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Workaholism: si può affrontare con il Work-Life Balance?

Il workaholism consiste in una vera e propria dipendenza dal lavoro e ciò comporta una riduzione del tempo libero e delle attività ludiche o familiari.

Di Guest

Pubblicato il 10 Gen. 2017

Aggiornato il 08 Dic. 2017 15:47

In questo articolo vorrei trattare due temi molto attuali nel panorama del mondo del lavoro: “work life balance” e “workaholism“. La radice di entrambi i termini è “work” ma come vedremo si tratta di due concetti diametralmente opposti.

Valentina Gobbi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Workaholism e work life balance: cosa sono

Con “work life balance” vogliamo identificare tutti quegli atteggiamenti, comportamenti e/o iniziative promosse dalle aziende nei confronti dei propri dipendenti per promuovere un corretto e funzionale bilanciamento tra lavoro e vita privata. Con il termine “workaholism” invece si identifica una vera e propria dipendenza nei confronti del lavoro, un atteggiamento disfunzionale che mette l’attività professionale al primo posto e vi fa ruotare attorno il resto dell’esistenza del singolo.

A questo punto si potrebbe erroneamente pensare che porre attenzione al work life balance possa essere la soluzione al workaholism, o almeno una delle possibili, ma vedremo che trattandosi di un vero e proprio disturbo di dipendenza, la questione è più complessa di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

Vorrei ora entrare nel vivo dei due concetti esplorandoli nel dettaglio e cercando di capire perché la sola e semplice attenzione al work life balance non può essere la soluzione a una dipendenza marcata come il workaholism.

Work life balance” è un termine oggi molto in voga in Italia e nel mondo, le cui parole che lo compongono possono suonare ancora dissonanti ai più. Ma cosa si intende davvero per work life balance?

Si tratta di un nuovo approccio nella gestione delle risorse umane che cerca di favorire e proporre un “balance”, un equilibrio, tra vita professionale e vita privata dei singoli dipendenti. Il mondo imprenditoriale si rende conto ogni giorno di più che è necessario favorire un equilibrio tra questi due momenti dell’esistenza di una persona. Alcune aziende hanno così iniziato a porre sempre maggiore attenzione alla valorizzazione dei propri dipendenti: iniziando a trattarli come delle persone con proprie esigenze, peculiarità e con una propria vita che continua al di fuori dei confini dell’azienda stessa. Le imprese si sono accorte che solo un lavoratore motivato, sereno, “equilibrato” è un lavoratore valido e produttivo. Motivare un lavoratore d’altronde non significa più soltanto riconoscergli benefici monetari o monetizzabili ma, significa anche permettergli di vivere la sua vita, di godere della sua famiglia, di non aver paura di essere sostituito, di conciliare alle responsabilità lavorative, i propri impegni e ritmi personali.

Il work life balance cerca di dare una risposta a tutte queste esigenze creando un ambiente di lavoro a misura d’uomo, che rispetti le esigenze di tutti, lavoratori e imprese. Come accennato poc’anzi, la valorizzazione delle persone porta così di ritorno indubbi vantaggi e benefici anche all’azienda stessa, il dipendente che si sente maggiormente considerato e valorizzato lavora meglio, con maggiore attenzione e produttività, consiglierà la propria azienda anche ad amici e conoscenti ed attraverso il passaparola l’azienda stessa migliorerà la propria reputazione e credibilità nei confronti della società.

Il percorso che aziende e lavoratori hanno però dovuto affrontare per giungere a questa “conquista” non è stato semplice. Questo perché le imprese, accecate da logiche di profitto, hanno negli anni dimenticato il punto fondamentale che è alla base del loro funzionamento; le imprese sono fatte di persone e sono queste a garantirne lo sviluppo, il funzionamento e l’eventuale successo o declino.

L’azienda riflette nel suo divenire le scelte attuate dagli uomini che la governano, è quindi indispensabile avere alla guida degli uomini sereni, motivati e brillanti: garantendo loro la tranquillità e la sicurezza di potersi dedicare senza stress e/o privazioni anche ai loro impegni privati.

Il work life balance si configura come la conseguenza di una precisa evoluzione che il mercato del lavoro, i lavoratori e la società hanno avuto in questi ultimi anni e che lo porterà ad essere l’elemento centrale, il cuore, di tutte le future politiche di organizzazione e gestione delle risorse umane.

Credo che sia inoltre importante prendere in considerazione la profonda modificazione culturale di attribuzione di significato al lavoro avvenuta in questi ultimi anni. Da una visione meccanicista dell’attività lavorativa individuale, legata ai processi delle macchine (taylorismo), si passa a una impostazione del lavoro in termini di ambito tipico di autorealizzazione personale (Bocca, 1998). Il lavoro si costituisce così come luogo fondamentale per l’introduzione di significati umani nella vita per l’individuo e per la collettività. Ogni persona adulta ha bisogno di lavorare in quanto il lavoro, al di là del proprio contenuto monetario volto al sostentamento, si costituisce come luogo fondamentale di realizzazione di sé e di ricerca di senso (Bocca, 1998). La famiglia e il lavoro sono spesso presentati nella storia come dimensioni di vita contrastanti se non contraddittorie tra loro e l’industrialismo non ha fatto che accentuare tale separazione. Eppure lavoro e famiglia costituiscono due aspetti essenziali per la vita umana, due luoghi al cui interno la persona cerca la realizzazione di sé.

Ma passiamo ora al secondo argomento che vorrei trattare: il “workaholism“. Il termine indica dipendenza da lavoro e deriva dalla fusione di due termini inglesi “work” lavoro e “alcoholism” alcolismo, letteralmente tradotto come “ubriacatura di lavoro”. Questa parola è stata coniata per la prima volta negli Stati Uniti d’America da Wayne Edward Oates nel 1971 in seguito alla pubblicazione del libro “Confession of a Workaholic“. Con esso l’autore descrive una persona il cui comportamento è compulsivo nei confronti del lavoro, nello stesso modo in cui quello dell’alcolista lo è nei confronti dell’alcol (Robinson, B., 1998).

L’eccesso di lavoro, unito all’esclusione di altri interessi, viene così paragonato all’abuso di alcol. Avviene una sorta di sopraffazione del mondo lavorativo sugli altri domini della vita del soggetto come ad esempio la famiglia, gli hobbies o l’attività fisica (Seybold & Salomone, 1994).

Il lavoratore che presenta questo tipo di dipendenza viene definito workaholic ovvero [blockquote style=”1″]una persona la cui necessità di lavorare è diventata così eccessiva che crea un notevole disturbo o interferisce con la salute del suo corpo, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale[/blockquote] (Oates, 1971, pg.4; Guerreschi, 2009).

E’ così che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso gli psicologi hanno iniziato a studiare questo nuovo tipo di dipendenza molto particolare e insidiosa, di questo bisogno ossessivo di lavorare, produrre, decidere e sviluppare la propria attività professionale.

Successivamente, il termine ha iniziato a diventare di uso comune non solo nella letteratura, ma anche nella stampa popolare e nel web; si è ben presto sviluppato in molti Paesi, tanto che in Giappone si è diffuso il termine “Karoshi” mentre in Germania si parla di “Arbeitssucht”, per indicare la nascita di una vera e propria passione ossessiva per il lavoro che impedisce di potersi dedicare ad altre attività creando una forte dipendenza (Heide, 2002). Nonostante si tratti di un tema molto dibattuto, per via della sua correlazione con un’attività quotidiana come quella lavorativa, considerata indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe che il workaholism non sia ancora del tutto riconosciuto dalla società come un disagio patologico (Oates, 1971). E’ il caso dell’Italia, ad esempio,  dove il termine risulta essere conosciuto a pochi e non ne esiste una vera e propria traduzione.

Occorre ammettere al proposito che non esiste nemmeno una definizione universalmente accettata di workaholism. Spesso viene descritto attraverso degli ‘slogan’: così si sente parlare della “più pulita delle dipendenze” (Schaef, A., Fassel, D., 1989); “dipendenza rispettabile” (Killinger, B., 1991); “male che gli altri approvano” (Neikirk, J., 1998); “dipendenza ben vestita” (Robinson, B., 1998). Pur con i loro limiti gli slogan ci consentono di riflettere sulle parole che li compongono, si tratta di giustapposizioni di parole logicamente contrastanti che rendono evidente la complessità e la difficoltà nel definire, comprendere e trattare il fenomeno. Si fa riferimento a un problema che alla fin fine è qualificato in termini positivi.  Se per molto tempo si è così sia guardato al workaholism in modo umoristico e scherzoso, progressivamente si sta abbandonando la lente caricaturale e si inizia a osservarlo nelle sue ragioni più profonde.

 

Workaholism: i sintomi e i comportamenti che definiscono la dipendenza dal lavoro

Proverei ora a passare velocemente in rassegna un po’ di letteratura esistente sul tema partendo dai sintomi più frequenti, per aiutare a chiarire meglio la definizione e aiutare ad identificare questa dipendenza:

– il tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;

– pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);

– poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;

– impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;

– sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);

– abuso di sostanze stimolanti come la caffeina (Castiello d’Antonio, 2010).

Scott et al. (1997) hanno su queste basi stipulato l’esistenza di tre tipi di comportamento workaholic. La persona dipendente dal lavoro è colei che:

  • spende gran parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, con un conseguente effetto negativo nel funzionamento sociale, nelle relazioni personali e familiari e nello stato di salute;
  • è costantemente focalizzata sul lavoro e alla ricerca di soluzioni per risolvere i problemi lavorativi, anche quando non sta lavorando;
  • lavora oltre le altrui aspettative, richieste o necessità finanziarie e organizzative.

E’ inoltre possibile identificare tre pattern per quanto riguarda gli stili di comportamento:

  • compulsivo-dipendente: correlato positivamente ad ansia, stress, problemi fisici e psicologici, e negativamente a performance lavorative e a livelli di soddisfazione lavorativa e/o personale;
  • perfezionista: correlato positivamente ad alti livelli di stress, problemi fisici e psicologici, relazioni interpersonali ostili, bassa soddisfazione lavorativa, scarsa performance e assenteismo dal lavoro;
  • orientato al successo: positivamente correlato a buona salute fisica e psicologica, soddisfazione lavorativa e personale, e comportamenti pro-sociali.

Precedentemente, Spence e Robbins (1992) coniarono la nozione di triade workaholic, basata su tre concetti chiave: impegno nel lavoro (spendere il proprio tempo libero in progetti ed altre attività lavorative), motivazione nel lavoro (sentirsi obbligati a lavorare anche senza ricavarne alcuna soddisfazione), e piacere ricavato dal lavoro (lavorare più del dovuto, ma per il piacere e il divertimento legati ad esso). Da questa sono stati poi delineati tre profili di workaholic, indagati successivamente anche da altri ricercatori:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro) – coloro che mostrano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti) – chi mostra elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro) – coloro che possiedono marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risulterebbero essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con aspettative eccessive e obiettivi irrealistici, sperimentando elevate quote di stress ed ansia con la presenza di sintomi fisici (mal di testa, ulcere ed ipertensione tra i più comuni).

Proseguendo in linea temporale, nel 2008 la definizione di Schaufeli e i suoi collaboratori definisce il workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente. Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta l’elemento comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva del workaholism e implica che i workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Il workaholism, così definito, diventa vera dipendenza da lavoro e rientra nel crescente panorama delle dipendenze patologiche, definite “le nuove dipendenze” o “dipendenze sociali” dovute a comportamenti che pur producendo le stesse conseguenze delle tossico-dipendenze si costruiscono e si autoalimentano in assenza di qualsiasi sostanza chimica e hanno a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati. Fanno parte di questo gruppo anche lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza dal sesso. La work addiction diventa un vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste autoimposte, incapacità di regolare le abitudini lavorative ed eccessiva indulgenza al lavoro. Tuttavia, rispetto alle classiche dipendenze comportamentali il workaholism differisce leggermente poiché non si riferisce al ricorso a un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, come per l’uso di sostanze, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione. L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità.

Una caratteristica peculiare della dipendenza dal lavoro è che questa si instaura a partire da ricompense secondarie, dal piacere indiretto prodotto dall’azione lavorativa protratta e ripetuta, un fattore che permette di comprendere come mai si riesca a diventare dipendenti da un’attività che raramente produce anche qualche ricompensa primaria o diretta. Il lavoro, infatti, non rappresenta un oggetto di appagamento immediato, ma rappresenta un’attività che richiede l’esecuzione di uno sforzo per ottenere una gratificazione economica o di qualunque altro tipo. Questo consente due considerazioni. Innanzitutto, non tutti i lavoro-dipendenti sono masochisti, dal momento che questo modo di manifestare tendenze auto-punitive sembra piuttosto raro. La seconda implicazione è che questa forma di dipendenza è possibile nelle persone in cui si è sviluppato il cosiddetto “processo secondario”, ossia la capacità di rinunciare a un piacere attuale in prospettiva di una ricompensa futura, un aspetto che fa indurre la presenza nei lavoro-dipendenti di una certa “maturità psicologica” rispetto alla gestione dei bisogni e delle mete, un aspetto che spesso manca o è carente in altri tipi di dipendenze.

Le persone affette da questa dipendenza mostrano inoltre una sostanziale aridità personale, una difficoltà nell’affettività e un sostanziale rifiuto delle attività rilassanti che vengono vissute come amorali. Il workaholic giudica il rilassarsi un momento inaccettabile di mollezza e indolenza. Come dicevamo, queste persone arrivano a lavorare anche 14/16 ore al giorno e la loro tragedia è che l’oggetto della loro dipendenza non è qualcosa di “brutto” come avviene per esempio nell’abuso di sostanze psicoattive o nell’alcoolismo, ma anzi è qualcosa di “bello”. Per bello intendiamo qualcosa di socialmente apprezzato e stimabile, su cui il nostro modello occidentale di sviluppo fonda le sue radici. Il workaholic riceve così un grande consenso sociale da parte di chi percepisce il lato positivo, la produttività, o beneficia della dipendenza (il datore di lavoro per esempio), è invece oggetto di fortissime critiche in ambito amicale e affettivo.

I più colpiti sono i figli e il coniuge in quanto il workaholic tende a trascurare la famiglia e all’interno dell’ambiente domestico o privato tende ad ogni modo a rimanere concentrato sull’attività lavorativa senza tregua, tralasciando week-end e festività. Vediamo così che, se nell’ambito professionale questa dipendenza è accettata e quasi premiata, nell’ambito domestico si viene invece ad instaurare una sorta di congiura del silenzio, nessuno deve parlare o permettersi di mettere in discussione lo stile di superlavoro del workaholic che anzi spesso si vanta di essere l’unico sostegno della famiglia, percependo il resto del mondo come stolto e indolente, fa fatica a provare emozioni per i propri cari e ad essere affettuoso con il coniuge o gli amici. L’ambito privato soffre così enormemente dell’assenza fisica ed emotiva della persona.

Una ricerca condotta dalla Grant Thornton ha rilevato che in Inghilterra il 6% dei divorzi dell’anno 2004 è da attribuire alla fuga da parte di uno dei due coniugi dal workaholic. Si potrebbe pensare che la sindrome sia prevalentemente maschile, in realtà la differenza tra uomini e donne pur mostrando una superiorità negli uomini non è così ampia e significativa. Spesso, è la donna che anche come forma di estrema emancipazione si realizza attraverso un’attività lavorativa frenetica e totalizzante, che la porta a estraniarsi dal mondo e dai rapporti affettivi.

Proprio in quanto gode di un certo rinforzo sociale, la dipendenza da lavoro diventa esagerazione di un comportamento normalmente giudicato positivo e quindi molto difficile da identificare e da curare. Il workaholic non si presenta spontaneamente al SERT ma anzi è fiero del suo essere attivo e produttivo. Spesso, solo la crisi familiare lo porta a rivolgersi a uno specialista: quasi sempre però attribuisce la colpa ai familiari e alle persone che non lo capiscono.

Dall’altro lato però vediamo che questa dipendenza nasconde profondi sentimenti depressivi e di inadeguatezza, il workaholic si sente solo e perso, sente di avere pochi strumenti nella vita, ma ha trovato nel lavoro e nell’efficienza professionale qualcosa con la quale mostrare il proprio valore. Il lavoro diventa così un vero e proprio “antidepressivo”, che da senso alle giornate, alle settimane e agli anni.

Proviamo a fare un passo in avanti, se trattiamo il workaholism come ogni dipendenza, dobbiamo considerare l’intera gamma di fattori che lo compongono:

– primo fra tutti la famiglia di origine, la quale sembra avere un ruolo cruciale nello sviluppo di questa dipendenza. Il ruolo principale sarebbe quello dell’apprendimento, i figli imparano dai genitori modalità di azione performanti che cercano di replicare all’interno della propria vita: eccellendo a scuola, nelle attività extracurriculari e nello sport per ricevere approvazione, amore e attenzione da parte dei genitori. Il bambino spesso non è in grado di riconoscere nel genitore un disturbo e lo vive come normalità; oppure accorgendosene prova ad adottare comportamenti adattativi tra cui, ad esempio, un minore investimento nell’area socio-relazionale, che può sfociare in un progressivo “raffreddamento” dei sentimenti e nella negazione delle proprie emozioni (Robinson, 1998);

– altro fattore importante da considerare è l’insieme dei tratti di personalità associati al bisogno di realizzazione individuale e legati alla concezione moderna della realizzazione personale di sé, della motivazione al successo, del perfezionismo e della coscienziosità etica e morale (Ng e colleghi, 2007);

– non bisogna dimenticare l’innovazione tecnologica che oggi svolge un ruolo determinante. L’avvento di Internet, delle e-mails, del teleworking, degli smartphones, dei tablet e di tutti quei dispositivi portatili che ci permettono di essere sempre connessi, reperibili e attivi e che hanno cancellato i fisiologici confini tra sfera professionale e sfera privata, determinando l’“invasione” del lavoro in spazi e tempi precedentemente dedicati ad altro;

– oltre ai fattori familiari e socio-culturali, una delle cause principali nello sviluppo di questo tipo di dipendenza va ricercata nei bisogni insoddisfatti e rimossi, nei sentimenti di inadeguatezza e di non amabilità di base, a conseguenza dei quali la persona sente di dover raggiungere certi standard per essere accettata e non essere sopraffatta da un vuoto interiore. La grande quantità di lavoro e il conseguimento frenetico dei risultati sembrano essere un tentativo di colmare bisogni di autodeterminazione e di evitare il contatto con i propri sentimenti più intimi. Il workaholic soffre di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi (dalla rabbia alla depressione) e a un’incapacità di adattamento che si manifesta con sentimenti di scarsa stima di sé, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali. Alla base di questo atteggiamento compulsivo c’è un vissuto di vergogna e un forte senso di inadeguatezza, che viene mascherato attraverso il bisogno di controllo, il perfezionismo, l’iperattività: fare sempre di più lo fa stare meglio (Robinson, 1998);

– in ultimo, ma non meno importante, va considerato l’”overwork climate“, ovvero un clima organizzativo tipico dell’azienda moderna, in cui ognuno è strettamente dipendente dagli altri, condiziona ed è condizionato da tutti, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia.

Vorrei soffermarmi brevemente sul mutamento radicale che la società dei giorni nostri ha registrato attraverso eventi quali la globalizzazione e l’avanzamento tecnologico che hanno riportato ad un forte valore dell’etica lavorativa (Cherrington, 1980; Harpaz, 1988; Vecchio, 1980). E’ la nostra società che ha registrato un cambiamento tale da indurre la letteratura scientifica a rivolgere il proprio interesse per lo sviluppo di una vera e propria patologia in ambito lavorativo (Jones, Burke & Westman, 2006; Kinnuen, Geurts & Mauno, 2004; Ng, Sorensen & Feldman, 2007). Le conseguenze di una società sempre di fretta hanno fatto sì che alcuni soggetti (soprattutto i più fragili e i più deboli) dedichino esclusivamente le loro energie e il loro tempo libero alla vita lavorativa (Bakker, Demerouti & Dollard, 2008).

 

L’influenza della società e del clima organizzativo sullo sviluppo del workaholism

L’etica del lavoro si configura così come questo forte impegno nel lavorare sempre di più, che vediamo andare di pari passo con lo sviluppo della nostra società. Lavorare diventa così sempre più un dovere e sempre meno un piacere. E per far fronte a questo impegno crescente impegniamo al massimo le nostre forze fisiche e morali. Lavorare diventa un impegno della psiche e dell’anima diventando così workaholism, una malattia dell’anima, una droga.

Vediamo a questo punto che il potere in mano alle aziende è estremamente forte, queste possono infatti farsi promotrici di un clima e di uno stile di vita e di lavoro sano, quanto di un overwork climate, che rientrerebbe tra i fattori che compongono il workaholism.

Lo studio di Mazzetti, Schaufeli, and Guglielmi del 2014, suggerisce infatti che il workaholism ha più probabilità di aver luogo quando determinate caratteristiche personali interagiscono con uno specifico clima organizzativo. Caratteristiche personali come ad esempio perfezionismo, motivazione al successo, estrema scrupolosità ed efficienza incontrano un ambiente di lavoro sfidante è più probabile avere casi di workaholism. Il clima di lavoro è un ambiente che non riconosce ma ricompensa il comportamento compulsivo al lavoro. Il clima organizzativo è il risultato di pratiche, politiche e procedure previste e ricompensate sul luogo di lavoro. Come conseguenza, un efficace cambiamento del clima può essere raggiunto solo con la modificazione di queste pratiche che porterebbe a una reinterpretazione degli scopi e delle aspettative dell’organizzazione  (Kopelman, Brief, & Guzzo, 1990).

 

Come affrontare il workaholism: il work life balance

Ecco allora che iniziamo a capire come poter utilizzare lo strumento del work life balance all’interno delle aziende. Potrebbe essere utile introdurre brevemente il concetto di work engagement, per designare il benessere del lavoratore che prova uno stretto legame affettivo nei confronti delle sue attività lavorative e si sente capace di occuparsi delle richieste del suo lavoro (Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001). Se l’azienda riuscisse a farsi promotrice di engagement e creatrice di un clima organizzativo positivo, riuscirebbe ad evitare di creare le condizione di base favorevoli allo sviluppo della dipendenza da lavoro.

Se l’obiettivo dell’azienda diventa quello di creare engagement nei propri collaboratori verso il loro lavoro, lo strumento giusto diventa proprio il work life balance. Questa attenzione al capitale umano, potrebbe aiutare nell’individuare e supportare i workaholic ed evitare di diventare promotrice attiva di questo tipo di dipendenza. Ad esempio potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Potrebbe inoltre promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

Un ottimo spunto rispetto a come le aziende potrebbero affrontare il tema del workaholism ci arriva da Bakker e colleghi che trattano il tema del work-engagement in contrapposizione al workaholism. Il work-engagement presuppone il fatto che i lavoratori siano felici di lavorare, trascorrano le ore lavorative impegnandosi con vigore senza rinunciare alle altre attività nel tempo libero e non risultino essere lavoratori infelici che sentono il bisogno impellente di dover lavorare per forza. Nel work-engagement sono fondamentali le risorse lavorative: il supporto dei colleghi e dei supervisori, i feedback, la varietà di abilità, l’autonomia e le opportunità (Bakker & Demerouti, 2008; Halbesleben; Schaufeli & Salanova, 2007).

Per risorse lavorative si intendono gli aspetti fisici, sociali e organizzativi come ad esempio: diminuire le richieste lavorative e i sacrifici fisiologici e psicologici associati; essere stimolati nel raggiungimento degli obiettivi; stimolare la crescita, l’apprendimento e il progresso della persona (Bakker & Demerouti, 2007; Schaufeli & Bakker, 2004). Le risorse lavorative, quindi, agiscono sia sulla motivazione intrinseca incrementando la crescita, l’apprendimento e il progresso, sia sulla motivazione estrinseca con il raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Soddisfano i bisogni degli individui di autonomia, competenza e di relazione (Deci & Ryan, 1985; Ryan & Frederick, 1997; Van den Broeck, Vansteenkiste, De Witte, & Lens, 2008). Gli ambienti lavorativi che offrono risorse sollecitano i lavoratori a dedicarsi al proprio lavoro poiché è piacevole dedicarsi ai compiti che vengono svolti con successo e agli obiettivi che vengono raggiunti.

Nell’ambito della ricerca, la definizione di engagement maggiormente utilizzata è quella di Schaufeli, Salanova, González-Romá & Bakker (2002) che definiscono il costrutto come uno stato psicologico positivo, appagante, di legame con il lavoro caratterizzato da:

  • vigore: ovvero alti livelli di energia e di resilienza durante il lavoro, la disponibilità nell’investirvi tutte le proprie forze e la perseveranza dinanzi le difficoltà;
  • dedizione: un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida;
  • assorbimento: l’essere pienamente concentrati e assorti nel proprio lavoro, attraverso il quale il tempo scorre velocemente e si ha difficoltà a staccarsi. L’essere assorbiti è vicino a ciò che può essere definito “flusso” (Csikszentmihalyi, 1990), uno stato ottimale, sebbene duri poco a differenza di uno stato mentale più pervasivo e persistente, come il caso dell’assorbimento.

E’ interessante sottolineare come il livello individuale e quello dell’organizzazione siano contingenti. Lavoratori workaholic hanno infatti esperienze negative legate al lavoro, sperimentano più conflitti al lavoro (Mudrack, 2006), sono meno soddisfatti del proprio lavoro (Burke & MacDermid, 1999) , riportano maggiori interferenze lavoro-vita privata (Schaufeli, Bakker, Van der Heijden, & Prins, 2009; Taris, Schaufeli, & Verhoeven, 2005), e hanno relazioni sociali più povere al di fuori dell’ambito lavorativo (Robinson, 2007; Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008); sono meno soddisfatti della propria vita (Bonebright, Clay, & Ankenmann, 2000) e lamentano maggiori sforzi sul lavoro e problemi di salute (Burke, 1999, 2000).

I lavoratori engaged sperimentano invece esperienze positive (Van Beek, I., Taris, T. W. , Schaufeli, W.  B. , 2011), sono maggiormente soddisfatti del proprio lavoro e sono più committati nei confronti dell’organizzazione  (Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008), mostrano maggiore iniziativa personale (Sonnentag, 2003), performano meglio (Salanova, Agut, & Peiro´, 2005; Xanthopoulou, Bakker, Demerouti, & Schaufeli, 2009), hanno minor motivazione a lasciare l’organizzazione (Schaufeli & Bakker, 2004) e sono meno spesso assenti (Schaufeli, Bakker, & Van Rhenen, 2009). Inoltre spendono tempo a socializzare, hanno attività extra lavorative, hobbies e fanno volontariato (Schaufeli et al., 2001), hanno una maggiore soddisfazione della propria vita in generale e una buona salute fisica e mentale (Schaufeli & Salanova, 2007a; Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008). Sebbene lavorino duramente entrambe le tipologie di lavoratori (workaholic e work-engagement) prestando attenzione ai differenti tipi di out-come è chiaro come questi sperimentino differenti stati psicologici, motivo per cui il workaholism è considerato un “male” per il singolo e per l’organizzazione, mentre il work-engagement è considerato per natura un “bene”. (Schaufeli, Taris, & Bakker, 2008). Lo studio di Van Beek e Coll (2011) vuole proprio dimostrare come queste due tipologie di lavoratori, per loro natura differenti, differiscano per regolazione motivazionale e burnout.

In conclusione vediamo confermata l’ipotesi iniziale che postulava che le aziende non possono pensare di risolvere la problematica del workaholism solamente attraverso iniziative di work life balance. Il workaholism è una vera e propria dipendenza e deve essere trattata come tale, l’azienda può quindi agire attivamente per creare e instaurare al suo interno un clima organizzativo positivo che sia terreno fertile di promozione dell’engagement e che allontani il più possibile dalla minaccia del workaholism.

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