expand_lessAPRI WIDGET

Le variazioni del dolore (2014) di J. Rhodes – Recensione

‘Instrumental’, eloquente anche nel suo titolo originale, Le variazioni del dolore è un’autobiografia, una testimonianza, una composizione intensa, forte, onesta, meticolosa, che attraversa il dolore dell’abuso, o meglio, dello stupro, come preferisce chiamarlo James Rhodes.

 

Rhodes, pianista e concertista quarantenne di fama mondiale, mette su carta in prima persona la sua storia, profondamente segnata dagli abusi subiti dai sei ai dieci anni, da un insegnante del doposcuola di pugilato. L’autore racconta la vergogna, l’eredità più tangibile dello stupro, e la colpa, il disprezzo per la presunta propria malvagità e depravazione, la rabbia, la disperazione.

Ripercorre i cortocircuiti del dolore e i tentativi per smorzarlo o, altrettanto dolorosamente, silenziarlo; il sesso da offrire come merce di scambio, alcol, droghe, lamette, distruzione e autodistruzione. L’alternativa è scivolare nel torpore, diventare un sonnambulo, un guscio vuoto, aspettare che il pilota meccanico si sgretoli e tentare il suicidio.

Nel suo Le variazioni del dolore Rhodes illustra attraverso un linguaggio crudo e limpido una vera e propria radiografia del dolore dell’abuso sulla mente e sul corpo, memore in modo spietato di quanto accaduto.

L’autore si racconta come uomo, compagno, padre, musicista, ‘uno stronzo, un bugiardo e un impostore‘, e tanto altro. Passa in rassegna tutte le risorse della salute mentale, i tentativi falliti, quelli più o meno riusciti: i gruppi di auto mutuo aiuto, gli strizzacervelli – uno in particolare – farmaci, ricoveri, meditazione, condivisione e libri di auto aiuto. Per Rhodes la musica è al primo posto. Il cammino personale di Rhodes, dal caos paralizzante del trauma alla vita, passa per la creazione e la bellezza che scaturisce dalla musica.

La musica classica si intreccia con le trame del dolore.

A sette anni l’autore scopre – musicassetta con registrazione dal vivo – la Ciaccona di  J. S. Bach, versione trascritta per pianoforte da Busoni. Felice smarrimento, sollievo, consolazione, lo spazio calmo, una pausa in mezzo alla guerra, un campo di forza, il mantello di Harry Potter, eccitazione, energia.

Comincia l’amore per la musica classica. Rhodes si lascia incantare, comincia a strimpellare su pianoforti malandati nelle sale prove di un istituto di provincia, iniziando un percorso tutt’altro che lineare, che lo porterà ad intraprendere una carriera da concertista.

Non c’è un lieto fine scritto, l’autore lo sa, la rivoluzione è iniziata ed è in corso, tuttavia la mente potrebbe all’improvviso barattare il senso di sicurezza e benevolenza con il terrore, la rabbia, con un senso di colpa feroce e corrosivo o con un vuoto assordante. Con la vergogna sempre in sottofondo.

Nell’autobiografia la musica si insinua a temperare la violenza delle parole, incarna la spinta alla vita e ne disegna la bellezza pur nell’intensità e nella violenza delle emozioni. Rhodes accompagna ad ogni capitolo un brano musicale, ci parla della vita di compositori vissuti nella sofferenza e divenuti immortali per la loro capacità di dare voce all’anima, sostiene la liberazione della musica, da condividere come un dono divino.

Le variazioni di Rhodes vanno ascoltate così, lasciando spazio alle parole e anche alla musica (che vi verrà voglia di ascoltare) senza indugiare su interpretazioni o retro pensieri, pur sapendo che, soprattutto negli addetti ai lavori, arrivano inevitabilmente.

SCID II: Structured Clinical Interiew-II sui disturbi di personalità – Introduzione alla Psicologia

Siamo giunti all’ultimo appuntamento dedicato ai test. Durante le scorse settimane si è parlato di test di personalità molto usati e noti: l’MMPI, il Millon Clinical Multiaxial Inventory e la SCID-I. Oggi, ci dedicheremo alla SCID II, un altro caposaldo nell’effettuare diagnosi di disturbo di personalità.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

SCID II: introduzione

L’Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi di Personalità dell’Asse II del DSM (SCID II) è un’intervista costituita da una serie di domande grazie alle quali è possibile indagare la presenza dei disturbi di personalità compresi nell’Asse II del DSM, sezione dedicata esclusivamente ai disturbi di personalità. Essa permette di effettuare una valutazione dei disturbi di personalità di tipo categoriale, inteso in termini di presenza o assenza del disturbo, e dimensionale ovvero la quantità di criterio diagnostico presente o assente.

La SCID II è applicabile, sicuramente, in ambito clinico, dopo aver effettuato il colloquio psicologico, a conferma o meno di una diagnosi, ma è utilizzata largamente anche in ambito di ricerca per definire i criteri di inclusione e di esclusione in studi sperimentali ed epidemiologici.

 

SCID II: storia

Le origini della SCID II, come per la SCID I, risalgono al DSM-III, in particolare quando fu introdotto nel manuale diagnostico il modulo per la valutazione dei disturbi di personalità elaborato da Jeffrey Jonas dell’ospedale Mc Lean di Belmont. Nel 1985, grazie all’ingente interesse per i disturbi di personalità nasce l’esigenza di valutare la presenza nei pazienti dei tratti e per questo fu realizzato uno strumento ad hoc che permettesse di compiere una diagnosi in tal senso. Nel 1986 questo strumento fu aggiornato con l’avvento del DSM-III-R e integrato con un nuovo strumento di screening sui disturbi della personalità. Successivamente, dopo aver verificato empiricamente l’attendibilità e la validità dei criteri riportati nell’intervista si giunse alla versione definitiva della SCID II pubblicata nel 1990.

Nel 1994, con l’uscita della nuova versione del DSM IV si ottenne anche una nuova SCID II in cui furono modificate alcune domande per centrarle maggiormente sull’esperienza personale derivante dal paziente.

La versione definitiva e autonoma della SCID II per il DSM-IV fu pubblicata nel 1997 in America unitamente alla versione computerizzata.

 

SCID II: diagnosi e somministrazione

La SCID II permette di effettuare la diagnosi di 10 disturbi di personalità, secondo il DSM-IV. Inoltre, sono inclusi altri 3 disturbi di personalità: il disturbo di personalità non altrimenti specificato, il disturbo passivo-aggressivo e il disturbo depressivo, cioè tutti quei disturbi che nel DSM IV sono inclusi nell’Appendice B.

La SCID II è composta da due parti:
1. Un questionario autosomministrato da parte del paziente;
2. L’intervista semi-strutturata di approfondimento degli item a cui si è attribuita una risposta affermativa al questionario.

Il questionario autosomministrato è formato da 119 item ed è consegnato preliminarmente al soggetto che dovrà riconsegnarlo allo sperimentatore al momento dell’intervista. I tempi di compilazione si aggirano intorno ai 20 minuti e richiede un livello di scolarità non inferiore agli 8. Le domande del questionario riguardano i disturbi di personalità proposti dal DSM IV ed è previsto un formato di risposta dicotomico del tipo Sì/No: Sì è presente il sintomo, No non è presente il sintomo.

Questo strumento di screening funge da guida alla successiva intervista. Infatti, nell’intervista saranno indagati solo gli item cui è stata attribuita una risposta affermativa, cercando di capire quanto è rappresentativa dell’esaminato.

L’intervista semistrutturata, costa di una breve rassegna anamnestica, che consente di focalizzare le principali caratteristiche dell’intervistato, le relazioni e le capacità introspettive.

Successivamente, sono analizzati i diversi disturbi di personalità nel seguente ordine:
Disturbo Evitante di Personalità,
Disturbo Dipendente di Personalità,
Disturbo Ossessivo-Compulsivo,
Disturbo Passivo-Aggressivo,
Disturbo Depressivo,
Disturbo Paranoico,
Disturbo Schizotipico,
Disturbo Schizoide,
Disturbo Istrionico,
Disturbo Narcisistico,
Disturbo Borderline,
Disturbo Antisociale.

Quest’ultimo merita una precisazione, poiché con il questionario è possibile verificare unicamente la presenza dei sintomi del Disturbo della Condotta presenti in età infantile, prima dei 15 anni. Solo se confermati questi criteri, possono essere approfonditi nell’ intervista semistrutturata procedendo con la diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità.

Come è possibile notare, si inizia con i disturbi appartenenti al cluster B relativo ai disturbi d’ansia, per giungere al cluster B, drammatico, passando per il cluster A. Nei casi in cui non sono soddisfatti i criteri per una specifica area di personalità, si formula una diagnosi di Disturbo di Personalità Non Altrimenti Specificato.

La SCID II è divisa in tre colonne:
1. nella colonna di sinistra sono riportate le domande da effettuare ad litteram da parte del somministratore. Ciascuna domanda dell’intervista potrebbe essere formulata in due modi: nel caso in cui il clinico voglia riallacciarsi ad una domanda del questionario al quale il soggetto ha risposto affermativamente, è possibile leggere la domanda tralasciando le indicazioni in corsivo contenute tra parentesi quadre; qualora il soggetto non abbia risposto alla domanda del questionario o abbia risposto negativamente, è possibile formulare la domanda con le indicazioni contenute tra parentesi.
2. nella colonna centrale sono elencati i criteri diagnostici del DSM-IV, la cui presenza/assenza corrisponde all’area indagata dalla domanda riportata nella colonna di sinistra. Nella parte sottostante al criterio, sono presenti delle indicazioni da seguire per riuscire a individuare il tipo di punteggio da attribuire al criterio stesso.
3. in quella di destra è presente la valutazione da attribuire agli item.

Ogni criterio è valutato come segue:
? =Informazioni inadeguate o insufficienti;
1 = criterio assente;
2 = criterio sotto soglia
3 = criterio presente totalmente.

Il punteggio “3” è possibile attribuirlo solo nel caso in cui l’esaminato è in grado di fornire esempi o descrizioni pertinenti e multiple in merito al criterio indagato. Chiaramente, la difficoltà consiste proprio nel riuscire a capire esattamente quando è possibile assegnare a un item un 2 o un 3. Spesso, l’esperienza aiuta molto, altre volte è possibile farsi aiutare da una serie di regolette che supportano nell’individuazione del punteggio.

Tra tutte ricordiamo la regola delle tre P, secondo la quale un tre può essere attribuito quando il disturbo presentato è:
1. Persistente, perché è possibile riscontrare il sintomo a partire dalla giovane età adulta;
2. Patologico, determina disagio e malessere;
3. Pervasivo, coinvolge diverse aree, sociale, amicale, familiare, relazionale, etc.

Inoltre, se il somministratore fosse in difficoltà nell’individuazione della risposta, può sempre fare riferimento alla colonna centrale della SCID II in cui sono presenti i criteri del DSM e capire se i contenuti forniti dall’intervistato siano adeguati a quanto si sta indagando. In ogni caso, basandosi su questi criteri è possibile implementare le domande da porre, ma facendo molta attenzione a non uscire fuori contesto, altrimenti si rischia di incappare in criteri diversi da quelli indagati.

 

SCID II: somministrazione

La presenza dei diversi disturbi di personalità è valutata durante il corso del colloquio diagnostico attingendo a ogni tipo di informazione inerente al paziente che possa aiutare nell’individuazione della diagnosi. Con il proseguire dell’intervista devono essere indagate anche tutte le aree in cui il somministratore mostra un dubbio diagnostico, poiché lo scopo finale è non avere dubbi in nessuna area. Inoltre, ai fini della diagnosi devono essere incluse anche tutte le informazioni riguardanti il linguaggio non verbale riscontrato durante l’intervista.

Una volta ultimata l’intervista, il clinico compila il sommario diagnostico, da cui ricava una valutazione di tipo dimensionale per ogni disturbo, sommando il numero dei tratti presenti per ogni disturbo di personalità da cui emerge la presenza o assenza di disturbo stesso, e una diagnosi categoriale, ovvero il numero degli item a cui sono stati attribuiti punteggi pieni e questo per tutti i tratti presenti. Se, come accade in genere, risultano soddisfatti i criteri relativi a più disturbi, l’intervistatore è tenuto ad indicare la diagnosi principale di Asse II e di seguito i relativi tratti che potrebbero provocare gravi disagi in ambito relazionale, sociale e lavorativo.

Il tempo previsto per ogni somministrazione è di circa 60 minuti, variabili a seconda della gravità del paziente e dell’esperienza del somministratore.

 

SCID II: versioni

La SCID II non necessita di un programma informatico per la formulazione della diagnosi finale secondo i criteri del DSM-IV. Tuttavia, è stato sviluppato un software CAS-II (Computer-Assisted SCID-II), versione computerizzata per Windows, per agevolare le procedure di scoring. Il CAS-II comprende tutti i commenti dei criteri presenti nella Guida dell’Esaminatore, e offre la possibilità di visualizzare direttamente il commento relativo ad ogni item agevolando la formulazione diagnostica.

Nel programma è incluso il Questionario del Paziente (SCID-II-PQ), versione computerizzata del Questionario di Personalità. Esso può essere utilizzato come strumento autonomo di verifica dei disturbi di personalità, oppure, si utilizza come da somministrazione classica.

Con l’uscita del DSM 5 è stata proposta una versione nuova della SCID, versione aggiornata della precedente intervista clinica. I criteri del DSM-IV presenti nella SCID II per DSM IV sono rimasti invariati nel DSM-5, ma le domande del questionario sono state completamente riviste e ridotte da 119 a 106. Inoltre, è stata aggiunta una modalità per effettuare uno scoring dimensionale diverso dal precedente, rispettando la nuova classificazione presentata in appendice nel nuovo DSM 5.
La SCID-5, come la versione precedente, è una preziosa risorsa per aiutare i clinici e i ricercatori nell’effettuare diagnosi precise e attendibili dei disturbi di personalità.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Né istrice, né zerbino: imparare ad essere assertivi

Assertività: Essere assertivi significa comunicare in maniera flessibile, affermando i propri punti di vista, senza prevaricare, né essere prevaricati: è un punto di equilibrio tra l’aggressività e la passività.

 

L’assertività: introduzione

Il primo a parlare di “assertiveness” fu, nel 1949, Joseph Salter, uno studioso statunitense di comportamento umano, che, esaminando le cause e gli effetti dell’ansia sociale, elaborò le prime teorie sui comportamenti assertivi. Joseph Salter intese l’assertività come un modello di comportamento interpersonale, capace di garantire non soltanto un livello di civiltà nei rapporti tra gli uomini, ma contemporaneamente uno stato di benessere emotivo per coloro che lo mettono in pratica.

Il termine assertività deriva dal verbo inglese “to assert” che, all’origine, significava “mettere uno schiavo in libertà”. Essere assertivi significa comunicare in maniera flessibile, affermando i propri punti di vista, senza prevaricare, né essere prevaricati: è un punto di equilibrio tra l’aggressività e la passività.

 

L’atteggiamento aggressivo

Chi ha un atteggiamento aggressivo (l’istrice) è concentrato sui propri desideri, ha la tendenza a dominare gli altri e l’unico obiettivo che si pone è il potere personale e sociale. Il suo stile espressivo è inequivocabile: tono autoritario, ritmi rapidi, tendenza a sovrapporsi all’interlocutore, accuse, domande calzanti. Le conseguenze relazionali di chi ha un atteggiamento aggressivo è facilmente immaginabile: di fronte ad un interlocutore timoroso avrà dei vantaggi immediati, ma, nel lungo termine, è probabile che collezionerà intorno a sè malumori, rabbia inespressa, insoddisfazioni, creando un clima di tensione e di rifiuto.

 

L’atteggiamento passivo

Chi invece ha un atteggiamento passivo (lo zerbino) asseconda gli altri per evitare il conflitto e subisce spesso le situazioni senza opporsi. In questo caso lo stile espressivo è ricco di affermazioni vaghe ed incompiute e frequenti sono i richiami ai propri doveri e le espressioni di giustificazione e di autocommiserazione. Un tale atteggiamento comporta una mancata espressione di se stessi e può portare a sedimentare frustrazione e rabbia. Persistendo in questo atteggiamento, i problemi interpersonali non si affrontano, ma tendono ad aggravarsi con ripercussioni molto negative sulla propria autostima.

 

L’assertività come equilibrio tra i 2 atteggiamenti

Tra l’istrice e lo zerbino c’è l’assertivo, cioè colui che definisce chiaramente la propria posizione, la svela senza ambiguità, la difende senza aggressività ed accetta un diverso atteggiamento da parte degli altri.

L’assertività è la capacità di esprimere i propri sentimenti, di scegliere come comportarsi in un determinato momento/contesto, di difendere i propri diritti, di aumentare la propria autostima, di sviluppare una sana dose di sicurezza in sé, di esprimere serenamente un’opinione di disaccordo quando lo si ritiene opportuno, di portare avanti le proprie idee e convinzioni, rispettando, contemporaneamente, quelle degli altri.

La struttura concettuale dell’assertività è basata sulla funzionalità di cinque livelli, ognuno dei quali ne definisce un aspetto. Il primo livello è costituito dalla capacità di riconoscere le emozioni, il cui obiettivo riguarda l’autonomia emotiva e la percezione delle emozioni. Il secondo livello è costituito dalla capacità di comunicare emozioni e sentimenti, anche negativi, attraverso molteplici strumenti comunicativi e riguarda la libertà espressiva. Al terzo livello troviamo la consapevolezza dei propri diritti e la capacità di avere rispetto per sé e per gli altri; al quarto livello la disponibilità ad apprezzare se stessi e gli altri, che implica la stima di sé e la capacità di valorizzare gli aspetti positivi dell’esperienza. Il quinto ed ultimo livello è quello relativo alla capacità di autorealizzarsi e poter decidere sui fini e gli scopi della propria vita: per raggiungere tale obiettivo è necessario possedere un’immagine positiva di sé, fiducia e sicurezza personale.

Una condizione dell’assertività è dunque la capacità di saper riconoscere i meriti propri e quelli altrui, ovvero esprimere e chiedere apprezzamenti legittimi. Ogni apprezzamento costituisce un segnale di riconoscimento.

 

La teoria di Berne

Eric Berne (Montréal, 10 maggio 1910 – 15 luglio 1970), autore della celebre teoria dell’analisi transazionale, sostiene che “qualsiasi carezza”, intesa come unità di riconoscimento positiva o negativa, in forma di lode o di critica, sia meglio di nessuna carezza. Ovvero: il nostro bisogno di essere accarezzati è così importante che se non riceviamo sufficienti carezze positive, faremo in modo di avere almeno quelle negative. Tradurre questo concetto nella vita lavorativa significa pensare a tutte quelle situazioni in cui un dipendente vorrebbe un segnale di riconoscimento dal proprio superiore e non lo ottiene: questo caso specifico, protratto nel tempo, può generare disaffezione per il proprio lavoro e demotivazione, in quanto ad ogni essere umano piace sentirsi apprezzato e trattato in modo consono ed appropriato. Le “carezze” sono fondamentali nella vita e senza di esse, dice Berne, “la spina dorsale avvizzisce”. Ecco perché lo “scambio di carezze” è così importante nella vita personale e professionale di ciascuno di noi.

 

Le regole restrittive sulle carezze di Steiner

Claude Steiner afferma che, da bambini, tutti noi siamo indottrinati dai nostri genitori con cinque regole restrittive sulle carezze, che sono:
NON CHIEDERE CAREZZE: questa posizione si basa sull’assunto che le carezze che rispondono a una specifica richiesta abbiano meno valore di quelle spontanee. Fa parte, invece, dell’essere Adulti la capacità di chiedere in maniera franca e aperta le carezze desiderate, accettando il rischio che l’altro possa rifiutarsi di dare la carezza richiesta e attivarsi, magari, in un’altra forma per soddisfare il suo bisogno di carezze positive.
NON DARE CAREZZE: è la posizione in base alla quale viene visto come un pericolo elargire carezze positive; invece, la circolazione di carezze positive, non fa che aumentare il benessere delle persone, colma il profondo desiderio di riconoscimento ed evita l’innescarsi dei conflitti.
NON ACCETTARE CAREZZE: si tratta di una posizione malsana che porta a respingere le relazioni e la generosità altrui.
NON RIFIUTARE CAREZZE ANCHE SE NON LE VUOI: significa sentirsi obbligati a dare o ricevere carezze, ma questo porta ad allontanarsi dalla spontaneità, generando svalutazioni ed emozioni parassite (rabbia, depressione). Nella realtà le persone non sempre si comportano come vogliamo noi; l’importante è essere consapevoli che è un diritto degli altri quello di poter avanzare delle richieste, così com’è nostro diritto rifiutarle se ci infastidiscono o rinegoziarle in base ai nostri obiettivi.
NON DARE CAREZZE A TE STESSO: fa riferimento alle carezze interne, cioè alla capacità di riconoscere le proprie qualità e capacità nutrendo così il proprio benessere. Le carezze interne, come le carezze esterne rappresentano un’importante fonte di riconoscimento.

 

Le 5 regole di Steiner applicate all’ambito organizzativo

L’insieme di queste cinque regole è alla base di ciò che Steiner definisce “l’economia delle carezze” che trovo molto valida anche applicata in ambito organizzativo: se infatti un dipendente si sente apprezzato per il lavoro che svolge lavorerà sempre al meglio, se in un’organizzazione esiste una buona qualità di rapporto con e tra il management (se vige, cioè, un’equilibrata “economia delle carezze”) si diffonderà un senso di rispetto e di apprezzamento reciproco. Se, al contrario, chi ha responsabilità direttiva si mostrerà avaro nel riconoscere un lavoro ben fatto o non valorizzerà i propri dipendenti, si genererà un ambiente di lavoro poco collaborativo e poco costruttivo. Solo apprezzando e riconoscendo in modo palese la qualità del lavoro le persone coglieranno chiaramente il valore del loro contributo al successo dell’azienda e saranno stimolate a ricercare sinergie creative e produttive e ad offrire la propria collaborazione ai colleghi.

Il Condominio (1975) di Ballard J. G. – Recensione

A lungo andare, l’isolamento digitale potrebbe farci dimenticare il nostro mandato biologico di creare legami affettivi (autentici e diretti) per sopravvivere ed evolverci. L’autore ci propone come questo istinto naturale potrebbe emergere e fino a che limite di civiltà potrebbe spingerci (o ci sta già muovendo), indubbiamente per legittima difesa.

 

Un condominio. Quaranta piani. Mille appartamenti. Un’elegante estensione di vetro e cemento che sfiora il cielo della periferia di Londra. Un moderno nido autosufficiente, pieno di servizi e comodità, ma vuoto e spento dal punto di vista relazionale. Sarà proprio il venir meno di tali tecnologie a far emergere il malessere celato sotto la superficie di tale modernità.

Una serie di black out elettrici, infatti, danno il via ad una catena di eventi al limite (e oltre) dell’umanità. I piani non sono più solo un luogo fisico, ma diventano etichetta gerarchica e identitaria delle persone che vi abitano. Si scivola così in una differenziazione di classe tra piani inferiori e superiori, dove via via si ascende nella gerarchia sociale. La mera appartenenza a un livello assegna ciascuno ad un gruppo rivale e innesca un gioco al massacro, volto alla sopravvivenza e alla conquista dei piani più alti, fino ad avere ‘il cielo come ultima abitazione‘.

Sorprende e trafigge l’escalation di comportamenti che man mano si manifestano tra le oscure mura di quella che ormai si è trasformata in una prigione, in cui gli abitanti, mossi da primordiali istinti – fame, sete, difesa del territorio, sesso –  si comportano come ‘animali di uno zoo immerso nell’oscurità che giacevano immersi in uno scontroso silenzio e, ogni tanto, si dilaniavano l’un l’altro in brevi atti di ferina violenza‘. Il complesso residenziale, che all’apparenza esterna rimane immutato, si trasforma in un regno in cui tutti gli impulsi più devianti hanno il permesso di manifestarsi in qualsiasi forma e modo.

La bolla tecnologica che racchiude e isola ciascuno condomino si rompe. Spaesati e confusi, di fronte a conspecifici sconosciuti, fanno appello ai meccanismi più primordiali in maniera straripante, arrabbiata e disfunzionale. La violenza diventa, paradossalmente, un collante sociale.

Dopo mesi di glaciale isolamento, infatti, il decadimento dei servizi diventa occasione di avvicinamento e interazione seppur estrema. La mancanza di luce acceca le menti e innesca uno scompenso sociale che si esprime attraverso un grido pescato nei circuiti rettiliani che spezza le sovrastrutture emotive e cognitive più evolute per esser certo di essere ascoltato e accolto.

Il romanzo sembra offrire la visione di un futuro post tecnologico: siamo in un momento storico in cui privilegiamo relazioni mediate da tecnologia e distanza, che ci consentono di reggere il ritmo della modernità e anestetizzare emozioni che non abbiamo il tempo di vivere. A lungo andare, l’isolamento digitale potrebbe farci dimenticare il nostro mandato biologico di creare legami affettivi (autentici e diretti) per sopravvivere ed evolverci. L’autore ci propone come questo istinto naturale potrebbe emergere e fino a che limite di civiltà potrebbe spingerci (o ci sta già muovendo), indubbiamente per legittima difesa.

Una metafora estrema e illuminante. Un romanzo al tempo stesso visionario e attuale che solleticherà riflessioni sul presente e instillerà timori sul futuro. Sicuramente non vi farà più guardare i vostri vicini di casa con gli stessi occhi.

Disturbo ossessivo compulsivo da relazione: quando l’ossessione riguarda i rapporti sentimentali

Avere in certi momenti delle incertezze su una relazione e/o sul proprio partner è esperienza comune a tutti. Tuttavia, quando i dubbi e le preoccupazioni diventano eccessivi e creano un significativo disagio personale e di coppia, allora siamo probabilmente di fronte a un Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione.

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione: introduzione

Il disturbo ossessivo compulsivo è una patologia caratterizzata da un’ampia varietà di tematiche ossessive, quali la paura di contaminazione o il timore di far del male a se stessi o agli altri.

In particolare, il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione (Relationship Obsessive Compulsive Disorder) presenta sintomi centrati sull’ambito delle relazioni intime, tematica che è stata di recente oggetto di un’attenzione sempre crescente da parte della ricerca (Doron, Derby, Szepsenwol, 2014).

Sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione possono manifestarsi in vari tipi di relazione, come quella con i propri genitori, figli, maestri e persino con Dio, ma la ricerca si è concentrata maggiormente sull’ambito delle relazioni sentimentali con i propri partner.

Avere in certi momenti delle incertezze sui sentimenti provati all’interno di una relazione e/o sul proprio partner è esperienza comune a tutti. Tuttavia, quando i dubbi e le preoccupazioni diventano eccessivi e creano un significativo disagio personale e di coppia, portando anche ad una compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e in altre aree importanti della vita, allora siamo probabilmente di fronte a un Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione.

 

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione: come si manifesta

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione si manifesta attraverso dubbi ossessivi e preoccupazioni riguardo le relazioni sentimentali, con condotte compulsive messe in atto per alleviare l’ansia e il disagio provocati dalla presenza e/o dal contenuto di queste ossessioni.

Le ossessioni da relazione possono assumere la forma di pensieri del tipo ‘E’ la persona giusta per me?‘, di immagini sul partner o possono anche assumere la forma di impulsi (ad esempio, l’impulso di lasciare il partner).

Oltre alle ossessioni, si manifesta anche un’ampia gamma di compulsioni quali: monitoraggio continuo dei propri sentimenti e pensieri verso il partner e la relazione, e il ricorso a feedback esterni per valutarli (ad esempio valutare l’amore del partner sulla base della quantità di tempo spesa con loro, rispetto a quella passata con altri); ricerca di rassicurazioni e auto-rassicurazione; confronti tra la caratteristiche e i comportamenti del proprio partner e quelli di altri potenziali partner; neutralizzazioni (ad esempio, tentare di annullare le ossessioni visualizzando il ricordo di momenti felici vissuti col partner); evitamento di quelle situazioni che possono fare da innesco alle ossessioni (uscire con coppie di amici considerate perfette, vedere commedie romantiche, e altre circostanze che fanno scattare la sequela di confronti con la propria relazione).

Esattamente come nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, tali compulsioni alleviano l’ansia solo nel breve periodo, ma in realtà portano ad un peggioramento dei sintomi. Inoltre si hanno ripercussioni negative sulla relazione con il partner: ad esempio la continua pressione esercitata dal soggetto al fine di ottenere rassicurazioni può essere fonte di tensioni, così come anche l’adeguamento del partner ai rituali compulsivi e all’evitamento delle situazioni di innesco contribuisce all’esacerbazione dei sintomi.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione si manifesta in due forme sintomatologiche:

  1. con sintomi ossessivo-compulsivi centrati sulla relazione (relationship-centered);
  2. con sintomi ossessivo-compulsivi focalizzati sul partner (partner-focused)

Nella prima forma, centrata sulla relazione, i dubbi e le preoccupazioni riguardano i sentimenti che la persona prova verso il partner, i sentimenti che il partner prova verso la persona e il valutare se la relazione sia quella giusta o meno (‘Lo/la amo?’, ‘Sto bene con lui/lei?’, ‘Lui/lei mi ama davvero?’, ‘E’ la relazione giusta per me?‘). Nella seconda forma, con sintomi focalizzati sul partner, i dubbi ossessivi riguardano invece difetti percepiti nel partner relativamente all’aspetto fisico, alle capacità intellettive, sociali o a caratteristiche di personalità, quali il livello di moralità. L’esperienza clinica e gli studi indicano che queste due forme spesso possono essere entrambe contemporaneamente presenti e alimentarsi a vicenda nel tempo.

I pensieri intrusivi sul rapporto di coppia sono vissuti come egodistonici, in quanto contraddicono l’esperienza soggettiva della relazione così come viene percepita dalla persona (‘Lo/a amo ma non riesco a smettere di interrogarmi sui miei sentimenti’) oppure sono contrari ai propri valori (‘L’aspetto non dovrebbe essere importante nella scelta del proprio partner’). Queste intrusioni pertanto sono sentite come inaccettabili e non volute, e spesso conducono a senso di colpa e vergogna, promuovendo auto-criticismo e abbassando notevolmente la qualità della vita. Il tempo e l’energia spesi in questi dubbi e preoccupazioni portano inoltre ad una compromissione del funzionamento quotidiano della persona.

 

 

Esordio del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione

Riguardo l’età di esordio del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, i primi sintomi solitamente compaiono nella prima età adulta e tendono a persistere nel corso dell’intera storia delle relazioni sentimentali della persona. Tuttavia, alcuni soggetti fanno risalire l’esordio dei loro sintomi alla prima volta in cui si  sono trovati di fronte a decisioni che implicavano un impegno nella loro relazione (andare a convivere, sposarsi, avere un bambino, …). Anche se i sintomi sembrano essere maggiormente debilitanti quando si manifestano all’interno di una relazione, sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione possono presentarsi anche al di fuori di un rapporto, ad esempio con ossessioni sulle passate e future relazioni. Alcuni, ad esempio, riportano sintomi al termine di una relazione, riferendo di essere ossessivamente preoccupati di aver perso l’unica persona adatta a loro.

Per gestire la paura del rimpianto, fanno continui confronti con il partner attuale, cercano persistentemente di ricordare i motivi della rottura o richiamano alla mente i conflitti vissuti, per rassicurarsi che la rottura della relazione fosse giusta. Altri soggetti riferiscono invece di evitare completamente le relazioni, per paura di riprovare quegli stessi sintomi o per il timore di danneggiare gli altri (es. ‘La farò diventare pazza’, ‘Sarebbe una menzogna‘)

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione: uno sguardo alle ricerche

Dalle ricerche finora effettuate, i sintomi sembrano non essere significativamente correlati alla lunghezza della relazione o al genere. Riguardo l’eziologia e il mantenimento del disturbo, sembra sussistere una combinazione di diversi fattori. Gli studi condotti finora hanno riscontrato che una vulnerabilità nel dominio relazionale, unita ad un attaccamento ansioso, possono condurre ad una suscettibilità accresciuta allo sviluppo di sintomi di Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione. Ad esempio, una sensibilità a intrusioni che sfidano la percezione di sé nell’ambito relazionale (come ad esempio ‘Non sto bene con il mio partner in questo momento‘), può innescare credenze catastrofiche (‘Rimanere in una relazione di cui non sono sicura, mi renderà infelice per sempre‘), e anche altre credenze disfuzionali (‘Non dovrei avere dubbi di questo tipo sul mio partner‘), cui possono seguire comportamenti che cercano di neutralizzare queste intrusioni (ad esempio, cercare costantemente rassicurazioni sul fatto che la relazione stia andando bene).

Allo stesso modo, quando l’autostima della persona dipende dal valore attribuito al proprio partner, ogni pensiero connesso ad un suo eventuale difetto può portare a sintomi ossessivo-compulsivi focalizzati sul partner. Tali pensieri intrusivi, in questo caso, possono far scattare credenze del tipo ‘Non è abbastanza intelligente. Non sarà mai capace di occuparsi della nostra famiglia‘, con associate compulsioni neutralizzanti, come ad esempio monitorare gli errori grammaticali commessi dal partner.

Oltre a ciò, sono presenti anche fattori sociali che possono essere implicati, quali ad esempio la possibilità di un maggiore accesso a social network e a siti e piattaforme di appuntamenti, che comportano un’esposizione ampia ad altri potenziali partner. Un’accresciuta disponibilità di alternative, insieme alla tendenza a voler fare la scelta perfetta, può contribuire ad aumentare i dubbi sulle proprie scelte relazionali.

Inoltre, molte persone con Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione riferiscono una storia familiare caratterizzata da conflitti intensi e manifesti tra i genitori, per cui sembrerebbe che anche questo possa essere un fattore di vulnerabilità per il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione.

 

 

Terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione

La richiesta di terapia da parte di questi pazienti arriva frequentemente nei momenti di instabilità relazionale, quando spesso il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione è in comorbidità con altri disturbi, quali depressione, altri disturbi d’ansia o altri sintomi ossessivi, rendendo la diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione spesso difficoltosa. Secondo gli autori (Doron, Derby, Szepsenwol, 2014) il trattamento dovrebbe includere, oltre che un buon assessment, la psicoeducazione e l’identificazione e la messa in discussione degli schemi di pensiero e delle percezioni di sé disfunzionali, oltre che delle paure e difese legate all’attaccamento.

Attraverso la psicoeducazione, si aiuta a far comprendere al paziente il modello concettuale del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione e l’influenza dei sintomi sui processi decisionali. Risulta inoltre importante esplorare con il paziente l’impatto dei sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione sulla propria capacità di provare sentimenti, oltre che raggiungere un accordo sul fatto di posporre ogni decisione riguardo la relazione che si sta vivendo a quando i sintomi si saranno ridotti.

Riguardo la componente cognitiva del trattamento, vanno identificate e messe in discussione credenze maladattive tipiche del Disturbo Ossessivo Compulsivo, quali l’intollenza dell’incertezza, l’importanza dei pensieri, il perfezionismo, ecc. Inoltre vanno messe in discussione anche le credenze catastrofiche riguardo le relazioni (‘Se non sono sicuro della mia relazione, sarò infelice per sempre’, ‘Se mi impegno in questa relazione, poi non sarò più in grado di uscirne’, ‘Se lascio il mio partner, me ne pentirò per sempre’).

Esperimenti ed esposizioni comportamentali possono rivelarsi molto utili, come ad esempio elaborati scritti riguardo la paura del rimpianto e scenari temuti (come il matrimonio), ed esposizioni in vivo a siti e film che costituiscono fattori di innesco alle ossessioni da relazione (commedie romantiche, …). Importante risulta anche mettere in evidenza le conseguenze del forte monitoraggio dei propri stati interni, ad esempio attraverso esperimenti di monitoraggio dei sentimenti di vicinanza al terapeuta da fare in seduta.

Vanno inoltre esplorati con il paziente la paura dell’abbandono e il legame tra il valore attribuito a sé e la relazione con il partner, al fine di promuovere altre fonti di autostima. Inoltre, i sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione possono essere causa di conflitti, ma i conflitti stessi possono anche far scatenare dubbi ossessivi sulla relazione, pertanto può risultare utile anche un training sulle abilità di comunicazione e di risoluzione di conflitti mediante role playing.

Sempre in accordo con il paziente, si potrebbe pensare ad un coinvolgimento in terapia anche del partner al fine di valutare il rinforzo dato da quest’ultimo ai sintomi e proporre strategie per ridurre influenze reciproche dannose.

L’obiettivo della terapia non è salvare la relazione ma aiutare il paziente a ridurre i sintomi. La riduzione della sintomatologia spesso si associa ad una migliore comprensione dei propri sentimenti e ad un miglioramento delle capacità decisionali. In caso queste non migliorassero, viene suggerita l’introduzione di tecniche di problem solving e di strategie di decision making per aiutare il paziente a prendere importanti decisioni relazionali (Doron, Derby, Szepsenwol, 2014).

Guy Doron e colleghi, nella loro review del 2014, segnalano anche l’importanza di proseguire nella ricerca per migliorare la comprensione dei fattori associati al Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, anche perché molti degli studi fatti finora non sono stati condotti su campioni clinici.

Recentemente, Doron e il suo collega Guy Ilany hanno inoltre riferito di star lavorando all’elaborazione di un’innovativa applicazione che sia di aiuto nel trattamento dei sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione. L’app dovrebbe essere scaricabile da giugno prossimo e includerebbe 30 livelli riguardanti varie difficoltà presenti nel Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, quali dubbi sulla relazione, intolleranza dell’incertezza, perfezionismo, ansia nel prendere un impegno e imbarazzo.

Teoria del prospetto: come gli uomini prendono decisioni in condizioni di rischio – I grandi esperimenti di psicologia

#8: La teoria del prospetto: come gli uomini prendono decisioni in condizioni di rischio di D. Kahneman & A. Tversky (1979). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

I processi decisionali in economia e in psicologia

Nel 1978 Herbert Simon, psicologo statunitense, vince il premio Nobel per l’economia per le sue ricerche sui processi decisionali nelle organizzazioni economiche. Negli stessi anni, Daniel Kahneman, psicologo israeliano, si interroga assieme al collega Amos Tversky su come si modifichino i processi decisionali quando ci si trova in situazioni di rischio, fino ad avanzare la Teoria del Prospetto.

Fino ad allora la teoria comunemente condivisa è quella dell’utilità attesa, modello di scelta razionale usato per descrivere il comportamento economico dei soggetti, che sceglierebbero secondo la reale probabilità di ricavare un guadagno dalla loro decisione.

 

Decidere in un momento di rischio

I due psicologi tuttavia notano che questo modello non funziona nei casi in cui il soggetto è posto in condizioni di rischio, esponendo alcuni esempi. Ai partecipanti alla ricerca vengono proposti differenti dilemmi, riscontrando sistematiche trasgressioni al principio dell’utilità attesa.

Ad esempio, è stato chiesto di scegliere tra le seguenti possibilità:

  1. 50% di possibilità di vincere 1000; 50% di possibilità di non vincere nulla
  2. Un guadagno sicuro di 450.

I soggetti non considerano l’effettivo possibile guadagno derivato dal calcolo probabilistico. Gli studiosi colgono una regolarità che definiscono ‘effetto certezza’: i partecipanti, ne paragonare l’utile certo con quello probabile, sovrastimano il guadagno quando è sicuro, scegliendo nella maggioranza dei casi l’opzione B.

Oltre a verificare la preferenza dei soggetti in caso di guadagni, i ricercatori testano i processi decisionali coinvolti in caso di possibile perdita. Notano un comportamento differente da parte dei partecipanti, tanto da chiamare questo fenomeno ‘effetto riflesso‘: i soggetti preferiscono correre il rischio di una grossa perdita che è soltanto probabile, piuttosto che accettare la certezza di una più piccola perdita. Lo stesso principio – la sovrastima del dato certo – favorisce l’avversione al rischio quando si parla di guadagni e la ricerca del rischio quando ci sono in gioco delle perdite.

La teoria del prospetto:come gli uomini prendono decisioni in condizioni di rischio - I grandi esperimenti di psicologia Nr. 8-Tversky-Kahneman
Daniel Kahneman e Amos Tversky

I processi decisionali nella vita quotidiana

Questa scoperta viene analizzata dagli autori che elencano le diverse ripercussioni della Teoria del Prospetto in ogni attività della vita quotidiana. Le persone non riflettono razionalmente sulle reali probabilità di un evento, ma selezionano le informazioni in base a schemi individuali soggettivi, fino a determinare scelte differenti: i ricercatori definiscono questa modalità come ‘effetto isolamento‘. Ad esempio, una persona può investire i propri soldi in una attività con una probabilità di perdere l’intero capitale. D’altro canto, vi è la possibilità di guadagnare un fisso o di avere una percentuale sui guadagni. La certezza di un ricavo incrementa l’attrattiva di questa opzione, mentre non vengono considerate le alternative ugualmente probabili.

 

Due fasi dei processi decisionali nella Teoria del Prospetto

La teoria del prospetto, proposta dagli autori, descrive i processi decisionali composti di due fasi (1) il montaggio, ovvero la raccolta di informazioni e l’analisi delle diverse prospettive e (2) la valutazione dei diversi scenari possibili e la scelta di quella che rappresenta per il soggetto l’alternativa con il maggior valore.

Le scelte soggettive derivano quindi da operazioni di semplificazione, cancellazione e considerazione dell’influenza del contesto: la stessa persona può compiere scelte diverse di fronte allo stesso problema proprio a causa della presenza di un processo alla base poco scientifico e difficilmente ripetibile.

I ricercatori creano quindi una nuova equazione che consideri le diverse componenti emerse, ottenendo una formula maggiormente aderente ai reali processi di decision making. Questa equazione mostra una notevole applicabilità in diversi ambiti, tanto da far vincere a Daniel Kahneman il premio Nobel per l’economia, nel 2002, insieme all’economista americano Vernon Smith, per aver dimostrato come i processi decisionali dell’uomo siano guidati da euristiche e bias.

Si tratta del secondo psicologo ad aver avuto tale riconoscimento per il suo contributo alla scienza, dopo Herbert Simon, che aveva dimostrato proprio l’inefficienza del cervello umano nei processi di ragionamento e la conseguente tendenza a fare scelte soddisfacenti, ma non ottimali.

 

 

 

Autostima: che ruolo gioca nelle condotte di bullismo?

Pare che il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo, ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

Chiara Carlucci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Cosa si intende per bullismo?

La parola bullismo viene utilizzata con una gran frequenza, soprattutto nel contesto scolastico.

In effetti si tratta di un termine che è stato anche un po’ sovraesteso. Per tale motivo sarebbe opportuno fare una distinzione tra le semplici prepotenze e le condotte bullistiche, dato che, queste ultime, hanno delle caratteristiche ben precise.

La parola bullismo è la traduzione del termine inglese bullying, usato per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.

Tale terminologia è stata estesa nel 1978 da Olweus, il quale ha assunto l’idea che il fenomeno del bullismo fosse riferibile sia al gruppo, sia all’individuo.

Il bullismo è un comportamento antisociale, insidioso e pervasivo, con alcune peculiarità distintive:

  • L’ intenzionalità: il bullo mette in atto intenzionalmente dei comportamenti fisici o verbali con lo scopo di offendere l’altro, arrecandogli danno o disagio e di avere il controllo sugli altri (Gini, 2005);
  • La persistenza, ossia la ripetitività di comportamenti di prepotenza protratti nel tempo;
  • L’asimmetria di potere. La relazione tra bullo e vittima è infatti asimmetrica, fondata sul disequilibrio di forza tra il bullo che agisce e la vittima che non riesce a difendersi. La maggiore forza del bullo può presentarsi in diversi modi, ad esempio una maggiore forza fisica, abilità socio – cognitive, bravura nello scoprire i punti deboli della vittima (Gini, 2005).

 

 

Bullismo diretto e bullismo indiretto

Tale comportamento aggressivo può assumere forme differenti. È infatti importante fare una distinzione tra bullismo diretto e bullismo indiretto.

La prima forma può assumere modalità fisiche (colpire con pugni e calci, rubare o rovinare gli effetti personali di qualcuno), oppure modalità verbali (offendere, insultare, minacciare, umiliare, fare affermazioni discriminanti).

Per quanto riguarda invece le modalità di bullismo indiretto, queste sono rappresentate dall’esclusione sociale, la diffusione di pettegolezzi e calunnie e dall’isolamento della vittima dal gruppo di pari. Anche se meno visibile, è importante prestare molta attenzione anche alla seconda forma di bullismo, poiché comporta un attacco indiretto e molto più nascosto nei confronti della vittima (Menesini, 2008).

 

 

Perché si diventa bulli? Perché si diventa vittime?

Ma cosa induce un soggetto a comportarsi da bullo? E di contro, cosa determina che un soggetto sia vittima di episodi di bullismo?

Una serie di studi ha messo in luce che un buon concetto di sé aiuta bambini e ragazzi a ottenere dei successi, sia a livello relazionale che di rendimento scolastico (Marsh e all., cit. in Camodeca, 2008).

Per concetto di sé si intende la teoria che ognuno sviluppa riguardo a se stesso; si riferisce alla percezione e alla cognizione delle proprie caratteristiche, alle credenze riguardo se stessi, le capacità, le impressioni, le opinioni che ogni individuo pensa di avere  e che lo contraddistinguono dagli altri (Damon e Hart, 1982).

Il Concetto di sé è stato sovente affiancato al costrutto di Autostima, ma si tratta di due concetti ben diversi: il concetto di sé si focalizza sugli aspetti cognitivi del sé, su come ci si vede e ci si descrive nei vari ambiti della vita; l’autostima riguarda gli aspetti valutativi del sé, il valore che attribuiamo a noi stessi.

Tornando alla possibile relazione esistente tra condotte di bullismo e immagine di sé, una ricerca condotta nel 1998 ha messo in luce che un basso concetto di sé conduce alla vittimizzazione e che l’effetto di eventuali fattori di rischio è maggiore nei soggetti che hanno un basso concetto di sé e che si sentono inadeguati.

Ulteriori ricerche hanno indagato il concetto di sé in quei bambini e ragazzi che utilizzano condotte aggressive. E pare che questi mostrino un elevato concetto di sé, ma in realtà ciò non denota una buona immagine di sé, piuttosto un senso di narcisismo e un tentativo di sembrare ciò che non  si è. Nel caso dei bulli, per esempio, sembrerebbe che il comportamento prepotente da essi attuato sia efficace a fargli guadagnare potere, ammirazione e attenzione e, in questo modo, migliorare poi l’immagine di sé (Marsh e all, 2001).

 

Autostima e bullismo

Pare che anche il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo. Ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

La maggior parte degli studi condotti nel settore si trova concorde nel sostenere che i bambini vittime di bullismo soffrono di scarsa autostima, hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Menesini, 2000).

Capita infatti molto spesso che i bambini tiranneggiati dai compagni mettano in dubbio il proprio valore, precipitando in stati di ansia e frustrazione.

Essi talvolta diventano anche un obiettivo di attrazione per il bullo, in quanto non sanno come affrontarlo. Tendono a vedere sconfitte temporanee come permanenti e molto frequentemente accade che qualcun altro (psicologicamente più forte) prenda su di loro il sopravvento.

A differenza delle vittime, i bulli appaiono spesso caratterizzati da un’alta autostima. Sembrano molto ottimisti, e riescono quindi a gestire molto più facilmente i conflitti e le pressioni negative, ed è per questo motivo che riescono facilmente a coinvolgere dei seguaci nelle loro azioni di prepotenza (Menesini, 2000).

Una ricerca di Salmivalli del 1999 ha indagato l’autostima a 14 e 15 anni e i risultati hanno evidenziato che i bulli hanno un’autostima più alta della media, combinata a narcisismo e manie di grandezza.

Un ulteriore studio condotto da Caravita e Di Blasio ha evidenziato che i bulli sono solitamente dei soggetti popolari, e ciò ha portato le autrici a ipotizzare che la popolarità potrebbe condurre ad un innalzamento dell’autostima e all’adozione di condotte aggressive, in quanto il soggetto non avrebbe alcun timore di confrontarsi o di essere sanzionato dal gruppo di pari (Caravita, Di Balsio, 2009).

Comunque questi dati sono stati più volte smentiti, in quanto il fatto che i bulli percepiscono sé stessi come ben visti non vuol dire che essi realmente lo siano. Spesso accade che le persone che hanno un comportamento da bullo si mostrano come superiori e potenti, ma in realtà essi non pensano questo di sé stessi. Potrebbe accadere che i bulli usino il comportamento aggressivo solo al fine di spaventare gli altri bambini, e non perché vogliono essere rispettati (Randall, 1995).

Uno studio condotto su ragazzi di 12 e 13 anni ha messo in luce che in realtà i bulli non sono molto popolari, anche se sono sicuramente più popolari rispetto alle vittime (Salmivalli, 1996).

Luthar e McMahon (1996) pensano che la popolarità tra i pari sia collegata sia alla prosocialità che al comportamento aggressivo in adolescenza. I bambini aggressivi (bulli inclusi) tendono a sovrastimare le proprie competenze, e i bambini che sovrastimano la loro accettazione sociale sono spesso quelli più nominati dai loro pari come aggressivi.

I dati che supportano l’asserzione che i bulli hanno una positiva percezione di sé, ritengono che essa è spesso inconsistente. Per esempio Salmivalli (1998) ha trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda le relazioni interpersonali e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda l’ambito scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle emozioni (Salmivalli, 2001). È ciò che si verifica ad esempio quando il bullo è grande e forte ma colleziona continui insuccessi scolastici (Oliverio Ferraris, 2006). Dal medesimo studio è emerso anche che le vittime hanno bassi punteggi in quasi tutti gli aspetti dell’autostima. Vi sono comunque soggetti vittimizzati che hanno dimostrato di possedere una buona stima di sé, soprattutto in ambito familiare.

Un ulteriore studio ha investigato due ipotesi: un’alta autostima porta i bambini a mettere in atto pensieri antisociali (ipotesi dell’attivazione); un’alta autostima porta i bambini a razionalizzare le condotte antisociali nei loro confronti (ipotesi della razionalizzazione). I risultati supportano pienamente la seconda ipotesi, e solo in parte la prima. Ciò appare da un lato positivo, in quanto emerge che quei bambini che presentano un’alta autostima, pur non essendo molto popolari, riescono bene a razionalizzare le condotte antisociali. D’altro canto però, per quei bambini che hanno una tendenza verso l’aggressività, l’avere un’alta autostima potrebbe presentare un problema, in quanto contribuirebbe ad aumentare le loro condotte antisociali (Corby, Hodges, Menon, Perry, Tobin, 2007).

Ciò comunque non sempre è vero. L’avere un’alta autostima in preadolescenza gioca un ruolo molto limitato nello sviluppo di comportamenti violenti in età adulta (Boden, Fergusson, Horwood, 2007).

Una ricerca condotta da Marsh nel 2001 ha messo in luce che i fattori di aggressività scolastica e quelli di vittimizzazione sono associati a tre componenti del sé: autostima generale, relazioni con lo stesso sesso e relazioni con l’altro sesso. Più nel dettaglio, la vittimizzazione correla negativamente con il concetto di sé ed ha effetti negativi sullo sviluppo dell’autostima. Per quanto riguarda l’aggressività, essa correla ugualmente in modo negativo con il concetto di sé, e ha pochi effetti positivi sullo sviluppo dell’autostima. Un basso concetto di sé può quindi condurre a un comportamento aggressivo e alla vittimizzazione, e può successivamente avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima. Tali esiti sono indipendenti dagli effetti di genere (Marsh et al. 2001).

 

 

Conclusioni

In conclusione, le ricerche sono concordi nel sostenere che l’essere vittima di bullismo correla con la bassa autostima e potrebbe condurre ad un ulteriore declino della stima di sé nel bambino.

Meno chiaro è il ruolo che gioca l’autostima nel comportamento antisociale del bullo. Le correlazioni emerse dalle varie ricerche tra autostima e comportamento aggressivo sono poco concordanti.

Forse andrebbe analizzata l’autostima in tutte le sue componenti, e non solo in quei contesti relativi all’ambiente scolastico e al rapporto tra i pari. Potrebbe essere utile considerare l’autostima legata all’ambiente familiare, all’aspetto estetico e alle emozioni,  ma sono poche le ricerche che finora lo hanno fatto.

L’autostima del bullo resta tuttora un costrutto che andrebbe esaminato più a fondo al fine di poter prevenire qualsiasi comportamento antisociale, ma soprattutto per separare le cause dalle conseguenze.

 

Last Summer (2014): l’ultima estate di Naomi e Ken – Recensione del film

Last summer, opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli (2014), offre un racconto prezioso e poetico delle trame sottili di una relazione che, in fondo, appare semplice e istintiva: quella tra una madre, Naomi, e il figlio, Ken.

 

E’ possibile rafforzare un legame alle soglie di un addio?

Last summer, opera prima di Leonardo Guerra Seragnoli (2014), offre un racconto prezioso e poetico delle trame sottili di una relazione che, in fondo, appare semplice e istintiva: quella tra una madre, Naomi, e il figlio, Ken. Naomi (Rinko Kikuchi) è una giovane donna giapponese, che si trova ad affrontare una situazione paradossale: ha quattro giorni di tempo da trascorrere con suo figlio Ken di 6 anni, poi non potrà più vederlo per  11 anni. Ha perso la sua custodia a seguito del divorzio e dovrà trovare un modo per recuperare il legame spezzato trascorrendo con lui questi ultimi giorni, costretti sullo yacht del facoltoso padre di Ken e sotto l’ostile sorveglianza dell’equipaggio.

Del loro passato intuiamo una storia di conflitti, ferite e molti errori, ma non sappiamo molto di più. Naomi non vede Ken già da un po’ perché si è allontanata da lui e ha solo quattro giorni per ritrovare il loro legame, prima di affrontare la nuova separazione che li aspetta.

L’impresa appare da subito impossibile: la quiete, l’ordine e l’eleganza della barca su cui si gira l’intera pellicola, sono trappole suadenti che scoraggiano ogni tentativo di cambiamento. Ken appare un bambino sereno, intelligente, affettuoso e fiducioso verso l’equipaggio che è lì per proteggerlo. Gioca con la babysitter, si addormenta autonomamente, mangia con gusto, nuota senza paura dell’acqua alta, appare fin troppo educato e sicuro di sé. Esplora la barca con aria spavalda e indifferente alla presenza della madre.  Non sembra ascoltarla, non risponde alle sue domande e si allontana subito quando lei mostra di pretendere le sue attenzioni.

Solo quando incontra distrattamente lo sguardo di Naomi, la sua sicurezza inizia però a vacillare, il suo volto si fa cupo, i suoi comportamenti rigidi e stereotipati, forzatamente cerca gioco e distrazioni per riguadagnare in pochi attimi la spensieratezza perduta.

Naomi lo osserva molto, aspettando un varco in cui entrare, e oscilla silenziosamente tra rabbia e tristezza.

Il tempo è davvero poco e il controllo intrusivo dell’equipaggio ostacola la possibilità di ricreare un contatto autentico con suo figlio. L’equilibrio raggiunto è difficile da abbandonare e la barca ormeggiata vicino alla costa senza possibilità di navigare in mare aperto offre tutto sommato un rifugio sicuro a Ken.

E’ davvero necessario creare disordine? E’ davvero utile e importante riparare un legame che per Ken è stato fonte di dolore e sofferenza? I suoi dubbi sono i nostri, da spettatori  sembrerebbe facile e giusto rinunciare.

Ma Naomi è una madre e guarda più lontano. Guarda il mare immenso e improvvisamente l’orizzonte fuori da quella barca le offre nuove energie. Trema al ricordo degli errori commessi, ma sceglie con delicatezza e pazienza di tenere saldo il suo obiettivo: sa che recuperare quel legame sarà utile a Ken per crescere senza di lei e l’istinto di accudire e proteggere le permette di cambiare prospettiva. Non vuole lasciarlo di nuovo solo e pieno di rabbia e non si arrende di fronte al dolore del suo rifiuto.

Decide di andare avanti e riparare al danno fatto. Non sbaglierà di nuovo.

La danza dell’attaccamento ha così inizio, tra la ricerca di vicinanza di Naomi e i rifiuti di Ken. Il ritmo si fa via via più armonico, i silenzi vengono rotti da qualche sorriso, l’indifferenza di Ken diventa lentamente curiosità, i loro sguardi si cercano più spesso, lo spazio che li separa sempre meno ampio.

A poco a poco i comportamenti rigidi di Ken si fanno più morbidi e sinuosi, la sua impeccabile educazione viene macchiata dalla naturale disobbedienza di un bambino della sua età. L’ostentata sicurezza lascia spazio alla gioia che esplode all’improvviso e al pianto che accompagna i suoi ricordi.

Non è più necessario tenere sotto controllo le emozioni, Naomi è in grado di accoglierle senza aver paura e Ken può esplorare la loro relazione con una fiducia ritrovata, solida e profonda, che resterà dentro di lui e lo accompagnerà per sempre.

La scrittura della storia segue i silenzi e la lentezza del loro riavvicinamento con rispetto e sospensione, offrendo forse grazie al contatto con l’oriente, una soluzione magica ad un dolore che immaginiamo immenso. Ma in quella maschera tradizionale ricamata e lasciata in dono da Naomi, oltre alla magia, c’è la sicurezza indissolubile del loro legame di attaccamento: quella maschera non potrà garantire a Ken protezione assoluta dai pericoli del mare aperto, ma gli offrirà una solida base interiore per affrontarli con la fiducia e la forza necessari a navigare il futuro, comunque esso sia, con pienezza e vitalità.

 

LAST SUMMER: IL TRAILER DEL FILM

Il testimonial nel kid marketing: chi è e che funzione svolge

Le pubblicità rivolte ai più piccoli sono create ad hoc per impattare con forza sulla mente dei più piccoli e spingerli alla richiesta assillante dell’oggetto promosso dallo spot. Una delle strategie di Child Marketing sapientemente impiegate dai pubblicitari per persuadere i bambini è l’utilizzo dei testimonial.

Introduzione

Negli ultimi anni, il bambino sta diventando il perno centrale di un sistema di marketing completamente orientato su di lui. I bambini sono infatti il target privilegiato dei pubblicitari (Metastasio, 2007). Non solo partecipano in maniera sempre più attiva alle decisioni di consumo attraverso la diretta possibilità di spendere, ma sono considerati i maggiori influenzatori degli acquisti degli adulti (Mc Neal, 1992).

Per questa ragione le pubblicità rivolte ai più piccoli sono create ad hoc per impattare con forza sulla mente dei più piccoli e spingerli alla richiesta assillante dell’oggetto promosso dallo spot. Una delle strategie di Child Marketing sapientemente impiegate dai pubblicitari per persuadere i bambini è l’utilizzo dei testimonial. L’idea è che, le sensazioni positive evocate dal testimonial, l’aurea benigna che lo circonda possano poi essere “trasferite” al prodotto seguendo un “effetto spill over”, un condizionamento valutativo (Cortini, 2005).
Specialmente nelle pubblicità per bambini il ruolo psicologico del testimonial può giocare in maniera determinante.

 

Chi sono i testimonial delle pubblicità per bambini?

Fino ai dieci anni i personaggi-testimonial più efficaci sono soprattutto bambini ideali, cartoni animati, pupazzi, mentre dopo i dieci anni, avvicinandosi alla fase pre-adolescenziale, gli endorser più apprezzati sono celebrità mass-mediatiche di ogni genere, come cantanti, musicisti, sportivi, attori.

In particolare, il testimonial può essere:
1. un bambino ideale, ovvero un coetaneo solo un po’ più “perfetto” del bambino spettatore, in modo da sollecitare una forte identificazione e di conseguenza aumentare il coinvolgimento con lo spot;
2. un personaggio popolare che garantisce la riconoscibilità immediata del personaggio e la credibilità che lo distingue, in quanto già conosciuto e ammirato dai bambini.

Un tipico esempio è quello del brand dei biscotti Ringo che ha legato la propria immagine a quella di Stephan El Shaarawy, campione sportivo del calcio italiano amatissimo dalle nuove generazioni.
Non è raro che si utilizzino personaggi del mondo sportivo come testimonial di prodotti dolciari come snack e merendine; l’obiettivo è, non solo quello di favorire l’associazione positiva prodotto-testimonial, ma anche quello di riuscire ad associare al junkfood l’idea del sano, dell’energia, dell’essere salutare, a cui rimanda il mondo dello sport.
3. un protagonista dei cartoni animati. I personaggi dei cartoni animati hanno una potenzialità persuasiva straordinaria; godono di una forte riconoscibilità e il loro status di personaggi immaginari fa percepire le loro affermazioni come assolutamente disinteressate e quindi più credibili e affidabili.

 

Qual’è la funzione del testimonial?

L’utilizzo del testimonial cartone animato è una strategia diffusissima ed è resa possibile dai vari accordi e iniziative di marketing  partnership che permettono di utilizzare l’immagine dei personaggi più amati dai bambini e riproporla su qualsiasi prodotto.
Il bambino, essendo attratto dal personaggio-idolo, desidera e richiede tutti i prodotti che lo raffigurano, che siano connessi o meno al settore infanzia, come nel caso del maialino Peppa del cartone animato “Peppa Pig” (puggelli, 2002).

Talvolta i testimonial vengono creati ad hoc per il prodotto o il brand e sono pertanto facilmente riconoscibili e unici. Un classico è la mucca viola del cioccolato “Milka” ma anche Muumuu, la mucca con le macchie del budino “Cameo” o Coco la scimmia testimonial dei cereali“Cocopops”.
In questi casi identificare univocamente testimonial, spot, e prodotto crea un circolo virtuoso in cui l’affezione ed il goodwill verso uno solo di questi elementi si trasmette anche agli altri due.

Secondo Lombardi (2000) i testimonial possiedono delle particolari funzioni emotive, ed è possibile classificarli sulla base delle azioni che evocano e i valori a cui fanno riferimento:

– “Personaggio mamma”: le azioni evocate sono rassicurare, proteggere, guidare, e i valori sono quelli di sicurezza, affiliazione, amore. In questo caso si utilizzano le figure dei genitori, o figure animalesche come mucche e ippopotami; queste sono particolarmente efficaci sui più piccoli, perché rispondono al bisogno di protezione materno;

– “Personaggio compagno di gioco”: il fine in questo caso è il divertimento, l’intrattenimento; si richiamano le dimensioni del gioco, dell’avventura. Le figure più utilizzate sono i personaggi animati. I bambini sviluppano un senso di complicità con il personaggio e quindi poi con il prodotto.

– “Personaggio fratello maggiore” che ha il compito di aiutare a crescere, di insegnare, di incoraggiare. I valori evocati sono quelli della performance, del successo; in questo caso i personaggi testimonial sono esempi da imitare.

 

L’inconscio – Ciottoli di Psicopatologia Generale

L’inconscio è il trascendente dentro di noi. Fa parte di noi ma è diverso, talvolta opposto, sconfinato e mai del tutto esplorato. L’inconscio moltiplica le nostre potenzialità perché  è tutto quello che non siamo in realtà, tutto quello che avremo potuto essere e non siamo stati.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Inconscio e transcendenza

Uno dei concetti portanti della psicoanalisi è l’inconscio cui si deve, credo, gran parte del successo del medico viennese e dei suoi seguaci. Uno dei libri più straordinari che ho letto sulla psicoanalisi è appunto ‘La scoperta dell’inconscio‘ di Ellemberger, due volumi di Boringhieri che si divorano come un giallo.  Il sottosuolo, come lo chiamava un mio paziente, affascina ed incuriosisce perché è avvolto nel mistero e fa l’effetto di quelle trasmissioni che proliferano su tutti i canali promettendo rivelazioni ai confini della conoscenza(‘Mistero‘ di Roberto Giacobbo ne è il prototipo).

Questo interesse verso l’ignoto non è figlio della curiosità scientifica, di cui infatti non adotta il metodo, ma piuttosto il figlio orfano di Dio. Con la morte di quest’ultimo per mano dell’illuminismo (perlomeno in gran parte del mondo occidentale) e il fallimento storico delle grandi ideologie totalitarie del ‘900 il bisogno di trascendenza e di assoluto è rimasto senza fissa dimora, ma non i problemi cui cercava di rispondere.

Possibile che siamo destinati ad essere consapevoli di morire e veder morire i nostri cuccioli attraversando una vita senza senso? Chi può averci giocato uno scherzo simile? Che sia Dio, il progetto intelligente o il caso evoluzionistico è un vissuto cui pochi sembrano rassegnarsi. Allora che fare? Le molteplici soluzioni private sono state nella linea del fanatismo religioso per piccole sette o per particolari aspetti dell’esistenza (il fisico, la salute, la bellezza, il vigore fisico, l’alimentazione, lo sport o la stessa cultura) ma solo parzialmente soddisfacenti quando non ridicole.

Tornando al nostro tema, penso che l’inconscio abbia successo perché è il trascendente dentro di noi. Fa parte di noi ma è diverso, talvolta opposto, sconfinato e mai del tutto esplorato. L’inconscio moltiplica le nostre potenzialità perché  è tutto quello che non siamo in realtà, tutto quello che avremo potuto essere e non siamo stati.

 

 

L’inconscio nel lavoro clinico

Nel lavoro clinico, poi, l’inconscio è una vera e propria benedizione: tutto ciò che non è altrimenti spiegabile dal modello di funzionamento della mente è attribuito a lui e basta alla fine includere l’inconscio stesso nel modello che questo diventa omniesplicativo. Quando un modello del funzionamento mentale include l’inconscio riesce a spiegare qualsiasi comportamento, tutto e l’incontrario di tutto. Si raggiunge quella che Mario Rossi Monti chiama la conoscenza totale e che, però, nella tradizione psicopatologica assume il nome di delirio.

La conoscenza totale è esperienza affascinante e seduttiva al punto che Adamo ed Eva ci si giocarono un posto invidiabile. Nei momenti di smarrimento e confusione sia personali (pubertà, adolescenza, invecchiamento o drastiche fasi di passaggio della vita: lutti, fallimenti, disastri) che collettivi (crisi economiche, guerre, ecc) la sua attrattiva diventa irresistibile. Fu esattamente ciò che successe a me quando a 16 anni incontrai i meravigliosi libri di Freud. Amore a prima vista per una teoria che spiegava la sofferenza mentale ma anche l’organizzazione sociale, le grandi opere d’arte, la religione, le dimenticanze e i motti di spirito. Nulla restava fuori, tutto era una magnifica conferma. Furono necessari altri dieci anni, un overdose quasi mortale di psicoanalisi e l’incontro con i libri di Popper per  capire che una teoria che tutto spiega e non esclude nulla, non predice niente e tanto valeva rimanere attaccati alla fede.

Per questo fuggii dal mondo psicoanalitico per rifugiarmi nel razionalismo cognitivista in ciò assecondando le difese e le rigidità con cui ho imparato a cavarmela in questa vita. Ora, a distanza di tanti anni, si riscopre a partire da una impostazione rigorosamente scientifica ( Pankepp, Porges, Van dei Kolt) l’importanza di quel mondo sottocorticale che volevo ignorare e, orrore, persino del corpo che con le sue memorie implicite ha ragioni che la ragione non conosce.

Nuove tecniche di provata efficacia ( EMDR, Mindfullness) assediano noi fanatici del disputing e della ristrutturazione cognitiva da cui tutto a cascata ci piacerebbe seguisse. Più è presente la minaccia più ci si irrigidisce nelle proprie posizioni. Mi fa sorridere quando durante i corsi, nella foga del discorso, a me o a qualche collega scappa la parola inconscio o controtrasfert e subito verrebbe da scusarsi aggiungendo ‘con rispetto parlando‘ come facevano i nonni citando parti del corpo o funzioni dello stesso normalmente non esibite.

 

 

L’importanza di rivalutare il concetto di inconscio

Credo che sia utile una rivalutazione del concetto di inconscio a partire da una sua ridefinizione. Attenzione! Non è che in ambito cognitivista non ci sia stata una riflessione in merito, ma ritengo si possa fare di più e di meglio ed a questo questo ciottolo invita, perché è certo che abbiamo degli stati mentali evidentissimi agli altri che talvolta guidano il nostro comportamento di cui però non siamo consapevoli.

Da un lato si è riconosciuto che esistono una serie di memorie procedurali dove è registrato come si fanno le cose e che utilizziamo senza rendercene conto. Ma fin qui è un ovvietà che tutta una serie di processi, o la maggior parte, della nostra mente avvengano senza che ce ne accorgiamo e prendiamo atto solo del risultato finale.

Dall’altro c’è quello che Freud chiamava il preconscio, ovvero contenuti  potenzialmente accessibili sui quali non è momentaneamente posta l’attenzione ma che, senza grande sforzo possiamo focalizzare. Si tratta più o meno del dialogo interno di Ellis e dei pensieri automatici di Beck. Niente di sconvolgente da mettere in discussione  il modello della consapevolezza pervasiva.

Manca all’appello delle truppe freudiane l’inconscio rimosso il cui famoso ritorno ho sempre vageggiato  come un assedio  da parte degli zombies stile ‘The walking dead‘. Credevo che l’inconscio rimosso fosse più o meno quegli aspetti di me stesso (pensieri, desideri, emozioni) che non mi piacciono molto e tendo a non esibire e persino a nascondere a me stesso.

Però mi viene in mente un obiezione: ma se sono inconsci come faccio a dire che non mi piacciono e misconoscerli? Diciamo che so benissimo di averli ma non mi piace averli sempre davanti focalizzandoci l’attenzione (ad esempio quegli eventi esistenziali di cui non andate fieri o vi fanno proprio vergognare, li tenete in disparte ma sono accessibilissimi). Il  problema della necessita di consapevolezza valutativa sui contenuti che saranno rimossi è  presente pure per gli psicoanalisti e sfuma il concetto stesso di inconscio rimosso che appare una caratteristica mutevole nel tempo. Come se: prima si conosce e poi si rimuove, mentre in terapia si fa il percorso inverso e il rimosso torna ad essere consapevole. Ma se lo scopo della terapia è rendere conscio l’inconscio, una terapia che fosse davvero conclusa genererebbe un uomo senza più l’inconscio? Quell’uomo cognitivista tutto corteccia, razionalità e consapevolezza cui aspiro?

Sono del parere che se ne minimizzi la portata a ridurlo a ciò di cui mi vergogno con gli altri e con me stesso e la terapia ad un impietoso confessionale. Mi capita, invece, di recente di vedere altri (più facile) e me stesso (più difficile) agire in modo assolutamente coerente e spiegabile secondo un piano che tuttavia non riconoscono come proprio e non possono farlo perché non è un po’ diverso ma totalmente altro dal loro abituale modo di essere in cui sono le premesse stesse a mutare.

Il fenomeno clinico che più vi somiglia, ma qui non siamo in ambito patologico, è la dissociazione fino all’estremo delle personalità multiple come se convivessero nella stessa persona scopi terminali e piani esistenziali differenti che non comunicano tra loro  e si manifestano  in modo discontinuo. Proprio in quanto reciprocamente escludentisi non generano conflitti. Quando talvolta si presentano insieme il vissuto non è quello di scontro o lotta interna ma, piuttosto di incomprensibilità, di sorpresa. Da un punto di vista speculativo i concetti che più mi richiama sono due.

Il primo quello kelliano di polo sommerso di un costrutto centrale dell’identità. Attenzione, mentre il polo negativo è l’opposto del polo e, per quanto sgradito, è ben costruito nella sua negatività, il polo sommerso è indefinito, misterioso, una sorta di day after senza un preciso skyline. Proprio per essere totalmente ignoto è temuto più di un qualsiasi polo negativo  perché priverebbe la persona di qualsiasi prevedibilità su di sé.

Il secondo è il concetto junghiano di inconscio collettivo e in particolare di Ombra. L’ombra junghiana è intesa in molti sensi. In  modo riduttivo come Ombra personale molto simile all’inconscio rimosso di cui sopra oppure come funzioni e atteggiamenti non sviluppati nell’ottica dialettica dicotomica che risale a tipi psicologici. In modo più ampio e sovrapersonale (collettivo) come archetipo dell’alterità. Provo a tradurlo in un linguaggio per me più chiaro e utilizzabile.

Immaginiamo che potenzialmente l’essere umano sia  il risultato dell’evoluzione della specie e nulla gli sia estraneo. In lui c’è il massimo della potenzialità angelica e demoniaca allo stesso tempo (per considerare solo una delle innumerevoli possibili dicotomie che molti archetipi descrivono). Nel suo diventare persona (appunto etimologicamente maschera) si distacca dall’universale per diventare individuale. Ciò avviene in primo luogo rispetto alla sua famiglia e più in generale rispetto all’essere specie umana indifferenziata.

In questo processo privilegia alcuni modi di essere che lo caratterizzeranno e ne trascura altri. Con i primi si identificherà, saranno consapevolmente perseguiti e pilastri dell’identità. I secondi li condannerà o comunque proverà un naturale rifiuto ostile quando li scorgerà negli altri: forse in questo consiste l’antipatia viscerale. L’uomo nel diventare persona si distacca dalla specie cercando la sua strada unica ed originale. Ma la specie con la sua lunga storia è più saggia del singolo individuo.

Credo che il riattivarsi di tanto in tanto di scopi e piani esistenziali sorprendentemente inconciliabili con il piano dominante sia il modo con cui la saggezza antica della specie riequilibra la parzialità individuale. E’ una sorta di contrappeso che compensa le parzialità. Chissà  se  la sede dell’Io con la sua individualità e i suoi squilibri sia da collocare nei livelli superiori e recenti del cervello come la neo corteccia, mentre  il contrappeso riequilibratore non abbia a che fare con i sistemi arcaici  della base del cervello in quei sette sistemi  affettivi di base che promuovono la sopravvivenza individuale e della specie. Ai giovani il compito di approfondire il tema e indagarlo.

Se così, comunque, quando si manifesta uno di questi sorprendenti piani alternativi va ascoltato come un richiamo ad un maggiore equilibrio e integrato con quello dominante.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Elogio della lentezza di Lamberto Maffei (2014) – Recensione

Ecco che l’era analogica, il tempo in cui gli uomini hanno comunicato con la parola a distanza ravvicinata, si confronta con l’era digitale, in cui il tempo è scandito dalla rapidità e dalla frammentarietà della vicinanza, virtuale, e del linguaggio informatico.

[blockquote style=”1″]In un mondo che corre vorticosamente, con logiche spesso incomprensibili, il problema della lentezza si affaccia alla mente con prepotenza, come una meta del pensiero.[/blockquote] Ecco che mi perdo nella lettura di piccoli caratteri a forma di lettere che compongono circolari la forma di una lumaca sulla copertina di questo interessante libro, che sfoglio e compro!

 

Il funzionamento cerebrale e le potenzialità del pensiero lento

Affascinata dalla proposta che un’eccessiva prevalenza dei meccanismi rapidi del pensiero (‘pensiero rapido’ o digitale) possa comportare soluzioni e comportamenti errati, Maffei invita a riconsiderare le potenzialità del ‘pensiero lento’ basato principalmente sul linguaggio e sulla scrittura.
Riportando i risultati di ricerche recenti, che indicano il ruolo basilare delle reti neurali nella costruzione delle funzioni cerebrali, e sottolineando il contributo della plasticità cerebrale nella facilità di apprendimento e adattamento all’ambiente si evidenzia come, in un mondo che cambia vorticosamente, il nostro cervello geneticamente sia programmato per costruirsi, invecchiare e morire lentamente.

Non esiste infatti un recettore del tempo nel nostro cervello (come per l’udito, la vista, il tatto), e il concetto di spazio dipende in parte da esso. Il tempo è un’intuizione: ognuno sa cosa sia, ma al cervello risulta difficile spiegarlo. Esistono sequenze temporali di eventi, che sono alla base del pensiero razionale e che fanno capo all’emisfero sinistro del cervello, che nei destrimani è l’emisfero linguistico. Ecco che il linguaggio, costituito da una sequenza di eventi vocali distribuiti nel tempo, è mediato da un sistema lento, conscio, influenzato sia dall’evoluzione biologica/cerebrale sia da quella culturale. La plasticità infatti è la proprietà del cervello di cambiare funzionamento e struttura in relazione all’esperienza: proprietà fondamentale per l’elaborazione di risposte complesse e adattive, meno utile per risposte rapide/ automatiche, funzionali alla sopravvivenza, ma non sotto il dominio della volontà.

Quanto detto fa eccezione per l’intuizione: una risposta cerebrale rapida, che assume la dignità di ‘pensiero’ e che è in diretta connessione con il pensiero lento. L’intuizione, infatti, senza la verifica logico-razionale del pensiero lento resta sogno, non si concretizza in qualcosa che può esser trasmesso.

 

L’era analogica del passato vs l’era digitale del presente

Ecco che l’era analogica, il tempo in cui gli uomini hanno comunicato con la parola a distanza ravvicinata, si confronta con l’era digitale, in cui il tempo è scandito dalla rapidità e dalla frammentarietà della vicinanza, virtuale, e del linguaggio informatico (es. il T9). Emerge un cambiamento: lo strumento digitale induce un tipo di pensiero diverso sia dalle risposte rapide di sopravvivenza sia dal pensiero intuitivo, che salta dall’immagine alla conclusione. Il pensiero digitale si fa strada, grazie alla plasticità, modificando funzioni e strutture cerebrali (ad esempio si inizia ad osservare un’alterazione del sistema motorio, per un preponderante uso del dito indice), ma esso è stato inventato dall’uomo e fa parte dello sviluppo delle conoscenze. La costruzione di un linguaggio comune, di un cervello globalizzato, ricerca principale della società dei consumi, può produrre un’involuzione cerebrale: la tendenza a rendere automatici alcuni circuiti incide sulla spinta al consumo.

Attenzione quindi a come educhiamo i bambini (nei quali la plasticità è massima!): sono più sensibili degli adulti al richiamo consumistico. Ecco svelato dall’autore un importante paradosso della società contemporanea: la ricerca della globalizzazione può produrre un’involuzione cerebrale! È davvero un traguardo per la civiltà? Un saggio consiglio: FESTINA LENTE (affrettati lentamente), un motto latino attribuito ad Augusto, da Svetonio.

L’anoressia nella danza: il caso di Maria Francesca Garritano

Maria Francesca Garritano, ex ballerina alla Scala di Milano e autrice di “La verità, vi prego, sulla danza”, potrà tornare nel corpo di ballo dal quale era stata licenziata con accuse di diffamazione una delle accademie più rinomate a livello internazionale. La sentenza è stata stabilita dalla Cassazione che ha ritenuto ingiusta la “punizione” della direzione artistica nei confronti della ballerina.

La verità, vi prego, sulla danza mette sul piatto d’argento l’alta frequenza dei disturbi alimentari nelle allieve e nei professionisti, le pesanti umiliazioni e pressioni a modificare l’aspetto fisico per apparire sempre più vicini alla perfezione, la spinta ad oltrepassare i limiti, non importa a quale costo. Fenomeni senz’altro denunciati diverse volte, ma spesso soppressi o scambiati per fantasie prive di fondamento empirico. Tuttavia Maria Francesca Garritano non chiude un occhio e decide di farsi sentire all’improvviso, senza avvisare colleghi e superiori.

Una voce pagata a caro prezzo proprio perché, nel racconto, Maria Francesca Garritano tira in ballo la prestigiosa accademia per la quale lavora, che non è una qualsiasi ma l’Accademia del Teatro alla Scala, ricoprendola così di critiche amare, decisa una buona volta a ripulire lo sporco sotto il tappeto che comincia, a suo avviso, ad assumere dimensioni spropositate.

Successivamente alla pubblicazione, Mary Garret, come è stata soprannominata nel contesto artistico, riceve la notizia del licenziamento per aver messo in cattiva luce il buon nome dell’accademia che vanta riconoscimenti e prestigi internazionali, oltre ad aver “sfornato” rispettabili e illustri professionisti, tra cui Roberto Bolle, che si aggiudica uno dei primi posti nella classifica dei migliori ballerini non solo dell’Italia, ma addirittura del pianeta.

Le parole di Maria Francesca Garritano non esitano a suscitare un ventaglio di reazioni differenti: l’ex étoile Carla Fracci rilascia un’intervista in cui dichiara che una ballerina anoressica è incapace di danzare perché la fatica e l’impegno richiesto delle 8 ore giornaliere di allenamento sono insostenibili senza un’alimentazione adeguata, altri ballerini dell’accademia, al contrario, si dimostrano poco basiti di fronte alle rivelazioni della collega, appunto perché il fenomeno è sempre stato presente, ma il bicchiere è anche mezzo pieno, oltre che ad essere mezzo vuoto, e come non sono mai mancati casi simili, non sono mai mancati, d’altra parte, casi di colleghi che hanno condotto una vita artistico-professionale priva di psicopatologie o problemi psicofisici correlati all’esercizio della danza e al clima “organizzativo”. In sostanza, per alcuni di loro, è un evento che può capitare, ma non tutti reagiscono in quel senso. E qui verrebbe da chiedersi cosa fa la differenza.

Tuttavia, Mary Garret insiste nel dichiarare che alla Scala una ragazza su cinque soffre di anoressia, alcune di bulimia, molte non hanno più il menarca e patiscono una mole di problemi fisici che lei stessa ha affrontato, come dolori intestinali e fratture alle ossa attribuite alla danza. La donna continua il racconto illustrando le pesanti umiliazioni, gli insulti e gli scherni per “motivarla” a raggiungere la perfezione fisica, l’ideale estetico che, in un modo o nell’altro, nell’ambiente artistico, è spesso presente, anche se non sempre espresso, o meglio, affrontato apertamente.
Altri esempi, come il ricorso alla chirurgia estetica per ridurre il seno, sono veicolati per esprimere come, ancora una volta, le richieste siano esagerate ed opprimenti, ma soprattutto inevitabili.

Tralasciando i giudizi sulla veridicità e verosimiglianza del racconto della ballerina, è necessario riflettere sull’influenza di alcuni importanti fattori di rischio sollevati, come gli standard estetici rigidi e improntati su una perfezione irraggiungibile e le esasperate pressioni ambientali, sull’esacerbazione e mantenimento di notevoli psicopatologie, tra queste, in maggior frequenza, i disturbi della sfera alimentare e il dismorfismo corporeo, che manifestano la centralità dell’aspetto fisico nell’identità soggettiva e sottolineano un malessere allarmante che non deve essere inascoltato, soppresso o minimizzato.

Tra i fattori di rischio, però, non vanno considerati esclusivamente gli elementi ambientali appena discussi: non sono trascurabili i tratti di personalità improntati sulla ricerca ossessiva del perfezionismo, l’ipercritica, l’attribuzione interna/esterna, l’attività/passività, costruiti e sviluppati a partire dai legami primari di attaccamento e interagenti in modo complesso con l’ambiente circostante (Bara, 2005).
Rimane, ad ogni modo, fondamentale considerare la narrazione e l’attribuzione di significato personale agli eventi che, senz’altro possono essere supportati da un’alta frequenza di situazioni analoghe sperimentate in altri soggetti, ma dimostrano, ad ogni modo, una personale visione della realtà e di sé basata su una costruzione individuale (Guidano, 1992).

In altre parole è lecito chiedersi, fino a che punto il mondo della danza corrisponda realmente a questo ritratto e laddove una visione intrisa di fattori negativi possa riflettere una moltitudine di elementi che non si estendono solo ed esclusivamente all’ambiente esterno, ma anche, e soprattutto, alle parti di sé più intime e non riconosciute.
D’altra parte, però, le frequenti denunce dovrebbero porre una maggiore attenzione sull’effetto delle variabili contestuali, come gli standard estetici irrealistici e le continue pressioni ad innalzare il livello perseguite attraverso le denigrazioni e le umiliazioni, nella predisposizione allo sviluppo di varie psicopatologie.

Mamma uovo. La malattia spiegata a mio figlio (2015) – Recensione del libro

Il tema del libro è la difficoltà a dover comunicare la diagnosi inaspettata di una malattia tumorale: difficoltà perché a dover trovare le parole è una mamma che deve raccontare al figlio, ancora bambino, che non sta bene e che deve curarsi. E’ un cura per cui bisogna andare in ospedale, perché si tratta di una malattia particolare. 

 

Partiamo da una premessa: ci sono situazioni in cui nessuno di noi vorrebbe mai venirsi a trovare. E quando dico mai intendo proprio mai. Possiamo sicuramente considerare l’ammalarsi di una patologia tumorale una di queste situazioni. L’ho detto, non era il caso di girarci troppo intorno. Cosa può esserci di ancora più difficile? Doverne parlare. Su questo argomento, che molto mi sta a cuore, avevo, in passato scritto un’altra recensione, quella del romanzo di Tutto bene, signora. Anche lì uno dei temi portanti del racconto era una diagnosi inaspettata e la difficoltà di comunicare, di trovare le parole per condividere.

Stavolta le cose si fanno, se possibile, ancora più complesse, molto di più: perché a dover trovare le parole è una mamma, che deve raccontare al figlio, che è ancora un bambino, che la mamma non sta bene e che deve curarsi. E’ un cura per cui bisogna andare in ospedale, perché si tratta di una malattia particolare. Anche la cura è particolare. Capita che, dopo essere stata in ospedale, la mamma si senta peggio. E le cadono i capelli. Come è possibile?

Di tutte le situazioni possibili, quelle di dover spiegare a un bambino quello che succede è senz’altro un’enorme sfida. Ma queste cose possono accadere. Spesso gli adulti, addolorati per quanto succede, preferiscono tacere. Pensano, forse, che il bambino non capisca, che è meglio che non sappia, che il silenzio sia una forma di protezione.

Purtroppo, però, non basta non parlare per far finta che non sia succedendo niente. Al contrario, il silenzio può rendere le cose ancora più difficili per il bambino che non sa bene cosa sta succedendo, però vede gli adulti preoccupati, la mamma che non sta bene e non sa spiegarsi il perché.

Ma come si fa a spiegare ad un bimbo, magari al proprio figlio, una realtà così dura? E’ la domanda cui hanno cercato di rispondere gli autori di questo libro, che è un libro a misura di bambino, con tanto di (belle) illustrazioni del fumettista Sergio Staino. Gli autori sanno bene di cosa stanno parlando: sono un medico ematologo e due psiconcologhe, che lavorano presso il  reparto di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale Tumori di Napoli ‘G. Pascale’, e che hanno realizzato questo racconto per accompagnare il bambino nella sua esperienza, con dolcezza e rispetto per i suoi sentimenti e le sue paure.

Al piccolo protagonista viene spiegato che la mamma ha una malattia; lui la chiama ‘la malattia della mamma‘. La mamma gli dice che anche la mamma del suo amico Luca ha avuto la stessa malattia, ma ora è guarita. Così il nostro protagonista parla con Luca, che gli spiega che nel corpo  della mamma ci sono ‘cellule buone e cattive’, e che le cellule buone hanno bisogno di aiuto. Siccome le cellule cattive sono molto furbe, si nascondono vicino a quelle buone, così capita che anche quelle buone vengono colpite dalla cura. E’ per questo che la mamma è stanca e le cadono i capelli.

Come dice Luca:

La prima volta che l’ho vista senza capelli mi sono sentito strano. Guardandola bene la mamma aveva sempre la stessa faccia, ma un po’ più buffa. La sua testa sembrava proprio un uovo. – Ma poi aggiunge: Sei tanto bella anche così!

Di certo non basta un libro con illustrazioni per affrontare una situazione come questa. Però aiuta. Aiuta gli adulti e i bambini a confrontarsi su una realtà in cui nessuno vorrebbe mai trovarsi, ma in cui qualcuno, purtroppo, si trova. Aiuta a il bambino a sentirsi meno spaventato, meno solo e aiuta anche l’adulto che, forse, si sente un po’ più leggero. Perché, come viene detto all’inizio del libro citando Chesterton:

Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.

 

Metamorfosi della maternità nel cinema horror: evoluzioni e mutamenti dagli anni Sessanta ad oggi

Cosa ha a che fare il tema della maternità con il genere cinematografico dell’orrore? Apparentemente nulla. Tuttavia, i due elementi ci consentono di scoprire ed esplorare un interessante gioco di specchi psico-sociali e culturali, nell’evoluzione ideologica e clinica dell’essere madre dagli anni Sessanta ai giorni nostri.

 

Cosa ha a che fare il tema della maternità con il genere cinematografico dell’orrore? Apparentemente nulla.

I due elementi in questione potrebbero apparirci distanti, se non addirittura antitetici: da una parte l’amore e la generatività vitale, dall’altra una morbosa e forse un po’ masochista velleità di un certo tipo di pubblico di essere terrorizzato, attraverso svariate declinazioni di morte e ignoto. Tuttavia, andare oltre questa prima impressione ci consente di scoprire ed esplorare un interessante gioco di specchi psico-sociali e culturali, nell’evoluzione ideologica e clinica dell’essere madre dagli anni Sessanta ai giorni nostri.

 

Horror e maternità: Rosemary’s Baby

E’ nel 1968, con l’adattamento cinematografico del romanzo di Ira Levin ‘Rosemary’s Baby‘, che il genere horror si è indissolubilmente annodato al tema della nascita e della maternità.

Nel noto film di Polanski, dopo un concepimento rituale e orgiastico dai toni onirici e schnitzleriani, l’incantevole protagonista (Mia Farrow) porta a termine una gravidanza alquanto misteriosa. Ostaggio di una setta, venduta dal marito al demonio come fattrice in cambio di una brillante carriera di attore nella competitiva New York degli anni Sessanta, Rosemary si arrende a un amore materno privo di confini, che sfugge alla logica dicotomica morale di bene e male, finendo per soverchiarla: il mostruoso invasore, sconosciuto e ameno che la avvelena dalle fondamenta più viscerali, minacciando la sua stessa esistenza, si rivela comunque meritevole del suo amore. Molteplici interpretazioni e ipotesi della critica hanno voluto leggere in ‘Rosemary Baby‘ un’arguta e metaforica denuncia alle istituzioni di matrimonio e famiglia, in linea con il fervore dei moti femministi del tempo.

L’osservazione che a oggi si può muovere, utile a formulare paragoni tra il prima e il dopo di uno dei generi cinematografici più amati, nonché stimolante riflessioni di carattere psico-sociale in senso lato, è l’idealizzazione cieca della maternità. La madre prototipica di ‘Rosemary Baby‘, è un essere angelico, capace di amare il figlio anche qualora da ospite si faccia crudele invasore, mettendo in scena una mitizzazione dell’accudimento che va oltre l’amor proprio, il narcisismo, il desiderio e l’etica del bene sociale, rivelando, seppur in sottofondo un retaggio cattolico e perbenista.

 

Rosemary’s baby (1968) Trailer:

 

 

Diversità e colpevolizzazione della madre

Un altro tema che la cronologia hollywoodiana dell’horror ha implicitamente sviluppato è quello della colpevolizzazione materna per la diversità del proprio figlio conclamata come nefasta e malefica, pienamente in linea con la stigmatizzazione clinica della maternità operata in passato da alcune autori di psichiatria e psicoanalisi come Kanner, Sullivan, Bettelheim, Reichmann, intenzionati a trovare un nesso causale ad alcune forme psicopatologiche ancora insondabili persino a livello di vulnerabilità genotipica.

Da ‘Carrie‘ (De Palma, 1976), all’ ‘Esorcista‘ (Friedkin, 1973), fino al thriller psicologico ‘Psycho‘ (Hitchcock, 1960), il cinema del brivido ha messo in tensione e rieditato il dramma di una responsabilizzazione materna strutturale, cancellando strategicamente dall’intreccio di trama la figura paterna. Chi può essere imprescindibilmente colpevole della condizione demoniaca (o demonizzata) di un frutto se non la pianta che lo ha generato, specie se in assenza di altri fattori?

 

 

Maternità e Horror ai giorni nostri

Quello a cui possiamo assistere ai giorni nostri, sgranocchiando pop-corn dinnanzi agli enormi schermi dei multisala, sono ulteriori ed interessanti variazioni orrorifiche del tema della maternità.

Nel 2013 Guillermo del Toro porta sul grande schermo una creatura ancestrale, dal nome archetipico ‘La Madre‘, nel riverbero di echi non solo Junghiani, ma anche Freudiani, che rimandano al  Das-ding, ‘La cosa‘.

Sebbene la Madre non appartenga in modo definito né al mondo dei vivi, né al mondo dei morti ed il suo corpo si giochi a livello di immagine tra la consistenza dell’osso nudo e quella del fumo, al di là dei confini del sonno e della veglia, del dentro e del fuori, essa diviene metafora di una pulsione simbiotica che ingloba e mortifica la vita.

Nella narrazione, Madre si trova a proteggere e nutrire due bambine smarrite nella foresta, salvandole dalla violenza paterna. Così inizia il legame materno istituitosi tra le bambine e l’entità mostruosa, che non riverbera di alcuna tensione biologica; il nucleo di questa maternità è piuttosto, in termini Lacaniani, il brusio di una langue cantata, una ninna nanna ipnotica che porta le piccole a regredire e dimenticare il linguaggio parlato, a sospendere il tempo e gli anni che passano lungi dal resto del mondo. E’ messo abilmente in scena un accudimento istintivo, fatto di completezza simbiotica e primordiale, ostile a qualsiasi tipo di civilizzazione. In termini cari alla psicoanalisi lacaniana potremmo tradurre come godimento assoluto, un abbraccio troppo stretto che mortifica la soggettivazione della vita rifiutando la mancanza e la separazione, il taglio della civiltà e della cultura.

 

La madre (2013) Trailer:

Non a caso Madre torna a reclamare gelosamente le sue bambine una volta salvate e affidate a nuovi genitori, vietando loro di camminare in posizione eretta o di portare gli occhiali.

 

E se ‘La Madre‘ non fosse un’entità sovrannaturale che infesta una foresta innevata, ma abitasse inconsciamente e sottoforma di un primordiale istinto una donna come tante altre, con un mestiere come tante altre, in una casa come tante altre, con un bambino come tanti altri?

In tal caso staremmo vedendo un altro film: Babadook, di Jennifer Kent (2014).

Amelia, un’infermiera rimasta vedova, è mamma del piccolo Samuel, un bambino esternalizzante e poco inserito nel contesto dei pari.

Il caso porta tra le loro mani un misterioso libro per l’infanzia con protagonista il perfido mago Babadook, che terrorizza il piccolo Samuel al punto di sconvolgere il loro fragile equilibrio diadico. I muri della loro casa sono valicati metaforicamente e fisicamente: il bambino non riesce più nemmeno a dormire da solo per la paura e la privacy di Amelia, così come ogni possibile altrove materno, decadono in un precipizio melanconico. Sempre più nervosa, isolata ed impossibilitata a gestire il terrore del figlio, un lavoro stressante e il giudizio delle altre madri, la donna inizia a dare segni di squilibrio, passando dall’allucinosi alla violenza, fino ad una terribile ma salvifica scoperta: essere Babadook, essere l’uomo nero intenzionato ad uccidere il proprio bambino.

Conoscere l’istinto mortifero insito nella maternità stessa, porta Amelia a salvare se stessa e il figlio, al prezzo di un metaforico patto. Quello di nutrire Babadook periodicamente, tenendolo sottocontrollo nel seminterrato.

 

Babadook (2014) Trailer:

 

 

Il film risponde con un’invenzione allegorica alla Sindrome di Medea, complesso agito in numerosi casi di cronaca figlicida: l’unico modo per impedire la fagocitazione mortifera dei figli è poterla guardare, darle un nome, accettando le proprie parti oscure. Il mito performativo di una maternità perfetta e idealizzata è qui ritratto come il vero pericolo, qualora l’essere madre divori l’essere donna (Recalcati, 2015).

Sebbene la costellazione di fattori di rischio e protezione delineata da numerosi studi nella cornice della teoria dell’attaccamento identifichi un complesso sistema di variabili intergenerazionali e comorbidità psichiatriche come probabili predittori del passaggio all’atto figlicida (Barone et al., 2014), il cinema del brivido può costituire uno spunto di riflessione sempre florido ed interessante sul tema della maternità e del figlicidio nella società contemporanea. Cos’è una madre, infatti, se non il primo corpo, la prima voce, la prima pelle, con cui veniamo a contatto, indifesi e ciechi, come asserì Freud nel ‘Progetto di una Psicologia’?

Non incontreremo infatti niente di altrettanto miracoloso e traumatico in tutta la nostra vita, qualcosa altrettanto capace di oscillare in una costitutiva doppiezza, capace sia di accudire, sia di spaventare.

Alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività: un modello di mediazione multipla

La letteratura ha cercato in questi anni di definire la relazione presente tra alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività, con risultati che evidenziano la necessità di approfondire tale legame. La disregolazione emotiva predice agiti aggressivi negli autori di reato e nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità e media la relazione presente tra trauma subito e aggressività con o senza premeditazione. Per quanto riguarda l’alessitimia, gli studi hanno verificato la presenza di alti livelli di tale tratto in campioni di sex offender. Alti livelli di alessitimia predicono agiti aggressivi in un campione di veterani e mediano la relazione tra insicurezze nell’attaccamento e comportamenti violenti tra gli adolescenti.

Alessia Offredi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

L’aggressività

L’aggressività umana è una forma naturale e funzionale di azione volta a fronteggiare le avversità della vita quotidiana (Bushman & Anderson, 2001, Fonagy, 2003). Bandura (1983) fu uno dei primi autori a concettualizzare il costrutto dell’aggressività, attraverso la teoria dell’apprendimento sociale: egli afferma che l’individuo può apprendere il comportamento aggressivo subendolo o osservandolo in un ambiente in cui l’aggressività viene approvata.

Berkowitz (1993) amplia tale concetto analizzandone le componenti cognitive; l’autore ipotizza un modello a più livelli, in cui inizialmente all’evento che provoca rabbia il soggetto risponde con due possibili reazioni, flight or fight (fuga o attacco). Successivamente, ulteriori processi cognitivi intervengono allo scopo di attribuire significato all’evento e considerare le possibili conseguenze, determinando il comportamento effettivamente messo in atto dal soggetto. Kassinove e Tafrate (2002) ipotizzano che gli agiti aggressivi siano necessari a esprimere la rabbia: il soggetto che agisce in modo violento ottiene nell’immediato un rinforzo positivo, ad esempio il raggiungimento di un obiettivo in situazioni interpersonali.

Fonagy (2003) afferma che ciò che verosimilmente provoca reazioni distruttive e disfunzionali è il fallimento delle capacità di canalizzare e regolare l’aggressività. Comportamenti aggressivi non regolati possono tradursi in problemi cronici di gestione della rabbia, violenza sessuale, frequenti scoppi d’ira, o altro: per questo motivo diventa fondamentale individuare gli antecedenti di tali comportamenti, al fine di sviluppare strumenti di prevenzione.

La letteratura ha cercato già da tempo di identificare quali fossero i fattori predisponenti per forme maladattive di aggressività e si riscontra un certo accordo nell’evidenziare come tratti nucleari l’alessitimia, la disregolazione emotiva e l’impulsività (Loas et al., 2015; Nemiah and Sifneos, 1970; Taylor et al., 1997).

 

L’alessitimia

L’alessitimia viene definita come un disturbo della regolazione emotiva, caratterizzato da una difficoltà a identificare e descrivere le proprie emozioni, un’ideazione impoverita e uno stile di pensiero orientato all’esterno (Taylor et al., 1997). Senza un’adeguata comprensione dei propri sentimenti, la persona alessitimica rischia di non avere sufficienti risorse per comprendere la vera natura dello stato d’animo del momento e ciò che l’ha provocato: il rischio è quello di reagire negativamente a un’emozione indesiderata, creando conflitti tra sé e gli altri. L’alessitimia è stata correlata a ansia, depressione, abuso di sostanze, ed è risultata significativa nella patogenesi di disturbi psicosomatici (Honkalampeti al., 2001; De Rick and Vanheule, 2007; Kojima, 2012). Dal punto di vista concettuale, l’alessitimia può essere identificata come condizione di stato, quindi una condizione transitoria, che può essere correlata a fattori contestuali specifici, o di tratto, caratterizzanti l’individuo.

 

Alessitimia e disregolazione emotiva

Jenkins e colleghi (2014) affermano che proprio una scarsa consapevolezza delle proprie emozioni potrebbe essere alla base del tratto di disregolazione emotiva, ritenuto a sua volta responsabile di condotte maladattive volte a moderare la sofferenza soggettiva, quali i gesti autolesivi (Linehan, 1993).

Gratz e Roemer (2004) analizzano le diverse sfaccettature del costrutto di regolazione emotiva, delineando diverse componenti: (1) consapevolezza e comprensione delle emozioni, (2) accettazione delle emozioni, (3) capacità di controllare le emozioni negative e di agire in base ai propri obiettivi anche quando vengono provate emozioni negative, (4) capacità di utilizzare strategie di regolazione emotiva flessibili e adatte al contesto. Sebbene il concetto di disregolazione emotiva sia storicamente legato alle ricerche sul Disturbo Borderline di Personalità, ad oggi la letteratura considera i deficit nella gestione delle emozioni come fattore influente in differenti campi della psicopatologia, come ad esempio i disturbi dell’umore (Garnefski and Kraaij, 2006; Garnefski et al., 2001, 2005).

 

L’impulsività, la disregolazione emotiva e l’aggressività

Così come la mancanza di abilità di riconoscimento e riflessione sulle proprie emozioni, anche l’impulsività è riconosciuta come uno degli antecedenti dell’aggressività (Bousardt et al., 2015). Di fronte a una potenziale minaccia, l’individuo con un forte tratto di impulsività sembra non avere le risorse cognitive necessarie a valutare adeguatamente l’evento e identificare la risposta più adeguata. Al contrario, vi è un’alta probabilità che vengano messi in atto comportamenti aggressivi volti a proteggersi o a evitare il dolore.

Moeller e colleghi (2001) affermano che una definizione completa di impulsività dovrebbe considerare (1) la mancanza di considerazione verso le conseguenze negative del comportamento impulsivo, (2) una reazione rapida e non pianificata agli stimoli, prima di aver concluso un adeguato processo di raccolta di informazioni, e (3) la mancanza di considerazione per le implicazioni a lungo termine. Impulsività e disregolazione emotiva vengono talvolta sovrapposte o considerate l’una un’espressione dell’altra. Occorre tuttavia sottolineare che c’è una distinzione e non si tratta di concetti totalmente sovrapponibili: la disregolazione emotiva comprende difficoltà non totalmente afferenti all’area dell’impulsività. Allo stesso modo, l’impulsività non riguarda solo la reazione alle emozioni: lo strumento più diffuso per valutare il grado di impulsività, ad esempio, divide il costrutto in impulsività attentiva, motoria e da non pianificazione, sottolineando quindi la componente cognitiva di questo tratto.

 

Relazione tra alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività

La letteratura ha cercato in questi anni di definire la relazione presente tra alessitimia, disregolazione emotiva, impulsività e aggressività, con risultati che evidenziano la necessità di approfondire tale legame. La disregolazione emotiva predice agiti aggressivi negli autori di reato (Garofalo et al., 2016; Roberton et al., 2014) e nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (Scott et al., 2014) e media la relazione presente tra trauma subito e aggressività con o senza premeditazione. Per quanto riguarda l’alessitimia, gli studi hanno verificato la presenza di alti livelli di tale tratto in campioni di sex offender (Moriarty et al., 2001). Alti livelli di alessitimia predicono agiti aggressivi in un campione di veterani (Teten et al., 2008) e mediano la relazione tra insicurezze nell’attaccamento e comportamenti violenti tra gli adolescenti (Fossati et al., 2009).

Nello studio presentato, gli autori cercano di formulare un modello esplicativo che unisca i tratti analizzati separatamente in letteratura e ne verificano la validità su campione clinico e non clinico. Nel descrivere i risultati attesi, i ricercatori ipotizzano (1) la presenza di maggiori tratti di impulsività, alessitimia, disregolazione emotiva e aggressività nel campione clinico, (2) una correlazione tra i costrutti indagati in entrambi i campioni e (3) l’effetto di mediazione di disregolazione emotiva e impulsività sulla relazione tra alessitimia e aggressività.

Lo studio di Velotti e colleghi (2016) ha coinvolto un campione non clinico di 617 soggetti e un campione clinico di 257 pazienti in regime di ricovero successivo a una riacutizzazione della sintomatologia. Tra i pazienti, le diagnosi più comuni erano psicosi o schizofrenia (36.3%), depressione (20.9%), disturbi di personalità (13.4%). Ai soggetti sono stati somministrati questionari self report volti a indagare le variabili considerate.
– Toronto Alexithymia Scale (Bagby et al., 1994) – composto da 20 item, indaga l’alessitimia attraverso tre dimensioni: difficoltà a identificare le emozioni, difficoltà a descrivere le emozioni, pensiero orientato all’esterno.
– Difficulties in Emotion Regulation Scale (Gratz and Roemer, 2004) – analizza la presenza di difficoltà nella regolazione emotiva indagando tendenza a non accettare le risposte emotive, mancanza di consapevolezza e mancanza di conoscenza delle emozioni, mancanza di chiarezza emotiva, capacità di adottare strategie efficaci di controllo emotivo, capacità di perseguire i propri obiettivi quando si è a disagio, capacità di inibire comportamenti impulsivi.
– Barratt Impulsiveness Scale – 11 (Patton et al., 1995) – strumento utilizzato nella misurazione dell’impulsività, indaga tre aspetti del costrutto: impulsività motoria, attentiva e assenza di pianificazione.
– Aggression Questionnaire (Buss & Perry, 1992) – composto da 29 item, indaga la tendenza a reagire in modo aggressivo; si divide in quattro ambiti, aggressività fisica, verbale, ostilità e rabbia.
– Brief Symptom Inventory – sottoscala Depressione (Derogatis, 1975) – il Brief Symptom Inventory è una forma ridotta del più famoso Symptom Checklist–90-R. La sottoscala depressione indaga attraverso 6 item la presenza e la frequenza di sintomi depressivi nell’ultimo mese.

L’analisi dei dati ha confermato la prima ipotesi dei ricercatori, ovvero la presenza di valori significativamente maggiori nella popolazione clinica. Tale dato indica la presenza di maggiori difficoltà nel riconoscere e regolare le proprie emozioni, così una maggior tendenza a agire in modo impulsivo e aggressivo. Tutte queste variabili sono risultate nei due campioni correlate tra loro, risultato che ha suggerito la presenza di sovrapposizione tra i costrutti e la necessità di indagini più specifiche. Gli autori hanno quindi cercato di capire il peso delle variabili impulsività e disregolazione emotiva sul rapporto tra alessitimia e aggressività. Nel campione non clinico, l’alessitimia influiva significativamente sull’aggressività, ma il suo peso diminuiva quando venivano introdotti nel modello impulsività e disregolazione, che risultavano mediatori significativi di tale relazione.

Lo stesso modello è stato verificato all’interno del campione clinico, con la sola differenza per cui la disregolazione emotiva è risultato unico mediatore significativo del rapporto: anche l’impulsività interviene nel rapporto tra alessitimia e aggressività, ma non ha un ruolo di mediatore se considerata singolarmente. Gli effetti dei mediatori sono risultati piuttosto rilevanti: disregolazione emotiva e impulsività spiegano la maggior parte dell’impatto dell’alessitimia sull’aggressività in entrambi i campioni. Controllando tale modello per i sintomi depressivi raccolti, si nota che anche nel campione non clinico l’impulsività perde significatività, lasciando la disregolazione emotiva come unico mediatore del rapporto tra alessitimia e aggressività.

Infine, Velotti e collaboratori hanno ripetuto le analisi considerando le singole sottoscale degli strumenti utilizzati. Nella popolazione non clinica, emergevano come mediatori significativi la capacità di inibire comportamenti impulsivi, l’impulsività motoria e l’impulsività attentiva. Tra i pazienti i mediatori rilevanti sono risultati capacità di inibire comportamenti impulsivi e impulsività motoria.

I risultati ottenuti sono in linea con la letteratura precedente, evidenziando il ruolo dell’alessitimia sul comportamento aggressivo, ma specificano le variabili in gioco in maniera dettagliata. Nonostante non vengano analizzati rapporti di causalità tra le variabili analizzate, è possibile suggerire che persone con difficoltà a riconoscere e nominare le proprie emozioni potrebbero provare, in condizioni di stress, un’attivazione emotiva difficile da gestire. L’alessitimia potrebbe determinare la mancanza di risorse cognitive e affettive necessarie a regolare l’arousal e inibire agiti aggressivi.

I ricercatori ipotizzano per il futuro un ampliamento del campione clinico così da indagare eventuali variazioni nel modello all’interno di differenti categorie diagnostiche. In particolare, un riferimento specifico viene fatto alla popolazione con Disturbo Borderline della Personalità, in cui una buona parte della sofferenza psicologica viene attribuita alla presenza di difficoltà nella regolazione emotiva, provocando il ricorso a strategie di coping maladattive (Linehan, 1993).

Tra i limiti della ricerca vengono citati l’assenza di controllo sulla diagnosi della popolazione clinica (formulata dai singoli professionisti di riferimento dei pazienti) e l’utilizzo di questionari self report. Nel tentativo di offrire un modello esaustivo sugli antecedenti del comportamento aggressivo occorrerebbe inoltre considerare altri aspetti, come l’assenza di empatia o la tendenza a un atteggiamento manipolatorio e pianificare un disegno longitudinale in grado di cogliere nessi causali. Inoltre, nel lavoro esposto non sembrano essere considerati altri elementi, come psicopatia e rabbia di tratto, evidenziati come significativi nel determinare agiti violenti verso sé e gli altri (Swogger, M.T., et al. 2011).

I dati raccolti suggeriscono la promozione di un intervento centrato sull’aumento della consapevolezza emotiva e sulla regolazione emotiva e comportamentale, per contrastare possibili agiti aggressivi. Le difficoltà legate all’alessitimia e a possibili comportamenti aggressivi sono spesso trasversali alle diagnosi del DSM-5, tuttavia si potrebbero identificare alcune categorie diagnostiche in cui questi elementi sono maggiormente presenti, al fine di definire le possibili implicazioni cliniche dello studio. L’instabilità emotiva, ad esempio, è un criterio cardine per il Disturbo Borderline, insieme a una precaria immagine di sé, relazioni sociali insicure, aggressività e autolesionismo.

Uno studio del 2012 ha sottolineato che, nei differenti disturbi di personalità, soggetti con Disturbo Borderline tendono a gestire un altro sentimento negativo, la vergogna, proprio attraverso differenti forme di aggressività: verbale, passiva – razionalizzata, fisica e relazionale (Schoenleber, M. & Berenbaum, H., 2012). Le stesse categorie vengono utilizzate da pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità, comunemente caratterizzato da violenza e fonte di un forte allarme sociale.

Uno studio del 2009 ha indagato inoltre i correlati emotivi, cognitivi e fisiologici emergenti, in seguito all’induzione di rabbia, in un gruppo di pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità. L’obiettivo della ricerca era verificare se ci fossero differenze tra questi e pazienti con altre patologie o soggetti sani. I risultati hanno dimostrato che nel campione di pazienti antisociali si registra una maggior attivazione dal punto di vista cognitivo e fisiologico, che i ricercatori hanno interpretato come un arcaico meccanismo di preparazione alla lotta (Lobbestael, Arntz, Cima & Chakhssi, 2009). Entrambe le categorie diagnostiche considerate risulterebbero quindi eleggibili nei confronti di un trattamento che pone l’accento sulla capacità di riconoscere e definire le proprie emozioni, per poterle regolare e trovare alternative agli agiti aggressivi.

Trattamento della bulimia: le condotte di compenso

Per quanto riguarda le condotte di compenso (vomito, lassativi, diuretici, esercizio fisico) occorre chiarire con il paziente che l’astenersi da queste condotte è fondamentale per la buona riuscita del contratto terapeutico. Il trattamento cognitivo delle condotte di compenso è naturalmente ancora una volta centrato sull’accertamento e sulle credenze cognitive.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il trattamento di Fairburn per la bulimia: la funzione delle condotte di compenso (Nr. 11)

 

Interrompere le condotte di compenso durante la terapia

Il paziente attua tali condotte di compenso per le solite ragioni: per controllare il peso e l’aspetto corporeo e perché fa dipendere la propria esistenza, la soddisfazione di sé e il senso di realizzazione unicamente dall’aspetto e dal peso. Se il paziente manca di astenersi dalle condotte di eliminazione e compenso, si determina un rallentamento se non un blocco del processo terapeutico.

Sarà allora necessario informare il paziente che la sua collaborazione e motivazione al cambiamento sono indispensabili e che senza un impegno attivo volto a interrompere tali condotte una terapia efficace è impossibile. Ciò non implica affatto l’abbandono completo della cura: il terapeuta può continuare a ricevere il paziente, ma deve essere chiaro che, almeno per il momento, non si tratta più di terapia cognitiva ma semmai di supporto e consulenza, in attesa di potere ripartire nel momento in cui il paziente sarà più motivato. È importante che il paziente sia consapevole che la terapia è tecnicamente interrotta, anche se gli incontri con il terapeuta continuano.

È una fase di attesa in cui il terapeuta accoglie il paziente nella sua – ci si augura – temporanea difficoltà a cambiare. Ma non è terapia. Naturalmente la motivazione a interrompere i cicli abbuffate/condotte di eliminazione va rafforzata e alimentata attraverso l’analisi cognitiva di questi cicli. E quindi, ancora una volta, si sottolineerà l’importanza sproporzionata che il paziente riserva al controllo del peso e dell’aspetto corporeo e la dipendenza rigida della stima di sé da questo controllo. Ma la consapevolezza cognitiva non sempre basta. Occorre anche una forte motivazione personale.

 

Come astenersi dalle abbuffate

In questa fase, comunque, si possono suggerire alcuni accorgimenti comportamentali per aiutare la paziente ad astenersi dalle abbuffate. Vediamoli: 1) individuare cibi temuti (che vomiterò) e cibi rassicuranti (che posso tenermi in pancia); 2) ideare, insieme al terapeuta, una lista di comportamenti alternativi alle abbuffate o alle condotte di eliminazione e portarla sempre con me (possibili attività alternative: a) sport (attenzione però che l’esercizio fisico non costituisca attività di compenso); b) passeggiare con familiari, amici; c) farsi una doccia o un bagno; d) telefonare, far visita; e) musica).

È inoltre importante incoraggiare il paziente a riflettere sugli aspetti psicologici dei suoi episodi di abbuffata e condotte eliminative. Più precisamente, il paziente deve essere maggiormente consapevole del tempo mentale occupato da un impulso ad abbuffarsi o a vomitare. Il paziente inizia così a ragionare sui suoi stati d’animo anziché obbedire loro meccanicamente e ciecamente. Un impulso va ricondotto alla sua natura di episodio che per un breve tempo occupa l’intero spazio mentale ma che è destinato a scomparire altrettanto rapidamente. In tal modo può essere possibile disinnescare un episodio impulsivo.

 

Individuare i pensieri che precedono le abbuffate

Comprendere i pensieri che portano alle abbuffate significa anche riflettere sulle circostanze che accompagnano questi episodi, In genere si tratta di situazioni stressanti in cui il paziente si sente giudicato o peggio, escluso o emarginato. Scrivere nel diario i pensieri tra un pasto e l’altro e quando emerge il desiderio di abbuffarsi, rende il paziente più consapevole dei suoi problemi e anche delle possibili attività alternative, aiutandolo a gestire meglio l’impulso di abbuffarsi. Perché mi abbuffo? A che mi serve? Mi calma? Mi punisco? Mi gratifica? Mi distrae?

L’analisi cognitiva alla Ellis aiuta il paziente a capire che le abbuffate e le condotte eliminative non capitano a caso, ma in presenza di situazioni problematiche: 1) individuare il problema; 2) definirlo con esattezza come ostacolo per uno scopo a cui tengo; 3) elaborare delle soluzioni specifiche, evitando le genericità e descrivendo azioni determinate; 4) elencare i pro e contro di ciascuna soluzione; 5) scelta; 6) esecuzione. Il paziente va incoraggiato a intraprendere questa strada e a evitare di rifugiarsi in azioni ripetitive il cui unico obiettivo è procurarsi stati emotivi di anestesia, come appunto le abbuffate. Il paziente, insomma, va aiutato a comprendere che il desiderio di abbuffarsi può essere la spia di un problema da affrontare. Come? Col problem solving, appunto.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Stereotipi e pregiudizi etnici nei bambini: come si formano e come educare alla multiculturalità

Stereotipi: Le ricerche che riguardano la socializzazione etnica e le relazioni tra bambini di differenti culture sono iniziate da decenni e sono diventate molto numerose. Questi studi si rifanno a modelli che integrano vari costrutti della psicologia sociale, da quelli sull’identità sociale a quelli sul pregiudizio e favoritismo/discriminazione intergruppo. Negli ultimi tempi sono state condotte anche ricerche che hanno esplorato l’atteggiamento dei bambini verso le minoranze in relazione allo stile d’attaccamento.

Le prime ricerche su stereotipi e pregiudizi nei bambini

Viste le continue trasformazioni del nostro contesto date dai flussi migratori, i rapporti interculturali all’interno del sistema scolastico sono molto sentiti.

Le prime ricerche su questo argomento sono state condotte negli Stati Uniti, in cui la multiculturalità si è presentata molto prima che in Europa. Vari studi (Williams, Best e Boswell, 1975; Averhart e Bigler, 1997) hanno ottenuto risultati simili: sia bambini euro-americani che afro-americani presentavano un pregiudizio a favore di quelli euro-americani. Quindi anche i bambini appartenenti alla minoranza, benché avessero introiettato una identità etnica afroamericana, attribuivano maggiori caratteristiche positive ai loro compagni euro-americani. Inoltre da una ricerca di Russell, Wilson e Hall del 1992, si è visto come venissero considerati più belli, intelligenti e di classe sociale elevata gli afro-americani di carnagione più chiara, rispetto a quelli di carnagione più scura.

È stato riscontrato che non è solo il colore della pelle ad essere l’unico fattore che influenza gli atteggiamenti dei bambini. Un fattore che sembra essere molto importante è lo status sociale, di cui i bambini sono consapevoli già dai cinque anni d’età.
Anche da una rassegna condotta dalla Tomlinson (1983) emerse che i bambini preferivano i compagni del loro stesso gruppo già nella prima infanzia. C’è tuttavia da sottolineare che questo potrebbe non essere dovuto solo all’appartenenza etnica ma anche o soprattutto al comportamento dei bambini immigrati. Troyna e Hatcher (1993) fanno notare infatti che i bambini potrebbero scegliere o rifiutare i coetanei non solo secondo l’appartenenza etnica, ma anche per le modalità di comportamento; potrebbero quindi preferire un compagno non solo perché appartiene al proprio gruppo ma perché estroverso e loquace, mentre un bambino immigrato potrebbe essere escluso, ad esempio, in quanto timido e taciturno.

Dai cinque anni inizia a svilupparsi anche l’identificazione etnica, ossia il bambino inizia a riconoscere che condivide alcune caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali con altre persone. Lo sviluppo del senso d’appartenenza etnica avviene anche attraverso l’acquisizione delle pratiche, degli usi e dei costumi, della lingua, di schemi cognitivi e comportamentali tipici della propria cultura.
È stato constatato, tuttavia, che stereotipi e pregiudizi diminuiscono man mano che i bambini crescono, in particolare quando superano i sette anni (Abound, 1988). Un’ipotesi è che questo sia dovuto al superamento della fase dell’egocentrismo infantile, mentre un’altra ipotesi è che sia causato dal fatto che a questa età i bambini comprendono che la discriminazione sia socialmente indesiderabile. Questa fase è interconnessa anche con lo sviluppo dei concetti di uguaglianza e giustizia. Mentre fino ai cinque anni la giustizia è l’obbedienza all’autorità, dai sei agli otto anni il bambino sviluppa un concetto di giustizia basato sull’uguaglianza. I rapporti egualitari tra pari infatti portano a sviluppare la “morale della cooperazione”.

 

I fattori che influenzano stereotipi e pregiudizi nei bambini

Ci dovremmo chiedere quali fattori influenzano gli atteggiamenti interetnici dei bambini.
I maggiori sembrano essere la famiglia, i media e il contesto scolastico (Di Pentima, 2007).  La famiglia trasmette valori etici, norme e preconcetti rispetto all’alterità. È vero però che i bambini e soprattutto i ragazzi non aderiscono in modo acritico alle idee trasmesse dai genitori, ma le rimodellano adattandole ai propri scopi. Da ricerche recenti emerge un risultato interessante: non sono tanto gli atteggiamenti espliciti dei genitori ad influenzare le idee dei figli, quanto quelli indiretti. I bambini sono quindi più sensibili verso i comportamenti non verbali, alle risposte affettive dei genitori e ai reali comportamenti verso altre etnie, che non a quello che la famiglia dice esplicitamente (Castelli e Tomelleri, 2004).

Per quanto concerne la televisione, sappiamo che riveste un ruolo fondamentale nello sviluppo, nel mantenimento e nella trasformazione di stereotipi e pregiudizi degli individui (Graves, 1999). Secondo uno studio di Li-Vollmer del 2002 i programmi televisivi utilizzano principalmente individui caucasici, e se vengono inclusi membri di minoranze etniche, sono rappresentati con ruoli di scarso prestigio sociale e in modo conforme agli stereotipi del gruppo di maggioranza. Inoltre le informazioni che arrivano sui paesi del Terzo Mondo riguardano raramente buone notizie, e quando queste arrivano sono dovute a persone di etnia caucasica. La televisione dunque presenta solo alcuni aspetti della realtà. Questo fa in modo che si mantengano i pregiudizi già radicati nel contesto culturale d’appartenenza. Tuttavia c’è da sottolineare che, come ha evidenziato Mancuso (2001) questa influenza può venire controbilanciata da buone esperienze di interazione quotidiana interculturale.

Anche la scuola, grazie al confronto continuo con i pari, ha influenza sullo sviluppo dell’identità razziale e sull’avere o meno comportamenti discriminatori. Dutton, Singer e Devlin (1998) hanno confrontato tre gruppi di studenti: uno proveniente da una scuola mista, uno con bambini per lo più bianchi ed uno con bambini prevalentemente neri. Gli strumenti utilizzati sono stati il disegno della persona, il “picture test” e il test del concetto di sé. È emerso che i bambini con una maggiore identità etnica ma anche con una maggiore accettazione dei compagni di altre etnie sono quelli provenienti dal contesto misto; invece i bambini delle scuole non integrate hanno sviluppato una adeguata identità etnica ma non un buon livello di accettazione della diversità. Questo avvalora la cosiddetta Ipotesi del Contatto, ossia che ad un maggior contatto tra gruppi etnici diversi corrispondano rapporti con una minore presenza di stereotipi e pregiudizi.

 

Stereotipi e pregiudizi nei bambini e stile di attaccamento

Uno studio molto interessante condotto in Italia (Di Pentima, 2006) ha messo in luce l’associazione tra favoritismo verso il proprio gruppo e Teoria dell’Attaccamento. E’ emerso che i bambini italiani sicuri indicano gli amici, quelli che piacciono di più e quelli che piacciono di meno indipendentemente dal gruppo di appartenenza. I bambini ambivalenti ed evitanti preferiscono i coetanei connazionali. I bambini con attaccamento disorganizzato indicano che i compagni che piacciono meno sono quelli immigrati. Lo stile di attaccamento organizzato o disorganizzato sembra avere quindi degli effetti, in età infantile, sulle scelte amicali e sulla preferenza sociale. Chi ha un attaccamento sicuro dimostra fiducia negli altri, il che favorisce l’esplorazione di nuove relazioni e l’accettazione. Chi ha un attaccamento ambivalente ed evitante ha una rappresentazione di sé come vulnerabile e degli altri come inaffidabili. Chi ha un attaccamento disorganizzato ha una rappresentazione della realtà come fonte di pericoli, il che induce una forte ansia nel contatto interetnico.

 

Quali interventi per prevenire stereotipi e pregiudizi nei bambini?

Come potrebbero contribuire psicologi ed educatori per fare in modo di sviluppare delle sane relazioni interetniche, evitare l’emergere di conflitti e ostilità, alla cui base vi sono stereotipi e pregiudizi? Negli anni sono stati elaborati ed attuati diversi progetti, incentrati fondamentalmente su due linee di intervento:
La prima fa capo alla teoria del contatto, che ha individuato determinate condizioni affinché l’incontro tra individui di differenti realtà socio-culturali abbia successo: un clima sociale piacevole e gratificante, il coinvolgimento dei bambini in obiettivi comuni, che i membri siano dello stesso status sociale (Amir, 1976; Cook, 1984).
La seconda comprende alcune strategie che tentano di modificare i pregiudizi intervenendo sui processi cognitivi individuali. Ad esempio il Modello della Personalizzazione si basa sull’idea che il contatto per essere efficace debba promuovere interazioni il più possibile personalizzate (Brewer e Miller, 1984). Un altro modello è quello della Identità Sociale Distinta, che sostiene l’importanza che ciascun gruppo mantenga i propri confini: ai membri devono essere assegnati ruoli distinti, ma complementari, in modo che tutti i gruppi possano mantenere un’identità positiva all’interno di uno stesso contesto collaborativo (Hewstone e Brown, 1986).

Una strategia nota nel contesto scolastico è quella delle classi puzzle, ossia divise in gruppi di lavoro eterogenei di cinque-sei studenti. Si è fatta strada inoltre la metodologia della mediazione (sia quella linguistico-culturale che quella sui conflitti etnici), che può essere impiegata non solo a scuola ma anche nei quartieri e nelle comunità multietniche.
Alla luce delle nuove ricerche legate alla Teoria dell’Attaccamento un’altra strategia di intervento potrebbe essere quella di favorire, tramite vari strumenti, lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro tra genitori e bambino, in modo che il bambino divenga capace di instaurare relazioni soddisfacenti, equilibrate ed improntate sull’aiuto reciproco anche con bambini appartenenti a minoranze etniche.

Reduci e irriducibili: il dannoso aggrapparsi a un’idea fissa

Come può un’idea occupare un cervello per decenni, trasformare gli occhi in due fanali pieni di follia, ridurre la conversazione a un comizio, infastidire un incontro tra amici di sarcasmi astratti e immaginari contro i mulini a vento della politica o di quel che desiderate?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 23/04/2016

 

Perché si diventa degli irriducibili reduci di un’idea, di una fede, di un’ideologia, o anche solo di un amore? Cosa ci trasforma negli spietati sacerdoti di un’ossessione? Sostituire Dio con le idee sul finire dell’ottocento non sembrò inizialmente un buon affare, vista la vendemmia di ossessionati e di fanatici che saltò fuori dalla padella della morte di Dio per finire nella brace di trenta o quarant’anni di rivolgimenti rivoluzionari e guerre mondiali che insanguinarono la prima metà del ‘900.

Una simile esplosione di fanatismo non si vedeva dai tempi delle guerre di religione. Seguì la lunga stagione degli irriducibili reduci, gente capace di rimanere bislaccamente avvinta al cadavere di un’idea per decenni. In principio parve che fosse un problema solo dei missini, poi pian piano anche l’altra ideologia del ‘900, il comunismo, manifestò la sua natura di divinità vampira che succhiava il sangue dei suoi adepti e li trasformava in zombie.

Il tirassegno contro le due ideologie del ‘900 però alla lunga stufa. Non sono soltanto le idee politiche a ridurre il cervello in poltiglia. Le cronache sono piene di eterni amanti che la buttano in tragedia e in femminicidio, anch’essi con il cervello mangiato da un’idea di donna che non ammazzano mai, ammazzano semmai la donna in carne e ossa.

Altri si fanno spolpare le ossa e la mente da ossessioni complottistiche fino a ridurre i propri pensieri in bisbigli. Per non parlare del ritorno esplosivo del fanatismo religioso, che a questo giro colpisce l’islam ossessionato dalla furia ossessiva dell’innamorato respinto contro l’occidente o la modernità o quel che volete.

E però si torna alla politica. Un tempo erano i missini che facevano la figura degli eterni reduci, dei rottami mai rottamati di un passato indimenticabile. Si stava accanto a loro un po’ basiti, un po’ si discuteva con loro, un po’ no; che parlavamo a fare? Erano tipi che in fondo non c’erano mai, presi dal monologo interiore con la loro idea di cui erano follemente innamorati.

I comunisti furono inizialmente favoriti da un’apparente benevolenza della storia, poi la storia è andata da un’altra parte e anche loro sono diventati dei maschietti impazziti perché abbandonati dalla loro donna, gente che ti parla sempre della loro ossessione che nemmeno i testimoni di Geova, anch’essi immemoramente immersi in un monologo interiore con il quale è inutile discutere; si può solo non rispondere ai loro stimoli, alle frasi gettare là a offrire l’amo di una predica inascoltabile, importune come una telefonata pubblicitaria: ma chi vi ha dato il mio numero? No, meglio cambiare argomento.

Mettersi a parlare di rivoluzioni o di amori finiti è come fermarsi a parlare ai banchetti delle offerte umanitarie, non ti mollano finché non firmi.

Come può un’idea occupare un cervello per decenni, trasformare gli occhi in due fanali pieni di follia, ridurre la conversazione a un comizio, infastidire un incontro tra amici di sarcasmi astratti e immaginari contro i mulini a vento della politica o di quel che desiderate?

Il potere magnetico delle idee affligge molti disturbi mentali. Soffrono gli ossessivi, tiranneggiati dalle loro idee di pulizia e onestà; soffrono gli ansiosi, perseguitati dall’idea del pericolo e dell’incertezza; soffrono i depressi, martellati dall’idea della rovina e della perdita di senso; ma soprattutto soffrono i deliranti, catturati più di tutti dalla loro idea dominante: l’idea d’amore del delirio erotico, l’idea di persecuzione del delirio paranoide, l’idea di religione del delirio mistico.

Il pensiero che dovrebbe essere servo e specchio della vita ne prende il posto e finisce per succhiarne il midollo. E quando l’idea ha concluso il suo lavoro, la vittima finisce per diventare un reduce, il reduce di questo processo di vampirizzazione della vita, un corpo ridotto a zombie teleguidato da un’idea di cui si è perso il senso e lo stampo ma che continua a guidare individui ridotti a larve.

Sembrerebbe la sagra della cerebralità più astratta, il culto mistico del mentalismo più disincarnato e distaccato emotivamente. Eppure quanta emozione si cela dietro questa attitudine così incorporea: le idee sono adorate non solo perché danno senso al mondo, all’esistenza, ma anche perché in esse si cerca una comunione perduta con gli altri esseri, con gli altri nuovi credenti che venerano la divinità del pensiero. La speranza è trovare degli amici, di più, dei compagni, delle anime gemelle con le quali finalmente embricarsi come le dita di una stretta di mano, condividere una fede e consolarsi della sconfinata solitudine dell’esistenza.

Un tempo si riteneva che l’inghippo stesse nel contenuto delle idee. Ideologie troppo esplicative, visioni del mondo e filosofie della storia capaci di spiegare tutto e il suo contrario catturavano gli uomini nella rete di una non vita mentale. Per questa loro arroganza –si pensava- le idee finivano per inghiottire le vite concrete.

In questo modo però si riusciva a dare un perché alle ossessioni politiche, ma non a quelle d’amore, alle fissazioni più terra terra degli amanti respinti che trascorrevano e trascorrono vite intere nel ricordo quando va bene, o quando va male nello stalking. In realtà, non è l’ampiezza del contenuto che ci trasforma negli irriducibili cultori di un’idea; ci si può fissare anche per un dettaglio, un feticcio, un particolare.

È solo il restringimento dell’attenzione su un unico aspetto che crea la dipendenza mentale da un’idea e l’incapacità di abbandonarla. È solo la cristallizzazione dell’attenzione su un unico punto che ci trasforma in irriducibili reduci, in mostri monotematici e noiosissimi.

cancel