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Il ruolo dell’attaccamento infantile nelle conversazioni tra madre e bambino su eventi autobiografici condivisi

La qualità dell’attaccamento infantile può incidere sullo stile conversazionale materno? Negli ultimi anni si sono incrementati gli studi che hanno indagato la qualità dell’attaccamento infantile come possibile fattore responsabile delle differenze nello stile conversazionale materno durante le conversazioni su eventi autobiografici condivisi, la maggior parte dei quali è giunta alla conclusione che le madri sono più elaborative con i bambini sicuri rispetto a quelli insicuri.

Raffaella Mancini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Lo sviluppo della narrazione nei bambini

Nella nostra cultura i bambini sono esposti precocemente al genere narrativo, che costituisce una delle prime modalità per organizzare la storia e le esperienze personali (Rollo, 2007).

Le forme narrative forniscono una struttura coerente sia per raccontare il passato agli altri e sia per rappresentarlo a noi stessi. La narrazione, dunque, consiste sia in una modalità esteriore di trasmissione delle esperienze, sia in un’impalcatura interiore di rappresentazione delle stesse (Fivush, 1993, citato in Rollo e Benelli, 2003). Madre e bambino iniziano a parlare delle esperienze passate all’incirca quando quest’ultimo ha 18-20 mesi. Sono le madri che forniscono la maggior parte dei contenuti alle conversazioni, attraverso dichiarazioni o domande chiuse, mentre i bambini si limitano a rispondere, il più delle volte confermando o ripetendo ciò che la madre dice.

Poi, gradualmente, con lo svilupparsi delle abilità linguistiche del bambino, le madri passano ad utilizzare domande aperte, in modo da coinvolgerlo maggiormente nella conversazione (Ferrant e Reese, 2000; Haden, Ornstein, Rudek e Branstein, 2006, citato in Fivush, Haden e Reese, 2006). Tale atteggiamento sembra riflettere la sensibilità materna allo sviluppo delle capacità del proprio figlio di impegnarsi in conversazioni che riguardano eventi passati. I bambini, quindi, diventano sempre più capaci di partecipare a queste conversazioni, sanno rispondere a domande sugli eventi passati e forniscono informazioni appropriate sull’accaduto, giungendo a proporre da soli tali argomenti come oggetto di conversazione (Smorti, 1997).

 

Gli stili comunicativi materni

Ricerche precedenti hanno rilevato una considerevole variabilità nel modo in cui le madri strutturano le conversazioni su eventi passati condivisi; in particolare, sono stati individuati due distinti stili materni, che differiscono per il grado di elaborazione delle conversazioni (Fivush e Fromhoff, 1988, citato in Fivush et al., 2006). Da un lato vi sono le madri altamente elaborative che parlano in dettaglio, fornendo ad ogni turno di conversazione informazioni sempre più interessanti e invitando, attraverso domande aperte, i loro figli alla conversazione (Fivush et al., 2006). In questo modo esse si adoperano per elicitare e mantenere un’attività congiunta di ricordo anche quando i figli non contribuiscono attivamente al racconto.

Dall’altra parte le madri meno elaborative adottano uno stile più pragmatico, ripetitivo, ovvero discutono esperienze passate con i loro figli facendo poche domande o ripetendo sempre le stesse, fornendo poche informazioni sull’evento e indagando su aspetti specifici di quest’ultimo (Fivush et al., 2006). Esse sembrano interessate ad ottenere specifiche informazioni sugli eventi e tendono a considerare le conversazioni sui ricordi come un modo per verificare le capacità mnestiche dei loro bambini.

Inoltre è emerso come le madri tendono ad utilizzare con il proprio bambino, nel tempo, lo stesso stile narrativo (Reese, Haden e Fivush, 1993, citato in Bost, Shin, McBride, Brown et al., 2006) e quest’ultimo tende ad essere collegato allo stile narrativo e cognitivo dei propri bambini, ovvero i bambini rispecchiano lo stile che le loro madri utilizzano con loro durante le conversazioni (Peterson e McCabe, 1992 citato in Newcombe e Reese, 2004), dimostrando così che non sono degli ascoltatori passivi, ma rispondono alla struttura e allo stile che le loro madri utilizzano nelle conversazioni con loro.

Le differenze individuali nello stile conversazionale materno sembrano essere associate anche ad alcune caratteristiche del bambino, quali il sesso, le competenze linguistiche e i tratti temperamentali (Fivush et al., 2006; Laible, 2004). Riguardo al ruolo che il sesso del bambino può avere nello stile conversazionale materno le differenze di genere che sono state individuate in alcune ricerche hanno rilevato che le madri tendono ad essere più elaborative con le bambine che con i bambini (Fivush, Berlino, Vendite, Mennuti-Washburn et al., 2003; Reese, Haden e Fivush, 1996, citato in Fivush et al., 2006), in particolar modo nelle discussioni su temi emotivi (Brown e Dunn, 1996, citato in Farrar, Fasing e Welch-Ross, 1997).

 

L’attaccamento infantile e lo stile narrativo materno

Relativamente alle abilità linguistiche e al temperamento del bambino, invece, si è osservato che le madri sono più elaborative con i bambini che hanno maggiori competenze linguistiche (Ferrant et al., 2000; Newcombe et al., 2004; Welch-Ross, 1997, citato in Fivush et al., 2006) e con quelli valutati più socievoli (Lewis, 1999, citato in Fivush et al., 2006) e con maggiore effortul control (Laible, 2004, citato in Fivush et al., 2006).

Di particolare interesse è il ruolo dell’attaccamento infantile come un fattore responsabile delle differenze nello stile conversazionale materno. L’attaccamento viene teorizzato da Bowlby come un sistema motivazionale primario: una predisposizione biologica del bambino verso chi si prende cura di lui. Secondo Bowlby (1969, 1973, 1980, citato in Cassibba e D’Odorico, 2000), il bambino nasce provvisto di una serie di comportamenti, geneticamente predeterminati, che svolgono un’importante funzione adattiva. Questi comportamenti, come il sorriso, il pianto, l’aggrapparsi, sono definiti comportamenti di attaccamento. Essi fanno parte di un sistema comportamentale finalizzato a garantire al bambino la prossimità fisica con l’adulto, la cui funzione biologica è quella di garantire la sopravvivenza, mentre quella psicologica è di ottenere un senso di sicurezza interna attraverso, appunto, il contatto e la prossimità fisica.

The Strange Situation. -SLIDER- Di Davide Osenda © State of Mind 2016 www.stateofmind.itLa prima e principale studiosa delle differenze individuali nell’attaccamento è Mary Ainsworth (Simonelli e Calvo, 2002). Quest’ultima, insieme ai suoi collaboratori, ha ideato una procedura osservativa, chiamata la Strange Situation, che da allora è diventata il metodo principale, più diffuso e validato per valutare l’attaccamento nella prima infanzia (Simonelli et al., 2002). Tale procedura osservativa ha portato all’identificazione di tre principali pattern di attaccamento: attaccamento sicuro (B), attaccamento insicuro-evitante (A) e attaccamento insicuro-ambivalente (C), ai quali è stato aggiunto successivamente una quarta categoria, denominata attaccamento disorganizzato (D).

Tornando all’attaccamento infantile come un fattore responsabile delle differenze nello stile conversazionale materno, i ricercatori, a tal proposito, hanno affermato che la qualità dell’attaccamento del bambino può condizionare la natura del discorso tra quest’ultimo e la madre, in particolare quando le conversazioni riguardano problemi o questioni emotive e relazionali (Laible, 2004). Infatti un elemento centrale della teoria dell’attaccamento è che la sicurezza dell’attaccamento infantile si riflette nella comunicazione tra madre e bambino (Etzion-Carasso e Oppenheim, 2000).

Bowlby (1988, citato in Etzion-Carasso et al., 2000) ritiene che una delle principali differenze tra diadi con attaccamento sicuro e attaccamento insicuro è il grado di apertura e di libertà nella loro comunicazione. È probabile che le madri di bambini sicuri siano più elaborative con i loro figli nel discutere questioni emotive e relazionali poiché si presume che entrambi i partner della diade abbiano dei modelli operativi interni sicuri, e data l’accessibilità di questi modelli per entrambi, si ipotizza che la comunicazione tra i due sia più aperta, coerente ed elaborativa (Bretherton, 1990, citato in Laible, 2004). Al contrario, si pensa che entrambi i partner di una diade insicura abbiano modelli operativi interni meno accessibili e in conflitto, i quali danno luogo a processi difensivi e scarsa comunicazione tra i membri della diade (Bretherton e Munholland, 1999, citato in Laible, 2004).

Inoltre questa relazione tra conversazioni su eventi autobiografici e modelli operativi interni può essere bidirezionale. Questi ultimi non solo potrebbero influenzare la scelta degli argomenti affettivi durante le discussioni sul passato ma, tali conversazioni, potrebbero influenzare la formazione di tali modelli operativi interni (Bretherton, 1993, citato in Farrar et al., 1997).

 

Gli studi sull’attaccamento infantile

A tal proposito diversi sono gli studi che hanno analizzato le conversazioni tra madre e bambino su eventi passati, sia positivi che negativi, all’interno della prospettiva teorica dell’attaccamento. Tra questi vi è quello di Laible e Thompson (2000), condotto su un campione di 42 bambini dell’età di 4 anni e le loro madri. Tra gli obiettivi vi era quello di indagare la relazione tra il contenuto delle conversazioni madre-bambino sul comportamento passato di quest’ultimo e la sicurezza dell’attaccamento infantile. Alle madri è stato chiesto di pensare a due eventi passati che hanno coinvolto sia lei che suo figlio, uno in cui il bambino si è comportato male e l’altro in cui si è comportato bene.

Le conversazioni sono state registrate e trascritte in modo da poter codificare i riferimenti materni e del bambino a sentimenti/intenzioni, regole sociali/morali/familiari e conseguenze materiali di un’azione, mentre l’attaccamento del bambino è stato valutato tramite l’Attachment Q-Sort (Waters et al., 1985, citato in Laible et al., 2000). I risultati hanno indicato l’esistenza di una relazione tra i discorsi carichi emotivamente e la sicurezza dell’attaccamento. I bambini sicuri e le loro madri hanno utilizzato più riferimenti ai sentimenti e alle valutazioni morali durante le discussioni su eventi passati rispetto a quanto hanno fatto i bambini con attaccamento insicuro e le loro madri. Ciò è coerente con le diverse formulazioni della teoria dell’attaccamento (Bretherton, 1990; Cassidy, 1988; Laible e Thompson, 1998; Main et al., 1985, citato in Laible et al., 2000) secondo le quali è probabile che il discorso su questioni delicate sia più frequente, coerente ed emotivamente aperto tra un bambino sicuro e la propria madre: le diadi sicure discutono un potenziale argomento minaccioso, in questo caso un comportamento scorretto del passato, con una maggiore apertura emotiva.

Nello stesso anno un contributo innovativo alla letteratura proviene dallo studio longitudinale di Etzion-Carasso e Oppenheim (2000), i quali hanno voluto analizzare la relazione predittiva, piuttosto che concorrente, tra l’attaccamento e le conversazioni tra madre e bambino su eventi passati. L’attaccamento infantile è stato valutato a 12 mesi, tramite la Strange Situation (Ainsworth, Blehar, Waters e Wall, 1978, citato in Etzion-Carasso et al., 2000), mentre la comunicazione tra madre e bambino è stata valutata quando quest’ultimo aveva 4,5 anni, a seguito di una separazione di circa 45 minuti. Alle madri è stato detto che dopo la riunione con il proprio bambino avrebbero avuto 3 minuti per parlare con il proprio figlio di ciò che era accaduto durante la separazione. La comunicazione tra madre e bambino è stata inizialmente codificata in comunicazione aperta o in comunicazione non aperta, e successivamente ciascuna macro-categoria è stata ulteriormente suddivisa in sotto-categorie. I risultati del presente studio dimostrano che vi è un’associazione tra l’attaccamento infantile e la successiva comunicazione madre-bambino in età prescolare. I bambini sicuri tendevano ad avere una comunicazione più aperta e coerente con le loro madri dopo una breve separazione rispetto ai bambini classificati come disorganizzati.

Tali risultati indicano come le caratteristiche del fenomeno di base sicura rimangano ugualmente importanti in età prescolare ma subiscano una significativa trasformazione. Ora la base sicura fornita dal caregiver non facilita solo l’esplorazione del mondo esterno, ma anche il mondo interiore dei pensieri e dei sentimenti (Bowlby, 1988, citato in Etzion-Carasso et al., 2000). La comunicazione aperta sembra supportare l’esplorazione da parte dei bambini dei loro mondi emozionali, i quali sanno che c’è qualcuno che riconosce, rispetta e risponde in modo appropriato e sensibile ai loro pensieri e sentimenti. Per quanto riguarda i bambini insicuro/ambivalenti, invece, i risultati non hanno indicato una chiara associazione tra attaccamento e comunicazione. Gli autori a riguardo hanno dato due possibili spiegazioni: tale pattern di attaccamento è di per sé incoerente e di conseguenza sono necessarie osservazioni più estese, o la separazione temporanea in laboratorio non era molto stressante per il bambino, quindi sono necessarie condizioni più stressanti che consentano di identificare con maggiore probabilità la comunicazione tra madri e bambini insicuri/ambivalenti.

A distanza di qualche anno Laible (2004) ha condotto uno studio il cui obiettivo era quello di verificare se la sicurezza dell’attaccamento e il temperamento del bambino predicono le differenze nell’elaborazione e nel contenuto emotivo delle conversazioni madre-figlio in due contesti e se, tali differenze, erano correlate allo sviluppo socio-emozionale del bambino. Allo studio hanno partecipato 51 bambini tra i 3 e i 5 anni con le loro madri. E’ stato utilizzato l’Attachment Q-Sort (Waters et al., 1985, citato in Laible, 2004) per valutare l’attaccamento infantile. Le due conversazioni sul comportamento passato sono state elicitate seguendo una procedura analoga a quella di Laible e collega (2000). Inoltre alle madri è stato chiesto di leggere e discutere con i propri figli un libro di fiabe, ricco di temi emotivi e morali. Le conversazioni sono state codificate per tre aspetti: riferimenti alle emozioni, valenza delle emozioni discusse (positiva, negativa e neutra) e stile elaborativo materno. Nel complesso i risultati hanno indicato che, oltre al temperamento, anche la sicurezza dell’attaccamento del bambino era collegata allo stile elaborativo materno e al contenuto delle conversazioni, anche se tali risultati variavano a seconda del contesto. Le diadi sicure hanno discusso l’emozione negativa con maggiore frequenza quando parlavano del comportamento passato del bambino, ed erano altamente elaborative rispetto alle situazioni in cui leggevano e discutevano il libro di fiabe. Tali dati sono coerenti con l’idea che le conversazioni tra madre e bambino sono emotivamente più aperte, elaborative e coerenti soprattutto quando riguardano questioni relazionali (Laible e Thompson, 1998; Thompson, Laible e Ontai, 2003, citato in Laible, 2004), e suggeriscono come la disponibilità delle diadi a focalizzarsi e a discutere l’emozione negativa potrebbe dipendere in parte dal contesto. Nello specifico le madri dei bambini sicuri possono essere sensibili al contesto del discorso e di conseguenza discutono le emozioni negative solo quando è costruttivo farlo.

Nello stesso anno Newcombe e Reese (2004) hanno condotto uno studio longitudinale e tra gli obiettivi vi era quello di esaminare l’associazione tra la sicurezza dell’attaccamento infantile e lo sviluppo dello stile narrativo dei bambini e delle madri. Il campione era costituito da 56 bambini e le loro madri, i quali sono stati osservati all’età di 19, 25, 32, 40 e 51 mesi. All’età di 19 mesi è stato chiesto alle madri di parlare con i loro bambini di due eventi che hanno vissuto insieme una sola volta, mentre dai 25 mesi in poi è stato chiesto loro di discuterne tre. L’attaccamento del bambino, all’età di 19 mesi, è stato valutato tramite l’Attachment Q-Sort (Water et al., 1985, citato in Newcombe et al., 2004). Tutte le conversazioni sono state registrate, trascritte e codificate. I risultati, in linea con le previsioni degli autori, hanno evidenziato differenze nello stile narrativo di bambini e madri in funzione della sicurezza dell’attaccamento. I bambini con attaccamento sicuro e le loro madri hanno sottolineato gli aspetti valutativi ed emotivi degli eventi quotidiani con maggiore frequenza rispetto ai bambini con un attaccamento insicuro e le loro madri, e hanno anche mostrato uno stile narrativo più coerente e maggiormente collaborativo.

 

L’attaccamento infantile e materno e gli stili narrativi di madre e bambino

Bost e colleghi (2006), a differenza degli studi citati, hanno preso in considerazione anche l’attaccamento materno, oltre a quello infantile: essi hanno condotto uno studio su 90 bambini di età prescolare e le loro madri, il cui obiettivo era quello di analizzare le relazioni tra le rappresentazioni materne dell’attaccamento, la sicurezza dell’attaccamento infantile e gli stili narrativi di madre e bambino valutati nel contesto dei ricordi di esperienze condivise.

L’attaccamento infantile è stato valutato con l’Attachment Q-Sort (Waters, 1995, citato in Bost et al., 2006) mentre le rappresentazioni materne dell’attaccamento sono state valutate con l’Attachment Script Representation Procedure (Waters, Waters, 2006 citato in Bost et al., 2006) che valuta il contenuto e la qualità dello script della base sicura. Gli stili narrativi madre-bambino sono stati valutati attraverso la procedura di Memory Talk (Fivush e Fromhoff, 1988, citato in Bost et al., 2006).

Alle madri è stato chiesto di parlare con il loro bambino di tre eventi che hanno condiviso nel corso dell’anno passato. I risultati di tale studio rivelano che le madri dei bambini sicuri, rispetto a quelli insicuri, discutono con i loro bambini gli eventi condivisi in modo da costruire un racconto dettagliato, elaborativo e carico emotivamente. Inoltre, è emerso che le variabili dell’attaccamento di madre e bambino erano positivamente e significativamente correlate, e gli script della base sicura erano significativamente correlati al numero di riferimenti alle emozioni nei racconti di madre e bambino, nonché alla partecipazione del bambino a tali conversazioni. Tali dati suggeriscono come le rappresentazioni dell’attaccamento influenzino il modo in cui le diadi madre-bambino pensano e discutono contenuti carichi emotivamente relativi agli eventi autobiografici del bambino.

Nel 2010 Laible ha condotto un altro studio su 50 bambini di età prescolare, in cui ha voluto analizzare come la sicurezza dell’attaccamento e il clima familiare siano connessi alla qualità dei ricordi tra madre e bambino. Alle madri è stato chiesto di parlare con il proprio bambino di due eventi emotivi passati che li hanno coinvolti, uno in cui ha manifestato un’emozione positiva e uno in cui ha manifestato un’emozione negativa. L’attaccamento è stato valutato tramite l’Attachment Q-Sort (Waters et al., 1985, cittao in Laible, 2010). Le conversazioni madre-bambino sono state codificate in: riferimento alle emozioni, discussione approfondita dell’emozione, cause dell’emozione e validazione dell’emozione, mentre lo stile elaborativo materno è stato codificato utilizzando i criteri che lo stesso Laible ha usato in una ricerca precedente (2004, citato in Laible, 2010).

Relativamente alla relazione tra la sicurezza dell’attaccamento e la qualità dei ricordi tra madre e bambino Laible ha rilevato, coerentemente con gli studi sopra citati, che lo stile elaborativo materno era correlato alla sicurezza dell’attaccamento infantile. Nello specifico, i bambini con attaccamento sicuro avevano madri che erano maggiormente elaborative quando discutevano con i loro figli delle esperienze emotive passate, sia positive che negative, rispetto ai bambini con attaccamento insicuro. Tuttavia l’attaccamento sicuro era principalmente collegato alla discussione delle emozioni durante le conversazioni di eventi negativi: le madri erano più propense a discutere le cause delle emozioni con i propri bambini, le discutevano in maniera più approfondita ed erano più disposte a confermare le esperienze emotive dei loro figli. Tali dati sono coerenti con le idee dei teorici dell’attaccamento, i quali sostengono che un legame di attaccamento sicuro dovrebbe essere caratterizzato dalla condivisione aperta di emozioni negative nella diade (Cassidy, 1994; Laible e Panfile, 2009, citato in Laible, 2010). Nel contesto dei ricordi, la volontà della madre di confermare le esperienze di emozioni negative del bambino, così come la sua volontà di aiutarlo nella comprensione delle cause di tali emozioni probabilmente è una dimensione della sensibilità materna.

 

Conclusioni

Da tale rassegna, dunque, si evince come lo stile narrativo materno e le conversazioni tra madre e bambino su eventi autobiografici varino in funzione della sicurezza dell’attaccamento infantile. Nello specifico le madri sono più elaborative quando ricordano con i bambini che hanno un attaccamento sicuro (Fivush et al., 2002; Laible, 2004; Reese et al., 2003, citato in Fivush et al., 2006), in particolare sugli aspetti emotivi e valutativi degli eventi passati (Farrar et al., 1997; Laible e Thompson, 2000; Newcombe et al., 2004, citato in Fivush et al., 2006).

10 risorse su autismo e disturbi dello spettro autistico

Il termine autismo, etimologicamente deriva dal greco αὐτός (autos) «stesso», ovvero «se stesso», termine coniato all’inizio del novecento dallo psichiatra psicodinamico svizzero Eugen Bleuler.

L’origine etimologica del termine rimanda chiaramente a quelle difficoltà comunicative e sociali e nell’attenzione condivisa che si riscontrano a diversi livelli e secondo modalità estremamente differenziate nei disturbi dello spettro autistico.

Vi proponiamo 8 libri e 2 film, recensiti su State of Mind, che esplorano da diversi punti di vista il mondo della neurodiversità.

 

Castelli_di_fiammiferiCastelli di fiammiferi. Una storia sulla disabilità e per la disabilità adatta a bambini e adulti (2013)

Un racconto semplice, vero e realistico.
La disabilità vista dagli occhi di un bambino, di un fratello, Jan, che prova a comprendere la sorella, affetta da autismo. Un fratello che sperimenta codici nuovi di comunicazione con lei, che si sforza di interpretare il suo comportamento, i suoi movimenti e lo sguardo… Un libro adatto a bambini, dai dieci anni, a genitori e a noi operatori. Un libro che ci mostra il punto di vista di un fratello sull’autismo. Attraverso gli occhi di Jan, la scrittrice ci ricorda che un figlio con disabilità non è preoccupazione solo per i genitori ma anche i fratelli vivono l’esperienza della diversità e della sofferenza, anch’ essi si preoccupano e possono sentire su di loro la responsabilità della cura non solo del fratello o sorella, ma talvolta dei genitori stessi… LEGGI LA RECENSIONE

 

 

Preparare alla scuola il bambino con autismo - Erickson Editore - RECENSIONEPreparare alla Scuola Il Bambino con Autismo

Un manuale pratico, non ci sono riferimenti ad approcci teorici, anche se le soluzioni pratiche proposte rientrano nell’ambito di strategie riconosciute efficaci dalla comunità scientifica. Si tratta soprattutto di interventi che utilizzano le immagini a supporto della verbalità e a sostegno della promozione di comportamenti adeguati. Un libro alla portata di tutti, ma la sfida più grande, nel contesto della scuola italiana, rimane il consolidamento di una buona prassi di inserimento scolastico di questi bambini, che costituisce il primo passo per la garanzia del diritto di integrazione di tutti gli alunni. L’impressione è che la preoccupazione di come affrontare questo momento delicato sia quasi interamente sulle spalle dei genitori, che da soli faticano a promuovere strategie utili come quelle descritte in questo testo… LEGGI LA RECENSIONE

 

 

Tony Atwood - Esplorare i sentimenti - copertinaEsplorare i sentimenti. Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia

C’era indubbiamente bisogno che qualcuno iniziasse ad adattare la CBT (Cognitive and Behavioral Therapy) destinata alle persone Asperger o con autismo ad alto funzionamento, soprattutto da quando questo tipo di trattamento psicologico è stato segnalato come terapia elettiva per il trattamento di ansia e rabbia nelle Linee Guida per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2011…

Questo libro costituisce indubbiamente di un primo passo importante verso il riconoscimento di una neurodiversità che necessita di interventi psicologici che devono prendere le dovute distanze da quelli pensati per i neurotipici ma la strada è ancora lunga, soprattutto perché sono quasi esclusivamente solo professionisti tipici a percorrerla… LEGGI LA RECENSIONE (Di Ilaria Cosimetti). Questo libro è stato recensito anche da Gianluca Frazzoni.

 

emozioni e sindrome di aspergerEmozioni e sindrome di Asperger. Educazione affettiva per bambini e ragazzi con sindrome di Asperger (2014)

Scritto dal prof. Tony Attwood e dalla dott.ssa Michelle Garnett, due psicologi clinici con una grande conoscenza dell’autismo, il programma fa della chiarezza e semplicità i suoi punti forza. Una solida base di strategie tipiche della Terapia Cognitivo Comportamentale, si arricchisce di accorgimenti e strumenti specificamente progettati per la popolazione autistica.

Se si parte dal presupposto che l’affetto non coincide con l’espressione dello stesso, regolata da convenzioni sociali a servizio della popolazione neurotipica, questo libro è un’importante risorsa per migliorare la capacità di esprimere affetto in maniera adeguata alla diverse relazioni e situazioni, nella convinzione che ciò possa incidere positivamente sulla qualità delle amicizie e delle relazioni, variabile significativa nella qualità di vita di ciascuno di noi, autistico o neurotipico… LEGGI LA RECENSIONE

 

storia dell'autismo: recensioneStoria dell’Autismo. Conversazioni con i pioneri: Evoluzione storica del disturbo e trattamenti

“Nulla è completamente originale. Tutto è influenzato da ciò che è stato prima”. Con queste parole di Lorna Wing, psichiatra britannica e madre di un’autistica, si apre questo interessantissimo libro e le pagine a seguire danno prova di ciò, ricordandoci costantemente che non si può andare da nessuna parte se non si conosce la strada percorsa da chi ci ha preceduti.
I personaggi raccontati dall’autore sembrano infatti cedersi il testimone dopo aver dato il loro personale contributo nella scrittura della storia dell’autismo che ha inizio negli anni ‘30 e, fortunatamente, continua ad appassionare ancora oggi professionisti, parenti e le stesse persone autisticheLEGGI LA RECENSIONE

 

 

Autismo e crescita familiareAutismo e Crescita Familiare (2014)

Il libro propone una tipologia di trattamento in cui la famiglia, dapprima destinataria dell’intervento, è in seguito considerata esperta del trattamento. Oggi gli studiosi escludono che la causa primaria dell’autismo possa essere di natura psicosociale e ambientale, e i genitori, inizialmente accusati di essere la causa del problema, sono considerati fattori indispensabili per l’efficacia del trattamento e la durata nel tempo degli apprendimenti. Questo manuale sintetizza il lavoro svolto all’interno dell’Associazione Il Filo dalla Torre a favore delle famiglie con un figlio autistico, secondo i principi dell’approccio PEIAD (progetto evolutivo integrato autismo e disabilità)… LEGGI LA RECENSIONE

 

 

le regole non scritte delle interazioni sociali_RecensioneAutismo: Le regole non scritte delle relazioni sociali (2014)

Nonostante le loro differenze, gli autori hanno concordato un elenco di dieci “regole d’oro” che a parer loro ogni bambino autistico dovrebbe apprendere attraverso le modalità più consone al suo schema di pensiero, visivo o verbale, e alle caratteristiche fisiche e mentali che lo caratterizzano. Entrambi ci raccontano attraverso quali risorse e ostacoli personali sono riusciti ad apprenderle e non si può rimanere indifferenti all’impegno e all’enorme fatica che traspare dalle loro parole.

Questo libro è un viaggio alla scoperta del regno del “pensiero diverso”. Ci fanno da guida Temple Grandin, zoologa, e Sean Barron, giornalista, entrambi autistici. Attraverso la narrazione di episodi di vita reale, ci raccontano il loro percorso di apprendimento del funzionamento sociale, basato su una fitta rete di regole e soprattutto di eccezioni ad esse… LEGGI LA RECENSIONE

 

 

Esplorare i sentimenti per i più piccoli_ Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia nei bambini di 5-7 anni. Il modello STAMPEsplorare i sentimenti per i più piccoli: Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia nei bambini di 5-7 anni. Il modello STAMP

E’ importante aiutare i bambini con disturbi dello spettro autistico ad acquisire dei mezzi per gestire i loro livelli di stress e ansia il prima possibile. Tra gli esperti più importanti in tema di Autismo e Asperger, Tony Attwood si è occupato proprio di questo attraverso la creazione di un protocollo per la gestione delle emozioni negative in bambini con Autismo ad alto funzionamento e Sindrome di Asperger (si farà da ora in poi riferimento alla classificazione da DSM IV-TR, così come nel protocollo illustrato).

Il manuale Esplorare i sentimenti per i più piccoli espone tale protocollo: Stress Treatment and Anger Management Protocol – STAMP, un programma di intervento pensato per bambini con Autismo ad Alto Funzionamento (HFA) e per bambini con Sindrome di AspergerLEGGI LA RECENSIONE

 

Temple Grandin - Thinking in Pictures. LocandinaTemple Grandin – Una Donna Straordinaria

“Mi chiamo Temple Grandin non sono come le altre persone penso in immagini e le metto in relazione”

Il film affronta il tema dell’Autismo ripercorrendo l’eccezionale vita di Temple Grandin, una donna autistica dotata di capacità straordinarie.

Attualmente Temple Grandin è una sessantenne americana con due lauree una in Psicologia e una in Zoologia, un master in Scienze Animali, è una tenace attivista del movimento in tutela dei diritti degli animali e delle persone con autismo. Inoltre, è ricercatrice e professoressa presso la Colorado University… LEGGI LA RECENSIONE

 

 

RAin manRain man -L’uomo della pioggia – (1988) e il mondo dell’autismo

La pellicola racconta la storia di un uomo autistico e del rapporto con il fratello minore, in una scoperta profonda dell’affettività e della condivisione.

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Memoria di un trauma: perché ricordiamo meglio l’evento negativo rispetto al contesto in cui è accaduto?

L’attivazione emotiva che accompagna un’esperienza può intensificarne ed accrescerne il ricordo, agendo sui processi di consolidazione della traccia. Tuttavia, non tutti gli aspetti della memoria sono potenziati dalle emozioni in egual modo.

 

L’attivazione emotiva che accompagna un’esperienza può intensificarne ed accrescerne il ricordo, agendo sui processi di consolidazione della traccia. Tuttavia, non tutti gli aspetti della memoria sono potenziati dalle emozioni in egual modo, e così avviene che esperienze spiacevoli o traumatiche possano essere ricordate in modo molto forte da ciascuno di noi solo per quanto riguarda il contenuto negativo dell’evento vissuto, e non per quanto concerne il contesto in cui tali esperienze si sono verificate.

 

Gli effetti del trauma su memoria e ricordi

Un recente studio di Bisby e colleghi (Maggio, 2016) condotto dalla University College London (UCL), finanziato dal Medical Research Council and Wellcome Trust, ha svelato cosa succede nel cervello, spiegando il meccanismo alla base di questo fenomeno. Lo studio, pubblicato in Social, Cognitive and Affective Neuroscience, ha implicazioni molto importanti nella comprensione di quei disturbi che coinvolgono l’interferenza dell’attivazione emotiva sulla memoria, come avviene ad esempio nel Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS).

L’esperimento ha coinvolto 20 studenti universitari volontari della UCL ai quali, durante fMRI, sono state mostrate coppie di immagini da ricordare, alcune delle quali implicanti contenuti negativi. In seguito, la memoria dei partecipanti è stata testata chiedendo loro se l’immagine mostrata dallo sperimentatore corrispondesse a quelle viste in precedenza. In caso di risposta affermativa, veniva chiesto loro di ricordare anche l’altra figura della coppia.

Durante la presentazione delle coppie di immagini, una dal contenuto negativo ed una dal contenuto neutro, la performance è stata migliore nel riconoscimento delle immagini negative, e ciò si è associato ad un aumento di attività dell’amigdala, una struttura cerebrale coinvolta nell’elaborazione ed immagazzinamento in memoria delle informazioni emotive.

Al contrario, scarsi risultati sono stati ottenuti nella rievocazione delle immagini comparse al fianco di quelle negative, e sono stati associati ad una ridotta attività dell’ippocampo, un’area cerebrale coinvolta nella memorizzazione del contesto circostante all’evento memorizzato.

L’ippocampo è infatti quella regione cerebrale che consente a ciascuno di noi di ricordare non solo il contenuto di un’esperienza, ma anche la circostanza in cui l’evento ha avuto luogo, in quanto crea delle associazioni tra contenuto e contesto, permettendo a tutti gli aspetti di un evento di essere richiamati insieme e collocati nel contesto appropriato. Quando questo non avviene si registra una ridotta attivazione dell’ippocampo, come è avvenuto nello studio esaminato durante il riconoscimento delle immagini a contenuto negativo.

Il risultato dello squilibrio tra memoria di eventi e memoria associativa è un ricordo forte, ma frammentario del contenuto traumatico dell’evento, privo però di quell’informazione circostanziale che consentirebbe di porlo nell’appropriato contesto.

Vivere un evento traumatico o un’esperienza negativa può far sì che si creino immagini vivide e dolorosamente intrusive di tale esperienza/evento, come avviene ad esempio nel disturbo post-traumatico da stress: le immagini si presentano intrusivamente come effetto del ricordo potenziato degli aspetti negativi del trauma isolati però dal contesto in cui si è verificato. Questo potrebbe essere il meccanismo che si cela dietro ai flashback, dove ricordi traumatici sono involontariamente rivissuti come se fossero successi nel presente.

Il concetto psicologico di controllo in Fairburn – I disturbi alimentari

Nel caso dei disturbi alimentari il controllo si esprime nel controllo del peso, del cibo e dell’aspetto corporeo attraverso la dieta, ed è rinforzato positivamente dalla sensazione di successo che si sperimenta quando si riesce a rispettarla, e negativamente dal timore di ingrassare. Il risultato è che, con l’intensificarsi della dieta, il peso decresce sempre più e il processo si autoperpetua.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il concetto psicologico di controllo in Fairburn (Nr. 15)

La credenza del controllo

Prima di proporre il modello “migliorato” del 2003 Fairburn, insieme con Cooper e Welch, aveva già tentato di rendere più sofisticato il suo primo modello. Nel 1999, questi tre studiosi proposero, accanto alla credenza cognitiva del timore di ingrassare, tre credenze più globali, che vanno oltre il cibo e il corpo: il perfezionismo, la valutazione negativa di sé e il bisogno di controllo. Delle prime due abbiamo già parlato negli articoli precedenti.

 

Il controllo nei disturbi alimentari

Qui ci concentreremo sul controllo. Il controllo come concetto clinico esplicativo è connesso a un’ipotesi già espressa nel 1973 da Hilde Bruch, seguita da Slade nel 1982, la quale ipotizzava che in individui con scarso concetto di sé ed elevati livelli di perfezionismo, il bisogno di controllo è centrale per lo sviluppo e il mantenimento di questo disturbo. Il controllo è legato non tanto a un obiettivo, sia pure negativo, come il timore di sbagliare (perfezionismo patologico) o alla scarsa stima di sé, ma piuttosto alla ricerca di un correttivo, di una soluzione alla paura della vita e del mondo che pervade la paziente con disturbo alimentare. Una soluzione o almeno una possibilità di gestione. E, in effetti, il timore viene in qualche modo gestito controllando, nutrendo cioè l’illusione di sapere sempre ed esattamente la misura e/o la dimensione degli eventi paventati.

Diversamente dal perfezionismo patologico o dalla bassa autostima, il controllo si presenta non come un problema, bensì come una soluzione. E in questo consiste la sua natura subdola e maligna. Nel caso dei disturbi alimentari il controllo si esprime nel controllo del peso, del cibo e dell’aspetto corporeo attraverso la dieta, ed è rinforzato positivamente dalla sensazione di successo che si sperimenta quando si riesce a rispettarla, e negativamente dal timore di ingrassare. Il risultato è che, con l’intensificarsi della dieta, il peso decresce sempre più e il processo si autoperpetua.

Secondo Slade è per questo motivo che il bisogno di controllo nei disturbi alimentari diventa una necessità compulsiva, un vero e proprio obbligo. Il controllo, in realtà, si applica a qualunque aspetto della vita ed è teso a prevenire ed evitare gli eventi imprevisti. L’imprevisto, per queste pazienti, è interpretato come minaccia ed è temuto e vissuto con profonda ansia. Il controllo è il mezzo con cui esse ritengono – ingenuamente – di prevenire l’imprevisto. Siccome il controllo sulla vita è impossibile, le pazienti affette da disturbo alimentare si limitano a controllare un aspetto circoscritto della vita, secondo una strategia rigida che condividono con gli ossessivi. L’aspetto prescelto è il peso. Il corpo, invece, è già qualcosa di più ambiguo e sfuggente. Il peso o il cibo si possono misurare e controllare facilmente: basta stabilire un determinato peso che va assolutamente rispettato. Del corpo, invece, esattamente cosa si controlla? E secondo quale criterio di giudizio? La riduzione alla magrezza estrema è forse il tentativo di ridurre il corpo a un unico parametro non troppo ambiguo: l’emaciazione scheletrica.

 

Le teorie sul controllo alimentare

Nel loro lavoro, dal 1999, Fairburn, Shafran e Cooper integrarono la teoria di Slade sul controllo alimentare con la loro precedente teoria fondata sulle credenze cognitive verso il peso e le forme corporee. Secondo i tre studiosi, le pazienti soffrono una necessità generale di controllo che, prima dell’esordio, tenta probabilmente di esprimersi su aspetti più complessi e potenzialmente gratificanti della vita, quali la realizzazione nello studio, nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni o nell’affettività. Ma questi ambiti si rivelano ben presto troppo complessi e incontrollabili.

Un altro studioso che si è occupato della funzione del controllo è stato Eric Button (1985), il quale ha descritto l’anoressia nervosa come una ricerca di controllo. Secondo Button, soggetti con disturbi alimentari si impongono regimi alimentari estremi- mente rigidi e condotte di eliminazione al fine di «comprimere», restringere il loro mondo. Le relazioni, il lavoro, il gioco e anche la vita e la morte tendono ad assumere una posizione subalterna rispetto a questioni concernenti il peso, la taglia, il grasso, il cibo e l’alimentazione: [blockquote style=”1″]Sebbene i pazienti abbiano un lavoro, siano impegnati nello studio o nella gestione della vita familiare, generalmente sono più assorbiti dal tentativo di resistere alla tentazione del cibo[/blockquote] (Button 2005, p. 199).

La spiegazione più plausibile di questa esasperata costrizione è che forse essa rende la vita più gestibile e controllabile. Soggetti con disturbi alimentari sentono di non essere capaci di controllare i rapporti personali, le reazioni interne e gli eventi in generale. Per ottenere la percezione del controllo e raggiungere un certo grado di prevedibilità, sono disposti a confinare le loro vite entro un’esperienza ridotta, circoscritta all’alimentazione e alle dimensioni corporee. Tuttavia, sebbene la gestione dell’alimentazione e delle dimensioni corporee offra in un primo momento l’attrattiva di una qualche possibilità di controllo, alla fine li condanna a un’esistenza isolata e insana (Button 1985; 2005).

Per Dalle Grave (2001) la tendenza al controllo si focalizza sull’alimentazione perché fornisce una prova evidente e immediata di capacità di autocontrollo, perché ha un potente effetto manipolatorio sugli altri e in particolare sui familiari, perché ci può essere stato un incoraggiamento da parte della famiglia stessa, perché la dieta e la conseguente magrezza possono arrestare o anche far regredire il processo della pubertà (che è un altro elemento vissuto dalla paziente come una minaccia dell’autocontrollo e dell’autostima), e infine perché l’associazione di idee tra restrizione alimentare e senso di autocontrollo è tipica e presente da secoli nella cultura occidentale.

Una volta iniziata la dieta, il disturbo si automantiene attraverso tre meccanismi principali: 1) la restrizione dietetica aumenta il senso di essere in controllo, poiché riuscire a seguire la dieta e a dimagrire produce, nelle fasi iniziali, un forte senso di gratificazione, autocontrollo e padronanza; 2) gli stessi effetti del digiuno incoraggiano un’ulteriore restrizione alimentare, come dimostrato dagli studi sul digiuno volontario di Keys e colleghi (1950); 3) la preoccupazione per il peso e le forme del corpo incoraggia la restrizione alimentare. Secondo Dalle Grave, l’ipotesi di Fairburn, Cooper e Welsh contiene indiscutibilmente alcuni pregi. Recupera alcuni concetti psicologici più complessi da Slade e da Garner e Bemis, ma li collega meglio ai sintomi alimentari veri e propri. Tuttavia è una spiegazione troppo concentrata sul controllo e sull’anoressia, mentre la riflessione sulla bulimia è insufficiente. Inoltre gli aspetti interpersonali sono ancora trascurati (Hsu et al., 1992).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

L’evoluzione del maschio nella storia e il suo ruolo nella società moderna

Io non credo che il maschio scompaia. Egli è sempre lì tra noi, intento a giocare il suo eterno gioco di caccia. È stato cacciatore, guerriero, prete, missionario, esploratore, artista e perfino a volte amorevole padre di famiglia, che poi è stato quello il suo ruolo e il suo momento meno maschile, nel borghese ottocento, e non questo nostro tempo che si dice infelice e non lo è.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 21/05/2016

Comparsa e ricomparsa del maschio

Il maschio scompare per poi ricomparire, e così la femmina. È una vecchia storia, un po’ ripetitiva e a volte triste, ma in fondo sempre appassionante. Anche se sappiamo come va a finire –nel solito modo: a letto- non ci sono spoiler che possano rovinarci l’attesa. Malgrado la falsa saggezza dei tanti recenti noiosi che passano il loro tempo a temere di sapere come vanno a finire i racconti più belli, le migliori storie sono quelle di cui già conosciamo il finale, e quale migliore finale se non sesso e amore? Lo vogliamo questo finale, e per questo un maschio ci vuole e non scompare. Che poi talvolta ci siano due maschi o due femmine sono variazioni sul tema, i timbri sono più psichedelici ma le leggi armoniche non cambiano, è come ascoltare Berlioz e i Grateful Dead invece che i Beatles e Beethoven: la dialettica dei suoni e dei sessi rimane quella, malgrado i pregiudizi.

 

Il maschio nella preistoria

Facciamo ordine. Di chi stiamo parlando? Del maschio alpha della banda dei cacciatori preistorici, del patriarca poligamo all’alba della storia o del severo padre di famiglia dell’ottocento? Non sono mica la stessa persona, anche se in comune hanno il pistolino. Il primo è un guerriero e un capo. Eccolo che corre spensierato in testa alla sua banda di giovinastri. È giovane ed esiste da duecentomila anni, da quando è apparsa l’umanità sulla terra. All’inizio c’era solo lui, quando l’umanità era fanciulla al tempo dei cacciatori-raccoglitori ed è sempre stato il più felice tra i maschi. Lo contempliamo nella sua giungla o nella sua savana, insieme ai suoi amici, sono tutti belli e tutti felici, se ne sta lì a cacciare un paio d’ore al giorno, giusto il tempo di raccogliere il suo pasto quotidiano a base di carne. Torna alle sue capanne coperto di gloria e di bullaggine, ed è un simpaticone, un tipo da discoteca e un grande figlio di puttana. La sua dieta è varia, oltre la carne ci sono radici, bacche e frutta ma niente pane e questo gli fa molto bene. La sua dentatura è perfetta anche in età avanzata, non ci sono carboidrati in giro e non vi è nemmeno l’ombra di una carie a guastargli la nobile forza delle zanne bianche. La sua muscolatura è scolpita e corre sotto la pelle. Il nostro giovane amico si agita il giusto, non più di due ore al giorno come abbiamo detto, e poi finita la caccia dormicchia, ciondola, se ne sta lì con la sua banda di 10-20 amici mentre altrettanto si divertono le 10-20 donne della banda, fanno anch’esse quel che loro aggrada, raccogliere frutta e bacche, chiacchierare con le amiche e badare un po’ ai pargoli. Sono tutti un po’ promiscui, fanno sesso casuale e i bimbi crescono tutti assieme, non si capisce bene chi sia figlio di chi, in fondo non importa.

Pare fosse così, almeno così la racconta Donald Symons in “The Evolution of Human Sexuality”. Bel libro, leggetelo (tranquilli, non vi dico come va a finire, no spoiler).

 

Il maschio diventa capofamiglia

La popolazione però cresce e le bestie da cacciare e le bacche da raccogliere vanno cercate sempre più lontano, e qui iniziano i guai per il nostro maschione alpha. In teoria è facile: basta tenere il numero dei componenti della banda sotto controllo. Si tratta solo di far fuori un po’ di bambini –come racconta con cruda tranquillità Marvin Harris in “Cannibali e Re”- e l’equilibrio tra bocche da sfamare e cibo cacciato e raccolto si mantiene.

Dite che far fuori bambini sia un sistema un po’ forte? Beh, è quello che pensarono anche i nostri antenati settemila anni fa, quando non ce la fecero più a sacrificare bambini e inventarono l’agricoltura. Diventammo sentimentali e fu l’inizio della fine, come scriveva quella bestia fanfarona di Nietzsche, in realtà incapace di far male a una mosca. Diventammo sentimentali e incapaci di seguire il sanguinario ritmo della natura, della caccia e della raccolta e dell’eliminazione delle bocche infantili sovrannumerarie, scoprimmo i buoni sentimenti e la carità. Il sacrificio di Dionisio-bambino, attirato nella cerchia dei Titani con giocattoli, ovvero tra gli adulti destinati a ucciderlo, diventò emotivamente gravoso fino a trasformarsi in una croce che nessuno voleva portare. Chissà perché poi, lo si era fatto per centonovantatremila anni, poi basta. Fatto sta che emersero tutti assieme i nostri guai: l’agricoltura, il lavoro, la società, la politica, il senso morale, la capacità empatica di identificarsi con l’altro, la pena per il bambino o la bambina da sacrificare. E morì la bestia bionda di Nietzsche, il maschio alpha, colui che dice di sì alla vita. E al sangue.

Non era però finita per il maschio. Al posto del cacciatore arrivò il patriarca, il capofamiglia poligamo e capotribù, alla testa di un’azienda agricola con decine di lavoranti: una tribù, una città, un impero. Emersero le differenze di classe e quelle di genere. Le donne furono confinate nella cura dei bimbi –non era più possibile farli fuori e quindi le donne se ne vedevano appioppare a decine e decine, uno nuovo ogni anno per l’intera vita fertile. Roba da ammazzarsi. D’altronde non c’erano anticoncezionali e il patriarca e i suoi accoliti avevano sempre voglia di fare il solito sesso, che ci vuoi fare. La dieta peggiorò, carboidrati a bizzeffe e solo quelli, sempre meno proteine, denti cariati, corpi deformati dalla fatica e dalle calorie ora carenti ora eccessive e sempre di scarsa qualità: riso e grano; un misto di denutrizione e obesità imbruttì l’umanità ben prima dell’era industriale. I capi, però continuavano a fare una vita da guerrieri, ogni estate si davano alla guerra lontano dai doveri agricoli che erano già doveri di ufficio: l’agricoltura richiede sei ore di lavoro al giorno, non le due orette dell’età dell’oro quando il cibo si cacciava e si raccoglieva. Questi doveri dell’aratro e del vomere dovevano essere così gravosi che la banda dei patriarchi aristocratici –stressatissimi come degli impiegati- non esitava a fuggire di casa per una decina d’anni e più all’assedio di Troia, pur di staccare dalla routine quotidiana. Salvo poi tornare e farsi trucidare in bagno dalla moglie incarognita, come accadde ad Agamennone. Il quale non si era fatto mancare il sacrificio della figlia Ifigenia, a dimostrazione che le epoche storiche sono intrecciate tra loro e l’agricoltura non aveva significato la fine dei sacrifici umani, lontana eco dell’abitudine ancestrale di uccidere la popolazione infantile in sovrannumero.

Come abitudini sessuali il patriarca è ancora un po’ promiscuo ma anche legalitario, sistema le intemperanze del pene e del cuore con la poligamia e/o il concubinaggio. Si concede ancora divertimenti con il suo stesso sesso, ma comincia a vergognarsene, lo fa di nascosto, si capisce e non si capisce, insomma Achille e Patroclo andavano a letto assieme o no? Boh! Non si sa. Odisseo è già un marito borghese, l’unico che pensa a tornare a casa e l’unico che ama sua moglie e la vita in famiglia in quella banda di achei appassionati solo di guerra e della vita tra maschi.

Al patriarca poligamo succede il terzo tipo di maschio, che discende da Odisseo. Nel migliore dei casi affettuoso, amante della vita in famiglia, lavoratore indefesso e rispettoso degli orari di ufficio, romantico nei sentimenti e negli affetti. Il suo trionfo è nell’interno familiare borghese, anche se poi, come Odisseo, si concede le sue scappatelle da maschio alpha. Anche lui va in guerra, conquista colonie in mezzo mondo, sta via per anni, s’intrattiene nei resort di Circe e Calipso ma poi torna sempre dalla sua Penelope. Anche se fa figli all’estero con una Madama Butterfly poi si sistema con una moglie del suo paese. Alla lunga si deprime, la vita nell’interno borghese è un carcere in cui si passa la giornata a fumare l’ultima sigaretta e a immaginare di far finire il mondo in un immane attentato terroristico. Il padre di famiglia è strettamente eterosessuale, e man mano che si inoltra nel novecento, diventa sempre meno propenso a scappatelle extraconiugali, o comunque le effettua in maniera sempre più coperta salvo incappare in Monica Lewinski. Eppure dietro Odisseo c’è sempre l’ombra di Achille: ancora in pieno novecento l’esplosione nazista riproduce il gruppo dei cacciatori guerrieri, le giovani belve assetate di sangue saltano fuori dalle trincee e sconvolgono il mondo di sangue, di spari e d’innovative forme di sacrificio umano. Così fan tutti.

 

Il maschio nella società moderna

Infine, si arriva a questa nostra età, che si dice confusa e che forse è felice. Le donne evadono dal carcere e dalla condanna alla maternità, con metodi ora gioiosi e giocosi e ora un po’ più tristi. Così è la vita. Il benessere economico ci regala calorie di qualità migliore rispetto ai terribili carboidrati cariatori di denti dell’età agricola. Possiamo perfino permetterci di essere vegetariani, ma nello spirito stiamo tornando all’età della caccia e della raccolta. Lasciamo alle spalle i ruoli rigidi richiesti dalla società agricola e ci abbandoniamo al flusso, siamo tutti un po’ donne e un po’ uomini e tutti siamo maschi e anche femmine, il sesso diventa un breve divertimento a cui in fondo non dare troppo peso, è più divertente semmai parlarne. Una nuova promiscuità è possibile, i ruoli sono meno importanti di un tempo e ci si concedono esperimenti con i propri co-gender, si tratta di esperienze da non drammatizzare troppo, vanno vissute tra lo sbadiglio e l’orgasmo.

Io non credo che il maschio scompaia. Egli è sempre lì tra noi, intento a giocare il suo eterno gioco di caccia. È stato cacciatore, guerriero, prete, missionario, esploratore, artista e perfino a volte amorevole padre di famiglia, che poi è stato quello il suo ruolo e il suo momento meno maschile, nel borghese ottocento, e non questo nostro tempo che si dice infelice e non lo è. Non è mai sparito e oggi è più che mai presente, anche quando assume un aspetto femmineo: come Achille, si veste da femmina per imboscarsi ed evitare di andare alla guerra, poi ci va e va a letto con Patroclo.

Assunzione di cocaina: psicopatologia e trattamento

L’obiettivo della terapia è quello di rendere la persona consapevole delle emozioni e dei pensieri connessi con l’ assunzione di cocaina: capire, in altre parole, la funzione che la sostanza ha avuto nella propria vita, accettare i propri limiti e sviluppare strategie di coping più funzionali.

Giada Costantini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

I correlati neurobiologici dell’assunzione di cocaina

Come sappiamo l’ assunzione di cocaina ha degli specifici correlati neurobiologici che ne determinano gli effetti emotivi e comportamentali che osserviamo. Nello specifico, l’effetto farmacologico principale della cocaina, a livello del sistema nervoso centrale, è quello di bloccare il recupero di dopamina nel terminale presinaptico una volta che questa è stata rilasciata dal terminale del neurone nella fessura sinaptica (Koob, 1992; Abbott e Concar, 1992). Nello specifico, la cocaina agisce sulla funzionalità delle proteine di trasporto, impedendo il riassorbimento di dopamina all’interno del neurone. Il risultato è un aumento di dopamina nelle sinapsi fra le terminazioni dei neuroni che proiettano dall’area tegmentale ventrale ed i neuroni del nucleo accumbens e della corteccia prefrontale mediale (Weiss et al., 1992). La sostanza può bloccare anche il riassorbimento presinaptico di norepinefrina e serotonina (Woolverton e Johnson, 1992).

Sul piano psicologico, l’aumento della quantità di dopamina presente in queste aree ha importanti implicazioni cliniche. I nuovi modelli delle neuroscienze del comportamento ipotizzano che la dopamina non sia più il “neurotrasmettitore del piacere”, come ipotizzato inizialmente dal modello neurobiologico classico (in Wise, 1982), ma essa permette di valorizzare la “novità” come valore adattivo e di integrarla con gli altri schemi cognitivi e comportamentali già appresi su di sé e sul mondo (Redgrade e Gurney, 2006). In altre parole, la dopamina induce uno stato di attenzione focalizzata, di ricerca, di esplorazione di nuovi elementi e di necessità di fronteggiare al meglio quegli eventi ambientali in cui predominano incertezza, ambiguità e imprevedibilità.

I correlati fisiologici direttamente associabili alla dopamina sono, quindi, riconducibili a uno stato affettivo di base caratterizzato da euforia (energia positiva) e ricerca nell’ambiente (seeking – attivazione motoria) e non a stretto rigore con il piacere (Panksepp, 1998; 2005; 2012). Sarà poi la valutazione che ognuno farà di questa esperienza sensoriale che indurrà o meno una condotta tossicomanica: tanto più il soggetto attribuisce a tale esperienza affettiva un’utilità soggettiva (Bentham, 1789) tanto più alta sarà la probabilità di cronicizzare tale comportamento nel tempo. Sarà l’attivazione delle funzioni corticali superiori, ad opera della corteccia prefrontale, che permetterà di fare una valutazione cognitiva adeguata dell’esperienza che il soggetto ha sperimentato.

Effetti dell’assunzione di cocaina

In questi termini, l’uso di cocaina non determinerà necessariamente lo sviluppo di una dipendenza: affinché il legame con la cocaina diventi forte essa deve rappresentare la porta d’accesso alla vita desiderata (Bignamini e Rigliano, 2009). L’ assunzione di cocaina può quindi causare due effetti differenti: il soggetto deciderà quale sia la funzione che ha esercitato dentro la propria mente, l’utile che ne ha ricavato e il valore che ne può ricavare e, quindi, l’uso che ne potrà ancora fare (ibidem). In un primo caso il soggetto può percepire gli effetti euforizzanti della cocaina come non essenziali per il potenziamento di sé e per il raggiungimento dei propri obiettivi. In questo senso è probabile che la sostanza venga utilizzata saltuariamente, per sballarsi in situazioni che possono rimanere del tutto occasionali. In un secondo caso il valore personale attribuito a tale esperienza è alto: la persona sperimenta quel Sé desiderato che gli consente di affrontare la scarsa autostima, quell’incentivo motivazionale fondamentale per raggiungere brillantemente i propri obiettivi. L’utilizzo di cocaina diventa il modo per sentirsi persone di valore, adeguate, determinate nel raggiungimento dei propri scopi ritenuti importanti.

In altre parole, quanto più il soggetto riconosce valore alle “qualità” dello stato cocainico, ritenendosi valorizzato, tanto più esso diviene dominante nella mente del soggetto (ibidem). Quanto più il Sé è poco strutturato e sicuro della propria identità e del proprio valore (e quindi meno certo di raggiungere i propri scopi) e quanto più valorizza la potenza e l’esaltazione, tanto più alta sarà l’utilità soggettiva attribuita a tale esperienza e, con essa, anche la probabilità d’instaurare una condotta d’abuso.

In questo caso, il soggetto può così entrare in un circolo vizioso. Con l’ assunzione di cocaina sviluppa credenze su se stesso, cui sono connessi degli scopi di estrema importanza, che attengono al giudizio di sé: si percepisce come una persona capace, valida, degna di autostima, sicura, protagonista della propria vita e consapevole di essere consapevole. Il soggetto “sa” che così è possibile raggiungere gli scopi che danno senso alla propria vita, ma per farlo deve passare attraverso lo stato mentale cocainico (Bignamini e Rigliano, 2009).

Tuttavia, quando il soggetto non è più connesso al “carburante” si ha un progressivo ritorno allo stato di equilibrio neurobiologico precedente l’ assunzione di cocaina. È qui che avviene il dramma dell’esperienza cocainica: la persona avrà la certezza di mancare di quegli stati mentali prodotti solo dalla sostanza, che acquista così un fascino irrimediabile. Così, nel tentativo di oltrepassare i propri limiti, in realtà ha scoperto il proprio limite grazie alla cocaina: è il rapporto con essa a ribadirgli la propria identità svalorizzata (ibidem). Lo stato alternativo indotto dalla cocaina da desiderio diventa, quindi, un bisogno: s’inaugura così una patologia, in cui cadono i soggetti deboli perché intravedono in un Sé maniacale la soluzione alla bassa autostima e al dolore (ibidem).

Il trattamento dell’ assunzione di cocaina

L’obiettivo della terapia è quello di rendere la persona consapevole delle emozioni e dei pensieri connessi con l’ uso di cocaina: capire, in altre parole, la funzione che la sostanza ha avuto nella propria vita, accettare i propri limiti e sviluppare strategie di coping più funzionali.
Se gli approcci relativi al trattamento e alla gestione clinica del cocainismo sono molteplici, vi sono molte evidenze collegate a ricerche cliniche sulla particolare utilità della Terapia Cognitivo Comportamentale ( in Serpelloni, Macchia, e Gerra, 2006).
In generale, la terapia cognitivo comportamentale (TCC) rappresenta un approccio focale breve ed utile per aiutare i soggetti cocaino-dipendenti a diventare astinenti.

L’approccio cognitivo-comportamentale alle dipendenze riconosce il comportamento di abuso come un comportamento complesso appreso e mantenuto tramite i principi dell’apprendimento: il condizionamento classico, il condizionamento operante, l’apprendimento sociale o modellamento. Ciascun individuo ha un suo assetto cognitivo, schemi, convinzioni, assunti, che determinano il modo di percepire se stessi e la realtà circostante (Beck, 1976). Ognuno si muove in un ambiente che contestualizza il suo comportamento, ha un suo corredo genetico che lo determina e si muove nelle sue dimensioni cognitive-emotive-comportamentali all’interno di un contesto ambientale, sociale, familiare. Il trattamento TCC tiene conto di tutte queste aree a partire dalla relazione terapeutica con il paziente e lo aiuta a capire quali sono le variabili che determinano il suo comportamento d’abuso (analisi funzionale), per riconoscere i propri fattori di rischio e imparare a fronteggiare o evitare le situazioni che li determinano (strategie di coping, problem solving, rilassamento).

Lo strumento elettivo è l’ABC. Soprattutto all’inizio del trattamento, l’analisi funzionale svolge un ruolo fondamentale poiché permette di accertare le cause o le situazioni ad alto rischio che favoriscono l’ uso di cocaina e aiuta a comprendere alcune delle ragioni che spingono il paziente a far uso della sostanza. Più avanti, invece, l’analisi funzionale degli episodi di uso di cocaina consente di identificare quelle situazioni, emozioni e pensieri che il soggetto ha difficoltà a controllare e a gestire.

Tra i protocolli TCC per la dipendenza da cocaina l’approccio psicoterapico maggiormente validato sperimentalmente è quello della Carrol et al. (1994), il cui manuale è disponibile in Italiano (Carrol, 2001). Un altro approccio sperimentalmente validato per i disturbi da uso di sostanze in comorbilità con il disturbo Borderline di personalità è quello di Marsha Linehan (2001, 2002).

La mancanza di una farmacoterapia in grado di arginare il craving, l’ uso di cocaina e le ricadute frequenti rende spesso impossibile un corretto approccio di trattamento. È quindi importante, prima di pianificare qualsiasi tipo di intervento, fare una concettualizzazione accurata del caso e valutare tutti i fattori che possono influire negativamente sulla motivazione e trattabilità del paziente, quali: la gravità del quadro premorboso, le caratteristiche del contesto socio-famigliare, l’assenza/compenso di psicopatologia, l’abuso di altre sostanze, la presenza di comportamenti a rischio espressi, uno stile di vita antisociale con rispettivo vissuto egosintonico.

Traumi precoci sono associati ad un’alterazione dell’integrità della sostanza bianca e del controllo affettivo

La letteratura emergente ha messo in guardia ricercatori e clinici sugli effetti a lungo termine dell’esposizione a traumi precoci sulla salute fisica e psicologica. Ad oggi nessun lavoro aveva studiato la relazione tra l’integrità della sostanza bianca ed il controllo affettivo in individui con e senza una storia di traumi precoci, il presente studio ha indagato proprio quest’ultima ipotesi.

 

La letteratura emergente  ha messo in guardia ricercatori e clinici sugli effetti a lungo termine dell’esposizione a traumi precoci sulla salute fisica e psicologica.

Nonostante vi siano differenti  visioni sul concetto di trauma, molti autori sono concordi nell’includere sotto il termine trauma, gli abusi sessuali infantili, gli abusi fisici e le violenze familiari.

Alcuni studi hanno dimostrato che l’effetto negativo del trauma è maggiore durante specifici periodi sensibili di sviluppo cerebrale. E’ dimostrato che anche lo stress aumenta l’impatto sul cervello, specialmente in particolari aree cerebrali: amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale; Ad esempio, il trauma precoce è stato associato con un’alterazione della simmetria della corteccia prefrontale. Un’altra importante regione influenzata dallo stress è la corteccia cingolata anteriore che risultata più piccola nei bambini esposti a trauma.

Ulteriori studi hanno dimostrato che i traumi precoci danneggiano il controllo affettivo e l’attenzione, anche in età adulta. Le ricerche di neuroimmagine hanno evidenziato che i traumi precoci erano associati con un decremento dell’integrità della sostanza bianca delle aree prefrontali sia nei bambini che negli adulti. Tuttavia, ad oggi nessun lavoro ha studiato la relazione tra l’integrità della sostanza bianca ed il controllo affettivo in individui con e senza una storia di traumi precoci.

Il presente studio ha indagato proprio quest’ultima  ipotesi,  esaminando 240 Veterani con o senza una storia di traumi precoci (abuso sessuale, fisico o violenza famigliare) e come questo ha influenzato l’associazione tra integrità della materia bianca e la prestazione in compiti attentivi e di controllo affettivo. Per la valutazione di queste due variabili sono stati utilizzati: un test per l’attenzione viariabile ed un test di go/no go per item con valenza affettiva positiva o negativa (il paziente doveva rispondere velocemente a stimoli con una determinata valenza ed inibire le risposte a quelli con valenza opposta). L’integrità della sostanza bianca è stata misurata in anisotropia frazionale (FA).

I risultati dello studio hanno evidenziato un’alterazione del controllo affettivo in soggetti con traumi precoci evidenziando un maggior numero di errori nel test go/no go rispetto al gruppo che non ha subito traumi precoci. Inoltre, i tempi di reazione per i target positivi risultano associati positivamente con l’integrità della sostanza bianca in soggetti con trauma e negativamente associati nel gruppo senza trauma.

Questo suggerisce che eventi stressanti occorsi durante i periodi di sviluppo cerebrale (mielinizzazione) possono influenzare il comportamento e la prestazione in correlazione con i marcatori dell’integrità cerebrale (FA).

Interessante  per il nostro studio, è la presenza d’interazione tra FA e i tempi di risposta agli stimoli positivi: nei soggetti con trauma precoce vi è una relazione positiva tra tempi di risposta e FA nelle aree prefrontali e frontale destra. Mentre nei soggetti in assenza di trauma, vi è un’associazione negativa o un’assenza di relazione tra FA e tempi di reazione. Questo è in linea con altri studi che hanno dimostrato che gli individui esposti ad un trauma presentano un bias attentivo per gli stimoli negativi o correlati al trauma vissuto e quindi potenzialmente interferenti con le prestazioni. Ciò suggerisce che i traumi precoci possono associarsi ad una relazione cervello-comportamento distinta ed essa può correlare a determinate FA, differenti rispetto a quelle presenti in soggetti adulti sani.

Questi risultati offrono una nuova prospettiva  sull’impatto dei traumi sul cervello e possono aiutare a capire come diversi aspetti dell’integrità strutturale cerebrale siano associati con differenti componenti della cognizione, dal processamento degli stimoli alla presa di decisione con i conseguenti comportamenti. Questi risultati, ci permettono dunque di comprendere meglio gli impatti emotivi e cognitivi a lungo termine dei traumi precoci.

La ketamina per via endovenosa riduce i pensieri suicidari nei pazienti depressi

Inizialmente utilizzata come anestetico, la ketamina, ha già dimostrato in numerosi studi di fornire un rapido sollievo dai sintomi della depressione. Una nuova ricerca ha mostrato come la ketamina possa portare a una veloce diminuzione dei pensieri suicidi.

 

Una nuova ricerca ha mostrato come ripetuti trattamenti a base di ketamina a basso dosaggio, somministrata per via endovenosa, abbiano portato ad una veloce diminuzione dei pensieri suicidi in un gruppo di pazienti gravemente depressi e già risultati resistenti alle terapie standard.

Il recente studio è stato condotto presso il Massachussets General Hospital e pubblicato sulla rivista The journal of Clinical Psychiatry.

La recente scoperta rappresenta una importantissima conquista nel trattamento di questa tipologia di pazienti, verso i quali allo stato attuale non c’è una vera e propria terapia efficace e sicura.

Infatti le sostanze attualmente utilizzate per trattare i pazienti depressi con pensieri suicidari, come il litio e la clozapina, manifestano importanti effetti collaterali, nonché un costante monitoraggio dei livelli ematici. Mentre la terapia elettroconvulsiva (TEC), pur parzialmente efficace, può provocare effetti devastanti sull’integrità mentale del paziente, come la perdita di memoria.

Il presente studio è stato progettato non solo per esaminare gli effetti antidepressivi e antisuicidali della ketamina a basso dosaggio, ma anche per testarne l’efficacia e il grado di tollerabilità con una dose più elevata.

Sono stati coinvolti 14 pazienti ambulatoriali gravemente depressi, risultati resistenti allo tradizionali terapie antidepressive. La presenza dei pensieri suicidali doveva persistere da almeno tre mesi, per cui ne è stata rilevata la presenza, la frequenza e l’intensità.

I partecipanti hanno ricevuto due iniezioni settimanali di ketamina per tre settimane. La dose iniziale somministrata era di o.5 mg/Kg, equivalente a circa un quinto del tipico dosaggio anestetico. Mentre dopo la terza somministrazione si aumentava la dose a 0.75 mg/Kg. Seguiva, alla fase di trattamento, una fase di follow-up, in cui i pazienti sono stati rivalutati per i tre mesi successivi con una frequenza quindicinale, per valutarne l’efficacia nel tempo.

I risultati della ricerca sono stati molto positivi, in quanto la maggior parte dei partecipanti hanno manifestato una sensibile riduzione dei pensieri suicidali presenti all’inizio del trattamento, mentre ben sette pazienti hanno avuto una completa remissione della sintomatologia alla fine del trattamento. Due di loro hanno continuato ad essere asintomatici, anche al termine del periodo di follow-up.

Ulteriore dato positivo: non è stata rilevato nessun episodio critico a livello di tollerabilità, riguardo all’aumento del dosaggio.

Nuovi studi seguiranno per validarne ed ampliare i risultati con un campione di riferimento più ampio. Inoltre sarà necessario confrontare i risultati ottenuti con uno speculare gruppo di controllo in cui ai pazienti sia stato somministrato placebo. Come sottolineato da Ionescu, il principale limite nella validazione dello studio attuale è rappresentato dal fatto che i pazienti erano perfettamente consapevoli di ciò che stavano ricevendo.

Rivolgendo un ulteriore e conclusivo sguardo al futuro, gli studi mirano ora a capire i meccanismi sottostanti all’efficacia della ketamina nella riduzione dei pensieri suicidali in modo da scoprire le aree del cervello sulle quali la sostanza agisce direttamente, e poter sviluppare nuovi farmaci anche con diverse modalità di assunzione orale o intranasale.

 

Le disfunzioni cognitive post-chemioterapia e il recupero con il training cognitivo

I risultati hanno dimostrato che nelle pazienti sottoposte al training cognitivo sono presenti dei miglioramenti sia in termini di qualità di vita che di funzioni cognitive e neuropsicologiche, con una sostanziale riduzione dell’ansia e della fatica. Questi miglioramenti sono stati riscontrati anche 2 mesi dopo il termine del training.

 

La chemioterapia può comportare danni cognitivi di lieve entità rispetto alle capacità di memoria e di concentrazione. Questi deficit cognitivi colpiscono dal 25 al 40% di pazienti sottoposti al trattamento della chemioterapia.

Il Prof. Robert Ferguson, psicologo clinico all’ University of Pittsburgh Cancer Institute, ha per questo individuato un training cognitivo di potenziamento della memoria e dell’attenzione in video conferenza che potrebbe migliorare le abilità cognitive e neuropsicologiche di pazienti affetti dal cosiddetto “chemo brain”. L’obiettivo è quello di poter migliorare la vita lavorativa, sociale e quotidiana di questi pazienti.  Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Cancer.

La ricerca ha coinvolto 47 donne affette in precedenza dal tumore al seno e che sono state sottoposte alla chemioterapia. Dopo 4 anni dal termine del trattamento, le pazienti sono state suddivise in 2 gruppi: ad uno è stato proposto un training di terapia cognitiva per potenziare le abilità di memoria e attenzione (MAAT = Memory and Attention Adaptation Training), mentre all’altro sono state proposte solo delle sedute di supporto.

Nella baseline sono state valutate la qualità di vita delle pazienti e le abilità cognitive ed è stato effettuato un breve assessment neuropsicologico. Questi dati sono stati raccolti nuovamente dopo la fase sperimentale e 2 mesi dopo.

I risultati hanno dimostrato che nelle pazienti sottoposte al training cognitivo sono presenti dei miglioramenti sia in termini di qualità di vita che di funzioni cognitive e neuropsicologiche, con una sostanziale riduzione dell’ansia e della fatica. Questi miglioramenti sono stati riscontrati anche 2 mesi dopo il termine del training.

Questi dati incoraggianti inducono a continuare a progettare interventi finalizzati a migliorare la qualità di vita di pazienti affetti da tumore e sottoposti alla chemioterapia.

Lo stadio sensomotorio secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla Psicologia

La scorsa settimana è stata introdotta, in maniera generale, la teoria di Jean Piaget. Ora, entriamo più nello specifico enucleando dettagliatamente i singoli stati che caratterizzano questo modello di sviluppo cognitivo nel bambino. Questa settimana parleremo del primo dei cinque stadi di sviluppo cognitivo: lo stadio sensomotorio.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

 

Lo stadio sensomotorio secondo la teoria di Piaget: introduzione

Secondo la teoria di Jean Piaget il bambino nasce con un bagaglio genetico che gli permette un adeguato sviluppo cognitivo che si verifica secondo tappe o fasi ben determinate.

Ogni fase presenta delle caratteristiche proprie che derivano dall’interazione tra strategie innate e la realtà circostante. Da questa interazione, e in base alla propria esperienza personale, si implementano le diverse  strategie diventando, col progredire dello sviluppo, sempre più complesse e articolate.

Il bambino, dunque, fin dalla nascita conosce il mondo esterno utilizzando due processi: l’assimilazione e l’accomodamento, che permettono di aggiungere informazioni (assimilazione) a conoscenze già esistenti implementando gli schemi, rendendoli più complessi ed elaborati (accomodamento).

Ogni stadio di sviluppo cognitivo comprende una serie di fasi operative che lo caratterizzano e lo rendono unico.

 

Lo stadio sensomotorio secondo la teoria di Piaget

Second Jean Piaget lo sviluppo mentale del bambino procede di pari passo alla sua crescita organica e tende a raggiungere l’equilibrio o omeostasi. Il bambino appena nato non riesce a distinguere se stesso dal mondo esterno (egocentrismo). Il mondo esterno del bambino, dunque, è costituito solo da immagini e suoni che appaiono e scompaiono senza una ragione obiettiva. Per questo egli non è in grado di compiere una ricerca attiva delle cose facenti parte dell’esterno, ma assume una posizione passiva in cui le immagini si susseguono senza interazione. Col progredire dell’età il bambino da soggetto passivo diventa attivo nella conoscenza e nell’interazione con l’ambiente esterno.

 

 

Lo stadio sensomotorio nella teoria di Piaget: in cosa consiste?

La fase sensomotoria è la prima tappa di sviluppo cognitivo e parte dalla nascita per concludersi verso i due anni di vita. Essa è suddivisa in sei stadi uguali per i bambini di tutto il mondo, per questo non è possibile si possa saltare uno stadio né sintetizzare i processi tipici di quello stadio, ma ogni individuo è necessario acquisisca e sviluppi i diversi schemi tipici di ogni fase.

Durante i primi due anni di vita gli schemi di azione di base gradualmente si coordinano per dare luogo a schemi e comportamentali più complessi.

 

 

Lo stadio sensomotorio secondo la teoria di Piaget: gli stadi

Stadio sensomotorio 1, da 0 a 1 mese

Tipici di questa fase sono una serie di riflessi definiti innati, quali la suzione, i movimenti oculari e i movimenti degli arti, che Piaget considerava molto importanti perché rappresentano la base dello sviluppo cognitivo o i primi schemi sensomotori del bambino.

Non c’è ancora né imitazione né gioco, però il bambino è stimolato a piangere dal pianto di altri bambini o a esprimere col pianto a una serie di richieste.

 

Stadio sensomotorio 2, da 1 a 4 mesi

Si registra in questa fase una evoluzione e integrazione degli schemi sensomotori individuali e di base: succhiare, guardare, ascoltare, vocalizzare e afferrare gli oggetti, poiché si passa a ripetere questi riflessi innati molte volte durante l’arco della giornata in maniera spontanea.

In seguito, relazionando tra loro gli schemi sensomotori, il bambino comincia ad attribuire un significato all’azione. A esempio il bambino nel sentire un suono gira la testa e gli occhi nella direzione della fonte del suono. In questa fase si presentano altri due schemi: succhiare-afferrare, portare alla bocca oggetti per conoscerli, e vedere-afferrare, prendere tutto quello che capita tra le mani.

La schema sensomotorio mano e occhio sarà un mezzo molto importante per esplorare l’ambiente e acquisire nuove nozioni provenienti dall’ambiente esterno.

Inoltre, il bambino inizia a seguire con lo sguardo un oggetto che cade nel suo campo visivo e quando lo perde l’unico tentativo che compie nella speranza di ritrovarlo è prolungare i movimenti nel ritornare al punto in cui l’oggetto è sparito. In questo modo assegna permanenza agli oggetti fino al momento in cui riesce a seguirli e a ritrovarli con movimenti semplici.

Compaiono quelle che sono definite le reazioni circolari primarie, ovvero la ripetizione di un’azione prodotta inizialmente per caso, che il bambino esegue per sperimentare gli interessanti effetti. Grazie alla ripetizione, l’azione originaria si consolida e diventa uno schema che il bambino è capace di eseguire con facilità anche in altre circostanze.

 

Stadio sensomotorio 3, dai 4 agli 8 mesi

Durante questa fase il bambino inizia a compiere delle azioni motorie e continua a eseguirle ripetutamente per il puro piacere di verificare cosa accade nell’ambiente nel momento in cui compie quell’azione.

Per esempio il bambino può afferrare e scuotere un giocattolo che produce un suono. A questo punto, preso dallo stupore del risultato ottenuto continua con l’azione appena prodotta.

Durante questa fase il bambino diventa sempre più sociale grazie all’acquisizione di una serie di capacità sensomotorie che gli permettono di interagire con l’esterno.

Il bambino sposta la sua attenzione al mondo esterno, oltre che al proprio corpo, cercando di afferrare, tirare, scuotere, muovere gli oggetti che stimolano la sua mano per vedere che rapporto c’è tra queste azioni e i risultati che derivano sull’ambiente, reazioni circolari secondarie.

 

Stadio sensomotorio 4, dagli 8 ai 12 mesi

Compaiono i primi movimenti intenzionali, diretti verso uno scopo, coordinazione mezzi-fini. In questa fase il bambino può stringere una mano producendo un effetto sensoriale, che rappresenta lo scopo. Così facendo il bambino mostra una maggiore integrazione nel mondo esterno e maggiore interazione con gli altri.

Il bambino, inizia a percepire che esistono degli oggetti che possono essere soggetti a diversi schemi d’azione, come scuotere, spostare, dondolare ecc. in questo modo inizia a comprendere che gli oggetti sono indipendenti dalla sua attività percettiva o motoria.

 

Stadio sensomotorio 5, dai 12 ai 18 mesi

È una fase di esplorazione e interazione attiva e intenzionale in cui il bambino vuole esplorare per scoprire il mondo esterno. Quando scopre un oggetto nuovo gli piace esplorare le proprietà attraverso la messa in atto di schemi nuovi che derivano da evoluzioni di vecchi schemi, reazioni circolari terziarie. In questo modo scopre nuovi modi per raggiungere nuovi e vecchi scopi.

 

Stadio sensomotorio 6, dai 18 i 24 mesi

E’ la fase della rappresentazione degli oggetti attraverso simboli. Il bambino sarà capace di distinguere mentalmente il simbolo e l’oggetto che rappresenta. Dunque, il bambino riesce a trovare dei modi rappresentazionali alternativi e renderli concreti nel comportamento esplicito. Si arriva in questo modo alla comparsa del gioco simbolico. Grazie alla comparsa della funzione simbolica il bambino è in grado di agire sulla realtà col pensiero. Inoltre, usa le parole non solo per accompagnare le azioni che sta compiendo (nominare o chiedere un oggetto presente), ma anche per descrivere cose non presenti e raccontare quello che ha fatto o visto qualche tempo prima. Il bambino è in grado di riconoscere oggetti anche se ne vede solo una parte. È in grado di imitare i comportamenti e le azioni di un modello di riferimento, anche dopo che questo è uscito dal suo campo percettivo. Sa imitare azioni e comportamenti di coloro che hanno un’importanza di tipo affettivo- relazionale.

Per concludere l’intelligenza sensomotoria e gli schemi di cui è composta non finiscono e scompaiono con la prima infanzia, ma ciò che si acquisisce rimane per tutta la vita. Chiaramente, con la comparsa della capacità simbolica e di altre forme di intelligenza più alte quelle di base restano più silenti perché fungono da fondamenta per tutto lo sviluppo cognitivo dell’essere umano.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Mindfulness e Burnout nelle professioni ad alto rischio di Stress – Report dalla Conferenza Internazionale Mindfulness di Roma

Molto è stato sin oggi scritto e detto circa l’effetto protettivo e terapeutico della meditazione e delle pratiche mindfulness per coloro che si interfacciano a realtà fortemente stressanti come gli operatori negli ospedali (inferiemieri, oss, medici) o coloro che lavorano in reparti “difficili” come la psichiatria e l’oncologia, ma un campo che ha catturato il mio interesse, come di molti ricercatori a Roma, è l’effetto di pratiche di consapevolezza su una particolare categoria di professioni a rischio, che sono gli insegnanti, e quindi dell’importanza della mindfulness nei contesti educativi.

La seconda conferenza internazionale di Roma sulla mindfulness ha sicuramente apportato numerosissimi contributi provenienti da tutto il mondo, a tal punto che risulta difficile scegliere su quali argomenti “appoggiare l’attenzione” poiché, in un contesto molto democratico, ogni simposio (50 in totale) della durata di 90 minuti ha visto susseguirsi 4 oratori per un pro capite di 15 minuti ciascuno, (domande e chiarimenti esclusi), per un totale di circa 200 interventi.

 

La mindfulness per prevenire il burnout nelle professioni di aiuto

Si può tuttavia evidenziare uno spiccato interesse per lo studio della mindfulness nelle professioni di aiuto come fattore protettivo dal burnout negli operatori che hanno a che fare con la sofferenza (direi che si comprende come il tema sia autobiograficamente caro a molti di coloro che hanno preso parte alla conferenza). E le prove di efficacia sono piuttosto evidenti (Lamothe et al., 2015).

Non ha stupito la presenza di un intero simposio di sabato mattina dedicato alle figure professionali di aiuto “Health professional Facing High stress Situation: meditation as a Burnout Syndrome Prevention and Treatment” né che nel pomeriggio dello stesso giorno abbia potuto sentir parlare Antonio T. Fernando da Aukland circa la compassione nella professione medica come fattore protettivo per il burnout e il ruolo della mindfulness nell’aumentare tale abilità, e Moitree Banerjee che ha illustrato i risultati di uno studio qualitativo circa il progetto MindSHINE (Mindfulness Self-Help Intervention for Nhs Employers) presso l’ ospedale inglese nel quale lavora come ricercatrice.

Molto è stato sin oggi scritto e detto circa l’effetto protettivo e terapeutico della meditazione e delle pratiche mindfulness per coloro che si interfacciano a realtà fortemente stressanti come gli operatori negli ospedali (inferiemieri, oss, medici) o coloro che lavorano in reparti “difficili” come la psichiatria e l’oncologia, ma un campo che ha catturato il mio interesse, come di molti ricercatori a Roma, è l’effetto di pratiche di consapevolezza su una particolare categoria di professioni a rischio, che sono gli insegnanti, e quindi dell’importanza della mindfulness nei contesti educativi (terreno che funziona da ponte per il nuovo trend di ricerca sulla mindfulness nei bambini e nei ragazzi adolescenti).

Nel coffee-break (che poi era anche il tempo concesso all’esposizione dei poster, sempre una ventina al giorno), girando con la tazzina del mio espresso bollente in mano, ho avuto il piacere di conoscere e notare un contributo italiano su questo argomento portato da Viviana Capurso con la collaborazione di Franco Fabbro e Cristiano Crescentini e di espandere le mie letture ad una serie di lavori portati avanti da Fabbro e dalla sua equipe proprio su una forma revisionata di intervento basato sulla Mindfulness chiamato Mindfulness oriented Meditation (MOM). (Fabbro, F. & Muratori, F., 2012).

 

La mindfulness contro il burnout degli insegnanti

In particolare il poster dal titolo “The effect of Mindfulness-Oriended Meditation (MOM) on school teachers’ stress, burnout and personality traits” ha cercato di indagare gli effetti di questo intervento in un campione di insegnanti sullo stress occupazionale, il burnout e i tratti di personalità.
È dimostrato come l’importanza del benessere degli insegnanti sia particolarmente rilevante per un buon clima degli ambienti educativi ed è proprio questa una popolazione che negli ultimi anni è stata identificata come particolarmente a rischio per lo sviluppo di problematiche psicologiche, stress e burnout.

Lo studio del gruppo italiano ha messo a confronto 20 insegnanti che hanno partecipato al protocollo MOM con 21 del gruppo di controllo per valutare gli effetti di questo nelle variabili misurate. Ai partecipanti sono stati somministrati i seguenti questionari: Big Five per i tratti di personalità, Teacher Stress Inventory per la valutazione dello stress occupazionale, il Five Facet Mindfulness Questionnaire per le skills relative alla mindfulness e il Maslach Burnout Inventory per la valutazione del Burnout.

Da questo ne è emerso che gli insegnanti sottoposti al protocollo riportano, dopo 8 settimane, un punteggio maggiore alle skills di mindfulness e alla scala conscienziosità e una riduzione dei livelli di nevroticismo e stress percepito.

Lo studio è in linea con la letteratura che indica come un alto livello di nevroticismo e una bassa coscienziosità siano spesso correlati a comportamenti rischiosi per la salute, portando a peggiori modalità di reazione allo stress.
Pertanto la diminuzione dello stress occupazionale percepito potrebbe essere dovuta all’impatto del MOM nei tratti di personalità.
Soprattutto lo studio sottolinea la fattibilità e fruibilità nonché l’utilità di certi tipi di intervento basati sulla mindfulness in contesti educativi come quelli scolastici riportando un chiaro impatto positivo rispetto agli indici di benessere della meditazione.

 

Il metodo di Meditazione Orientato alla Mindfulness

Un cenno lo merita, a questo punto, il protocollo di Fabbro e Muratori (2012) che in un articolo di qualche anno fa hanno illustrato il “metodo di Meditazione Orientato alla Mindfulness”.
Si tratta di un protocollo sviluppato in 8 settimane, per 8 incontri a cadenza settimanale di 2 ore ciascuno associato ad una pratica giornaliera di circa 45 minuti che trae origine dal protocollo MBSR di Kabat-Zinn; ogni incontro prevede un primo momento introduttivo seguito da un breve insegnamento circa il contenuto della sessione, poi una pratica di meditazione e infine un momento finale di condivisione.

Gli argomenti discussi vanno dagli aspetti filosofici e storici della meditazione e della mindfulness, ai rapporti tra la psicoterapia e la meditazione, ai fondamenti di questa, al vivere nel momento presente, fino allo sviluppo della compassione.
Le pratiche meditative sono di tipo sia “anapanasati” (attenzione al respiro), pratiche di attenzione al corpo e pratiche di origine vipassana (coltivare una visione della mente).

In conclusione, al di là degli aspetti clinici e di ricerca, quello che senza dubbio si è potuto notare durante i 4 giorni di conferenza è sicuramente la crescente attenzione rivolta al tentativo di portare la mindfulness nei diversi contesti.

Numerosi sono stati gli accenni di studi, i poster e le presentazioni circa la mindfulness nelle scuole, così come più simposi hanno avuto la tematica di “Mindfulness at work” in un’ottica certamente cosmopolita dove i vari Paesi hanno potuto, ciascuno con le sue leggi e situazioni, illustrare il proprio modo di contribuire alla diffusione della pratica mindfulness al fine di promuovere il benessere.

Sebbene alcuni contesti appaiano più difficili di altri, come Israele o il Sud Africa le cui testimonianze lasciano trasparire una società e un contesto davvero molto difficile e pluritraumatico, appare altresì evidente come l’idea centrale di “prestare l’attenzione al momento presente” non abbia lingua o confini.

La rassomiglianza facciale dei propri figli: effetti sui genitori

La rassomiglianza del bambino al padre è un’importante indice per valutare la certezza della paternità. Numerosi studi hanno messo in evidenza che una scarsa somiglianza dei piccoli induce il padre ad un inadeguato attaccamento verso la propria prole.

 

L’incertezza della paternità può produrre una condizione di stress, responsabile di uno stato di ansia duraturo. Completamente diversa è la percezione della somiglianza da parte della madre: infatti, per lei esiste un naturale legame con i propri figli, derivante dalla gravidanza, che non ha necessità di essere convalidato dalla rassomiglianza fisica.

 

Padri, genitorialità e certezza della paternità

Storicamente e culturalmente gli uomini hanno sempre investito meno risorse ed energie nell’accudimento della prole rispetto alle proprie compagne. Fra le paure che possono assillare gli uomini, c’è la non certezza della paternità, ovvero il pensare che la propria compagna possa aver generato il figlio con un altro partner sessuale (Burch e Gallup, 2000).

Diverse ricerche transculturali hanno stabilito che il padre tende ad investire più risorse nell’accudimento della prole, nella misura in cui è certo della sua paternità (Gaulin e Schlegel, 1980). Per risolvere i dubbi relativi alla certezza della paternità, gli uomini ricercano delle prove, che possono essere dirette o indirette.

Fra le prove indirette c’è la consapevolezza dell’infedeltà della propria compagna. In altre parole, se il marito ha la sensazione che la propria moglie abbia altri partner sessuali è più facile che sviluppi dei dubbi sulla sua paternità (Apicella e Marlowe, 2004). Come prova diretta della sua paternità, l’uomo ricerca la somiglianza nel viso e nell’odore corporeo. Praticamente, confronta il viso del bambino e il suo odore corporeo con i propri, come messo in evidenza dalle ricerche di Bressan e coll. (2009) e di Alvergne e coll. (2010).

 

Incertezza della paternità e ansia

Quando l’uomo non ha la certezza della paternità si determina uno stato di ansia costante, che si manifesta con apprensione, nervosismo e inquietudine (Spielberger, 1983).

Uno studio (Yu, Zhang, Chen, Jin, Qiao e Cai, 2016) compiuto dai ricercatori delle Università di Pechino, Wuhan e Linfen, in Cina, e dell’Università di Miami, negli USA, ha voluto stabilire il ruolo svolto dalla percezione della rassomiglianza del viso del proprio figlio nel vissuto psicologico genitoriale. Per fare questo si sono analizzati 151 genitori, 55 padri e 96 madri, che avevano un solo figlio ed erano al loro primo matrimonio. La ricerca è avvenuta in un scuola dell’infanzia di Pechino. L’età media dei figli era di quattro anni (4,66) ed essi erano suddivisi in 75 maschi e 76 femmine. Per sondare la percezione della somiglianza è stato utilizzato un questionario predisposto per questo scopo e, come misuratore dell’ansia, si è adoperato lo State Trate Anxiety Inventory (STAI).

Lo studio ha dimostrato che gli uomini sono più attenti a valutare la somiglianza fra sé e il proprio figlio rispetto alle donne. Nello specifico, nei padri la somiglianza svolge un ruolo rassicurante, mentre nelle madri essa esercita un peso ininfluente.

 

Abstract

Father–child facial resemblance is an important cue for men to evaluate paternity. Previous studies found that fathers’ perceptions of low facial resemblance with offspring lead to low confidence of paternity. Fathers’ uncertainty of paternity could cause psychological stress and anxiety, which, after a long time, may further turn into trait anxiety. Conversely, females can ensure a biological connection with offspring because of internal fertilization. The purpose of this study was thus to examine the role of parents’ gender in the effect of parents’ perceived facial resemblance with child on their trait anxiety. In this study, 151 parents (father or mother) from one-child families reported their facial resemblance with child and their trait anxiety. Results showed that (i) males tended to perceive higher facial similarity with child than did females and (ii) males’ perceived facial resemblance with child significantly predicted trait anxiety, whereas females’ perceived facial resemblance did not. These findings suggested that the uncertainty of paternity contributed to the trait anxiety of fathers, but not mothers.

Keywords: resemblance, paternity, anxiety.

 

Oggettivazione sessuale, invidia e idealizzazione amorosa in “Malena” – Cinema & Psicologia

Ambientato nella Sicilia dell’Italia fascista, ormai verso il tramonto della guerra, Malèna (2000) diretto da Giuseppe Tornatore, fornisce uno spunto riflessivo sull’oggettivazione sessuale, invidie e rivalità, ma anche sull’idealizzazione amorosa nell’adolescenza e nell’età adulta, senza tralasciare il potere delle pericolose profezie che si auto-avverano (Merton, 1948).

 

Introduzione

La storia racconta dell’ossessione amorosa di Renato, un pre-adolescente di 12 anni innamorato della donna più bella del paese, la giovane Malèna, devota e timidissima moglie di un soldato in guerra, costantemente in guardia dagli attacchi invidiosi del paese e dai pesanti corteggiamenti maschili, ignari della riservatezza e timidezza a cui tiene saldamente fede. Purtroppo la protezione di Renato, che la osserva di nascosto, prega per lei e punisce chi la maltratta, e il distacco dai rapporti non salveranno la sua reputazione quando la giovane si ritroverà completamente sola nel paesino.

 

L’oggettivazione sessuale e la profezia che si autoavvera

Dal film si capisce che Malèna possiede diverse qualità oltre alla bellezza; è riservata, seria, buona. Nessuno, tuttavia nota questi aspetti, bensì, uomini o donne che si focalizzano sull’estetica, e ci vuole un battito di ciglia per etichettarla, senza motivo, come una prostituta.

Ogni minimo pettegolezzo innesca la voce sulla sua cattiva reputazione; per gli uomini è solo una splendida creatura che risveglia ogni desiderio sessuale, per le donne una pericolosa mala femmenazza che ruba la scena e l’attenzione alle altre. Per quanto riesca ad evitare ogni contatto e occasione di denigrazione, la giovane è costantemente bersagliata.

In questo senso l’oggettivazione sessuale si manifesta nello sguardo maschile che deumanizza la donna e la rende assimilabile ad un oggetto (Volpato, 2011). Malèna non è considerata una persona, bensì un oggetto sessuale finalizzato al soddisfacimento delle fantasie maschili, nonostante sia sostanzialmente una moglie devota e fedele che aspetta il marito dal fronte, quasi isolata dai rapporti sociali.
Lo stesso fenomeno oggettivante si trova anche nelle donne che la osservano e giudicano solo dal punto di vista dell’aspetto fisico, eguagliando la persona ad una parte e non al tutto (Pacilli, 2012; Rollero & De Piccoli, 2013).

Così l’oggettivazione sessuale da esterna diventa interna, e la persistente e delirante ossessione sui presunti facili costumi della ragazza purtroppo prende piede nella realtà; Malèna, ormai abbandonata tragicamente dal padre morto durante i bombardamenti e dal marito dato per caduto di guerra, in balia di un paese che in lei non vede altro che sessualità e perdizione, diventa la prostituta dei fascisti e dei tedeschi, un “mestiere” alquanto pericoloso non solo per l’identità e la reputazione, ma anche per l’immagine sociale di una donna italiana alla vigilia della liberazione della nazione.

La profezia che si auto-avvera e l’interiorizzazione dell’oggettivazione sessuale si mescolano e creano così un fenomeno complesso dotato di vari fattori interagenti: la solitudine e l’abbandono, le pressioni esterne, l’equivalenza stereotipica della donna “bella” e contemporaneamente “di facili costumi”, il focus sull’aspetto fisico e le aspettative collettive, la mancanza di figure di attaccamento significative in grado di accoglierla e comprenderla, contribuiscono ad indebolire la volontà e l’identità della ragazza che finisce drammaticamente per diventare esattamente come la vedono gli altri; un oggetto sessuale e una “donnaccia”. Questo non basta ovviamente a farsi “accettare” perché, in ogni caso, continua a dare fastidio alle donne che colgono l’occasione della liberazione partigiana per linciarla pubblicamente, massacrandola selvaggiamente di fronte alla folla attonita e disgustata di quegli uomini che un tempo avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di ricevere un suo sguardo. Malèna, debole e indifesa, con i capelli rasati, ricoperta di stracci e cosparsa di sangue non esercita più la stessa attrazione, anzi, suscita repulsione e distacco anziché accudimento e protezione, perché privata di quegli attributi che la rendevano desiderabile e al tempo stesso meno umana. Nessuno la difende, tutti osservano l’umiliazione senza capire che la responsabilità degli accaduti non è unicamente sua.

Curiosamente l’empatia delle donne arriva quando la giovane si ripresenta in paese, accompagnata dal marito redivivo, in uno stato estetico sciupato, volutamente invecchiato e imbruttito. Le stesse compaesane che un tempo l’hanno umiliata in piazza, ora non la percepiscono più come una minaccia, ma come una donna tra tante, appunto perché non è più attraente come prima. Verrebbe spontaneo chiedersi come sarebbe andata se fosse tornata senza marito e più bella e curata di prima.
Questa rappresentazione illustra come le donne portate ad assumere una visione oggettivante siano più predisposte alla competizione reciproca e alla denigrazione (Rollero & De Piccoli, 2012).

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER Malèna (2000):

https://www.youtube.com/watch?v=P-O0p6qRKBY

 

L’idealizzazione e l’amore

Sullo sfondo della storia c’è la protezione di Renato che sembra innamorato di Malèna, anche se, in realtà, la sua è una banale infatuazione adolescenziale basata, ancora una volta, sull’estetica.
Una cotta esagerata appunto perché compare un comportamento compulsivamente accudente, senza una reale conoscenza intima con la donna. Diversamente dai coetanei, Renato non coltiva legami con le ragazze della sua età, ma si immerge nell’idealizzazione di un amore che qualche volta prende risvolti allucinatori e deliranti.
Nonostante non ci sia un vero amore, il ragazzo si dimostra, per certi versi, più attento alla sofferenza di Malèna, che resterà per lui indimenticabile e insuperabile. A questo proposito è curioso come con il passare degli anni e le varie storie importanti, l’amore che lui stesso definirà come impossibile sia quello più intenso.

 

I messaggi significativi

Nel film è illustrato chiaramente il tema dell’oggettivazione sessuale con i suoi correlati negativi ed è per questo che una lezione da imparare risiede nella consapevolezza che l’aspetto fisico, per quanto emani una potente attrazione e invidia, è solo una parte di una persona che non sempre garantisce l’approvazione e l’accettazione. Le dinamiche illustrate insistono su una rappresentazione stereotipica e narcisistica della bellezza come chiave principale per l’apprezzamento e la fama, che porta a mettere al centro della propria identità l’aspetto estetico e il corpo, agevolando talvolta i disturbi alimentari (Rollero & De Piccoli, 2012). Le donne ne sono più propense per ragioni legate agli stereotipi culturali e alle disuguaglianze che sembrano ancora soliti in certi ambienti e realtà socio-culturali. Per questo, in un’ottica terapeutica è necessario aiutare il paziente a decentrare il focus sull’aspetto estetico e a considerare altre componenti di sé e degli altri, coltivando la creatività e gli interessi che gli consentano di arricchire l’esperienza interna e di attribuire un senso adeguato agli eventi.
Tuttavia è necessario analizzare la potente influenza mass-mediatica sull’essenzialità della bellezza per raggiungere il successo e l’ammirazione, un fattore che si ritrova con alta frequenza nelle società occidentali.

Un altro elemento importante è la qualità della relazione sentimentale basata sull’idealizzazione e sulla focalizzazione sull’aspetto estetico. È comprensibile che un ragazzo di 12 anni, agli albori con i primi rapporti con l’altro sesso, si invaghisca di una donna bella e irraggiungibile, ma quando questo aspetto non è circoscritto all’adolescenza e permane nell’età adulta suggerisce un aspetto patologico della gestione delle relazioni sentimentali che rimangono su un piano immaturo e distanziante. In questo caso il lavoro non dovrebbe essere solo finalizzato ad integrare più aspetti dell’identità, ma anche ad esplorare le ragioni per le quali manca la profondità di un rapporto intimo e duraturo mentre si pone al centro, al contrario, un rapporto basato sull’idealizzazione e il distacco.

La dipendenza da nicotina e possibili interventi terapeutici

Dipendenza da nicotina: Analizzando i pensieri dei soggetti dipendenti da nicotina così come da altre sostanze, è emerso come sia presente un particolare stile cognitivo, il “pensiero desiderante” che influenza il livello di craving esperito durante l’astinenza: nel pensiero desiderante si preconfigura l’oggetto del desiderio sottoforma di immagini e pensieri verbali determinando un aumento del craving.

Martina Lattanzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

La diagnosi di dipendenza da nicotina

Nel DSM-5 i criteri diagnostici per il disturbo da uso di tabacco prevede un pattern di sintomi tali da determinare un distress e un danno significativo dal punto di vista clinico. Devono essere presenti almeno due dei seguenti sintomi per un periodo di 12 mesi (Cosci et al., 2014):

  • Assunzione in quantità o in durata maggiori di quanto previsto;
  • Desiderio persistente o incapacità di cessare;
  • Una grande quantità di tempo viene spesa per procurarsi il tabacco;
  • Presenza di craving;
  • Uso di tabacco fa sì che non si riesca a funzionare in modo adeguato sul lavoro, a casa o a scuola;
  • Uso del tabacco viene perpetrato nonostante provochi problemi sociali o interpersonali;
  • Importanti attività sociali, lavorative o ricreative sono state cessate o ridotte a causa dell’uso del tabacco;
  • Utilizzo ricorrente del tabacco in situazioni a rischio;
  • Uso del tabacco viene perpetrato nonostante la consapevolezza che stia creando o esacerbando problemi fisici o psicologici;
  • Presenza di tolleranza;
  • Presenza di segni e sintomi astinenziali.

Inoltre bisogna sottolineare che nel DSM-5 tra i criteri diagnostici fondamentali per formulare la diagnosi di disturbo da uso di sostanze è stato finalmente introdotto anche il craving. Il craving infatti è uno degli aspetti centrali di tutte le dipendenze patologiche ed è descritto come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare di raggiungere un oggetto o praticare un’attività allo scopo di ottenere effetti piacevoli (Marlatt, 1978). Il soggetto durante il craving vive sensazioni fisiche e psicologiche spiacevoli come tremore, agitazione, irritabilità, aumento di ansia e stress, che si differenziano per caratteristiche e intensità a seconda della sostanza utilizzata, ed è responsabile di quel desiderio irrefrenabile di riprendere l’uso della stessa rendendo il soggetto vulnerabile alla ricaduta.

 

I sintomi dell’astinenza da nicotina

Da un punto di vista fisiologico, alla base delle sensazioni negative descritte dalle persone al momento della cessazione del fumo, si ipotizza che vi sia una up-regulation dei recettori nicotinici, ovvero un aumento di tali recettori a causa della precedente desensibilizzazione, degli stessi. Di conseguenza per ottenere le stesse sensazioni piacevoli si verifica una compensazione, una eccessiva produzione di recettori, che si legano al neurotrasmettitore acetilcolina (responsabile delle sensazioni piacevoli di benessere, euforia, riduzione di tensione). Nel cervello dei fumatori infatti i recettori nicotinici sono da 100 a 300 volte più numerosi rispetto ai non fumatori (Perry et al., 1999). Sembra proprio che sia l’aumentata attività colinergica a indurre lo stato di malessere generalizzato, ansia, irritabilità, agitazione e disturbi del sonno che caratterizzano la sindrome da astinenza del fumatore (Hughes et al., 1990).

Questi sintomi comportano nel soggetto il desiderio irresistibile di riprendere a fumare per desensibilizzare di nuovo l’attività di alcuni recettori e ridurre così gli effetti negativi dell’aumentata attività colinergica (Watkins et al., 2000). Tra gli effetti dell’astinenza da nicotina vi è anche l’alterazione dell’umore, soprattutto nelle prime ore o giorni, causando, a volte, nel soggetto una vera e propria depressione (Glassman et al., 1990; Tylor et al., 2014). Si può verificare  rabbia, umore depresso, aumento dell’appetito, difficoltà di concentrazione.

 

Dipendenza da nicotina: sia fisica che psicologica

Oltre alla dipendenza fisica la nicotina crea una dipendenza psicologica: fumare diventa un modo per alleviare lo stress quotidiano, per calmarsi, per ridurre l’ansia, abbassare il livello di attivazione delle emozioni, proprio grazie agli effetti positivi della nicotina sul nostro cervello. Se all’inizio infatti ciò che spinge a fumare può essere un modo per auto-medicarsi o auto-gratificarsi, dopo poco tempo insorge la dipendenza a mantenere il comportamento e subentra la difficoltà a controllare i propri impulsi (Goodwin et al., 2002).

 

Dipendenza da nicotina e vulnerabilità agli attacchi di panico

Diversi studi hanno dimostrato che il fumo di sigaretta e la conseguente dipendenza da nicotina aumentano il rischio di sviluppare un disturbo da attacchi di panico (Bakhshaie et al., 2016). Non è ancora ben chiaro quale sia il meccanismo che li lega, ma sono state formulate alcune ipotesi: nei soggetti ansiosi, particolarmente sensibili agli aspetti che riguardano la respirazione (“fame d’aria”, paura di soffocare), il fumo va a peggiorare la funzionalità respiratoria in quanto c’è un aumento di anidride carbonica nel sangue a scapito dell’ossigeno. La nicotina potrebbe quindi contribuire agli attacchi di panico proprio a causa di questo scambio tra anidride carbonica e ossigeno (Zvolensky et al., 2005a; Moylan et al., 2013).

Inoltre nella comprensione dei meccanismi che possono essere coinvolti nella maggiore vulnerabilità al panico potrebbero essere la presenza tra i fumatori di una maggiore tendenza ad aumentare le sensazioni corporee spiacevoli (Abrams et al., 2011). La “sensibilità all’ansia” ovvero una forte preoccupazione circa le conseguenze negative dei sintomi ansiosi. In particolare i fumatori con alta sensibilità all’ansia percepiscono la probabilità di smettere di fumare come un’esperienza difficile e pericolosa, probabilmente a causa della ipersensibilità alle sensazioni negative ed ai sintomi astinenziali (Zvolensky et al.,2004). Questo potrebbe far accrescere l’ansia e quindi incrementare la vulnerabilità al panico (Zvolensky et al., 2005b).

 

Dipendenza da nicotina e depressione

In letteratura sono presenti inoltre studi in cui emerge una relazione tra depressione e dipendenza da nicotina. La dopamina, la noradrenalina e la serotonina sono infatti neurotrasmettitori implicati nei disturbi dell’umore, così che l’interruzione della nicotina può portare a sviluppare sintomi depressivi, a causa dell’alterazione dei suddetti neurotrasmettitori. Inoltre alcuni studi hanno rilevato un maggior rischio di suicidio tra i fumatori rispetto ai non fumatori (Bifulco, 2016).

La maggior parte dei sintomi depressivi, legati alla sospensione della nicotina, scompaiono dopo circa un mese e il soggetto, nel lungo termine può beneficiare di una migliore qualità di vita.

 

Terapia della dipendenza dalla nicotina: le fasi

In uno studio di meta-analisi (Grucza et al., 2014) è stata valutata la salute mentale dei fumatori attraverso la somministrazione di questionari, prima e sei settimane dopo l’interruzione della dipendenza da sigarette; nello studio è stata valutata la presenza di condizioni di ansia, di depressione o entrambe, di emozioni positive, dello stress e della qualità della vita. Dallo studio emerge che smettere di fumare si accompagna ad una significativa e duratura riduzione di depressione, ansia e stress e ad un miglioramento dell’umore e della qualità della vita. Inoltre  gli effetti benefici dell’interruzione del fumo non differiscono tra soggetti sani e soggetti già affetti da disturbi psichici (Grucza et al., 2014).

Nel fumatore spesso manca la volontà di smettere di fumare, nonostante ve ne sia la reale necessità per la propria salute fisica. La profonda convinzione di voler abbandonare una condotta nociva per la propria salute è una componente fondamentale nel momento in cui si decide di smettere di fumare e se la forte motivazione manca il fumatore si potrà ritrovare in una spirale di tentativi continui e continui fallimenti. Si deve avere una forte motivazione per resistere al craving piuttosto intenso delle prime ore e giorni dalla cessazione dal fumo perché è proprio questa la fase più delicata. Per comprendere il ruolo della motivazione al cambiamento può essere utilizzato, come riferimento, il modello transteoretico di Prochanska e Di Clemente (1994), così da capire in quale fase il tabagista si trova e regolare di conseguenza l’intervento di aiuto in modo adeguato.

Il soggetto si può trovare nella fase della pre-contemplazione dove ancora non è consapevole di avere un problema, non è preoccupato del proprio stato di salute e non ha alcuna intenzione di smettere di fumare. In questa fase può essere utile iniziare a ragionare insieme sui pro e i contro del fumare, cercando di insinuare nel soggetto delle incertezze rispetto alla convinzione, ancora presente, che fumare non faccia male (Tinghino, 2003). In questa fase i colloqui motivazionali sono sicuramente importanti per aiutare il soggetto a cambiare la propria visione della vita e innescare così un processo di cambiamento.

Nello stadio della contemplazione il soggetto inizia a pensare che in effetti ci possono essere dei vantaggi se smettesse di fumare, ma è ancora molto legato alle sensazioni piacevoli della sigaretta. In questo caso può essere utile fare un bilancio decisionale: riflettere sui vantaggi fisici, psicologici, relazionali, ambientali, economici che la cessazione del fumo può comportare, così come riflettere sui rischi per la salute e i danni effettivamente provocati aiuta ad avere una reale comprensione  della propria situazione di dipendenza da nicotina. Può essere utile avvalersi di una tabella in cui scrivere analiticamente i vantaggi/svantaggi nel breve e lungo termine dello smettere di fumare.

Nella fase della preparazione il fumatore ha preso una decisione, si è convinto a voler cambiare e inizia a progettare dei piani; in questo momento è utile sostenere la sua motivazione, capire insieme i possibili ostacoli, definire gli obiettivi (Tinghino, 2003).

Nella fase dell’azione il fumatore mette in atto la cessazione delle sigarette e si confronta effettivamente con il cambiamento. Molto importante sarà il ruolo del terapeuta nel sostenere il soggetto in ogni minimo successo che vivrà in questa fase di forte vulnerabilità: il soggetto vivrà momenti di sconforto e momenti di euforia per cui un supporto psicologico è fondamentale (Tinghino, 2003).

Nella fase del mantenimento, quando ormai ci si può definire “ex fumatori” il terapeuta dovrà lavorare sul sostenere tale risultato positivo. Bisognerà anche affrontare il tema di una possibile ricaduta perché spesso può accadere che l’ex fumatore, dopo diverso tempo, ricada nella tentazione di fumare una sigaretta e in questi casi c’è la tendenza a considerare l’intero percorso un fallimento. Bisognerà discutere di questa eventualità e preparare il soggetto a reagire in maniera adattiva, ovvero non cadere nello sconforto totale e considerarsi un fallimento, autodenigrandosi (come spesso accade) ma affrontare la ricaduta come un singolo errore che si è commesso ma che non va a intaccare la riuscita dell’intero processo di cambiamento che ormai si è realizzato (Tinghino, 2003).

Ovviamente accanto ai trattamenti di natura psicoterapica è necessario affiancare una terapia farmacologica per aiutare il soggetto ad affrontare l’astinenza da nicotina.

 

Innovazioni nel processo terapeutico della dipendenza da nicotina: il craving

Accanto ai tradizionali protocolli di disassuefazione dal fumo, ormai in uso da diversi anni, recenti ricerche stanno apportando novità nella cura del tabagismo.

Analizzando i pensieri dei soggetti dipendenti da nicotina così come da altre sostanze, è emerso come sia presente un particolare stile cognitivo, il “pensiero desiderante” che influenza il livello di craving esperito durante l’astinenza: nel pensiero desiderante si preconfigura l’oggetto del desiderio sottoforma di immagini e pensieri verbali determinando un aumento del craving (Caselli et al., 2013). Inoltre tale stile cognitivo influenza i sintomi del craving, aumentandoli, in modo maggiore rispetto alla presenza di un temperamento caratterizzato dalla forte ricerca della novità, anch’essa presente nel soggetto dipendente.

Il pensiero desiderante può essere attivato e mantenuto da meta credenze positive e negative (Nikčević et al., 2010).

Il craving non sembra invece essere influenzato dal livello di stress percepito dal soggetto, e quest’ultimo risulta essere indipendente anche dal pensiero desiderante (Caselli et al., 2013).

Nella dipendenza da nicotina oltre alla presenza di un pensiero perseverante (pensiero desiderante) e di credenze meta cognitive maladattive, è stata riscontata anche la presenza della soppressione dei pensieri (comportamento autoregolativo maladattivo in cui si tenta di smettere di pensare a determinati contenuti mentali (Erskine et al., 2012).

La comprensione di tutti questi aspetti legati alla meta cognizione, agli stili di pensiero e alle strategie di coping che sono presenti nel fumatore, permetterà di avere una nuova prospettiva di cura della dipendenza da nicotina: si potranno attuare interventi con specifici obiettivi terapeutici modellati sul soggetto, intervenendo non più sugli impulsi e sul desiderio del fumatore ma sugli aspetti meta cognitivi, aumentando la consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie strategie di controllo.

Lamberto Maffei: Elogio della lentezza – Report del convegno dell’Università degli studi di Tor Vergata

Il giorno 3 maggio 2016 presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, nella Macroarea di Lettere e Filosofia (via Columbia 1, Roma) è stato organizzato un incontro per i Moduli GSDI (A.A. 2015/2016). Il convegno, dal titolo “Velocità/Lentezza” è stato programmato sulla base della lettura del saggio di Lamberto Maffei, Elogio della lentezza (Maffei, 2014), ospite della suddetta giornata.

 

L’intervento di Lamberto Maffei su lentezza e velocità

Alle ore 16, dopo aver affrontato il tema della giornata da varie prospettive, è arrivato il Professor Maffei che ha iniziato la sua lectio magistralis con un racconto autobiografico.
I suoi studi iniziali – racconta – vertevano sulla cibernetica; la sua teoria, infatti, era che la matematica e la fisica, fossero l’unica maniera per imparare la biologia. A quell’epoca insegnava infatti “teoria dei sistemi applicata alla biologia” a Napoli. In seguito, la sua prospettiva cambia: la fisica, secondo lui, ha inserito un metodo che la biologia ancora non può accettare, a causa delle sue numerose variabili. Non esiste una matematica che sia in grado di affrontare il problema della biologia.

Dopo questa parentesi iniziale, spiega da dove è nata l’idea del libro Elogio della lentezza (2014).
Tre anni fa, trovandosi a Firenze per lavoro, andò a visitare il salone dei Cinquecento: qui ammirò gli affreschi del Vasari, raffiguranti delle tartarughe con una vela e la scritta «festina lente» e cioè “affrettati lentamente”.

Iniziò così a riflettere sul significato che queste raffigurazioni contenevano, soprattutto perché, guardando dalla finestra, vide una grande confusione nella Piazza Signoria: gente che si affrettava velocemente, tutti immersi nei nuovi mezzi di comunicazione, e ciò che lo colpì fu che “non parlavano”. Maffei vedeva che l’andare veloce di tutte queste persone, non rappresentava il funzionamento proprio del cervello umano, la cui velocità massima è pari a 400 km l’ora.

A questo proposito, propone un esempio molto emblematico e immediato: il freccia rossa, con la sua velocità, non permette alla retina di cogliere i nomi delle stazioni che passano.
Qui si domanda: tutta questa velocità in cui l’essere umano è immerso, non è forse fonte di stress, non è causa probabile di patologia?
La velocità, infatti, non è in armonia con il funzionamento del cervello.

 

L’importanza del linguaggio nella nostra società

Maffei si sofferma sull’emisfero del linguaggio che di contro quello destro – responsabile delle decisioni rapide, primitive e utili alla sopravvivenza – è lento, è cioè un “sistema in serie” che utilizza il tempo. Il professore richiama qui la definizione che utilizza nel suo saggio riferendosi all’emisfero sinistro: emisfero del tempo.

La nostra società, la contemporaneità, predilige l’emisfero destro, basti pensare al fatto che viviamo in un mondo prettamente visivo: le immagini dominano la quotidianità. Qui Maffei, con amara ironia, sostiene che forse stiamo assistendo a un’“inversione celebrale”, tale per cui, dall’essere scimmia che diviene uomo e utilizza il linguaggio, stiamo tornando ad essere scimmie che “guardano la televisione”. Si avverte dunque la necessità di difendere il linguaggio in quanto è esso che ci definisce come uomini.

 

Riflessioni sulla tecnologia

Prende da qui avvio la riflessione sulla tecnologia. Viene posto l’accento su una questione di rilievo; oggi la tecnologia ha acquisito tanta dignità da scansare materie quali la filosofia in quanto considerate non produttive. Maffei sostiene che la distinzione tra le materie non dovrebbe esistere: «la distinzione tra le discipline è negativa» sostiene magistralmente.
Proseguendo con la considerazione sulla tecnologia proietta una slide che raffigura una grande ragnatela con una sagoma di un uomo intrappolato «nella rete» che rappresenta una rete di pensiero omologato. Icastico, domanda retoricamente, «se uno è connesso, che pensiero libero ha?»; il continuo arrivo di informazioni dall’esterno su questi apparecchi elettronici è come se formassero una “protesi” di cervello che ci viene direttamente consegnato da questa rete.

Secondo Lamberto Maffei la tecnologia ha creato solitudine sia nei giovani sia negli anziani.
Nei primi perché si ritrovano soli, in una stanza, con il loro strumento. Negli anziani invece lo strumento crea solitudine in quanto, non comprendendone le modalità di funzione, vengono esclusi. Stessa esclusione che avviene per il cambiamento di linguaggio. Maffei è arrivato a sostenere ciò a seguito dei suoi studi sulla demenza senile: gli anziani che mancano di stimoli non producono la, da lui denominata, “farmacologia endogena”.

A questo punto cita anche l’altro suo libro, La libertà di essere diversi. Natura e cultura alle prove delle neuroscienze (2011) in cui si sostiene che questi potenti mezzi che diffondono immagini – che parlano quindi un linguaggio universale – creano gli stessi stimoli, gli stessi messaggi e quindi, quello che si può chiamare cervello collettivo; viene così a mancare la dinamica del pensiero diverso.

 

Neuroscienze: come l’ambiente influenza le sinapsi

Riprendendo l’importanza degli stimoli, sostiene che l’ambiente è l’insieme degli stimoli stessi. Per questa ragione Maffei si è interessato all’ambiente, e a come questo possa contribuire notevolmente all’aumento del numero delle sinapsi. Quest’ultime rappresentano la parte più importante del cervello dell’uomo e raggiungono il numero massimo all’età di tre anni, prima di iniziare un lento declino. La vecchiaia viene, infatti definita da Maffei come la «perdita delle sinapsi».

Partendo dagli esperimenti sui ratti, Maffei è arrivato all’uomo, raggiungendo dei notevoli risultati. Al fine di studiare come l’interazione con l’ambiente influenza le sinapsi, ha preso in esame due gemelline: Valentina e Federica. Una veniva massaggiata tre volte al giorno per 10-15 minuti per dieci giorni da una nursery specializzata, e l’altra no.

Il risultato è il seguente: la bambina massaggiata, rispetto all’altra, aveva un aumento del THS, una diminuzione del cortisolo, aumento del peso e sviluppo della vista. In altri termini: si è riscontrato un aumento dello sviluppo del cervello solo massaggiando.

 

Bulimia dei consumi, anoressia dei valori

Riferendosi al capitolo del libro Elogio della lentezza, “Bulimia dei consumi, anoressia dei valori” (p. 75), si aprono riflessioni antropologiche e umanistiche.

Il nostro tempo predilige il pensiero rapido perché su esso si basa il consumismo. A questo punto Maffei fa presente che la biologia gli ha fatto capire che esistono due grandi traguardi: la nascita e la morte. A questo punto la domanda fatale: corriamo per arrivare prima al traguardo finale, inteso come la morte?

La nostra è l’era digitale in cui scompaiono le caratteristiche tipicamente umane, come il colloquio, la lettura, poiché ora tutto deve essere applicabile, la conoscenza è intesa come ciò che serve per fare qualcosa, è intesa come ciò che va nel prodotto.
Accosta questa era della velocità alla scoperta della luce elettrica che ha permesso di lavorare di notte e quindi produrre di più: è così che si va incontro a una bulimia dei consumi che porta all’anoressia dei valori.
Non mancano ulteriori riflessioni antropologiche: cita lo Zibaldone di Leopardi [blockquote style=”1″]la pazienza è la più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza eroica[/blockquote], per ribadire che la nostra società, l’individuo che la forma, ha perso la pazienza di ascoltare, di pensare che l’altro sia come noi.

Conclude la sua lectio magistralis con una riflessione significativa: da sempre, nel mondo, è presente la discriminazione e la distinzione tra le classi sociali, ma questa secondo lui è “priva di senso e di dignità” in quanto tutte le classi sono utili.

Tumore al seno: come reagisce la coppia alla diagnosi

Quando si verifica un evento critico come un tumore al seno, la relazione di coppia viene colpita in maniera marcata e profonda, minacciando la vita a due. La malattia crea una condizione di disagio, di difficoltà che mette a dura prova il legame affettivo tra i partner, si stabilisce quella situazione che, viene definita marital distress

 

La malattia è il lato notturno della vita,
una cittadinanza più onerosa.
Tutti quelli che nascono
hanno una doppia cittadinanza,
nel regno dello star bene
e in quello dello star male.
Preferiremmo tutti servirci soltanto
del passaporto buono,
ma prima o poi ognuno viene costretto,
almeno per un certo periodo,
a riconoscersi cittadino di quell’altro paese.

(Susan Sontag, La malattia come metafora)

 

Quando si verifica un evento critico come un tumore al seno, che irrompe all’improvviso e in modo non prevedibile e non pianificabile, porta un senso di impotenza ed inadeguatezza per i partner che vedono improvvisamente stravolgere la propria esistenza. La relazione di coppia, senza dubbio, viene colpita in maniera marcata e profonda, minacciando la vita a due. La malattia crea una condizione di disagio, di difficoltà che mette a dura prova il legame affettivo tra i partner, si stabilisce quella situazione che, viene definita marital distress.

LEGGI ANCHE: Diagnosi di carcinoma mammario: strategie di coping per affrontare un corpo che cambia

Bressi e Razzoli (2003), mettono in evidenza come il tumore al seno (e la malattia in generale) metta a repentaglio la relazione in ogni suo aspetto, dal momento, che far fronte alla malattia comporta necessariamente una diversa gestione del quotidiano, un diverso approccio alla comunicazione e al modo di vivere l’intimità. La malattia oncologica può determinare non solo sofferenza nei partner, ma creare un disequilibrio nel sistema familiare, a livello dei ruoli e delle posizioni occupate dai coniugi, nei modelli comunicativi, nella vita intima e sessuale della coppia. Può far emergere problemi irrisolti, difficoltà sopite nel menage quotidiano, mai effettivamente affrontate, come ad esempio bisogni, aspettative, desideri, esigenze mai espresse, ma desiderati e uno scarso impegno nella relazione che, con la malattia, non può essere più disatteso (Ben-Zur, Gilbar e Lev, 2001, Charvoz, Favez, Notari, Panes-Ruedin, e Delaloye, 2016).

In generale però sembra che la malattia, come il cancro, difficilmente possa condurre alla separazione di coppia. Giese-Davis e al. (2000), hanno osservato che si separano soltanto il 17% delle pazienti sopravvissute al tumore al seno. Per alcune coppie, il fatto di aver affrontato e superato una malattia così grave può addirittura determinare una vera e propria crescita post-traumatica, come evidenzia in una sua ricerca Weiss (2004), caratterizzata da un aumento dell’intimità tra i partner, Ganz, et al. 2004).

La partecipazione empatica e scrupolosa del partner sano ai bisogni della paziente rappresenta una modalità funzionale a mantenere la complicità nella coppia, messa a dura prova nell’affrontare quotidianamente le sfide del cancro.

 

Tumore al seno: la reazione delle donne e dei loro partner

Molte donne riportano un atteggiamento di sollecitudine e di protezione nei confronti del partner, cercando di proteggere i propri familiari dal dolore, e fingendo che tutto vada bene. Altre volte la donna con tumore al seno si isola per paura che i figli piccoli si traumatizzino vedendo le cicatrici o scoprendo la parrucca, questo spinge la donna a rifiutare qualsiasi contatto corporeo evitando la vicinanza, i giochi insieme e le coccole (Holmberg et al. 2001). Altre donne ancora possono manifestare dipendenza esagerata dal partner con sentimenti ripetuti di disgusto per il proprio corpo, paura della ricorrenza. Il partner in tale situazione si sentirà frustrato, potrà percepire la sua partner come inconsolabile. Le donne più forti invece, tentano di riprendere un senso di indipendenza per ricercare la normalità quotidiana, assumendosi responsabilità familiari. Altre ancora manifestano comportamenti direttivi e controllanti nell’eseguire certi compiti, anche questi atteggiamenti rimandano alla loro autonomia.

I partner di donne con tumore al seno invece possono mostrare tratti di personalità orientati alla gestione delle soluzioni, alla rabbia incontrollata, alla scarsa priorità della coniuge. Spesso ci si appella a miti come l’iperprotezione della paziente censurando ogni notizia sulla malattia e il suo decorso, fino a rimuovere del tutto e magari non chiedendo più come si senta, di cosa abbia paura o di cosa abbia bisogno. Spesso, un modello interattivo che si osserva nelle coppie è quello in cui una donna esprime sentimenti negativi, chiede insistentemente di comunicare sui problemi, mentre l’uomo tende a fuggire. In queste situazioni si crea un circolo vizioso in cui, alla fuga del partner, corrisponde un aumento dell’espressione di sentimenti negativi di lei, che incrementano il bisogno di fuga di lui, e, alla fine entrambi riportano sensazioni di mancanza di considerazione nei propri confronti da parte del partner (Markman, 2013).

Queste difficoltà possono scatenare modalità aggressive nel partner sano o una riduzione dei contatti. Alcuni uomini potrebbero ritirarsi dalle richieste sessuali come risposta alla paura e all’immagine corporea alterata della loro compagna, altri potrebbero ritirarsi per paura di ferire la partner. Alcune donne potrebbero sentirsi in colpa nel deprivare i loro compagni dal sesso e avrebbero paura di un eventuale abbandono del loro compagno (Henson, 2002). Tutto ciò può far nascere diversi problemi coniugali che in casi di grave crisi relazionale inducono a separazioni (Sheppard e Ely 2008).

 

La comunicazione tra partner

La comunicazione maladattiva è il precursore di una insoddisfazione coniugale, caratterizzata dalla pressione di un partner sull’altro nel parlare dei problemi, mentre l’altro partner si ritira, diventando passivo o difensivo.

Strategie di coping scarsamente funzionali sono anche quelle caratterizzate da fuga, evitamento della realtà, sia da parte del coniuge malato che di quello sano, che possono esprimersi, ad esempio, nel silenzio; si evita di parlare del tumore al seno e della difficoltà che la situazione determina sia nei partner sia nella relazione tra loro.  Si crea un muro di silenzi, di non detti che, benché possano essere sostenuti da motivazioni ‘nobili’ (non urtare la sensibilità della paziente), creano difficoltà nel dialogo tra i partner e nel modo di vivere la malattia. Secondo Fergus e Gray (2009), esistono alcune determinanti che impediscono buone dinamiche relazionali; esse sono l’evitamento di argomenti riguardante il tumore al seno, stili comunicativi basati sulla ritirata; prendere le distanze.

Un’aperta comunicazione improntata sull’autenticità e sul rispetto è predittivo del miglioramento relazionale. È importante che ambedue i partner riescano a esprimere i loro sentimenti, paure e pensieri all’altro per mantenere integra l’intimità della coppia. Invece vulnerabilità relazionali possono diventare barriere comunicative e creare nel coniuge sano un’onda d’urto emotiva che rende spesso difficile adattarsi alla situazione e al ruolo del caregiver.

Biondi (2003), sottolinea come l’intimità sia mediata dalla ‘capacità comunicativa‘, indispensabile sia per la donna con tumore al seno, che esprimendo i propri stati d’animo non si sentirà isolata, sia per il partner sano, che sarà alleggerito nel palesare le paure inerenti alla malattia. Nell’affrontare il cancro, entrambi i partner possono avere visioni e prospettive diverse, l’unico modo per cercare un senso di condivisione è parlare, comunicare apertamente i propri stati d’animo.

Parlare apertamente delle proprie emozioni, aiuta a tollerare quelle negative tale da sviluppare un coping adattivo che consente di migliorare la relazione intima (Badr et al. 2008). Laureanceau, Barrett e Rovine (2005) propongono, criteri come self-disclousure intesa come la frequenza e l’intensità della comunicazione di informazioni, sentimenti e pensieri da parte del rispondente, la partner-disclousure intesa come la frequenza e l’intensità con cui il partner tende ad aprirsi esprimendo e comunicando informazioni, pensieri e sentimenti e la perceived partner responsiveness intesa come quanto i rispondenti si sentono compresi, considerati, protetti dal partner.

La partner responsiveness contribuisce al supporto emozionale, ed è un fattore che aumenta l’intimità e la vicinanza nella coppia. Generalmente la disclosure è predittivo di un migliore adattamento emotivo e psicologico, di bassi livelli di stress e di soddisfazione relazionale. Scarso adattamento e distress sono invece il risultato di comportamenti basati sull’evitamento, il criticismo, il diniego, una comunicazione basata sulla richiesta-ritirata. Una ragione dell’evitamento è la difficoltà di esprimere le proprie emozioni all’altro significativo e/o tensione interpersonale.

 

Tre tipi di comunicazione utili alla coppia durante e dopo il tumore al seno

Esistono tre tipi di comunicazione che la coppia può usare quando gestisce gli stressor durante e dopo il tumore al seno e il distress psicologico: la comunicazione costruttiva reciproca, l’evitamento reciproco, la richiesta-ritirata in cui un partner cerca l’altro che si sottrae alla comunicazione (Manne et al., 2006). Quest’ultima e l’evitamento reciproco sono associati con alto distress e scarsa soddisfazione relazionale. Viceversa nel caso di una comunicazione positiva reciproca, che include abilità di problem-solving, metacomunicazione, empatia, sono associati a una buona qualità relazionale. I problemi di comunicazione sono i primi segni della rottura coniugale, dell’insoddisfazione relazionale e della mancanza di supporto emotivo. Al contrario altre coppie, nell’esperienza del cancro tendono a creare una maggiore intimità, un contatto ravvicinato; tale evento rappresenta un momento di insegnamento per la coppia stessa. L’aumento della vicinanza accade in maniera marcata nelle coppie con una forte relazione già prima della diagnosi di tumore al seno, mentre nelle coppie con relazioni più deboli possono sperimentare più difficoltà e un declino nella soddisfazione e nella qualità coniugale (O’Mahoney e Carroll 1997).

Dalla letteratura si evince che un’aperta comunicazione di coppia riduce i livelli di distress, incrementando l’adattamento relazionale e psicologico, tendendo a focalizzarsi sulle aspettative comuni, minimizzando le differenze e risolvendo i conflitti (Badr, Acitelli, e Taylor, 2008). Come documentano Fergus e Gray (2009), la diagnosi e il trattamento per il tumore al seno ha delle ricadute nella coppia; per cui diventa prioritario rinegoziare ruoli familiari e responsabilità, sentimenti di squilibrio, fronteggiare le barriere comunicative e gestire l’inattività sessuale.

Ma questo non è sempre facile poiché a mediare l’adattamento ai cambiamenti intervengono sia le caratteristiche personologiche della paziente che le caratteristiche del partner. L’obiettivo primario per la coppia è ritornare ad una vita ‘normale’; riprendendo le relazioni intime, progettare, affrontare i cambiamenti corporei, affrontare la malattia e i trattamenti, gestire la paura della ricorrenza. I cambiamenti corporei hanno delle ripercussioni sulla percezione di sé e nella relazione di coppia.

Genogramma lavorativo: dieci vantaggi del suo utilizzo nell’orientamento scolastico e professionale

Preso in prestito dalla psicologia clinica, dove permette di indagare la storia famigliare dei pazienti, mostrando e chiarendo le relazioni affettive e sociali tra i componenti, il genogramma viene sapientemente adattato dai professionisti della psicologia del lavoro, assumendo il nome di career genogram o genogramma lavorativo, per aiutare studenti, inoccupati e disoccupati nelle scelte di carriera e professionali.

 

Oltre a rappresentare graficamente il proprio albero genealogico, il genogramma lavorativo o career genogram permette di visualizzare tutte le professioni e i mestieri svolti dalla famiglia del cliente, nell’arco di tre generazioni.

Chiedere al cliente di raccontare i lavori praticati dai propri famigliari, per le tre generazioni che lo hanno preceduto, è risultata una incredibile opportunità per inquadrare il retaggio sociologico, psicologico, culturale ed economico del cliente così da poterlo meglio orientare e aiutare per la sua carriera futura (Heinl, 1985).

Secondo Norman Gysbers, psicologo, considerato tra i maggiori esperti di orientamento, i vantaggi del genogramma lavorativo sono numerosissimi. Partendo dalle sue considerazioni, riportate nel  manuale ‘L’orientamento professionale’, di seguito viene proposta una sorta di top ten del perché, negli ultimi anni, il genogramma lavorativo sia diventato lo strumento principe degli addetti di psicologia del lavoro, immancabile soprattutto nei percorsi di orientamento sia scolastico che professionale.

 

 

I dieci vantaggi del genogramma lavorativo

I vantaggi dell’utilizzo del genogramma lavorativo sono i seguenti:

  1. Stimola la curiosità e la fiducia, gettando le basi per una buona alleanza di lavoro tra orientatore e orientato.
  2. Permette ai clienti di raccontare la propria storia famigliare, avendo però un focus, il lavoro. Questa modalità risulta, agli occhi del cliente, inaspettata e originale e, pertanto, quasi sempre ben accetta;
  3. Non è una procedura standardizzata. Nel genogramma lavorativo c’è un ampio margine di flessibilità nelle domande, pertanto si posso toccare moltissimi aspetti della vita del cliente ed insieme a lui si decide cosa approfondire;
  4. Il genogramma lavorativo è un prezioso strumento in grado di gettare luce sulla visione del mondo dello studente o del lavoratore che si vuole aiutare. Grazie al genogramma lavorativo, infatti, si riflette insieme al cliente su che cosa ha significato crescere proprio in qual contesto famigliare, con quel preciso background lavorativo o quella mentalità. Ad esempio, quanto può essere difficoltoso non intraprendere un percorso universitario, quando tutte le generazioni che precedono il cliente, si sono affermate in campo accademico;
  5. Il genogramma lavorativo sollecita il cliente a raccontare quali sono state le figure significative che hanno maggiormente influenzato le scelte di carriera e quali sono quelle che, ad oggi, potrebbero maggiormente influenzare determinate decisioni di carriera universitaria e professionale;
  6. Il genogramma lavorativo permette di indagare la soddisfazione lavorativa e i sogni non realizzati di nonni e genitori per capire il peso di eventuali aspettati vedi cui lo studente o il lavoratore è caricato;
  7. Attraverso il genogramma lavorativo emergono competizioni tra fratelli e cugini, così come però, potrebbero rendersi visibili eventuali possibili collaborazioni che potrebbero diventare risorse preziose da attivare;
  8. Il genogramma lavorativo svela infine i radicati stereotipi lavorativi, ci dice come sono stati risolti i conflitti lavoro-famiglia, i conflitti di ruolo;
  9. Il genogramma lavorativo può inoltre essere incrociato con un’altra importante teoria sull’orientamento, la teoria di Holland. Secondo lo psicologo Holland ogni mestiere possiede una personalità che si può coniugare o meno con la personalità degli individuo. Le caratteristiche di personalità non sono infinite e possono essere riassunte in sei tipi: realistica, intraprendente, artistica, sociale, investigativa, convenzionale. Compito dell’orientatore sarà quindi incoraggiare il cliente verso quei lavori che gli corrispondono particolarmente perché cuciti bene con la sua personalità. In questo contesto, è facile capire come il genogramma lavorativo può subito mostrare, a colpo d’occhio, quali personalità lavorative sono predominanti o meno nella famiglia del cliente e quindi suggerire all’orientatore quanto il cliente possa trovarsi in difficoltà qualora non seguisse le orme famigliari. Ad esempio in una famiglia dove per generazioni sono predominanti lavoratori con  profili intellettuali e convenzionali, sarà facile capire come indirizzarsi verso un impiego molto artistico possa non essere facilmente compreso o accettato (Cortini, 2008).
  10. Infine, l’orientatore, attraverso il genogramma lavorativo aiuta a colmare lacune, percepire configurazioni, interrogarsi su scelte, rendendo il cliente più consapevole e permettendogli così di analizzare il suo background evidenziandone barriere e attivando le risorse disponibili.

 

Il dolore silenzioso dell’aborto e la legge 194

Il pronunciamento del Consiglio d’Europa mette in luce le notevoli difficoltà che le donne italiane incontrano nell’accedere ai servizi per l’ interruzione volontaria di gravidanza. La Legge 194 è entrata in vigore il 22 Maggio del 1978 e, da quasi quarant’anni, consente alle donne di praticare legalmente l’aborto.

 

Cosa prevede la Legge 194?

Una donna può effettuare l’ interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni o al massimo entro la 22esima/24esima settimana nel caso in cui si tratti di aborto terapeutico (in caso di pericolo per la salute fisica o psichica della donna e del feto).

In che modo può farlo?

La donna può rivolgersi ad un consultorio, ad una struttura socio-sanitaria riconosciuta oppure ad un medico di fiducia che, a seguito dei dovuti accertamenti, fornirà un certificato che permette di accedere alle sedi autorizzate a praticare l’ interruzione volontaria di gravidanza. Il medico rilascerà un certificato e, come previsto dalla legge, inviterà ad un periodo di riflessione non inferiore ai 7 giorni prima di accedere alle strutture autorizzate all’intervento (sia farmacologico che chirurgico). Ciascuna donna può decidere fino all’ingresso in sala chirurgica o un istante prima di assumere la RU-486, di rivedere la propria scelta.

 

Obiezione di coscienza in Italia

I dati forniti dal Ministero della Salute stimano la percentuale dei medici obiettori di coscienza intorno al 70% (fino al 90% in alcune regioni di Italia). Considerando che all’estero l’obiezione viene definita “Refusal of care”, ovvero, rifiuto di prestare cure mediche, il panorama italiano si presenta in modo diverso. La scelta personale di un medico di non praticare un’ interruzione volontaria di gravidanza per ragioni di coscienza è un diritto che può essere legittimamente esercitato. Il problema non si pone sulla legittimità dell’obiezione di coscienza ma sulla reale possibilità di esercitare un diritto tutelato dalla legge 194, così come sottolineato dalla Dott.ssa Lisa Canitano che aiuta donne provenienti da tutta Italia. Il diritto di obiezione di coscienza di un medico vale quanto quello di una donna che ha il diritto di abortire. Il problema non è chi ha più diritto ma di rendere possibile a tutti, donne e medici, di fare la propria scelta.
Anche quando un aborto è una scelta fatta con “leggerezza” è giusto che una ragazza/donna possa farlo nella totale sicurezza di un ospedale.

 

Psicologia di un’ interruzione volontaria di gravidanza

Il prima

Quando una donna scopre di essere incinta senza averlo programmato può vivere un momento di shock che mette in discussione i propri piani di vita. Ci saranno donne che nonostante un iniziale momento di confusione accoglieranno la gravidanza e ci saranno donne che, invece, non si sentiranno di portarla avanti.
Per quest’ultime, parlare di aborto e dei sentimenti dolorosi che accompagnano questa scelta è spesso difficile. Si evidenzia il timore di essere giudicate, di non essere capite o di essere spinte al ripensamento. Questi timori portano a non confidarsi con nessuno, spesso escludendo anche il compagno, pur di non essere influenzate da ciò che l’altro pensa.

Nonostante ci sia una legge che ne sancisca il diritto, molte donne vivono l’ interruzione volontaria di gravidanza come qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi. La gravidanza non desiderata può avere alle spalle diverse storie: può arrivare per il fallimento di un metodo contraccettivo, può arrivare da una violenza, può arrivare da un progetto con un partner che se ne va, può arrivare da rapporti non protetti, ecc. Qualunque sia il motivo e la storia che una donna porta con sé, quel periodo di vita sarà profondamente delicato.

Dopo un primo momento di shock, le donne riferiscono di provare molta ansia coerente all’importanza della posta in gioco: diventare o non diventare madre. Nel periodo che intercorre tra il test positivo e la decisione da prendere si alternano nella mente le due opzioni percorribili (proseguire la gravidanza oppure abortire) accompagnate da un’intensa ansia. Nei panni di quelle donne che si trovano a vivere questo dilemma entrambe le opzioni presentano delle tesi validissime. Il dono della vita da un lato e il desiderio di diventare madri rappresentano una spinta biologica e un’aspettativa socialmente condivisa che fanno da contrappeso alle difficoltà che si prefigurano in quel momento nella testa di una donna. Le criticità legate ad una gravidanza non desiderata possono essere molto personali e legate allo specifico momento di vita. Ci sono quelle ragazze/donne che non si sentono adeguate al ruolo di mamma, alcune si reputano troppo giovani, ci sono quelle che non vogliono far nascere un bambino in un contesto di privazione (sia questa economica o affettiva), ci sono quelle che non si sentono pronte, ci sono quelle che vedono l’idea di cambiare vita come un peso insostenibile, ecc. Ci sono donne che poiché nutrono un dubbio sul loro desiderio di maternità credono che non potranno mai essere delle bravi madri “una donna deve essere felice per una gravidanza”.

Quando una donna sceglie l’ interruzione volontaria di gravidanza spesso vive quella scelta come qualcosa da “lasciarsi dietro le spalle il prima possibile” e l’obiettivo è resistere fino al giorno dell’intervento. La latenza tra la scelta e la data dell’intervento (in genere 2 settimane) costituisce fonte di disagio poiché la decisione mai facile, spesso sofferta, procrastina la realizzazione, “vivendo” una gravidanza che si è deciso di non portare avanti. L’ansia è legata a due aspetti principalmente: da una parte si prefigura l’attesa dell’intervento (“un tempo che non passa mai”) e dall’altra il dubbio di fare la scelta giusta (“e se poi me ne pento?”).

Anche quando la decisione è presa consapevolmente, sapendo che l’aborto è la miglior scelta che possa fare, la donna vive un periodo emotivamente intenso, il senso di responsabilità di non dare la vita è un fardello pesante da sostenere soprattutto se sommato ai sintomi che spesso accompagnano la gravidanza. Chi sceglie l’aborto compie un passo che, tuttavia, per molte donne è il primo passaggio di una elaborazione che può essere molto difficile e dolorosa.

 

Il dopo

In seguito all’ interruzione volontaria di gravidanza le donne vivono un primo momento di sollievo. Tuttavia, per quanto le motivazioni che hanno portato ad interrompere la gravidanza siano percepite come valide e ragionate, emergono sentimenti dolorosi che non sono facili da affrontare. Talvolta assistiamo ad una fase di negazione nella quale la donna vive la propria vita come se quell’evento non fosse accaduto. In certi casi assistiamo alla comparsa di una sintomatologia di vario genere che manifesta la presenza di una sofferenza emotiva. Qualunque sia il modo di affrontare l’ interruzione volontaria di gravidanza occorre accogliere le emozioni ed i sentimenti che emergono perché ciascuna donna ha bisogno di integrare quell’esperienza nella propria storia di vita, nel complesso bagaglio di esperienze che la definiscono. I tempi e i modi per elaborare questa esperienza sono assolutamente diversi, per quanto diverse sono le donne che la vivono, tuttavia un percorso di psicoterapia può favorire questa elaborazione.

Il senso di colpa è un’emozione che viene spesso riferita in seguito all’aborto. Questa emozione può nascere dal non sopportare la responsabilità di una scelta così importante perché ci si sente egoiste, oppure si può provare una profonda tristezza per non essersi date una chance. Il senso di responsabilità relativo alla propria scelta è una variabile in gioco molto importante su cui lavorare per integrare quel pezzetto nella propria storia. Se in quello specifico momento di vita la donna sceglie di interrompere la gravidanza ci saranno stati dei motivi che l’hanno portata a fare quella scelta. In terapia si lavora proprio sul riconoscere, in modo non giudicante, quali sono stati i sentimenti ed i pensieri che hanno contraddistinto quella fase della vita per comprendere il senso della scelta fatta.

Può accadere che dopo l’ interruzione volontaria di gravidanza la donna riconosca che la paura di non sentirsi adeguate al ruolo di madre abbia portato a credere di non aver altra possibilità se non quella di abortire e che, in seguito all’ interruzione volontaria di gravidanza, percepisca come meno catastrofica la possibilità di diventare madre. Questa sensazione può essere molto destabilizzante perché non è possibile tornare a quel momento in cui tutte le strade sono aperte. Tuttavia, riconoscere in un momento successivo, meno attivato dall’ansia, che sarebbe stato possibile prefigurarsi una maternità non modifica l’assunto di base: non esistono scelte giuste in assoluto, ma scelte che si fanno in un momento particolare della propria vita, dettate da quelle che sono le esigenze e le circostanze che definiscono quello specifico momento (Pattis Zoja E., 2013). Se la stessa gravidanza si fosse presentata in un altro periodo, con un altro partner, ecc non possiamo dire con assoluta certezza che la donna avrebbe abortito o, viceversa, portato a termine la gravidanza. Pertanto sarà indispensabile accettare che la decisione presa è stata quella più giusta, quella più accettabile, o la cosa migliore che è riuscita a fare in quello specifico momento.

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