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Workaholism: il rapporto con il lavoro dalla preistoria ad oggi

La dipendenza dal lavoro indica il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente per motivi di realizzazione personale, perfezionismo e coscienziosità

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 06 Mag. 2016

Aggiornato il 11 Mag. 2016 10:28

La workaholism, detta anche work addiction (letteralmente dipendenza dal lavoro), è stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente. Alcune caratteristiche di personalità, tutte legate alla concezione moderna della realizzazione personale di sé, della motivazione al successo, del perfezionismo e della coscienziosità etica e morale, concorrono alla dipendenza dal lavoro.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 30/04/2016

Il rapporto tra l’uomo e il lavoro ai tempi della preistoria

Il lavoro? Un bel fastidio. Chi ce l’ha fatto fare? Bella domanda. Racconta l’antropologo Marvin Harris in “Cannibali e Re” che gli antichi cacciatori-raccoglitori lavoravano un paio d’ore al giorno, non di più. Sul serio? E come diamine facevano? Bastava quello. Bastava slanciarsi per una mezza mattinata o un mezzo pomeriggio nella foga della caccia o nell’attività più tranquilla della cerca e della raccolta di frutta e semi. Il resto della giornata lo si trascorreva a ciondolare in branco sotto il sole africano, dov’è iniziata la specie umana, pettinandosi, spulciandosi, coccolandosi e scaccolandosi a vicenda, insomma facendo grooming, come dicono gli antropologi. Era quella l’età dell’oro cantata da Esiodo, in cui bastava allungare un braccio per raccogliere il cibo donato dalla terra. Ed era anche l’età degli eroi, anch’essa cantata da Esiodo, in cui un branco di giovani maschi porgeva il proprio corpo alla corsa e alla caccia e insieme esploravano incoraggiandosi a vicenda con (più o meno) maschie urla i territori circostanti, la giungla o la savana, il bosco e la pianura, in cerca di animali da abbattere in gruppo.

Avranno provato emozioni potenti quei giovani cacciatori gonfi di adrenalina e testosterone: la gioia condivisa dell’attività solidale in gruppo con i coetanei, lo sfogo feroce dell’aggressività istintiva sulla preda di caccia, l’armonia divina tra impulso biologico ad uccidere e la sua funzione evolutiva di procurarsi da mangiare. Di conseguenza, nessuna remora morale veniva a incancrenire il piacere sanguinario della caccia, tutto avveniva sotto l’occhio benevolo e approvante della divinità darwiniana che aveva preordinato tutto questo dal fondo buio del tempo primordiale. E, last but not least, la caccia e la raccolta erano davvero un bel gioco che durava poco: due ore al giorno erano più che sufficienti per procacciare nutrimento alla tribù.

Le donne –così scrive Harris, per eventuali tic sessisti prendetevela con lui- erano anch’esse contentissime di dedicarsi alle loro attività preferite senza imposizione culturale alcuna, attività più civili peraltro di quelle maschili: soprattutto cura di se stesse e della propria avvenenza sessuale, ma anche cura e manutenzione dell’arredo e dell’igiene degli spazi pubblici della tribù. E infine spettegules e gossip con le amiche, attività fonte di informazioni e civilizzazione. Inoltre in queste tribù i sessi erano spontaneamente separati in gruppi mono-gender che prolungavano per l’intera vita il gruppo sociale degli odierni adolescenti. E poi amori, amori e amori e sesso a più non posso e promiscuo alla grande, anche tra individui dello stesso sesso, che poi i bimbi che saltavano fuori erano allevati dalle donne in gruppo.

Forse Harris esagera nel delineare questo paradiso pagano/cristiano. D’altronde scriveva nel pieno degli anni ’60, forse sotto effetto di acidi e droghe varie. Forse era un antropologo psichedelico il nostro Harris o forse no, ma gli anni erano quelli e si andava alla riscoperta del buon selvaggio in salsa californiana e peyote. Fosse vissuto negli anni ’30 avrebbe scritto le stesse cose ma con un saporino heideggeriano e guerriero in più, forse avrebbe sottolineato che questi giovani cacciatori erano anche organizzati gerarchicamente in una casta aristocratica orgogliosamente guerriera, avrebbe scritto che magari non si limitavano alla caccia ma si divertivano anche nella guerra contro le altre tribù umane, che queste guerre selezionavano razze più o meno superiori, avrebbe scritto che questi giovani fannulloni possedevano degli schiavi catturati in battaglia a cui demandare compiti meno gradevoli e meno eroici come scavare e pulire le latrine, e magari i rapporti con l’altro sesso (e con il sesso) non erano così idilliaci e piani, i capi avevano diritto alle donne e gli altri se ne stavano lì -scusate il crudo termine- a masturbarsi, come d’altronde accade nelle tribù di scimmie antropomorfe che in genere sono studiate per ricostruire i comportamenti dei primitivi. E così via.

Insomma Harris avrebbe disseminato la stessa spolveratina di niccianesimo ma condito con una salsa nazista invece che comunista, queste ricette utopiche hanno sempre avuto un fondo comune. Del resto quando i progressisti usano Nietzsche lo addolciscono e lo ammosciano sempre un po’ ad usum delphini, come ci ha spiegato una volta per tutte lo psicologo dell’etica Jonathan Haidt.

Non divaghiamo e torniamo a parlare di lavoro. Quanto lavoravano questi cacciatori primitivi, nazisti o comunisti che fossero? Voglio ripeterlo: non più di due ore di lavoro al giorno. Lavoro? Possiamo chiamare “lavoro” la caccia e la guerra di questi giovani bulli? Chiamiamolo “sbattimento divertente”. Il resto a ciondolare e sonnecchiare in gruppo nella savana o dove volete. Etica del lavoro? Calvinismo? Concetti probabilmente incomprensibili per questi giovani gangsta, hooligans della preistoria.

 

Il rapporto tra l’uomo e il lavoro nella società odierna

Oggi, invece, quanto si lavora? Quante ore di lavoro sommiamo alla settimana? Moltiplicando due per sette scopriamo che il nostro primitivo antenato cacciatore si impegnava (divertendosi) per non più di quattordici ore a settimana. Che invidia. Ad alcuni di noi capita di farle in un solo giorno, queste quattordici ore. Il nostro antenato sarebbe probabilmente impazzito o ci avrebbe infilzato con la sua lancia. E anche alcuni di noi impazziscono di lavoro e di stress e negli USA infilzano a fucilate colleghi e vicini.

Insomma, chi ce lo ha fatto fare? A sentire Harris stavamo così bene. E come ci siamo arrivati? Continuiamo a leggere Harris. E apprendiamo che già con l’agricoltura si passa da due a sei ore di lavoro giornaliere. Sei ore al giorno? Siamo già quasi su livelli moderni d’impegno. Ancora un paio di orette e siamo nell’era industriale. Chi ce lo ha fatto fare? Come ci siamo arrivati, a rovinarci così? Perché non siamo rimasti in paradiso a giocare al videogioco della caccia (e della guerra, non dimentichiamolo)? Videogioco dal vivo, poi, mica la playstation. Tutto vero, tutto sentito e fatto sul serio. Mica come quei bislacchi che vanno a giocare a paintball, a spararsi palle colorate in faccia in campagna simulando battaglie con il loro fisico falso-atletico da impiegati palestrati. Perché ci siamo chiusi in ufficio e abbiamo lasciato la foresta?

La risposta di Harris è raggelante, a dimostrare che il gioco della storia è un gioco duro e feroce. Il passaggio all’agricoltura fu determinato dall’ingentilimento dei costumi, dal rifiuto del sangue. Harris però non parla di un generico incivilirsi dei modi, di un vago rifiuto del sangue della caccia. Parla di cose ben più concrete e inquietanti; la cultura della caccia si reggeva su un rigido controllo delle nascite, nel quale il numero delle bocche da sfamare era tenuto attentamente sotto un certo limite invalicabile. E questo limite era rispettato col sangue, non solo mediante aborti (non certo effettuati in cliniche all’avanguardia) ma soprattutto attraverso l’infanticidio.

Devo dire che Harris scrive queste cose con una certa franca durezza quasi compiaciuta. Un compiacimento cinico che a tratti affiora nella letteratura progressista, magari travestendosi da hegeliana (e marxiana) accettazione della crudeltà della storia, magari con uno spolverio nicciano di derisione del sentimentalismo borghese (di nuovo fa capolino Marx) e –perché no?- cristiano (e qui il campo è tutto per il Nietzsche più ossessivamente anti-cristiano). Queste spezie piccanti sono però aggiunte da Harris in maniera sorvegliata. Si ferma giusto una manciata prima che il gusto diventi troppo forte e inevitabilmente nazista. Si corre sempre questo rischio quando si fa della cucina nicciana, ma Harris è un cuoco provetto e non esagera col suo nazi-Nietzche massacratore di esseri inferiori e malriusciti o semplicemente di troppo.

Insomma, a un certo punto non ce l’abbiamo fatta più a far fuori i nostri bambini già nati. Questo scrive Harris. Fa un po’ impressione leggerlo, lo scrive con quel certo rammarico dell’odiatore di bambini, ma è convincente: smettendo di far fuori bambini, il numero di bocche da famare crebbe incontrollabilmente e la caccia non bastò più. Siamo diventati troppi e abbiamo iniziato a porci problemi come la crescita del Prodotto Interno Lordo, l’efficienza economica e le risorse alimentari e infine la carne rossa e le scorregge delle mucche. Abbiamo sviluppato la tecnologia, e già con l’agricoltura facemmo un enorme passo in avanti vero l’industrializzazione, con buona pace di quegli ingenui -Pasolini in testa- che s’illudevano e ancora si illudono che il mondo agricolo sia un mondo rimasto a contatto con la natura spontanea. Sciocchezze, l’agricoltura è un’attività altamente sofisticata e innaturale, in cui il lavoro è organizzato, suddiviso e specializzato marxianamente. Con l’agricoltura ci si prepara all’industria e alla società dei consumi; infatti coltivando si produce artificialmente il cibo e si moltiplicano enormemente le risorse, invece di andare a raccogliere e cacciare quel che spontaneamente c’è in natura. E si lavora, si lavora sempre di più. L’agricoltura è indubbiamente lavoro, la caccia no. E ci si organizza, ci si organizza sempre di più in gruppi di lavoro, in mansioni specializzate, in lavoro salariato, in tempi e luoghi e orari definiti, come diceva Marx.

Non abbiamo più avuto il coraggio di far fuori i nostri bambini e abbiamo dovuto sfamarli. Per questo abbiamo smesso di essere cacciatori divertiti dalla vita e abbiamo iniziato a rincretinirci di lavoro. Lavoriamo tanto e lavoriamo sempre di più da secoli per questo. Ci siamo (per fortuna) inteneriti al sole delle religioni monoteistiche e poi delle filosofie umanistiche e liberali e abbiamo superato il cuore di pietra del paganesimo, legato alle divinità della natura e non a una entità sovrannaturale, ovvero al di fuori della natura. Seguendo questo Dio sovrannaturale anche noi ci siamo emancipati e ci emancipiamo sempre di più.

Ma tutto questo costa tanto, tantissimo lavoro. Per questo nasce l’etica del lavoro. E questo impegno nel lavorare sempre di più cresce col crescere dei secoli, diventa sempre più un dovere e sempre meno un piacere. Già i contadini si divertivano molto meno dei cacciatori, e dopo di loro gli operai ancor meno. Nel mondo contemporaneo le cose sono diventate un po’ più varie e interessanti, ma la vita eroica e pigra dei cacciatori di Harris ce la siamo lasciata alle spalle per sempre. E per far fronte a questo impegno crescente impegniamo al massimo le nostre forze fisiche e morali. Lavorare è un impegno della psiche e dell’anima. E quindi può diventare una malattia dell’anima. Una droga. Esistono i drogati di lavoro, i workaholic.

La workaholism, detta anche work addiction (letteralmente dipendenza dal lavoro), è stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente. Alcune caratteristiche di personalità, tutte legate alla concezione moderna della realizzazione personale di sé, della motivazione al successo, del perfezionismo e della coscienziosità etica e morale, concorrono alla dipendenza dal lavoro. Anche il clima organizzativo dell’azienda moderna, in cui ognuno è strettamente dipendente dagli altri, condiziona ed è condizionato da tutti, gioca un ruolo nello sviluppo e nel mantenimento della workaholism. Sta a noi, in questa società sempre più organizzata e interconnessa, trovare momenti di libertà, in cui ritrovare l’antica, pigra e sonnacchiosa libertà dell’età dell’oro.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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