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Intransigenti per necessità: per far fronte alla sclerosi multipla i pazienti diventano moralmente più severi

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

La sclerosi multipla (SM) ha un impatto enorme sulla vita dei malati. Questi pazienti non solo devono affrontare i sintomi, tutti molto spiacevoli, della malattia ma sono anche soggetti a imprevedibili ricadute dopo periodi più o meno lunghi (ma di durata irregolare) di remissione, una condizione che rende le persone molto ansiose e stressate.

 

Come osservato in un nuovo studio della SISSA di Trieste in collaborazione con la Medical University del Sud Carolina, USA (e altri istituti internazionali) tutto ciò ha conseguenze anche sulla ‘cognizione morale’ dei pazienti, che diventano particolarmente intransigenti nei giudizi morali in terza persona. Questa ‘inflessibilità morale’ sarebbe conseguenza di stili cognitivi adottati per superare i disagi della malattia.

Conoscerne le cause, spiegano gli autori dello studio appena pubblicato su Social Neuroscience, ha conseguenze importanti anche sul benessere sociale di pazienti.

La sclerosi multipla in Italia colpisce quasi 70mila individui (nel mondo sono circa 2 e mezzo i pazienti SM). È una malattia autoimmune estremamente invalidante: pur non portando alla morte, mina pesantemente la qualità della vita dei pazienti con sintomi motori, cognitivi, sensoriali… Nella sua forma più tipica la malattia è caratterizzata da episodi acuti e remissioni irregolari, che possono creare nel malato una situazione di ansia perpetua. Questo, secondo gli scienziati, provocherebbe conseguenze sul piano emotivo/cognitivo, che finirebbero, come emerge nello studio recente, per influire sulla cognizione morale dei pazienti.

Indrajeet Patil, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi avanzati (SISSA) di Trieste e primo autore della ricerca, e colleghi hanno sottoposto dei ‘dilemmi morali’ in terza persona a un gruppo di pazienti. Il dilemma morale è un test classico per misurare la cognizione morale, ma di solito i problemi vengono posti in prima persona.

In questo caso i soggetti si comportavano come dei membri di una giuria in un processo, e giudicavano il comportamento di altri. Le condizioni critiche, in questa ricerca specifica, erano l’omicidio colposo (accidentale) e il tentato omicidio. I soggetti valutavano l’appropriatezza di comportamenti morali di altre persone e le pene stabilite. I comportamenti variavano in due dimensioni chiave: l’intenzione di far del male e le conseguenze negative. Gli agenti che operavano in questi scenari cioè potevano o meno avere l’intenzione di far del male, e di conseguenza potevano o meno produrre un danno a un altro individuo.

Queste condizioni sono importanti perché sappiamo che nei giudizi di questo genere entrano in gioco due criteri principali – spiega Patil – Si tiene infatti conto sia delle intenzioni sia della gravità delle conseguenze dell’azione, per cui siamo tendenzialmente più proni a perdonare un omicidio colposo, dove le intenzioni innocenti ma le conseguenze gravi, e a punire un tentato omicidio, dove l’intenzione è cattiva, ma le conseguenze non sono gravi.

È noto che alcune condizioni patologiche modificano questo tipo di giudizi: se ci sono alterazioni nella teoria della mente (la capacità di attribuire stati mentali agli altri), come succede negli autistici per esempio, si fa fatica a valutare le intenzioni, per cui l’omicidio colposo viene giudicato severamente, per via delle conseguenze gravi. Gli psicopatici invece tendono a perdonare più facilmente l’omicidio colposo non tanto perché non abbiano una valutazione corretta delle intenzioni, ma piuttosto per via della ridotta empatia verso le vittime.

 

Risultati sorprendenti

Nei pazienti SM, Patil e colleghi si aspettavano una tendenza maggiore al perdono, perché è noto che hanno difficoltà con la teoria della mente (come è stato osservato e descritto in alcuni pazienti), ma anche una risposta empatica ridotta.

Invece ci hanno sorpreso: le loro risposte erano più severe del normale in ogni condizione. Inoltre si dimostravano incredibilmente sicuri della validità del proprio giudizio, in maniera significativamente maggiore dei soggetti sani, dichiarando che chiunque avrebbe risposto come loro.

Ulteriori verifiche hanno permesso agli autori di avanzare un’ipotesi su questo atteggiamento inaspettato.

Pensiamo che queste risposte così severe siano da collegare al tipo di strategia emotivo/cognitiva generale messa in atto dai pazienti SM per far fronte alla loro condizione patologica – spiega Ezequiel Gleichgerrcht, neurologo e ricercatore della Medical University del Sud Carolina – La situazione di stress continuo che affrontano quotidianamente può suscitare in loro emozioni negative persistenti. Sul lungo periodo questo stato può provocare l’emergere di una strategia cognitiva che li aiuta a minimizzare il danno. I neuroscienziati hanno chiamato questo fenomeno external oriented thinking, ossia la dalla tendenza ad orientare i pensieri sugli eventi esterni piuttosto che all’introspezione.

Continua Patil:

È una strategia nota, che ha come conseguenza l’incapacità di riflette ed identificare correttamente le proprie emozioni. Nelle situazioni di giudizio morale, come quelle a cui abbiamo sottoposto i pazienti, porta all’incapacità di identificare le cause reali del proprio stato emotivo negativo, attribuendolo a cause esterne, e non alla propria condizione patologica.

In parole povere, negli esperimenti, i pazienti SM tendevano ad attribuire le proprie emozioni negative a quanto letto nel dilemma, che fossero le conseguenze dell’incidente nell’omicidio colposo o le cattive intenzioni nel tentato omicidio poco importava.

Il paziente credeva che fossero queste cose a provocare l’emozione negativa che provavano e per questo giudicavano molto severamente i responsabili dell’omicidio nel dilemma morale. Questo spiega anche perché registravamo giudizi negativi anche nelle condizioni neutre, dove non c’erano né l’intenzione cattiva né le conseguenze gravi – racconta Patil – Sapere che i pazienti SM tendono ad adottare questa strategia cognitiva, unita al loro perenne stress emotivo, è importante – conclude lo scienziato.

Da un lato infatti aiuta gli operatori sanitari che accudiscono questi pazienti a leggere in maniera oggettiva il loro comportamento e migliorare il rapporto interpersonale, fondamentale in questo tipo di cure.

D’altro lato conoscere questo lato ‘scuro’ può aiutare anche a mettere a punto terapie cognitivo/comportamentali che aiutino i pazienti a migliorare la loro risposta emotiva.

Robopsicologia ed educational Robotics: le nuove frontiere della Psicologia

Nonostante la natura fantascientifica del termine robopsicologia, le neuroscienze cognitive e l’intelligenza artificiale hanno fatto grandi passi nella creazione di robot che hanno la capacità di interagire con persone fragili o affette da disturbi.

 

Robopsicologia: definizione

La Robopsicologia è lo studio delle personalità delle macchine intelligenti. Il termine fu coniato per la prima volta da Isaac Asimov in una collezione di storie intitolata ‘Io, Robot’, dove si narra la storia della dottoressa Susan Calvin (una robopsicologa) impegnata nella risoluzione di problemi legati al comportamento di robot intelligenti. Le storie hanno altresì introdotto le famoseTre leggi della robotica di Isaac Asimov, le quali spiegano che:

  1. Un robot non potrebbe mai offendere un essere umano, o mediante l’inazione, consentire ad un essere umano di ferire a sua volta;
  2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, a meno che tali ordini non entrino in conflitto con la prima legge;
  3. Un robot deve proteggere la propria esistenza finché la sua protezione non entra in conflitto con la prima e la seconda legge.

Queste tre leggi le ritroviamo incorporate in quasi tutti i robot positronici protagonisti del romanzo di Asimov, i quali si comportano in modo insolito e contro-intuitivo.

Successivamente sono state introdotte ulteriori leggi, per cui secondo la Quinta legge della Roboticaun robot deve sapere di essere un robot”: si presume che il robot possegga una conoscenza della definizione del termine, applicando così le Leggi della robotica alle sue azioni. Secondo questa legge, se un robot aggredisce o ferisce un essere umano, è perché non ha ben compreso di essere un robot (e quindi non ha consapevolezza).

I robot e l’intelligenza artificiale per come li conosciamo non obbediscono intrinsecamente alle leggi della robotica; i loro creatori umani devono programmarli ed escogitare un modo per farlo.

Infatti molti robot sono provvisti di protezioni fisiche come paraurti, avvisatori acustici o zone ad accesso limitato studiati per prevenire incidenti. Perfino i robot più complessi, ad oggi sono incapaci di comprendere e applicare le Tre leggi della robotica, ma sulla Terra esistono oggi robot in grado di interagire con le persone in modo adeguato, esprimendo alcune emozioni di base.

 

La robopsicologia e i robot di supporto in casi di DSA e Autismo

Nonostante la natura fantascientifica del termine ‘robopsicologia‘, le neuroscienze cognitive e l’intelligenza artificiale hanno fatto grandi passi nella creazione di robot che hanno la capacità di interagire con persone fragili o affette da disturbi, in particolare sono stati creati robot con le sembianze di giocattoli, che interagiscono con bambini affetti da autismo, sotto la supervisione di un educatore, uno psicologo ed eventualmente un logopedista o un genitore. Questo nuovo campo di applicazione prende il nome di SAR, Social Assistive Robots.

Cos’hanno di speciale questi robot? In cosa consiste il loro utilizzo nell’ambito della psicopatologia?

L’autismo (in origine Sindrome di Kanner) è un disturbo per cui la persona affetta da tale patologia manifesta un comportamento caratterizzato da un significativo deficit dell’integrazione socio-relazionale e della comunicazione interpersonale. Le aree interessate dal fenotipo comportamentale sono la comunicazione verbale e non verbale, l’interazione sociale, l’immaginazione (e gli interessi), comportamenti ossessivo-compulsivi (ripetizione di movimenti stereotipati, ossessione per l’ordine e la simmetria), sensibilità a certe emozioni, reazioni emotive esagerate (collera, aggressività sia etero che auto-diretta ed ansia) e l’incapacità di integrare i vari stimoli che provengono da canali sensoriali differenti (ad esempio, il bambino concentrato su un oggetto tende a non sentire l’adulto che lo chiama).

Ma, ritorniamo alla robopsicologia e vediamo l’utilizzo dei robot nell’interazione con questi bambini.

Nel 2014, un team di ricercatori della USC Viterbi School of Engineering ha condotto uno studio pilota sugli effetti dell’utilizzo di robot umanoidi per favorire l’apprendimento di comportamenti di imitazione allo scopo di potenziare l’autonomia nei bambini affetti da DSA. Lo studio, intitolato ‘Graded cueing feedback in Robot-mediated imitation practicefor children with autism spectrum disorder’, condotto da Maja Mataric e Chan Soon-Shiong Chair, si è concentrata su come la robopsicologia  può aiutare le persone con bisogni speciali, compresi i soggetti con Alzheimer e il DSA.

Nello specifico, in quest’esperimento, i ricercatori hanno analizzato come i bambini con DSA reagiscono ai robot umanoidi i quali forniscono loro istruzioni graduali, fornendo spunti e richieste via via sempre più dettagliati in modo da modellare il comportamento e ad aiutare nell’acquisizione di nuove abilità o recuperare quelle perse.

Mataric e il suo team hanno studiato 12 bambini con DSA ad alto funzionamento dividendoli in due gruppi, uno sperimentale e uno di controllo. Ogni bambino ha giocato ad un gioco copycat (d’imitazione) con un robot Nao, il quale ha chiesto al bambino di imitare 25 posizioni differenti del braccio.

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Il Robot Nao

 

I bambini che avevano ricevuto istruzioni variegate fino al raggiungimento della posizione giusta, mostrarono un netto miglioramento o una conservazione della prestazione, mentre i bambini che non avevano ricevuto le istruzioni diversificate, regredivano nella performance o questa rimaneva inalterata.

Il robot Nao variava il modo in cui forniva le consegne: all’inizio offriva indizi solo verbali, poi forniva anche dimostrazioni e istruzioni verbali in modo sempre più specifico.

Lo studio ha quindi dimostrato che un feedback diversificato è più efficace nell’aiutare i bambini con DSA ad acquisire nuove abilità in caso di prove fallimentari, riducendo quindi la frustrazione e l’ansia. Inoltre, lo studio ha dimostrato la riuscita dell’interazione del bambino con il robot.

A circa 9 mesi di vita il bambino comincia a sviluppare quella che gli studiosi chiamano attenzione condivisa (vedi Teoria della mente), un comportamento che consiste nel cercare e richiamare l’attenzione dell’altro, su un oggetto o un evento. I bambini con autismo però non sviluppano questa capacità in modo adeguato, con conseguente difficoltà relazionali e sociali, oltre che nell’ambito dell’apprendimento.

E’ stato dimostrato che i bambini con DSA mostrano uno spiccato interesse verso questi robot-giocattolo i quali non solo parlano (interagiscono) con il bambino, ma sono dotati di occhi che si illuminano di vari colori che rappresentano ciascuno un’emozione particolare (ad es. Il rosso esprime sorpresa, il colore blu simboleggia il senso di consapevolezza e il bisogno di conoscenza).

I bambini vengono educati a riconoscere i colori associati alle varie emozioni e quando in seguito alle istruzioni del robot il bambino esegue in modo corretto un’azione, quest’ultimo fornisce dei feedback, per cui il bambino apprende e si sente stimolato in modo positivo. Questi robot non manifestano mai la rabbia: i bambini con DSA sono molto sensibili alla collera e possono avere reazioni esagerate anche solo percependo un cenno da parte della persona che ha di fronte. Le tecniche cognitivo-comportamentali si prefiggono di promuovere, nei soggetti con autismo i comportamenti adattivi mediante interventi intensivi e programmati che possono essere adoperati sia dai terapisti che dai genitori

 

 

La Robopsicologia e i robot per gli anziani

La robopsicologia e i robot con abilità sociali si sono rivelati promettenti anche nell’ambito della riabilitazione e dell’assistenza agli anziani; per gli anziani con deficit cognitivi, i robot (anche non umanoidi) sono studiati per fornire esercizi che allenano la mente a ricordare di assumere i pasti, date importanti, prendere farmaci, cercando così di contrastare la degenerazione cognitiva e fornire un’alternativa alla solitudine.

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Robot impiegato per l’assistenza agli anziani

 

Questi robot sociali sono programmati con algoritmi comportamentali che consentono di esprimere un’interazione del tutto naturale, rassicurante e stimolante.

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Il Robot ‘Mio’

 

 

La Robopsicologia e l’utilizzo dei Robot educativi nel supporto a bambini con sindrome di Down e balbuzie

L’uso dei robot come strumenti educativi ha trovato impiego non solo nella cura dei bambini affetti da autismo, ma anche in quelli con sindrome di Down e balbuzie.

In questi ultimi due casi è stato usato l’utilizzo di un sistema, il cosiddetto Lego Mindstorms, un robot mobile realizzato da Lego e costituito da tanti mattoncini cibernetici che, come nel caso dei robot umanoidi per l’autismo, interagivano con i bambini in modo diversificato. Anche in questo caso, le performance cognitive (tempi di attenzione) e comportamentali (il coinvolgimento spontaneo del robot ai giochi interattivi da parte dei bambini) dei bambini affetti da sindrome di Down e balbuzie, erano migliorate in modo significativo. L’elemento che ha reso così particolare il robot Lego Mindstorms (versione NXT) è una componente elettronica che si trova all’interno di ogni singolo mattoncino e che ne permette la suggestione: in altre parole, vi sono dei sensori e motori che permettono l’interazione con il mondo esterno.

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Lego Mindstorm

 

L’idea di fondo della robotica educazionale e della robopsicologia è che i robot sociali sono ‘oggetti-con-cui-pensare’, avviando quindi il loro utilizzo anche nell’ambito dell’apprendimento. E’ stato dimostrato che l’interazione con i robot permette il miglioramento delle abilità visuo-spaziali e di ragionamento nelle sue forme (astratto e concreto), la motivazione all’apprendimento, la creatività e la fantasia (tramite l’assemblaggio dei pezzetti, scelta dei colori e invenzione delle forme); non solo. L’interazione con il robot-giocattolo stimola il pensiero narrativo. Il robot non viene solo visto e toccato, ma viene pensato e narrato come se fosse un essere vivente a tutti gli effetti, quindi dotato di attributi umani, come le emozioni, stati mentali e la personalità.

Tali considerazioni sulla robopsicologia portano dunque a pensare l’uso dei robot sociali come una nuova risorsa per il lavoro dello psicologo.

Ingannare i bambini con gli spot pubblicitari: quali strategie vengono utilizzate

Negli ultimi anni la quantità e la qualità dei messaggi persuasivi rivolti ai bambini è notevolmente aumentata (Metastasio, 2007). I bambini sono target preferito dai pubblicitari per due grandi ragioni, perché saranno i consumatori di domani e perché riescono ad esercitare una grandissima influenza sugli acquisti degli adulti (Mc Neal, 1992).

Lontano dall’innocuo suggerimento di giocattoli o peggio di junkfood, gli spot rivolti ai più piccoli sono creati ad hoc per impattare con forza sulla mente dei più piccoli e spingerli alla richiesta assillante dell’oggetto promosso dallo spot (Cortini, 2005).

Quali sono strategie di Kid Marketing attualmente più utilizzate e più efficaci sui piccoli consumatori?

Ne vediamo le 5 più diffuse:

 

Jingle

I messaggi pubblicitari associati a una canzone sono più incisivi, vengono ricordati meglio e producono un effetto maggiore quando sono facilmente riproducibili, ovvero quando i bambini sono in grado di canticchiare le canzoncine degli spot anche in altri contesti.
Il jingle permette di associare lo slogan del prodotto o della marca a un motivetto o canzoncina che, in genere, contiene nome e benefit del prodotto, e riassume ciò che è quel prodotto, cosa ci si può fare o diventare con esso. Ne sono un esempio l’intramontabile jingle delle scarpe Lelly Kelly o dei ghiaccioli Polaretti della Dolfin. Alla voce fuori campo che presenta il prodotto, che in genere è quella di un adulto dello stesso genere sessuale del target, si associa sempre più spesso quella di bambini che serve a rinforzare l’autorevolezza del messaggio e a cercare di attivare processi di identificazione (Metastasio, 2007).

 

“Sfondo” e ambiente emozionale

La pubblicità presenta uno sfondo – ambiente carico di emotività. Stralci di vita quotidiana e soprattutto la famiglia sono elementi simbolici molto sfruttati dai pubblicitari perché stillano nel bambino, in modo automatico, una serie di associazioni positive come serenità, calore, unità, tenerezza, affetto (Metastasio, 2007). L’idea è che, le sensazioni positive evocate in questi modi possano poi essere “trasferite” al prodotto seguendo un “effetto spill over” (Cortini, 2005).

 

Humour

Un elemento importante per sostenere l’attenzione e convincere il fruitore durante uno spot è fare humour. Come per gli adulti, l’umorismo esercita un potente fascino anche sui bambini. Prima dei sette anni i bambini sono divertiti dall’aspetto buffo dei personaggi e dal genere comico molto semplice, come lo slapstick. Successivamente, fino ai dieci anni, aumentando le competenze linguistiche, si cominciano ad apprezzare le frasi buffe e burlone. Nella fase pre-adolescenziale divengono molto apprezzate la parodia e l’ironia.
L’umorismo e la comicità sono un’arma persuasiva di tipo indiretto, ovvero persuadono in quanto agiscono sull’umore; così, se un prodotto viene presentato successivamente a una situazione che suscita ilarità, sarà molto probabile che questo prodotto venga percepito come più positivo (Forgas, 1990).

 

Trans-toying

Un’ ulteriore strategia che seduce i bambini, è quella di riuscire a trasformare qualsiasi prodotto in giocattolo, ovvero il trans-toying. Il trans-toying è un fenomeno evidente soprattutto tra gli scaffali dei supermercati, ed è chiaramente in aumento, adottato dalle imprese più diverse, visto che quasi ogni prodotto può diventare un giocattolo.
Alcuni esempi di trans-toying si trovano nei prodotti per l’igiene, come gli spazzolini da denti a forma di animaletti, barattoli di shampoo a forma di principesse dei cartoni animati, ma anche astucci-peluche, fino al più preoccupante fenomeno del cibo che si trasforma in giocattolo, cambiando struttura e colore (Schor, 2005).

 

Gift in pack

Quando non è possibile trasformare il prodotto in un giocattolo, per trasferire un valore ludico a un articolo, un’altra tecnica molto comune, è quella di regalare dei gadgets. Due successi di marketing incredibili in questo senso sono il Kinder Sorpresa e il Menù per bambini offerto da Mc Donald, l’Happy Meal, nella quale si trovano i gadget dei personaggi dell’ultimo cartone animato presente nelle sale cinematografiche, o del personaggio di tendenza del momento.
Spesso, soprattutto per i bambini più piccoli, è proprio l’attrazione e il desiderio di possedere il giocattolo o le figurine contenuti nella confezione a farli optare per quel prodotto (Metastasio, 2007).

La Structured Clinical Interview (SCID) – Introduzione alla psicologia

Tra tutti i test più rinomati esistenti nel panorama diagnostico non poteva mancare all’appello la Structured Clinical Interview per DSM, meglio nota come SCID. La Structured Clinical Interview è un’intervista semistrutturata sviluppata da Spitzer e collaboratori nel 1987 per la diagnosi della maggior parte dei disturbi di Asse I, disturbi d’ansia, e per quelli di personalità sull’Asse II. Essa valuta tutto lo spettro dei disturbi inseriti all’interno del DSM. La prima versione della SCID risale alla pubblicazione del DSM-III-R.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

La Structured Clinical Interview: storia

La pubblicazione del DSM III nel 1980 con l’introduzione di criteri diagnostici specifici per tutti i disturbi mentali, ha chiaramente dato una svolta a studio e diagnosi delle malattie mentali. Infatti, prima di allora esistevano diversi tipi di criteri usati per effettuare diagnosi come quelli di Feighner o i Research Diagnostic Criteria con le relative interviste strutturate costruite per effettuare una diagnosi in accordo con le suddette nosografie intrise di molta teoria che influenzava anche la definizione del sintomo stesso.

Quindi, con l’avvento del DSM III, strumento avente caratteristiche diverse da quelle presentate dagli altri manuali diagnostici, primo tra tutti l’essere a-teoretico, nasceva anche l’esigenza di poter effettuare una diagnosi sulla base della nuova nomenclatura. A tal proposito, unitamente all’uscita del manuale era stata diffusa una prima intervista grazie alla quale era possibile effettuare uno screening sulla presenza o assenza di patologia. Questa intervista prendeva il nome di Diagnostic Interview Schedule (DIS), principalmente utilizzata in studi non epidemiologici.

Successivamente, durante un congresso dell’American Psychopathological Association tenutosi nel 1983, furono messi in evidenza i molti limiti presentati dalla DIS tra cui l’esperienza di una notevole conoscenza clinica per la somministrazione e l’essere poco fruibile in ambito clinico, era più utile in ambito di ricerca. Così, si istituì una task force capitanata da Spitzer che diede vita al lavoro che porterà alla produzione della Structured Clinical Interview per il DSM III, SCID.

Solo qualche anno più tardi, con la pubblicazione del DSM III R, uscì la prima versione della SCID.
Chiaramente esistono due versioni della SCID, la I, che permette di effettuare diagnosi in Asse I, IV e V, secondo la divisione del DSM per la patologia mentale, e una versione, la SCID II, che permette la diagnosi solo dell’Asse II.

 

La SCID I: caratteristiche del test diagnostico

La SCID I mostra caratteristiche diverse dagli strumenti precedenti. Prima di tutto è presente all’inizio dello strumento una rassegna anamnestica che permette l’inquadramento e lo sviluppo delle informazioni utili per carpire notizie cliniche rilevanti e consone a focalizzare il sintomo unitamente alla storia del paziente.
All’inizio dell’intervista è possibile individuare, nel dettaglio, dati anagrafici e socio-demografici, una descrizione sommaria della malattia in atto e dei precedenti psicopatologici, la condizione medica generale ed eventuale uso di sostanze, il livello di compromissione del funzionamento globale (Asse V).

A questa prima parte ne segue una seconda caratterizzata da una serie di domande centrate sui criteri diagnostici, utili per effettuare diagnosi. Si susseguono diverse sezioni diagnostiche, e alla fine di ciascuna vi sono una serie di domande sulla cronologia della malattia che includono: l’età di esordio, la presenza o assenza di sintomi durante il mese precedente e la percentuale approssimativa del tempo durante i passati cinque anni in cui tali sintomi sono stati presenti. Per molti disturbi è inclusa una scala che misura la gravità e per alcuni anche la prognosi in funzione del quadro sintomatologico presentato o del sottotipo clinico (come per la diagnosi di Schizofrenia).

Essa, altresì, è costruita in maniera modulare, quindi una domanda segue l’altra, allo scopo di escludere velocemente tutto ciò che non è importante ai fini diagnostici per il soggetto esaminato. Ogni modulo corrisponde ad uno specifico raggruppamento diagnostico divisi per i diversi disturbi diagnosticabili. Segue, una struttura ad alberi decisionali, ovvero permette di approfondire il disturbo presentato o saltare direttamente a quello successivo se non presente, mantenendo una chiara corrispondenza tra i criteri del DSM e ciascuna domanda formulata.

La SCID I si divide in diverse sezioni o moduli:

A: Sindromi dell’Umore
Episodio Depressivo Maggiore (in atto/pregresso)
Episodio Maniacale (in atto/pregresso)
Episodio Ipomaniacale (in atto/pregresso)
Disturbo Distimico (solo in atto)
Disturbo dell’Umore dovuto a Condizione Medica Generale
Disturbo dell’Umore Indotto da Sostanza

B: Sintomi Psicotici e Associati
Deliri
Allucinazioni
Comportamento e Eloquio Disorganizzati
Comportamento Catatonico
Sintomi Negativi

C: Disturbi Psicotici (Diagnosi differenziale)
Schizofrenia
Tipo Paranoide
Tipo Catatonico
Tipo Disorganizzato
Tipo Indifferenziato
Tipo Residuale
Disturbo Schizofreniforme
Disturbo Schizoaffettivo
Disturbo Delirante
Disturbo Psicotico Breve
Disturbo Psicotico Dovuto a Condizione Medica
Generale
Disturbo Psicotico Indotto da Sostanza
Disturbo Psicotico Non Altrimenti Specificato

D: Disturbi dell’Umore
Disturbo Bipolare I
Disturbo Bipolare II
Altri Disturbi Bipolari (Disturbo Ciclotimico,
Disturbo Bipolare NAS)
Disturbo Depressivo Maggiore
Disturbo Depressivo Non Altrimenti Specificato

E: Disturbi da Uso di Sostanze
Dipendenza da Alcol
Abuso di Alcol
Dipendenza da Amfetamina
Abuso di Amfetamina
Dipendenza da Cannabis
Abuso di Cannabis
Dipendenza da Cocaina
Abuso di Cocaina
Dipendenza da Allucinogeni
Abuso di Allucinogeni
Dipendenza da Oppioidi
Abuso di Oppioidi
Dipendenza da Fenciclidina
Abuso di Fenciclidina
Dipendenza da Sedativi/Ipnotici/Ansiolitici
Abuso di Sedativi/Ipnotici/Ansiolitici
Dipendenza da più Sostanze
Dipendenza da Altre Sostanze o da Sostanze Sconosciute
Abuso di Altre Sostanze o di Sostanze Sconosciute

F: Disturbi d’Ansia
Disturbo di Panico Con Agorafobia
Disturbo di Panico Senza Agorafobia
Agorafobia Senza Anamnesi di Disturbo di Panico
Fobia Sociale
Fobia Specifica
Disturbo Ossessivo-Compulsivo
Disturbo Post-Traumatico da Stress
Disturbo d’Ansia Generalizzato (solo in atto)
Disturbo d’Ansia Dovuto a Condizione Medica
Generale
Disturbo d’Ansia Indotto da Sostanze
Disturbo d’Ansia Non Altrimenti Specificato

G: Disturbi Somatoformi
Disturbo di Somatizzazione (solo in atto)
Disturbo Somatoforme Indifferenziato (solo in
atto)
Disturbo Algico (solo in atto)
Ipocondria (solo in atto)
Disturbo di Dismorfismo Corporeo

H: Disturbi dell’Alimentazione
Anoressia Nervosa
Bulimia Nervosa
Disturbo da Abbuffata Alimentare (categoria in
Appendice)

I: Disturbi dell’Adattamento
Disturbo dell’Adattamento (solo in atto)

J: modulo opzionale
Disturbo da Stress Acuto
Disturbo Depressivo Minore
Disturbo Misto Ansioso-Depressivo (categoria in
Appendice)
Dettagli Sintomatici degli Episodi Pregressi
Depressivi Maggiori/Maniacali.

Ogni sezione è formata da una serie di domande, che si riferiscono direttamente ai criteri diagnostici presentati nel DSM, che devono essere lette dal somministratore ad litteram per evitare di incappare in criteri diversi da quelli valutati. Per questo l’intervista deve essere somministrata da una persona addestrata adeguatamente e con una buona familiarità con il sistema di classificazione e i criteri diagnostici del DSM. Quindi, non solo è necessario conoscere adeguatamente il DSM, ma è opportuno anche avere una competenza di base rispetto alla farmacologia che possa permettere di effettuare una diagnosi differenziale tra condizione dovuta all’assunzione di sostanze, anche farmaci, e vera patologia mentale.

Oltre all’ASSE I la SCID I permette di effettuare diagnosi anche per l’ASSE IV, problemi psicosociali ed ambientali, e V funzionamento generale.
A pagina 5 dell’intervista è presente una Checklist che consente di effettuare diagnosi sui problemi psicosociali e ambientali presentati dall’esaminato. Successivamente, si valuta il Funzionamento Generale del soggetto, lungo un continuum di gravità diviso in 10 ranghi. Lo sperimentatore, in base a quanto emerge dal colloquio, inquadra a fine intervista il funzionamento generale presentato dal paziente facendolo rientrare in una categoria specifica.

 

La SCID I: a chi si rivolge

La SCID I può essere somministrata a pazienti psichiatrici e di medicina generale, persone coinvolte in un’indagine epidemiologica sulla salute mentale nella comunità o tra i familiari di pazienti psichiatrici.
Inoltre, non può essere somministrata se non a degli adulti che abbiano almeno 8 anni scolarità, che non presentino deficit cognitivi gravi, agitazione psicomotoria, sintomi psicotici gravi, e un quoziente intellettivo nella norma, poiché QI troppo bassi potrebbero rendere la somministrazione molto difficile.

Essa può essere usata in ambito clinico, come approfondimento del colloquio e per questo è utile somministrarla anche a piccoli pezzi che possano garantire l’eliminazione di un dubbio diagnostico o a conferma della diagnosi cui si era già arrivati. Oltretutto, è usata anche in ambito di ricerca per selezionare una popolazione su cui effettuare uno studio, in termini di criteri di inclusione ed esclusione.

 

LA SCID I: cosa restituisce?

La SCID I permette di formulare una diagnosi psichiatrica secondo criteri rigidamente definiti dal DSM garantendo, in questo modo, un alto livello di comprensione ed accordo tra i diversi esperti della salute mentale, perché si parla attraverso un linguaggio comune facilmente comprensibile. Per riuscire a raggiungere una diagnosi il somministratore può usare tutte le fonti di informazione disponibili arricchendo la diagnosi o chiarendo dubbi. Per questo può utilizzare notizie fornite da altri clinici, osservazioni provenienti da altri membri della famiglia o da amici.
In questo modo, possono essere evitati gli errori di omissione, risposte non date, valutando l’intero spettro psicopatologico a tutto tondo o secondo una prospettiva lifetime.

 

La SCID I: formato di risposte

Come è stato più volte ripetuto, la SCID è formata da domande che si susseguono procedendo in questo modo nella lunga sfera dei disturbi mentali. A ogni domanda segue un formato di risposta così costituito:
+ corrisponde alla presenza del sintomo indagato;
– corrispondente all’assenza del sintomo;
? Notizie non sufficienti per attribuire una risposta.
Il tempo richiesto per la somministrazione è di circa 45-90 minuti, varia a seconda della gravità del soggetto e in base all’esperienza del somministratore.

 

La SCID I: le diverse versioni

Esistono tre versioni per la valutazione dei disturbi di Asse I:

• la SCID-Patient version – SCID-P, per i pazienti ricoverati o per quei casi in cui la diagnosi richiede una valutazione della sintomatologia psicotica;

• la SCID-Outpatient version – SCID-OP, indicata per la valutazione di pazienti ambulatoriali o per situazioni in cui sono necessarie poche domande di screening psicotico;

• la SCID-Nonpatient version – SCID-NP, per la valutazione di soggetti sani, come per i campioni di controllo o sperimentali in uno studio sperimentale.

Esiste, inoltre, una versione per bambini: KID-SCID, costituita da una parte in cui le informazioni sono direttamente apprese dai genitori.

 

La SCID I: versioni esistenti

In seguito alla prima pubblicazione della SCID che avviene intorno agli anni ’90 in Italia, seguono diverse versioni che si legano alle edizioni del DSM.
Attualmente, è ancora molto diffusa, almeno in Italia, la SCID I legata al DSM IV TR poiché la nuova versione, SCID 5, è ancora in fase di elaborazione, e quindi non pubblicata. In ogni caso con l’avvento del DSM 5 e le inclusioni nello stesso di nuove patologie è stata elaborata una nuova versione di SCID. Anche questa versione è usata per effettuare diagnosi in maniera sistematica sia in ambito clinico sia forense. Inoltre, è usata anche in ambito di ricerca, come le precedenti, e per ricavare dati inerenti all’epidemiologia di alcuni disturbi psichiatrici.
Quindi, la SCID-5 è la versione aggiornata del precedente Structured Clinical Interview for DSM-IV.

La SCID-5 è organizzata anch’essa in moduli diagnostici, e valuta i disturbi dell’umore, disturbi psicotici, disturbi da uso di sostanze, disturbi d’ansia, disturbi ossessivo-compulsivi e relativi, disturbi alimentari, disturbi somatici, alcuni disturbi del sonno (per esempio, disturbi di insonnia e ipersonnolenza), disturbi d’esternalizzazione (cioè, disturbo intermittente esplosivo, il disordine del gioco d’azzardo, e disturbo da deficit di attenzione degli adulti), e Trauma e Disturbo post traumatico da Stress. E ‘stata pubblicata in varie forme, tra cui una versione per i medici (SCID-CV) e una versione per gli studi clinici (SCID-CT) oltre alle altre già esistenti per le versioni precedenti.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Prevenzione del cyberbullismo: presentazione di un progetto

Al fine di un uso consapevole delle tecnologie digitali, diventa sempre più necessario promuovere l’educazione ai media, con riferimento alla comprensione critica dei mezzi di comunicazione, e promuovere progetti di prevenzione del cyberbullismo.

di Tiziana Porta

 

Prevenzione del Cyberbullismo: uno sguardo iniziale a dati e caratteristiche

La disponibilità capillare di internet e l’utilizzo crescente di dispositivi connessi alla rete rappresentano per le nuove generazioni, i cosiddetti ‘nativi digitali’, nuovi mezzi per comunicare, relazionarsi con i pari e confrontarsi con il mondo (Mura et al., 2012).

La rete rappresenta un mezzo potente, affascinante e in continua evoluzione; la sua potenza costituisce anche un reale rischio se non si riflette sul suo utilizzo.

Le ricerche indicano che oltre il 90% degli adolescenti in Italia sono utenti di Internet e il 98% di questi dichiara di avere almeno un profilo social network. Spesso i giovanissimi usufruiscono della rete senza alcun controllo da parte degli adulti.

Il cyberbullismo è una forma di disagio relazionale, di prevaricazione e di sopruso perpetrata tramite i nuovi mezzi di comunicazione come le chat, i social, i telefoni cellulari ed il web in generale (Genta et al., 2009). E’ un fenomeno complesso, da poco oggetto di studi  e ricerche.

La fascia di età maggiormente colpita è rappresentata dai ragazzi tra i 12 i 18 anni. Le stime del MIUR indicano come il 31% dei tredicenni (35% se si considerano solo le femmine) dichiara di aver subito almeno una volta attacchi riconducibili al bullismo elettronico.

Il termine cyberbullismo deriva dal concetto tradizionale di bullismo (Sposini, 2014), dove un soggetto – o un gruppo – prevarica la vittima attraverso comportamenti fisici o attacchi verbali aggressivi che condizionano la sua vita privata e sociale. Spesso la vittima è considerata ‘diversa’, solitamente per aspetto estetico, timidezza, orientamento sessuale e così via.

Le caratteristiche specifiche del cyberbullismo sono (Mura et al., 2012):

  • Anonimato: il prevaricatore può nascondersi dietro uno schermo, umiliare la vittima e divulgare materiale offensivo ad un vasto pubblico e in modo anonimo (disinibizione);
  • Pervasività: la vittima è perennemente a rischio di bullismo vista la presenza di dispositivi sempre connessi (anywhere, anytime);
  • Diffusione – ampiezza di portata:  una volta che un messaggio o una foto sono stati inviati via email o chat o postata su un sito, è molto difficile eliminarne traccia definitivamente (può essere già stato salvato da altri utenti). Basta un click, perché il materiale venga diffuso.

Le conseguenze psicologiche per le vittime di questi attacchi possono essere estremamente dolorose, con effetti anche gravi sull’autostima, sulle capacità socio-affettive, sul senso di autoefficacia, sull’identità personale. Possono riscontrarsi anche difficoltà scolastiche, ansia, depressione e, nei casi più estremi, idee suicidarie (Sposini, 2014).

Al fine di un uso consapevole delle tecnologie digitali, diventa sempre più necessario promuovere l’educazione ai media, con riferimento alla comprensione critica dei mezzi di comunicazione, e promuovere progetti di prevenzione del cyberbullismo.

 

Prevenzione del Cyberbullismo: il progetto nella Scuola A. Frank

Ideato e condotto da chi scrive, il progetto di prevenzione del cyberbullismo è stato voluto e finanziato dal Rotary Club di Meda e delle Brughiere per sensibilizzare i giovanissimi sui rischi del fenomeno. Sono state coinvolte quattro classi della Scuola Secondaria di primo grado A. Frank di Meda per un totale di 80 alunni, di età compresa tra i 12 e i 14 anni.

Sono stati effettuati 6 incontri per ogni classe ed è stato scelto il contesto classe per favorire un clima di maggior complicità e facilitare una metodologia educativa di scambio alla pari – peer education.

Il progetto di prevenzione del cyberbullismo qui descritto nasce con l’intento di informare circa il fenomeno del bullismo elettronico ed educare i giovanissimi ad un uso consapevole della tecnologia in un’ottica di prevenzione.

Obiettivo supplementare è stato potenziare le abilità sociali dei partecipanti, promuovere la cooperazione e la mediazione del conflitto tra pari.

I partecipanti hanno inizialmente compilato un breve questionario anonimo sull’uso della rete. I dati confermano l’utilizzo massiccio della rete e dei social (soprattutto Instagram, Whatsapp, Youtube, Facebook e Snapchat) e lo scarso e saltuario controllo genitoriale sull’attività on line dei figli.

Gli incontri sono stati progettati per fornire le informazioni necessarie per conoscere e sensibilizzare i ragazzi circa il fenomeno e le sue complesse sfaccettature. Si è dato ampio spazio al tema del sexting, che rappresenta il fenomeno più pericoloso e sottovalutato dai ragazzi: le statistiche dicono che in Italia 1 adolescente su 4 ha fatto sexting, cioè ha inviato testi, immagini e video a sfondo sessuale.

Sono stati proposti momenti di riflessione personale e di piccolo gruppo, favorendo un clima di reale scambio e confronto tra i giovanissimi.

Con l’utilizzo di role-playing e di video, si è voluto incrementare la consapevolezza dei ragazzi circa le emozioni in gioco tra i diversi attori sociali coinvolti in un episodio di cyberbullismo con l’obiettivo di favorire le capacità empatiche e metacognitive (mettersi nei panni dell’altro).

Alla fine dei sei incontri del progetto di prevenzione del cyberbullismo è stato consegnato ai ragazzi un vademecum per un uso consapevole della rete, con regole per una navigazione sicura e indicazioni pratiche in caso di bullismo elettronico.

Sono inoltre in previsione degli incontri informativi per i genitori e gli insegnanti, che rappresentano le figure principali a cui i ragazzi possono rivolgersi in caso di difficoltà.

 

 

 

Nag Factor, detto anche fattore assillo dei bambini: cos’è e come reagire

Il concetto di “fattore assillo“, definito in inglese “Nag Factor” o “Pester Power” è uno dei fenomeni più delicati e interessanti sul tema pubblicitario. Gli psicologi McDermott e Goldstein lo definiscono come l’abilità del bambino di tormentare i suoi genitori per comprare un determinato prodotto.

 

Sempre di più il settore marketing si sta accorgendo che i piccoli consumatori occupano una posizione unica nel mercato a causa del loro particolare potere e della loro influenza d’acquisto.

Secondo lo psicologo Mc Neal i bambini sono rappresentanti di tre mercati in uno. Rappresentano un mercato futuro, perché sono i potenziali consumatori di domani; rappresentano un mercato primario, infatti, negli ultimi anni, la possibilità per i bambini di disporre di proprie risorse economiche è cresciuta notevolmente. Ma ciò che più interessa le aziende è che i giovani consumatori rappresentano un mercato secondario quando agiscono come potenti “influenzatori” nelle decisioni d’acquisto degli adulti, in particolare dei loro genitori.

 

Il fattore assillo o Nag Factor: in cosa consiste?

Il concetto di “fattore assillo“, definito in inglese “Nag Factor” o “Pester Power” è uno dei fenomeni più delicati e interessanti sul tema pubblicitario. Gli psicologi McDermott e Goldstein lo definiscono come [blockquote style=”1″]l’abilità del bambino di tormentare i suoi genitori per comprare un determinato prodotto.[/blockquote] O meglio [blockquote style=”1″]Attraverso la pubblicità, le aziende incoraggiano i bambini ad assillare i propri genitori affinché comprino qualcosa che non è buono per loro, di cui non hanno bisogno o che non potrebbero permettersi [/blockquote] conferma Spungin, psicologo esperto di fattore assillo.

Quali sono le strategie suggerite dagli spot che i bambini utilizzano per convincere le loro mamme nell’acquisto dell’ultimo giocattolo o di quel junk food per niente salutare?

Nel tempo, gli spot hanno insegnato ai bambini a diventare “influenzatori” di successo, attraverso il ricorso a strategie sempre più sofisticate.

Ecco strategie più frequenti del fattore assillo:

Strategie logiche
Quando i bambini avanzano le loro richieste alla mamma utilizzando argomentazioni logiche o contrattazioni. Il bambino sapendo cosa può risultare interessante per il genitore contratta con lui una serie di promesse o di servigi (molto comunemente le faccende domestiche) per l’acquisto desiderato, secondo una logica di scambio reciproco a vantaggio di entrambe le parti.

Strategie persuasive
In questo caso il bambino cerca di convincere i membri della famiglia utilizzando un certo livello di manipolazione. La più potente strategia di persuasione è ‘ma mamma, ma ce l’hanno tutti!’. I genitori, infatti, sono particolarmente suscettibili al timore che il proprio figlio possa sentirsi discriminato o inferiore ai compagni, e pertanto, se vengono sollecitati in questo senso, saranno molto più predisposti a concedere al bambino l’oggetto o il giocattolo desiderato.

Tra le strategie persuasive, molto utilizzata è anche la coalizione, che prevede il ricorso all’aiuto del genitore maggiormente disposto ad accogliere le proprie sollecitazioni, generando non raramente incomprensioni e conflitti tra i due genitori.

Strategie emotive
Queste strategie comportano l’uso intenzionale delle emozioni. Mostrarsi tristi, arrabbiati o addirittura disperati è un’ottima arma per smuovere i genitori all’acquisto agognato.
I bambini hanno imparato che, tra tutti i sentimenti che possono suscitare nei loro genitori, quello che più farà leva e gli permetterà di ottenere ciò che desiderano è il senso di colpa. E’ sufficiente fare riferimento a disparità di spesa tra fratelli, al fatto che i genitori dei loro compagni comprano certi prodotti, o al fatto che il proprio genitore passi poco tempo con loro, per convincere il genitore a concedere l’acquisto.

McNeal suggerisce che i “piccoli naggers”, in media, arrivano a fare 15 richieste di acquisto durante una tipica visita di shopping.

 

Le risposte dei genitori al fattore assillo

Così, come suggerisce una delle maggiori esperte di psicologia infantile, Oliverio Ferraris, quando al piccolo la pubblicità assicura che certi prodotti sono fatti appositamente “per lui”, sarà indotto a ritenere “cattivo” il genitore che non vuole soddisfare i suoi desideri di acquisto. Quando il messaggio che proviene dai media si scontra e contrasta con le decisioni dei genitori, questi dovranno impegnarsi ad attuare delle contro-mosse che siano in grado di convincere i figli a rispettare la linea educativa.

Alcuni studi hanno preso in esame il modo in cui genitori e figli interagiscono riguardo le richieste d’acquisto. Secondo il ricercatore McDermott, per esempio, quando un genitore rifiuta una richiesta assillante del figlio, si genereranno inevitabilmente delle situazioni di conflitto. I continui assilli comportano, nel migliore dei casi, una certa dose di tensione nella relazione genitore-bambino, e nel peggiore dei casi, queste richieste possono portare all’esasperazione del genitore che acquista l’articolo richiesto nonostante non volesse cedervi.

In una interessante e recentissima ricerca dal titolo “Pester power, a battle of wills between children and their parents”, gli psicologi Lawlor e Prothero esplorano la natura dell’interazione tra bambini e genitori in relazione ai comportamenti d’acquisto.
I bambini intervistati nella ricerca descrivono tutto il ventaglio di reazioni dei genitori alle loro richieste.

 

Dissenso

I bambini dicono che la risposta più comune che ricevono quando avanzano le loro richieste è senza dubbio quella del rifiuto. Ma esistono diversi modi di dire di no, e i bambini sanno quali rifiuti potranno trasformarsi in un si con la giusta dose di nagging (assillamento). Vediamoli tutti:

– il rifiuto deciso. La prima forma di dissenso è il cosiddetto ‘No categorico’ che non permette e non lascia spazio né alle discussioni né a possibili negoziazioni; gli esempi di risposte che i bambini dicevano di sentirsi dire in questi casi erano “in nessun modo!” o “ puoi scordartelo!”.

– una seconda forma di dissenso è il dissenso ambiguo; in questo caso l’acquisto viene di fatto negato ma al contempo viene però suggerito al bambino che potrebbe ottenere quei prodotti con altre vie, magari utilizzando i propri risparmi, come la paghetta o i soldi ricevuti in regalo.

– infine una terza forma di rifiuto è il rifiuto debole. In questi casi i genitori si mostrano dissidenti ma senza dare una impressione sufficientemente risoluta; è proprio in questo caso che il bambino percepisce che il fattore assillo potrebbe funzionare e mette in atto tutte le strategie che possono servire a logorare la volontà dei genitori.

 

Procrastinazione

La reazione più utilizzata per arginare le insistenti pretese di shopping dei propri figli è la procrastinazione. Rinviando l’acquisto ad un momento futuro i genitori sperano di calmare l’ostinazione dei bambini e ingenuamente promettono l’acquisto nella convinzione/speranza che il bambino si dimentichi.
Un classico esempio di risposta di procrastinazione potrebbe essere ‘aspetta, per il tuo compleanno te lo compreremo!’. Un simpatico esempio emerso durante le interviste ai bambini e riportato dalle autrici nello studio è quello di James, un bambino di otto anni “ La mia mamma mi ha detto che avrei potuto averlo per Natale! Ma era Gennaio!”.

Talvolta i genitori procrastinano l’acquisto a un momento futuro vago proprio per non dover arrendersi all’acquisto una volta giunti alla scadenza del tempo, “ mi dicono che lo potrò avere quando sarò grande!”.

I bambini, come suggerisce la ricerca, comprendono la strategia dei genitori e pertanto inizieranno a ricordare costantemente e tenacemente la promessa di acquisto. “Io chiedo ‘posso avere questo?’ e loro mi rispondono ‘no, la prossima settimana’ e la prossima settimana ancora chiedo ‘mamma mi avevi detto che me lo avresti comprato la prossima settimana’ e lei risponde ‘la prossima settimana’ e allora aspetto la prossima per richiederglielo”.

 

Negoziazione

Un’altra forma di risposta è la negoziazione. In questo caso il genitore pone una trattativa volta a scoraggiare il bambino o in caso contrario, che possa almeno avere un esito positivo anche per il genitore stesso. E’ il genitore che chiede al bambino di svolgere un’attività o un compito in cambio del prodotto tanto desiderato. Le condizioni che le madri pongono più spesso sono il comportarsi bene in alcune situazioni, riordinare la stanza, ecc. Ma, anche in questo caso, si può incorrere in una contro-tattica del bambino. Così infatti, imparano anch’essi a porre come merce di scambio possibili servizi domestici o a promettere tutta una serie di comportamenti graditi ai genitori pur di farli comprare.

Quanto detto finora mette in luce che l’interazione tra genitore e bambino riguardo i comportamenti di consumo è vissuta come una sorta di prova di forza in cui ognuno cerca di superare in astuzia l’altro. Questa battaglia di volontà può ben riuscire a mettere alla prova i genitori andando a indebolire la loro autorevolezza e sicurezza, soprattutto quando per stanchezza, sensi di colpa, o altro si trovano a cedere alle richieste pur non avendo voluto.

Alessitimia e Disturbi del Comportamento Alimentare: quale relazione?

I pazienti con disturbi del comportamento alimentare esperiscono le emozioni in maniera sconcertante, risultando incapaci di descriverle e presentando una disconnessione tra componente fisiologica e sentimentale soggettiva dell’emozione, tipica degli individui con alessitimia.

Elisa Poidomani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

 

Introduzione

Se consideriamo la prospettiva cognitiva, possiamo definire i disturbi alimentari, in particolare anoressia e bulimia, come un’eccessiva preoccupazione negativa verso i temi del controllo, della perfezione e dell’autostima – e l’alessitimia come un’intolleranza agli stati d’animo.

Parlando del tema del controllo, spesso associato al rimuginio che comporta un mantenimento e un continuo ripensamento dei pensieri negativi disadattivi, essi possono essere definiti atteggiamenti psicologici riconducibili sia alla preoccupazione verso il cibo che verso la forma corporea, che aiutano a sviluppare il disturbo alimentare e, nel contempo, a mantenerlo nel tempo.

Sassaroli (Sassaroli et al, 2005) ha dimostrato come l’associazione tra il rimuginio e i Disturbi del Comportamento Alimentare,  sia spesso mediata dall’insoddisfazione corporea. Inoltre, anche se non è chiaro se considerarlo il fattore predisponente o collaterale alle credenze disadattive, il rimuginio svolge un ruolo prevalente nel mantenimento dei Disturbi del Comportamento Alimentare.

Il perfezionismo è un costrutto formato da fattori sociali e personali che può essere adattivo e disadattivo; quando disadattivo, si presenta come forma d’ansia per la prestazione (Pratt, 2011) oppure nella forma di preoccupazione per gli errori, interpretati come equivalenti al fallimento (Halmi, 2000). Esso sembra essere collegato con un’esperienza di attaccamento al caregiver infantile basata su critiche continue che vengono interiorizzate come modalità di comportamento e pensiero, che influisce anche sul controllo, sull’eccessiva responsabilità e sui sentimenti di umiliazione e vergogna.

L’autostima nelle pazienti risulta essere principalmente un’opinione globale negativa su di sé e sulle proprie capacità e non risulta influenzata dal risultato ottenuto nella performance, in quanto, anche in caso di risultati positivi, le pazienti non li attribuiscono a se stesse ma a fattori esterni.

L’alessitimia, invece, si esprimerebbe con l’incapacità di tollerare stati emozionali intensi specialmente legati a  rabbia, ansia o tristezza (Fairburn, Cooper, Shafran, 2003).

Nel modello clinico cognitivo il tema del controllo si connette tanto a capacità di autoregolazione di stati interni – quando si verifica un fallimento da parte delle capacità autoregolative nella gestione delle emozioni negative – quanto a quella di influenzare eventi esterni. Il controllo è direttamente legato all’impulso alla magrezza e alla convinzione assoluta dei soggetti che la totale ristrettezza alimentare renderebbe la vita più gestibile e controllabile (Sassaroli, Ruggiero, 2010).

La mancanza di controllo percepita può condurre a condotte di evitamento o al desiderio di accrescere ulteriormente il controllo fino alla compulsione ossessiva a riguadagnarlo: il desiderio di controllo, infatti, è una variabile correlata non solo con l’ansia ma anche con l’ossessività (Sassaroli, Ruggiero, 2002);

Le persone anoressiche gestiscono tale capacità di controllo meglio di quelle bulimiche, le quali, cedendo alle abbuffate caratteristiche della patologia, sperimentano ancor più il timore catastrofico di un danno derivato dall’aver perso il controllo, timore caratteristico dei soggetti ansiosi.

 

 

Cosa si intende con Alessitimia?

Il termine alexithymia (dal greco assenza di parole per le emozioni) venne coniato da  Sifneos (Sifneos et Al. 1976) per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici.

Secondo la definizione attuale, il costrutto dell’alessitimia rappresenta un insieme di deficit della capacità di elaborare le emozioni da un punto di vista cognitivo/esperenziale e comprende quattro caratteristiche collegate dal punto di vista logico (Nemiah, 1977; Sifneos, 1973; Taylor 1997): la difficoltà di identificare e descrivere le emozioni e l’incapacità di collegare la manifestazione emozionale con specifiche situazioni; la difficoltà nel distinguere fra stati emotivi soggettivi e componenti somatiche dell’attivazione emotiva, per cui le emozioni vengono espresse preminentemente attraverso la componente fisiologica. In un’ottica cognitiva, invece, si parla di un’attenzione selettiva volta ad amplificare le componenti somatiche e di una predisposizione all’agire motorio per scaricare le tensioni interne spiacevoli; uno stile cognitivo orientato all’esterno e legato allo stimolo che si manifesta attraverso un pensiero razionale, concentrato sui dettagli della realtà fattuale e privo di partecipazione emotiva.

Oltre ai deficit nel dominio cognitivo-esperienziale, l’alessitimia prevede deficit del dominio comportamentale-espressivo dei sistemi di risposta emotiva e a livello della regolazione interpersonale delle emozioni.

Oggi l’alessitimia viene considerata un costrutto dimensionale o tratto di personalità con distribuzione normale nella popolazione generale, per cui i soggetti possono riportare singole aree mentali alessitimiche relative a emozioni/contenuti specifici.

Nel 1985, il gruppo di Toronto, costituito da Taylor, Bagby e Parker, pubblicò la Toronto Alexithimia Scale, prima scala empiricamente validata per l’assessment del costrutto che determinò uno sviluppo impressionante della ricerca e delle publicazioni a riguardo. La scala comparì inizialmente in una versione a 26 item (Taylor, 1985) e dieci anni dopo in una revisione a 20 items (TAS-20). Giunta alla standardizzazione definitiva (Bagby, 1994) dopo diversi adattamenti e standardizzazioni anche in Italia (Bressi et al., 1960), la TAS20 continua ad essere la scala psicometrica più usata per la misura dell’alessitimia trovandosi in più del 90% dei lavori scientifici a riguardo.

Successivamente il gruppo di Toronto ha lavorato alla costruzione di un’intervista semi-strutturata, la Toronto Structured Interview for Alexithymia (TSIA, Bagby et al., 2006), recentemente standardizzata anche in lingua tedesca e italiana (Caretti, Porcelli et al, 2011) e composta da 24 item divisi per le quattro dimensioni del costrutto – difficoltà nell’identificare i sentimenti, difficoltà nel descrivere i sentimenti, pensiero orientato all’esterno, processi immaginativi. L’intervista semi-strutturata oltrepassa il problema cruciale degli strumenti usati per misurare l’alessitimia che si basavano su ciò che il soggetto stesso riferiva a proposito dei propri stati interni, che è proprio la capacità deficitaria in questi casi (Porcelli e Todarello, 2005).

Molti studi sulla relazione tra alessitimia e disturbi del comportamento alimentare si sono focalizzati sul problema del deficitario riconoscimento delle espressioni facciali. Infatti, nelle pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare esposte ad espressioni facciali, si trovano una pronunciata incapacità di comprensione emozionale e tentativi di mettere in atto strategie per evitare di empatizzare (Smith e Amner, 1997); pazienti che soffrono di anoressia nervosa hanno difficoltà nel riconoscere le emozioni dall’espressione facciale e dal tono di voce, con una conseguente povertà di comunicazione interpersonale e una perdita di empatia (Kucharska Pietura, 2004);  secondo Legenbauer e Vocks (2008), più che problemi percettivi nel riconoscimento delle emozioni di base pare esservi un problema di consapevolezza emotiva, che suggerisce un disturbo cognitivo-affettivo nel riconoscimento delle emozioni.

 

 

Alessitimia e disturbi del comportamento alimentare

I disturbi dell’alimentazione possono essere concettualizzati come disturbi dell’autoregolazione, in particolare una difficoltà che emerge nella regolazione degli affetti.

I pazienti hanno difficoltà nel percepire o nell’interpretare cognitivamente stimoli corporei come fame-sazietà e fatica-debolezza; esperiscono le emozioni in maniera sconcertante, risultando incapaci di descriverle e presentando una disconnessione tra componente fisiologica e sentimentale soggettiva dell’emozione, tipica degli individui alessitimici. La mancanza di consapevolezza circa le esperienze interne e l’incapacità di affidarsi ai sentimenti e alle sensazioni corporee per guidare il comportamento contribuiscono alla sensazione di inefficacia che spesso i pazienti denunciano.

Secondo Carano, (Carano, 2006) nei soggetti con alessitimia e disturbi del comportamento alimentare, la difficoltà a discriminare tra stati emotivi e sensazioni corporee porta a dispercezioni dell’immagine corporea che possono compromettere la costruzione di un’identità unitaria. Anche se l’alessitimia non è direttamente legata all’abbuffarsi, al disturbo dell’immagine corporea o ad una ricerca ossessiva della magrezza, esistono prove empiriche sulla correlazione tra il costrutto e vari tratti psicologici fondamentali dei disturbi del comportamento alimentare come la confusione enterocettiva, il senso di incapacità, la alterata percezione della fame, che rappresenta la più vasta difficoltà nel distinguere stimoli interni ed esterni, emozioni e sensazioni.

Inoltre, sembra che l’alto tasso di ricaduta dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare sia relazionato alla presenza di tratti alessitimici e al deficit di regolazione degli affetti.

Molti studi han dimostrato come, effettivamente, l’alessitimia si ritrova tra i pazienti con disturbi del comportamento alimentare in misura maggiore rispetto ai controlli (Bourke e Taylor, 1992; Schmit, 1993, Cochrane, 1993, Jimerson, 1994); in particolar modo il livello di alessitimia misurato alla TAS- 20 risulta maggiore nelle pazienti anoressiche rispetto a quelle affette da bulimia nervosa (Schmit, 1993; Gilboa- Schechtman e Avnon, 2006).

Alcuni studi definiscono l’alessitimia come un tratto stabile sia in pazienti anoressiche che bulimiche; in particolare le pazienti anoressiche sembrano essere emotivamente non consapevoli (Casper, 1990) mentre le pazienti bulimiche hanno difficoltà nella regolazione delle emozioni  (Schmit, 1993).

Inoltre, il tratto alessitimico misurato in pazienti anoressiche e bulimiche non pare beneficiare del trattamento farmacologico (Schmit, 1993).

Hayaky ha così concluso (Hayaky, 2002):

  • L’espressione emozionale è inversamente correlata con la sintomatologia del disturbo alimentare;
  • L’espressione emozionale povera predice l’insoddisfazione corporea se si controllano sintomi
  • depressivi;
  • Pazienti con disturbi del comportamento alimentare inibiscono l’espressione delle emozioni che percepiscono minacciose: (es. la rabbia)
  • La percezione della rabbia come minacciosa si associa ad un’inibizione emozionale quando gli effetti della depressione e dell’insoddisfazione corporea vengono controllati.

Il comportamento alimentare disturbato può essere considerato anche un meccanismo di difesa che aiuta nella gestione degli affetti negativi. I modelli teorici ne sottolineano il ruolo nel distrarre dalle credenze negative su di sé e dallo stress emozionale (Cooper, Wells & Todd, 2004; Fairburn, 2003): l’abbuffata o la restrizione sono regolatori emozionali per dissociare, scappare o bloccare emozioni dolorose che non possono essere tollerate (Heatherton & Baumeister, 1991) o per alleviare affetti avvertiti non gestibili o minacciosi.; infatti il disturbo del comportamento alimentare non viene predetto dall’affetto negativo, ma dal fatto che viene percepito intollerabile. Le emozioni negative, inoltre, costituiscono un rilevante fattore di mantenimento del disturbo (Fairburn, 2003).

L’esperienza dell’emozione negativa come difficile e ingestibile può derivare dalla crescita in un ambiente dove non avviene una validazione emozionale, per cui il soggetto crede che la data emozione sia cattiva o pericolosa. In questi ambienti le emozioni negative vengono ignorate o ottengono risposta negativa, mentre quelle positive vengono rinforzate e stimate. Quando vengono esperite emozioni primarie come rabbia o tristezza, le credenze circa la loro inaccettabilità scatenano la volontà di sopprimerle con l’abbuffata o la restrizione. Il soggetto in crescita percepisce di non avere il permesso di esprimere le proprie emozioni.

Waller e Costorphine (2007) ritengono che nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare si possano ritrovare due principali tipi di presentazione emozionale: caotico-dissociativa e distaccato-alessitimico.

Il primo tipo correla con un comportamento impulsivo, bulimico e di inibizione emotiva; il blocco delle emozioni si manifesta quando le emozioni raggiungono la coscienza (evitamento secondario). Il secondo tipo è la presentazione alessitimica, correlata con un comportamento restrittivo, compulsivo e con la difficoltà nell’identificare le emozioni. In questo caso il blocco delle emozioni si manifesta prima che le emozioni raggiungano la coscienza (evitamento primario)

Le emozioni principalmente correlate ai disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia) sono:

  • Rabbia. E’ in genere l’emozione più difficile da accettare ed esprimere nei soggetti con disturbo del comportamento alimentare in quanto considerata imprevedibile e incontrollabile (Fox, 2009). In particolare le pazienti affette da anoressia tendono a sopprimere questa emozione e compensarla con messe in atto quali il silenzio, la cura altrui e il sacrificio del sé. I soggetti ritengono di dover sopprimere la rabbia per proteggere loro stessi, le persone importanti della loro vita o la relazione interpersonale (Geller, 2000). Donne con DCA, specialmente se affette da Bulimia Nervosa, sperimentano maggiori livelli di rabbia rispetto ai controlli e sono meno capaci di essi di esprimerla. Gli alti livelli di rabbia si associano a radicate credenze disfunzionali su di sé ma, a differenza dei soggetti sani, solo nei soggetti con disturbi del comportamento alimentare queste credenze si associano con una inibizione dell’emozione (Walzer, 2003).
  • Orgoglio. Il comportamento alimentare restrittivo è spesso legato a quest’ultimo (Goss e Gilbert, 2002) per difendersi dalla primitiva emozione della vergogna e, con l’instaurarsi della patologia, diviene un motivo di soddisfazione di per sé.
  • Paura. Una delle emozioni principale, espressa sia a livello fisico (paura di ingrassare) che egoico.
  • Disgusto. Il disgusto primario deriva dalla capacità dello stimolo di provocare la paura dell’ingestione orale, mentre il secondario deriva da trasgressioni morali o sociali. Dall’emozione primaria del disgusto deriva la più complessa emozione della vergogna (Power, Dagleish 2008): tra le pazienti anoressiche ne è frequente il riscontro in molti domini (es.: vergogna del corpo, di non controllarsi, di avere un disturbo, di non potere fare di più), e anche verso le emozioni stesse. La vergogna è nello specifico una vergogna del corpo e del comportamento. Il fatto che spesso il senso di vergogna non si risolva completamente nemmeno dopo il recupero dalla sintomatologia (Swan, Andrews, 2003), ne fa ipotizzare il ruolo come fattore di mantenimento del disturbo nonché di resistenza al cambiamento. Nei pazienti si instaurano particolari cicli emozionali ‘vergogna-vergogna’, soprattutto nei casi di bulimia, correlato alla paura di essere scoperti dagli altri – o ‘vergogna-orgoglio’, più tipico delle pazienti con comportamento restrittivo.

 

Alessitimia e disturbi del comportamento alimentare: il ruolo della famiglia

Analizzando le famiglie con soggetti che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare si è visto come frequentemente, almeno uno dei due genitori, abbia dei tratti alessitimici e un basso livello di empatia (Guttman e Laporte, 2002; Espina, 2003; Loriedo, 2009).

Uno studio recente (Balottin, Bomba, Nacinovich, 2014) ha coinvolto 46 soggetti, pazienti anoressiche (13-17 anni) e relativi genitori, ai quali sono stati somministrati il questionario TAS_20 e l’intervista semi strutturata TSIA; da questo studio è emerso come il questionario, anche se decisamente più semplice e veloce da somministrare, non riportava risultati  accurati quanto l’intervista. In particolare, l’intervista ha mostrato elevati livelli alessitimici nei genitori di pazienti anoressiche. Nelle pazienti venivano misurati tre fattori: pensiero esternalizzante, identificazione e capacità di esprimere le proprie emozioni; la TSIA ha mostrato elevati livelli alessitimici correlati al primo fattore, mentre per gli altri due non sono emersi dati chiari e differenti da quelli ottenuti con la TAS- 20.

Molti studi han riportato come il senso di crisi e stress provocati dalle condizioni delle figlie possano avere portato i genitori a mettere in atto strategie difensive durante lo svolgimento del questionario, uniti all’ansia provocata dal timore di non rispondere correttamente alle domande; gli alti livelli di distress, ansia e affettività negativa possono portare, quindi, all’emergere di elevati valori di alessitimia nel questionario; l’intervista, condotta da soggetti competenti e sensibili, può ovviare a questo problema.

In questo studio i livelli di alessitimia nella famiglia erano degni di nota, in particolare l’indice alessitimico identificato con la TSIA era significativamente più elevato di quello emerso con la TAS-20; questa netta differenza tra i due strumenti sembra essere riconducibile alle risposte fornite dai padri che non erano in grado di identificare le loro difficoltà emotive e quindi non fornivano risposte al questionario autosomministrato effettivamente vere; inoltre sembra che l’affettività negativa mostrata dalle figlie e questa voglia di autodistruzione non fosse tollerata dai padri che mettevano in atto un ulteriore meccanismo di difesa che bloccava le emozioni, creando così un circolo vizioso e ostile  nel rapporto con le figlie che avrebbero avuto, invece, bisogno di sentirsi libere di esprimere le emozioni e di poterle comunicare.

Recenti studi hanno dimostrato l’importanza della figura paterna per le adolescenti anoressiche e per il loro processo di guarigione; la collaborazione e partecipazione dei padri nel processo aumentava le possibilità di risultato positivo della terapia così come la presenza di alessitimia e conseguente scarso coinvolgimento, avevano un impatto negativo sulla possibilità di guarigione.

Le madri sembravano avere livelli inferiori di alessitimia specialmente se indagata tramite TSIA (esisteva un gap del 70% rispetto ai risultati dei padri); paradossalmente, persino le figlie mostravano livelli di alessitimia inferiori ai padri se indagati tramite l’intervista.

È da dire come, però, la letteratura sottolinea l’importanza dell’alleanza terapeutica con l’intera famiglia e l’influenza che entrambi i genitori possono avere sulle pazienti piuttosto che considerare il singolo, padre o madre che sia.

L’importanza di questo studio sta, oltre all’interesse per la figura paterna e nella sua predominanza per l’alessitimia, nell’aver usato la TSIA, più sensibile e valida rispetto al questionario.

Considerando una rassegna della letterature emerge come le pazienti bulimiche riportano, e ne sono influenzate, un ambiente familiare più disfunzionale nella gestione delle emozioni rispetto alle pazienti anoressiche (Fornari e WlodarczyKBisaga,1999); i genitori delle pazienti anoressiche sono più alessitimici dei controlli e le pazienti anoressiche sono più alessitimiche dei loro genitori  (Guttman e Laporte, 2002).

Stimolazione sensoriale: il trattamento “Snoezelen” applicato alla demenza

Il trattamento Snoezelen è un intervento terapeutico, nato in Olanda negli anni ’70 e finalizzato alla promozione del benessere nella persona, attraverso la stimolazione controllata dei cinque sensi, utilizzando effetti luminosi, colori, suoni, musiche, profumi.

 

Le origini del trattamento Snoezelen

Derivato da due verbi olandesi, ‘Sniffen’ e ‘Doezelen’, il termine Snoezelen è stato inizialmente introdotto nel 1970 come intervento per le persone con disabilità intellettiva, con l’intento di ridurre gli effetti negativi della deprivazione sensoriale, come urla e comportamenti dirompenti. L’applicazione clinica della Snoezelen è stata estesa dall’ambito delle disabilità intellettive a quello delle demenze. Queste due popolazioni condividono alcune caratteristiche tra cui la presenza di deficit cognitivi e le difficoltà comunicative. Queste difficoltà portano spesso ad una condizione di isolamento e distacco dalla realtà circostante; a tal riguardo, tra gli scopi perseguibili attraverso il trattamento Snoezelen vi è proprio quello di ricercare un contatto con il mondo interno delle persone attraverso la stimolazione sensoriale.

 

L’applicazione del trattamento Snoezelen alle persone con demenza

Le persone con demenza, inoltre, hanno una più bassa soglia di tolleranza allo stress, e quindi una limitata capacità di fronteggiare le esigenze ambientali. In genere si manifestano comportamenti disadattivi in caso di sovraccarico ambientale o di deprivazione sensoriale. Quindi sia nel caso in cui la stimolazione ambientale è maggiore del livello di adattamento di un individuo che quando sussistono bassi livelli di stimolazione sensoriale. Gli studi sulla deprivazione sensoriale, condotti tra gli anni ’50 e ’60, dimostrano infatti gli effetti dannosi di un ambiente sensoriale non stimolante sui processi mentali di individui giovani sani già dopo un breve periodo di tempo. Uno studio ha riportato che i partecipanti di una ricerca collocati in un ambiente sensoriale deprivato (anche solamente per 1 ora), hanno sperimentato agitazione, ansia, allucinazioni, e una ridotta performance ai test psicologici. Tuttavia, non appena i partecipanti sono stati collocati in un ambiente sensoriale stimolante, le anomalie comportamentali scomparvero. I risultati di queste ricerche suggerirono importanti implicazioni cliniche.

Molti ricercatori considerano gli ambienti Snoezelen come terapie multisensoriali in cui le persone con demenza sono incoraggiate ad impegnarsi con stimoli sensoriali in un ambiente positivo e non stressante. Inoltre, la stanza Snoezelen non richiede un importante coinvolgimento delle abilità intellettive che potrebbero provocare sentimenti di fallimento o di inadeguatezza. L’obiettivo di questo intervento è quello di promuovere comportamenti positivi e ridurre quelli disfunzionali.

Un ambiente multisensoriale promuove, nella persona con demenza, un senso di benessere generale, fornendo un’ atmosfera di fiducia e di rilassamento. L’assunto alla base della stimolazione multisensoriale, fornita in ambiente Snoezelen, si fonda sulla convinzione che ogni individuo abbia un fondamentale bisogno di interazione e di essere coinvolto in attività piacevoli. Purtroppo, spesso, i residenti delle case per anziani non ricevono sufficiente stimolazione durante il corso della giornata; alcuni, anzi, non sono in grado di muoversi in autonomia e trascorrono lunghi periodi immobili.

Da una ricerca di Cohen-Mansfield et al. (1992) emerge che durante il 63% del loro tempo i residenti restano inoccupati, e che i soggetti sono esposti maggiormente ad agitazione quando non sono occupati rispetto a quando sono impegnati in attività. Per combattere la noia causata dalla mancanza di stimoli, le stanze multisensoriali creano un ambiente che offre piacere, svago, ricreazione, e interazione. L’ambiente Snoezelen è quindi un approccio innovativo, che mostra benefici a breve termine sui sintomi comportamentali e psicologici; si osservano, infatti, effetti immediati dopo ogni seduta.

La pazza gioia (2016) – Recensione del nuovo film di Paolo Virzì

La pazza gioia di Paolo Virzì si occupa di quello spazio intermedio, in grande espansione, dove pubblico e privato si incontrano mettendo a disposizione il primo, la correttezza scientifica e il rispetto della legge e il secondo, le risorse e l’efficienza.

 

Ho avuto il privilegio di vedere il film ‘La pazza gioia‘ di Paolo Virzì (che sarà nelle sale il 17 maggio) in anteprima, in una proiezione privata in cui io e Brunella sembravamo il remake di Albertone e Augusta, immersi tra i VIP del bel mondo dello spettacolo, grazie al fatto che il regista mi aveva incontrato proprio sulle pagine di State of Mind quando stava immaginando il film e aveva voluto conoscermi, per scambiare qualche idea su come funzionino oggi le cose nell’universo della salute mentale.

Serio e scrupoloso, ha svolto accurate indagini alla ricerca dei vissuti profondi che animano i protagonisti del grande teatro della salute mentale in Italia, diventandone appassionato esperto.

Non tutti vengono assolti ma, alla fine, ognuno è compreso e perdonato (insomma ci è andata bene!) per cui sarebbe interessantissimo intervistarlo al termine di questa esperienza.

Quattro anni fa pubblicammo un libro dal titolo ‘Territori dell’incontro‘, che trattava di libri e film che parlano della sofferenza mentale e del loro possibile utilizzo  in psicoterapia e nella formazione professionale.

Certi disturbi, una volta visti sul grande schermo, penso, ad esempio, agli ossessivi di Carlo Verdone o ai matti di Jack Nicholson, non li dimentichi più, al contrario di quando li leggi sui libri.

In quel libro, oltre a trattare tutti i singoli disturbi, si parlava dei sistemi curanti. Moltissimi psichiatri della mia generazione hanno scelto  questo mestiere per combattere a fianco di Nicholson in ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo‘ ed hanno costruito quel mondo imperfetto dei servizi pubblici e del privato sociale che viene ben rappresentato anche  in ‘Si può fare‘ di Giulio Manfredonia che, di quel libro, fece la prefazione.

Ora mi toccherà aggiornare quel volume per far posto a questo gioiellino che è La pazza gioia di Paolo Virzì.

Quando esce qualcosa che riguarda il mondo della sofferenza mentale tutti noi operatori vi ci gettiamo avidi, felici che se ne parli non soltanto nei titoli della cronaca nera e desiderosi di riaffermare appassionatamente le nostre idee, scontrandoci come solo la direzione del PD sa fare.

Il livello di psicopatologia che serpeggia tra noi curanti è decisamente superiore alla media e la riforma basagliana ha avuto perlomeno il merito di togliere un po’ di operatori dalla strada.

La maggior parte dei film sul sistema curante si occupa dei manicomi, per stigmatizzarne gli orrori e la soddisfazione orgogliosa di averli, primi nel mondo, chiusi e della psichiatria territoriale, per sottolinearne l’insufficienza di risorse e l’abbandono dei pazienti nonostante l’impegno di terapeuti spinti da una vocazione talvolta eroica.

Dall’altro lato, quando si parla del privato, ci si concentra soprattutto sugli studi di psicoterapia i quali, che siano dell’upper east side newyorchese o de noantri, ci descrivono complicate relazioni terapeuta-paziente che varcano il rigido confine del setting per inoltrarsi nel territorio del codice penale.

La pazza gioia di Virzì si occupa di quello spazio intermedio, in grande espansione, dove pubblico e privato si incontrano mettendo a disposizione il primo, la correttezza scientifica e il rispetto della legge e il secondo, le risorse e l’efficienza.

Insomma, il mondo delle comunità terapeutiche, delle cooperative e del volontariato che collaborano per produrre un’unica sinfonia sotto la direzione dei Centri di Salute Mentale.

Non dirò una parola sulla trama del film che, tra risate ed occhi inumiditi, ci sorprende fino all’ultima immagine con un fuoco di fila di colpi di scena temuti e auspicati dallo spettatore; spettatore che adotta da subito le due sciagurate protagoniste che, all’inizio, si vorrebbero prendere ‘a schiaffi a due a due finchè non diventano dispari‘ e, al termine, vorresti ospitarle a casa sentendo che così anche un pezzo di te troverebbe pace.

Non c’è un personaggio che sia solo buono o solo cattivo.

Virzì, lo aveva già dimostrato in tutti gli altri suoi film: non parte da una prospettiva ideologica ma compassionevole,  come chi sa che l’essere angelo e demonio allo stesso tempo è esattamente la cifra (scrivo così perché fa fine, ma avrei detto caratteristica) dell’essere umano.

La differenza tra operatori e pazienti si confonde, alcuni curanti starebbero meglio dall’altra parte, mentre la relazione terapeutica più bella e salvifica è quella che una protagonista instaura con l’altra protagonista, la più matta di tutta la compagnia.

Se non mi vergognassi della banalità della frase dopo una vita di studio direi che, alla fine, il vero ingrediente indispensabile per la cura è la relazione terapeutica, dove sperimentare un amore compassionevole in cui il curante riconosce nell’altro le sue stesse fragilità e meschinità e vi fa pace, rimandando ad altri il compito impossibile e logorante della perfezione.

Il film è intessuto di queste relazioni terapeutiche, poco tecniche ma molto calde, trasversali tra i personaggi anche più marginali e, a prima vista, abietti. Ognuno visto più da vicino ha le sue ragioni e, come diceva De Andrè: ‘Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo‘.

Non vorrei aver dato l’impressione che si tratta di un film serioso a cui far seguire il temuto dibattito.

Si sta molto in apprensione. Si tifa ora per l’uno e poi anche per il suo avversario e soprattutto, non si ride di qualcuno, ma si ride perché quella pazza gioia è contagiosa.

 

LA PAZZA GIOIA: IL TRAILER DEL FILM

Psicoterapia con bambini e famiglie: interventi cognitivo-comportamentali in età evolutiva (2016) – Recensione

Nerina Fabbro ci introduce con questo saggio alla psicopatologia dell’età evolutiva e fornisce un agile strumento per tutti i professionisti della salute mentale che si interessano dei disagi dei bambini e degli adolescenti.

 

Sono ormai numerosi i dati che ci fornisce la letteratura sull’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi psicologici dell’infanzia e dell’adolescenza, in particolare se contestualmente all’intervento con il bambino è attivato anche un lavoro con la famiglia. Il volume offre quindi indicazioni su trattamenti che tengano conto dell’importanza in età evolutiva di un approccio di terapia cognitivo-comportamentale familiare.
Il volume offre strumenti di aiuto clinico per i professionisti della salute mentale dell’età evolutiva, presentati sotto forma di protocolli d’intervento che includono strategie cliniche e tecniche cognitivo-comportamentali per la maggior parte articolati in proposte di lavoro per i bambini/adolescenti e per i genitori.

Il testo ci introduce quindi alla psicopatologia dell’età evolutiva ponendo attenzione al setting terapeutico e alla costruzione della relazione terapeutica con il bambino e la sua famiglia.

La prima parte del testo è quindi dedicata agli interventi nell’infanzia e nella fanciullezza: il trattamento dell’enuresi e dell’encopresi, i disturbi del comportamento alimentare nell’infanzia, l’ansia generalizzata e l’ansia da separazione, il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo in età evolutiva, il trattamento della sindrome di Tourette e di altri disturbi da tic, il trattamento della tricotillomania in età evolutiva e infine il trattamento integrato del disturbo della fluenza verbale con esordio nell’infanzia.

La seconda parte del testo propone interventi in preadolescenza e in adolescenza: il trattamento della depressione in età evolutiva e il trattamento sull’uso di sostanze. Sono inoltre presentati un training di assertività di gruppo per adolescenti e il rilassamento muscolare progressivo in età evolutiva.

La terza parte del testo è dedicata ai genitori: all’intervento cognitivo-comportamentale con la famiglia, al training di assertività con sessioni parallele per genitori e bambini, alla terapia di coppia e alla separazione e al divorzio dei genitori.
Infine nella quarta parte del testo sono proposti interventi in specifici contesti: un intervento ACT di gruppo per una gestione del diabete insulino-dipendente e la pet therapy in età evolutiva associata ai trattamenti cognitivo-comportamentali.

Il testo è il risultato della collaborazione di diversi professionisti, è ben organizzato, di facile consultazione e rapido da utilizzare. Consiglio a chi lavora con i bambini-adolescenti e in particolare con i genitori, di averlo nella propria libreria.

Immagine corporea: definizioni e fattori determinanti

Immagine corporea: La costruzione dell’immagine corporea e le sue eventuali alterazioni derivano da un insieme di aspetti neurobiologici, psicologici e socio-culturali.

Immagine corporea: definizioni

La maggior parte delle persone limitano all’apparenza fisica il concetto di immagine corporea, ma quest’ultima è molto di più. Di seguito alcune definizioni. Nella prima opera interamente dedicata all’immagine corporea, dal titolo The image and the appearence of the human body (L’immagine e l’apparenza del corpo umano), Paul Schilder definisce l’immagine corporea: [blockquote style=”1″]L’immagine del nostro corpo che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il nostro corpo ci appare […]. Questo termine indica che non si tratta semplicemente di una sensazione o di un’immagine mentale: ma che il corpo assume un certo aspetto anche rispetto a se stesso; esso implica inoltre che l’immagine non sia semplicemente percezione, sebbene ci giunga attraverso i sensi, ma comporta schemi e rappresentazioni mentali, pur non essendo semplicemente una rappresentazione[/blockquote] (Schilder, 1935).

Secondo Schilder, inoltre, l’immagine corporea è costruita nel cervello e quindi sottoposta ad un collaudo permanente necessario a verificare quali e come le parti concordano con il progetto individuato e l’insieme complessivo corporeo. Più recentemente, Peter Slade definisce l’immagine corporea [blockquote style=”1″]l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo[/blockquote] (Slade, 1988). Secondo Slade, l’immagine corporea è costituita da diverse componenti (Slade, 1994): percettiva (ad esempio, come la persona visualizza la taglia e la forma del proprio corpo); attitudinale (quello che la persona pensa e conosce del proprio corpo); affettiva (i sentimenti che la persona nutre verso il proprio corpo); comportamentale (riguardante ad esempio, l’alimentazione e l’attività fisica). Quindi l’immagine corporea riguarda la persona nella sua globalità, e i suoi effetti possono essere rilevanti e complessi.

 

Aspetti neurobiologici legati all’immagine corporea

La costruzione dell’immagine corporea e le sue eventuali alterazioni derivano da un insieme di aspetti neurobiologici, psicologici e socio-culturali. A proposito dei primi, le principali aree cerebrali collegabili all’immagine corporea sono (Dalla Ragione; Mencarelli, 2012):
–  l’emisfero destro (determinante per la regolazione delle emozioni)
–  insula, amigdala e giro superiore (che mediano le reazioni di disgusto e di avversione legate alle percezioni visive)
–  corteccia occipitale dorsale, giunzione temporo-parieto-occipitale destra, giro fusiforme, lobo parietale inferiore, corteccia prefrontale dorso-laterale (se disfunzionali, potrebbero dare origine a distorsioni della percezione dei volti e del corpo. Inoltre l’alterato funzionamento della corteccia prefrontale dorso-laterale potrebbe contribuire all’incapacità di correggere distorsioni percettive generate da altri sistemi mal funzionanti).
–  corteccia prefrontale ventro-mediale (se disfunzionale, potrebbe dare origine all’incapacità di inibire reazioni di disgusto e di ansia derivate da difetti corporei percepiti
–  giro paraippocampale destro (se disfunzionale, potrebbe dare origine ad incongrue autovalutazioni circa il proprio aspetto, negative distorsioni interpretative e idee di riferimento)
–  il fronto-striato (se con anomalie, potrebbe contribuire alla disfunzione esecutiva e alla natura intrusiva dei pensieri ossessivi e dei comportamenti compulsivi).

Aspetti psicologici e socio-culturali associati all’immagine corporea

Tra gli aspetti psicologici associati all’alterazione dell’immagine corporea: esperienze evolutive avverse (Thompson et al., 2001) ad esempio, l’influsso negativo derivante dalle umiliazioni subite per l’aspetto fisico durante l’infanzia e l’adolescenza. Altri autori (Neziroglu et al., 2004) hanno invece sottolineato che i soggetti con alterazione dell’immagine corporea si caratterizzano per un’estrema importanza data all’apparenza, derivante dall’essere stati bambini ed adolescenti molto apprezzati per il loro aspetto fisico.

A proposito degli aspetti socio-culturali, il Modello Tripartito di Influenza considera i genitori, i pari e i mass media, tre fonti che condizionerebbero lo sviluppo delle alterazioni dell’immagine corporea. Infatti, i mezzi di comunicazione di massa trasmettono e promuovono un’eccessiva esaltazione della magrezza, e a loro volta i genitori e i pari rinforzano e incoraggiano tale attuale standard irrealistico di bellezza. Quest’ultimo quindi viene interiorizzato ma poiché è impossibile da raggiungere concretamente dalla maggior parte delle donne, favorisce l’insoddisfazione corporea (Keery et al., 2004; Cash, 2005).

Uno studio che dimostra l’efficacia dei mass media è quello compiuto da Becker e collaboratori su un campione di adolescenti femmine delle isole Fiji. Dopo appena un anno di esposizione a programmi televisivi occidentali, le ragazze testate mostrarono il desiderio di ridisegnare il loro corpo per diventare più simili ai protagonisti della TV (Becker et al, 2002). Secondo Stice, la pressione verso la magrezza esercitata da familiari, amici e media favorisce la tendenza a sopravvalutare l’importanza delle forme corporee e del peso nella valutazione di se stessi. L’autore considera ciò la base dell’alterazione dell’immagine corporea, che aumenta la probabilità di sviluppare sintomi tipici della patologia alimentare, come la restrizione e l’abbuffata (Stice, 2002).

Diagnosi, protocolli, industria e artigiani

I viventi di ogni specie devono fare previsioni sul proprio ambiente per poterlo gestire in modo da raggiungere i propri scopi. Conoscere serve innanzitutto per sopravvivere manipolando la realtà a proprio vantaggio. Si tratta di fare delle mappe della realtà e di se stessi per ipotizzare quali comportamenti saranno possibili ed efficaci.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

In accordo con Kelly penso che il primo atto conoscitivo sia una discriminazione bipolare che lui chiamò costrutto costruendoci sopra la teoria dei costrutti personali (1955) che ritengo tuttora gravida di potenzialità non ancora sfruttate pienamente.

L’operazione basilare del conoscere è dunque distinguere, differenziare. In un certo senso separare. Le grandi operazioni scientifiche sin dall’antichità hanno mirato e si sono avvalse per svilupparsi di classificazioni in cui si distinguono categorie all’interno delle quali si operano altrettante suddivisioni in ulteriori sottocategorie e  via così fino al singolo oggetto o individuo.

Il più noto di questi sforzi fu quello di Linneo che con il suo ‘Sistema Naturae‘ ordinò tutti gli organismi viventi.  Pensate che organizzò un edificio a 27 piani:

  • Dominio
  • Regno
    • Sottoregno
      • Superphylum
  • Phylum (o Tipo o Divisione)
    • Subphylum (o Sottotipo o Sottodivisione)
      • Infraphylum
        • Superclasse
  • Classe
    • Sottoclasse
      • Infraclasse
        • Superordine
  • Ordine
    • Sottordine
      • Infraordine
        • Parvordine
          • Superfamiglia
  • Famiglia
    • Sottofamiglia
      • Tribù
        • Sottotribù
          • Infratribù
  • Genere
    • Sottogenere
  • Specie
    • Sottospecie
      • Forma (zoologia) o Varietà (botanica)

 

Questo furor classificatorio non è appannaggio esclusivo degli scienziati. Devo continuamente arginare domande di pazienti che mi chiedono se quello che sperimentano sia amore, innamoramento, passione, infatuazione o amicizia.

Insomma si fa presto, anche se un po’ di ossessività aiuta, a stilare lunghe liste di categorie e sottocategorie. Poi però la realtà non ci si adatta mai perfettamente. Tocca forzarla, tirarla di qua e spingerla di là e poi inventare delle categorie intermedie. Pensate anche alle categorie dell’attaccamento che vanno sempre più articolandosi. Sapreste dire con certezza che attaccamento avete. Quando io ci provo con me stesso e con i miei allievi ci trasformiamo subito in un branco di Veltroni per cui ‘E’ così ma anche…. In un certo modo ma un pò nell’altro‘.

Ognuno crea mappe di quella parte di mondo che ricade nei suoi interessi e la cui conoscenza garantisce il raggiungimento dei propri scopi. Per questo tutti gli esseri umani hanno teorie sul funzionamento degli esseri umani stessi e di loro stessi in particolare (sono quelle che ho chiamato tanti anni fa le Teorie psicologiche naives e che nei nostri pazienti riguardano il perché loro soffrono e come potrebbero smettere di farlo).

I medici hanno creato  meravigliosi atlanti di anatomia e sarebbe interessante riflettere sul fatto che anch’essi sono passati via via da una descrizione diciamo così topografica del corpo umano dove il criterio è la localizzazione (dove stanno i vari pezzi e cosa hanno intorno), ad una descrizione per funzioni in cui il criterio ordinante è lo scopo, la funzione. Per cui  l’apparato locomotore sta dappertutto e altrettanto il respiratorio o il digerente (quest’ultimi due entrambi parte di un sovrasistema di scambi energetici con l’ambiente).

Gli psicologi non sono stati da meno e da Aristotele in poi hanno distinto i tipi psicologici, i temperamenti, i caratteri. Altrettanto hanno fatto con la classificazione delle malattie dando origine alle nosografie categoriali che da Kraepelin in poi, ed oggi con la serie dei DSM, hanno monopolizzato  il sapere psichiatrico al punto che ormai ci sembra evidente che le malattie mentali con i loro nomi e cognomi, esistano veramente e siano oggetti della realtà e non semplici costruzioni della nostra mente che cerca di far ordine per poter ‘parlare di’ e ‘operare su’ una realtà che  è senza soluzioni di continuità, senza cassetti distinti.

Bisogna essere consapevoli, pur continuando ad avvalersene,  che l’attuale modo di pensare psicopatologico è impregnato di una mentalità categoriale che ha da sempre spinto l’uomo a operare classificazioni nei domini di proprio interesse partendo dalla premessa implicità che fossero costituiti da oggetti separati e ben distinguibili. Operando con ciò quelle che Bateson chiamava ‘terribili semplificazioni’ pur riconoscendone il fascino e persino l’utilità purché se ne conservi consapevolezza e non ci si creda veramente. L’ordine rassicura, l’indeterminato confonde e spaventa.

Il motivo del successo dell’approccio categoriale lo ascrivo a due motivi. Intanto è corrispondente all’esperienza che abbiamo della natura dove gli oggetti o ci sono o non ci sono e sono distinti nettamente uno dall’altro. Inoltre è più semplice prevedendo solo decisioni binarie circa la presenza o l’assenza di un dato oggetto o al suo interno di una certa caratteristica piuttosto che la valutazione della sua intensità.. Gli stessi pazienti, impregnati di mentalità categoriale, ci chiedono se un certo disturbo ce l’hanno oppure no così come ci chiedono se quello che provano è innamoramento, amore o semplice infatuazione passionale.

Vogliamo fare ordine nella nostra realtà complessa e continua e siamo abituati a farlo forzando la multiformità del reale nei cassetti ben distinti della nostra scrivania mentale. Vi sembrerà strano che il grande ordinatore, lo psichiatra tedesco Kraepelin, sia nato nello stesso anno (1856) di quel gran confusionario cui tutti dobbiamo essere riconoscenti che fu Sigmund Freud. Da allora la tradizione categoriale non ha avuto rivali mandando al confino della scienza gli oppositori (Griesinger con il suo riduzionismo neurofisiologico e Jung con i suoi tipi psicologici). Quando L’approccio categoriale ha incontrato gli americani portati per natura alla semplificazione e legittimati al ruolo di padroni del mondo dalla vittoria nei conflitti mondiali, il risultato è stato l’imperialismo culturale delle ricorrenti edizioni del DSM che hanno soffocato la grande tradizione psicopatologica europea.

Il novecento è stato anche il secolo in cui  tutte le certezze delle scienze cosiddette esatte come la fisica sono state messe in dubbio da Eistein e dalla teoria dei quanti che hanno ormai superato tutte le prove sperimentali e mostrato l’imprecisione di distinzioni  elementari assolutamente evidenti come spazio e tempo, materia ed energia, onda e pacchetto, materia e antimateria e l’illusorietà dei confini che ci fanno sembrare che gli oggetti materiali siano discreti e separati tra loro o che le particelle elementari siano effettivamente in un dato luogo.

Tuttavia se si è imposto così largamente il DSM deve pur avere dei meriti (non possiamo essere evoluzionisti solo quando ci fa comodo) ma è certo che ha ucciso il ragionamento psicopatologico. Per accertarsene è sufficiente leggere le cartelle cliniche dei manicomi dei primi del ‘900 (non solo quelle affascinanti di illustri fenomenologhi come Jasper, ma dei medici comuni che si sforzavano di ragionare e capire, di dare un senso a ciò che pareva insensato) e confrontarle con quelle dei colleghi appena usciti dalle scuole di specializzazione che, preoccupati di stabilire la presenza o l’assenza di ognuno dei molteplici criteri diagnostici, ricordano le negoziazioni delle figurine Panini attraverso la frase fatidica del ‘ce l’ho… mi manca‘.

Il DSM si pregia di essere ateoretico e dunque valido per tutti, un esperanto su cui tutti possano convergere come se presupporre l’assenza di una teoria che ordini i fatti non sia a sua volta una ben precisa teoria opposta ad esempio a tutta la tradizione occidentale che va da Kant fino al costruttivismo. Andremo adesso a spasso tra le opportunità e i rischi della diagnosi in compagnia teorica di uno straordinario psicoanalista, Ignacio Matte Blanco, e di uno psichiatra americano burlone Rosenham. L’utilità della diagnosi sta nel fatto che ci da prevedibilità sulla malattia che abbiamo di fronte e quindi scoperta la presenza di alcuni elementi possiamo inferire la presenza di altri non immediatamente evidenti e di un certo decorso e prognosi nonché la risposta o meno a certi interventi. Ad esempio se registro un attacco di panico, posso ipotizzare la presenza di evitamenti, di comportamenti protettivi come un accompagnatore, una buona risposta agli ansiolitici ed agli SSRI e prevedere una prognosi favorevole.

Però Matte Blanco  ci mette sull’avviso che nel pensiero razionale, arisotelico o simmetrico ( come lo chiama lui) solo dall’identità dei soggetti si può dedurre l’identità dei predicati. Mentre è nel pensiero simmetrico caratteristico del processo primario di Freud, del sogno e, a mio avviso (Lorenzini Sassaroli 1992 ‘Cattivi pensieri: i disturbi del pensiero schizofrenico, paranoico e ossessivo‘) della schizofrenia si stabilisce l’identità dei soggetti sulla base dell’identità dei predicati. Ritenere dalla presenza di alcuni segni che ci sia una certa malattia e dunque tutti gli altri suoi segni, che è l’essenza del processo diagnostico, non è molto diverso dal ragionamento della schizofrenica che affermava ‘Io sono vergine, la madonna è vergine e dunque io sono la madonna’ oppure della sua collega che riteneva di essere la Svizzera perché non era mai stata invasa.

In soccorso a Matte Blanco accorre Popper sostenendo la fallacia del ragionamento induttivo per cui non si può trarre una regola generale dall’osservazione anche di numerosi casi singoli e che solo la negazione è generalizzabile. In altre parole anche vedere milioni di cigni bianchi non ci permette di dire con certezza che tutti i cigni sono bianchi. Al contrario anche un solo cigno nero rende vera l’affermazione generale ‘non tutti i cigni sono bianchi’.

Dunque attenzione perché, alla faccia di questi due grandi pensatori, nel processo diagnostico facciamo assolutamente questo. Dalla presenza di alcuni predicati (caratteristiche, attributi) stabiliamo l’appartenenza di un certo caso singolo ad una classe generale e immaginiamo che abbia tutte le caratteristiche (predicati) appartenenti alla classe stessa. Poi, confermazionisti come siamo, aspettandoceli, li andiamo a cercare e ovviamente li troviamo.

La prova sperimentale di questo perverso procedere l’ha fornita appunto Rosenham. Per chi non avesse voglia di leggersi il suo esperimento riportato in un capitolo dal titolo ‘La beffa di Rosenham’ nel libro ‘La realtà inventata‘ di P. Watzlavich, ne riassumo brevemente i tratti essenziali. Rosenham, convinto che gli statunitensi fossero troppo di manica larga nella diagnosi di schizofrenia, chiese a 12 suoi normalissimi amici di presentarsi all’accettazione di altrettanti ospedali psichiatrici riferendo di udire da qualche giorno delle voci che gli dicevano parole come ‘vuoto’, ‘dentro’. Per tutto il resto, circa la loro vita attuale e passata dovevano dire la verità. Tutti furono ricoverati con la diagnosi di schizofrenia e i resoconti delle loro normalissime esistenze era catalogato in cartella clinica alla luce della teoria sulla schizofrenia. Un ‘Si’ alla domanda se da piccolo giocava anche da solo diventava ‘presentava comportamenti autistici sin dall’infanzia’. Oppure l’ammissione di bisticci con il coniuge, segno di impulsività e aggressività. Dal giorno del ricovero i falsi pazienti non lamentarono più il sintomo allucinatorio ma ogni volta che chiedevano di essere dimessi in cartella veniva riportato che il paziente non aveva alcuna coscienza di malattia, caratteristica portante della schizofrenia. I falsi pazienti ebbero periodi di ricovero tra i 20 e i 68 giorni e furono dimessi con la diagnosi di schizofrenia in stato di parziale remissione in ossequio al dogma dell’inguaribilità della schizofrenia.

Rosenham, cattedratico a Stantford pubblicò la sua ricerca sollevando una alzata di scudi e l’affermazione da parte dell’APA che l’errore era stato causato dal non sapere della possibile presenza di tali impostori.

Allora Rosenham avvertì che in 5 ospedali psichiatrici avrebbe mandato di nuovo nel successivo anno dei suoi falsi pazienti invitando i colleghi a stare accorti. In effetti ben il 33% dei pazienti presentatisi all’accettazione di quegli ospedali psichiatrici fu respinta con la diagnosi di ‘falso paziente di Rosenham’. Peccato che Rosenham non avesse mandato nessuno.

Tutto questo ci fa riflettere non soltanto sull’aleatorietà della diagnosi, ma sulla sua pericolosità in quanto crea un pregiudizio di emarginazione e disinvestimento che rischia di diventare una profezia che si autoavvera. Dunque se la diagnosi categoriale  ci da l’impressione di aumentare la prevedibilità su ciò che abbiamo di fronte, da un lato fa si che cerchiamo e troviamo tutti gli indizi che la confermano e dall’altro scotomizziamo ciò che la contraddice.

I limiti dei modelli categoriali sono evidenziati anche dalla pratica clinica con i DSM.

Ad esempio, nei disturbi di personalità, la comorbilità è la norma piuttosto che l’eccezione. La categoria NAS è sempre più ampia e ciò è un pessimo segno per la validità di un sistema nosografico. Non è chiaro il confine tra tratti di personalità più o meno adattivi e veri e propri disturbi di personalità e neppure tra disturbi di personalità e disturbi di asse I°. Segnali di inefficienza del sistema ci vengono anche da numerosi studi che dimostrano come persino gli psichiatri più tradizionali e ferventi biologisti, adepti alla confraternità del farmaco, nella scelta del trattamento, anche farmacologico, siano guidati più dall’attenzione all’intensità di certe dimensioni che dalla diagnosi categoriale che poi invece sarà esibita nelle presentazioni scientifiche. Per questo non è infrequente assistere alla prescrizione di neurolettici a pazienti depressi o ossessivi in cui i temi di pensieri tendano a distaccarsi dalla realtà. Lo psichiatra sembra più attento ad una ipotetica sottostante ‘dimensione delirante’ che alla diagnosi categoriale. Altrettanto inconsueta può apparire la prescrizione di un AntiDepressivo ad un paziente schizofrenico con prevalenza di sintomi negativi come mirata ad una dimensione di blocco e apatia.

Immagino lo smarrimento momentaneo all’idea di rimanere orfani delle tanto rassicuranti diagnosi e dei loro figlioli più recenti nati dall’accoppiamento con l’ EBM (evidence based medicine), i protocolli di intervento. Molti gruppi nel mondo e la stessa task force del DSM stanno lavorando a classificazioni dimensionali ed io stesso ci ragiono a tempo perso con alcuni colleghi. L’approdo tuttavia non è vicino. E nel frattempo chi ci aiuterà? Mica possiamo aspettare anni. Col prossimo paziente che facciamo? Se va bene il modello dimensionale lo useremo nelle intervisioni a ‘Villa Sigismondo’ la casa di riposo degli psicoterapeuti o per impostare i trattamenti di angeli, arcangeli e trapassati che mi auguro ingarbugliati in problemi diversi.

Per mio conto dopo aver smesso da tempo ho ripreso a fare diagnosi, solo che adesso la diagnosi è costituita dal nome e cognome perché mi sembra che ognuno sia un caso a sé del tutto originale. Il mantenimento del cognome, perché mi sembra che la sofferenza di ognuno sia profondamente radicata nella propria storia personale e familiare transgenerazionale. Non ce la faccio a seguire la scorciatoia della diagnosi e dei protocolli (forse solo perché entrambi non li ho mai studiati abbastanza bene) e costruisco una teoria specifica sul funzionamento di ogni singolo paziente dalla quale consegue un progetto d’intervento fatto su misura, personalizzato. Unico limite alla mia soggettività, l’accordo del paziente su entrambi e, strada facendo, la valutazione di efficacia. Naturalmente anche il ragionamento clinico soggettivo deve seguire delle regole esplicite e condivisibili. Così come il buon artigiano che preferisce vestire i suoi clienti su misura e non vendergli abiti preconfezionati solo da ritoccare, deve seguire le linee guida della buona sartoria ed utilizzare materiali di qualità.

La spiegazione della sofferenza individuale la formulo nei termini di una psicologia scopi- credenze che ha il vantaggio di essere semplice e comprensibile a tutti essendo il modo naturale in cui ci spieghiamo sin da bambini il comportamento degli esseri umani. In estrema sintesi, le operazioni che compio sono due.

In primo luogo cerco di definire l’assetto motivazionale del paziente ovvero gli scopi (stati desiderati di sé e del mondo che persegue) e i cosiddetti antiscopi ( stati temuti di sé e del mondo che rifugge) che, sono certo, in psicopatologia sono più importanti dei primi. Le emozioni del paziente che sono ciò che lo spinge in terapia si muovono verso il positivo (gioia, soddisfazione, sicurezza) quanto più ci si avvicina agli scopi e ci si allontana dagli antiscopi e, viceversa si tingono di negativo (ansia, tristezza, colpa, vergogna, ecc) quando avviene l’opposto.

In secondo luogo indago le strategie di perseguimento degli scopi e quelle di fuga dagli antiscopi. Insieme esse danno un’idea del funzionamento premorboso del soggetto e consentono normalmente di prevedere il comportamento del paziente (la precisione di tali previsioni misura l’accuratezza del modello ipotizzato).

In terzo luogo vado a ricercare come mai il sistema non funziona più producendo sofferenza ed in genere ciò è dovuto ad un conflitto tra due o più strategie che se servono ad uno scopo ne danneggiano un altro (a tal proposito si veda il ciottolo 2: complicati rapporti tra mezzi e fini). Questi primi tre passaggi riguardano, di fatto, ancora esclusivamente l’assessment, ma l’acquisizione di consapevolezza, in tutte le psicoterapie di qualsiasi scuola è propedeutica al cambiamento.

L’intervento vero e proprio è all’insegna dell’ampliamento e si pone l’obiettivo di aumentare i gradi di libertà del sistema.

In primo luogo, l’intervento di più basso livello, mantenendo inalterato l’aspetto motivazionale di scopi e antiscopi cerchiamo (il plurale perché il paziente è il protagonista) di eliminare le strategie inefficaci o troppo costose e di inventarne delle altre (si mantiene lo stesso bersaglio ma ci si attrezza con nuove e più numerose frecce).

In secondo luogo cerchiamo di ampliare l’assetto motivazionale con tre operazioni:

  • Eliminare vecchi scopi che il soggetto ha ereditato dalla sua famiglia o dalle esperienze infantili ma che costituiscono ormai soltanto una zavorra non più adattiva.
  • Ampliare il portafoglio degli scopi attingendo dai desideri e bisogni individuali.
  • Decatastrofizzare gli antiscopi e possibilmente volgerli in scopi positivi.

Il ciottolo finisce qui. Ora però per  dar sfogo all’ossessivo classificatore che ho represso in me e farmi perdonare dai lettori che ho reso orfani delle diagnosi categoriali metto in appendice in corsivo una classificazione degli esseri umani secondo categorie meno consuete e più bizzarre.

 

Appendice:

Il mondo è bello perché  è vario

Psichiatri e psicologi hanno sempre cercato di classificare gli esseri umani. La smania classificatoria è connaturata all’uomo e lo aiuta ad orientarsi in un mondo altrimenti caotico ed imprevedibile. Piante. animali, minerali e quant’altro sono stati suddivisi in specie, razze, famiglie e via via aggregati sempre più piccoli fino ad arrivare al singolo individuo inconsapevole delle sue appartenenze multiple. Lo stesso furore classificatorio si è abbattuto anche sui prodotti umani e non naturali. Si pensi al linguaggio e all’analisi logica e grammaticale. Ai numeri (razionali, irrazionali, interi, primi) alle figure geometriche e anche alle opere d’arte (espressionismo, classicismo, cubismo e via discorrendo). Quasi  tutte le classificazioni seguono il criterio categoriale. Cercano di far ordine tra gli oggetti della realtà distribuendoli in cassetti discreti ben distinti tra loro. All’interno di un cassetto più grande esistono poi altri cassetti più piccoli che operano ulteriori sotto-distinzioni. Nel grande cassetto che include i viventi e dal quale sono esclusi gli oggetti e gli elementi naturali inanimati esistono due grandi sottocassetti: le piante e gli animali. Nel sottocassetto delle piante si è sbizzarrito Linneo. Gli esseri umani stanno nell’altro, insieme a leoni, pipistrelli, zanzare, armadilli, pitoni, batteri.

Il guaio è iniziato al momento di suddividere ulteriormente il cassetto degli uomini. I biologi hanno iniziato a distinguere le varie razze appartenenti alla stessa specie Homo sapiens sapiens. Gli psicologi si sono avventati sulla mente del sapientone (sapiens sapiens) per distinguerne i vari tipi. Qui sono nate le classificazioni psichiatriche. Le varie nosografie  le malattie mentali. Parallelamente gli umani nella vita di tutti i giorni usavano categorie più semplici ma efficaci per orientarsi. Simpatico- antipatico, generoso- egoista, intelligente- stupido, sincero- bugiardo, forte- debole. La differenza tra i due modi di ordinare la realtà sta nel fatto che quello scientifico è appunto categoriale, a cassetti discreti e discontinui. Quello naif è dimensionale per cui si può essere in un punto qualsiasi del continuum tra simpatico ed antipatico. Si può esserlo più o meno. Tentare una classificazione dimensionale scientifica è sfida cui non sottrarsi al termine di una vita di studio della mente umana e dunque mi avvio al compito. Volontariamente non utilizzerò la distinzione categoriale tra maschi e femmine pur utilissima nella vita quotidiana.

La prima distinzione fondamentale che non è una duplice categoria ma una dimensione, è quella dell’intelligenza vs stupidità. L’intelligenza è la capacità di cambiare il proprio assetto di fronte alle mutate contingenze ambientali. Intelligenza è sinonimo di elasticità, adattabilità, cambiamento. Va spesso associata alla curiosità. Gli intelligenti sono vivaci, mai noiosi, divertenti. Spesso anche belli. La stupidità da l’idea dell’inanimato del non vitale. E’ stabilità, fermezza, solidità rocciosa. Gli stupidi tendono a fuggire le novità, sono conservatori, temono il cambiamento. Siccome non capiscono la realtà ne hanno paura. Sono noiosi, lamentosi, aggressivi. Esteticamente hanno una prevalenza di sviluppo in orizzontale, bassi e larghi.

La seconda dimensione ha come due estremi gli ombelicali (che vedono solo il proprio ombelico) e gli sbalconati (sempre protesi verso gli altri). Gli ombelicali pensano di essere la misura e il centro dell’universo. Ciò che è bene per loro è il bene assoluto. Ciò che reputano giusto è la giustizia assoluta. Gli sbalconati al contrario perdono il baricentro proprio mettendosi nei panni degli altri. Si immedesimano talmente tanto da non sapere più chi sono e cosa vogliono. Gli ombelicali si piacciono e si curano fisicamente ma attraggono poco perché non trasmettono interesse per l’altro, esca fondamentale dell’innamoramento. Gli sbalconati sono in genere trascurati non preoccupandosi di sé stessi  e sempre impegnati a fare regali agli altri. Loro hanno senso in quanto strumento al servizio dell’altro come invece per gli ombellicali gli altri sono solo oggetti di servizio o al massimo specchi di sé.

Non è una dimensione che ha a che fare con l’egoismo e l’altruismo ma semmai con qualcosa di più basilare come l’egocentrismo. Per essere degli efficienti egoisti è utile non essere del tutto egocentrici. Per utilizzare gli altri, manipolarli, ingannarli, occorre mettersi nei loro panni. Quest’ultima dimensione non coincide a sua volta con la tradizionale e infantile distinzione tra  buono e cattivo. L’egoista persegue il suo interesse e attacca l’altro se rappresenta un ostacolo al suo successo. Il cattivo fa del male gratuitamente, anzi talvolta investendoci delle risorse. Per questo il cattivo puro spesso è anche stupido. Inutile aggiungere che gli ombelicali pensano di avere sempre ragione e vivono in un mondo di certezze assolute mentre gli sbalconati sono amleticamente dubbiosi e incerti.

Ancora gli esseri umani possono essere schienati o vedette. Gli schienati vivono rivolti al passato gonfi di rimorsi, rimpianti e nostalgie che dispensano a piene mano agli ex (compagni di scuola, compagni di battaglione, compagni di sventura, coniugi, amici) tutto purché ex. Sono persone che ricercano la continuità, il ripetersi, i film cult da vedere e rivedere. Spesso la loro vita è la replica ripetuta alla noia dello stesso atto unico. Le vedette sembrano uscite dall’uovo di Pasqua. Sono appena arrivate ed hanno tutto il futuro davanti. Sono uomini di progetto, di speranze, have a dream e di paure. Tendono ad essere rivoluzionari a rompere con le tradizioni. Considerano la novità un valore aggiunto in sé indipendentemente da ciò che sia. In questo sono come dei bambini entusiasti; al contrario degli schienati che sembrano vecchi centenari che tutto hanno già visto e non conoscono più sorpresa e meraviglia.

Solo apparentemente più superficiale è la dimensione lepre – tartaruga. Le lepri vanno di fretta, si avvantaggiano ‘perché non fare subito una cosa che comunque andrà fatta?‘. Le Tartarughe assaporano il cammino e se c’è un sol motivo per dilazionare lo fanno di certo. Le lepri avvantaggiandosi con tutto si spicciano presto anche con la morte e sistemano presto la questione. le tartarughe notoriamente invecchiano a lungo. Entrambi sono insofferenti con la polarità opposta.

Decisamente più sostanziale è la dimensione viscerale- meningeo. Il viscerale sa di avere un corpo, ne va fiero e lo cura. Sente il freddo e il caldo, la fame, la sete e il sonno e i piaceri connessi al corpo. Gode dei sapori, degli odori, dei colori e apprezza l’esercizio delle pratiche connesse alla riproduzione, anche destituite di tale scopo. Il meningeo utilizza il corpo solo come sostegno del cervello. La realtà in cui vive e per cui si emoziona è una rappresentazione della realtà. Non si sporca con le cose ma lotta con le idee. Non fa sesso ma sessuologia, non vive ma parla della vita, spesso con maestria e competenza. Ha disgusto della materialità. Gli organi di senso sono atrofici E’ cittadino del mondo platonico delle idee. Amabile conversatore, è inadatto alla sopravvivenza fuori da un’aula o da un salotto.

L’aspetto del meningeo è trasandato quanto curato il suo eloquio. Tra le dimensioni più importanti c’è quella talebano – romano. Il talebano prende tutto maledettamente sul serio. Fa le cose fino in fondo, ci crede veramente. E’ tutto d’un pezzo. Non scherza con le cose serie che per lui sono tutte. Se è di sinistra farà il brigatista. Se è cattolico si accoppia secondo le indicazioni vaticane. Se ha un vizietto diventa drogato all’ultimo stadio e poi convertitosi farà l’operatore nelle comunità per tossici più intransigenti e severe. Non è uomo dalle mezze misure. E’ sempre in buona fede ed in nome di ciò può commettere i crimini più orrendi a posto con la sua coscienza. E’ geneticamente un estremista e un intollerante. Applica ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione. Anche qui fa parte di gruppuscoli estremisti  che hanno vaste categorie di cibi vietati. Il rigore è elemento essenziale quale che sia la scelta in questione.

Il romano se ne frega, non prende niente sul serio. E’ incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto  cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppo, ha una saggezza da sampietrino e  lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sé. L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio e l’indignazione. Il romano misura le sue scelte operative in termini di fatica che costano e la regola decisionale è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano ma in compenso non rompe le palle agli altri, vive e lascia vivere. Si badi che il romano non è un abitante di Roma ma una categoria dello spirito. Tuttavia è innegabile che l’amministrazione pubblica è il suo habitat naturale per cui innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una elementare o l’usciere al ministero. Ancora gli umani possono essere retti o seghettati. I retti sono coerenti, prevedibili, conseguenti, evolvono secondo un percorso in linea retta. I seghettati cambiano continuamente orientamento, sono mutevoli, indecidibili, inaspettati, sorprendenti. Seppure la retta seghettata ha complessivamente una direzione, il percorso è frastagliato cangiante.

Affettivamente i retti sono fedeli e affidabili, hanno inventato l’indissolubilità del matrimonio. I seghettati hanno vinto il referendum sul divorzio. Anche loro hanno la direzione orientata ad un rapporto stabile e proprio per questo fanno molti tentativi per scegliere il meglio. Sono criticati dai retti, a loro volta derisi dai seghettati. I seghettati cambiano spesso pur non cambiando mai radicalmente. I retti non cambiano apparentemente mai. Poi un giorno nello specchio del bagno non si riconoscono più e coerentemente sparano in bocca all’intruso.

Sempre per restare in ambito geometrico gli uomini si dividono in perimetrali o superficiali e centrali. I perimetrali badano all’esteriorità, a ciò che appare e si vede da fuori. I centrali sono interessati alle essenze al nocciolo duro, al profondo. Spesso fanno gli psicoanalisti o gli speleologi e si occupano di faccende serissime. I perimetrali possono fare gli stilisti, i creativi pubblicitari o i cognitivisti ed hanno sempre un senso di inferiorità rispetto ai centrali perché le loro cose non sono mai essenziali, non è mai questione di vita o di morte ma al massimo di qualità della vita. In un certo senso si invidiano reciprocamente e se condividono l’esistenza possono fare cose importanti divertendosi. I centrali vanno subito all’essenziale e perciò sessualmente sono trascurati rispetto alla periferia dell’atto sia precedente che seguente. La sigaretta post è oggetto di violento rimprovero da parte del perimetrale che invece è molto attento al prima e al dopo.

Completamente diversa è la dimensione che va dai piloti ai passeggeri. I piloti ritengono di avere la piena e totale responsabilità di quanto gli accade. Sono i protagonisti, gli artefici della loro vita. Sentono un fortissimo senso di responsabilità che genera spesso tracotante orgoglio, talvolta penosa colpa. Sentono che tutto dipende da loro. Al contrario i passeggeri sono in balia di un destino che li determina rispetto al quale sono assolutamente impotenti.

Tutto dipende dal caso, dal destino, dagli dei, dalla fortuna. L’emozione di fondo è l’ansia di chi è in balia di forze incontrollabili. La responsabilità, non esiste sopraffatta dall’impotenza. La storia della loro vita è il prodotto di ripetuti scontri con gli eventi esterni. Tutto avviene fuori di loro. La colpa o il merito è sempre degli altri. Loro sono spettatori del loro invecchiare senza infamia ne lode. I piloti anche di fronte alle malattie più maligne combattono convinti onnipotentemente che l’esito dipenda dalla loro determinazione a non morire e rappresentano i pazienti ideali dei medici dediti all’accanimento terapeutico e soprattutto economico. Al contrario i passeggeri che ritengono fermamente che sarà quel che deve essere si lasciano divorare da sparuti gruppetti di batteri o da poche cellule cancerogene che trovano nel loro atteggiamento non interventista un inaspettato alleato.

Voraci e anoressici possono anche essere chiamati stitici e diarroici. I voraci diarroici scambiano molto con l’ambiente sia in entrata che in uscita. Danno e prendono molto. Non passano inosservati agli altri con cui si mischiano facilmente fino a trasformarsi e trasformare l’interlocutore. Il Vorarroico tende sempre a fare un gran baccano, è un po’ sguaiato, evidente, notato. L’anostitico invece sta sulle sue, basta a se stesso. Non ha bisogni da soddisfare con oggetti esterni, vive in un’autarchica autosufficienza. E’ riservato ed elegante, inappuntabile quando si sta con lui si ha l’impressione di essere soli. L’ideale sessuale è la frigidità. Quando la morte lo solleva per portarselo, spesso lo lascia perché si sente gelare, quindi campa moltissimo. Tuttavia anche il vorarroico sopravvive a lungo perché intrattiene gioiosamente la morte che finisce per dimenticarsi cosa fosse venuta a fare. Persino scontata, abusata e banale la distinzione tra formiche e cicale. Le prime portate coattamente all’accumulo per un domani di cui non v’è certezza conducono una vita arida che non si capisce perchè dovrebbero preoccuparsi di prolungare. Se il gelo invernale e la conseguente carestia ponesse fine alle loro sofferenze sarebbe una liberazione per tutti. Per loro il bello viene sempre dopo. Oggi è il tempo del sacrificio, ma domani…. La scuola è dura ma l’università…Si aspetta il lavoro… e poi la gioia arriverà con la pensione. Quando si accomodano nel ligneo contenitore vellutato si dispiacciono soprattutto di non sapere cosa aspettarsi di bello domani. Gli manca un motivo per sacrificarsi oggi.

Le cicale invece, modello negativo da additare per il danno che comportano alle banche a ai custodi dei granai si assaporano il presente e quando arriverà il gelo moriranno cantando  a pancia piena. Le cicale affettivamente godono relazioni intense e brucianti e stanno su montagne russe emotive. Le formiche hanno matrimoni duraturi che si consumano lentamente e strangolerebbero il partner secondino. La sessualità cicala è precipitevole, quella formica soporifera e misurata. Gli unici ad avvantaggiarsi del fare formichico sono gli eredi. E’ ben noto infatti che le scaltre cicale tentino, e spesso con successo, di farsi adottare dalle formiche.

Gli umani si distinguono ancora lungo il percorso che va dai solisti ai coristi la cui differenza è intuitiva dal nome stesso. I solisti vanno per proprio conto, dettano le mode, non si guardano intorno, non si preoccupano del giudizio degli altri, l’appartenere non è un loro problema. Sono piuttosto impegnati a distinguersi a differenziarsi. La bizzarria è un pregio, la vergogna ignorata. I coristi pensano di non avere nulla di originale da dire. Sono maestri nel camuffamento, nello scomparire. Non vogliono essere figura ma sfondo, pastore non bambinello. Seguono le mode, si fanno consigliare. Vogliono far parte. Il loro godimento è la tranquillità della perdita di una identità identificabile.

In tutto ciò non c’è alcunché di scelto, è così e basta: è la sindrome del camaleonte. I coristi criticano i solisti per il loro protagonismo con un livore amaro d’invidia. I solisti invece disprezzano apertamente i coristi, presi come sono dal demone della prima fila.

Ad ogni bambino si insegna precocemente a non dire le bugie. Tuttavia la dimensione  sincero – bugiardo non è poi così scontata. Stante che non c’è una realtà oggettiva che si impone necessariamente ma tante costruzioni soggettive della stessa realtà il confine diventa labile, incerto, mendace. I sinceri sono dei fotografi che ritengono sinceramente di riportare la realtà così com’è e non come appare loro. Poco importa l’angolatura da dove prendono l’immagine, la luce che scelgono, la sensibilità della pellicola, la carta usata per la stampa, ciò che mettono al centro o ai lati. Quella non è la loro fotografia, quella è la realtà.

I bugiardi non sono fotografi ma pittori. La realtà è uno spunto che siano classici, impressionisti o cubisti. I bugiardi manipolano consapevolmente. Non vogliono comunicare all’altro una cosa esterna senz’anima ma la loro realtà. Chi prova una grande emozione ha bisogno di esagerare nell’esprimere altrimenti l’altro non capirebbe. Lo immaginate un innamorato che dica all’amata: ‘mia cara  provo per te un sentimento non ben chiaro ma certamente significativo, è possibile che in questo momento sia tendenzialmente e transitoriamente innamorato di te’. No il termine giusto è ‘sono innamorato perdutamente di te dal momento che ti ho visto, come non lo sono mai stato. E quest’amore assoluto sarà eterno, per sempre ti amerò come oggi’. Sinceri e bugiardi sono complementari come ingegneri e architetti. Senza ingegneri i palazzi crollerebbero, ma senza architetti crollerebbero le anime degli inquilini. A volte i sinceri mentono e quelle sono proprie le bugie che fanno piangere Gesù perché non sono artistiche: sono i tentativi decorativi degli ingegneri.

Abbiamo visto come ogni dimensione abbia le sue emozioni caratteristiche e contrapposte nelle due polarità estreme. Esiste tuttavia una dimensione ulteriore e trasversale che esprime la capacità di provare emozioni più o meno intense. Ad un estremo troviamo  i drammatici e all’altro i sordinati . I drammatici non solo manifestano in modo vistoso e istrionico le emozioni ma le provano anche in maniera forte. Nella loro anima non si passa senza necessariamente fare un gran rumore: non ci sono frusci ma solo schianti. Le foglie che cadono fanno un rumore assordante, disastroso segnale della caducità della vita. Un fiore che sboccia è un fuoco d’artificio dirompente che festeggia l’eterna rinascita. I sordinati hanno il volume emotivo quasi azzerato. Si nasce, ci si ama, ci si perde, si muore, con estrema discrezione, senza clamori. Non si piange, si inumidiscono gli occhi. Non si gioisce, si è soddisfatti. I sordinati guardano con disprezzo e superiorità i drammatici. Solo un pizzico d’invidia se ci fanno l’amore ma si ricompongono subito. I sordinati tuttavia si preparano una vita per fare la loro gran bella figura al momento conclusivo e non fare una piega di fronte alla morte. Per loro è una questione di principio un traguardo decisivo non dare soddisfazione alla vecchiaccia e mostrare disinteresse e distacco mentre i drammatici che godevano sguaiati sui letti dell’amore, tremeranno di paura e piangeranno dal dolore. Ma la vecchia che conosce l’animo umano e vuole far da padrona si attrezza. I drammatici se li porta nel sonno inconsapevoli per non sentire strepiti. I sordinati li tortura per mesi con dolori incoercibili, con piaghe purulente e ne umilia in tutti modi la dignità, ne offende la mente, rosicchia il corpo. Loro fanno finta di niente e lei furiosa si accanisce. Sempre più colpi ai fianchi e al volto ma mai il decisivo K.O. Poi quando i sordinati confidano all’orecchio dell’amico che non ne possono più. Quando una goccia salata tracima dal ciglio inferiore sul naso affilato. Allora, solo allora, conclude il lavoro, liberandosi del noioso cliente.

Ancora il paziente è contrapposto a l’intollerante. Il paziente è divino nel suo rapporto con il tempo, vive in una dimensione di eternità. Nel suo eterno presente può aspettare, nulla sfugge. La sua grandezza è la capacità di incassare senza turbarsi. Nei momenti difficili riesce a dissociarsi. Si assenta e ritorna quando gli altri hanno finito. La assenza dissociativa è una sorta di stato mistico. il corpo non sente più niente e la mente dorme. Sa che prima o poi la nottata deve finire e lui resiste con un sorriso ironico che sbeffeggia il nemico che avanza.

Nel loro rapporto con il tempo gli uomini si distinguono anche lungo la dimensione puntualità – ritardatari. Si tratta di caratteristiche assolutamente genetiche e dunque immodificabili dall’esperienza. Il ritardatario ha vinto il tempo, ne ignora il potere, inizia a fare le cose nel momento in cui ha promesso che le avrebbe concluse. Se deve andare ad un appuntamento esce di casa all’ora esatta dell’appuntamento. Si potrebbe pensare che sia disinteressato al disagio dell’altro ma non è così. Non ignora l’altro ma il tempo. Non riesce ad accettare che le sue azioni siano estese nel tempo, che durino. Per lui sono istantanee. Pensiero e azione durano egualmente zero. Il puntuale vuole l’assoluto controllo e calcola tutti i possibili inciampi, ritardi, contrattempi. Il tempo è da lui dominato. Non lo può sprecare ma non è chiaro per cosa risparmiarlo. Che farne. Il tempo peraltro è difficile da conservare, non ci sono contenitori che lo intrappolino. Il tempo corre sempre via e finisce. Il ritardatario lo sa e se ne frega arrendendosi a questa ineluttabile realtà. Il puntuale si ribella e cerca di controllarla. il tempo scodinzola a entrambi beffardo e fugge via.

La psicologia di  gruppo si è arrovellata a descrivere le relazioni sociali degli umani in gruppo e la distinzione più utilizzata è quella che distingue i capi dai gregari. Il capo è tale in un gruppo di lavoro, in una assemblea di condominio, nel gruppetto alla fermata dell’autobus, nella tavolata al ristorante. Il capo è tale non perché bada ai suoi interessi ma perché coglie al volo quelli degli altri, li sa unire e promuovere. Il capo è generoso, lui ha un solo interesse, comandare, tutto il resto è per gli altri. Il gregario invece non vuole decidere, fugge le responsabilità e conserva solo il diritto di lamentarsi con il suo capo. Non è affatto inferiore al capo, spesso per molti aspetti è più in gamba. E’ solo disinteressato al comando e a tutti gli impicci che comporta. La distinzione tra capi e gregari è qualcosa di simile seppure non sovrapponibile a quella tra mamme e figli.

La mammità è una dimensione che ha al suo estremo opposta la figlitudine. Le mamme, che siano maschi o femmine è lo stesso, sono accudenti si mettono nei panni del figlio, ne sanno bisogni e desideri ed hanno il loro piacere nel soddisfarli. Hanno uno strabismo congenito che gli consente di vedere il mondo dalla prospettiva del figlio. Il figlio al contrario vede esclusivamente se stesso. Per sopravvivere se ne strafrega dei possibili bisogni degli altri. Il suo compito è affermarsi a discapito degli altri: è violentemente impegnato nella lotta per la sopravvivenza. Le mamme lo guardano compiaciute per la sua forza e la determinazione mentre le fa a pezzi per crescere sano e forte. In questa crudele macchina da guerra loro intravedono il loro successo genetico e ne gioiscono. Mamme e figli si  attraggono e non riescono a staccarsi se non quando le mamme muoiono, contente di far spazio su questa terra ai loro cuccioli.

Nei gruppi gli uomini si dilettano in due possibili giochi: la guerra e le costruzioni. Questi due giochi corrispondono a due opposte tendenze dell’animo umano. La guerra esprime la tendenza a competere, a sopraffare l’altro a ordinare il mondo in una scala in cui chi sta più in alto ha più diritto e campa meglio di chi sta sui gradini più bassi. Già tra i cuccioli c’è chi è meno interessato a fare a botte con gli altri e si raccoglie con i compagni per innalzare costruzioni, per costruire attrezzi e giocarci insieme. Questi esprimono la tendenza alla cooperazione, al fare insieme. la storia del mondo è stata sempre segnata da grandi imprese collettive, nella dimensione dell’insieme e da grandi guerre, nella dimensione del contro. I guerrieri restano un po’ più stupidi perché non imparano a fare le cose. Loro se ne appropriano dagli altri che le sanno fare. I costruttori non portano armi di cui hanno paura e sono laboriosi e cordiali. Per fare a botte serve meno cervello che per collaborare. I costruttori debbono ricordarsi come siano i loro compagni e cosa aspettarsi da loro. I guerrieri è sufficiente che picchino alla cieca. Per il successo di una società servono sia i costruttori che i guerrieri che non sono, in genere ostili gli uni con gli altri avvertendo la reciproca complementarietà. Tuttavia il successo di una società dipende fortemente dalle leggi che la governano.

Nel rapporto con le regole c’è un’ulteriore significativa differenza tra gli uomini che possono essere miopi o presbiti. I miopi tendono ad osservare e far osservare le regole minuziosamente e identiche in ogni circostanza. Non ricordano più perché quelle regole fossero state fissate, non gli interessa la loro utilità. Ci sono e vanno rispettate. Le tavole della legge non vanno sottoposte a referendum confermativo. Il rispetto della regola è un valore assoluto in sè. I miopi trovano persino irrispettoso qualsiasi quesito sull’opportunità di questa o quella regola. L’apparato normativo è come la mamma. Senza di lei non ci saremmo e dunque va amata e rispettata quale che sia. I miopi sanno adattarsi meravigliosamente ai cambiamenti anche radicali del sistema di regole. L’importante è che le regole ci siano, non quali siano. Esse sono come la piantina della città nelle mani di un viaggiatore straniero smarrito nella sconosciuta metropoli, indicano ad ogni incrocio la strada da seguire. Guidano ogni passo tenendo a riposo il discernimento personale. Cancellano il dubbio, fugano le responsabilità.

I presbiti, al contrario, traguardano l’orizzonte. Si chiedono qual’è sia la metà che quella regola addita e ci vanno seguendo una loro personalissima strada. Attenti allo spirito e non alla legge che lo incarna si sentono superiori ai miopi e spesso confondono lo spirito della legge con il proprio. L’interesse collettivo con quello personale. Forti del fatto di essere i detentori dello spirito giusto guardano sicuri  verso l’orizzonte trascurando cosa calpestino nell’immediato. Per loro il fine giustifica sempre i mezzi. Hanno qualche difficoltà a distinguere l’interesse personale da quello collettivo. Da unti del Signore sono in grado di compiere i crimini più atroci. Cadono dalle nuvole quando gli viene fatto notare perché le loro intenzioni erano ottime. Per loro contano le intenzioni, appunto, e non i fatti. Miopi e presbiti  possono cimentarsi per ore in discussioni sull’opportunità o meno di una certa condotta senza avvicinarsi di una spanna: partono da presupposti opposti.

Le società umane come gli stessi uomini nascono, vivono per un certo periodo e poi muoiono.

La nascita è connessa alla riproduzione consistente nel gioioso mescolarsi dei geni. Gli individui si avvistano alla distanza e si scelgono sommariamente. poi manovrano avvicinamenti, si odorano, si strofinano, si assaporano come esperti sommelier. Infine si tuffano l’uno nell’altro  e, per alcuni istanti perdono i propri confini. Alla fine dei giochi la ragione ce l’ha chi ha più successo riproduttivo. Chi fa più figli vince e popola la terra. Il corteggiamento non è dunque faccenda marginale, svago del sabato sera, distrazione dagli importanti impegni della quotidianità. Al contrario tutto il restante affaccendarsi è finalizzato ad esso. E’ nella corsa senza esclusione di colpi degli spermatozoi verso l’ovocito che tutto trova significato. Nelle curve tubariche si gioca il palio della vita. La ragione e la verità in realtà si stabilisce a maggioranza e chi ha più elettori vince. Il corteggiamento dunque è faccenda estremamente seria. Anzi l’unica seria.

Sarebbe banale ricordare che maschi e femmine hanno due diverse mercanzie da vendere al gran bazar della riproduzione ma un accenno è utile. Per le femmine è più importante la bellezza segno di una salda capacità riproduttiva: fianchi larghi per partorire e seno florido per allattare. Per gli uomini la capacità di poter proteggere e mantenere la prole e dunque la forza e il potere. Il più preciso indicatore del potere di un uomo è la bellezza della sua compagna e viceversa. Stante la diversità delle merci da scambiare al gran bazar le strategie per conquistare il mercato possono essere diametralmente opposte : ci sono gli espositori e i celanti. Gli espositori mettono in mostra la loro merce vi fanno splendere sopra il sole. Richiamano con grida l’attenzione degli avventori, invitano alla prova. Ritengono che la pubblicità sia il fondamento del successo e che la quantità sia più importante della qualità. Sono le donne in bikini succinti o con le piume di struzzo e i gioielli, i rossetti vistosi e i profumi assordanti. Sono gli uomini con le auto di lusso, con i servitori intorno, con divise altezzose o moderni scettri e corone, rolex e imbarcazioni e soprattutto una moltitudine di altri intimoriti: l’uomo potente incute timore. La paura negli occhi degli altri è una misura certa del suo potere. Gli espositori maschi e femmine si attraggono reciprocamente. L’uno diventa per l’altro oggetto da esporre: i tacchi a spillo ticchettano gioiosi al seguito di pesanti stivali, le calze a rete si imprimono volentieri sui sedili di pelle morbida delle Maserati.

I celanti invece hanno una innata tendenza a nascondere. Vogliono che sia l’altro ad  impegnarsi in una faticosa ricerca del tesoro che sanno essere in loro. Ritengono che la qualità della loro merce sia così superiore da non necessitare di alcuna pubblicità. Scelgono un basso profilo che non esprime autentica modestia quanto piuttosto smisurato orgoglio. Le donne sono acqua e sapone, scarpe basse, gonna castigata o persino pantaloni senza ammiccamenti. Indaffarate in altre faccende, apparentemente disinteressate all’effetto che fanno sui portatori  di gameti complementari. Attente a ricomporre i lembi della gonna che risalgono le ginocchia e lascerebbero spiragli tra la coscia e la poltrona. Avvezze a raccogliere gli oggetti flettendo le ginocchia e accucciandosi verso terra piuttosto che a piegarsi con il busto in avanti estroflettendo il sedere che sanno avere l’effetto di uno starter sui partecipanti al palio della vita.

Gli uomini celanti apparentemente disinteressati al potere, spesso di sinistra, gentili e talvolta un po’ femminili, miti, pacati, comprensivi, porgenti l’altra guancia. Odiano le divise e prediligono le uniformi che non sono la stessa cosa. Le prime dividono, distinguono. Le seconde assimilano, omogenizzano Anche i celanti sanno riconoscersi e si attirano tra loro ma soprattutto fuggono con repulsione dagli espositori per i quali provano sincero disgusto. Quando si incontrano il loro scambio, in quanto apparentemente non cercato e casuale, quasi disinteressato, è ancora più esplosivo e travolgente. Le cosce avvezze alla chiusura monastica e i seni normalmente celati da addobbi quaresimali intonano festosi canti pasquali  al momento dell’incontro con il loro paziente scopritore. Lo speleoarcheologo gioisce nell’intimo del suo ritrovamento ma vuole tenere lontani i curiosi. La sua gioia è tanto più grande quanto più resta intima e privata.

Tra il momento della nascita a quello della morte c’è un periodo più o meno lungo che consiste nella vita. Questa parentesi può essere vissuta come carnevale o piuttosto come quaresima. I carnevaleschi si permettono di tutto, sghignazzano, ridono e si divertono per ogni sciocchezza. Non prendono nulla sul serio, scherzano sulla vita e sulla morte. Sono disordinati e caotici. Afferrano ciò che desiderano senza temere le conseguenze. Sembrano non avere nulla da perdere, sono orgogliosi e non si scusano mai. Spesso arroganti e volgari. Agli occhi dei quaresimali sono dissoluti e tristi. I quaresimali invece si trattengono. rinunciano in vista di un bene maggiore. Il piacere è sempre rimandato al futuro ed è frutto di un premio, di una concessione. Sono artisti della frenata, si  esaltano nel digiuno e nell’astinenza. Si regalano cilici  e penitenze raffinate in attesa della conquista del premio. I migliori arrivano pure a rinunciare all’attesa della ricompensa finale. La rinuncia da strategia si fa scopo. Hanno il timore di scoprire alla fine che il grande arbitro sia un enorme clown.

Come in un quadro di Caravaggio i tenebrosi e i solari si dividono la scena della vita. Gli uni senza gli altri non risalterebbero scomparirebbero in una insignificante tonalità di grigio. I solari hanno larghi sorrisi, pensieri che traspaiono sui volti, movimenti ampi e inequivoci. Sono di una decisione che viene scambiata per forza e persino per bontà. La gente tende a fidarsi di loro dimentica che Lucifero era uno di loro, spendente e al centro della scena.

I tenebrosi  sanno che ogni astro luminoso ha una faccia nascosta più affascinante e meno svergognata. Nel quadro sanno di avere il ruolo di sfondo su cui far risaltare il solare di turno. Si dispiacciono solo quando vengono identificati con il losco, la cattiveria, la cupezza. Allora possono giungere a fare molto male ma solo per rivendicare il loro ruolo  di servi della luce. Nel caso di questa dimensione gli estremi si attraggono con una certa frequenza. Ognuno ha bisogno dell’altro per risaltare. Molte coppie sono formate da un solare e un tenebroso, ognuno al servizio dell’altro.

E’ evidente anche ai non addetti ai lavori che molte delle dimensioni finora descritte si presentano in associazione tra loro con indici di correlazione più o meno forti. Il loro intrecciarsi con delle ripetitività è alla base dei nostri pregiudizi ed anche della possibilità di fare previsioni sugli esseri umani.

Così  per alcuni se si è intelligenti molto probabilmente si sarà anche vedette, centrali, lepri, romani, sordinati, celanti,  costruttori e presbiti Per altri invece i piloti saranno anche retti  e solari. Le combinazioni possibili sono tante quante gli stessi esseri umani ed è questo il motivo per cui l’insufficienza di qualsiasi classificazione categoriale ci ha spinto a questo incompleto e parziale tentativo di classificazione dimensionale.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

L’Ultimo Samurai: percorso terapeutico per un disturbo da stress post traumatico – Cinema & psicologia

Davvero un grande film quello di Edwar Zwick, molto apprezzato anche nello stesso Giappone in cui è ambientata la storia, tanto da vincere il premio più ambito (l’Awards of the Japanese Academy, equivalente in Giappone degli Oscar americani, come miglior film straniero). Da apprezzare sia per il documento storico, abbastanza curato, ma specialmente per il fatto che riesce ad entrare nell’affascinante cultura dei Samurai come pochi altri prima di lui. Belle le interpretazioni e le splendide colonne sonore che accompagnano i tempi azzeccatissimi. Adatto anche lo stile meditativo, posato e saggio, proprio di quel mondo perduto che traspare quasi alla perfezione.

 

Trama

Ambientato nel Giappone di fine ‘800, tratta di un fatto storico reale: la Ribellione di Satsuma (ultima, e più grave, di una serie di sollevazioni armate contro il nuovo governo Meiji). Personaggio aggiunto Nathan Algren, è un ex capitano americano reduce dagli stermini ai danni degli indiani d’America. Alcolizzato, vive pubblicizzando fucili in piazza, da vendere ai giapponesi. Un giorno questi viene assoldato per addestrare alle armi occidentali l’esercito dell’imperatore Meiji, allo scopo di eliminare gli ultimi samurai ribelli alla restaurazione voluta dall’impero.

Il caso vuole che egli venga catturato dai ribelli capitanati da Katsumoto, un samurai che ha consacrato la sua spada alla difesa dell’imperatore e che non la deporrà se non per suo diretto ordine. Questi dunque condurrà il capitano al villaggio, e da lì comincerà per Algren un lungo percorso di scoperta di un popolo, di se stesso e infine di guarigione.

Il capitano ha infatti un Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS), costellato da sensi di colpa e immagini traumatiche, che lo perseguitano di notte. La sua scorciatoia è sempre stata l’alcol, finora. Ma non sa che la comunità che lo ospiterà per i prossimi mesi sarà per lui una comunità terapeutica.

Il villaggio infatti è dedito alla meditazione e all’arte della spada e durante la sua permanenza il capitano verrà immerso in un cammino che lo condurrà, a modi terapeutici, verso una crescita interiore che lo porterà a superare il suo problema. In primis, la donna che lo ospita, sorella del capo villaggio Katsumoto, gli farà superare la dipendenza fisica privandolo dell’alcol e prendendosi cura di lui per i sintomi da astinenza. Dopodiché cominceranno una serie di colloqui quotidiani con Katsumoto, che anche se interessato inizialmente solo a conoscere il suo nemico, con l’instaurarsi della relazione diverrà per il capitano un vero e proprio terapeuta. Intanto comincerà la pratica della spada e della meditazione.

Durante i mesi di permanenza il capitano si renderà conto di molte caratteristiche fondamentali della cultura in cui è immerso e comincerà ad assaporare gli effetti benefici della vita che vi si conduce. Inizierà inoltre a scrivere un diario.

Eccone una prima trascrizione: [blockquote style=”1″]1876, giorno ignoto, mese ignoto, continuo a vivere tra questa curiosa gente […] sono tutti educati, tutti sorridono e si profondono in inchini, ma sotto la loro cortesia percepisco un profondo mare di emozioni. Sono un popolo enigmatico. Dal momento in cui si svegliano si dedicano interamente a raggiungere la perfezione in ogni gesto. Non ho mai visto una simile disciplina.[/blockquote]

Durante gli allenamenti, alcuni consigli fondamentali illumineranno la sua “via della spada” che, come lo stesso Jon Kabat-Zinn (2013) direbbe della “via della consapevolezza” e in generale sul concetto di “via”, essa rappresenta un percorso di crescita interiore verso la conoscenza delle proprie risorse e verso l’armonia con ogni momento. Non si può infatti, guardando il film, non pensare alla Mindfulness, quando ad esempio in alcuni frangenti degli allenamenti arrivano al protagonisti consigli per riportare il focus dell’attenzione al momento presente, al duello, alla spada.

L'ultimo samurai:meditazione

Successivi frammenti di diario recitano: [blockquote style=”1″]Inverno 1877. Che cosa vuol dire essere Samurai? Dedicarsi anima e corpo ad una serie di principi morali, cercare il silenzio della mente e giungere alla perfezione della via della spada. [/blockquote]

Dunque le prime riflessioni del capitano sulla consapevolezza, che accompagnano i suoi primi progressi terapeutici, che si evidenziano ancor meglio in un terzo trascritto: [blockquote style=”1″]Primavera 1877. È il periodo più lungo che io abbia passato in un solo posto da quando ho lasciato la fattoria a 17 anni. Ci sono tante cose qui che non capirò mai, non sono mai stato un frequentatore di chiese e quello che ho visto sui campi di battaglia mi ha spinto a interrogarmi sui disegni di Dio. Ma c’è indubbiamente qualcosa di spirituale in questo luogo e, sebbene possa rimanere eternamente oscuro per me, non posso che essere consapevole del suo potere. So che qui ho conosciuto il mio primo sonno tranquillo dopo tanti anni.[/blockquote]

E dunque, come succede anche per la Mindfulness, si sottolineano, pur senza entrare nell’ottica buddista, i benefici che la meditazione apporta a prescindere dalla cornice mistica religiosa da cui trae origine. E infine, a sottolineare ancor più la similitudine con la Mindfulness, un ultimo discorso tra il capitano e Katsumoto, incentrato proprio sul come uscire dal malessere derivante dai sensi di colpa. Il Samurai dirà: [blockquote style=”1″]riconoscere la vita in ogni respiro.[/blockquote]

Poi il film prosegue, il capitano ritroverà se stesso e deciderà da che lato stare, a modi “Balla coi lupi” cui è impossibile non pensare guardando questo film. Ma il succo centrale del suo percorso “terapeutico” si conclude con l’uscita dalla comunità, proprio dopo quell’ultimo discorso appena citato.

 

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Considerazioni conclusive

Perciò quali sono stati i cardini fondamentali del percorso terapeutico del capitano Nathan Algren?
– Inserimento nella comunità;
– disintossicazione;
– colloqui col Samurai Katsumoto;
– allenamento con la spada;
– meditazione;
– diario.

Tutti elementi importanti ed effettivamente di utilità terapeutica.
E dunque questo film diviene doppiamente interessante, se a guardarlo siamo tra colleghi psicologi, perché oltre a presentare in modo magistrale gli ultimi frammenti di una cultura scomparsa e ad essere in un’ottima opera d’intrattenimento, romantica e con la giusta dose di azione, presenta nella parte centrale anche un caso clinico con relativo approccio terapeutico per niente banale. Infatti i punti appena elencati potrebbero essere parte di un percorso realmente attuabile per un caso come quello del capitano. Di fatto l’inserimento in comunità e la disintossicazione sono ovviamente passaggi che vengono notoriamente previsti per molti casi di alcolismo e di tossicodipendenza. Essendoci poi il problema psichiatrico di base (DPTS) si rendono importanti, oltre ai colloqui psicoterapeutici (come quelli che il capitano fa col Samurai), anche approcci sul corpo (come nel film avviene per l’allenamento con la spada) e meditazione. Infine, strumento spesso usato in terapia, il diario, che rende nota dei progressi ed aumenta le abilità di introspezione e metacognizione del paziente.

Dunque ancora doppi complimenti al film di Zwick che riesce ad essere efficace, interessante e ben curato sotto tutti i punti di vista, compreso quello del caso clinico, magari meno notato ma ugualmente importante rispetto agli altri, per il valore complessivo dell’opera.

I soldi fanno la felicità? Sì se gli acquisti sono fatti con Personalità!

Gli autori di un nuovo studio pubblicato su Psychological Science, hanno indagato come le differenze di personalità giochino un ruolo centrale nel determinare il ‘giusto’ acquisto, aumentando così la personale sensazione di benessere.

 

Il vecchio detto ‘I soldi non fanno la felicità’, diciamolo, non ha mai convinto sul serio nessuno…più facile condividere le parole di Allen che a proposito ha precisato ‘Se il denaro non può dare la felicità, figuriamoci la miseria!’.

Numerosi psicologi ricercatori si sono interrogati allora su quale ruolo avesse davvero il denaro sul benessere psicologico degli individui, si sono ottenuti così diversi risultati: secondo alcuni studi livelli di soddisfazione più alti si raggiungerebbero spendendo soldi nell’acquisto di ‘esperienze’ (viaggi, cene con gli amici, ecc) anziché nell’acquisto di beni materiali. Altri studi invece hanno evidenziato l’esatto opposto. Altre ricerche ancora hanno messo in evidenza come il denaro renda felici, solo se investito in azioni reputate ‘giuste’ (es. per aiutare gli altri).

Proprio partendo da quest’ultimo risultato, gli autori di un nuovo studio pubblicato su Psychological Science, hanno indagato come le differenze di personalità giochino un ruolo centrale nel determinare il ‘giusto’ acquisto, aumentando così la personale sensazione di benessere.

In un primo studio i partecipanti sono stati classificati in base ai tipi di personalità (indagati con l’utilizzo del Big Five) e, grazie all’ausilio di una banca del Regno Unito, i ricercatori hanno incrociato i dati sulla personalità con circa 77 mila transazioni bancarie effettuate dai partecipanti.

Oltre a rilevare, con maggiore frequenza, una tendenza dei soggetti ad acquistare servizi e prodotti congrui ai propri tratti di personalità (es. cene in pub e locali in caso di personalità estroverse), i ricercatori hanno anche osservato un maggior livello di soddisfazione di vita negli individui che fanno un numero maggiore di acquisti in linea con la propria personalità.

Un secondo esperimento, invece, ha visto i partecipanti alle prese con dei buoni acquisto da spendere in una libreria o in un bar. Le persone estroverse che hanno potuto spendere il buono in un bar sono risultate più felici rispetto alle persone introverse costrette a spenderlo nello stesso luogo. Viceversa, gli estroversi obbligati a spendere il buono in una libreria sono risultati meno felici degli introversi che hanno utilizzato il buono per acquistare libri.

Consigliamo la lettura dello studio, e nel frattempo cerchiamo di ricavarne un utile consiglio: per stare bene, a volte, sarebbe il caso di dedicare più attenzioni a noi stessi, ai nostri interessi e a ciò che siamo, partendo proprio da un piccolo acquisto.

 

ABSTRACT:

In contrast to decades of research reporting surprisingly weak relationships between consumption and happiness, recent findings suggest that money can indeed increase happiness if it is spent the “right way” (e.g., on experiences or on other people). Drawing on the concept of psychological fit, we extend this research by arguing that individual differences play a central role in determining the “right” type of spending to increase well-being. In a field study using more than 76,000 bank-transaction records, we found that individuals spend more on products that match their personality, and that people whose purchases better match their personality report higher levels of life satisfaction. This effect of psychological fit on happiness was stronger than the effect of individuals’ total income or the effect of their total spending. A follow-up study showed a causal effect: Personality-matched spending increased positive affect. In summary, when spending matches the buyer’s personality, it appears that money can indeed buy happiness

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“Lo chiamavano Jeeg Robot”: riflessioni psicologiche sui personaggi e la relazione amorosa – Recensione

In terapia i pazienti arrivano da un contesto di vita ben preciso che spesso noi non conosciamo ma, se siamo abbastanza fortunati, possiamo immaginarlo. E cosa facciamo? Costruiamo insieme delle abilità, pian piano, lungo tutto il percorso.

 

I personaggi

Sono appena tornata dal cinema. Febbricitante, ma non a causa del film. “Lo chiamavano Jeeg Robot”, ambientato nella città eterna, riscatta finalmente la capitale.

Mi sembra abbastanza superfluo riportare la trama ormai nota, ma accenno solo agli elementi principali. Siamo a Tor Bella Monaca, quartiere periferico di Roma, e abbiamo Enzo, il buono, ma non in senso classico, un uomo solitario che ruba per sopravvivere. Poi Alessia, la ragazza che fa perdere la testa al supereroe che vive in un mondo tutto suo e che ha subito diversi abusi. Infine il nemico, narcisista, sadico, aspira alla notorietà e ha partecipato da ragazzino a “Buona Domenica” (e non al “Grande Fratello”!), Fabio detto Lo Zingaro (che forse non sarà un caso dopo tutta la storia di mafia capitale).

I dialoghi e le immagini fanno perdere totalmente lo spettatore che non si rende più conto che il protagonista, cavolo, è fatto di acciaio! Quello viene dopo, è “solo” un piccolo particolare che si perde perché è troppa la curiosità di capire perché Enzo è così chiuso e non ha amici, perché Alessia vuole tanto un vestito da principessa e vive in un mondo immaginario e perché il bisogno di emergere e la violenza di Fabio sono così esagerati. E ci appassioniamo e ridiamo e siamo tristi.

Enzo, il nostro Jeeg Robot romano, riceve un potere e lo utilizza come lui sa fare. Continua a rubare. Sembrerà strano, sarà stata la febbre a cui accennavo prima, ma questo mi ha fatto riflettere sul mio lavoro. In terapia i pazienti arrivano da un contesto di vita ben preciso che spesso noi non conosciamo ma, se siamo abbastanza fortunati, possiamo immaginarlo. E cosa facciamo? Costruiamo insieme delle abilità, pian piano, lungo tutto il percorso. Qui invece è come aver instillato nel protagonista delle abilità senza che lui ne sia consapevole. Bisogna attendere la mano terapeutica di Alessia per portare il supereroe alla vera nascita.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

 

L’amore tra Alessia ed Enzo

Perché Alessia è capace di trasformarlo? Oltre l’amore, va bene! Cosa le permette di accedere all’animo di Enzo e muovere il cambiamento, la presa di consapevolezza che i suoi poteri possono essere usati per qualcosa di meglio che scassinare bancomat? Alessia conosce il mondo di Enzo, è il suo stesso mondo, parlano lo stesso linguaggio e per questo hanno fiducia reciproca. Se Alessia fosse stata una borghese del centro avrebbe avuto lo stesso effetto sul nostro uomo d’acciaio? Bé non voglio essere pessimista ma di certo ci sarebbero voluti più film. Di vitale importanza è il linguaggio che crea intesa. Ricordo una paziente che mi disse, a proposito di una sua passata terapeuta, “io dottoressa non capivo cosa mi diceva! Utilizzava un linguaggio difficile!”. Quando Enzo dice ad Alessia “de te me frega, pure parecchio” vuol dire mille cose racchiuse in poche parole. Significa interesse, amore, affetto, che si prenderà cura di lei, che è una persona importante, che ricopre un ruolo nella sua vita. E lei lo sa che significa tutto questo perché parla la sua stessa lingua. E con ciò non voglio dire solo utilizzare lo stesso dialetto, ma aver vissuto o conosciuto realtà simili.

 

Come instaurare una relazione terapeutica con pazienti sfidanti simili a Fabio?

Questo di certo rimane un po’ complesso per il terapeuta, non può essere informato o aver provato in prima persona tutto ciò che i pazienti descrivono.

Penso al lavoro dell’antropologo. Una mia cara amica fa questo lavoro. Impiega mesi solo per costruire un minimo di fiducia con le persone con cui entra in contatto. Sta lì presente, con umiltà, con curiosità e con tanta pazienza. Loro a volte la guardano male e la testano, proprio come fanno spesso con noi terapeuti i pazienti più difficili. Lei ha un vantaggio su di noi: è presente quasi quotidianamente e ha una visione ampissima di ciò che vivono le persone. Mangia con loro, ascolta i discorsi che fanno, conosce i loro problemi e i loro sogni. Conosce la loro storia. Noi abbiamo un’ora a settimana e in quell’ora crediamo di capire. Facciamo sedere il paziente nel nostro spazio e chiudiamo la porta. Sempre che varchino mai quella soglia.

Chi riesce ad immaginare Lo Zingaro che si siede e ci racconta che cosa è successo nella settimana? “Bé sai dottoré ce stava uno che me voleva fregà, ma io jo spaccato ‘a faccia… aho che fai mo’? me guardi?! Me stai a’mbruttì?!”. Ecco non mi sembra così semplice. Poi vai pure a fare una metacomunicazione da manuale! Il punto qui è conoscere il contesto. Entrare in quel mondo, incuriosirsi della diversità, sempre. Sembra logico? Si certo, ma a volte ce lo scordiamo.

Lavoravo in una casa famiglia di minori non accompagnati stranieri, tutti maschi e nel pieno dell’adolescenza. Come sono sopravvissuta? Con l’ascolto delle loro storie, le mie domande sulla loro quotidianità, sul cibo, la loro lingua, guardando i video dei matrimoni dei loro parenti, salutando di tanto in tanto la loro famiglia su skype. Non è stato sempre semplice, specialmente con i ragazzi egiziani piuttosto sfidanti (se sei una donna poi…). Con loro cosa ha giocato a mio favore? Imparare alcune parole in arabo. Soprattutto parolacce devo essere onesta, sono piuttosto frequenti nel loro linguaggio adolescenziale. Con i nuovi arrivati creavo subito l’alleanza grazie a questo. Loro insultavano in arabo, io li guardavo e rispondevo a tono. Loro spiazzati rimanevano immobili e poi iniziavano a ridere. E così nel momento di andare a scuola, il più tragico, li spronavo con un “jalla màderassa!” (del tipo “su forza a scuola!”).

Penso quindi a quanto sia importante “fare salotto” per costruire una buona alleanza terapeutica e avere la mente aperta, non giudicante e infinitamente curiosa. A volte è più semplice, altre meno. Certo nel caso specifico, Jeeg Robot non ha i soldi per il budino, figuriamoci per la terapia. Ma se per caso, per un caso estremo del destino, dovesse bussare alla porta del vostro studio, cosa gli direste?

Il trattamento di Fairburn per la bulimia: la funzione delle abbuffate di cibo

La funzione dell’abbuffata è espressione di un’infelicità esistenziale da esaminare a fondo, cercando di capire in quali ambiti il paziente si sente insoddisfatto, non realizzato: ambito sociale, affettivo, scolastico, lavorativo. Il paziente si sente socialmente isolato o escluso, affettivamente abbandonato, o non realizzato nelle sue aspirazioni scolastiche o lavorative?

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il trattamento di Fairburn per la bulimia: la funzione delle abbuffate di cibo (Nr. 10)

 

Favorire nei pazienti un’alimentazione regolare

Per capire e affrontare queste situazioni l’analisi cognitiva degli stati d’animo e dei pensieri è preziosissima. Ma al tempo stesso occorre continuare a motivare il paziente a rispettare un’alimentazione regolare, che aiuta a controllare in maniera ragionevole il peso, previene le abbuffate e migliora l’umore. L’alimentazione regolare, naturalmente, va ristabilita facendo visitare il paziente da uno specialista, nutrizionista o dietologo. Nella visita nutrizionale si stabilirà un modello di alimentazione regolare specifico per il paziente. Tra le regole da rispettare, si raccomanderà di non lasciar passare più ore tra pasti e spuntini, non saltare pasti o spuntini, non mangiare tra pasti e spuntini. Un altro intervento da fare durante questa fase è l’esame cognitivo delle eventuali infrazioni all’alimentazione regolata. In tali casi, emerge la tentazione paradossale di reagire abbandonandosi a un’enorme abbuffata.

 

I pensieri disfunzionali alla base dell’abbuffata

Qui il paziente applica al comportamento alimentare il suo stile di pensiero dicotomico: se non sono capace di osservare la tabella dell’alimentazione equilibrata, allora valgo poco. E per gestire la sofferenza e il disagio emotivo legati al valere poco, mi abbuffo. Oppure il paziente può pensare, senza passare per la mediazione dell’autovalutazione: se ho sgarrato, tanto vale abbuffarsi. Invece occorre incoraggiare il paziente a non lasciarsi andare a questi atteggiamenti disfattisti e cercare di comprendere che tollerare un’infrazione parziale senza trasformarla in un’abbuffata può essere altrettanto importante che saper rispettare un diario alimentare, e che anzi saper giudicare se stessi in maniera non dipendente da un’infrazione alimentare può essere ancora più rilevante. L’alimentazione, tuttavia, deve rimanere la priorità.

 

Indicazioni di Fairburn sulla prevenzione delle abbuffate

Fairburn fornisce alcuni suggerimenti da condividere con il paziente, suggerimenti che dovrebbero facilitare l’autocontrollo alimentare. Ecco alcuni esempi: – decidere la sera prima gli orari dei pasti del giorno dopo; – mangiare solo in alcune stanze; – stare concentrati mentre si mangia, non distrarsi; – mantenere limitata la disponibilità di cibo sul tavolo; – posare giù le posate tra un boccone e l’altro; – fare delle pause durante i pasti; – lasciare del cibo nel piatto; – buttare gli avanzi; – se in compagnia, non ascoltare le esortazioni a mangiare; – se al ristorante, prendere tempo tra una portata e l’altra.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Un po’ di autismo in tutti noi. Novità dalla ricerca genetica

Una ricerca apparsa il mese scorso su Nature Genetics, che ha coinvolto un vastissimo campione di più di 38000 individui, ha evidenziato come gli stessi geni coinvolti nell’autismo influenzino anche aspetti delle abilità sociali dell’intera popolazione, quelle stesse capacità ritenute determinanti per una diagnosi di autismo.

 

Il gruppo di ricercatori, capitanato dalla professoressa Robinson dell’Università di Harvard, ha contribuito in maniera significativa all’approfondimento del quadro genetico sottolineando come il maggior fattore di rischio per l’autismo sia poligenico, il risultato cioè di una combinazione di piccoli effetti prodotti da migliaia di differenze genetiche. Tali differenze genetiche si riscontrano anche nella popolazione tipica (non autistica), determinando un continuum di tratti comportamentali e di sviluppo che solo nella loro manifestazione più severa possono essere ricondotti a sintomi determinanti nel formulare una diagnosi di autismo.

Uguale attenzione è stata rivolta anche alle variazioni genetiche rare non ereditarie (de novo) che producono effetti più ampi ma anch’esse risultate presenti tra i non autistici con la capacità di influenzare le loro competenze ed abilità sociali.

 

Le varianti genetiche comuni in relazione all’autismo

Nel primo caso, quello che riguarda le varianti genetiche comuni, è emerso che circa un quarto dell’influenza genetica implicata nell’autismo si correla anche a difficoltà sociali e comunicative nella popolazione generale. Tali competenze sono state misurate attraverso la Social and Communication Disordes Checklist (SCDC), compilata dai genitori di quasi 6000 bambini di 8 anni con sviluppo tipico. La correlazione genetica tra autismo e difficoltà sociali nella popolazione normale è simile insomma a quella che lega il diabete di tipo 2 e l’obesità.

 

Le mutazioni genetiche rare (de novo)

Per verificare invece se anche le varianti de novo mostrano un legame genetico tra i Disturbi dello Spettro Autistico e il continuum di comportamenti della popolazione generale, il team di ricercatori ha analizzato un campione di 2800 autistici insieme ai membri del  nucleo familiare senza una diagnosi di autismo. In questo caso i ricercatori sono ricorsi alla Vineland Behavior Scales (Vineland), una scala che misura l’autonomia personale e la responsabilità sociale. Il numero di mutazioni rare, presenti nel 19% degli autistici e nel 10% dei familiari, si correlavano positivamente a un peggior funzionamento sociale misurato dalla scala. Inoltre i risultati più alti degli autistici, corrispondenti a minori difficoltà, sono risultati essere sovrapponibili a quelli più bassi della popolazione tipica e coloro che condividevano lo stesso punteggio mostravano un numero di mutazioni genetiche molto simile, indipendentemente dalla diagnosi di autismo.

 

Una condizione poligenica complessa

Tutti questi dati non possono che mettere in luce l’arbitrarietà di una diagnosi categoriale per i Disturbi dello Spettro Autistico che sembrano ormai potersi chiaramente definire una condizione poligenica complessa che condivide lo stesso bagaglio genetico con una parte significativa della popolazione generale.

Ne consegue che il rischio genetico che influenza l’autismo è un rischio che riguarda tutti noi e influenza anche i nostri comportamenti e la nostra comunicazione sociale.

Il rapporto con gli animali tra ambivalenze e paradossi

Fin dagli studi di Levinson degli anni ’70 si è dimostrato che l’interazione con gli animali favorisce in noi umani la capacità relazionale di comprendere gli altri e migliora l’umore. Prendersi cura di un animale può calmare l’ansia, può trasmettere calore affettivo, e aiutare a superare lo stress e la depressione. E ci aiuta a comprendere gli altri. 

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 16/04/2016

 

Il rapporto tra uomo e animali nel passato e nel presente

Gli antichi greci erano ambivalenti verso gli animali domestici. L’amore tra padrone e cane, ad esempio, era apprezzato e insieme svalutato. Tutti ricordiamo Argo, il cane di Ulisse, che muore dopo aver riconosciuto il padrone dopo vent’anni. Qualcuno, di meno ricorda come i greci paragonassero il rapporto degli uomini con i cani al sesso a pagamento. Per questo chiamavano cagne le prostitute. Intravedevano nell’amore verso gli animali qualcosa di troppo facile. Il detto, fin troppo diffuso tra gli amanti di cani, che il rapporto con loro è da preferire a quello con gli umani, dichiara sia un legittimo bisogno di semplicità che una pretesa di affettività a buon mercato. Così vanno le cose umane, sempre doppie di significato.

Al giorno d’oggi ogni ambivalenza è sparita e abbiamo dichiarato pieno ed eterno amore agli animali, soprattutto domestici. Permane qualche ombra per i gatti, ma sono le ombre di un pomeriggio d’estate: fanno apprezzare ancora di più il sole di un amore pieno. E mentre riascoltiamo Pet Sounds dei Beach Boys possiamo ricordarci che in quegli anni, negli pichidelici sixties, fu inventata la pet therapy, la terapia basata sull’interazione con gli animali, domestici e non. Fin dagli studi di Levinson degli anni ’70 si è dimostrato che l‘interazione con gli animali favorisce in noi umani la capacità relazionale di comprendere gli altri e migliora l’umore. Prendersi cura di un animale può calmare l’ansia, può trasmettere calore affettivo, e aiutare a superare lo stress e la depressione. E ci aiuta a comprendere gli altri. Insomma, amare i cani non è uno sterile amore a buon mercato; semmai, è ricco di frutti.

 

La terapia con gli animali

Il rapporto con gli animali aiuta anche il reinserimento dei condannati al carcere. La Terapia Assistita con gli Animali (TAA) in carcere è un’attività all’interno del reparto psichiatrico del carcere di San Vittore di Milano ed è un’esperienza unica in Europa. Attraverso il rapporto con i cani si promuove una ‘rieducazione affettiva’ dei carcerati, li si riabitua a prendersi cura di qualcuno attraverso gesti semplici come dargli da bere, da mangiare o spazzolarli. Con le attività dedicate all’accudimento degli animali si fortificano la socialità e l’empatia.
Non si tratta solo di cani e gatti. Anche il nobile cavallo può svolgere un ruolo terapeutico, essere medico dell’uomo oltre che suo compagno.

L’ippoterapia è indicata per i malati di Alzheimer. Le persone affette da Alzheimer, oltre alla perdita della memoria, spesso vanno incontro a cambiamenti di personalità. Possono diventare depresse, solitarie e finanche aggressive. L’esperienza di accudire i cavalli dandogli da mangiare e facendoli camminare fa migliorare l’umore e rende le persone affette da Alzheimer più collaborative con le cure che ricevono durante la giornata. Inoltre l’ippoterapia potenzia l’attività fisica. Le persone affette da Alzheimer, tutte con limitazioni fisiche, nelle attività con i cavalli si spingono oltre questi limiti, chiedendo aiuto per alzarsi dalla sedia a rotelle o prendendo fiducia nel camminare da soli.

 

I paradossi del rapporto tra uomo e animali

Naturalmente tutta questa passione per gli animali ha le sue conseguenze. Se essi sono sempre più i compagni e migliori amici dell’uomo, risulterà sempre più difficile mangiarli. Non è una buona idea banchettare con le carni del tuo migliore amico. La scienza, che non è mai neutrale, già si è messa al servizio di questo nuovo ideale. Addirittura c’è chi, come Steve Loughnan dell’Università di Melbourne, ha dato un nome a questo che rischia di essere il nuovo complesso d’Edipo del nuovo millennio: come puoi pensare di mangiare chi ti è amico? Loughnan lo chiama il “paradosso della carne”.

Beh, tranquillizziamoci: mangiare gli amici ha un prezzo. Secondo Loughnan, i mangiatori di carne tendono a essere più autoritari, accettano l’espressione dell’aggressività e sono anche più propensi ad accettare le disuguaglianze e ad abbracciare le gerarchie sociali. Inoltre, mangiare carne è anche legato all’identità maschile. Insomma, mangi carne e diventi un po’ più cattivo e più maschilista, ammonisce Laughnan.
Chissà se dietro a tanto trasporto crescente vero gli animali non si nasconda una parallela difficoltà a stare con gli umani. È un’interpretazione, un po’ freudiana e quindi un po’ sospettosa. Freud è un maestro del sospetto, nemico della sentimentalità più facile e lagrimosa. Torniamo alle cautele dei greci? Forse no. Forse tutto questo sa di quella sospettosità un po’ facile del freudismo più popolarizzato. Meglio lasciare da parte questi subdoli frutti. Come ci insegna la pet therapy, imparare ad amare gli animali probabilmente ci aiuta ad amare anche gli uomini. E le donne.

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