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Dipendenza dal lavoro – Work Addiction

La work addiction, detta anche workaholism, è stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, così da rientrare nel novero delle New Addiction, assieme alla Internet Addiction, Shopping Compulsivo ed altre.

 

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Essa, tuttavia, si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali, poiché non si riferisce, come per l’uso di sostanze, al ricorso ad un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione.

L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità. Nonostante si tratti di un tema dibattuto da diversi anni, la workaholism, per la sua stessa correlazione con un’attività quotidiana, quella lavorativa, indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe non essere riconosciuta dalla società, al momento, come un disagio patologico (Oates, 1971).

Ad esempio, mentre in Italia risulta ancora sconosciuto, in altri paesi come il Giappone, tale fenomeno identificato con il nome di Karōshi (morte per eccesso di lavoro), è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemici, dovuti alle eccessive ore di lavoro e alle condizioni lavorative stressanti. Si associa a questo fenomeno anche il karo-jisatsu, termine che indica il suicidio al quale ricorrono gli impiegati che soffrono di depressione correlata all’eccesso di lavoro.  (Araki & Iwasaki, 2005; Kanai, 2006).

I sintomi più ricorrenti nella workaholism sono:

  • Tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;
  • Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);
  • Poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;
  • Impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;
  • Sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);
  • Abuso di sostanze stimolanti come la caffeina. (Castiello d’Antonio, 2010).

Diversi ricercatori, nel corso degli anni, si sono interessati alla work addiction. Spence e Robbins, nel 1992, coniarono la nozione di triade workaholic, caratterizzata da :

  • impegno nel lavoro
  • motivazione nel lavoro
  • piacere ricavato dal lavoro

Furono identificati, in seguito, tre profili di workaholics, ovvero di soggetti maniaci dal lavoro:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro): coloro che mostravano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti): chi mostrava elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro): coloro che possedevano marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risultarono essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con ambizioni eccessive e obiettivi irrealistici, spesso soggetti ad elevate quote di stress ed ansia associati a sintomi fisici.

Successivamente, Scott assieme ai suoi collaboratori, in una rassegna molto estesa del 1997, ha proposto una definizione di workaholism attualmente valida e condivisa, concettualizzando l’esistenza di tre tipi di comportamento caratteristici della persona dipendente da lavoro:

  • Spendere la maggior parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, generando un malfunzionamento sociale, nelle relazioni interpersonali e familiari e sullo stato di salute;
  • Pensare e focalizzarsi sul lavoro per trovare soluzioni, anche quando non si sta lavorando;
  • Lavorare al di là delle richieste o necessità finanziarie e organizzative.

Nel 2008, anche Schaufeli e i suoi collaboratori definirono la workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente.

Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta la componente comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva della workaholism ed implica che i workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Come per le altre dipendenze, anche la workaholism ha un’origine multifattoriale, pertanto, sembrerebbe derivare dalla storia di apprendimento familiare, in cui i figli tenderanno ad assumere gli alti standard dei genitori, eccellendo nelle attività scolastiche ed extrascolastiche. Tali ritmi, vissuti come naturali, avrebbero come scopo quello di ricevere attenzioni e riconoscimento da parte degli stessi genitori e, talvolta, legittimando un minor investimento nelle relazioni interpersonali ed un atteggiamento di chiusura emotiva.

Si somma all’influenza dell’ambiente familiare, l’innovazione tecnologica che, con l’avvento di internet, smartphones e tablet e indebolendo i confini naturali tra ambito professionale e privato, avrebbe permesso al lavoro di invadere quegli spazi umani precedentemente non intaccati dalla sfera professione. Banalmente, il fatto di essere sempre reperibili tramite cellulare, da un lato rassicura, dall’altro sembrerebbe operare una sorta di invasione e controllo sulle vite private dei lavoratori. L’eccessiva mole di lavoro e la spasmodica ricerca di alti standard professionali, delineerebbe nel workaholic, ovvero in colui che tende a sviluppare la dipendenza dal lavoro, una personalità incline al comportamento compulsivo finalizzato ad evitare, nascondere o silenziare stati emotivi sgradevoli come rabbia e tristezza, derivanti da credenze associate ad una bassa autostima, intolleranza all’incertezza o difficoltà nelle relazioni interpersonali. Vissuti di vergogna o colpa legati al senso di inadeguatezza, saranno pertanto gestiti con comportamenti controllanti, perfezionistici e iperattività (Robinson, 1998).

La work addiction può svilupparsi quando i dipendenti percepiscono che il lavorare oltre l’orario di lavoro anche a casa, nei fine settimana o durante le vacanze, sia considerata una condizione indispensabile per il successo e l’avanzamento di carriera. La combinazione di questi valori percepiti da parte dei dipendenti  nel loro ambiente di lavoro è descritta, nello studio di Mazzetti, col termine overwork climate, ovvero la percezione di un clima organizzativo in cui è richiesto un maggior sforzo lavorativo per il raggiungimento del successo.

Potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Ed infine, promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

 

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