Il periodo di quarantena ha modificato non solo il vissuto personale, ma anche le pratiche lavorative. Le aziende si sono trovate, quasi improvvisamente, a gestire l’emergenza organizzativa, approdando, in tempi rapidi, al lavoro agile o smartworking.
Ma questo lavoro agile è davvero così “intelligente” da migliorare il benessere di tutti i lavoratori? In un recente report sul lavoro agile nelle Pubbliche Amministrazioni italiane (Tripi & Mattei, 2020) durante il periodo covid19, gli autori rilevano come il lavoro intelligente tenda a diminuire lo spazio sia fisico sia psicologico tra vita privata e vita lavorativa, in quanto rende il lavoratore iperconnesso. Questo può avere effetti positivi, in termini di mobilità, produttività e multitasking; ma anche negatività legate all’aumento dello stress lavoro-correlato, ma soprattutto di sindromi non facilmente rilevabili, come quella da Workaholism. Si tratta, infatti, di una sindrome camaleontica, che si mimetizza con facilità, in quanto, da parte del lavoratore si instaura una vera dipendenza; per l’azienda il lavoratore workaholic può essere una risorsa umana molto produttiva.
Il termine Workaholic (in italiano letteralmente ‘sindrome da alcolista da lavoro’, più in generale ‘sindrome da dipendenza da lavoro’) è stato coniato da Oates (1971), come contrazione delle parole ‘work’, ovvero ‘lavoro’ e ‘a(lco)holic’, cioè ‘alcolizzato’. Si riferisce a persone la cui necessità di lavoro è diventata così forte che può costituire un pericolo per la loro salute, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale (Oates, 1971).
Sebbene sia stata dedicata una notevole attenzione al costrutto di workaholism negli ultimi anni (Fassel, 1990; Garfield, 1987; Kiechel), sono state intraprese poche ricerche empiriche per approfondire la comprensione di questo fenomeno (Porter, 2001; Robinson & Post, 1995, 1997). Questo, infatti, ha influito sulla mancanza di chiarezza nell’operazionalizzazione del costrutto della sindrome da dipenza lavorativa e, di conseguenza anche sulla sua individuazione e valutazione. Alcuni ricercatori, ad esempio, hanno proposto l’esistenza di diversi tipi di modelli di comportamento workaholic (Scott et al., 1997). Naughton (1987) presenta una tipologia di workaholism basata sulla relazione tra impegno professionale e tendenze ossessivo-compulsive.
Interessante è invece notare come, al di là delle differenze individuali che contribuiscono a definire un identikit di lavoratore workaholic, ci sono anche aspetti culturali. Nella Società della Rete (Simmel, 1991), infatti, che ha costruito la cultura della connessione, il lavoro può seguire la risorsa umana in qualsiasi luogo. La tecnologia, quindi, diventa un mezzo che (col)lega all’ufficio. Negli ultimi decenni, la tecnologia ha reso il workaholism più diffuso che mai. Questo accade anche perché, culturalmente, essere ‘occupati’ è un distintivo di onore.
In conclusione, il lavoro agile e intelligente risulta un’ottima strategia per fronteggiare una crisi di qualsiasi natura (dalla pandemia alla crisi economica) agevolando l’azienda, ma anche il lavoratore. Non bisogna, però, dimenticare di ricostruire, anche nel contesto virtuale, momenti di socializzazione, ma soprattutto di supporto e attenzione alle ‘vulnerabilità’ lavorative.