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Diagnosi di carcinoma mammario: strategie di coping per affrontare un corpo che cambia

La diagnosi di carcinoma mammario e dei trattamenti successivi, rappresenta un evento di crisi che sconvolge la vita di ogni donna e della sua famiglia suscitando un insieme complesso di reazioni emotive. La risposta iniziale alla diagnosi di cancro, può essere di incredulità e negazione transitoria; cui seguono paura, confusione, angoscia, rabbia, colpa, vergogna, tristezza, depressione e tendenza all’isolamento. 

 

La malattia è il lato notturno della vita,
una cittadinanza più onerosa.
Tutti quelli che nascono
hanno una doppia cittadinanza,
nel regno dello star bene
e in quello dello star male.
Preferiremmo tutti servirci soltanto
del passaporto buono,
ma prima o poi ognuno viene costretto,
almeno per un certo periodo,
a riconoscersi cittadino di quell’altro paese.

(Susan Sontag, La malattia come metafora)

 

L’impatto psicologico in donne con carcinoma mammario e strategie di coping

La diagnosi di carcinoma mammario e dei trattamenti successivi, rappresenta un evento di crisi che sconvolge la vita di ogni donna e della sua famiglia suscitando un insieme complesso di reazioni emotive. Il cancro può causare cambiamenti nel concetto di sé e nel proprio sistema valoriale con ripercussioni a livello emozionale. L’alterazione del concetto di sé ha delle implicazioni psicosociali causati dall’incertezza sui risultati dell’intervento, dalle aspettative per il futuro in termini di qualità di vita, strategie di adattamento e ridefinizione di sé nel rapporto con gli altri (Gordon D, 2002).

La risposta iniziale alla diagnosi di cancro, può essere di incredulità e negazione transitoria; cui seguono paura, confusione, angoscia, rabbia, colpa, vergogna, tristezza, depressione e tendenza all’isolamento. Spesso c’è anche la speranza di ottenere, dopo la guarigione dal tumore, una qualità di vita uguale a quella prima di contrarre la malattia, mantenendo l’indipendenza e l’esecuzione di normali attività quotidiane (Hollen et al., 2015).

In una fase iniziale di malattia, chiamata di shock o siderazione (pallore, tremore, sudorazione, tachicardia, agitazione), permane uno stato confusionale, di alterazione del senso del tempo, di stordimento, incredulità, in cui tutti gli sforzi sono finalizzati al controllo delle emozioni. In una seconda fase le reazioni più frequenti sono di ansia e paura, accompagnate spesso da rabbia, angoscia e un senso di abbandono. La gestione di questi vissuti potrebbe comportare evitamento emotivo, intellettualizzazione, catastrofizzazione e razionalizzazione. La razionalizzazione permette, infatti, una maggiore distanza dall’esperienza di malattia e crea l’illusione alla paziente di poter gestire l’ansia.

La maggior parte delle pazienti con carcinoma mammario, attraversano la fase dei trattamenti e delle cure con bassi livelli di ansia, manifestano una sintomatologia ansiosa solo nei momenti critici come la notte prima dell’intervento o il giorno prima della chemioterapia o il giorno dopo l’ultimo trattamento di radio o chemioterapia.

Terminato il periodo attivo dei trattamenti, la donna è lasciata col difficile compito di comprendere quanto successo e convivere con la sua nuova condizione; è la fase di elaborazione dell’evento malattia come parte della storia personale, in cui è necessario avvertire e interiorizzare il cambiamento. Tutte queste reazioni rientrano nel vivo del discorso psiconcologico, quando la persona utilizza e mobilita le proprie risorse che potranno comportare un adattamento alla malattia facendo fronte ai problemi legati alle modificazioni fisiche, psichiche, familiari e sociali.

 

Le strategie di coping alla diagnosi di carcinoma mammario

Nelle pazienti con carcinoma mammario sono stati identificati tre gruppi di strategie di coping a seconda che queste ultime siano orientate all’azione, al funzionamento emotivo e al funzionamento cognitivo. Nel primo gruppo rientrano pazienti che agiscono per non pensare, che si tengono impegnate con lavori, che coltivano le proprie passioni. Ricordare e condividere con altri la propria esperienza, è una modalità attiva che permette di gestire l’ansia e di arginare l’emotività. Le strategie di coping orientate al funzionamento emotivo si riferiscono a reazioni per ridurre o gestire lo stress provocato dal carcinoma mammario come ribellarsi, sfogarsi ed esprimere liberamente i propri sentimenti, oppure negarli e sopprimerli, rassegnarsi ed essere fatalisti, arrabbiarsi o prendersela con se stessi. Le strategie di coping orientate al funzionamento cognitivo centrano l’attenzione sulle abilità che permettono la focalizzazione del problema e la ricerca di soluzioni per gestire la malattia e le sue conseguenze. Analizzare varie opportunità, dissimulare o minimizzare, cercare un significato, reinterpretare positivamente l’evento, fare un piano e organizzarsi sono alcune delle strategie cognitive per aumentare il proprio senso di controllo.

Lazarus e Folkman (2006), hanno identificato diverse strategie di fronteggiamento in situazioni difficili. Si parla di stili di coping ossia diverse modalità comportamentali che la persona utilizza di fronte a eventi stressanti. Ci sono persone che agiscono con spirito combattivo, caratterizzato da atteggiamento di fiducia nelle proprie capacità di affrontare la malattia, livelli moderati di ansia e bassi livelli di depressione; altre mettono in atto processi di negazione/evitamento volti a minimizzare la malattia ed ad assumere un atteggiamento indifferente, altre persone possono essere costantemente in uno stato di allerta, una preoccupazione ansiosa caratterizzato da allarmismo, angoscia, ansia elevata, depressione fluttuante e ricerca parossistica di informazioni. Infine ci sono persone che agiscono con rassegnazione passiva, stoicismo, ed assenza di opposizione, bassi livelli di ansia, elevati livelli di depressione. Altre ancora vivono nella disperazione caratterizzata da sensazione di inutilità, di sconfitta, di impotenza, elevati sintomi di ansia e depressione.

Le persone che subiscono minor disagio presentano: atteggiamento attivo, propositivo, orientato alla ricerca di soluzioni più che all’autocommiserazione. Un coping attivo coinvolge i processi di problem-solving, modulazione e espressioni delle emozioni, ricerca di supporto sociale e spirituale (Skinner, Altman e Sherwood 2003). In contrasto sono associate al maggior rischio di morbilità psicologica, le donne con carcinoma mammario che presentano un atteggiamento passivo caratterizzato da sentimenti di impotenza e disperazione, rigidità, pessimismo, isolamento sociale, pensieri intrusivi e ruminazione.

I pensieri intrusivi sono collegati all’aumento del distress emotivo e al mantenimento di una sintomatologia ansiosa e/o depressiva. I pensieri intrusivi accompagnati da pensieri indesiderati e spiacevoli, immagini, ricordi, sono i sintomi più frequenti nelle persone con cancro (Mehnert, Berg, Henrich, e Herschbach, 2009) e peggiorano la qualità di vita. Coloro che hanno uno stile di coping depressivo oltre che vivere un senso di impotenza manifesteranno la paura della recidiva e che il cancro possa progredire (Simard, Savard, e Ivers 2010; Molina, Ceballos, Dolan, Albano e McGregor, 2015).

 

Il corpo che cambia e il suo significato

L’influenza del carcinoma mammario e/o del trattamento sull’aspetto corporeo possono comportare la perdita di parti del corpo, cicatrici e adattamento a protesi. Il corpo è un concetto molto esteso, inteso non solo in senso anatomico ma anche come relazione, emozione, sessualità, amore. È lo strumento principale di relazione, in continua interazione con l’ambiente; da questa interazione si costruisce l’immagine corporea, cioè la rappresentazione di sé stessi. Il corpo assume una centralità particolare sia per la sofferenza determinata da una patologia sia perché diviene metafora concreta di vissuti ed aspettative. Come documentato da Freud nel 1923, ‘[…] dal mondo delle percezioni emerge la percezione del proprio corpo […]’.

Il corpo di cui stiamo parlando è quello che sente, che vibra, che è carico di emozioni, che piange, che soffre o che gioisce. E’ il corpo che ciascuno di noi sperimenta direttamente nel mondo e nelle relazioni. E’ difficile riprendere ad amare quando il corpo che si abita è sentito come straniero (M. Foucault). Con l’espressione ‘immagine del corpo‘ si intende la propria immagine mentale, un atteggiamento verso la propria fisicità, un aspetto, uno stato di salute, un funzionamento normale, integrità e sessualità. È un concetto più vasto del sé, comprendente sentimenti femminili, attrattività, piacere del proprio corpo, come simbolo dell’espressione sociale e come essere nel mondo.

Schilder (1998), parla della ‘immagine del corpo che formiamo nella nostra mente, cioè il modo in cui il corpo appare a noi stessi‘, mettendo così in evidenza il concetto di immagine o rappresentazione mentale del corpo.

Quest’ultima introduce due aspetti cruciali: l’aspetto relativo alla percezione (che potrebbe non necessariamente corrispondere al corpo reale) e l’aspetto relativo alla valutazione del corpo percepito. L’immagine corporea diventa quindi: ‘l’immagine che noi abbiamo nella nostra mente della forma, della dimensione del nostro corpo e i sentimenti che noi proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del corpo‘ (Slade, 1994).

La nostra percezione definita da Schilder (1998), come ‘schema corporeo o immagine corporea‘, non è un fenomeno statico ma qualcosa che si costruisce, si struttura e si destruttura nel continuo rapporto col mondo. Non si tratta del mondo oggettivo, ma del mondo come è vissuto, che non si realizza solo a livello percettivo ma anche e soprattutto a livello emotivo. Lo schema corporeo si costruisce non solo sulla base delle sensazioni ma soprattutto mediante l’integrazione di queste sensazioni con i vissuti esistenziali ed emotivi del singolo soggetto. Se è vero infatti che non può costituirsi un Io senza un Tu, così non possiamo costruire la nostra immagine corporea senza l’immagine corporea altrui (Galimberti, 1983). Ogni sensazione contribuisce alla costruzione dell’immagine corporea. Un pensiero può influenzare il corpo, come anche l’immagine. L’immagine corporea viene distrutta e messa in pericolo non solo dal dolore, dalla malattia e da una effettiva mutilazione, essa viene distrutta e messa in pericolo anche da ogni profonda insoddisfazione (Schilder, 1998). Nell’immagine corporea si intrecciano indissolubilmente aspetti fisiologici e psicologici.

A tale riguardo si considerano le credenze globali e pervasive (schema) che determinano pattern di risposta a eventi interni o esterni (esempio ‘io sono un fallimento’). Uno schema è una struttura cognitiva che rappresenta la somma delle esperienze passate. Lo schema di immagine corporea è guidata dal processo di autovalutazione e dagli eventi contestuali. Il costrutto immagine corporea si basa sulla teoria dell’autodiscrepanza o percezione oggettiva/soggettiva della propria fisicità.

Higgins ha proposto la teoria dell’autodiscrepanza (1987) secondo la quale l’idea sul sè può essere concettualizzata come una relazione tra sè reale ed ideale. Il sé attuale o reale è basato sulla propria rappresentazione, le credenze che possediamo, mentre il sé ideale è una rappresentazione che si dovrebbe possedere. Entrambi risentono dell’influenza del sociale. Le discrepanze tra sé attuale e sé ideale inducono a vissuti di depressione, insoddisfazione, tristezza e frustrazione. Pensieri ed immagini automatiche in situazioni specifiche sono determinate dal cambiamento percepito, schema di sé, schema corporeo, presenza di discrepanze tra sé ideale e reale e attributi fisici.

Il problema nella propria immagine corporea deriva quindi da una marcata discrepanza tra aspetto percepito o attuale e i propri attributi fisici. Questa discrepanza porta a emozioni negative e disfunzioni comportamentali che interferiscono la routine quotidiana, l’occupazione e la qualità delle relazioni. Le persone sono generalmente motivate a far si che il sé reale corrisponda al sé ideale; la discrepanza tra queste rappresentazioni determina uno stato psicologico negativo (Higgins et al., 1985). L’ampiezza e la consapevolezza della discrepanza si collega all’intensità del sentimento cioè al grado in cui il singolo ritiene importante la discrepanza percepita (Higgins et al., 1986).

In altri termini, la discrepanza percepita può essere presente ma non causare problemi, se dal punto di vista della persona non è ritenuta importante, o al contrario divenire causa di malessere ed insoddisfazione. Chi ha già una buona percezione dell’immagine di sé e fiducia nelle proprie potenzialità fronteggia meglio il cancro. Percezioni negative di sé portano a insoddisfazioni nell’aspetto fisico, bassa percezione di femminilità, bassa integrità corporea, scarso interesse sessuale, difficoltà nel guardarsi nude. Quindi, quando la bellezza fisica delle donne viene compromessa dal carcinoma mammario o dal trattamento, lo stimolo del proprio valore corporeo si abbassa e la consapevolezza della propria possibilità di attrazione viene minacciata.

LEGGI ANCHE: Tumore al seno: come reagisce la coppia alla diagnosi

Il corpo accusa il colpo di Van der Kolk (2015) – Recensione

Van der Kolk descrive come il trauma sia ben osservabile nel corpo, nella postura, nelle espressioni, nei volti, nelle posizioni che assume il corpo nello spazio e da qui parte a citare e a valorizzare la terapia sensomotoria di Pat Ogden e Peter Levine; ci invoglia a studiare e a tenere ben presente gli studi di Maier e Seligman citando il celeberrimo esperimento sui cani, che mostra chiaramente come molte persone traumatizzate possono semplicemente rinunciare a fuggire, anche di fronte alla libertà, rimanendo bloccate nella paura che già conoscono.

Leni Ferraris

 

Introduzione

Bessel Van der Kolk ci accompagna in un viaggio scientifico regalandoci stralci della sua vita professionale a partire dalle esperienze di un giovane medico in specializzazione per arrivare a quelle dello psichiatra studioso e clinico dei giorni nostri. La particolare prospettiva da cui l’autore osserva i suoi pazienti denota un’apertura a tutto ciò che non è dogmatico, critica l’abuso di terapie farmacologiche e psicoterapeutiche come unica soluzione per il trattamento dei traumi, si affida alle sue numerosissime osservazioni cliniche supportate dagli studi più recenti presenti in letteratura e da bravo medico, racconta come l’ascoltare e il guardare con curiosità i suoi pazienti lo abbia portato a comprenderne la complessità e il bisogno di andare oltre le terapie che venivano proposte a partire dagli anni ’70 per curare i sintomi invalidanti presentati dai veterani reduci del Vietnam affetti da disturbo da stress post traumatico. Non si riesce a saltare neanche una pagina di questo libro, l’autore ci parla trasmettendo calore attraverso i suoi preziosi racconti di casi e di come quello stesso calore lo abbia trasmesso ai suoi pazienti.
Questo libro è uno strumento importantissimo per tutti i clinici, medici e psicologi, “vecchi” e “nuovi”, e non solo per chi si occupa di psicotraumatologia, perché i contenuti di questo importante scritto offrono innumerevoli spunti di riflessione clinica per la concettualizzazione di casi complessi e per pazienti multitrattati che non riescono a beneficiare delle terapie standard.

Il trauma ci riguarda! Eccome, il trauma ci impedisce di stare nel presente ed è questo l’aspetto cruciale nella gestione di sintomi importanti come il rimuginio e la ruminazione; M. Silvana Patti e Alessandro Vassalli, scrivono nell’introduzione all’edizione italiana: [blockquote style=”1″]L’individuo che non riesce a ingaggiarsi in un percorso esistenziale e progettuale, infatti, non può essere, come dice van der Kolk, un membro operativo ed efficace della società; società che di contro, finisce per non evolversi o assorbire e rimettere in atto l’aggressività e la reattività dei suoi componenti. Come ci poniamo, in quanto clinici, di fronte a tutto questo? Ci sembra di poter identificare la risposta a tale domanda tra le righe di questo libro importante e bellissimo; ed è una risposta che pare comprendere quattro parole chiave: competenza, responsabilità, curiosità, relazione.[/blockquote]

Ecco, la curiosità, un filo rosso che corre lungo le pagine del libro, la curiosità scientifica che porta a interessarsi all’importantissima fase della diagnostica differenziale, van der Kolk insiste sulla responsabilità che come clinici abbiamo nel porre una corretta diagnosi: [blockquote style=”1″]La chiave della guarigione si situa nella comprensione dell’organismo umano[/blockquote] e ancora l’autore, ponendosi con grande umiltà proprio di fronte a tale complessità dice [blockquote style=”1″]I miei manuali sono stati i miei pazienti.[/blockquote]

Sempre attraverso i suoi racconti, nelle sedute di gruppo con pazienti traumatizzati, ci offre una visione di semplice comprensione, ma che allo stesso tempo nasconde una profonda consapevolezza e frustrazione del clinico che non può davvero capire, fino in fondo, che cosa c’è nella mente di quegli esseri umani: dopo un Trauma, il mondo, di fatto, si divide in quelli che sanno e in quelli che non sanno.

 

Il trauma secondo van der Kolk

Van der Kolk descrive come il trauma sia ben osservabile nel corpo, nella postura, nelle espressioni, nei volti, nelle posizioni che assume il corpo nello spazio e da qui parte a citare e a valorizzare la terapia sensomotoria di Pat Ogden e Peter Levine; ci invoglia a studiare e a tenere ben presente gli studi di Maier e Seligman citando il celeberrimo esperimento sui cani, che mostra chiaramente come molte persone traumatizzate possono semplicemente rinunciare a fuggire, anche di fronte alla libertà, rimanendo bloccate nella paura che già conoscono.

Rispetto all’utilizzo della psicofarmacologia, l’autore fornisce dati aggiornati e statistiche sul consumo, la spesa e l’efficacia, affermando la forte necessità di integrare la psicoterapia con la medicina.

Ritornando all’importanza della diagnosi e della comprensione del funzionamento dell’organismo, l’autore ci invita a “…scrutare il cervello…”, “…ci mostra come in seguito ad un trauma sia possibile attraverso le nuove tecniche di brain imaging, osservare le differenze tra un cervello normale ed un cervello traumatizzato…”.

 

Il cervello emotivo e il cervello razionale

Nelle sue spiegazioni sul funzionamento del cervello si possono trarre degli ottimi spunti, non solo per noi clinici, ma anche per i nostri pazienti, che nella fase psicoeducativa possono certamente trarre un grande beneficio potendo immaginare cosa accade a livello organico nel loro cervello in seguito a un trauma. Van der Kolk dà una chiara spiegazione di ciò che avviene a livello organico nel “cervello emotivo”, cioè il cervello rettiliano ed il sistema limbico e nel “cervello razionale”, che comprende i lobi frontali; questi ultimi, ci spiega Van der Kolk, alla luce delle scoperte nel campo della neurobiologia, sono fondamentali per la comprensione del trauma, in quanto “sede dell’empatia” – la capacità di “sentirci in” qualcun altro; la scoperta sensazionale del gruppo di scienziati italiani fu quella dell’individuazione dei neuroni specchio, che uno scrittore paragonò a un “Wi-Fi neurale” che ci permette di cogliere non soltanto il movimento delle altre persone, ma anche lo stato emotivo e le intenzioni. L’autore ci parla della diagnosi da molti punti di vista, dalla raccolta anamnestica, agli strumenti standardizzati e alle discussioni accademiche con i suoi colleghi in merito alle differenze fra “diagnosi “ufficiali” e ciò di cui i pazienti soffrono veramente”.

Van der Kolk ha anche il dono di riuscire a spiegare i concetti più complessi attraverso delle metafore molto immediate: nel paragrafo “Identificare il pericolo: il cuoco e il rilevatore di fumo”, il cuoco rappresenta il talamo, un’area del sistema limbico, che mescola tutte le informazioni delle nostre percezioni sensoriali in una zuppa autobiografica e che ci dice che “questo è ciò che sta succedendo a me”; all’amigdala invece, assegna il ruolo del “rilevatore di fumo”, del pericolo, dell’allarme, che ci dice se quelle informazioni sono rilevanti o meno per la nostra sopravvivenza; e ce ne sono altre, molto interessanti, di metafore, che servono soprattutto agli psicologi per comprendere più a fondo il funzionamento di quel misterioso organo che è il cervello.

A quanto pare, dallo scritto di Van der Kolk, sembrerebbe che lui, i suoi neuroni specchio li abbia utilizzati a dovere per entrare nella mente dei suoi pazienti e ce lo dimostra con questa frase: [blockquote style=”1″]Non si deve per forza avere una storia traumatica per sentirsi consapevolmente impauriti a una festa con sconosciuti, ma il trauma ha il potere di trasformare il mondo intero in un raduno di alieni; [/blockquote] utilizzare l’espressione “consapevolmente impauriti” rimanda a tutto il corpus di studi che sostengono la centrale importanza dell’ imparare ad essere presenti a se stessi, nel qui ed ora; l’autore parla quindi del metodo Feldenkrais, ideato dal grande terapeuta corporeo, fino a citare il matematico Archimede, che pare che per spiegare il funzionamento delle leve, abbia detto: “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo”, che tradotto nelle parole di Moshe Feldenkrais, potrebbe essere: “ Non si può fare ciò che si vuole, se non si sa cosa si sta facendo” e a proposito di questo, l’autore si riallaccia al senso di agency, che troviamo spiegato in letteratura, come un tassello fondamentale per la costruzione di nuove parti del Sé e per il consolidamento dell’identità, iniziando appunto ad agire, inseguendo i propri scopi e desideri, essendo consapevoli di ciò che conta davvero per noi. Questo importante tassello che compone una terapia, viene costruito quindi proprio grazie alla consapevolezza, di cui attualmente la Mindfulness e le terapie sensomotorie, sono tra le più utilizzate ed efficaci tecniche per ottenere questo risultato.

Il trauma nell’età infantile

Questo libro parla anche dei bambini, perché è da lì che bisogna partire e van der Kolk non tralascia di citare Bowlby e i suoi lavori sulla base sicura: [blockquote style=”1″]Crescendo, impariamo a prenderci cura di noi stessi, sia fisicamente sia emotivamente, ma la prima lezione di cura di noi stessi ci viene impartita dal modo in cui siamo stati accuditi. I bambini i cui genitori costituiscono fonti di conforto e di forza affidabili hanno un vantaggio nella vita, una sorta di protezione contro il peggio che la sorte può riservare loro[/blockquote] ed anche in questo caso la fondamentale [blockquote style=”1″]https://www.stateofmind.it/tag/teoria-dellattaccamento/[/blockquote] viene raccontata, nella sua complessità, in un modo che rende ben chiara la relazione che sempre esiste tra un trauma di attaccamento e un disturbo mentale, parla del piano di sopravvivenza che i bambini traumatizzati sono costretti a mettere in atto per sopravvivere e che una volta adulti, dovranno pagare un prezzo altissimo per la negazione e l’evitamento che hanno messo in atto nel passato per preservare la loro vita.

Un intero capitolo è dedicato alla mente dei bambini, dove van der Kolk sostiene la proposta del suo gruppo di studio, non accolta dalla commissione del DSM 5 (come non fu accolta nemmeno all’epoca del DSM IV) di inserire nel manuale diagnostico il DTS (Disturbo Traumatico dello Sviluppo), e argomenta in modo preciso e puntuale, anche dal punto vista socio-economico, il perché farebbe davvero la differenza, una diagnosi di questo tipo.

Le terapie efficaci per l’elaborazione del trauma

Nella quinta ed ultima parte del libro, vengono descritte le numerose possibilità di applicare terapie efficaci e percorsi di cura (a partire dall’EMDR, fino all’arte-terapia, la mindfulness, lo yoga, la psicofarmacologia fino al neurofeedback) a cui uno psicotraumatologo competente dovrebbe poter fare appello, oltre alla[blockquote style=”1″] conoscenza specifica dell’impatto del trauma, dell’abuso e della trascuratezza, per aiutare a stabilizzare e calmare i pazienti, facilitare l’interruzione dell’intrusione dei ricordi traumatici e delle riattualizzazioni e riconnettere i pazienti con i loro compagni e compagne. [/blockquote]

L’autore spiega le tecniche partendo dal concetto di re-integrazione delle parti, della cruciale importanza dell’individuazione delle parti dissociate e di come grazie all’integrazione di molteplici tecniche si possa puntare al riconnettere le parti del Sé disintegrate.
Lascio anche nella conclusione parlare van der Kolk: [blockquote style=”1″]L’essenza del trauma è che è travolgente, incredibile, e insopportabile. Ogni paziente richiede che non si accantoni ciò che è normale e si accetti il confronto con una duplice realtà: la realtà di un presente relativamente sicuro e prevedibile, che vive fianco a fianco con un passato catastrofico e sempre presente.[/blockquote]

No, non è la BBC: vaccini, complottismo e cattivo giornalismo

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

 

“No, non è la BBC”. Cominciava così un tormentone della Banda Arbore e Boncompagni, ai tempi di “Alto Gradimento”, che continuava poi con “questa è la RAI, la RAI tivi”. Allora il tono era scherzoso, oggi è polemico. Il riferimento è alla trasmissione “Virus, il contagio delle idee”, in cui alcune persone note – sprovviste di qualunque titolo professionale o scientifico a parlarne – sono state invitate a esprimere le loro “idee” su un tema delicato e scottante come l’importanza o la pericolosità dei vaccini.

La domanda è: perché? Tra l’altro Red Ronnie, il principale accusato, è tristemente noto per affermazioni irresponsabili del genere. Difficile dire qual è la peggiore, anche se io voterei per questa:

E ricordo che su queste pagine abbiamo dato un giudizio scientifico della truffa stamina ben prima del giudizio del tribunale. Ma potremmo continuare a lungo citando le sue affermazioni sui virus: “ogni virus o batterio ha sua frequenza. Individuata la presenza, si mette in controfase frequenza e lo si elimina”. Oppure potremmo citare le sue affermazioni sulle scie chimiche.

Ma torniamo alla domanda: perché persone sprovviste di qualunque titolo professionale o scientifico sono state invitate a esprimere le loro “idee” su un tema delicato e scottante come l’importanza o la pericolosità dei vaccini? La domanda andrebbe posta a Nicola Porro, conduttore della trasmissione, un giornalista professionista, non la presentatrice-attrice-subrette che spesso vediamo esercitare “abusivamente” questa professione. In effetti è stata posta, ma la sua risposta – “…ritengo che la puntata sia stata equilibrata, abbiamo messo a confronto due alfieri con posizioni opposte, come Red Ronnie e Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Coscioni” – non credo sia soddisfacente.

Allora proviamo a trovarne noi una migliore. La trasmissione si chiama “Virus, il contagio delle idee”; vuole dichiaratamente mettere a confronto varie idee e opinioni, in modo equilibrato. In politica questo va sotto il nome di par condicio, diritto alla replica, sentire tutte le campane ecc. Quando si parla di temi politici, di valori, di visioni del mondo, di filosofia ed etica tutto questo ha perfettamente senso. Il confronto tra idee è il sale della democrazia. Quando, però, si entra nel campo della scienza tutto questo diventa un non-senso. La scienza moderna, dai tempi di Galileo, non è opinion based, non si basa su opinioni, è evidence based, cioè si basa sui fatti, sulle evidenze…

 

No, non è la BBCConsigliato dalla Redazione

Quando si parla di temi politici, di valori, di visioni del mondo, di filosofia ed etica tutto questo ha perfettamente senso. Il confronto tra idee è il sale della democrazia. Quando, però, si entra nel campo della scienza tutto questo diventa un non-senso. (…)

 

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“Stiamo Fuori 2016”: il Festival della Psicologia torna a colorare le piazze di Roma

Festival della Psicologia 2016 a Roma – COMUNICATO STAMPA

Dopo il successo dell’edizione2015,  l’Ordine degli Psicologi del Lazio ripropone il 23 -24 maggio la sua due giorni dedicata alla “scienza della mente”, organizzata con il patrocinio del Ministero della Salute. Molte le novità: supporti didattici, giochi di ruolo, esperimenti e consulenze gratuite per conoscere meglio se stessi e valorizzare al massimo le proprie risorse. Appuntamento in piazza San Silvestro, piazza del Popolo e piazza della Repubblica  dalle 10 alle 21.  

Roma, 23 maggio 2016. Dopo il successo dell’edizione 2015, capace di richiamare oltre undicimila appassionati e curiosi, torna “Stiamo Fuori”,  il “Festival della Psicologia” organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio per fare conoscere al pubblico, in modo originale e interattivo, le numerose risorse offerte dalla scienza della mente. L’evento di quest’anno, organizzato con il patrocinio del Ministero della Salute, si concentrerà il 23-24 maggio in tre piazze della Capitale, distinte per aree tematiche: piazza San Silvestro(perinatalità e scuola), piazza del Popolo(alimentazione e cronicità) e piazza della Repubblica(lavoro e sport).

In queste location i gazebo dell’Ordine, aperti dalle 10 alle 21, offriranno ai cittadini un’ampia gamma di opportunità conoscitive e ludiche per famigliarizzare con la psicologia: sarà possibile fruire di supporti didattici inediti; accedere a simulazioni, attivazioni e giochi di ruolo; prendere parte a test ed esperimenti scientifici; confrontarsi sui propri obiettivi, di vita o di lavoro, con la consulenza di specialisti accreditati. Tutti coloro che prenderanno parte all’edizione 2016, poi, avranno  diritto a un voucher – scaricabile all’indirizzo http://www.festivalpsicologia. it/psicologi-aderenti/ – per una consulenza psicologica gratuita, eventualmente convertibile in un percorso di terapia a tariffa agevolata.

Il Festival 2016 intende trasmettere un’idea di “circolarità” di esperienze,  relazioni, conoscenza. A questo scopo, l’Ordine degli Psicologi del Lazio ha realizzato sei e-book ricavati dai principali spunti emersi nell’edizione 2015, finalizzati a rendere ancor più coinvolgente l’esperienza dei partecipanti. I testi possono essere scaricati gratuitamente sul sito della manifestazione (http://www.festivalpsicologia.it/sezione/ebook/).

Ciascuna location, come detto, si focalizzerà su ambiti specifici. In piazza San Silvestro, le attivazioni riguarderanno la perinatalità e la scuola: i neo-genitori potranno ricevere informazioni sul comportamento del bambino e sulle scelte da adottare nei suoi primi mesi di vita, mentre chi ha figli più grandi verrà consigliato su come motivarli e indirizzarli nello studio. In Piazza del Popolo, si parlerà di alimentazione e cronicità: accanto all’ampio ventaglio di temi connessi al rapporto con il cibo, si approfondiranno le questioni legate allo stress correlato agli stati di malattia. In piazza della Repubblica, infine, verranno toccate le problematiche connesse al lavoro e allo sport: chi vorrà potrà acquisire indicazioni sulla valorizzazione del proprio curriculum e delle proprie competenze, sulla formazione professionale, sulla risoluzione delle principali criticità della vita lavorativa. Gli sportivi, invece, avranno accesso alla gamma di soluzioni utili a migliorare la performance e sperimentare il “Biofeedback”: uno strumento d’avanguardia utilizzato dagli atleti professionisti per la valutazione dello stress, basato sulla misurazione di particolari parametri psicofisiologici.

“Dopo la grande partecipazione del 2015 – spiega Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – abbiamo deciso di prolungare l’orario della manifestazione e predisporre ancora più strumenti per l’interazione con i visitatori. Inoltre, abbiamo realizzato dei prodotti digitali gratuiti  utili ad accrescere il valore del confronto con gli specialisti. Insomma, come e più che nella passata edizione, mostreremo ai cittadini, concretamente, in che modo la psicologia può contribuire al loro benessere, migliorando su diversi versanti la qualità della loro vita”.

Nonostante sia appena alla seconda edizione, il  Festival della Psicologia è già un appuntamento molto atteso dagli appassionati e dai curiosi della disciplina. La moltiplicazione degli appuntamenti con il pubblico negli ultimi dodici mesi ha avviato un percorso che si arricchirà in futuro di altre occasioni di incontro e sperimentazione. Tutte le informazioni sull’iniziativa sono consultabili sul sito ufficiale (http://festivalpsicologia.it/) creato appositamente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio (http://www.ordinepsicologilazio.it/).

 

Giuliano Lesca

Addetto stampa Ordine degli Psicologi del Lazio
Via del Conservatorio, 91 (00186) Roma
Tel.: 06 36002758
Cell: 327 3290946
[email protected]

Trattamento del dolore cronico con la CBT: quando il corpo incontra la mente (razionale)

Il dolore cronico risulta fortemente correlato ad aspetti di natura emotiva e cognitiva – legame riscontrato anche in studi con risonanza magnetica funzionale – la cui regolazione può contribuire significativamente a un esito terapeutico più favorevole nel trattamento del dolore cronico.

Mauro Grillini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Il dolore cronico: cos’è?

Con il termine dolore cronico, si fa riferimento a un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata o meno a danno tessutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di un simile danno (IASP, 1994), che perdura per più di tre mesi dall’evento scatenante. Tale esperienza può non essere direttamente collegata all’origine del disturbo e si caratterizza per importanti conseguenze sulla qualità di vita della persona: riduzione delle autonomie personali, alterazione delle abitudini sociali e lavorative, insonnia, tendenza all’isolamento, oltre che comorbilità con sintomi ansioso-depressivi (IASP, 2010), se non con veri e propri disturbi clinici (Mc Williams, 2003).

Nonostante la pratica medica corrente focalizzi la propria attenzione diagnostico/terapeutica quasi esclusivamente sulla componente somato-sensoriale (Fanelli, 2012), il dolore cronico risulta fortemente correlato ad aspetti di natura emotiva e cognitiva (Hanscom et al., 2015) – legame riscontrato anche in studi con risonanza magnetica funzionale (Eisenberg et al., 2003; Woolf, 2011) –  la cui regolazione può contribuire significativamente a un esito terapeutico più favorevole nel trattamento del dolore cronico.

Numerose sono, infatti, le evidenze che suggeriscono il potenziale ruolo della CBT nel trattamento del dolore cronico (Turner, 2007; Hoffman, 2007; Rundell, 2010; Carpenter, 2012; Hoffman, 2012); alcuni autori, tuttavia, segnalano difficoltà in letteratura nell’identificare puntualmente i meccanismi specifici alla base del suo funzionamento ( Williams et al., 2012), e nel distinguerli da quelli elicitati dagli approcci di terza ondata (Cederberg et al., 2016)  in modo da ottenere indicazioni terapeutiche accurate e applicabili in contesti clinico-ospedalieri.

 

 

Trattamento del dolore cronico con la CBT: le aree di intervento

In una recente rassegna Hanscom e colleghi (2015) propongono una serie di potenziali aree di intervento nel trattamento del dolore cronico sensibili all’effetto della modificazione cognitiva e comportamentale. Una di queste è la gestione della qualità del sonno, elemento strettamente collegato a condizioni di dolore cronico e predittore di un quadro di disabilità aggiuntiva (Zarrabian et al., 2014): dormire poco e male si rivela tanto conseguenza quanto elemento amplificatore della situazione dolorifica (Call-Schmidt et al., 2003), oltre che un freno alla messa in atto di attività salutari che migliorino la qualità della vita (Tang & Sanborn, 2014).

Un’altra area importante nel trattamento del dolore cronico riguarda la riduzione del pensiero catastrofico, in quanto importante mediatore, assieme a depressione e credenze di evitamento, tra dolore cronico e autonomia personale (Smeets et al., 2006): il catastrofismo infatti non avrebbe soltanto un ruolo regolatore della percezione algica (Zhu et al., 2014), ma rappresenta altresì un importante ostacolo per la messa in atto e il mantenimento di condotte salutari, tra cui controllo del peso, regolare attività fisica e aderenza alle prescrizioni farmacologiche, rappresentando dunque un fattore prognostico decisamente sfavorevole (Edwards et al., 2011).

Trattamento del dolore cronico con la CBT quando il corpo incontra la mente razionale - IMMAGINE

Radicate credenze di evitamento rappresentano elementi altrettanto sfavorevoli (Gatchel et al., 2016): l’anticipo di un’elevata percezione dolorifica nello svolgimento di attività quotidiane può condurre infatti a un importante livello di inattività, a sua volta rinforzante l’aspettativa iniziale, creando così un circolo vizioso e amplificando il senso di disabilità personale.

Molti pazienti presentano alti livelli locus of control esterno (Oliveira, 2012)   che può portare ad atteggiamenti rivendicativi verso le persone e situazioni considerate origine del malessere (De Good & Kiernan, 1996)  creando in tal modo un ciclo di rabbia che può amplificare notevolmente la sensazione dolorifica (Sarno, 1982), oltre che a rendere più difficile per il paziente una comunicazione adeguata con il personale medico (Hanscom et al., 2015) e la partecipazione attiva al programma di cure e di trattamento del dolore cronico (Beinart et al., 2013).

A rabbia persistente è inoltre associata una risposta infiammatoria prolungata da parte dell’organismo, con il probabile sviluppo di ulteriori sintomi somatici (Abbass et al., 2008).

Tutti questi elementi necessitano di essere tempestivamente riconosciuti e inquadrati, in modo da identificare situazioni con particolare rischio di cronicizzazione (Hasmi et al., 2013): a tal proposito possono essere somministrati in fase di screening questionari (Araujo et al., 2010; Hanscom et al., 2015; Nursen et al., 2016) quali Fear Avoidance Beliefs Questionnaire (FABQ), Distress and Risk Assessment Method (DRAM) ,  Pain Catastrophizing Scale ( PCS ) e  Pain Locus of Control Scale (PLOC).

L’intervento CBT può inserirsi in una presa in carico multidisciplinare del paziente –  con l’obiettivo clinico di ostacolare pensieri e comportamenti che prolunghino o peggiorino la condizione algica e il senso di disabilità –  attraverso strumenti quali ristrutturazione cognitiva, sessioni di rilassamento strutturato, pianificazione delle fasi di addormentamento e programmazione di attività piacevoli, salutari e distraenti.

Appare fondamentale inoltre, nel trattamento del dolore cronico, un lavoro sui meccanismi di attribuzione causale – favorendo il passaggio da un locus esterno a un locus interno – in modo tale che il paziente porti attivamente a termine l’intero percorso di cura e sia motivato a mantenere i risultati raggiunti nel tempo (Hanscom et al., 2015).

I prossimi webinars organizzati dall’Ordine Psicologi Lombardia – Maggio e Luglio 2016

Lunedì 23 maggio 2016, ore 21.00 – 23.00

Nuove frontiere del lavoro psicologico: la conoscenza e l’intervento nei contesti mafia

La psicologia come strumento di conoscenza e intervento nei contesti di mafia. Questo il focus del secondo incontro promosso da Opl – Ordine degli Psicologi della Lombardia  presso Casa della Psicologia.

Attraverso le voci dei relatori e le loro testimonianze, si indagheranno le nuove frontiere del lavoro dello psicologo in contesti di mafia: dal sostegno ai collaboratori di giustizia alla formazione e supporto di chi combatte le mafie.

Parteciperanno all’evento: Gianantonio Girelli, presidente commissione antimafia Regione Lombardia, Enrico Interdonato, psicologo e rappresentante Addiopizzo Messina e Toni Giorgi, psicologo e professore universitario.

Casa della Psicologia, Piazza Castello 2- Milano

Evento gratuito e aperto a tutti previa iscrizione ([email protected])

Ufficio Stampa: [email protected] – 345 7357751

[email protected] – 335 1821270

 

 

Mercoledì 25 maggio dalle 21.00 alle 22.30 

webinar La depressione quel che la serotonina non spiega

 

 

La depressione: quel che la serotonina non spiega

La depressione, diventata negli anni Novanta oggetto privilegiato della psichiatria biologica e dei trattamenti farmacologici, sta tornando nelle mani degli psicoterapeuti.

A partire dall’inizio del nuovo Millennio negli Stati Uniti sono stati pubblicati un numero crescente di volumi e di articoli che mettono radicalmente in questione sia l’interpretazione biologica della depressione, sia l’efficacia dei farmaci per questa psicopatologia. I farmaci serotoninergici sono stati messi sotto accusa: di poco o affatto superiori al placebo, non solo non sembrano proteggere i pazienti da eventuali suicidi ma ne possono essere causa.

Dopo aver fatto qualche cenno a questi sviluppi recenti della letteratura, Valeria Ugazio avanzerà la tesi che la depressione cronica si sviluppi in un contesto familiare caratterizzato da un particolare modo di organizzare i significati, definito ‘semantica dell’appartenenza‘, contraddistinto emozioni definite. Le posizioni del paziente e degli altri membri della famiglia entro questa semantica saranno descritte e illustrate con esempi clinici.

Saranno inoltre esaminati gli eventi e le fasi del ciclo di vita individuale e familiare in cui più le persone con un’organizzazione propensa alla depressione sviluppano una patologia conclamata. Valeria Ugazio cercherà di spiegare anche perché così tanti scienziati e artisti siano affetti da disturbi depressivi.

 

Relatrice: Dott.ssa V. Ugazio

Valeria Ugazio è psicoterapeuta. Svolge la propria attività terapeutica e formativa a Milano dove dirige l’European Institute of Systemic-relational Therapies, che ha fondato nel 1999. È inoltre professore ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Le dinamiche familiari sono al centro dei suoi interessi. La teoria delle polarità semantiche familiari e i modelli di interpretazione dei disturbi fobici, ossessivi, alimentari e dell’umore che Ugazio ha elaborato si basano sulla premessa che anche gli aspetti più soggettivi dell’esperienza individuale siano costruiti nel dialogo.

 

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 25 maggio alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.45).

 

 

 

Martedì 19 luglio dalle 20.30 alle 22.00 

 

 

webinar Nuove prospettive nella comprensione e la cura dei disturbi alimentari

 

Nuove prospettive nella comprensione e la cura dei disturbi alimentari

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i Disturbi dell’Alimentazione rappresentano un problema di salute pubblica in costante crescita nei paesi industrializzati; tuttavia le informazioni mediatiche trasmesse sono per lo più poco adeguate e semplicistiche, e concorrono a generare confusione circa la natura di tale disturbo.

Scopo specifico del webinar, pertanto, è quello di approfondire le dinamiche che contraddistinguono la storia di tali disturbi, con un foucs specifico sull’anoressia nervosa, riservando un’attenzione particolare alla comprensione delle cause dei fattori che concorrono non solo all’insorgenza della patologia ma anche al suo mantenimento. Inoltre, nel lavoro terapeutico con questi pazienti, è sempre più evidente l’importanza rivestita dalle prime relazioni di attaccamento come fattori di rischio e/o protezione che giocano un ruolo fondamentale nella loro sofferenza. Per tale motivo, un ulteriore obiettivo sarà quello di far luce sui processi che caratterizzano la costruzione di tali legami e sull’individuazione di strumenti pratici che ne facilitino la comprensione.

Data la natura multifattoriale del disturbo, risulta di particolare importanza delineare un intervento che tenga in considerazione i fattori traumatici che stanno alla base della patologia: l’EMDR, trattamento d’elezione per i traumi riconosciuto dalle più importanti linee guide internazionali, risulta particolarmente indicato per il trattamento dei disturbi alimentari. Attraverso il racconto di esperienze cliniche, quindi, verranno delineati alcuni dei meccanismi fondamentali del disturbo e le strategie più efficaci per fronteggiarli, con l’obiettivo fornire nozioni riguardo l’importanza di un’identificazione e presa in carico tempestiva di tutte le persone affette da tali disturbi.

 

Relatrice: Dott.ssa Maria Zaccagnino

Maria Zaccagnino è direttrice scientifica, insieme ad Isabel Fernandez del Centro Terapia EMDR per l’Anoressia Nervosa. Psicologa, Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, Supervisore e Facilitator EMDR, Dottore di ricerca in Psicologia dello Sviluppo. E’ Senior Researcher presso l’Università della Svizzera Italiana a Lugano. Fa parte del gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Torino presso la Facoltà di Psicologia, e dell’Università della Svizzera Italiana a Lugano. In particolare lavora a diversi progetti di ricerca che riguardano principalmente lo studio delle dinamiche delle relazioni familiari con particolare riferimento alla Teoria dell’Attaccamento, e da sempre si occupa a livello di ricerca e clinico di Disturbi Alimentari. Svolge incarichi professionali di consulenza presso la Neuropsichiatria Infantile di Brescia. È autrice dei protocolli di intervento EMDR sull’Anoressia Nervosa e sulle dinamiche di Attaccamento.

 

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 19 luglio alle 20.15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20.30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.15).

 

La compassione per persone o animali deve essere diversa? Sulle parole di Papa Francesco

Caro Papa Francesco, permettimi di dissentire dalle tue ultime frasi in cui paragoni cani e gatti e umani e compassione verso gli animali con pietà per gli umani.

“…la pietà non va confusa con la compassione che proviamo per gli animali che vivono con noi“.

Tradotto:

“Accade che a volte si provi questo sentimento verso gli animali, e si rimanga indifferenti davanti alle sofferenze dei fratelli”.

Comprendo la necessità di parlare dell’amore, è il tuo mestiere e penso anche che sia importante, utile e che abbia fatto, nella sua versione sublime, molto bene all’umanità, ma non capisco il paragone con la compassione per gli animali, e soprattutto il fatto che tu differenzi le due cose. Solo chi ha compassione per gli animali, li ama e li protegge, li vede come creature che sono degne di una vita che abbia senso, che aiuti ad alleviare le loro sofferenze, che abbia rapporti con loro di affetto e rispettosi della loro animalità, solo persone così possono amare il prossimo umano, averne pietà. Perché è nel riconoscersi tutti come creature di questo mondo, direi di Dio, se si ha fede, ed è solo così che si diventa umani veramente.

Gli uomini e le donne e i bambini devono essere protetti e amati, e lo si può fare solo se ci si rende conto che anche gli animali, che noi chiudiamo in gabbie, mangiamo, matrattiamo, sfruttiamo, uccidiamo per ornarci, torturiamo per gioco, sono noi stessi.

Le differenze che tu sottolinei, la differenzia che fai  tra compassione e pietà, non è utile ad aumentare l’attenzione agli altri umani, ma giustifica anzi ciò che di crudele da sempre, facciamo agli altri ospiti di questo pianeta, ai nostri compagni di viaggio su questa terra.

 

Si possono amare e rispettare i bambini solo se si amano e si rispettano gli animali e se non si fanno indebiti paragoni tra sentimenti legittimi. La differenza tra compassione e pietà è una differenza semanticamente arbitraria, e direi che la scelta se dedicare le proprie forze, le proprie energie a difendere bambini e animali, appartiene a ciascuno di noi ed è un diritto. Fare gerarchie di tipi di amore, di rispetto di affetto è rischioso e soprattutto poco utile ad aumentare l’amore nel mondo.

 

E un ultima nota, nei disturbi della Condotta con ridotta socializzazione leggiamo:

Disturbo della condotta con socializzazione normale (F91.2)

…violenti accessi di rabbia incontrollabile, azioni distruttive delle cose altrui, incendi, crudeltà verso i compagni e gli animali.

Ed è interessante questo avvicinamento tra umani e animali  nel disturbo della condotta, che sottolinea più la vicinanza che la distanza.

 

VIDEO: Dogs decoded

https://www.youtube.com/watch?v=kqlskptTPxU

 

I disturbi alimentari: Il modello cognitivo “migliorato” di Fairburn – Magrezza non è bellezza

Fairburn ha cercato di rimediare ai possibili difetti delle sue riflessioni del 1999 con un nuovo modello, il cosiddetto modello cognitivo migliorato (enhanced) e transdiagnostico.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il modello cognitivo “migliorato” di Fairburn (Nr. 14)

Il modello cognitivo migliorato di Fairburn

In questo modello cognitivo migliorato Fairburn compie due operazioni: cerca di concepire un’ipotesi applicabile all’intero spettro dei disturbi alimentari – incluse anoressia, bulimia e disturbi alimentari non altrimenti specificati (NAS) – e cerca di elaborare un insieme di stati mentali che siano capaci sia di spiegare l’ossessione per il controllo alimentare sia di tenere conto della sofferenza emotiva dei pazienti a un livello più ampio, cioè dello stile interpersonale e dei vissuti interiori.

Si ottiene così un modello cognitivo migliorato (o CBT-E, Cognitive Behavioural Treatment Enhanced) che tiene conto non solo del timore di ingrassare e della tendenza a mantenere sotto controllo l’alimentazione, ma che include anche quattro processi di mantenimento aggiuntivi:

a) perfezionismo clinico;

b) bassa autostima nucleare;

c) intolleranza alle emozioni;

d) difficoltà interpersonali (Fairburn et al. , 2003).

La bassa autostima come tema nucleare nei disturbi alimentari

Perfezionismo clinico e bassa autostima erano già presenti in Garner e Bemis e in altri modelli, ad esempio quello psicodinamico di Arthur Crisp. Nel modello di Fairburn del 2003 la bassa autostima è però nucleare, ossia va al di là della dipendenza dal controllo del peso e dell’alimentazione. Si tratta di qualcosa di autonomo, di più pervasivo, per non dire profondo. La bassa autostima qui non sembra derivare dal fallimento del controllo alimentare, ma si presenta piuttosto come il centro generatore del quadro clinico. Per la verità, più che di bassa autostima si dovrebbe parlare di un generale e più ampio senso di inadeguatezza di fronte al compito di dare un senso e una direzione alla propria vita impegnandosi in obiettivi maturi, soddisfacenti, gratificanti e di ampio respiro: insomma la realizzazione di sé nel campo affettivo e lavorativo.

Si tratta – con le parole di Livesley (1998) – della capacità di sviluppare un concetto integrato di sé. E significa, soprattutto, saper vivere un’avventura, qual è l’avventura della vita, nella quale non ci sono parametri chiari e misure definite per poter valutare i propri successi e insuccessi. Tolleranza dell’ambiguità e della frustrazione sono aspetti fondamentali per poter vivere una buona vita. Laddove manchino, la conseguenza non può che essere un continuo senso di inadeguatezza e inferiorità. E il controllo diventa una strategia di gestione della via surrogata. In questo modo è possibile comprendere il legame tra bassa autostima e i due fattori aggiuntivi: l’intolleranza alle emozioni e le difficoltà interpersonali.

Con questi due fattori Fairburn sembra voler tentare un’elaborazione della personalità dei pazienti con disturbo alimentare di vasto respiro. Per questo prende in prestito concetti che provengono dalla psicologia della personalità e del funzionamento interpersonale. In realtà Fairburn non si serve propriamente dei concetti più complessi della psicologia della personalità, come per esempio la già citata auto-direzionalità. Funzioni di questo tipo, però, si sviluppano soltanto se si possiedono altre abilità mentali più semplici, tra le quali è fondamentale la capacità di tollerare gli stati negativi.

La costruzione coerente del sé e l’auto-direzionalità, infatti, si sviluppano a patto di saper tollerare le continue invalidazioni della vita, invalidazioni che ci arrivano in forma di esperienze interiori dolorose se non angoscianti. L’età di transizione dall’adolescenza alla giovinezza è un periodo chiave – particolarmente delicato nell’età contemporanea – in cui per la prima volta i giovani individui sono messi alla prova al di fuori del protettivo ambiente familiare. La tentazione di rifugiarsi nel controllo di parametri quantificabili come il peso o il cibo può essere forte, in particolare nelle ragazze, a causa del forte investimento che il sesso femminile fa sul proprio aspetto per raggiungere una soddisfacente definizione di sé.

Il disturbo alimentare diventa dunque una soluzione patologica al problema della costruzione di una personalità autonoma e matura. L’individuo, vacillando di fronte a un compito che avverte come arduo, si rifugia in una nicchia più facilmente controllabile. Il prezzo che paga è un ripiegamento depressivo e un restringimento del proprio orizzonte di vita, ma evidentemente è un prezzo che può essere ritenuto accettabile.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La felicità è nelle piccole cose, lontana da scopi e da controllo

Per l’uomo moderno la felicità si cerca in casa propria e non in mezzo agli altri. Anche le soddisfazioni collettive sono concepite come mezzi per aumentare il benessere individuale. 

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 14/05/2016 

 

Sulla felicità, le opinioni oscillano da sempre. Molti sanno della sua inclusione nella costituzione americana e intuiscono che lì c’è qualcosa di particolare, anche se di felicità si parlava già dai tempi di Aristotele. Solo che in Aristotele si trattava di una felicità pubblica, una felicità effetto dell’esercizio delle virtù pubbliche. Eudamonia la chiamavano i greci, ovvero condizione buona dello spirito, soddisfazione di svolgere correttamente, anzi onorevolmente e virtuosamente, il proprio ruolo sociale nella comunità. Le comunità antiche, che fossero le città stato greche o le tribù barbariche, erano comunità totalitarie, in cui il singolo era sempre asservito, in ogni sua azione, alle attese sociali.

 

Il concetto di felicità nella società moderna

La felicità moderna è invece privata. Per carità, anche Aristotele riconosceva il ruolo del benessere privato nella sua eudamonia, ma non si sarebbe sognato di renderlo l’elemento principale. Non vi era vita privata per l’uomo antico, e tantomeno vi era felicità privata. L’intenso grado di partecipazione dell’individuo antico alla vita pubblica gli riempiva la giornata e l’esistenza di una forte e coinvolgente passione politica. L’individuo antico aveva la possibilità di partecipare in prima persona a molte occasioni politiche: assemblee, consigli, giudizi, elezioni. Viveva una vita meno dedita alla sicurezza e più all’azione, più politica e pubblica e meno privata.

Per l’uomo moderno la felicità si cerca in casa propria e non in mezzo agli altri. Anche le soddisfazioni collettive sono concepite come mezzi per aumentare il benessere individuale. Per noi la felicità è la libertà di usare a piacimento il nostro appartamento e il nostro giardino, senza che nessuna autorità esterna o superiore possa intromettersi, per qualsiasi interesse superiore e comune. L’idea privata della felicità è moderna e illuminista, e a noi italiani fa piacere pensare che Benjamin Franklin e gli altri redattori della costituzione americana la ereditarono in buona parte dall’opera ‘La scienza della legislazione‘ di Gaetano Filangieri (1753-1788).

 

La felicità oggi

In questi nostri tempi più disincantati e meno illuminati, però, questa visione privata e individualista della felicità sta rientrando. Forse è la nuova coscienza ambientalista, o l’oscuro timore che il nostro giardino, troppo sfruttato, possa smettere di dare i suoi frutti. Certo che la visione individualista è meno sentita ed è sostituita da una coscienza collettiva che non è però politica, come nella fiammata degli anni ’70, ma civile e sociale. Ha più a che fare con la diffusione di nuovi comportamenti e sensibilità che con la conquista del potere.

Questa diversa sensibilità ha conseguenze anche nella riflessione psicologica. Alle teorie dell’autostima, del benessere, della realizzazione di sé, si sostituiscono le teorie della tolleranza del disagio e dell’accettazione incondizionata di sé. È una svolta stoica che arriva dopo l’utilitarismo illuminista del benessere individuale.

Questa svolta stoica ha ricevuto un singolare aiuto dall’interesse crescente che si prova in occidente per le tecniche di meditazione orientale e che confluiscono nella cosiddetta mindfulness. Sono tutte tecniche che sarebbe discutibile ridurle allo stoicismo, con il quale ha in comune solo alcune componenti. Tuttavia, si può prendere atto che la mindfulness, se è distante dallo stoicismo, sembra essere altrettanto distante dall’attiva ricerca della felicità dell’individualismo occidentale. Mentre lo stoicismo predicava l’indifferenza alle emozioni, nella mindfulness vi è un atteggiamento più cortese, in cui l’attenzione è aperta ad ammettere qualsiasi cosa entri nell’esperienza con un atteggiamento di gentile curiosità.

Tutto questo somiglia più alla serenità che alla felicità, il che forse è un bene. O meglio, significa che la felicità si distacca da uno stato di esaltazione euforica determinato dal raggiungimento di un obiettivo, da una vittoria o da un traguardo. La felicità contemporanea non dipende solo dalla coltivazione e dallo sviluppo delle proprie potenzialità e dall’usarle quotidianamente nel lavoro, nell’amore, nelle attività ricreative. Essa è composta anche da piccoli piaceri, sensazioni gradevoli momentanee legate a esperienze momentanee, per non dire futili. Piccole gioie che vale la pena provare.

La felicità si distacca dal raggiungimento di scopi e dal controllo. E anche questo può essere un bene, perché è vero che gli uomini sono sempre stati utilitaristi e sempre hanno perseguito scopi; ma mai nel modo ossessivo e controllante dei moderni. Nella modernità si è scivolati nell’utilitarismo ideologico, l’utilitarismo che non si limita a essere un lato dell’azione umana ma che diventa l’aspetto dominante e l’unico veramente significativo: una disincantata e ruvida ammissione che non vi è altro che l’utile a questo mondo, e tutto ciò che si fregia di un’etichetta più elevata è inganno. Al posto di questo paesaggio deprimente e impegnativo al tempo stesso, possiamo accontentaci di una piccola felicità sensoriale.

La terapia cognitivo-comportamentale può alterare il volume di materia grigia in pazienti con fobia sociale

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), lavorando sui pensieri disfunzionali del paziente, risulta essere tra gli approcci più efficaci nel trattamento del disturbo di ansia sociale. In un recente studio, Mansson e colleghi hanno indagato quali siano gli effetti della CBT sul cervello di pazienti con ansia sociale.

 

Il disturbo d’ansia sociale, o fobia sociale, è un disturbo caratterizzato una marcata sensibilità verso il giudizio altrui: la principale paura di chi soffre d’ansia sociale è il divenire oggetto di scherno o di valutazioni negative da parte degli altri.

Da un punto di vista sociale tale disturbo porta al ritiro da ogni tipo di interazione con altri: una festa ad un pub con amici o l’entrare in una stanza in cui tutti sono già seduti possono essere tra gli eventi più ansiogeni per un fobico sociale. L’evitamento è dunque la strategia comportamentale più utilizzata dalle persone con questo disturbo e più i comportamenti di evitamento si generalizzano, maggiormente il disturbo diventa invalidante.

A livello cognitivo, invece, il fobico sociale è molto critico verso se stesso e si definisce debole e incompetente, mentre l’Altro è visto come abile, migliore e competente. Si creano in questo modo sentimenti di inadeguatezza ed inferiorità con un impatto altamente negativo sull’autostima.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), lavorando sui pensieri disfunzionali del paziente, risulta essere tra gli approcci più efficaci nel trattamento del disturbo. In un recente studio, Mansson e colleghi hanno indagato quali siano gli effetti della CBT sul cervello di pazienti con ansia sociale.

Dati precedenti avevano mostrato come coloro che soffrono di fobia sociale tendano a mostrare un’iperattivazione neurale nell’amigdala, struttura cerebrale associata alla paura. Mansson, nel suo studio, fa un passo avanti identificando un legame tra questa ipersensibilità dell’amigdala e il volume di materia grigia in questa parte del cervello.

Utilizzando poi la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per eseguire la scansione del cervello di 26 individui con diagnosi di fobia sociale, i ricercatori hanno notato che quelli con i sintomi più gravi tendono ad avere un maggior volume di materia grigia nell’amigdala di sinistra.

I soggetti sono stai poi sottoposti a un percorso on-line di terapia cognitivo-comportamentale della durata di nove settimane. Alla fine del programma, i partecipanti sono stati sottoposti a misurazioni psicologiche, tra cui dei self-report su eventuali cambiamenti della loro condizione, al fine di valutare l’effetto del CBT sui loro sintomi.

A questo punto, un ulteriore ciclo di scansioni fMRI ha rivelato una riduzione della materia grigia nell’amigdala di sinistra in coloro che hanno sperimentato risultati positivi dalla loro terapia. Inoltre, maggiore è la riduzione dei sintomi, più significativo risulta essere il corrispondente calo di volume della materia grigia.

L’ipersensibilità neurale nel amigdala, implicata nella fobia sociale, è almeno parzialmente mediata dal volume della materia grigia, e la CBT, a detta di Mansson e colleghi, ha il potenziale per ridurre questo volume, portando a un miglioramento i sintomi. Sebbene tali risultati siano significativi, il campione dello studio risulta esiguo. Future ricerche potrebbero essere effettuate per studiare meglio il fenomeno.

 

Il Giudizio degli altri - State of Mind - Immagine: © 2013 State of Mind

Psicologia dello sport: le emozioni nella prestazione sportiva agonistica

Non ti devono tremare le mani né le gambe, la concentrazione massima per ogni movimento, una sola perdita potrebbe fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. La tua allenatrice conta su di te, le tue compagne contano su di te e tu ti chiedi se sarai all’altezza delle aspettative tue e degli altri. Le emozioni possono influenzare una prestazione agonistica: ecco il perché della nascita della psicologia dello sport.

Francesca Adriana Boccalari – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca, Milano

 

Il pubblico, la giuria, le compagne di squadra che fanno il tifo… è tutto sotto i tuoi occhi, ma tu sei sola, sulla pedana, aspettando di sentire l’inizio della musica. Sai che in quel minuto e mezzo ti giocherai la tua chance di vittoria e il passaggio di categoria, che tutto il lavoro fatto nei mesi precedenti potrebbe trovare il suo coronamento o essere sprecato per qualche stupido errore. Non ti devono tremare le mani né le gambe, l’attrezzo deve essere ben saldo nella tua presa, la concentrazione massima per ogni movimento, una sola perdita potrebbe fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta, devi seguire la musica ed essere espressiva. La tua allenatrice conta su di te, le tue compagne contano su di te e tu ti chiedi se sarai all’altezza delle aspettative tue e degli altri.

Questi sono solo alcuni dei pensieri che, nella mia esperienza di atleta, attraversano la mente di ogni ginnasta mentre aspetta di entrare in pedana, pensieri che, intuitivamente, si portano dietro un grosso carico emotivo. La ginnastica ritmica è, infatti, un perfetto esempio quando si tratta di capire come e quanto le emozioni possano influenzare una prestazione agonistica e perché, quindi, sia nata la psicologia dello sport.

 

La psicologia dello sport o psicologia sportiva

A differenza di ciò che si può pensare, lo sport non è solo fisico, ma anche tanta testa. L’attività sportiva richiede costanza e impegno nell’allenamento, volontà di tener duro di fronte alla fatica e ai sacrifici, capacità di sopportare la pressione emotiva di una gara e dei giorni che la precedono. Con lo sport l’atleta costruisce l’immagine che ha di sé in relazione ai propri limiti e obiettivi, alle proprie motivazioni, agli avversari e al pubblico. Più riuscirà a utilizzare le proprie risorse per mettere in campo performance di livello, più ne potrà trarre un’immagine di sé come efficace, competente e di valore.

Questo processo, importantissimo nella vita di ogni sportivo, è, tuttavia, particolarmente faticoso e può sottoporre l’atleta a notevoli pressioni che, ripercuotendosi a livello fisico, ne inficiano la performance, in un circolo vizioso che può risultare pericoloso.

La psicologia dello sport fornisce all’atleta strumenti che permettano di migliorare la propria prestazione, affiancando all’indispensabile allenamento fisico e al perfezionamento del gesto atletico, l’utilizzo di tecniche che lavorano sulla dimensione psicologica, per ottenere una migliore gestione delle energie e dell’emotività in una situazione di allenamento e di competizione sportiva.

Ciò su cui atleti e allenatori concordano è, infatti, che a parità di preparazione fisico-atletica la differenza è data dall’atteggiamento mentale con cui allenamento e competizione vengono vissuti. Questa differenza spiega, secondo molti, quel quid in più che hanno i veri campioni, coloro che riescono a replicare un risultato positivo e a renderlo costante.

 

La dimensione psicologica nello sport

Spesso si sente dire che la dimensione psicologica non è un aspetto allenabile o controllabile e che non ha influenza significativa sulla prestazione sportiva. In realtà, evidenze di ricerca dimostrano proprio il contrario. La concentrazione, l’autocontrollo, la conoscenza del proprio modo di pensare, sentire e comportarsi di fronte a una competizione sportiva sono tutti ambiti sui quali ci è possibile intervenire e che è possibile potenziare al fine di affrontare la gara con il miglior equilibrio psicofisico possibile.

 

Sport e ansia

L’ansia, tra tutte le emozioni, risulta, nella letteratura in tema di psicologia dello sport, la peggior nemica della prestazione sportiva agonistica, in grado di influenzarne negativamente i risultati. L’ansia è uno stato emotivo che può essere percepito come spiacevole e che prepara il corpo per una minaccia, nonostante questa non sia reale o corrispondente al livello di pericolo soggettivamente percepito. Durante lo stato di ansia avviene una massiccia attivazione del sistema nervoso simpatico che provoca una serie di alterazioni fisiche, biochimiche e endocrine, le quali a loro volta contribuiscono a un precoce esaurimento delle risorse fisiche e mentali dell’atleta.

 

Sport e rabbia

Un’altra emozione che spesso emerge negli atleti durante una competizione, e di frequente studiata nella psicologia dello sport, è la rabbia. Il voler dare tutto, e anche di più, è spesso espressione di rabbia e sfocia in un atteggiamento aggressivo che può portare a esagerare i movimenti e ad andare oltre i confini di quanto praticato in allenamento e di quelle che sono le proprie capacità tecniche e pratiche. La rabbia può essere anche espressione di frustrazione, ad esempio per un infortunio subito o per una serie di risultati negativi ottenuti nelle precedenti competizioni, o di rivalsa, nei confronti di un allenatore o di un compagno di squadra. Qualunque sia la causa, l’atleta arrabbiato si presenta alla gara con un atteggiamento poco produttivo, esito di modalità di pensiero disfunzionali.

 

Psicologia dello sport: la gestione delle emozioni disfunzionali

Le emozioni disfunzionali che spesso si associano a una competizione non sono eliminabili, ma gestibili. E’ stato ampiamente dimostrato nella psicologia dello sport che le tecniche di allenamento mentale permettono all’atleta di riconoscere le proprie modalità di pensiero abituali, e le emozioni ad esse collegate, rispetto a sé stesso come atleta e al significato rivestito da una competizione, e di imparare a modificarle e gestirle.

In particolare, tra gli atleti è molto diffuso il ricorso a tecniche di rilassamento e di visualizzazione, che vengono utilizzate per accrescere le risorse mentali dell’atleta, allenandolo a confrontarsi con le situazioni più critiche e aumentandone l’autocontrollo.

 

Training autogeno nella psicologia dello sport

La capacità di raggiungere uno stato di rilassamento è fondamentale nella preparazione di ogni sportivo. Il rilassamento non coincide con uno stato di riposo, come si può pensare, ma in una normalizzazione delle funzioni vitali e, nello sport, a un loro migliore utilizzo. Permette, infatti, di creare uno stato psicofisico caratterizzato da una riduzione della tensione muscolare e da sensazioni psichiche introspettivamente percepite come benessere, serenità e tranquillità. Alcune tra le tecniche più utilizzate nella psicologia dello sport sono il Rilassamento Progressivo di Jacobson e il Training Autogeno di Schultz.

Le tecniche di visualizzazione, invece, sfruttano un’altra grande amica dell’atleta: l’immaginazione. Tali tecniche partono, infatti, dal presupposto che ciascuno di noi possiede questa abilità mentale estremamente potente, una grande risorsa a cui poter accedere in qualsiasi momento e luogo.

 

Tecniche di imagery per la psicologia dello sport

Le tecniche di visualizzazione immaginativa possono servire, nella psicologia dello sport, per raggiungere una condizione di rilassamento, anche durante una gara importante. In questo caso, la tecnica consiste nell’immaginarsi all’interno di una situazione serena e confortevole, in un luogo reale o immaginario, in cui sia possibile trovare benessere psichico. A livello pratico, è essenziale che questa scena venga immaginata il più dettagliatamente possibile. Mentre si svolge l’esercizio si deve, infatti, prestare attenzione a tutti i particolari dell’ambiente: i colori, le luci, la temperatura, il momento della giornata, i suoni, il movimento delle persone e degli oggetti, le sensazioni tattili, uditive e olfattive, e, ovviamente, le emozioni provate. In questo ambiente immaginativo l’atleta potrà tornare ogni volta che desidera calmare e rilassare la mente.

La visualizzazione può, inoltre, essere impiegata per focalizzare un obiettivo che si intende raggiungere. In particolare, è stato dimostrato che visualizzare è particolarmente utile quando ci si concentra sul processo che ci permetterà di raggiungere il nostro scopo. L’atleta, attraverso questi esercizi, può crearsi l’immagine di sé stesso mentre è impegnato a perseguire i propri traguardi, e questo lo spronerà all’azione. I passaggi fondamentali per eseguire questa tecnica sono: definire un obiettivo, immaginare il processo di raggiungimento dello stesso, immaginare sé stessi mentre si compiono queste azioni. La visualizzazione va eseguita per almeno 5 minuti più volte al giorno. Questa tecnica permette all’atleta di arrivare preparato in gara e di gestire anche gli imprevisti perché già vissuti nella propria mente.

In maniera molto simile, l’allenamento ideomotorio permette di esercitare specifici gesti tecnici, a livello mentale oltre che fisico, e di migliorarne l’esecuzione. Per la realizzazione di questa pratica è necessario focalizzare l’attenzione sulle singole porzioni di movimento che compongono la sequenza, dapprima concentrandosi solo sul proprio corpo, e in seguito anche sui pensieri e sulle emozioni che la accompagnano.

Spesso, nei giorni prima di una competizione, passo molto tempo a immaginare la situazione di gara, arricchendola di tutti i dettagli possibili in base alle mie esperienze passate, visualizzando il momento dell’entrata e dell’esercizio, i giri, gli equilibri, i salti, i tanti maneggi e rischi. Spesso, mentre immagino, provo una forte ansia e, persino nella mia mente, sbaglio. Allora rincomincio da capo, fino a quando le emozioni sono sotto controllo e l’esercizio è come lo vorrei eseguire.

Come me molti atleti, professionisti e non, riconoscono ormai mente e corpo come facce di una stessa medaglia, entrambi imprescindibili al fine di ottenere grandi risultati.

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Lettere 1908-1938 tra Freud e Binswanger (2016) – Recensione

Il dialogo epistolare tra il padre della psicoanalisi e il fondatore dell’antropoanalisi offre elementi di grande interesse per la storia della psicoterapia nel Novecento.

Negli ultimi mesi sono stati pubblicati in italiano due epistolari di grande interesse per la storia della psicologia e della psicoterapia. Dopo l’epistolario tra Jung e Pauli, è la volta delle lettere di Freud e Binswanger, disponibili per la prima volta nella nostra lingua.

Sia gli epistolari di Freud che quelli di Jung hanno arricchito e corretto molto la storia della storiografia psicoanalitica, molte volte prigioniera di assurde polarizzazioni tra agiografi e detrattori dei protagonisti della storia della psicoanalisi. Già Ellenberger (1970) e Sulloway (1979) avevano ampiamente illustrato come i resoconti storici su Freud ad opera di Jones e di altri psicoanalisi erano almeno in parte agiografici; la lettura diretta delle lettere di Freud (1986) a Fliess, tra Freud e Ferenczi (1992-2000) e soprattutto tra Freud e Jung (1974) ha consentito di comprendere fin nei particolari la storia della nascita del Movimento Psicoanalitico. Ne sono emersi un Freud forse meno eroico ma più umano; un Fliess molto sottovalutato ex post da Freud; uno Jung meno “allievo” e più teorico indipendente fin dagli esordi; un Ferenczi mai traditore e anzi tradito dal patriarca di Vienna. L’epistolario tra Freud e Binswanger arricchisce ulteriormente il quadro storico per il lettore italiano. Si spera in una prossima uscita anche dell’ultimo epistolario junghiano ancora non tradotto: quello con Erich Neumann.

Il rapporto di Binswanger con Freud e il gruppo freudiano è decisamente peculiare. Dopo aver conosciuto Carl Gustav Jung sui banchi di scuola, Binswanger lo aveva ritrovato all’ospedale Burghölzli di Zurigo, quando aveva iniziato il proprio tirocinio come volontario, nel 1906. Jung era all’epoca il principale collaboratore del primario Eugen Bleuler (colui che avrebbe coniato il termine “schizofrenia”). Proprio sotto la guida di Jung, nel 1907 Binswanger consegue il dottorato in Medicina. Affascinati ambedue dalla psicoanalisi, Jung e Binswanger effettuano insieme la loro prima visita a Freud, sempre nel 1907, iniziando con quest’ultimo rapporti di amicizia e collaborazione che però conosceranno esiti molto diversi. Jung viene rapidamente investito del ruolo di “principe ereditario”: Freud lo ritiene inizialmente la persona più adatta per guidare il nascente movimento psicoanalitico verso l’affermazione internazionale e in seguito a raccogliere la sua eredità. Tra malintesi e ambiguità, però, il rapporto si guasta rapidamente: Jung aspira a un’indipendenza teorica che Freud considera piuttosto un tradimento. Nominato Presidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale nel 1910, Jung rassegna le dimissioni nel 1913 ed esce definitivamente dall’orbita freudiana nel 1914.

La relazione tra Freud e Binswanger è molto più quieto e a suo modo unico. Freud si dimostrava usualmente assai intollerante verso coloro che non accettavano integralmente le sue idee. Prima del dissidio con Jung, Freud aveva attivamente accompagnato alla porta del suo movimento Alfred Adler e la stessa cosa succederà ad altri allievi che non riteneva sufficientemente fedeli. Il dissidio teorico segnerà la chiusura dei rapporti, tra gli altri, con Stekel, Rank, e Ferenczi. Ciò non avviene con Binswanger, malgrado la freddezza con la quale Freud accoglie già la relazione del primo nel congresso psicoanalitico del 1920, che pure non costituisce una vera e propria dichiarazione di indipendenza. Né la fondazione da parte di Binswanger della Daseinsanalyse (assai impropriamente chiamata in Italia antropoanalisi) è per Freud ragione sufficiente per una stigmatizzazione pubblica.

I rapporti tra i due, del resto, erano stati improntati fin da subito piuttosto alla simpatia umana che a una possibile collaborazione teorica: Freud arriva a scrivere a Ferenczi di ritenere Binswanger intellettualmente poco dotato; ed anzi meritevole per la consapevolezza dei propri limiti (Freud e Ferenczi, 1993-1998, vol. I, p. 389). Del resto, è Binswanger a dire di se stesso, agli esordi, di non sentirsi [blockquote style=”1″]in grado di tenere testa a disquisizioni di natura teorica[/blockquote] (Binswanger a Freud, 24/1/1911). Non c’è dubbio che l’uomo destinato al tentativo di coniugare psichiatria, psicoanalisi e fenomenologia dimostrava un notevole understatement.

Va notato che Binswanger aveva dimostrato una particolare fedeltà personale a Freud nel momento dell’uscita del Gruppo di Zurigo dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale, nel 1914, staccandosi a sua volta definitivamente da Jung. Il distacco, del resto, sarebbe stato successivamente talmente netto da spingere Binswanger a non nominare mai Jung nei suoi scritti autobiografici. Binswanger arriva invece a spingersi ai limiti della piaggeria allorché scrive a Freud: [blockquote style=”1″]Sono giustamente gli spiriti indipendenti a riconoscere e ad ammirare la Sua Storia del movimento psicoanalitico[/blockquote] (Binswanger a Freud, 22/7/1914). In effetti, Freud in quello scritto (1914) non poteva certo considerarsi imparziale, dato che avocava a sé la paternità di ogni idea importante della psicoanalisi, mentre a Jung e Adler attribuiva travisamento dei principi fondamentali, tradimento e bassa volontà di compromesso dettata dall’ambizione.

Non manca d’altronde neanche l’occasione, a Freud, di dimostrare la propria ambivalenza nei confronti di Binswanger. Questi chiede a Freud l’autorizzazione di citare sue lettere in occasione della conferenza che dovrà tenere per l’80mo compleanno di quest’ultimo (Binswanger a Freud, 30/3/1936). E Freud risponde [blockquote style=”1″]mi permetto di ammonirLa sulla situazione e pregarLa di non rivelare di fronte a questi estranei gli aspetti più intimi della nostra amicizia[/blockquote] (Freud a Binswanger, 4/4/1936).

Le lettere costituiscono naturalmente un documento prezioso per la ricostruzione della storia della psicoanalisi. Ne rivelano anche aspetti inediti, come avviene fin dalla prime battute quando Freud propone a Binswanger di destinare una donna alla cura psicoanalitica di bambini dagli otto anni in su (Freud a Binswanger, 5/1/1909), poco dopo la pubblicazione del caso del piccolo Hans (Freud, 1908). Emergono anche riferimenti teorici di notevole interesse, come lo spunto sul controtransfert contenuto nella lettera di Freud del 20/2/1913. Diverse parti dell’epistolario fanno invece riferimento a specifici casi clinici, disvelando anche un lato di Freud che altrove nessuno troverebbe indizi per sospettare. Freud, infatti, in un dialogo a tre con Binswanger e Alphonse Maeder (altro membro del gruppo di Zurigo) suggerisce esplicitamente l’uso di una sonda uretrale a carico del paziente J.v.T., caratterizzato da onanismo compulsivo, come forma di contenimento del suo vizio (Freud a Maeder, 21/4/1910).

Sembra opportuno osservare che l’edizione italiana delle Lettere tra Freud e Binswanger è arricchita da un preciso e puntuale apparato di note e da un eccellente saggio introduttivo opera di Aurelio Molaro. A opera di Molaro, che aveva già scritto su Freud e Binswanger (Molaro e Civita, 2012) vale la pena di segnalare anche la recentissima uscita di un saggio dal titolo Psicoanalisi e Fenomenologia: dialettica dell’umano ed epistemologia (Molaro, 2016).

 

Lo sviluppo cognitivo secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla Psicologia

Secondo Jean Piaget lo sviluppo cognitivo si verifica attraverso l’assimilazione di informazioni e gli scambi che avvengono direttamente con l’ambiente, permettendo in questo modo di strutturare delle rappresentazioni mentali, schemi cognitivi, ben organizzati.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

Lo sviluppo cognitivo nel bambino: introduzione

Quando si parla di sviluppo cognitivo si è soliti riferirsi al progressivo evolvere delle capacità intellettive che variano durante tutto l’arco della vita, mutando e perfezionandosi. Quindi, più nel dettaglio, lo sviluppo cognitivo consente di acquisire informazioni dall’ambiente per immagazzinarle, attraverso rappresentazioni mentali, che permettono di essere utilizzate in momenti successivi della propria esistenza.

Le conoscenze acquisite durante l’interazione con l’ambiente esterno, sono costruite dal bambino, fin da dalla nascita, e sono arricchite con il procedere dell’età, sia quantitativamente sia qualitativamente.

Esistono tappe diverse di acquisizione di capacità mentali per ogni fase di sviluppo. Si individua in questo caso un circolo che inizia e si chiude con il depotenziamento o involuzione delle capacità cognitive, che coincide con la nascita e l’invecchiamento dell’individuo, che raggiunge il picco massimo di acquisizione di informazioni durante la giovane età adulta.

Ogni volta che si parla di sviluppo cognitivo solitamente si cita Jean Piaget, psicologo-pedagogista, che si è largamente occupato di questo argomento individuandone le diverse tappe di immagazzinamento di conoscenza.

 

Lo sviluppo cognitivo: storia

Jean Piaget è da sempre considerato uno dei massimi esponenti dello studio dello sviluppo della cognizione o pensiero infantile. Le sue teorie derivano da anni di studio osservazionale da cui egli inferì l’esistenza di una serie di tappe considerate ancora del tutto valide al giorno d’oggi. La sua teoria parte da un colloquio clinico non strutturato, ma supportato da una serie di compiti pratici svolti dal bambino, come per esempio la manipolazione usata per studiare il ragionamento concreto, tipico delle prime fasi di sviluppo cognitivo nel bambino. Lo scopo finale è chiedere sempre al bambino il perché svolge una serie di azioni, al fine di poter rivelare la logica sottostante al proprio comportamento da cui poter inferire la regola di base acquisita attraverso l’esperienza.

Jean Piaget, dunque, sostiene che lo sviluppo cognitivo del bambino deriva dall’interazione con la realtà circostante, grazie alla quale si verifica una trasformazione in termini di acquisizione di informazioni utili alla conoscenza pratica.

 

Lo sviluppo cognitivo nel bambino: gli stadi

Secondo Piaget lo sviluppo cognitivo si verifica attraverso l’assimilazione di informazioni e gli scambi che avvengono direttamente con l’ambiente, permettendo in questo modo di strutturare delle rappresentazioni mentali, schemi cognitivi, ben organizzati. Di conseguenza si determinano 5 stadi o periodi di crescita intellettiva, aventi diversi livelli di funzionamento cognitivo che si sviluppano durante il corso della vita. L’ordinamento di questi stadi è fisso e universale malgrado si rilevino delle differenze individuali determinate da fattori culturali e ambientali.

Ciascuno stadio presume l’esistenza di una particolare organizzazione psicologica e il passaggio da uno stadio all’altro è direttamente proporzionale all’età e chiaramente varia da un bambino all’altro, in relazione all’ambiente e la cultura. Ogni stadio è diverso dal precedente, poiché presenta caratteristiche e regole specifiche. Inoltre, una volta raggiunto uno stadio si apprendono una serie di capacità che saranno integrate agli stadi successivi (integrazione gerarchica tra stadi).

 

Lo sviluppo cognitivo: le tappe

Secondo Jean Piaget l’intelligenza, è una funzione cognitiva che permette l’adattamento all’ambiente e garantisce l’equilibrio tra le diverse strutture cognitive. Questo processo chiamato equilibrazione consente di implementare conoscenze e di apprendere nuove strutture cognitive sempre più dettagliate della realtà. Si tratta di due funzioni intellettive innate che permettono la creazione e l’apprendimento delle diverse strutture cognitive:
l’organizzazione, ovvero la combinazione e l’integrazione degli schemi disponibili in ogni individuo in sistemi coerenti o in corpi di conoscenza che prendono il nome di strutture; l’adattamento che si divide in assimilazione e accomodamento, consistono in processi di aggiustamento alle richieste dell’ambiente.

Più nel dettaglio, l’assimilazione è la ripetizione di una capacità cognitiva già presente nel proprio repertorio comportamentale, come ad esempio buttare a terra gli oggetti, mentre l’adattamento consiste nella modificazione di comportamenti già acquisiti in relazione al contesto in cui si vive, ad esempio muovere l’oggetto invece di buttarlo a terra quando si scopre che può produrre un suono piacevole.

I due processi si alternano per cercare di individuare un equilibrio omeostatico costante che porta a una sorta di controllo della realtà circostante. Quindi, se dovesse sopraggiungere una nuova informazione non contemplata all’interno degli schemi esistenti, si crea una sorta di disequilibrio. A questo punto il bambino prova a individuare un nuovo equilibrio modificando gli schemi cognitivi già esistenti incorporando le nuove conoscenze acquisite.

 

Lo sviluppo cognitivo nel bambino: le diverse fasi secondo la teoria di Piaget

Secondo la teoria di Piaget le fasi di sviluppo cognitivo sono 5:

1.    Fase senso-motoria, che varia dalla nascita ai 2 anni di età. Durante questa fase il bambino passa dall’uso dei soli riflessi, o istinto, alla ripetizione di una serie di comportamenti per osservare quali possano essere le conseguenze degli stessi prima sul proprio corpo, reazioni circolari primarie, e poi su oggetti facenti parte dell’ambiente esterno, reazioni circolari secondarie. Esattamente dall’ottavo mese il bambino verifica come gli schemi di comportamento producano, in interazione con l’ambiente, nuove informazioni. Inoltre, dai 18 mesi si manifesta il ragionamento simbolico, che permette di testare concretamente le conseguenze delle proprie azioni sull’ambiente esterno.

2.    Fase preconcettuale, dai 2 ai 4 anni di vita. Durante questa fase il pensiero è egocentrico, l’infante pensa che tutti possano conoscere i suoi pensieri o desideri, e potenzia il linguaggio attraverso l’acquisizione di maggiore lessico, ma non è in grado di passare dal ragionamento generale al particolare e viceversa.

3.    Fase del pensiero intuitivo, varia dai 4 ai 7 anni di vita. Con l’avvento della scuola materna si ha un maggiore bagaglio di conoscenza, ma il pensiero non è ancora reversibile. Infatti, il bambino non è in grado di mentalizzare l’azione compiuta verso uno scopo o fine.

4.    Fase delle operazioni concrete dai 7 agli 11 anni. Durante questa fase aumenta la coordinazione tra le azioni compiute e il pensiero induttivo si evolve passando dal particolare al generale e viceversa, ma i processi cognitivi sono ancora legati alle azioni e quindi vincolati ad una fase puramente verbale.

5.    Fase delle operazioni formali dagli 11 ai 14 anni. Questo costituisce il periodo preadolescenziale in cui il ragionamento ipotetico-deduttivo permette di creare scenari puramente immaginativi e la messa in atto di vari tipi di azione, grazie ad un adeguato e costante equilibrio tra assimilazione e accomodamento. Durante questa fase si sviluppano: la capacità di giudizio, la relatività dei punti di vista, le operazioni sui simboli e l’attività di misurazione.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Report dalla 2° Conferenza Internazionale di Mindfuness, Roma, 11-15 maggio 2016

Si è appena conclusa la seconda edizione della conferenza internazionale sulla Mindfulness.

Da mercoledì (con i workshop pre-apertura) fino a domenica, Roma e l’Università della Sapienza hanno fatto da cornice per 5, direi più che intensi, giorni di ricerche e dibattiti sull’argomento che sta diventando sempre più oggetto di ricerca scientifica (così come di interesse popolare): la Mindfulness e tutto quello che la riguarda (in clinica, nei contesti di lavoro, nei bambini, nelle professioni di aiuto), la meditazione e i suoi effetti, la (self)Compassion e le sue relazioni con la Mindfulness, le discipline e le filosofie orientali che forniscono il terreno di nascita, il tutto con una spolverata generosa di neuroscienze.

Molti sponsor e moltissimi speaker provenienti davvero da tutto il mondo per 50 simposi (ebbene sì, proprio 50) oltre a interventi da parte di personalità rilevanti come Paul Gilbert, Antoine Lutz, Peter Malinowski, Rebecca Crane, assieme a maestri di meditazione come Ven. Bhiukkhu Analayo, Ven. Shi-Yan-Hui e Ven. Shi-Heng-Chan.

 

Mercoledì, il giorno di pre-apertura della conferenza

Il mercoledì è giorno di workshop pre-apertura tenuti da Paul Gilbert e Nicola Petrocchi sulla Compassion Focused Therapy, da Peter Malinowski e Liliana Shalamanova su “Healty Mindfull ageing” con interesse ai possibili ruoli protettivi della Mindfulness e della meditazione, da Donald McCown e Diane Riebel sullo sviluppo di skills per insegnanti e infine da Antonella Cammellato e Fabio Giommi sull’ Insight Dialogue e Insight meditation e i suoi effetti nelle relazioni.

 

Il programma delle giornate

La tabella di marcia è serrata, la conferenza apre alle 7:30 del mattino per 45 minuti di meditazione (di tradizione Zen di venerdì, Tibetana il sabato e Chan per la festiva domenica).
Ore 8:15 già al primo coffee time per non farsi mancare niente.
Alle 8:30 si aprono i primi simposi raggruppati per tematiche; 1 ora e mezzo, per 4 presentazioni di circa 20 minuti ciascuna.
Il primo giorno, giovedì, 5 aule in contemporanea, ha visto chiudere la giornata alle 16:30 al simposio nr 20 (prima dell’intervento in plenaria di Paul Gilbert delle 17 nell’Aula Magna con tanto di traduttori simultanei).
Mentre il menu di venerdì e sabato ha previsto 2 keynote lecture ad inizio mattina e pomeriggio e 10 simposi per dì.

La difficoltà non è stata la lingua inglese, unica e sola lingua di tutto il convegno, ma il dover prendere decisioni istantanee per capire in quale stanza sedersi nei tre piani della facoltà di Psicologia e Medicina della Sapienza.
Non da meno, ore 10 e ore 14 è tempo di “Refreshment” e POSTER; e anche in questo caso una ventina di poster al giorno davvero interessanti (molti di questi portati da giovani ricercatori da tutto il mondo con lavori su ogni singola sfaccettatura della Mindfulness).

 

I contributi dai vari Paesi

Provando a moltiplicare tutto questo per autori ne viene fuori un convegno con circa 150 relatori provenienti davvero da tutto il mondo e innumerevoli ricercatori che hanno lavorato per mettere insieme quello che viene definito “lo stato dell’arte” in un’aerea che sta in modo esponenziale catturando l’attenzione di addetti ai lavori e di profani.

Ben rappresentata la lontana Australia e Nuova Zelanda, madre di interessantissimi simposi, così come rilevanti contributi dalla Corea, dal Sud Africa, dal Giappone e Asia in genere, da Israele, e dagli USA, per non nominare l’Europa al completo ovviamente.
Anche l’Italia ha potuto fare conto su illustri nomi di importanti esponenti nel campo, da Fabio Giommi presidente della Società Italiana per la Mindfulness ad Antonella Cammellato ad Antonino Raffone e collaboratori.

Un aspetto che occorre sottolineare non è solo la diversità in termini di provenienza geografica, ma la diversità anche in termini di background professionale di tutti coloro che hanno preso parte all’evento. Da psicologi, psicoterapeuti, e psichiatri (e fin qui niente di strano), a contemplativi, biologi, meditatori, monaci, studenti, ricercatori, neuroscienziati, insegnanti…

Conclusioni

Sono stati giorni di scambio di reciproche visioni, reciproci risultati e reciproche esperienze (in un’ottica davvero ampia, comprensiva delle più svariate angolature), con il suono di campane tibetane e “attenzione al respiro per qualche minuto” come introduzione ai contributi portati.

Tra le cose più interessanti si sottolineano i molti dibattiti clinici tra i paesi con attenzione particolare alle diversità culturali, le numerosissime ricerche ed esperimenti di neuroscienze che tentano di spiegare, svelare e dimostrare gli effetti della meditazione continuativa sia sulla morfologia delle varie aree del cervello sia sugli effetti cognitivi veri e propri, i tentavi di migliorare gli strumenti di misura della Mindfulness nelle sue varie componenti e infine lo spazio dato al concetto di (self)Compassion nella sua interrelazione con la Mindfulness.

Mi ripeto nell’affermare che il dispiacere sia stato nel non avere avuto il dono dell’ubiquità.

Le responsabilità nell’abbandono, nota al post di Umberta Telfener

Cara Umberta Telfener,

vecchia amica, commento al tuo blog ‘Per chiudere una relazione è necessario l’amore’, in cui spingi l’acceleratore sul: ‘valore aggiunto dell’addio, che apre nuove strade’,  ti cito:

Riuscissimo a non volerne a chi se ne va (chiunque abbia provocato l’abbandono le responsabilità sono sempre al 50%), la separazione potrebbe essere reale e lo spazio per l’altro disponibile.

Solo questo punto del tuo bel post mi trova in disaccordo. Questa idea, derivata dalla terapia sistemica per come la conoscevo, che partiva dal sistema e finalmente, in modo innovativo a quei tempi, puntava sulle responsabilità individuali condivise. Sulla distribuzione equa di queste responsabilità per ricominciare. Ed era importante.

Oggi invece non sottoscriverei al 100%  la frase ‘chiunque abbia provocato l’abbandono le responsabilità sono sempre al 50%‘. Questa distribuzione di responsabilità così calibrata oggi mi sembra ideologica, cerchiobottista e forse a volte dannosa per i nostri pazienti.

Se si era fragili, se non si era in grado di capire bene da giovani come sarebbe stata la distribuzione delle forze nella coppia con il passare del tempo, se l’altro invecchia più baldamente o diventa cocainomane, se la vita si sviluppa in una direzione non prevista, con un figlio disabile che l’altro non sa e non vuole trattare, o con malattie psichiche o organiche, ecco non sempre mi viene in terapia questa distribuzione. A volte scoprirsi scemi, vittime, fragili e piangere per questa fragilità senza considerarla una colpa è importante, e anzi può essere, questo sì, l’inizio di un percorso di salvazione che tu indichi con lucidità nella seconda parte del tuo blog.

A volte quando in terapia, a una persona abbandonata, ferita, il terapista spinge troppo sulla responsabilità, mi sembra veramente un modo che potrebbe essere difettoso di empatia. Le vittime esistono magari non 100 a 1 ma spesso 70 a 30 e chi si trova dalla parte del trenta, vuole piangersi addosso per un po’, sentirsi compreso, prima di potere guardare negli occhi la sua responsabilità che è sempre collegata con temi dolorosi che non poteva vedere.

Questi nostri pazienti fregati dalla vita, a volte hanno bisogno di compassione e vicinanza, prima di potere guardare con lucidità la loro parte di condivisione nel disastro relazionale che stanno attraversando, e poi, e poi giustamente piangere piangere e poi risorgere come tu bene spieghi.

 

LEGGI L’ARTICOLO ‘PER CHIUDERE UNA RELAZIONE È NECESSARIO L’AMORE’ DI UMBERTA TELFENER

Le reazioni dei genitori alla diagnosi di disturbo dello spettro autistico dei figli

Non tutti i genitori vivono la diagnosi di disturbo dello spettro autistico del figlio allo stesso modo: mentre in alcuni casi la comunicazione della presenza di un disturbo alla base di determinati comportamenti viene considerata fonte di sollievo e conferma dei propri dubbi e delle proprie preoccupazioni, in altri altri le reazioni dei genitori alla diagnosi possono comportare shock, dolore e insoddisfazione.

Sara Bui – OPEN SCHOOL, Scuola Cognitiva Firenze

 

Definizione di autismo

Il disturbo dello spettro autistico è un disturbo neurologico caratterizzato da un ritardo nello sviluppo delle interazioni sociali e della comunicazione e da forme atipiche di entrambe, oltre che dalla presenza di comportamenti stereotipati e di interessi ristretti (American Psychiatric Association, 2013).

Lo sviluppo del disturbo avviene entro i 36 mesi ed interessa l’individuo per tutta la vita (Poslawsky, Naber, Van Daalen & Van Engeland, 2014; Karst & Van Hecke, 2012). Nelle ultime tre decadi, è notevolmente aumentato il tasso di diagnosi dello spettro autistico (Lord & Bishop, 2010) e ciò ha portato a concentrare l’attenzione dei ricercatori sulla comprensione dei meccanismi genetici e biologici ancora sconosciuti alla base del disturbo, e quella dei clinici allo sviluppo di interventi sempre più efficaci, non solo per aiutare i bambini affetti dal disturbo, ma anche per migliorare la qualità della vita delle loro famiglie (Karst & Van Hecke, 2012).

 

Psicologia: le reazioni dei genitori alla diagnosi

Innanzitutto dobbiamo sottolineare che non tutti i genitori vivono la diagnosi di disturbo dello spettro autistico del figlio allo stesso modo; infatti mentre in alcuni casi la comunicazione della presenza di un disturbo alla base di determinati comportamenti viene considerata fonte di sollievo e conferma dei propri dubbi e delle proprie preoccupazioni, in altri altri le reazioni dei genitori alla diagnosi possono comportare shock, dolore e insoddisfazione, nonostante anche questi familiari avessero dei sospetti al riguardo (Russel & Norwich, 2012; Carlsson, Miniscalco, Kadesjo &Laakso, 2016).

Le negative reazioni dei genitori alla diagnosi derivano da due aspetti principali: la constatazione della presenza di un grave disturbo e le caratteristiche stesse del processo di diagnosi.

Per quanto concerne il primo aspetto, Estes e colleghi (2009) hanno sottolineato che lo stress percepito dai genitori alla diagnosi è maggiore nei casi di autismo piuttosto che nei genitori di bambini con altre tipologie di ritardo nello sviluppo. Ciò sarebbe dovuto anche alle caratteristiche stesse del disturbo come per esempio ritardo cognitivo, problemi comportamentali, umore irritabile, iperattività, assente o ridotta capacità di prendersi cura di sé, deficit nel linguaggio, difficoltà sociali e necessità di essere accuditi per tutto l’arco di vita (Lyons, Leon, Phelps & Dunleavy, 2010; Karst & Hecke, 2012).

Un aspetto particolarmente rilevante riguarda l’influenza che la gravità della sintomatologia riportata al momento della diagnosi ha sulle reazioni dei genitori e sul livello di stress percepito dagli stessi. È stato notato, infatti, che mentre nel periodo successivo alla diagnosi, maggiore è la gravità dei sintomi, più elevato è il livello di stress dei genitori, al momento della diagnosi la situazione si capovolge: infatti per i genitori di bambini con disturbo dello spettro autistico di lieve entità la diagnosi rappresenta una brutta sorpresa, mentre i genitori di bambini con grave sintomatologia ricevono una conferma dei loro sospetti e questo li porta quindi ad esperire livelli inferiori di stress (Siklos &Kerns, 2007; Moh & Magiati, 2012).

Per quanto riguarda, invece, il processo diagnostico, sono stati individuati alcuni aspetti che incidono negativamente sulle reazioni dei genitori alla diagnosi. Un primo aspetto molto importante è l’eccessivo tempo atteso prima di ricevere la diagnosi a partire dalla prima identificazione dei sintomi. Tale situazione viene considerata in maniera particolarmente negativa dai genitori, sia perché il ritardo nel ricevere la diagnosi può associarsi ad incertezza, ansia e senso di impotenza (Bruey, 2004), sia a causa del fatto che i genitori hanno la sensazione che stanno perdendo del tempo prezioso per poter iniziare un intervento adeguato (Cohen, 2006).

Altro aspetto direttamente connesso al ritardo nel ricevere la diagnosi, è il numero di professionisti consultati: Siklos  e Kerns (2007) hanno trovato che in alcuni casi il processo per ottenere una diagnosi può durare anche 3 anni con una media di 4,5 professionisti consultati in questo periodo. Il doversi rivolgere ad un numero elevato di professionisti viene vissuto negativamente dai genitori, i quali dichiarano di essere meno soddisfatti del percorso diagnostico rispetto ai genitori che consultano un numero inferiore di professionisti e che ricevono la diagnosi in tempi più brevi (Goin-Kochel, Mackintosh & Myers, 2006; Moh & Magiati 2012).

Parlando del rapporto con i professionisti, è stato dimostrato che anche il modo in cui gli specialisti stessi si pongono nei confronti dei genitori, e le informazioni che forniscono, hanno una certa rilevanza. Infatti, i genitori sono maggiormente soddisfatti del processo diagnostico quando hanno la possibilità di fare delle domande, quando vengono fornite loro informazioni utili e quando i professionisti stessi si mostrato empatici nei loro confronti (Brogan & Knussen, 2003; Osbourne & Reed, 2008;; Moh & Magiati, 2012).

 

 

Fattori che possono influenzare lo stress genitoriale durante e dopo il processo diagnostico

Innanzitutto occorre sottolineare che la notizia della presenza di disturbo dello spettro autistico ha un grande impatto nelle reazioni dei genitori alla diagnosi, ed alti livelli di stress percepito spesso si manifestano anche in seguito e non solo come reazione alla diagnosi, provocando una diminuzione della qualità della vita all’interno della famiglia e un aumento dei problemi all’interno della coppia genitoriale (Moh & Magiati, 2012; Karst & Van Hecke, 2012).

Nel corso degli anni, vari studi hanno trovato dei fattori che possono influenzare tale stress percepito dai genitori: la gravità della patologia, le strategie di coping adottate, ed il supporto sociale (Lyons et al., 2010, Karst & Van Hecke, 2012; Poslawsky et al., 2014). Per quanto concerne la gravità della patologia, come evidenziato precedentemente, una volta concluso il processo diagnostico mostrano livelli più elevati di stress i genitori i cui bambini presentano una sintomatologia più grave. Secondo Davis e Carter (2008), non sarebbero i singoli sintomi, quanto la combinazione di problemi a livello emotivo, funzionale e comportamentale, tipica dei bambini con disturbo dello spettro autistico, a causare reazioni dei genitori alla diagnosi caratterizzate da elevati livelli di stress e sofferenza.

Altro fattore che gioca un ruolo molto importante sono le strategie di coping. Il coping viene definito da Lazarus & Folkman (1984) come gli sforzi cognitivi e comportamentali per trattare richieste specifiche (interne ed esterne) che sono valutate come eccessive ed eccedenti le risorse di una persona; sono state poi individuate tre strategie principali utilizzate dalle persone per fronteggiare lo stress: coping orientato sul problema, coping centrato sulle emozioni e coping orientato all’evitamento. In linea generale possiamo affermare che le strategie di coping centrate sul problema sono correlate ad un adattamento alla situazione, mentre quelle centrate sulle emozioni alla psicopatologia (Lyons et al., 2010); gli studi condotti sull’adozione di tali strategie da parte dei genitori di bambini con autismo confermano questo dato, per cui i genitori maggiormente centrati sulle emozioni presentano livelli più elevati di stress in quanto maggiormente coinvolti dal punto di vista emozionale, piuttosto che attenti a risolvere e riconcettualizzare la situazione problematica che stanno vivendo (Smith, Seltzer, Tager-Flusberg, Greenberg & Carter 2008).

Lyons e colleghi (2010), inoltre, hanno evidenziato che l’utilizzo di strategie centrate sulle emozioni aumenta lo stress dei genitori in quanto li porta ad avere elevati livelli di pessimismo nei confronti della situazione, mentre le strategie centrate sul problema si collegano anche ad un miglioramento dal punto di vista delle abilità fisiche dei bambini; infine le strategie orientate all’evitamento vengono considerate particolarmente utili nei casi in cui la sintomatologia del bambino sia molto grave.

Infine, occorre sottolineare come ultimo fattore in grado di influenzare le reazioni dei genitori alla diagnosi e il loro adattamento ad essa, anche il supporto sociale. Il supporto sociale si riferisce alla disponibilità di relazioni d’aiuto a cui un individuo può attingere durante un periodo di stress (Leavy, 1983), e date le numerose richieste cui un genitore di un bambino con autismo deve far fronte, si rivela particolarmente necessario (Khanna, Madhaven, Smith, Patrick, Tworek & Becker-Cottrill, 2011).

È stato dimostrato che il supporto sociale non solo è in grado di ridurre lo stress percepito dai genitori, ma può anche contribuire alla diminuzione di sintomi depressivi e al generale miglioramento dell’umore (Ekas, Lickenbrock & Whitman, 2010); tuttavia nelle situazioni di persistente stress genitoriale, comune nei genitori di bambini con disturbo dello spettro autistico, vi è una minore percezione del supporto sociale, per cui può verificarsi la situazione in cui i genitori non siano consapevoli e quindi non utilizzino le risorse di cui invece dispongono (Karst & Hecke, 2012). Un aspetto che contribuisce alla diminuzione del supporto sociale è il fatto di essere un genitore single, questo dato risulta particolarmente importante anche alla luce della forte incidenza di divorzi tra i genitori di bambini con autismo (Hartley, Barker, Seltzer, Greenberg & Floyd, 2011).

Trauma, coscienza, personalità. Scritti clinici di Pierre Janet (2016) – Recensione

Un’antologia di scritti, soprattutto casi clinici, aiuta a riscoprire definitivamente anche in Italia uno dei padri della psicoterapia dinamica: Pierre Janet.

Janet: uno dei padri della psicoterapia dinamica

Quando, nell’ormai lontano 1970, apparve il monumentale volume di Henri Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, molti freudiani ortodossi rimasero perplessi. Prigionieri della biografia agiografica di Freud scritta da Ernest Jones (1953) si ritrovavano davanti agli occhi una ricostruzione sostanzialmente obiettiva della storia della psicoterapia dinamica e non riuscivano ad adattarsi. Come? – pensavano – Freud non era un eroe senza macchia e senza paura? Jung non era un traditore matricolato? Il concetto di inconscio esisteva prima della nascita della psicoanalisi?

Ellenberger (1970) ebbe il merito di mettere in evidenza queste ed altre verità storiche oggi ormai definitivamente acclarate e la maggior parte delle sue posizioni storiografiche è stata acquisita anche dagli ambienti psicoanalitici più conservatori. Soprattutto di fronte ai contributi di autori come Sulloway (1979) e Crews (1995; 1998) che di Freud hanno dipinto ritratti a tinte ben più fosche. Una delle idee di fondo di Ellenberger, però, ha molto tardato a imporsi, quella che Pierre Janet andasse considerato uno dei padri della psicoterapia dinamica, al pari di Freud, Jung e Adler. Eppure anche in questo caso lo storico svizzero aveva ragione: Janet era destinato a essere nuovamente riletto e apprezzato, una volta dissipata la nebbia che la psicoanalisi classica aveva sollevato per coprire i meriti degli avversari di Freud.

 

Breve biografia di Janet

Pierre Janet, in effetti, era una figura assai nota in Europa ben prima che le opere di Freud iniziassero a essere veramente lette e apprezzate al di fuori dell’ambiente medico viennese, con la possibile eccezione degli Studi sull’isteria, che peraltro lo stesso Janet considerava nulla più che una conferma delle sue teorie (Janet, 2016, p. 10). Allievo di Théodule Ribot, padre della psicologia scientifica francese, Janet si era addottorato in filosofia e medicina a Parigi ed era rapidamente divenuto la figura principale della nascente psicoterapia francese. Quando la psicoanalisi cominciava ad affacciarsi sulla scena internazionale per merito di Jung, nel 1906, i contributi scientifici di Janet erano già ben noti agli psichiatri dell’epoca. Janet fu del resto tra i più fieri oppositori all’affermarsi della psicoanalisi. Riteneva infatti che [blockquote style=”1″]Freud si fosse tranquillamente appropriato del suo lavoro, e che la psicoanalisi non fosse altro che una brutta copia della sua analisi psicologica[/blockquote] (Borch-Jacobsen e Shamdasani, 2012, p. 62).

Fu però la psicoanalisi ad affermarsi clamorosamente nel mondo in capo a pochi anni: e la vittoria di Freud portò con sé, appunto, un completo oblio del contributo di Janet alla nascita della psicoterapia. La riscoperta di Janet, tuttavia, auspicata da Ellenberger, è in effetti ormai ampiamente avvenuta. Scriveva infatti già venti anni fa: [blockquote style=”1″]Se si leggesse l’attuale letteratura psicoanalitica come un romanzo gotico a puntate, non sarebbe difficile intravedere il fantasma senza pace di Pierre Janet, scacciato dal castello di Sigmund Freud un secolo fa, ritornare oggi per tormentare i suoi discendenti. Con inquietante comunanza, le principali scuole di pensiero analitico sono diventate responsive al fenomeno della dissociazione e, ognuna a suo modo, sta tentando di adattarlo all’interno del proprio modello di mente e approccio al caso clinico[/blockquote] (Bromberg, 1995, p. 119).

Anche la tecnica terapeutica di Janet può essere rivalutata: “Per fare un solo esempio” argomenta Giovanni Liotti nella prefazione “le tecniche proposte da Janet per incrementare la capacità di ‘sintesi mentale’ (vedi il caso di Justine) sembrano consonare con quelle contemporanee intese ad aumentare la capacità di mentalizzazione, ovvero le abilità metacognitive del paziente” (Liotti, 2016, p. x). Anche la “gestione della relazione terapeuticca” operata da Janet sembra meritare una particolare attenzione, ad avviso di Liotti: Janet a suo avviso “cercava anzitutto di entrare in uno stato intersoggettivo di condivisione empatica con le parti dissociate” della personalità dei suoi pazienti”, usando un atteggiamento “che sembra configurare un’interessante variante dell’empatia” (Liotti, 2016, p. xi).

 

Il libro “Trauma, coscienza e personalità”

Trauma, coscienza e personalità è il secondo libro di Janet che esce per i tipi di Cortina nel giro di pochi anni, facendo seguito alla traduzione integrale della tesi di dottorato in filosofia su L’automatismo psicologico (Janet, 1889) uscita nel 2013. Questa nuova uscita è invece un’antologia, costituita da quattro capitoli dell’edizione del 1911 dello Stato mentale delle isteriche; da due capitoli dell’edizione del 1898 di Nevrosi e idee fisse; da due capitoli di Dall’angoscia all’estasi, del 1926; da un saggio apparso su Scientia nel 1910 dal titolo “Il subcosciente”.

Anche la storia “interna” dei testi è complessa. In particolare, la prima parte dello Stato mentale delle isteriche era stata pubblicata in volume nel 1893 con la prestigiosa prefazione di Charcot e riassumeva una serie di studi precedenti sulle stigmate mentali, concentrandosi su anestesie, amnesie, abulie, difficoltà nei movimenti e modificazioni del carattere. La seconda era uscita l’anno seguente e corrispondeva alla tesi di dottorato discussa il 29 luglio 1893. In questo caso Janet si concentrava piuttosto su idee fisse, sonnambulismo, deliri e sui cosiddetti “attacchi” isterici.

[blockquote style=”1″]A partire da queste osservazioni, Janet suggerisce che l’isteria sia essenzialmente caratterizzata dalla debolezza della sintesi psicologica, dall’impotenza in cui si trova il soggetto di riunire, di condensare i suoi fenomeni psicologici e di condensarli nella propria personalità […] La debolezza della volontà si unisce alla debolezza della sintesi psichica[/blockquote] (Nicolas e Ferrand, 2003, p.287).

La terza parte dell’edizione del 1911 era invece apparsa solo in un libro curato da Albert Robin nel 1898, anche se non conteneva innovazioni teoriche di rilievo. Il fatto che manchino delle indicazioni sulle differenze tra le edizioni originali e quella di riferimento per la traduzione costituisce in effetti un problema, soprattutto per chi voglia utilizzare il libro come fonte storica. Un problema che tuttavia non inficia la più che lodevole iniziativa editoriale, per la quale bisogna ringraziare oltre a Raffaello Cortina, i due curatori Francesca Ortu e Giuseppe Craparo.

Mad in America, cattiva scienza, cattiva medicina e maltrattamento dei malati mentali di Robert Whitaker (2015) – Recensione

Il libro ripercorre la storia della psichiatria americana ed europea a partire dal 1750, quando il malato mentale veniva trattato come un essere inferiore, tanto da meritarsi come cura i salassi, le purghe, la sedia rotante e la somministrazione di sostanze che inducevano la nausea.

 

La storia della psichiatria nel libro di Whitaker

Conoscere la storia della psichiatria riveste grande importanza per comprendere dove siamo arrivati oggi nella cura della malattia mentale. E’ da questa premessa che il giornalista scientifico Robert Whitaker parte per scrivere questo libro, che in parte completa l’altra sua celebre opera Indagine su un’epidemia, che contiene concetti molto provocatori (ma in parte aimè condivisibili) come quello che gli esiti della cura della malattia mentale grave erano migliori cento anni fa (quando non c’erano gli psicofarmaci) o che c’è una remissione maggiore dei disturbi psichiatrici nei paesi in via di sviluppo (dove ci sono pochi psicofarmaci) rispetto ai paesi sviluppati.

Il libro ripercorre la storia della psichiatria americana ed europea a partire dal 1750, quando il malato mentale veniva trattato come un essere inferiore, tanto da meritarsi come cura i salassi, le purghe, la sedia rotante e la somministrazione di sostanze che inducevano la nausea. L’800 ebbe con il francese Pinel una temporanea umanizzazione dei trattamenti, con l’introduzione della cosiddetta terapia morale (antesignana del modello biopsicosociale, che vedeva la malattia mentale anche come conseguenza di eventi di vita stressanti), che venne ripresa in America da alcune comunità di Quaccheri.

Il ‘900 (definito dall’autore l’età più buia) fu caratterizzato da una regressione della visione della malattia mentale, anche grazie alla diffusione dell’eugenetica, che identificava nel malato di mente un portatore di patrimonio genetico alterato che andava pertanto eliminato per migliorare la razza umana.

Negli anni ’20 negli Stati Uniti si arrivò alla sterilizzazione obbligatoria dei malati mentali, alla stregua della Germania Nazista. In quell’epoca manicomiale il disagio psichico era visto come qualcosa da eradicare violentemente producendo lesioni al cervello. I trattamenti terribili in voga in quel periodo comprendevano il coma insulinico, l’uso massiccio di barbiturici, la terapia convulsiva con metrazol e poi con scosse elettriche, la lobotomia (in precedenza altre mostruosità chirurgiche come l’estrazione di tutti i denti o l’isterectomia come possibile cura della follia).

La modalità di sperimentazione scientifica per salute mentale di quel periodo e, secondo l’autore anche in parte del periodo successivo, contravveniva al celeberrimo Codice di Norimberga (prodotto dopo la seconda Guerra Mondiale in opposizione agli orrori sanitari del Terzo reich), che sanciva il principio secondo il quale gli interessi scientifici non avrebbero mai dovuto avere la precedenza sui diritti dell’essere umano.

 

Le ricerche sugli psicofarmaci

Oltre ai danni cerebrali permanenti causati dalla lobotomia, nel libro viene raccontato il periodo delle ricerche americane sull’esacerbazione di psicosi indotta da allucinogeni come l’LSD, che veniva somministrato in dosi massicce senza un valido consenso dei pazienti. La scoperta degli psicofarmaci a partire dagli anni ’50 per certi versi rivoluzionò radicalmente la cura e la qualità di vita delle persone affette da disturbi mentali, anche se l’autore non ne riconosce il valore e anzi sostiene che gli psichiatri americani ne abbiano sempre fatto un uso sconsiderato, in nome di un riduzionismo biologico che in Europa ha sicuramente preso meno piede.

Vengono presentati studi e testimonianze che mettono in discussione l’efficacia degli psicofarmaci, in particolare i neurolettici (anche quelli di nuova generazione), che aumenterebbero addirittura il rischio di ricadute nella malattia. Whitaker accusa la classe psichiatrica americana di essere stata accecata di fronte al miraggio psicofarmacologico, che poi è stato ridimensionato in termini di efficacia e in questo anche le industrie farmaceutiche hanno sicuramente le proprie responsabilità.

Sicuramente un libro-inchiesta molto efficace che pecca un po’ della mancanza dell’aspetto propositivo, privilegiando quello critico.

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