contributi nel panorama psicoanalitico internazionale, ci presenta Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano, il suo contributo più recente, edito ancora una volta da Cortina, in cui propone al lettore, in un tentativo originale e finemente articolato, di illuminare il destino del vero sé, la sua teoria sulla “forza del diventare”.
Il tema scelto per questo libro racconta senz’altro l’ambizioso compito di Bollas di rendere dicibile quella parte del lavoro analitico che può essere difficilmente restituita e del suo rapporto con l’enigmatico nucleo della personalità dell’uomo. Si tratta del frutto di una lunga analisi, com’è lui stesso a rivelarci, nata da un controverso intrecciarsi di teoria, clinica e vita personale, che tenta di aprire uno spazio di riflessione sull’uso che il paziente fa in analisi dell’analista come oggetto.
Bollas crede che la strada migliore per seguire questo proposito sia quella di partire da qualcosa che conosciamo, attingere ai contributi di eminenti esponenti del panorama psicoanalitico per poterne arricchire, ampliare e innovare le visioni. Con un’attenzione particolare ai concetti di vero e falso sé di Winnicott, della percezione endopsichica freudiana e della preconcezione di Bion, contributi che non siamo riusciti ad utilizzare per questo scopo, Bollas presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.
È una proposta intrigante quella che ci viene offerta, e al richiamo “Vero sé da questa parte!”, non possiamo che rispondere avanzando lungo la strada che sembra aver tracciato per noi, alla ricerca di una cura per la nostra unicità danneggiata. Di fatto, che quest’ultima possa essere stata poco riconosciuta, mal colta, ignorata, è una questione nota e molto probabilmente assai comune, meno nota è la storia, lo sono le peculiarità, gli itinerari, le coordinate spazio-temporali, le forze benefiche e ostili, le persone e le risorse che ne determinano il suo esprimersi.
Chi sarà disposto a lasciarsi guidare, dalla periferia al centro, nelle trame sempre più fitte del suo discorso potrà abbracciare con una chiarezza crescente la funzione della psicoanalisi di salvaguardare e accompagnare l’unicità della persona al suo compimento.
Partendo dal processo analitico, del quale l’autore mette in risalto la procedura decostruttiva e rielaborativa, nonché la necessaria posizione analitica e ricettiva dell’analista, quest’ultima riscontrabile proprio nel momento in cui l’analista viene usato come oggetto nel transfert, Bollas ne evidenza la loro necessaria integrazione affinché il paziente possa entrare in contatto e dare al suo vero sé la possibilità di esprimersi.
Il suo nucleo, che chiama “idioma”, non può che essere dipendente dalle prime esperienze del bambino con una madre ricettiva e facilitante e che promuove la sua articolazione, il suo procedere. Si tratta di una madre capace di amare il suo bambino nel senso più profondo che possiamo attribuirgli, che corrisponde al riconoscimento pieno di quello che egli è, l’unico necessario per essere se stesso.
Come sostiene Bollas (2021), infatti, “L’armonia tra genitore e bambino determinerà notevolmente l’evoluzione del bambino in termini di compimento del proprio destino (vero Sé) o il fatto che la sua vita sembri dominata dagli interventi del fato (falso Sé)” (p.101).
Se avessimo la possibilità di sfruttare una prospettiva longitudinale per osservare quanto egli afferma, le sue parole sembrerebbero più immediatamente comprensibili. Quello che intende dire è che ci troviamo di fronte a due condizioni, influenzate dalle cure materne, in divenire, la prima, immobile, la seconda. Quest’ultima, dominata dal fato, ci racconta di un soggetto impotente e incapace di agire attivamente sulla sua vita, svuotato di opzioni future e che si fa testimonianza della perdita di tutti i sé potenziali che non hanno avuto la possibilità di esprimersi.
Ci potremmo chiedere a questo punto cosa spinga il soggetto a compiere il destino del vero sé. Secondo Bollas, esiste in ognuno di noi una forza, che chiama in modo assolutamente acuto “pulsione del destino”, che si palesa attraverso l’uso di oggetti nel corso dell’esistenza e, come lui stesso sostiene, “[…] ogni tanto il perturbante connubio tra idioma e oggetto che si incontrano in un momento preciso, ci trasformerà” (Bollas, 2021, p.43). Come si può intuitivamente comprendere, uno di questi oggetti è proprio l’analista, la cui presenza farà emergere il desiderio nel soggetto.
A mio avviso, però, il frammento, in cui Bollas chiarisce meglio e condensa il significativo legame tra la pulsione del destino e psicoanalisi è quello in cui afferma:
La psicoanalisi è particolarmente adatta all’analisi e alla facilitazione dell’idioma del vero Sé perché l’analista, che “fornisce” al paziente un campo di oggetti (elementi della personalità dell’analista, elementi della procedura psicoanalitica, elementi di concetti psicoanalitici), crea un universo di oggetti talora osservabili nel quale il paziente si muove. Usando e organizzando gli oggetti, il paziente può vivere il vero Sé in queste esperienze (Ivi, pp. 98-99).
Bollas fa partire, dunque, la sua riflessione, “sull’uso dell’oggetto”, dall’uso che il bambino fa della madre, recuperando i contributi di Winnicott, e ricordando che, laddove le cure materne riusciranno a sostenere il senso di illusione del bambino, egli potrà evolversi. Facilitando in lui l’uso dell’oggetto transizionale, un oggetto reale che consentirà al bambino la distinzione tra il me e il non me, la madre gli permetterà di accedere a quell’area dell’esperienza che è intermedia tra quella interna e quella esterna.
Viceversa, un’esperienza opposta, fatta di cure materne insufficienti e poco responsive, contribuirà alla creazione, come ricorda Bollas, di uno spazio immaginario, uno spazio alternativo. In esso il bambino collocherà tutti gli oggetti alternativi, che Bollas ci presenta come spettri, proprio per restituirci la loro vitalità perduta.
Analizzare il rapporto che il bambino intrattiene con questi fantasmi, ci aiuta a riconoscere la loro funzione. Ricorrevi, infatti, consente al bambino di mantenersi distante dal mondo reale e dal rapporto con le persone reali che lo popolano. Sarebbe un errore, però, considerare il mondo alternativo, un mondo patologico di per sé, infatti, come Bollas (2021) ci ricorda, “[…] tutti abbiamo una linea spettrale e nutriamo lo spirito di un oggetto (come nel lutto)” (p.129), è, invece, il suo ostacolare in modo definitivo l’instaurarsi dello scambio tra il dentro e il fuori, a renderlo tale.
La solidità dell’amore del bambino per la madre rappresenta, possiamo dirlo, la sua garanzia perché la distruzione o le ripetute distruzioni possano non compromettere il suo uso. Qui la distruzione, come accade nell’uso dell’oggetto analista da parte del paziente, deve essere colta nella sua accezione positiva; è creativa e appartenente a quelli che comunemente chiamiamo istinti di vita.
Per Bollas, l’analista può essere promotore di questa esperienza a patto che manifesti la sua disponibilità e la sua comunicazione ad essere utilizzato in questo senso. Più nel dettaglio, egli si riferisce alla possibilità che l’analista conceda elementi della sua personalità per favorire l’articolarsi del vero sé del paziente, il conosciuto non pensato, proprio in quello spazio intermedio in cui sarà la libertà di gioco a influenzare l’esperienza.
Se quindi da una parte il discorso di Bollas ci conduce verso lo spazio condiviso, dall’altra il suo interesse non smette mai di essere focalizzato sull’analista, oltre che sul paziente. Un motivo di accurata riflessione in tal senso è rappresento dalla sensibilità analitica e dalla consapevolezza dell’analista di occupare la controversa posizione di essere oggetto e soggetto allo stesso tempo all’interno dell’analisi.
La consapevolezza di quest’ultima posizione, in particolare, è ciò che consente all’analista di prestare attenzione a ciò che dice e sente, di correggere le sue associazioni, laddove ne riscontri l’inadeguatezza, dare spazio dunque al disaccordo del paziente e sentirsi libero di comunicargli la discrepanza con la sua visione. Scontrarsi, allora, e in seguito incontrarsi con il non sapere rappresenta per l’analista il suo punto di arrivo; riservare a questa capacità il prezioso valore che possiede, significa riconoscergli la capacità di generare uno spazio potenziale in cui il vero sé del paziente possa esprimersi.
Ecco che: “Essere ignoti a noi stessi non è necessariamente una carenza: abbiamo bisogno dell’inconscio per fare un uso creativo del conscio” (Bollas, 2021, p.62), e questo è quanto mai vero nel lavoro interpretativo, che non può che essere costruito dalla “dialettica dei due sistemi inconsci”, quello del paziente e dell’analista.
Agli analisti chiede, infatti, “intelligenza analitica”, ossia la capacità di analizzare gli istinti di morte e di vita, impedendo il verificarsi del fenomeno secondo cui, l’affetto, l’amore, la creatività del paziente, scarsamente affrontati o avvicinati con la prudenza con cui ci si avvicina a un armamentario difensivo, finiscano per essere oscurati dalle forze opposte, in fondo, e a dispetto delle apparenze, un oggetto più agevole di studio.
La conversazione con il lettore si fa a questo punto più intima, e per dare voce, proprio a ciò che viene dimenticato, Bollas introduce il concetto di “celebrazione dell’analizzando”, ponendo in primo piano il ponte che questo intervento dell’analista è in grado di introdurre tra la vita reale e mondo interiore.
Più nel dettaglio, con la celebrazione dell’analizzando l’analista risponde affettivamente con i suoi commenti agli aspetti del vero sé del paziente che trovano in questo modo lo spazio per essere riconosciuti ed elaborati. Il suo richiamo all’umorismo, il suo riconoscersi un “cretino”, nelle esperienze con i suoi pazienti, ecco che diventano terreno di conoscenza, uno spazio reciprocamente in-formativo e creativo.
Facendoci accedere alla stanza d’analisi, affollata di pazienti compromessi da ambienti affettivi deprivanti, Bollas ci presenta il differente uso dell’oggetto e del lavoro analitico compiuto da paziente e analista.
Mentre i pazienti spettrali sconvolti dalla vitalità dell’analista lo ingaggiano in una lotta per far prevalere la morte sulla vita, i pazienti tossicodipendenti rendono instabile la capacità dell’analista di restare sul qui e ora, il loro tentativo è quello di portarlo altrove, nel loro viaggio allucinato.
Tuttavia, Bollas individua in queste persone, in cui è interrotto il contatto tra la psiche e l’Io, una luce oltre il buio – a quegli aspetti del sé che non sono stati elaborati – che chiama processo conservativo: “[…] il bambino conserva un’esperienza relativamente immutata e non trasformata nella speranza che un giorno o l’altro possa essere rivissuta alla presenza di un oggetto trasformante (amico, amante o analista)” (Bollas, 2021, p.137).
Differente è l’esperienza dell’antinarcisista, il paziente che, più di altri, sembra offrirgli l’occasione per analizzare quanto la pulsione del destino possa essere osteggiata dalla persona che gli si oppone con la distruttività delle sue idee, che sono mosse da un falso sé necessario all’occultamento di quello vero.
Ognuno dei pazienti che Bollas ci consente di conoscere, attraverso la sua esperienza, reca la testimonianza dell’emblematica forza che spinge l’uomo nel corso della sua esistenza a spodestare il fato, e la sua definitiva sentenza, proprio per consentire al vero sé di esprimersi.
Nei tre temi che seguono, il trauma dell’incesto, il legame tra gli ordini di tempo, materno, paterno e psicobiologico e il ruolo della memoria nella conservazione degli stati del sé, Bollas conclude e completa la lunga analisi.
Partendo dal trauma dell’incesto, è alla più devastante violazione della mente, oltre che del corpo, il luogo a cui Bollas vuole condurre l’attenzione del lettore. Del padre, che entra “sotto la pelle psichica della madre” e che sostituisce nella bambina la realtà dove prima c’era l’immaginazione, Bollas segnala come comprometta severamente la strutturazione della sua psiche. Dove non c’è un contenitore buono, anche l’esperienza analitica può essere vissuta come un’esperienza che attacca il sé; questo è vero almeno all’inizio dell’analisi.
Possiamo a questo punto chiederci se il vero sé si esprima all’interno di coordinate spazio-temporali. Ecco, allora, che un episodio comune, quella vita familiare, può diventare occasione per riflettere sul modo in cui nel bambino possa verificarsi in modo adeguato, o viceversa, l’integrazione dei tre ordini di tempo materno, paterno e psicobiologico necessari per la sua organizzazione psichica.
La prima esperienza del bambino è di un tempo atemporale, quello materno – come è intuibile – tutto rispondente ai bisogni del bambino e molto differente dal tempo paterno, del dovere e della socialità. Ma il bambino, che vive l’atemporalità del tempo materno, inizia piano piano a sperimentare anche la sua temporanea assenza, ed è verso questi movimenti che Bollas convoglia la sua attenzione, nel tentativo di chiarire in che modo possano facilitare l’integrazione dei tre ordini di tempo.
Quando questa integrazione risulta difficile, il bambino non mancherà di dimostrarlo e il suo timore che il padre possa non fare ritorno nel tempo della casa, dal tempo del lavoro, rifletterà la sua preoccupazione per quelle parti del sé che sente fragili e incapaci di integrare questi tre ordini di tempo.
Nella vita adulta continuiamo a mediare la natura di questi diversi ordini temporali. La temporalità e l’atemporalità si uniscono sempre più nel ricordo, in cui colleghiamo i due ordini in quello che chiamiamo il passato: un luogo che collega l’atemporale con il temporale. E il nostro tempo corporeo, dovuto allo svolgersi dei suoi progressi, alla fine ci informa della morte che sarà il nostro tempo finale, forse quel momento in cui tutti gli ordini del tempo si riconoscono e si unificano (Bollas, 2021, p.178).
Come avevo anticipato, Bollas conclude la sua analisi proprio riservando uno spazio specifico all’indagine sul ruolo ricoperto della memoria nel compimento dell’unicità della persona. Quello che intende mettere in risalto della memoria è la sua funzione operativa, introducendo il concetto di serie storica e mostrando il suo incontro con la psicoanalisi.
“Le serie storiche sono biblioteche interiori che mettono le esperienze del Sé a disposizione del lavoro futuro” (Bollas, 2021, p.193). In sostanza, contengono le esperienze precedenti del sé che sono state conservate per poter essere elaborate successivamente. Quindi, se da una parte il processo conservativo è ciò che consente al paziente di non perdere questi sé, come ci ricorda Bollas, “È a partire dal processo ricettivo e dalla procedura evocativa che gli stati conservati del Sé vengono vissuti in presenza dell’analista” (Ivi, p.187).
Ecco, allora, che l’incontro tra paziente e analista consente il realizzarsi della loro doppia funzione, di conservazione e di elaborazione degli stati del sé, “il dipanarsi del discorso dell’inconscio”.
Tuttavia, le serie storiche contengono anche tutto ciò che non può essere comunicato, proprio perché appartenente all’esperienza specifica di ognuno, alla sua solitudine.
Il vero sé, infatti, come sostiene Bollas (2021): “[…] non può essere descritto completamente. Non somiglia tanto all’articolazione dei significati in parole che consentono di isolare un’unità di significato, come nella localizzazione di un significante, quanto al moto della musica sinfonica. Ma anche questa analogia non fa giustizia all’effimera formazione dell’esperienza del vero Sé. Ognuno inizia la vita con un vero Sé. È un potenziale ereditario che viene alla luce in seguito alle stimolazioni dell’esperienza” (p. 99); così come il suo corso in analisi “è questa esperienza del momento”.