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Fratelli coltelli: le storie di odio tra fratelli

Rapporto tra fratelli: Conoscersi non genera automaticamente compatibilità di abitudini e di caratteri. Conoscendosi meglio si possono avere brutte sorprese, il cosiddetto Altro con la maiuscola in cui scoprire la nostra stessa umanità può rivelarsi troppo umano, troppo simile a noi e quindi immensamente insopportabile. Finiamo sempre per incontrare noi stessi, e non sempre è una bella scoperta. 

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 28/05/2016

Fratelli coltelli: quando manca la compatibilità di abitudini e caratteri

Riflettere sull’odio tra fratelli, sui fratelli coltelli, offre il fianco al facile cinismo di chi la sa lunga, di chi “gnaffe, a me non la si fa!” e prosegue dicendo che la natura umana rimane quella là e sempre là si va a finire, ai coltelli nonostante si sia fratelli. Il machiavellismo degli stenterelli. Bene quindi predicare le virtù della vicinanza, del conoscersi reciproco che porta al reciproco rispetto o almeno a sopportarsi. Però è anche vero che gli uomini, se del male si affliggono, poi del bene si stuccano, e troppo zucchero rovina il palato. Non è solo questione di gusti, ma anche di capire quali sono le condizioni del convivere civile e del civile sopportarsi. Troppa conoscenza reciproca non sempre crea comprensione, e la storia di fratelli coltelli sta lì a dimostrarlo. L’eccesso d’intimità crea invischiamento – come dicono gli psicologi dei sistemi da Bateson in poi- e l’invischiamento crea schiavitù, perdita di autonomia.

Conoscersi non genera automaticamente compatibilità di abitudini e di caratteri. Conoscendosi meglio si possono avere brutte sorprese, il cosiddetto Altro con la maiuscola in cui scoprire la nostra stessa umanità può rivelarsi troppo umano, troppo simile a noi e quindi immensamente insopportabile. Finiamo sempre per incontrare noi stessi, e non sempre è una bella scoperta.
Non si tratta solo di sopportarsi tra fratelli, e in questo la psicologia delle interazioni familiari ci rende perfino troppo consapevoli dei rischi dell’eccesso di vicinanza e comprensione. E non si tratta solo di sopportarsi tra culture imparentate, più o meno sorelle o cugine, come accade tra musulmani, europei più o meno laici e/o più o meno cristiani ed infine ebrei.

Peggio. Si tratta di sopportare il nostro fratello peggiore, l’onnipresente colui da noi inseparabile che per sempre ci infastidisce: noi stessi e i nostri stessi pensieri. Con i quali è penoso convivere. E anche in questo caso, paradossalmente, dobbiamo imparare non solo a incrementare la conoscenza, ma anche a saperla economizzare, a diminuirla perfino. Conosci te stesso, diceva il dio delfico in Grecia, ma non trasformare questa conoscenza in un rimuginio auto-analitico sterile e opprimente, aggiungono i nuovi dei pragmatici della terra d’Albione.

 

Le storie dei fratelli Romolo e Remo e Caino e Abele

Toniamo ai fratelli. Una duplice storia di fratelli assassini è alla base di due tradizioni storiche che –così si dice- ci sono abbastanza imparentate, anche se non dobbiamo mai esagerare con le origini storiche. La storia può essere un incubo che ci schiavizza e dal quale occorre svegliarsi. Abbiamo fatto un’abbuffata di miti e storie una decina e più di anni fa, al tempo delle guerre del golfo, e ci è bastata. Oggi, però, concediamoci un diversivo. Chi è questa doppia coppia di fratelli assassini che giace alle nostre origini? Sono loro, Romolo e Remo e Caino e Abele. È strano come talvolta si trascuri l’ambigua somiglianza tra queste due coppie di fratelli. Forse è un bene non farci troppo caso, seguendo la logica del non conoscersi troppo e di svegliarsi dall’incubo della storia di cui scrivevamo poco fa. E, ancora una volta, somiglianza e conoscenza non significano amichevole convivenza, come tristemente dimostra la lunga storia degli ebrei tra noi.

Riflettiamo però, psicologicamente e mitologicamente e brevemente, su queste due coppie. Le somiglianze si confondono con le differenze, e viceversa. Romolo uccide Remo e poi fonda Roma, la città del Diritto e della Legge. Caino uccide Abele ed è bandito. Vi è una differenza? Certo, ma leggiamo meglio il racconto biblico. Caino è bandito, ma è anche protetto da Dio che lo dichiara inviolabile. Non basta. “Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio”. Costruttore di città? Come Romolo! Emerge una somiglianza insospettata col fondatore di Roma. E Romolo, a sua volta, non è un bandito a capo di una banda di dropouts, come erano i primi Romani? E ancora, Caino generò discendenti, i quali furono Iabal “padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame” (un pastore, come pastore era Romolo), Iubal “padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”, mentre il fratellastro Tubalkàin fu “fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro”. Insomma, Caino fu un eroe civilizzatore e iniziatore delle arti meccaniche e delle arti liberali, della cultura tecnologica e di quella umanistica, tipica delle città.

È un racconto triste e ambiguo quello biblico da leggersi all’imbrunire, in cui si suggerisce che il male è assassino ma crea le arti e la civiltà mentre il bene perisce sterile e dimenticato dagli uomini. Abele non ha discendenza. Meglio il racconto romano? Il mito romano è altrettanto disincantato, Romolo il fondatore uccide Remo che aveva osato varcare i confini che Romolo stava tracciando, i confini di Roma. Questi rudi Romani non imbellettavano le loro origini. Entrambi i racconti ci dicono una tremenda storia: all’origine di una convivenza civile e complessa vi è un fratricidio. E due storie che voglio essere all’inizio di due tradizioni apparentemente così estranee, giudaismo e romanesimo, raccontano la stessa storia. Sono due storie sorelle. Fermiamoci qui, sulla soglia dello spazio sacro. È bene intravedere il bagliore del coltello sacrificale, ma è meglio non sapere troppo.

Guarire d’amore. Storie di psicoterapia (2015) – Recensione

Guarire d’amore è un libro scritto da Irvin Yalom, classe 1931, psichiatra e psicoterapeuta a orientamento esistenzialista. Yalom ha aprofondito diversi temi nel corso della sua professione, a partire dalla terapia di gruppo (su cui ha scritto un bellissimo volume teorico nel 1970), per arrivare alle problematiche che lui definisce esistenziali (morte, senso della vita, isolamento e libertà).

 

Ho deciso di leggere questo libro a partire dal titolo e dal mio interesse per la dipendenza affettiva, convinta che trattasse di psicoterapie che avessero a che fare, appunto, con difficoltà relazionali. Che detta così, si potrebbe anche controbattere che tutte le psicoterapie hanno a che fare in qualche modo con difficoltà relazionali. E infatti. Comunque, per chi avesse interpretato il titolo nella mia stessa direzione, va premesso che: niente terapie di coppia, niente filo conduttore che avesse a che vedere con una diagnosi o un funzionamento comune.

Ma partiamo dall’inizio. Guarire d’amore è un libro scritto da Irvin Yalom, classe 1931, psichiatra e psicoterapeuta a orientamento esistenzialista. Yalom ha aprofondito diversi temi nel corso della sua professione, a partire dalla terapia di gruppo (su cui ha scritto un bellissimo volume teorico nel 1970), per arrivare alle problematiche che lui definisce esistenziali (morte, senso della vita, isolamento e libertà) e di cui ha scritto in un volume che ad oggi non è stato tradotto in italiano e nella sua versione originale del 1980 prende il nome di Existential Psychotherapy.

 

Guarire d’amore: uno dei romanzi di Yalom

Guarire d’amore si inserisce invece in un altro filone, quello dei romanzi o comunque delle testimonianze romanzate di psicoterapia, che Yalom ha coltivato a partire da Le lacrime di Nietzsche (1992), fino a Il problema Spinoza (2012), collocandosi in una posizione strana della linea temporale, visto che la prima versione è stata stesa nel 1989. Yalom ai tempi aveva 57 anni e affiancava l’attività clinica all’attività di ricerca, con un focus privilegiato sul tema del lutto complicato.

(Su State of Mind abbiamo anche recensito “Sul lettino di Freud“, 2015 di Irvin Yalom, Ndr)

Guarire d’amore si configura come una raccolta di 10 psicoterapie, raccontate dall’autore dal proprio personale punto di vista, cariche tuttavia di dettagli sull’inquadramento iniziale, sull’andamento delle sedute, sulla relazione terapeutica e sul dipanarsi delle problematiche specifiche.

 

La storia di Thelma

Apre le danze la storia di Thelma: settant’anni, un bel caratterino, arriva in terapia con sintomi depressivi cronicizzati che l’hanno portata a spasso per studi psichiatrici negli ultimi 20 anni e l’hanno fatta approdare allo studio di Yalom a seguito della rottura con il suo precedente terapeuta. Rottura non solo professionale, perché viene fuori che Thelma e Matthew (giovane e affascinante psicologo conosciuto 11 anni prima) avevano spinto troppo sulla confidenzialità, per arrivare ad avere una brevissima storia di 27 giorni fatta di innamoramento, passione, notti in bianco e stomaco chiuso. Il problema non è tanto quello (già di per sé spiazzante) della rottura del setting, quanto il fatto che Thelma si dica bloccata in uno stato di attesa e rêverie da 8 anni, con brevi intervalli fatti da tentativi disperati di recuperare l’attenzione di Matthew anche attraverso gesti suicidari o parasuicidari: sono 8 anni che aspetta una spiegazione a seguito della brusca rottura voluta da Matthew, sono 8 anni che si immagina le sue scuse e il suo tentativo di ricongiungimento.

Ora, va da sè che come prima cosa quello che viene più facile sentire è una profonda rabbia per Matthew, un collega che in modo iatrogeno ha rotto ogni tipo di regola relazionale relativa alla psicoterapia: viene molto facile identificare Thelma con il ruolo di vittima e Matthew con il ruolo di carnefice, alleandosi con la prima e cercando in tutti i modi di farla passare oltre questa sua sensazione, secondo cui “la mia vita è stata vissuta otto anni fa”.

A partire da questa dinamica quasi automatica, è interessante per Yalom scoprire come Thelma rimanga aggrappata a quella visione della sua esistenza attuale, un arto fantasma rimasto a penzoloni dopo che la grande epica è stata vissuta, in attesa solo di chiudere questa partita durata fin troppo. Dal senso di protezione per Thelma, si passa velocemente a un senso di disfatta, una specie di contagio emotivo che porta anche il terapeuta a pensare che in effetti il sintomo attuale non sia il peggiore dei mali, una sorta di rinuncia che suona come “se sei tanto affezionata a questa depressione, tienitela”.

In un modo molto affascinante (bisogna ammetterlo), Yalom rompe a sua volta i protocolli, senza mai uscire dai limiti della deontologia professionale, trovando modo di scuotere l’apatia della paziente e tirare fuori dall’armadio i fantasmi veri, che purtroppo o per fortuna con Matthew hanno ben poco a che fare e che ci aiutano finalmente a rispondere alla domanda che spesso ci troviamo di fronte quando abbiamo a che fare con pazienti così tanto cronicizzati, e che ha a che fare con i benefici secondari del sintomo: [blockquote style=”1″]stai malissimo, ma esattamente perché preferisci stare così piuttosto che provare a cambiare qualcosa? Cosa stai tenendo lontano, che senti come ancora peggiore di così?[/blockquote] Ovviamente, niente spoiling, andate a pagina 98.

 

La storia di Carlos

Lasciamo l’idealizzazione della cara Thelma per passare a Carlos, che da anni combatte contro un linfoma e gestisce la paura della morte con l’attivazione di una sorta di iper-sessualità compulsiva. Semina il panico durante una seduta di gruppo, dichiarando che vorrebbe che lo stupro fosse legale per sentirsi libero di procedere con diverse delle componenti del gruppo stesso. Con Carlos, Yalom ci mostra bene la difficoltà a integrare terapie con setting diversi (individuale e di gruppo) e a gestire pazienti in équipe (ovviamente, dopo questa affermazione, la giovane psicologa in training che conduceva il gruppo vorrebbe serenamente fare fuori Carlos e non lasciarne neanche un pezzettino). Anche in questo caso, è interessante seguire la terapia e vedere come i punti di aggancio per il cambiamento possano essere davvero singolari e al di là di ogni aspettativa.

 

La storia di Penny

Nella terza ricostruzione, l’autore ci presenta Penny, 38 anni, divorziata, due figli in vita e una bambina mancata quattro anni prima a seguito di una grave malattia. Taxista, lavora 60 ore alla settimana per pagare il mutuo e mantenere i due ragazzi dopo che il terribile lutto ha distrutto la famiglia e ha portato i coniugi verso strade troppo distanti per poter restare sotto lo stesso tetto. Quella che segue è una bellissima terapia sulla colpa, sul lutto, sull’evitare di rimanere aggrappati a una cosa che non c’è più a discapito di quello che c’è ancora, sulla possibilità di lasciare andare. Lasciare andare una bambina, una figlia, e tutte le idee di sé come madre e i progetti che quella figlia porta via con sé. Qui Yalom affronta il tema del lutto prendendolo subito dalla sua angolazione più difficile, perché come lui stesso scrive [blockquote style=”1″]Perdere un genitore o un amico di lunga data spesso equivale a perdere il proprio passato […] Invece, perdere un figlio equivale a perdere il futuro: ciò che si è perduto è nientemeno che il proprio progetto di vita – la cosa per cui si viveva, la cosa che ci faceva proiettare nel futuro e sperare di trascendere la morte.[/blockquote]

 

La storia di Betty

Arriviamo alla storia che a mio avviso è insieme la più interessante e la più complicata da leggere. Perché ti viene da chiudere il libro a colpi di politicamente scorretto. La protagonista è Betty, grave obesa, anche se in realtà il protagonista è Yalom, con tutte le sue difficoltà a empatizzare con persone in sovrappeso. Il terapeuta ci racconta da dove arriva questa disaffezione, che può anche avere un senso, ma allo stesso modo sembra spietato nel raccontarci il controtransfert con tanta spietatezza. Tante volte mi è venuto da pensare “vabbé, ma non c’è bisogno che scrivi proprio tutto il disgusto che provi verso i chili in più della povera Betty”. Invece, ancora una volta, tutta questa self-disclosure verso il lettore è davvero un atto di grande coraggio, che porterà lo Yalom ottantenne a vergognarsi, ma che aiuta molto a parer mio i terapeuti meno esperti, con questa loro (nostra) convinzione che volere un po’ di bene, o almeno non essere disgustato dal paziente sia essenziale per la terapia. Yalom riesce infatti a trovare altri canali per sentire la vicinanza con Betty, canali che possono presentarsi solo se con estrema sincerità sa dire a se stesso che il canale “a pelle” questa volta non è percorribile. Spietato, ma onesto.

Ripensandoci, forse, il protagonista non solo non è il paziente, ma non è neanche il terapeuta. Il protagonista è il controtransfert. Yalom stesso apre il capitolo parlando di disciplina interiore in un modo davvero molto azzeccato: [blockquote style=”1″]I grandi tennisti si allenano cinque ore al giorno per superare i punti deboli del loro gioco, i maestri zen non si stancano mai di ricercare la quiete perfetta della mente, e la ballerina l’equilibrio perfetto del corpo, mentre il prete non cessa mai di esaminare la propria coscienza. In ogni professione, insomma, esiste un campo di sviluppo possibile, all’interno del quale ogni professionista può ricercare la perfezione. Nel gergo dello psicoterapeuta, questo campo – questo interminabile viaggio verso il proprio perfezionamento, mai raggiunto una volta per tutte – si chiama controtransfert.[/blockquote] Il punto di contatto che Yalom identifica e che risulta utile per l’aggancio di Betty (o forse, per l’aggancio di Yalom a Betty) è la sua paura dell’abbandono, che la porta a non legarsi a nulla per evitare di essere lasciata sola. Citando Otto Rank nelle parole di Yalom, è come “rifiutare il prestito della vita per non dover pagare il debito della morte”.

Altre storie

Lasciata Betty, passiamo al momento in cui Elva, anziana vedova, elabora la morte del marito avvenuta anni prima a partire dallo scippo della borsetta. E questo va letto per intero.

Segue Dave: sessantanove anni, tratti narcisistici (ma questo non è scritto), tendenza a intraprendere e coltivare relazioni extraconiugali, legato in modo morboso a una fitta corrispondenza che si era scambiato anni prima con una giovane amante. Anche in questo caso, Yalom non perde occasione per condividere buone prassi e riflessioni sulla pratica psicoterapeutica maturate nel corso degli anni, che sembrano valide in modo trasversale agli orientamenti teorici, come il fatto di “mai togliere qualcosa se non si ha niente di meglio da offrire al suo posto”.

Con Marie, facciamo un’esplorazione sull’attribuzione di significato e su come diversi substrati possano influenzare il senso che diamo allo stesso identico gesto. È il racconto di una terapia difficile e di un momento di co-terapia, in cui Yalom si avvale del supporto di un collega ipnotista. È un bellissimo viaggio in cui i tre protagonisti (i due colleghi e la paziente) raccontano la propria esperienza soggettiva del primo incontro, e in cui vediamo come l’idea che ci facciamo dell’altro sia spesso figlia dell’aspettativa che ci eravamo creati ancora prima dell’incontro vero e proprio. Citando Nietzsche, [blockquote style=”1″]si sa già tutto di una persona la prima volta che la si vede, e i successivi incontri non sono altro che un progressivo accecarsi rispetto a ciò che dentro di noi sappiamo.[/blockquote]

L’ottavo personaggio tocca ancora una volta il tema della depressione e dell’anzianità. Forse una delle cose più interessanti del libro è la scelta dei personaggi: sarebbe stato più facile coinvolgere il pubblico con stereotipi più ammiccanti rispetto agli anziani signori alle prese con il senso della vita che se ne va? Forse in potenza sì, ma va detto che questa scelta difficile rende ancora più giustizia alle capacità umane e narrative dell’autore, che davvero ti lascia a ogni capitolo con la sensazione di essere stato un’ora di fianco a lui in seduta.

Dicevamo che l’ottavo personaggio è Saul, neurobiologo in pensione che come un bambino resta paralizzato davanti alla possibilità che un suo collaboratore non lo apprezzi, ed è pronto a mettere in subbuglio la sua intera esistenza per evitarlo. Forse la parola chiave del capitolo è proprio “evitare”, partendo dal titolo: “Tre lettere non aperte”. Evitare perché prendere atto di una possibile delusione non è accettabile e non lascerebbe niente per cui sopravvivere: tanto vale procrastinare. Bellissima qui la caparbia con cui Yalom prosegue la terapia, anche quando Saul inventa una malattia che lo tiene immobilizzato a casa, e non lascia che il paziente eviti anche il progetto terapeutico stipulato insieme.

Arriva il momento di Marge, giovane e bella paziente con un disturbo borderline ed episodi dissociativi: anche in questo caso, più che l’inquadramento diagnostico quello che traspare è l’importanza della relazione e il legame che il terapeuta instaura con le diverse parti che dialogano con lui in seduta, finalizzato all’integrazione e alla restituzione della capacità di prendersi cura di sé alla paziente stessa. Anche qui, chapeau alla capacità di Yalom di tirare giù le carte con il lettore, mostrando tutta la sua fallacia di uomo prima ancora che di professionista. E anche qui, per i dettagli si rimanda al libro.

Chiudiamo le danze con Marvin, ometto a prima vista convenzionale e poco interessante, che Yalom percepisce da subito come non adatto alla terapia individuale e direziona verso una terapia comportamentale di coppia con la moglie, per affrontare unicamente la disfunzione sessuale. In questo caso è interessante il tema dell’anestesia emotiva, che Yalom anche a seguito della sua formazione esplora attraverso l’indagine sui sogni, ma che ad ogni modo emerge con prepotenza nell’importante scissione tra le parole del paziente e i suoi timori, tra i suoi comportamenti e le cause delle sue difficoltà.

 

Conclusioni

Complessivamente, cosa si può dire di questo libro? Che, sicuramente con tutte le modifiche del caso, peraltro dichiarate apertamente dall’autore anche al fine di celare l’identità dei pazienti reali, fornisce davvero una possibilità unica: vedere una intera terapia (anzi, dieci) di fianco a Yalom, sentire quello che lui sente, stare negli interventi con lui, sbagliare al suo fianco. L’estrema onestà (che a tratti può suonare brutale) con cui Yalom riferisce il proprio vissuto e la sua completa disponibilità a condividere emozioni e sensazioni, tanto benevole quanto negative, butta giù il muro della vergogna. Tante volte soprattutto chi è alle prime armi pensa che certe cose non si dovrebbero sentire nei confronti di un paziente, che essere infastiditi da qualcuno che ti sta chiedendo un aiuto anche solo a partire dal suo aspetto non sia una cosa conciliabile con la terapia. Ecco, Yalom ci mostra come, prima ancora della disciplina interiore, sia necessaria un’onestà con se stessi, l’accettazione che ci permette di sentire come ogni reazione sia legittima, e anzi utile da interpellare per comprendere meglio come utilizzarla al fine della buona riuscita della terapia.

È molto tenera la postfazione scritta da Yalom, venticinque anni dopo la stesura del libro, in cui dice che vorrebbe poter essere il supervisore di se stesso cinquantenne, per poter ridimensionare la propria sfrontatezza in terapia. Potersi mettere una mano sulla spalla e dirsi “ok, stai esagerando”. Altro aspetto senza dubbio interessante e ricco di spunti sono le premesse sulla relazione terapeutica, su cui si basano tutte le terapie: diverse volte l’autore sottolinea come la sua idea di terapia sia qualcosa che porta il paziente a diventare genitore di se stesso: [blockquote style=”1″]Come terapeuta, il mio compito è invece quello di lavorare al superamento del mio ruolo, ovvero di fare in modo che il paziente assuma la funzione di padre e di madre di se stesso.[/blockquote]

Del resto, citando sempre il Prologo, [blockquote style=”1″]Tale contatto, che è poi il vero e proprio nocciolo della terapia, è una forma di incontro profondamente umano e delicato tra due persone, una delle quali (in genere, ma non sempre, il paziente) ha più problemi dell’altra.[/blockquote]

Infine, partendo da un approccio fondamentalmente diverso da quello esistenzialista (sono una di quelle terapeute cognitivo-comportamentali a cui Yalom avrebbe voluto inviare Marvin, non pronto secondo lui a una terapia vera e propria), se andiamo oltre l’interpretazione dei sogni, ho trovato parecchi punti di contatto tra i principi regolatori presenti nelle terapie raccontate e quelli che mi porto dietro nella mia esperienza. Primo fra tutti, citando Thomas Hardy, la consapevolezza che [blockquote style=”1″]se una via verso il meglio esiste, è quella che esige una conoscenza profonda del peggio.[/blockquote]

La pentola d’oro interiore: la relazione con i genitori nello sviluppo della personalità del bambino

Vari sono i contribuiti allo studio del ruolo dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino: tra i più rilevanti vi è la teoria dell’attaccamento di Bowlby e la parafrasi di tale teoria, attraverso il concetto di pentola d’oro interiore, ad opera di Baron-Cohen. Non mancherà il riferimento al pioniere delle neuroscienze relazionali, Daniel J. Siegel.

 

Vari sono i contribuiti allo studio del ruolo dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino: tra i più rilevanti vi è la teoria dell’attaccamento di Bowlby. Nell’articolo, oltre a Baron-Cohen, il quale ha offerto una parafrasi della teoria dell’attaccamento di Bowlby attraverso il concetto di pentola d’oro interiore, non mancherà il riferimento al pioniere delle neuroscienze relazionali, Daniel J. Siegel, il cui pensiero principale è che «il cervello del bambino utilizza gli stati della mente del genitore […] per cercare di organizzare le sue attività» (Siegel, 2001). I suoi studi rappresentano un ulteriore conferma dell’importanza delle relazioni (in questo caso genitori-figli), nello sviluppo della personalità ma soprattutto dell’identità personale di ogni individuo. Il fine è quello di comprendere quali esperienze interpersonali favoriscano il benessere emotivo e la resilienza psicologica di ognuno.

 

La mente relazionale e il suo ruolo nello sviluppo della personalità

Le relazioni sono ritenute importanti per la costruzione dell’identità individuale. La nostra mente è definita dal citato Siegel, come «il prodotto delle interazioni fra esperienze interpersonali e strutture e funzioni del cervello» (Siegel, 2001). Fornire una ‘visione scientifica’ delle basi interpersonali e neurobiologiche dello sviluppo della mente può:

aiutare i clinici a curare i loro pazienti, mentre per educatori e insegnanti può essere importante comprendere come emozioni e relazioni interpersonali costituiscano aspetti motivazionali fondamentali dell’apprendimento e della memoria […] questi processi interpersonali plasmano lo sviluppo della mente durante l’intero corso della nostra esistenza […]: le interazioni con l’ambiente, e in particolare i rapporti con gli altri, esercitano un’influenza diretta sullo sviluppo delle strutture e delle funzioni celebrali (Siegel, 2001).

I rapporti interpersonali sono dunque importanti per integrare le rappresentazioni delle varie esperienze; in particolar modo le relazioni durante il periodo critico «possono avere un ruolo fondamentale nel plasmare le strutture di base che ci permettono di avere una visione coerente del mondo […]», pertanto, il rapporto genitori-figli, ha ripercussioni sul modo di vedere il mondo e di porsi in relazione con esso (Siegel, 2001).

Considerando che la mente è una mente relazionale, si comprende come:

le nostre esperienze possono […] influenzare […] le connessioni neuronali e l’organizzazione delle attività del nostro cervello, e in questo senso svolgono un ruolo particolarmente importante quelle che si verificano durante i primi anni di vita […] (Siegel, 2001).

È sulla base di questa ‘neurobiologia interpersonale della mente’ che si può affermare che le esperienze che il bambino si trova a vivere durante i primi anni di vita, gli permettono di «sviluppare la capacità di regalare le emozioni, di mettersi in rapporto con gli altri […] e di affrontare il mondo in maniera positiva» (Siegel, 2001), con resilienza (in psicologia, resilienza è la capacità di un individuo di superare un evento traumatico), grazie alla pentola d’oro interiore che gli viene fornita nei primi anni di vita.

Questo avviene grazie alla capacità dell’essere umano di registrare, attraverso varie forme di memoria, tutte le esperienze interpersonali, che comunque esercitano un peso per tutto il corso della nostra vita (Siegel, 2001).

 

 

La teoria dell’attaccamento: caratteri generali

John Bowlby, psicoanalista inglese, negli anni ’80 elabora la teoria dell’attaccamento per spiegare il legame tra madre-figlio: sostiene che il bambino ha una tendenza naturale a sviluppare un legame con la madre a prescindere dal soddisfacimento della fame da parte della stessa (al contrario di Freud). Per Bowlby, infatti, affinché si formi un legame madre-bambino, sono necessari quei segnali sociali che inducono il bambino stesso a ricercare protezione.

Vari studi hanno inoltre dimostrato che «il legame con la madre è il prototipo di altri legami affettivi che l’individuo formerà nel corso della sua vita […] che derivano dal sistema di attaccamento» (Enciclopedia online, Treccani). Secondo Bowlby, nel corso della filogenesi, si sono costituiti vari sistemi motivazionali innati, che regolano le reazioni a varie situazioni (Meini, 2012). La selezione naturale avrebbe poi favorito lo sviluppo di due sistemi complementari tra loro: attaccamento, che ci induce a cercare protezione presso chi riteniamo più forte di noi e accudimento, l’azione corrispondente nell’adulto che vede il figlio ricercare protezione.

Per natura e in modo istintivo, il genitore è spinto a rispondere alle richieste del figlio vulnerabile (Meini, 2012). I genitori hanno così la capacità di ridurre l’impatto che delle sensazioni spiacevoli (paura, ansia) hanno sul bambino; in questo modo, le esperienze ripetitive sono registrate nella memoria implicita, generando dei ‘modelli mentali di attaccamento’ che sviluppano la base sicura per affrontare il mondo (Siegel, 2001).

Si comprende che le relazioni istaurate «hanno effetti specifici sull’organizzazione dei comportamenti e delle funzioni celebrali del bambino» (Siegel, 2001). Questi rapporti di attaccamento aiutano il bambino a organizzare le proprie esperienze e inoltre «hanno effetti diretti sulla maturazione delle attività celebrali che mediano processi mentali fondamentali: memoria, narrativa autobiografica, emozioni, rappresentazioni e stati della mente» (Siegel, 2001). In età adulta questi comportamenti di attaccamento vengono conservati per l’intera esistenza, in particolar modo quando ci si trova a vivere periodi difficili, e delineano lo sviluppo della personalità.

La figura di attaccamento, permette al bambino di creare dei modelli mentali attraverso cui il cervello «impara dal passato e influenza direttamente i comportamenti futuri» (Siegel, 2001) e tali modelli portano allo sviluppo della citata base sicura.

 

 

Strange situation e Adult Attachment Interview

Per studiare le relazioni di attaccamento, ci si basa sull’analisi dei modelli mentali riferiti proprio a queste relazioni, sia nei bambini sia negli adulti, infatti, i modelli mentali dei genitori influenzano l’atteggiamento adottato nei confronti dei loro figli (Siegel, 2001), definiti da Mary Main come ‘stato della mente rispetto all’attaccamento‘ (Main, 1995).

The Strange Situation. -SLIDER- Di Davide Osenda © State of Mind 2016 www.stateofmind.itPer determinare lo stile di attaccamento che caratterizza una specifica coppia adulto-bambino è stato creato un contesto di osservazione: la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978), che viene proposta a bambini tra i dodici e i diciotto mesi. Tale contesto vede un genitore che accompagna un bambino in un locale confortevole in cui sono presenti vari giocattoli. Il genitore e il bambino sono poi raggiunti da una persona sconosciuta che invita il bambino a giocare con lui. Il genitore in un primo momento rimane lì a giocare con loro, poi abbandona la stanza lasciando il figlio a giocare con l’altra persona. Dopo circa tre minuti torna, mostrando un atteggiamento affettuoso nei confronti del figlio. «La sequenza abbandono-ricongiungimento si ripete in un contesto più radicale, con il bambino lasciato solo nella stanza» (Meini, 2012). Il tutto viene filmato così che poi si possano analizzare i comportamenti della coppia al momento della separazione (reazione del bimbo quando il genitore se ne va) e reazione al relativo ricongiungimento.

Mary Main, al fine di comprendere quali fattori influenzassero i comportamenti dei genitori nei confronti del proprio figlio, introdusse nel campo di ricerca sull’attaccamento, degli aspetti che non riguardassero esclusivamente lo studio dei comportamenti dei bambini, ma anche l’analisi delle rappresentazioni mentali degli adulti attraverso la Adult Attachment Interview (AAI). Il modus operandi di quest’ultima, consiste nel chiedere ai genitori esaminati di raccontare le proprie esperienze infantili, utilizzando «un tipo di intervista semistrutturata» (Siegel, 2001) per individuare le modalità con cui il genitore narra la sua storia dei primi anni di vita, correlando poi questa, alla classificazione dei comportamenti del figlio registrati durante la Strange Situation. Ciò che emerge da queste ricerche è che sussistono correlazioni con il tipo di rapporto che l’adulto a sua volta instaura con il figlio.

Tendenzialmente, ad esempio, bambini che manifestano un attaccamento sicuro «tendono ad avere genitori che presentano, in base all’Adult Attachment Interview, uno stato della mente rispetto all’attaccamento classificato come ‘sicuro/autonomo’», quindi durante l’intervista, il genitore è in grado di valutare in modo equilibrato sia aspetti positivi sia negativi della propria infanzia, e riflettere sui propri ricordi tranquillamente (Siegel, 2001).

La differenza tra questo e la Strange Situation, è che l’Adult Attachment Interview, «valuta lo stato della mente dell’individuo relativo all’attaccamento in generale, e non rispetto alla relazione specifica con ciascuno dei genitori» (Siegel, 2001).

Tutti questi dati confermano quanto sono importanti per lo sviluppo della personalità le relazioni interpersonali e in particolare quelle nei primi anni di vita, in quanto «pongono le basi fondamentali delle nostre successive interazioni con il mondo […]» (Siegel, 2001).

 

 

Quattro stili di attaccamento

La classificazione dei vari stili di attaccamento dipende, sia dalle istanze che il genitore ha fornito al proprio figlio, nelle prime settimane di vita, sia alle caratteristiche individuali del bambino stesso, questo per ribadire l’importanza di non cadere in determinismi quando si parla di sviluppo della personalità, secondo cui ad un attaccamento insicuro derivi necessariamente lo sviluppo di disturbi mentali, piuttosto esso aumenta il rischio di disfunzioni psicologiche e sociali (Siegel, 2001).

Per dare un quadro generico, ma esaustivo si specifica che il bambino può avere diversi stili di attaccamento a seconda dell’adulto con cui si trova (Meini, 2012).

  1. Attaccamento evitante, di tipo A: in questo tipo di attaccamento il bambino non si oppone alla partenza del genitore, difatti continua a giocare con l’adulto con cui è stato lasciato. Al ritorno del genitore, il figlio lo accoglie con un certo distacco, evitandone ogni contatto fisico. Ainsworth e i suoi collaboratori hanno osservato che nel corso del primo anno di vita di questi bambini, i genitori (definiti dall’Adult Attachment Interview come ‘distanzianti’) adottarono nei loro confronti dei comportamenti di trascuratezza, non rispondendo in maniera adeguata ai loro bisogni (Siegel, 2001). Il bambino si difende dalla scarsa protezione elaborando varie strategie di difesa, che in futuro creeranno delle narrazioni idealizzanti della propria relazione con la figura di attaccamento, valorizzandone la capacità di insegnargli l’autonomia e mettendo da parte l’aspetto anaffettivo (Meini, 2012).
  2. Attaccamento sicuro, di tipo B: qui il bambino quando è separato dal genitore protesta o è triste, ma si calma non appena vede il genitore tornare, ricambiandone le dimostrazioni di affetto. Questa è una modalità ideale di attaccamento (Meini, 2012). In questo caso il genitore è attento ai bisogni del bambino, ha piacere di averlo con sé, ma al contempo gli concede la giusta autonomia per esplorare il mondo sentendosi protetto, motivo che spinge il bambino alla tristezza, se separato dal genitore, ma a trovare conforto al suo ritorno.
  3. Attaccamento resistente-ambivalente, di tipo C: qui nella Strange Situation è emerso che il bambino, quando il genitore si allontana, protesta, ma al suo ritorno comunque non trova consolazione, manifestando spesso resistenza al ricongiungimento. È un attaccamento resistente poiché il bambino resiste alle manifestazioni di affetto del genitore, ed è un attaccamento ambivalente perché in realtà ricerca il contatto. Ainsworth e i suoi collaboratori anche in questo caso, osservando il primo anno di vita del bambino, hanno riscontrato che i genitori erano sì disponibili, ma in maniera discontinua e incoerente; la conseguenza è che il bambino rimane confuso e non riesce a prevedere se le sue esigenze vengano capite dal genitore (Siegel, 2001). Dall’Adult Attachment Interview questi adulti sono classificati come ‘preoccupati’ e sono caratterizzati da un’intrusione del passato che interferisce significantemente nel modo di rapportarsi al presente.
  4. Attaccamento disorganizzato, di tipo D: è la forma più pericolosa poiché la caratteristica principale di questo attaccamento è la totale assenza di qualsiasi organizzazione coerente (Meini, 2012). In questo caso, alla separazione con l’adulto, il bambino è triste, al suo ritorno non lo guarda nemmeno negli occhi, come se fosse in trance. I bambini caratterizzati da questo attaccamento mancano di una strategia che sia coerente in relazione con il genitore, e questa incoerenza può manifestarsi attraverso momenti di disorganizzazione del comportamento. In questo caso l’adulto a volte riesce a essere accudente, ma spesso rimane intrappolato nei suoi problemi tanto da apparire sofferente, arrivando addirittura a richiedere al figlio di essere accudito (Meini, 2012). In questa categoria rientrano quegli adulti che nell’Adult Attachment Interview manifestano segni di disorganizzazione quando sono spinti a parlare di esperienze traumatiche (Siegel, 2001); «cercare di aiutare questi genitori a riconoscere e ad affrontare la presenza di esperienze traumatiche non risolte diventa quindi cruciale non solo per loro, ma anche per le generazioni future» (Siegel, 2001).

Concludendo la descrizioni degli stili di attaccamento, si ricorda come lo sviluppo, e con esso lo sviluppo della personalità, sia un processo che dura tutta la vita, per questa ragione si può sempre cambiare, nonostante esperienze precoci non ottimali; in tal senso è importante stabilire delle relazioni che promuovano il superamento, ad esempio, di uno stato insicuro rispetto all’attaccamento.

 

 

Marcatura espressiva e sviluppo della personalità

Attraverso l’analisi dei vari stili di attaccamento è stata delineata l’importanza del ruolo dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino, affinché cresca protetto da disfunzioni dell’identità. La relazione genitori-figli è la prima che il bambino ha nella sua vita e il loro ruolo è utile, per la costruzione di un’impalcatura affettiva. A tal proposito si descrive ora in cosa consista la cosiddetta marcatura espressiva da parte dei genitori nei primi anni di vita del bambino. La marcatura è «una modalità di interazione tipica della coppia adulto-bambino, onnipresente in diverse modalità espressive e ludiche» (Meini, 2012), e può essere di vari tipi: pertinente, incongrua, assente.

In altri termini: la marcatura è l’espressione che il genitore offre come risposta a una specifica emozione rappresentata dal figlio. Se ad esempio il figlio è triste, il genitore sarà spinto a imitare il bambino in quell’emozione di tristezza, ma attraverso delle espressioni che saranno ‘marcate’. Il bambino, che per natura sa cogliere gli indici di finzione, comprenderà che il genitore non è, nel caso scelto come esempio, realmente triste, ma che semplicemente lo sta imitando. Attraverso il riconoscimento della marcatura espressiva, il bambino può arrivare allo sdoppiamento referenziale: capisce cioè, che l’espressione marcata non si riferisce all’emozione della madre e che il sentimento di tristezza appartiene a lui stesso.

 

 

L’importanza della pentola d’oro interiore nello sviluppo della personalità

Lo psicologo britannico Baron-Cohen nel suo saggio ‘La Scienza del Male. L’empatia e le origini della crudeltà’ (2012) riprende la teoria dell’attaccamento di Bowlby per evidenziare come il bambino faccia utilizzo del suo tutore come una base sicura (Baron-Cohen, 2012) da cui partire alla scoperta del mondo con la consapevolezza di poter tornare per un rifornimento affettivo. Dunque: «[…] l’affetto di chi se ne prende cura aiuta il bambino a gestire la propria ansia e a sviluppare la fiducia in se stesso e nella sicurezza del rapporto» (Baron-Cohen, 2012).

Questo studioso offre una parafrasi della teoria sopracitata. Leggendo direttamente le sue parole:

La mia parafrasi della teoria di Bowlby è questa: ciò che dà al bambino chi se ne prende cura in quei primi anni critici è come ‘una pentola d’oro interiore’. L’idea […] è che ciò che un genitore può dare al figlio colmandolo di emozioni positive è un dono più prezioso di qualsiasi cosa materiale […] è qualcosa che il bambino può portare con sé tutta la vita […] è ciò che conferisce all’individuo la forza di affrontare quelle sfide, la capacità di riprendersi dalle avversità, la capacità di mostrare di soffrire e gioire nell’intimo con gli altri e nelle relazioni con gli altri.

Si comprende facilmente come il discorso precedente circa la teoria dell’attaccamento si colleghi alla pentola d’oro interiore: più un genitore promuoverà un attaccamento sicuro e più colma sarà questa pentola d’oro interiore, che in seguito rafforzerà lo sviluppo della personalità e la resilienza del proprio figlio.

L’importanza delle parole e il loro utilizzo in relazione ad eventi storici e a processi sociali

Sono veramente importanti le parole, come pretendeva il protagonista di Palombella Rossa? Per la psicologia l’essere umano è un soggetto culturale prima ancora che un animale sociale. Si può oggi scoprire usando Google che la presenza nel corpus della lingua di parole che esprimono dicotomie nella percezione (armonia/disarmonia) e motivazioni all’azione (dissenso) è in sorprendente relazione con eventi storici e grandi processi economici e sociali.

Marco Spampinato

Introduzione

In una scena del film Palombella Rossa (1989), un funzionario comunista, che recupera a tratti la memoria perduta in un incidente stradale, inveisce contro una giornalista colpevole di avergli attribuito l’espressione “trend negativo”. La sua rabbia sottolinea il legame tra pensiero, linguaggio e soggettività (“Le parole sono importanti. Io non parlo così!”). Veramente è tanto importante ciò che pensiamo, ed è in buona parte riflesso dal come parliamo?

Palombella Rossa (1989) di Nanni Moretti, una scena del film:

 

Negli ultimi anni, i leader politici hanno spesso sostenuto l’importanza dell’ottimismo e l’inglese ha sempre più sostituito l’italiano perfino per riferirsi ad atti legislativi (es: Jobs Act). L’antinomia ottimismo/pessimismo è connessa con altre dualità, incastonate nelle discipline scientifiche, nella cultura popolare e nel discorso pubblico. Gli economisti amano il termine equilibrio: molto di ciò che è negativo è squilibrato, ma è anche predestinato a tornare da solo in equilibrio. Questi termini valgono ad evitarne altri moralmente connotati come “diseguale” o “iniquo”, che generano dissenso suggerendo di agire.

Ancora più sottile è l’uso della parola armonia. Si può rappresentare una società come insieme di relazioni armoniose, evocare l’armonia o la sua antitesi, la disarmonia, nel giudicare una situazione o la condizione umana. Dal senso assunto da queste parole nel linguaggio musicale, deriva il connotato positivo dell’armonia, che si estende ad altri ambiti di significato, così come la negatività della disarmonia. L’affermazione della musica Jazz negli strati popolari, a partire dall’inizio del ‘900, negli Stati Uniti e nell’ex Unione Sovietica (es.: Dmitri Shostakovich), coincise con la volontà degli esclusi di far comparire disarmonie musicali come strumento di manifestazione del dissenso, dando sonorità ad una realtà nascosta dalle armonie ufficiali.

L’utilizzo delle parole armonia, disarmonia e dissenso

E’ possibile che l’analisi scientifica dell’uso delle parole contribuisca a rivelare tendenze della vita collettiva? La risposta è Si, perché le parole sono risorse il cui uso (e non uso) contribuisce alla manifestazione o all’inibizione di motivazioni e di potenziali bisogni. Dagli anni ’20 del secolo scorso, Vygotskij e Luria sostennero attraverso la ricerca sperimentale che tutte le funzioni mentali superiori sono processi mediati dalla cultura, e che il segno (veicolo per lo sviluppo del concetto) è strumento di regolazione e direzione dei processi psichici (Vigotskij, 1978, 2011; Luria, 1930, 1956; Kinsbourne, 2000).

L’evoluzione del cognitivismo e la psicologia culturale hanno centrato l’attenzione sulla modalità narrativa attraverso cui la mente struttura e guida all’esperienza (Bruner, 1886, 1991, 1997, 2004) e sugli schemi concettuali che fanno sì che un testo o un simbolo possano assumere significati e implicazioni diverse all’interno di comunità culturali (Shweder & Sullivan, 1990). Nella trasmissione della cultura, le narrative giocano un ruolo per le loro intrinseche proprietà di trasmettere idee o costrutti culturali (Norenzayan & Atran, 2004) e di motivare verso obiettivi (Laham & Kashima, 2013), anche tra gruppi non necessariamente omogenei linguisticamente.

Un esempio dell’intreccio tra parole che esprimono aspettative, opinioni o sentimenti ed eventi catalogati ex post come fatti storici, può essere offerto dall’analisi della ricorrenza di alcune parole nel corpus della lingua (McKenry & Hardie, 2012), esercizio reso ora possibile gratuitamente da Google. Ad esempio, la parola armonia mostra una ricorrenza crescente nel corpus della lingua inglese fino al 1848 (Fig. 1), anno di rivoluzioni e sommovimenti sociali, per poi ridurre la sua presenza e ricrescere fino alla fine dell’’800, nel periodo caratterizzato dalla guerra civile americana e dal processo di formazione di nuovi stati europei.

Nel ‘900 armonia è parola meno usata. Qualche breve cenno di inversione di tendenza si ha intorno agli anni ‘30 e all’inizio degli anni ‘50. Si potrebbe sostenere che questo andamento derivi dalla maggiore complessità del linguaggio nel ‘900, che riduce l’uso di termini generici, a favore di espressioni più specifiche nei linguaggi tecnici e scientifici. Questa spiegazione non sembra molto credibile: la ricorrenza di disarmonia, sua antitesi concettuale, ha infatti andamento opposto (Fig. 1). Poco utilizzata nell’’800, la parola disarmonia è via via più presente nel corpus nella prima metà del ‘900; il suo uso cresce ancora, meno rapidamente, fino alla metà degli anni ‘70. Dall’inizio degli anni ’80, la disarmonia è meno evocata. Percepire una disarmonia ha connotato negativo. Più interessante è comprendere allora la ricorrenza della parola dissenso, premessa ad un’ azione che può interferire con una situazione di apparente armonia o reagire ad una situazione di disarmonia.

L’uso del termine dissenso cresce fino al 1848 (Fig. 1), quasi a preparare un’intera epoca di forti rivolgimenti politici e sociali; si riduce poi fino agli anni ‘20 del ‘900 quando inizia una contraddittoria altalena, durata venti o trent’anni, che include la seconda guerra mondiale e la ricostruzione. La ricorrenza di dissenso torna a crescere rapidamente negli anni ‘50 e sempre più rapidamente fino all’inizio degli anni ‘70. Dopo una caduta, cresce nuovamente nel decennio 1982-1992. Dal 1992, l’uso del termine torna a ridursi, ma resta sempre più elevato di quanto non fosse negli ottanta anni tra il 1880 e il 1960. In una prospettiva secolare, dissenso entra nel linguaggio con sempre maggiore frequenza, nel mentre armonia segue il destino opposto. Dissenso e disarmonia mostrano una interessante correlazione nel ‘900, solo a tratti diretta e stretta. Dall’inizio degli anni ‘80 del ‘900 dissenso ricorre nel lessico collettivo allo stesso modo che alla metà del secolo precedente. E’ nell’’800 che il dissenso corrisponde ad una domanda di armonia, evocata direttamente e non come mera denuncia della sua antitesi (la disarmonia). La lotta di Faust è per vedere, per percepire la totalità (Childs, 2015). Della percezione Goethe afferma: <<prima la forma come un tutto ci colpisce, poi le sue parti e le loro forme e combinazioni>>; ma la forma stessa è per Goethe transitoria e in sviluppo: tutto il reale è un processo di sviluppo. Conoscere qualcosa significa quindi conoscerne l’intero processo di sviluppo (Blunden, 2010).

Il dibattito internazionale sulle potenzialità e sui limiti del corpus linguistico costruito dal team di Google è già avviato (Michel et al., 2011; Pechenick, Danforth & Dodds, 2016). L’analisi del corpus linguistico può investigare legami non casuali tra cultura, uso del linguaggio e traiettorie dello sviluppo umano. Nell’intorno temporale di eventi come la formazione o la crisi degli Stati e delle democrazie (rivoluzioni, dittature, riforme sociali e dei suffragi elettorali, cambiamenti nei paradigmi scientifici e trasformazioni culturali), le parole, in quanto veicoli di significati che si diffondono con rapidità, possono anticipare e non solo accompagnare o seguire gli accadimenti. Così facendo, una prospettiva diacronica mette in rilievo andamenti contraddittori di concetti e schemi culturali che esprimono percezioni dell’intersoggettività e delle relazioni umane: il quadro dell’evoluzione della cultura si complica, o relativizza, in relazione alla psicologia di gruppi e individui, differentemente da quanto letture più unidirezionali, centrate sulla contrapposizione individualismo/collettivismo, possano lasciare intendere (Miller, 1999, 2002; Greenfield, 2013).

Un esempio è l’anticipazione dell’uso della parola rivoluzione, in lingua inglese e russa, rispetto ad eventi così catalogati dagli storici. Revolution è termine sempre più usato in lingua inglese tra il 1820 e il 1848, nel periodo della rivoluzione russa, durante gli anni ‘30 del ‘900 — quando anche le propagande del fascismo italiano e tedesco finiscono per farne uso —, e durante tutti gli anni ’60 fino a qualche anno dopo il 1968 (Fig. 2). Il nesso costruttivista tra linguaggio ed eventi storici è altrettanto se non più manifesto in lingua russa: революция, che traduce l’inglese revolution, incrementa dal 1914 al 1918 la sua frequenza da una occorrenza ogni 100.000 parole a 4 occorrenze ogni 100.000, per giungere a oltre 9 occorrenze ogni 100.000 termini dal ‘23 al ‘25.

Dallo studio di Vygotskij (1934) sull’evoluzione dei concetti scientifici nell’età scolare, apprendiamo che il concetto stesso assume nella cultura popolare anche significato equivalente a guerra civile. Ad ogni modo, in dieci anni non solo l’uso politico del termine cresce di dieci volte, ma questa crescita è correlata con rappresentazioni analoghe riferite a contesti tecnico-scientifici o culturali (оборот, переворот), traduzioni alternative dell’inglese revolution. Tenuto conto che la costruzione del lessico favorisce la lingua scritta e l’inserimento di molti termini rari (Michel et al., 2011), si può inferire che più della metà del successo della parola preceda gli eventi che la storia identifica come Rivoluzione Russa (Fig. 2).

Fig 1. Frequenza nel corpus della lingua inglese delle parole armonia (harmony), disarmonia (disharmony) e dissenso (dissent). Medie mobili a 3 anni.

immagine 1: l'importanza delle parole

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Fonte: Google Books Ngram Viewer. La percentuale approssima la frequenza con cui ricorre la parola indicata (1-gram) sul totale delle parole presenti nel corpus.

Fig 2. Frequenza della parola rivoluzione nel corpus della lingua inglese (revolution) e russa (революция). Medie mobili a 3 anni.

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Fonte: Google Books Ngram Viewer. La percentuale approssima la frequenza con cui ricorre la parola indicata (1-gram) sul totale delle parole presenti nel corpus.

 

L’utilizzo delle parole ottimismo e pessimismo

Lo stesso esercizio svolto con le parole pessimismo e ottimismo mostra che il pessimismo è verbalizzato di più durante gli anni ‘50 e ‘60 del ‘900, caratterizzati dalla ricostruzione postbellica, dal forte sostegno pubblico alla crescita economica e dall’affermazione del welfare state: viceversa la parola è meno usata a partire dalla fine degli anni ’60 (Fig. 3).

E’ un paradosso solo apparente che gli anni della affermazione dello stato sociale siano anche quelli del pessimismo costruttivo — nella teoria della scelta pubblica — secondo una locuzione usata da Amartya Sen (1998)? Ad oggi pessimismo è usato né più né meno che all’inizio del ‘900. Il termine ottimismo è invece molto più usato che all’inizio del secolo scorso, durante il quale ricorre sempre più spesso nel corpus della lingua, con scarsa relazione con gli eventi. Questo potrebbe rivelare l’importanza che la parola ottimismo svolge nel discorso pubblico per accompagnare la crescita economica e la propaganda politica.

Nel primo ventennio del secolo, gli Stati Uniti, appena risollevatisi dalla guerra civile, si affermano come forza economica in espansione nel capitalismo mondiale e costruiscono una complessa propaganda per intervenire nella prima guerra mondiale. Ottimismo ha un andamento più incerto negli anni venti, soprattutto nell’American English. Ad ogni modo, l’uso della parola cresce ancora rapidamente fino all’inizio della seconda guerra mondiale grazie al contributo del British English — Google permette l’interrogazione separata dei due corpora.

Dopo uno stallo, coincidente con il più grande conflitto mondiale, che coinvolge tutti i paesi di lingua inglese, l’uso del termine ottimismo riprende a crescere nel decennio ‘55-‘65; ma conclusi gli anni ‘60 sembra che si scriva e parli di ottimismo con la stessa frequenza degli anni ’50. La parola ottimismo mantiene un ruolo importante nel linguaggio e nella cultura del capitalismo anglosassone e in culture nazionali quando vi siano peculiari dinamiche economiche e politiche. La ricorrenza di ottimismo in italiano (Fig. 3) mostra una ultima piccola crescita, dal 1999 al 2007. Le cause? Probabilmente sia la propaganda politica sia alcuni fenomeni speculativi — la bolla immobiliare — hanno enfatizzato l’ottimismo come vantaggioso atteggiamento individuale o persino come “imperativo morale”.

 

Parole che influenzano gli eventi

Ciò che si può aggiungere alla rabbia del protagonista di Palombella Rossa è l’assunzione che l’importanza delle parole risieda non tanto nella espressione corretta di uno stato d’animo, quanto nella loro funzione proiettiva. Il linguaggio che il soggetto usa contribuisce alla costruzione della (sua) realtà (Bruner, 1997, 2004). Nonostante il futuro resti incerto e imprevedibile, le parole, riflettendo su percezioni e stati d’animo, ma anche immaginando situazioni e risposte, possono condurre la storia di una moltitudine di soggetti in una direzione o in un’altra.

Come domanda provocatoria ci si può chiedere se sia preferibile vivere un’epoca simile all’Ottocento, o alla seconda metà del Novecento, quando la ricerca di armonia (‘800) o il contrasto della disarmonia (‘900), motivano l’espressione del dissenso. Oppure se ci si possa augurare di vivere come nella prima parte del Novecento, quando la percezione di disarmonia si accompagna, con l’autoritarismo e il totalitarismo, ad ostacoli crescenti all’espressione verbale, pubblica, del dissenso.

Se la storia stessa è, psicologicamente, una costruzione intersoggettiva, è possibile che possa ripetersi, ma non ha senso che possa “finire”. Anche oggi il futuro può essere diverso dal passato, ma non può essere indipendente dal linguaggio e dalla libertà di espressione. In questo linguaggio, armonia e disarmonia sono standard di valutazione, e influenzano anche implicitamente i comportamenti umani. Il dissenso è invece una disposizione soggettiva che motiva l’azione: la sua espressione è già attiva. Da tempo il lessico collettivo della lingua inglese non manifesta domande esplicite di armonia come nell’800; ma mantiene elevata la ricorrenza di dissenso. Che dissenso e disarmonia siano enunciate senza un ruolo esplicito dell’armonia, può indicare una compatibilità tra un tipo di società democratica, intesa come luogo dove il dissenso può essere espresso, e i pressanti conflitti presentati dal progresso tecnico e dall’economia. In ogni caso, questa rappresentazione delle democrazie non toglie che una concezione dell’armonia possa restare sotterranea, inespressa o inconscia in molte società, mentre il suo ruolo possa essere più manifesto in altre società e linguaggi.

Fig. 3. Frequenza nel corpus della lingua inglese delle parole pessimismo (pessimism), ottimismo (optimism) e ottimismo in Italiano. Medie mobili a tre anni.

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Fonte: Google Books Ngram Viewer. La percentuale approssima la frequenza con cui ricorre la parola indicata (1-gram) sul totale delle parole presenti nel corpus.

Marco Spampinato.
Ricercatore freelance. Laurea in Scienze Politiche (Perugia, 1993), Master in Economia (Coripe Piemonte, Torino, 1995), Master of Arts in Psicologia (The New School for Social Research, New York, 2016). Dal 1996 al 2011 si è occupato di sviluppo economico, mobilità e politiche pubbliche. Dal 2003 al 2011 è stato componente, per due successivi periodi di quattro anni, dell’unità di valutazione dei programmi e degli investimenti pubblici co-finanziati con i fondi strutturali europei (UVAL, Dipartimento di Sviluppo e Coesione). Dopo avere spostato i suoi interessi su istruzione e sviluppo umano, dal 2013 studia psicologia cognitiva, sociale e dello sviluppo. I suoi interessi sono centrati sull’interazione tra cultura, cognizione e comportamenti sociali.

Guida Michelin per psicoterapeuti – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Sono le 20 e 58 quando entriamo nella hall di un art hotel nel centro di Roma: Dimaggio, ho prenotato per due. Ristorante stellato. La mia ribellione personale alla dipendenza da Masterchef e Gambero Rosso Channel. Eccesso di cucina gourmet osservata, iniziava a generare stati crescenti di frustrazione.

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul mensile “La freccia” di Maggio 2016

 

Alle 14 e 22 Ilaria mi racconta che il padre la picchiava. Calci. Cinque minuti dopo decido di andare con lei lì, nell’angolo della cucina dove si rannicchiava. Si chiama immaginazione guidata. Chiuda gli occhi. Quanti anni ha? Nove. Respiri profondamente, vede la scena? Sì. Com’è lui? Alto, enorme, sembra che gli escano le fiamme dagli occhi. Come si sente? Avevo paura. Ora la sente? No, ora no. Cosa fa suo padre in questo momento? Non lo so, non lo vedo più, sta diventando una macchia azzurra. Alle 14 e 40 apre gli occhi. È più sollevata.

Dieci minuti ed esco dalla stanza, ho assaporato la prima dose di vero distillato di dolore umano della giornata. Ne assumo almeno una al giorno, tre volte a settimana. Si chiama: fare lo psicoterapeuta. Leggo l’email. Un’ottima notizia. Mi viene fame. Ho un’idea, faccio una telefonata. Non ci speravo, ma ottengo lo scopo.

Alle 17 e 09 Davide mi dice che la madre è stata diagnosticata tardivamente di schizofrenia paranoide. Tipo che vedeva minacce dappertutto, ladri, la mafia, il Vaticano oscuro. Avevo 10 anni – periodo difficile della vita viene da pensare -. Com’era per lei a quell’età? Tremendo. La notte mamma restava sveglia a controllare se c’erano pericoli. E lei che faceva? Restavo immobile completamente sotto le coperte, attento a non fare un bai. Perché? Dovevo stare in guardia, qualcuno grosso e armato sarebbe potuto entrare. Alle 17 e 16 gli chiedo di tornare in quella stanza. Cosa prova? Teso, ho paura. Bene, gli dico. Facciamo una prova: porti il Davide adulto in quella stanza. Ok. Vede il bambino? Sì. Gli vada vicino. Si sieda sul letto, lo conforti. Alle 17 e 19 lo prende per mano e lo porta a esplorare la stanza, a guardare fuori dalle finestre. Con una certa riluttanza il bambino ammette che non ci sono mostri e accetta di tornare a letto, non senza averne tratto un certo conforto. Respiro uno, respiro due, respiro tre. Apra gli occhi. Come sta? Molto sollevato.

Alle 17 e 50 ho finito di assumere la seconda dose di vero distillato di dolore umano della giornata. Sono sopra la media. Decido di agire. Telefono a Eleonora. Amore? Sì? Una bella notizia. Dimmi. Routledge ha accettato di pubblicare il mio ultimo manuale di psicoterapia in inglese. Wow. Sì, wow. Stasera vestiti in lungo.

Sono le 20 e 58 quando entriamo nella hall di un art hotel nel centro di Roma: Dimaggio, ho prenotato per due. Ristorante stellato. La mia ribellione personale alla dipendenza da Masterchef e Gambero Rosso Channel. Eccesso di cucina gourmet osservata, iniziava a generare stati crescenti di frustrazione.

Dovrebbero pubblicarti libri in inglese ogni settimana, fa Eleonora. Ci servono l’aperitivo. Un prosecco delle langhe accompagna tre piatti di bocconcini. Un piccolo maritozzo con crema di melone e prosciutto crudo. Un cubetto rossoverde nel quale lo chef è riuscito a impilare quattro strati, inclusa una sfoglia microscopica di gambero. Si sente il seme di sesamo. Restiamo increduli. Poi dolce e salato in un’unica rotella, l’alice, il cui sapore di solito odio, si mischia con una crema e il risultato è superbo. E ancora una caprese minuscola e piccole losanghe dalle tinte accostate con sapienza. Alle 21 e 24 le svelo la verità. Il libro è un pretesto. Che vuoi dire? Un pretesto per la cena. Perché, avevi voglia di celebrare la mia bellezza in modo adeguato? Ovvio, rispondo (era l’unica risposta possibile e non è falsa). Però?

Si tratta delle quantità quotidiane di dolore. Ah, vuoi direi il vero distillato di dolore umano? Esatto. Accompagnato da un bianco siciliano, profuma di uva spina, arriva l’antipasto. Il cameriere, siciliano anche lui, ce lo porta sorridendo. Sembra un tiramisù nel bicchiere, non lo è. In effetti scopriremo che la polvere nera sopra è davvero cacao al 100%. La spuma bianca è fatta di patate e del latte nel quale è stato cotto il baccalà. Lardo di cinta senese, il tocco di croccante. Spalle alla sala, faccio la scarpetta sotto il divertito rimprovero di Eleonora. L’olio di produzione propria, provenienza sabina, fa esplodere i sapori.

Una riflessione profonda di Eleonora: assumi dosi settimanali di vero dolore umano per poterti permettere una cena gourmet, o per discolparti dalla cena in un ristorante stellato assumi sofferenza su base regolare? Non c’è risposta. Faccio quello che faccio perché lo so fare e per motivi troppo lunghi da spiegare. Ho imparato il mestiere, ho studiato molto, rovistato nelle parti del mio animo non esposte al sole del sud. Ci ho costruito una reputazione scientifica sopra. Ma ha un prezzo. E guardare Carlo Cracco in TV non ripaga a sufficienza.

Il sommelier, un ragazzo con la barbetta con il quale tranquillamente berresti una birra artigianale tra i vicoli di Trastevere, ci presenta un sangiovese dell’Emilia, un fruttato che accompagnerà i ravioli ripieni di mascarpone al ragout di anatra. Il cameriere siciliano ci invita a masticarli senza averli aperti prima. Seguiamo il consiglio. Aveva ragione. Non ne sopravvive nessuno. Notiamo di non avere preso il ‘Rocher’ di coda alla vaccinara con gelée di sedano. Ci saranno altre occasioni finché non intraprendo programmi di disintossicazione dal vero dolore umano.

Alle 22 e 31 le racconto di una seduta di gruppo in cui siamo finiti tutti scalzi, Paolo, il mio collega, i pazienti e io. Mi punta gli occhi azzurri in faccia: sei serio? Un rosso dal profumo di erborinato, provenienza Côtes du Rhône, previene la risposta, introduce un dittico di capriolo. I sapori variano da lampone essiccato a curry e anice stellato. Ardito, ma funziona. Si chiude con il tiramisù, rivisitato. Naturalmente al baccalà, diciamo al cameriere siciliano. Ovvio, risponde. La strada per il superamento del dolore è indicata sulla guida Michelin, prosit.

Essere sani nei luoghi dei matti: la delicatezza del processo diagnostico – I grandi esperimenti di psicologia

#11: Essere sani nei luoghi dei matti: la delicatezza del processo diagnostico di D. Rosenhan (1973). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

David Rosenhan, nato nel 1929, è stato docente di Psicologia alla Stanford University. Da sempre convinto che sia impossibile effettuare una diagnosi basandosi solo su dati obiettivi, le sue più famose ricerche sono volte proprio a confermare questa tesi. E se non ci convince, per lo meno dei dubbi li lascia.

Come potremmo distinguere, se esistono, normalità e anormalità? Negli anni ’70, Rosenhan afferma che vi sono dati conflittuali sull’utilità e sul significato di termini come ‘malattia mentale‘, ‘insanità’ o ‘schizofrenia‘. Anche oggi, ciò che viene considerato normale in una cultura può essere totalmente aberrante per un’altra. I concetti di normalità e anormalità non sono così chiari come le persone se li immaginano. Solitamente, a questo dilemma si risponde considerando se un determinato evento è o meno deviante. L’omicidio è deviante. Così come lo sono le allucinazioni. Quindi capiamo subito che questo non è un buon indice per identificare la malattia mentale.

Cambiamo quindi prospettiva e proviamo a chiederci: le caratteristiche che determinano la diagnosi sono proprie del paziente o appartengono all’ambiente in cui la persona si trova e viene valutata? Per rispondere a questa domanda, Rosenhan sceglie di verificare se un campione di persone sane (senza diagnosi attuale né in anamnesi di disturbi psichiatrici) sarebbe stato ricoverato presso ospedali psichiatrici, se si fosse scoperto il loro reale stato di salute e come. Ai finti pazienti volontari non è stato chiesto di comportarsi in modo strano, né sono stati influenzati in qualche modo dal ricercatore riguardo alla clinica in cui sarebbero stati ricoverati.

Otto persone sane chiedono di essere ricoverate in 12 differenti strutture psichiatriche. Il gruppo di volontari conta uno studente di psicologia di 20 anni, una casalinga, un pittore, tre psicologi, un pediatra, uno psichiatra. Sono tre donne e cinque uomini, usano uno pseudonimo e inventano una professione, lo staff degli ospedali ovviamente non è a conoscenza dell’esperimento. Le strutture a cui vengono inviate le domande di ricovero sono molto differenti tra loro: alcune sono statali, altre finanziate dalle università, alcune sono antiche e decadenti, altre nuove, alcune sono più orientate alla ricerca, altre no.

Dopo aver chiamato l’ospedale per fissare un appuntamento, lo pseudo-paziente si reca al colloquio preliminare al ricovero lamentando di sentire delle voci. Quando gli viene chiesto che tipo di voci siano, risponde che si tratta spesso di voci poco chiare, ma sembrano dire ‘vuoto’, ‘tonfo‘, ‘cava‘. Tali voci non sono conosciute e hanno un timbro maschile o femminile a seconda del sesso del paziente.

Tale sintomatologia viene accompagnata da un senso di insoddisfazione per la vita in generale, riferita dagli pseudopazienti: la scelta non è casuale, Rosenhan è ben consapevole che non esiste in letteratura nessuna forma di ‘psicosi esistenziale’ o patologia simile a quella descritta dai suoi collaboratori. Ai volontari è stato chiesto di rispondere alle altre domande poste in sede di colloquio secondo la loro reale esperienza, senza inventare, ingigantire o modificare nulla della loro vita. La descrizione della loro famiglia, le relazioni amicali, il percorso scolastico e lavorativo corrispondevano alla realtà.

Immediatamente dopo la loro ammissione presso le strutture coinvolte, i collaboratori di Rosenhan cessavano di riferire i sintomi descritti in sede di colloquio. In alcuni casi si sentivano moderatamente ansiosi e tesi nel primo periodo: nessuno di loro credeva che sarebbe stato ricoverato così facilmente. Tutti riferiscono dopo i primi giorni uno stato di benessere ai dipendenti della clinica, il loro comportamento è nella norma, partecipano alle attività proposte e non lamentano difficoltà. Questo è anche quello che viene annotato nei loro diari clinici. Così come accade spesso in quegli anni ai pazienti psichiatrici, a nessuno dei partecipanti vengono comunicate delle tempistiche relative al ricovero. Ad eccezione di un volontario, tutti gli altri desiderano essere dimessi nel più breve tempo possibile, ma gli viene solamente detto che verranno dimessi quando dimostreranno di essere sani.

Nessuno svelò mai la simulazione degli pseudo-pazienti. A parte uno, tutti vengono dimessi con la diagnosi di ‘schizofrenia in remissione‘. Nessun documento delle strutture coinvolte cita l’ipotesi di una simulazione da parte degli pseudo-pazienti.

Rosenhan afferma che l’etichetta ‘in remissione‘ viene probabilmente assegnata indistintamente, è una formalità, perché nell’ottica delle strutture tali pazienti non possono essere definiti ‘sani‘, né, nell’ottica delle istituzioni, lo sono mai stati. Il fallimento delle strutture nel riconoscere tale simulazione non può essere considerato dipendente né dalla qualità delle cliniche né dalla scarsità di tempo disponibile per un’adeguata valutazione: i ricoveri sono durati tra i 7 e i 52 giorni, con una media di 19.

Nemmeno il comportamento normale dei collaboratori di Rosenhan ha fatto sorgere dubbi interpretativi alle diverse equipe: tuttavia, i pazienti ospiti presso le stesse cliniche spesso riconoscevano gli attori, anche quando questi continuavano ad affermare di aver sentito voci prima del ricovero.

I dati raccolti inducono l’autore a riflettere sulla facilità da parte dei professionisti in ambito psichiatrico di incorrere nell’errore statisticamente definito ‘falso positivo‘, ovvero la tendenza a giudicare malati soggetti sani. Nello spiegare tali conclusioni allo staff di un nuovo ospedale, i dipendenti si mostrano restii a credere di incorrere veramente in tali banali errori.

Pertanto il ricercatore decide di tentare un nuovo esperimento: avvisa l’equipe che nei successivi 3 mesi avrebbero fatto richiesta di ricovero uno o più pseudo-pazienti, chiedendo di segnalargli quando avessero avuto il dubbio di trovarsi di fronte a una messinscena. Dei 193 nuovi ingressi della struttura, i membri dello staff identificano con una certa sicurezza 41 pseudo-pazienti, gli psichiatri ne individuano 23 e 19 persone vengono sospettate di essere attori sia da uno psichiatra sia da un membro diverso dello staff. Non esattamente delle ottime intuizioni, visto che Rosenhan non ha inviato presso la clinica nessun finto paziente. La conclusione non può che dare ragione al ricercatore: ogni processo diagnostico è ampiamente soggetto a errori e non può essere replicato con sicurezza da diversi valutatori.

Una diagnosi di tipo psichiatrico, afferma l’autore, porta con sé conseguenze che influenzano la vita intera. Una volta che una persona viene diagnosticata come schizofrenica, ci si aspetta che lo sia per il resto della sua vita. Quando i sintomi rimangono assenti per un periodo di tempo sufficiente, la patologia viene definita ‘in remissione‘. Ma l’etichetta rimane, così come rimangono le aspettative che, prima o poi, la persona manifesti qualche comportamento bizzarro. E queste conseguenze non si riversano solamente sul paziente, ma anche sui famigliari e sulle persone a lui vicine: non c’è da meravigliarsi se si trasformano in profezie che si auto-avverano.

A maggior ragione se si considera la tendenza all’evitamento e alla depersonalizzazione che caratterizzano, in quegli anni, le strutture che ospitano pazienti psichiatrici: i membri dello staff entrano in contatto con i pazienti solo per poco tempo durante il giorno, spesso ignorano le loro domande o evitano il contatto visivo. I livelli di privacy sono ridotti al minimo e, durante il ricovero, spesso viene applicata una sospensione dei diritti individuali. Questi elementi complicano ancora di più la possibilità di individuare, in ambienti di questo tipo, chi sta bene da chi soffre davvero. Tutti soffrono, in un modo o nell’altro.

Nelle conclusioni del suo lavoro, Rosenhan individua alcune vie d’uscita dalla situazione contemporanea. Cita l’incremento di strutture di altro tipo, comunità, centri specifici per il superamento di momenti di crisi, lo sviluppo di terapie comportamentali mirate, la tendenza a curare la persona all’interno di un ambiente che non sia di per sé fattore di peggioramento dello stato di salute. Ma non solo: l’autore nota una maggiore sensibilità da parte dei professionisti della salute mentale nei confronti delle condizioni paradossali dei pazienti psichiatrici. E forse l’ha notato proprio nel 1973, mentre con altre sette persone ha deciso di fingersi un paziente psichiatrico e ha richiesto di essere ricoverato presso un ospedale psichiatrico.

 

Essere o non essere: il ruolo del dilemma implicativo nella resistenza al cambiamento

Un dilemma implicativo é una struttura cognitiva propria di sé (uno schema nucleare), nel quale il problema o il sintomo (il polo non desiderabile di un costrutto), é associato a caratteristiche positive e congruenti con la propria identità e l´abbandono del problema o del sintomo supporrebbe, d’accordo all’associazione di significati del dilemma, di lasciare la costruzione di sé con questi aspetti positivi e congruenti e ciò rappresenterebbe una minaccia per la propria identità.

Guillem Feixas, Danilo Moggia

La teoria dei costrutti personali di Kelly e il ruolo del dilemma implicativo nella salute mentale

Marco é un uomo di 42 anni nella fase intermedia di una terapia cognitiva comportamentale per il suo disturbo depressivo. Lui e il suo terapeuta hanno notato che ha avanzato nelle prime sedute, ma adesso non piú, persino il suo stato d’animo é ricaduto. Marco dice: “Non é un suo problema dottore, né del suo metodo, sono io il problema… non posso cambiare, é come se non volessi cambiare”. Quanti terapeuti hanno avuto questa esperienza? Perché Marco non avanza di piú? Perché Marco migliora nelle prime sedute e poi no?

Noi pensiamo che a tutte queste domande si possa rispondere studiando il ruolo del Dilemma Implicativo nella salute mentale e nella psicoterapia. Questa nozione viene dalla Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly, la quale fornisce un adeguato quadro concettuale e metodologico per lo studio empirico dei conflitti interni relativi alla costruzione del sé. Sinteticamente, la teoria di Kelly esplora il modo soggettivo in cui le persone costruiscono la loro esperienza, analizzando i loro costrutti personali, che sono dimensioni bipolari di significati personali (ad esempio, essere depressi rispetto ad essere felici). Questa teoria sostiene una proattiva visione degli esseri umani e così afferma che la motivazione, i processi emotivi, e le azioni vengono regolati sulla base della congruenza o discrepanza tra la costruzione del ‘sé’ e del ‘sé ideale’. La discrepanza tra sé e l´ideale non è necessariamente un conflitto.

Per concettualizzare i conflitti, la Teoria dei Costrutti Personali riconosce che gli esseri umani possono assumere una varietà di costruzioni che sono inferenzialmente incompatibili tra loro (il corollario di frammentazione di Kelly). Da questa prospettiva, è probabile che i dilemmi si possano generare quando una persona deve conciliare il sé con i valori personali sostenuti. Ad esempio, il caso di un paziente depresso cronico che ha affrontato il dilemma tra essere depresso (associato nel suo sistema di costrutti con ‘essere umano’) o il cambiamento, e diventare una persona ‘distruttiva’ o una persona ‘sgradevole’ (secondo la sua visione). Questo é un conflitto derivato dalla particolare configurazione delle implicazioni del suo sistema di costrutti.

 

Il conflitto tra il sè attuale e il sè ideale

Da questa visione, un dilemma implicativo é una struttura cognitiva propria di sé (uno schema nucleare), nel quale il problema o il sintomo (il polo non desiderabile di un costrutto), é associato a caratteristiche positive e congruenti con la propria identità e l´abbandono del problema o del sintomo supporrebbe, d’accordo all’associazione di significati del dilemma, di lasciare la costruzione di sé con questi aspetti positivi e congruenti, e ciò rappresenterebbe una minaccia per la propria identità.

In altre parole, la nozione di dilemma implicativo fa riferimento a quei conflitti in cui un cambio desiderato (ad esempio, non essere depresso) implica un cambio indesiderato (ad esempio, diventando sgradevole). In questo esempio un cambio specifico a livello di sintomi implica un cambio a livello di identità (cioè, diventando un tipo di persona diversa). Operativamente, due tipologie di costrutti personali sono coinvolti in un dilemma implicativo.

Da un lato, ci sono i costrutti discrepanti, in cui la persona percepisce una discrepanza significativa tra il ‘sé attuale’ e il ‘sé ideale’ di modo che un polo del costrutto descrive il presente e l’altro il polo del sé ideale. Dall´altra parte, i costrutti congruenti rappresentano aree di auto-soddisfazione (come indicato dalla somiglianza tra il sé presente e il sé ideale) che puó essere legata a valori personali o credenze.

Nell’esempio, il paziente si considera una persona che ‘non ama se stessa’ (polo di sinistra), e vorrebbe iniziare ad ‘amare se stessa’ (polo destro del costrutto discrepante).

Contemporaneamente, in congruenza con il suo sé ideale, si considera come ‘protettiva’ (polo di sinistra) e non vuole diventare ‘impassibile’ (polo destro del costrutto congruente, si puó notare che tutti questi costrutti sono personali, nelle parole del paziente).

Essere o non essere, questo è il problemail ruolo del dilemma implicativo nella resistenza al cambiamento-diagramma

Conclusioni

In questo senso, si considera che i dilemmi implicativi agiscono come fattori di mantenimento della sintomatologia psicopatologica attraverso il tempo e spiegherebbero i fenomeni che tradizionalmente sono stati concettualizzati come resistenza o stagnazione nella psicoterapia.

I dilemmi implicativi possono essere misurati attraverso la Tecnica della Griglia nelle fasi pre e post della terapia. Diverse ricerche hanno dimostrato la relazione tra la presenza di Dilemma implicativo e la presenza di alcuni disturbi e sintomatologia psicopatologica nella popolazione clinica, come nei disturbi alimentari (Feixas et al, 2010), nel disturbo depressivo maggiore (Feixas et al, 2014), distimia (Montesano et al, 2014), disturbi ansiosi (Melis et al, 2011) e disturbi misti (Feixas, Saúl & Avila Espada, 2009).

Lo psicologo forense in ambito minorile: il ruolo, i test e i limiti

Psicologo forense: I lavori forensi nell’ambito della giustizia minorile sono i più delicati in quanto lo psicologo dovrà considerare anche lo sviluppo cognitivo del minore, valutando con attenzione le sue capacità mnestiche, l’intelligenza emotiva, l’esame di realtà e via dicendo, considerando l’età del bambino e le diverse tappe dello sviluppo.

 

Chi è lo psicologo Forense e cosa fa?

L’Ordine Nazionale degli Psicologi, facendo riferimento alla classificazione EUROPSY, definisce lo psicologo forense e giuridico come colui che si occupa [blockquote style=”1″]dei processi cognitivi, emotivi e comportamentali aventi rilevanza per l’amministrazione della giustizia, con riferimento alle persone intese sia come autrici di reato sia partecipanti al processo giudiziario in qualità di imputati, testimoni, parti lese, avvocati e giudici. […] Le applicazioni delle conoscenze e dei metodi di psicologia clinica al contesto giudiziario costituiscono un ausilio sia per l’emissione di sentenze sia per tutelare interessi di parte. Ci si riferisce, ad esempio, all’assessment e alla diagnosi psicologica, alla valutazione della pericolosità, dell’imputabilità e responsabilità penale di adulti e minori, alla valutazione e quantificazione del danno psichico ed esistenziale, al criminal profiling, alla valutazione di minori e del contesto familiare in casi di pregiudizio, all’assessment di minori autori di reato, alla valutazione dei minori e delle capacità genitoriali in casi di affidamento per separazione o divorzio, alla mediazione e risoluzione dei conflitti, alla valutazione per lo sviluppo di percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale e lavorativo di autori di reato, ecc.[/blockquote]

In generale, lo psicologo forense svolge in qualità di Perito, in ambito penale, perizie su nomina del giudice o, in ambito civile, consulenze tecnico-giudiziarie in qualità di CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio), Consulente Tecnico del Pubblico Ministero (CTPM) o, di Consulente Tecnico di Parte (CTP) su nomina degli avvocati di parte. Nella sua opera professionale, lo psicologo forense deve rispettare non solo il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani ma anche alcuni documenti che sanciscono le linee guida nell’ambito della psicologia giuridica, tra cui la Carta di Noto del 1996 e i relativi aggiornamenti 2002 e 2011 e Linee guida deontologiche per Psicologo Forense dell’Associazione Italiana Psicologia Giuridica (Torino, 1999)2.

Nella sua attività forense, lo psicologo dovrà sempre tenere a mente il quesito posto dal sistema giudiziario, la sua attività sarà quella di valutazione, in alcun modo potrà svolgere terapia nell’ambito di una perizia o di una consulenza. L’atteggiamento guida da adottare dovrà essere quello “falsificazionista” riassumibile con Popper in questa affermazione: [blockquote style=”1″]L’inconfutabilità di una teoria non è (come spesso si crede) un pregio, bensì un difetto. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità; alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse per così dire, corrono rischi maggiori.[/blockquote] (Popper, 1986).

Questo approccio garantisce infatti allo psicologo di non fossilizzarsi su eventuali informazioni pregiudiziali o di non fare assoluto riferimento al proprio paradigma, ma di confutare e vagliare razionalmente ogni possibilità con lo scopo di avvicinarsi il più possibile a una valutazione oggettiva. Lo psicologo, dovrà comunque tenere a mente che non dovrà sovrapporsi al ruolo del Giudice, ovvero, potrà esprimere un parere in termini di probabilità o compatibilità, non certo di assoluta verità, fornendo agli interlocutori (giudici, avvocati, colleghi psicologi, psichiatri ecc..) elementi oggettivi per valutare e comprendere l’operato dello psicologo forense e di conseguenza le sue conclusioni. Il suo ruolo è quindi di concorrere, assieme alle altre figure, ad aiutare il Giudice ad esprimersi nel modo più corretto possibile.

 

Quali metodologie e quali test nella psicologia giuridica e peritale?

Nell’ambito forense, occorre essere molto cauti e attenti rispetto ai paradigmi di riferimento e ai diversi approcci che ogni psicologo può seguire. Nello specifico, alcuni approcci che nella pratica terapeutica possono risultare efficaci, in ambito giuridico – considerato il tempo limitato, l’obiettivo (che non è appunto fare terapia, ma valutare) e la necessità di dover dare a tutte le parti elementi per comprendere e valutare il lavoro condotto – potrebbero essere poco adatti.

In generale, il principio da adottare è quello di utilizzare metodologie e strumenti il più possibile recenti, oggettivi e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. Relativamente ai test proiettivi o tematici, l’Ordine degli Psicologi del Lazio ad esempio raccomanda di utilizzarli, se necessario, solo in accompagnamento ad altri e in particolare scrive: [blockquote style=”1″]L’utilizzazione distorta, più o meno volontariamente, di strumenti tecnici (test proiettivi) che mirano ad ampliare ed approfondire la conoscenza e la comprensione di dinamiche e processi intrapsichici individuali, significa la compromissione e mistificazione di tali strumenti e la sottolineatura del libero arbitrio rispetto a posizioni scientifiche acquisite. In ambito forense e ancor più nel campo di esame di personalità di minori, dove tutto sembra amplificarsi ed acquisire maggior valore, lo psicologo che utilizza i test deve evitare un’analisi contenutistica priva del “tessuto connettivo di sostegno” offerto dai dati statistici quantitativi nell’interpretazione di un test proiettivo come ad esempio il Rorschach e, soprattutto, deve evitare di assumersi il compito-dovere di accertare un’eventuale colpevolezza, di accertare la verità su di un fatto, o ancora nel valutare il grado del dolo, interpretando così in modo soggettivo e privo di fondamenta scientifiche un test proiettivo.[/blockquote]

Nell’ambito minorile i test proiettivi vengono però talvolta utilizzati, e non come ausilio per inquadrare lo stato psicologico del minore, ma come strumenti di misura. Tra i più diffusi, CAT (1957), TAT (1960), Blacky Pictures (1971), Favole della Duss (1957), Rorschach (1981), disegno della figura umana (1949), ecc. La letteratura scientifica dimostra però che questi test lasciano ampio spazio di interpretazione personale e si è dimostrato che diversi periti possono, con i suddetti test, arrivare a conclusioni diverse. Si è inoltre dimostrato che non vi sono significative differenze ad esempio tra i risultati a questi test condotti su minori sessualmente abusati rispetto a minori non abusati, indice della poca attendibilità oggettiva dei test )per una rassegna si veda Veltman e Browne, 2003 e Waterman, 1993 e de Cataldo, 2010).
In generale, test più recenti e utilizzabili nell’ambito minorile, per avere indicazioni più oggettive possono ad esempio essere:

BVN (2009), batteria di valutazione neuropsicologica per l’adolescenza.
CBA-Y (Cognitive Behavioural Assessment, 2013), per la valutazione del benessere psicologico in adolescenti e giovani adulti.
CLES (Coddington Life Events Scales, 2009), per la misurazione degli eventi stressanti nei bambini e negli adolescenti.
CUIDA (2010), per la valutazione dei richiedenti l’adozione, gli assistenti, i tutori e i mediatori.
FRT (Family Relations Test, 1991), per lo studio delle rappresentazioni familiari.
GSS (Gudjonsson Suggestibility Scale, 2014), per valutare le modalità di reazione durante un interrogatorio.
K-SADS-PL (2004), intervista diagnostica per la valutazione dei disturbi psicopatologici in bambini e adolescenti.
MMPI-A (Minnesota Multiphasic Personality Inventory – Adolescent, 2001), utilizzato per l’assessment della personalità negli adolescenti.
PARENTS (Portfolio per la validazione dell’accettazione e del rifiuto genitoriale, 2012), per misurare l’accettazione e il rifiuto genitoriale.
PCL:YV (Hare Psychopathy Checklist: Youth Version, 2013), per la valutazione della psicopatia.
PSI (Parenting Stress Index, 2008), per misurare lo stress presente nella relazione genitore/figlio.
SIPA (Stress Index for Parents of Adolescents, 2013): per identificare lo stress genitoriale con figli adolescenti.
TCS-A (Test sul superamento dei compiti di sviluppo in adolescenza, 2015), sessualità, abilità cognitive e socio-relazionali e identità.
Test Q-PAD (2011), per la valutazione della psicopatologia in adolescenza.
WISC IV (Wechsler Intelligence Scale for Children-IV, 2012), per valutare le capacità cognitive.

È sempre da tenere in considerazione che le interpretazioni dei test andranno sempre accompagnate da accorte valutazioni e osservazioni cliniche.
Infine, è fondamentale che i Consulenti di Parte si astengano dal somministrare test nel corso della consulenza, per non invalidare l’operato del CTU. Il CTP, ove possibile, è opportuno non sia presente durante la somministrazione di test nell’ambito dei lavori peritali per salvaguardare il corretto setting psicodiagnostico: buona abitudine, per questa ragione, è che il CTU videoregistri tutte le operazioni svolte, previo opportuno consenso del Giudice.

 

Chi può fare lo psicologo forense?

In generale possono occuparsi di scienze forensi psicologi che abbiano adeguata e comprovata esperienza e formazione nell’ambito. Presso ogni Tribunale è istituito un Albo dei Consulenti Tecnici: [blockquote style=”1″]I giudici che hanno sede nella circoscrizione di un determinato tribunale devono normalmente affidare gli incarichi ai CTU iscritti nell’albo dello stesso tribunale.[/blockquote] Essere iscritti in suddetto Albo infatti, garantisce una certa professionalità del consulente, in quanto l’ammissione è stabilita da un’apposita commissione, presieduta dal Presidente del Tribunale, composta anche dagli ordini territoriali competenti rispetto alla professione dell’esperto.

 

L’ambito dell’abuso su minori

In generale, i lavori forensi nell’ambito della giustizia minorile sono i più delicati in quanto lo psicologo dovrà considerare anche lo sviluppo cognitivo del minore, valutando con attenzione le sue capacità mnestiche, l’intelligenza emotiva, l’esame di realtà e via dicendo, considerando l’età del bambino e le diverse tappe dello sviluppo. Nel caso dell’abuso, sessuale o meno, il contesto si fa ancora più delicato: il sovrintendente Mauro Berti, responsabile dell’Ufficio Indagini per la Pedofilia della Polizia delle Comunicazioni del Trentino Alto Adige, nell’ambito di una manifestazione della giornata nazionale contro la pedofilia del 5 maggio 2016, ha espresso con limpida chiarezza quanta delicatezza e professionalità occorra nell’occuparsi di minori, in particolare vittima di presunti abusi sessuali, non si è però soffermato solo sugli aspetti formali e tecnici, ma ha aggiunto: [blockquote style=”1″]Per occuparsi di minore occorre che gli esperti, nelle loro diverse specificità e competenze, tengano sempre presente che essere bambini è un diritto, e che chi abbiamo davanti non è un oggetto su cui fare valutazioni o prendere decisioni, ma è una persona, con una sensibilità, con un vissuto, con delle emozioni imprescindibili. Occorre quindi ricordarsi sempre l’aspetto umano-relazionale, ed è anche per questo che la Polizia di Stato non si limita alle attività di indagine o repressione del reato, ma svolge numerose iniziative di sensibilizzazione.[/blockquote]

 

La stesura della relazione

La relazione al fine dei lavori, che lo psicologo forense dovrà elaborare per il sistema giudiziario, dovrà essere scritta con estrema precisione, non lasciando spazio ad interpretazioni soggettive o a espressioni ambigue, dovrà in primo luogo riassumere le modalità, gli incontri, i test e le persone coinvolte durante le operazioni peritali, per poi dettagliare gli esiti in modo oggettivo, dando agli interlocutori la possibilità di comprendere e verificare oggettivamente il lavoro svolto.

Conclusioni

Il lavoro dello psicologo forense è particolarmente delicato e richiede quindi, oltre alle competenze e alle conoscenze, una certa attitudine al metodo scientifico-giuridico.

Cosa succede al mio account Facebook se muoio? Utenti fantasma ed eredi virtuali

L’esistenza post mortem del profilo Facebook è un cruccio per la comunità web. Mark Zuckerberg coglie prontamente le preoccupazioni dei cittadini della sua comunità, e si preoccupa della loro salute virtuale. Riformulando la questione in modo più chiaro: nel caso in cui “ti succede qualcosa” nel mondo terreno, cosa accade nel tuo spazio virtuale? Ecco la soluzione proposta dal social network: se nella realtà quotidiana ci si tutela redigendo un testamento, nella realtà online si protegge il proprio patrimonio virtuale nominando un erede.

 

Cosa succede al mio account di facebook se muoio?

Oggi ci sono più di un miliardo di utenti Facebook. Per ognuno di questi, è possibile rintracciare tale FAQ (frequently asked question), cliccando nell’area gestione dell’account: “cosa succede al mio account se muoio?”.

L’esistenza post mortem del profilo Facebook è un cruccio per comunità web. Mark Zuckerberg coglie prontamente le preoccupazioni dei cittadini della sua comunità, e si preoccupa della loro salute virtuale. Riformulando la questione in modo più chiaro: nel caso in cui “ti succede qualcosa” nel mondo terreno, cosa accade nel tuo spazio virtuale? Ecco la soluzione proposta dal social network: se nella realtà quotidiana ci si tutela redigendo un testamento, nella realtà online si protegge il proprio patrimonio virtuale nominando un erede. In che modo? Basta cliccare sulle impostazioni di gestione del proprio account ed ecco apparire l’opzione “nomina un erede”.  Chi è l’erede? FB lo definisce così: “un contatto erede è una persona a cui affidi la gestione del tuo account nel caso in cui tu venga a mancare. Questa persona sarà in grado di compiere alcune azioni, tra cui fissare un post in alto nel tuo diario, rispondere a nuove richieste di amicizia e aggiornare l’immagine del profilo. Non sarà in grado di creare nuovi post a nome tuo o di vedere tuoi messaggi”.

 

Facebook come strumento di socializzazione

Ma procediamo un attimo a ritroso per comprendere meglio la rilevanza di questa “conquista”. Ci troviamo nell’anno 12 p.F. (post- Facebook) e, dalla sua fondazione, ci sono stati dei significativi cambiamenti: oltre al fatto che ormai più di 1/7 della popolazione mondiale possiede un account (un numero notevole rispetto a quella manciata di studenti di Harvard del 2004), è cambiata l’interpretazione delle possibilità offerte dal mondo Facebook. Da strumento di socializzazione ristretto alle cerchie universitarie statunitensi si è tramutato in uno strumento di socializzazione globale.

Oggi un’inquietante nuova affordance si rende trasparente e necessaria all’innumerevole quantità di utenti: Facebook crea vita, una vita virtuale, ma pur sempre vita. Il profilo diventa un prolungamento del sé: della propria res cogitans, che si manifesta attraverso ciò che si condivide, che si commenta, che si pubblica, attraverso i like che si mettono; della propria res extensa, che prende vita nelle proprie foto, nei propri video, nelle proprie “GIF”. Oggi il profilo è la miglior forma di personal branding, per tutti gli utenti, dall’adolescente all’over sessanta, e il grande social network si propone come un enorme “spaccio di identità”. In questo contesto appare chiara la necessità di nominare un erede: è fondamentale salvaguardare la propria vita online, una parte sostanziosa dell’identità dell’utente stesso.

 

Il caso di Louise Palmer

Una conseguenza diretta di questa estensione identitaria è il vuoto di diritto che si è creato su tale social, dopo la sua repentina ascesa. Il “caso Palmer” è stato uno dei tanti a mettere in luce questo aspetto: Louise Palmer è una madre britannica, la cui figlia Becky morì prematuramente nel 2012, a causa di un cancro. Becky aveva 19 anni e un account di facebook. Post mortem, i suoi amici continuavano a mantenere attiva la sua bacheca, pubblicando foto, post, ricordi. Il problema nacque quando la madre Louise cercò di entrare nel profilo della figlia, dichiarando di cercare conforto in quella parte della figlia che sopravviveva alla morte terrena e nel calore dei suoi amici. Nonostante le numerose richieste, lo staff di Facebook si dimostrò intransigente e le negò l’accesso più volte per motivi di privacy. Il caso destò scalpore e finì sotto gli occhi dell’intera Gran Bretagna. Questa vicenda, come altre prima, ha sottolineato un grosso punto cieco nella perfetta macchina virtuale: non era stato definito un protocollo d’azione da seguire in situazioni del genere, dunque non si è riusciti a dare altra risposta se non: “ci dispiace, non è autorizzata per motivi di privacy”. Una risposta crudele per le orecchie di una madre addolorata, ma che evidenziano soltanto una lacuna nel sistema. La soluzione prontamente offerta è stata la creazione di “account commemorativi” e in seguito si è arrivati all’ “opzione erede”.

Il percorso attraverso il quale si è giunti all’erede appare naturale e necessario. Una volta salpata la grande nave FB nell’oceano online, gli utenti iscritti hanno avuto due possibilità: continuare a rimanere sulla nave, accettando che il progresso continuasse a rivoluzionare la loro esistenza con possibilità sempre maggiori (tra cui l’erede); scendere dalla nave, con il rischio di rinunciare a numerosi benefici sociali che solo questa comunità virtuale sa dare. Sull’ultima piccola rivoluzione facebookiana, l’opzione erede, si pone l’attenzione su ciò che ne consegue per le due parti coinvolte: l’utente, che si trasforma in utente-fantasma; l’erede nominato.

 

L’utente fantasma

Secondo Hachem Sadikki (una ricercatrice dell’università del Massachusetts), all’interno di Facebook si sta verificando una crescita esponenziale di iscrizioni, destinata ad aumentare negli anni. Sorge spontaneo pensare che più saremo, più lapidi arricchiranno il gigantesco cimitero virtuale, che già oggi ne conta più di 3 milioni. Un sentimento di inquietudine mi assale al pensiero di 3 milioni di fantasmi digitali che aleggiano in rete, accettando nuovi amici, cambiando l’immagine del profilo e fissando un bel post in alto nel proprio diario. È inquietante per me in quanto persona cresciuta nella generation web 2.0, che ha vissuto il trapasso da “msn” (molto in voga fino a 12 anni fa e già caduto nel dimenticatoio) al social network vero e proprio.

Ma questo sentimento colpirà la “touch generation”? Non credo. Quando a tre anni si è già in grado di usare un iPad, di sicuro in futuro non ci si porrà il problema di un’esistenza virtuale separata da quella terrena, in grado di sopravvivere alla morte. La “touch” è una generazione cresciuta in un ambiente diversamente stimolato, ultrastimolato, dunque gli schemi mentali e le strutture cognitive di coloro che vi appartengono si svilupperanno in maniera sicuramente differente. Noi della web 2.0 abbiamo genitori della web generation e vediamo crescere al nostro fianco i bambini della touch generation: siamo a cavallo tra due mondi e se da un lato siamo attratti dalle nuove proposte della tecnologia, dall’altro ne siamo un po’ spaventati.

L’inquietudine nasce, secondo la mia opinione, dall’opacità con la quale la generazione web 2.0 (e le precedenti) guarda alle affordances offerte dal mondo social, perfettamente intellegibili e trasparenti agli occhi della touch generation. Gli schemi mentali sono le lenti attraverso le quali decifriamo la realtà: quelle della web generation (e della 2.0) sono state costruite in un ambiente differente, per questo leggono il nuovo ambiente in maniera un po’ opaca. Con questa chiave di lettura si può leggere il “problema”- erede.

 

L’erede

Se si decide di nominare un “social-erede”, nella rosa dei candidati si colloca un parente, un amico stretto, un fidanzato. Ciò accade se le stesse regole e usanze terrene vengono applicate al mondo digitale, applicando l’abitudine culturale per la quale si tramanda il proprio patrimonio (in questo caso virtuale) a chi ci sta a cuore. Eppure ciò che si lascia all’erede virtuale non è qualcosa come una casa, un semplice pezzo di terra, dei soldi, etc.

All’erede si concede l’onore di possedere una parte di identità, che egli comincia a gestire come propria. L’erede pubblica una foto dal suo profilo e, contemporaneamente, fissa un post in alto su quello della persona cara venuta a mancare. Ecco che l’onore si trasforma in un onere pesante e sorgono spontanei alcuni interrogativi. Ad esempio: in che modo si elabora il lutto di un utente-fantasma? Ci si muove su un terreno di ricerca ancora inesplorato, ma è chiaro che se già è complesso elaborare la morte di una persona cara, lo sarà ancora di più se ci si imbatte costantemente nella sua identità virtuale. Un’altra situazione che potrebbe verificarsi è la seguente: al momento Facebook dà la possibilità di nominare come erede uno dei propri amici. Ma l’amico Facebook non è necessariamente un amico o un parente nella vita reale. E se per qualche assurda ragione un utente decidesse di designare come erede uno sconosciuto appartenente agli amici?

Non è obbligatorio accettare la condizione di contatto erede, dunque si può anche cortesemente rifiutare l’offerta del nostro amico, parente, marito o sconosciuto amico di Facebook. Ma nel caso si decida di accettare è necessario tener conto di tutte le possibili conseguenze, fantasmi compresi.

Il disturbo dell’estinzione visiva e la negligenza spaziale unilaterale

Con il termine estinzione visiva ci si riferisce a un disturbo conseguente ad una lesione cerebrale unilaterale, tale per cui il soggetto sperimenta l’incapacità di identificare uno stimolo proposto nello spazio opposto a quello della lesione, quando contemporaneamente nello spazio ipsilesionale viene presentato ad un altro stimolo.

Diletta Maria Ghisleri, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il paziente affetto da Negligenza Spaziale Unilaterale [blockquote style=”1″]si comporta come se non fosse più in grado di percepire e concepire l’esistenza di un lato dello spazio egocentrico, corporeo ed extracorporeo [/blockquote](Bisiach, 1996).

In ambito neuropsicologico si sente parlare spesso di Sindrome Spaziale Unilaterale – NSU o Neglect Spaziale, ma poco conosciuta è una sindrome spaziale simile alla NSU, ma che assume una propria autonomia diagnostica: il disturbo dell’ estinzione in condizioni di doppia stimolazione.
Entrambi i deficit sono classificabili all’interno della più ampia categoria dei disturbi dell’attenzione spaziale e dal punto di vista eziopatogenetico sono frequenti soprattutto dopo lesione cerebrale, ciascuno con specifiche aree neurali interessate.

 

Cos’è il disturbo dell’ Estinzione visiva?

Il concetto di estinzione è stato introdotto all’interno del panorama medico/neurologico da H. Oppenheim nel 1885, nonostante l’esposizione del primo caso clinico nel 1884 si debba a J. Loeb (Benton, 1956).

Con il termine estinzione visiva ci si riferisce a un disturbo conseguente ad una lesione cerebrale unilaterale, tale per cui il soggetto sperimenta l’incapacità di identificare uno stimolo proposto nello spazio opposto a quello della lesione, quando contemporaneamente nello spazio ipsilesionale viene presentato ad un altro stimolo. Con la presentazione simultanea di due target, il soggetto riporta la presenza del solo stimolo ipsilesionale, mentre lo stimolo controlesionale è apparentemente ignorato, o estinto (Bisiach, 1991). Questi stessi pazienti rispondono correttamente ai medesimi target visivi, uditivi o tattili controlesionali se proposti isolatamente (in assenza di altri deficit, es. riduzione campimetrica).

Nell’ estinzione il paziente non ha disturbi visivi primari: quando vengono presentati stimoli singoli nel campo visivo destro o nel campo visivo sinistro, è in grado di riportarne la presenza e le caratteristiche fisiche e semantiche (es. dimensione, colore, cosa è, etc).
Storicamente il disturbo dell’ estinzione al doppio stimolo è stato correlato alla sindrome da negligenza spaziale unilaterale, definito in particolare come difficoltà residua nell’esplorazione dello spazio controlesionale, in seguito ad un programma riabilitativo del neglect (Heilman e coll., 1993).

 

Correlati neurali dell’estinzione visiva

Nonostante le similarità delle manifestazioni sintomatologiche, sono molte le evidenze che suggeriscono che neglect e disturbo dell’ estinzione visiva vadano considerate come condizioni patologiche distinte. Alcuni studiosi hanno infatti testato pazienti che mostravano i sintomi di una sola delle due condizioni cliniche, in particolare il disturbo dell’ estinzione visiva senza sindrome spaziale unilaterale (Ogden, 1985), dimostrando che estinzione e neglect sono due deficit doppiamente dissociabili.

Si osserva inoltre che, mentre il neglect è spesso conseguente a lesioni a carico dell’emisfero destro ed interessa l’emispazio sinistro, il disturbo dell’ estinzione è riscontrabile in seguito a lesioni parietali sia destre che sinistre con egual frequenza e può interessare pertanto entrambi gli emispazi visivi. Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato che le manifestazioni cliniche di neglect ed estinzione hanno differenti basi neurali. Vallar e coll. (1994) hanno evidenziato che i correlati anatomici del disturbo dell’ estinzione non sono confinati a lesioni corticali che coinvolgono la corteccia parietale, ma possono coinvolgere le strutture sottocorticali profonde. In una ricerca proposta da questi autori, i pazienti con disturbo dell’ estinzione – senza neglect presentavano con maggior frequenza danni alla sostanza bianca paraventricolare e alla corteccia frontale dorso-laterale; nel caso di coesistenza tra neglect ed estinzione la lesione si sovrapporrebbe al lobulo parietale inferiore. Uno studio di neuroimmagine di Karnath e coll. (2009), ha indicato la giunzione temporo-parietale come substrato neurale interessato nell’ estinzione visiva.

 

Manifestazioni cliniche

E’ possibile considerare l’ estinzione come un fenomeno la cui espressione clinica è osservabile in differenti domini: alcuni studi presenti in letteratura dimostrano come siano possibili dissociazioni selettive e specifiche per ciascuna modalità sensoriale, dipendenti dai circuiti cerebrali specifici coinvolti.
Un paziente può mostrare contemporaneamente estinzione somatosensoriale (Critchley, 1949), visiva, uditiva e gustativa oppure riportare il manifestarsi dell’estinzione in un unico dominio (De Renzi e coll., 1984).
Il fenomeno dell’ estinzione non è osservabile esclusivamente all’interno dei domini sensoriali, ma può interessare anche il dominio motorio. Si parla infatti di estinzione motoria quando il paziente riesce ad utilizzare entrambe le braccia singolarmente, ma fallisce nell’usare l’arto controlesionale quando gli si chiede di muovere contemporaneamente entrambi gli arti superiori.

 

Interpretazioni del deficit

Le interpretazioni causali del disturbo dell’ estinzione visiva sono controverse, in generale vengono a contrapporsi due correnti di pensiero: la prima supporta una “teoria sensoriale”, mentre la seconda una “teoria attenzionale”.

Secondo la prospettiva sensoriale, il processo di estinzione visiva sarebbe ricollegabile ad un’elaborazione incompleta e inadeguata degli stimoli, a carico dell’emisfero danneggiato. Data la caratterizzazione crociata delle principali vie sensoriali, gli stimoli presentati controlateralmente all’emisfero danneggiato risulterebbero sottoposti ad un’elaborazione deficitaria già durante le prime fasi dell’analisi (Batterby e coll., 1956). La presenza di un deficit sensoriale potrebbe spiegare la diversa capacità dei pazienti nel rilevare stimoli presentati singolarmente, piuttosto che in condizione bilaterale (Farah e coll., 1991).

Le ipotesi attenzionali rimandano alle teorie di Kinsbourne (1987) e sostengono che il disturbo sarebbe evidenza di un meccanismo competitivo per l’utilizzo di risorse attenzionali limitate: il danno cerebrale causerebbe un’alterazione dell’equilibrio delle risorse e a causa di tale modificazione lo spazio ipsilesionale risulterebbe prominente. La presentazione di uno stimolo ipsilesionale catturerebbe l’attenzione, sopprimendo la percezione consapevole dello stimolo controlesionale considerato meno saliente. Per singoli target, la competizione non si attiverebbe e gli stimoli sarebbero normalmente elaborati.

Le teorie interpretative più recenti avvalorano l’ipotesi attenzionale: rimandando alle interpretazioni della negligenza spaziale unilaterale come disturbo dell’attenzione, questi modelli definiscono il disturbo dell’ estinzione come riflesso di un disordine di rappresentazione spaziale (Smania e coll., 1996). A sostegno di questa ipotesi, alcuni lavori recenti hanno evidenziato la possibilità di modulare il fenomeno dell’ estinzione attraverso alcuni fattori specifici, ad esempio mediante l’orientamento volontario dell’attenzione spaziale (Di Pellegrino e De Renzi, 1995).

 

Elaborazione senza consapevolezza nel disturbo dell’ estinzione

L’ estinzione è stata spesso ricondotta ad un disturbo a livello della consapevolezza percettiva. Uno dei quesiti più interessanti è: l’ estinzione in doppia stimolazione prevede una perdita totale dell’informazione presente nello spazio contro-lesionale oppure avviene un qualche tipo di elaborazione anche solo a livello elementare?

In uno dei primi studi effettuati, Volpe e collaboratori (1979) sottoposero 4 soggetti, che riportavano una lesione cerebrale destra, ad un test di giudizio di valore uguale/diverso relativamente a due stimoli complessi. La risposta di questi pazienti riportava l’assenza degli stimoli proiettati nell’emicampo visivo sinistro, quando uno stimolo concorrente era contemporaneamente presentato nell’emicampo destro. Nonostante ciò, gli stessi pazienti se spinti a rispondere, erano in grado di dare i giudizi di valore uguale/diverso relativi agli stimoli presentati, presentando un elevato grado di adeguatezza. Se ne ipotizzò che in assenza di elaborazione a livello percettivo e consapevole, le caratteristiche fisiche degli stimoli potevano superare la soglia dei sistemi sensoriali ed essere in qualche modo processate.

Uno studio confermativo di Berti e coll. del 1992 effettuato su di un singolo paziente, ha rilevato che gli stimoli presentati ed “estinti” dal soggetto potevano raggiungere un livello di elaborazione molto elevato, in assenza tuttavia di coscienza per il prodotto dell’elaborazione stessa.
Ciò ha permesso di inscrivere il fenomeno dell’ estinzione visiva tra i disordini dominio-specifici della consapevolezza.

Ricci e Chatterjee (2004) hanno sottolineato come un compito che richiede l’identificazione semantica di stimoli visivi, risulti più sensibile nel rilevare la presenza dell’ estinzione visiva rispetto ad un compito di semplice detezione dell’input (in cui si prevedono giudizi di presenza/assenza stimoli mono o bilaterali). Un soggetto che riesce positivamente in compiti di detezione, potrebbe manifestare l’ estinzione visiva in condizioni di doppia stimlazione, in un compito identico in cui è tuttavia richiesta l’identificazione semantica dei medesimi stimoli (quindi un livello di elaborazione superiore). Questo fenomeno letto all’inverso indica che un soggetto che nei test per l’ estinzione visiva fallisce il compito di identificazione del doppio stimolo durante stimolazione bilaterale, potrebbe rilevare correttamente entrambi gli input in un compito che richieda un grado di elaborazione inferiore (es. detezione).

Questo esperimento può essere visto come un’ulteriore prova di come il fenomeno dell’ estinzione visiva sia osservabile a diversi livelli di elaborazione dell’informazione in entrata e strettamente associato a diversi livelli di consapevolezza.

Il pianto del bambino e il funzionamento cognitivo dell’adulto

Pianto del bambino: Come Charles Darwin e molti altri studiosi hanno osservato, i bambini hanno la capacità di attirare la nostra attenzione, in particolare tramite il pianto. Ma come la valenza emotiva dei segnali vocali infantili colpisca la cognizione e l’attività corticale nell’adulto non è ancora stato sufficientemente indagato.

 

L’esperimento con il test di Stroop

Pertanto Dudek e colleghi, in collaborazione con l’Università di Toronto, hanno condotto uno studio proprio con lo scopo di comprendere quali sono gli effetti che il pianto del bambino può causare alla cognizione dell’adulto.

Nel corso dell’esperimento è stato chiesto ai partecipanti di ascoltare due vocalizzazioni infantili differenti, una di un bambino che ride e l’altra di un bambino che piange, e successivamente di svolgere un compito. Nello specifico il compito richiesto era il Test di Stroop, ai soggetti veniva richiesto di identificare il più rapidamente possibile il colore delle parole stampate ignorando il significato della parola stessa. Durante l’esecuzione del test è stata misurata l’attività cerebrale utilizzando l’elettroencefalogramma (EEG).

 

I risultati dello studio

I risultati hanno evidenziato un effetto interferenza maggiore sul compito da parte del pianto del bambino rispetto alla risata, innescando così un maggiore conflitto con l’elaborazione cognitiva da parte dell’adulto. Si tratta di un dato molto importante, in quanto l’elaborazione cognitiva è fondamentale per controllare l’attenzione, ovvero una delle funzioni esecutive di base più importanti per l’uomo, in quanto ci consente di completare un compito o di prendere una decisione.

Come sottolinea Joanna Dudek, i genitori sono tutti i giorni intenti a dover prendere decisioni e a dover prestare attenzione nei confronti dei loro bambini. Questo può capitare in qualsiasi momento nell’ arco della giornata, come ad esempio quando suona il campanello e il loro bambino inizia a piangere. Come fanno a mantenere la calma, a rimanere lucidi e a sapere quando è il momento di agire o di badare al loro bambino?

Lo studio ha dimostrato come il pianto del bambino possa causare avversione negli adulti, ma come dichiara Haley è possibile ipotizzare che esso attivi nei genitori “un’accensione” del controllo cognitivo con lo scopo di rispondere efficacemente ai bisogni emotivi del loro bambino, riuscendo contemporaneamente a rispondere anche alle altre richieste della vita quotidiana. Potrebbe essere proprio questa flessibilità cognitiva a permettere ai genitori di passare rapidamente dalle esigenze del proprio figlio alle richieste della vita di tutti i giorni, che paradossalmente può anche significare ignorare momentaneamente il bambino. Qualora l’ipotesi non sia corretta Haley aggiunge che comunque, in alternativa, potrebbe essere insegnato ai genitori come concentrare la loro attenzione in maniera maggiormente selettiva.

 

Pianto del bambino e funzioni cognitive: conclusioni

Il presente studio è il primo a esaminare gli effetti delle vocalizzazioni infantili sull’attività neurale nell’adulto durante un compito cognitivo, per cui si tratta di informazioni davvero preziose che si vanno a sommare ad un crescente corpo di ricerca che suggerisce come i neonati occupino uno status privilegiato nella nostra programmazione neurobiologica, e di come questo sia profondamente radicato nella nostro passato evolutivo. Il risultato finale, come dichiara Haley, è la rivelazione di un’importante funzione cognitiva adattiva del cervello umano.

I pattern cerebrali posso predire la velocità di apprendimento di una nuova lingua

Secondo una recente ricerca, pubblicata su Brain and Language e condotta all’Università di Washington, registrando per 5 minuti l’attività cerebrale a riposo per mezzo dell’elettroencefalogramma (EEG) è possibile predire quanto velocemente un adulto possa imparare una seconda lingua.

 

Introduzione

Lo studio è stato finanziato dal U.S. Office of Naval Research, che ha fondato il programma chiamato Operational Language and Cultural Training System (OLCTS), nel tentativo di rendere il personale militare capace di comunicare in una lingua straniera dopo appena 20 ore di lezione.
Per capire come è stato possibile rintracciare questa correlazione, è bene spiegare prima la metodologia impiegata dai ricercatori.

Avvalendosi dell’analisi quantitativa dell’elettroencefalogramma (qEE), è possibile convertire la registrazione elettrofisiologica dal dominio del tempo (time domain) al dominio delle frequenze (frequency domain). Così facendo, si ottengono delle bande di frequenza, corrispondenti all’attività cerebrale cognitivamente rilevante per il compito che prendiamo in esame. Sebbene sia chiaro che le differenti bande partecipano alle funzioni di un unico network cerebrale, il ruolo di ognuna all’interno di un complesso compito cognitivo (ad es., esprimersi in una lingua straniera) rimane un’area di ricerca aperta. Riguardo i compiti linguistici, alcuni studi hanno evidenziato il ruolo del ritmo della banda beta (13-30 Hz) e della banda theta (4-8 Hz); ciò non stupisce se si comprende che entrambe le bande sono implicate nella codifica e nel recupero mnestico.

 

Lo studio

Scopo di questo studio era quindi indagare la relazione tra l’attività a riposo del cervello, evidenziata dalle bande di frequenza dell’EEG, e la predisposizione ad acquisire più o meno velocemente una lingua straniera.

L’esperimento in questione ha coinvolto 19 adulti con età compresa tra 18 e 31 anni, senza alcuna precedente nozione di lingua francese, e prevedeva che essi sedessero con gli occhi chiusi e venisse registrata per 5 minuti l’attività cerebrale a riposo per mezzo di una cuffia EEG. Precedenti ricerche, infatti, avevano rintracciato come l’efficienza e la sincronizzazione cerebrale fossero caratteristiche stabili presenti nei soggetti più dotati nell’acquisire nuove lingue; gli indici qEEG sono infatti altamente ereditabili e predittivi della performance ad una grande varietà di test cognitivi. Sulla base di tali premesse, i soggetti partecipavano ad un corso virtuale ed intensivo di francese di 30 minuti a seduta erogato due volte la settimana presso il laboratorio dell’università, per un periodo complessivo di 8 settimane.

Esso si componeva di una serie di scene e storie in aggiunta ad un software di riconoscimento vocale in grado di correggere la pronuncia del soggetto. Per assicurarsi che i partecipanti mantenessero l’attenzione sul corso, i ricercatori impiegavano dei quiz tra una lezione e l’altra, che permettevano al soggetto di accedere alla lezione successiva a patto di aver totalizzato un determinato punteggio al test precedente. Al termine delle 8 settimane, ogni soggetto svolgeva una verifica sulla base delle lezioni completate.

L’articolo prosegue dopo il video:

I risultati

Le registrazioni EEG hanno rivelato che i pattern di attività cerebrale correlati ai processi linguistici erano fortemente relati al ritmo di apprendimento dei partecipanti. Tuttavia la predisposizione ad acquisire una nuova lingua non è così indispensabile, afferma la dott.ssa Chantel Prat, ricercatrice presso l’Institute of Learning & Brain Sciences. Infatti, la varianza spiegata dall’attività cerebrale risultava pari al 60%, valore che lascia perfettamente spazio ai fattori ambientali, modificabili dall’individuo stesso.

Per tale motivo, variabili come la motivazione dell’individuo risultano determinanti nell’acquisire una nuova lingua. In aggiunta, Prat sottolinea che l’attività a riposo del cervello è influenzabile da svariati training di neurofeedback – i cui effetti sono oggi oggetto di studio presso il laboratorio dell’Università di Washington. Infatti, ad oggi la specificità di tali training sulle capacità di apprendimento linguistico è bassa; l’obiettivo del team della dott.ssa Prat è quindi indagare quelle differenze individuali che maggiormente influenzano l’apprendimento di una nuova lingua, al fine di sviluppare training più efficaci.

Quella pazza gioia di Virzì: splendido ritratto della follia e della disperazione

La pazza gioia: Colpiscono le due figure di donne, splendidi ritratti di follia e disperazione, di mancanza di limiti, di folle ricerca di una gioia impossibile che poi, paradossalmente, proprio grazie a quella follia che rifiuta ogni limite, sembra diventare possibile.

Valeria Bigarella

 

Che Virzì fosse un genio, capace di dipingere ritratti estremamente realistici, al tempo stesso comici e commoventi, dei più svariati personaggi, lo si sapeva già.
Questa volta si è cimentato con la salute mentale, e non ha certo mancato l’obiettivo.
Del film La pazza gioia colpiscono molte cose, non ultima la bellezza degli scenari toscani, dalle campagne pistoiesi al mare. Mare che ha sempre il ruolo di “momento di svolta” nella storia di Donatella, una delle due protagoniste.

ATTENZIONE: L’articolo svela parti della trama del film

 

I personaggi de La pazza gioia

Ma soprattutto colpiscono le due figure di donne, splendidi ritratti di follia e disperazione, di mancanza di limiti, di folle ricerca di una gioia impossibile che poi, paradossalmente, proprio grazie a quella follia che rifiuta ogni limite, sembra diventare possibile.

Beatrice è letteralmente incontenibile: non smette mai di parlare, giudica tutto e tutti, si sente in pieno diritto di violare ogni tipo di norme e regole, si sente al di sopra degli altri. Ma è anche una donna intelligente: è assolutamente fantastica la scena in cui si presenta alla famiglia adottiva a perorare la causa dell’amica riuscendo a farsi passare per la psicologa e a farsi ascoltare, o la scena in cui si presenta a Donatella come la psichiatra della comunità. Perchè è così, i folli a volte sono convincenti: credono così ciecamente in ciò che dicono, oppure sono così motivati a mentire, spinti da un bisogno impellente e patologico, che saremmo portati a creder loro, se poi non ci fosse la realtà a smascherare le loro balle!

Beatrice piega le norme a beneficio suo e di chi decide di volta in volta di favorire, in modo talvolta molto generoso, come fa con Donatella, ma anche con l’uomo per il quale ha sacrificato tutto e nel cui amore si ostina a credere, ciecamente, contro ogni evidenza. E questo è l’altro aspetto della sua patologia: il legame delirante e distruttivo con quell’uomo che l’ha sfruttata e rovinata, ma che lei continua a cercare.

 

Il rapporto tra le due protagoniste

Si potrebbe azzardare una lettura in chiave femminista del film, perché una cosa che accomuna le due protagoniste è proprio l’essersi rovinate la vita a causa di uomini che le hanno sfruttate e abbandonate. Non solo i rispettivi amanti, ma anche il padre stesso di Donatella, che l’ha abbandonata da piccola e che lei continua a idealizzare e a cercare.

Ma sarebbe una lettura riduttiva e semplicistica. Il profondo malessere di entrambe ha radici molto più lontane e profonde: nell’infanzia, nelle storie di solitudine e abbandono (soprattutto di Donatella), ma ha anche una componente genetica, chiaramente espressa dalla battuta “sono nata triste”.

Succede spesso nelle comunità terapeutiche che si creino dei forti legami tra pazienti e questo purtroppo non è sempre un bene. Spesso accade che la “caduta” di uno travolga anche l’altro, che uno sia coinvolto dai “colpi di testa” dell’altro, come accade a Donatella, trascinata da Beatrice in una fuga che le costa molto cara. Il lieto fine, qui, appare forse un po’ forzato. Credo che Virzì ne La pazza gioia abbia fatto questa scelta per lasciare un messaggio di speranza e di incoraggiamento, di fiducia nella possibilità di curarsi e stare meglio, a partire da una scelta di vita e dalla costruzione di buone relazioni terapeutiche. Fondamentale qui il ruolo della comunità, di cui è enfatizzato l’aspetto materno e di accoglienza. La possibilità di riscatto, di salvezza, che c’è, se si accetta l’aiuto che viene offerto.

 

L’articolo continua dopo il trailer de La pazza gioia (2016):

La realtà delle comunità terapeutiche

Per quanto il messaggio sia certamente condivisibile, mi sento però di precisare che la realtà delle comunità terapeutiche e in particolare i percorsi dei pazienti soggetti a restrizioni giudiziarie sono un po’ più dure di quanto descritto. Il clima è senz’altro quello, le relazioni che si creano sono molto intense, sia quelle tra pazienti che quelle col personale, che spesso si prodiga anche oltre quanto strettamente dovuto; anche le attività sono ben rappresentate. Ma le regole (per quanto possano variare da struttura a struttura) sono molto più rigide: denaro e cellulari in genere non circolano liberamente, ma sono custoditi dal personale e utilizzati sotto sorveglianza; i farmaci non sono distribuiti negli spazi comuni, dove possono essere scambiati come caramelle, ma in infermeria, dove i pazienti entrano uno alla volta e si controlla che ciascuno assuma i suoi; se ci fosse una cantina con del vino sarebbe accuratamente sotto chiave e non basterebbe creare un diversivo per entrarvi; e in caso di fuga, in particolare di chi ha misure giudiziarie, si avvisano immediatamente autorità competenti e forze dell’ordine, qualsiasi operatore è tenuto a farlo subito, non si aspetta certo di riunirsi per discuterne! Anche volendo fare uno strappo alla regola, si potrebbe al massimo aspettare mezz’ora per cercarli nelle vicinanze, ma non trovandoli scatterebbe immediatamente l’allarme. E a cercare i fuggitivi sarebbero polizia e carabinieri, non il personale della struttura, in piena notte, a 100 km di distanza!

Lo dico anche per rassicurare il grande pubblico sul fatto che i cosiddetti “pazzi criminali”, le figure più temute dell’immaginario comune, non fuggono così facilmente.
Però soffrono proprio così. Hanno quegli occhi, quei volti, quel dolore, quelle storie.

A Virzì il grande merito di averle raccontate e descritte in modo esemplare ne La pazza gioia, di aver dato un volto umano a quelli che sono di solito percepiti solo come “mostri”, privi di umanità, esseri alieni con i quali non si può comunicare. No, i “pazzi criminali” sono persone come noi, ma con una malattia pesante e spesso con storie drammatiche di abbandono e sfruttamento. Curarli, fare il tutto possibile per la loro riabilitazione, è dovere della società e di chi, come noi terapeuti, ha scelto questo mestiere.

La fantasia dei bambini: la capacità dei più piccoli di discriminare eventi reali e immaginari e relative implicazioni a livello clinico

I bambini si trovano quotidianamente costretti a distinguere la realtà dalla fantasia e devono comprendere che ciò che leggono nei libri o vedono in televisione potrebbe non riflettere la realtà, la ricerca ha preso in esame vari aspetti della fantasia dei bambini e della loro capacità di discriminare situazioni immaginarie da quelle reali.

Marika Di Egidio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I bambini si trovano quotidianamente costretti a distinguere la realtà dalla fantasia. Devono comprendere che ciò che leggono nei libri o vedono in televisione potrebbe non riflettere la realtà, che gli eventi di un gioco di finzione sono esclusivo frutto della fantasia e che le conversazioni di ogni giorno possono contenere informazioni reali o false.

La ricerca ha preso in esame vari aspetti della capacità dei bambini di discriminare le informazioni fantastiche da quelle reali, in particolare la distinzione tra entità reali o fiabesche (Skolnick & Bloom, 2006, 2009; Tullos & Wooley, 2009; Wooley & Cox, 2007), il credere in amici immaginari (Taylor, Shawber, & Mannering, 2009), la comprensione del concetto di magia (Browne & Wooley, 2004; Subbotsky & Slater, 2011), la capacità di differenziare eventi improbabili e impossibili (Cook & Sobel, 2011) evidenziando un incremento di tale abilità all’aumentare dell’età. In genere, la fantasia dei bambini in età prescolare è più vivida e fanno più fatica a discriminare con precisione e immediatezza la realtà dalla fantasia.

Nonostante le difficoltà dovute all’età, anche i bambini più piccoli sembrano comunque in grado di identificare a grandi linee il confine tra realtà ed eventi fantastici. Questo è vero soprattutto per informazioni che non hanno particolare valenza emotiva.

 

 

Fantasia dei bambini ed emozioni

Vari studi hanno infatti messo in luce come la competenza dei bambini nel discriminare la realtà dalla fantasia si riduca in presenza di informazioni capaci di evocare emozioni. Ad esempio, se a bambini dai 4 ai 7 anni viene chiesto di immaginare personaggi buoni o cattivi (es. pupazzi, mostri) all’interno di scatole vuote, essi preferiscono immaginare scatole contenenti entità positive piuttosto che negative. Questo dato suggerisce che la reazione emotiva dei bambini di fronte alla richiesta di immaginare personaggi buoni o cattivi favorisce la confusione tra realtà e fantasia dei bambini, rafforzando nei bimbi l’erronea convinzione che le entità immaginate possano essere reali (Harris, Brown, Marriot, Whittal, & Harmer, 1991).

Altre ricerche hanno evidenziato che bambini di età compresa tra 3 e 5 anni a cui è stato chiesto di discriminare tra eventi reali spaventosi ed eventi fantastici neutri sono stati in grado di riconoscere gli eventi fantastici come non reali (Sayfan & Lagattuta, 2009) ma sono stati inaccurati nella valutazione degli eventi reali spaventosi, categorizzati come non veri (Samuels & Taylor, 1994). Questi risultati suggeriscono che la paura contribuisce a ridurre la capacità del bambino di discriminare la realtà dalla fantasia.

Samuel e Taylor (1994) hanno presentato a bambini di 3-5 anni immagini spaventose ed immagini neutre, entrambe le immagini potevano riguardare eventi reali o immaginari. Ai soggetti è stato chiesto di valutare se tali immagini rappresentavano eventi che sarebbero potuti accadere nella vita reale. E’ interessante notare che i bambini erano accurati nella valutazione delle immagini neutre (reali e fantastiche), ma erano inclini a commettere errori nella valutazione delle immagini spaventose ritenendo che il verificarsi di eventi reali fonte di ansia e paura fosse piuttosto improbabile.

Inoltre, i bambini che si erano maggiormente spaventati alla presentazione delle immagini spaventose tendevano a dare giudizi più inaccurati rispetto ai compagni che avevano provato meno paura.

Nel complesso, questi studi sulla fantasia dei bambini rivelano come le emozioni influenzino le valutazioni dei bambini influenzando la loro capacità di distinguere informazioni reali da elementi fantastici.

Sono state proposte diverse spiegazioni per questi dati. Una possibile spiegazione prende in considerazione l’ipotesi che le risposte dei bambini riflettano il tentativo di regolare l’arousal emotivo e ridurre l’intensità delle emozioni negative. Negando il possibile verificarsi di eventi negativi il bambino si sgancia psicologicamente da tali avvenimenti, riducendo così l’ansia che essi provocano in lui.

Un’ulteriore spiegazione valuta la possibilità che le risposte dei bambini rappresentino l’espressione del loro desiderio che si verifichino esclusivamente eventi positivi.

Una terza ipotesi prende in considerazione l’eventualità che le valutazioni dei bambini riflettano la loro esperienza, le loro conoscenze e le loro aspettative. Considerato che generalmente i bambini non fanno esperienza di eventi negativi, potrebbero non possedere conoscenze e aspettative relative a questi eventi e pertanto ritenere più bassa la probabilità che tali eventi possano verificarsi.

 

 

Come l’ambiente influenza la fantasia dei bambini

Infine, la distinzione tra realtà e fantasia dei bambini potrebbe essere influenzata da fattori ambientali, quali tradizioni culturali e incoraggiamento da parte degli adulti. I genitori tipicamente proteggono i loro bambini dalle esperienze negative e potrebbero attivamente dissuaderli dal credere in entità negative, in modo da evitare  che i propri figli provino ansia o altre emozioni negative. Al contrario, i genitori tendono a promuovere il fatto che i bambini credano all’esistenza di personaggi buoni, quali Babbo Natale o la Fatina dei denti.

E’ stato messo in luce che l’incoraggiamento da parte dei genitori a credere in entità fantastiche positive incrementa le credenze dei bambini circa queste entità. È quindi possibile che gli errori di valutazione dei bambini riflettano l’atteggiamento dei genitori, la cultura e l’educazione ricevuta (Zisenwine, 2013).

 

 

Fantasia dei bambini e processi cognitivi

Le ricerche hanno valutato anche la possibilità che determinati processi cognitivi possano influenzare l’abilità dei bambini di distinguere tra realtà e fantasia.

Secondo Wooley (1997), emozioni intense potrebbero influenzare il processo cognitivo alla base della distinzione tra realtà e immaginazione spingendo i bambini a credere che entità appartenenti al mondo della fantasia possano esistere anche nella realtà.

Un altro processo cognitivo che potrebbe far luce sulla capacità di distinguere tre realtà e fantasia dei bambini fa riferimento all’euristica della disponibilità di Kahneman e Tversky, per cui gli oggetti o gli eventi facilmente richiamabili alla mente tendono a essere valutati come più comuni e probabili.

Se si applica questo principio all’abilità dei bambini di discriminare la realtà dalla fantasia è possibile ipotizzare che immaginare qualcosa accresca la sua disponibilità cognitiva, incrementando la tendenza a considerare gli elementi immaginati come reali. Quindi, quando i bambini visualizzano stimoli spaventosi questi diventano accessibili e sono di conseguenza percepiti come reali (Zisenwine, 2013).

 

 

Discriminazione tra realtà e fantasia dei bambini: implicazioni cliniche

La capacità dei bambini di discriminare tra realtà e fantasia sembra avere importanti implicazioni anche a livello clinico.

Vari studi hanno messo in luce una relazione tra deficit nelle capacità di discriminazione realtà-fantasia e  lo sviluppo di paure notturne e disturbi d’ansia correlati.

Le paure notturne sono in genere rappresentate dalla paura di separazioni notturne, da paura del buio, paura di dormire o di fare incubi.

Le paure notturne sono una normale parte dello sviluppo del bambino (Muris, Merckelbach, Olendick, King, & Bogie, 2001). Tuttavia, è stato stimato che il 20% dei bambini hanno severe paure notturne e problemi del sonno (Gordon, King, Gullone, Muris, & Ollendick, 2007). Se queste paure rimangono non trattate, potrebbero persistere e avere effetti negativi sullo sviluppo del bambino sfociando in disturbi d’ansia nella tarda infanzia e in adolescenza e correlandosi a difficoltà nel funzionamento quotidiano, difficoltà sociali e accademiche, bassi livelli di autostima, depressione e, in alcuni casi, abuso di droghe (Zisenwine, 2013).

Zisenwine et al. (2013) evidenziano che la capacità di discriminare tra realtà e fantasia dei bambini migliora con l’età. I bambini di 5 anni sono più confusi rispetto ai bambini al di sopra di tale sogli d’età. Come descritto da Piaget, sembra che i bambini più piccoli siano particolarmente suscettibili al pensiero magico a causa della loro immaturità cognitiva. Inoltre Zisenwine et al. (2013) mettono in luce un ritardo nello sviluppo delle abilità di discriminazione realtà-fantasia dei bambini con paure notturne. I bambini che soffrono di paure notturne tendono a fare maggiore confusione tra fantasia e realtà rispetto ai coetanei che non presentano tale problematica.

L’associazione tra paure notturne e deficit di discriminazione fantasia-realtà potrebbe avere diverse origini. È possibile, ad esempio, che uno sviluppo deficitario dell’abilità di distinguere la fantasia dalla realtà contribuisca all’emergere e al persistere della paure nei bambini. L’incertezza dei bambini rispetto all’esistenza di entità magiche come streghe, fantasmi e mostri potrebbe generare e mantenere le paure nei confronti di queste creature.

In alternativa, è plausibile che paure particolarmente intense intralcino lo sviluppo e l’esercizio delle abilità di discriminazione realtà-fantasia dei bambini. Wooley (1997) ritiene che le emozioni intense esperite dai bambini che soffrono di paure notturne o fobie influenzino negativamente la loro capacità di comprendere che gli eventi o le entità immaginate non sono reali, soprattutto se tali stimoli sono associati a emozioni negative.

I dati sulla bassa capacità di distinguere tra realtà e fantasia dei bambini con paure notturne hanno significative implicazioni cliniche. Una potenziale implicazione potrebbe essere che l’incremento delle abilità di discriminazione fantasia-realtà potrebbe essere uno degli obiettivi da perseguire nel trattamento di bambini con paure notturne.

Un’altra implicazione è relativa alla possibilità di utilizzare tecniche immaginative nel lavoro con i soggetti che presentano tale problematica. È stato dimostrato che i bambini tendono a usare l’immaginazione per affrontare le loro paure. Studi recenti hanno evidenziato che dare ai bambini una bambola di pezza raccontando loro una storia correlata a questa figura è in grado di aiutare i bimbi a fronteggiare eventi di vita stressanti, determinando una significativa riduzione delle paure notturne nei soggetti analizzati.

 

 

Percorsi terapeutici

La terapia cognitivo comportamentale è la prima linea di trattamento per i bambini con paure e disturbi d’ansia. Desensibilizzazione sistematica, esposizione in vivo, ristrutturazione cognitiva, rinforzo e modellaggio sono tutte tecniche efficaci per il trattamento dell’ansia (Davis & Ollendick, 2005).

Anche la biblioterapia è stata identificata come un approccio alternativo al trattamento di bambini e adolescenti con varie forme di pscicopatologia (Rickwood & Bradford, 2011).

La biblioterapia consiste nell’uso di libri come parte integrante della terapia per il trattamento dei disordini mentali. La teoria alla base dell’utilizzo della biblioterapia si fonda sull’assunto che la lettura di materiali relativi alle aree problematiche può produrre cambiamenti specifici e prevedibili (Lenkowsky, 1987), riducendo l’ansia e rafforzando le strategie di coping.

La biblioterapia richiede abilità di lettura e comprensione del testo, quindi nel caso di bambini in età prescolare che non hanno ancora tali capacità è tipicamente demandata ai genitori che saranno chiamati a narrare storie e racconti ai propri figli.

Lewis et al. (2015) hanno sottoposto un gruppo di bambini di età compresa tra 5 e 7 anni con paure notturne e ansia a un intervento di quattro settimane basato sull’utilizzo della biblioterapia. Ai genitori dei bambini partecipanti è stato chiesto di narrare ai propri figli una serie di storie appositamente selezionate dagli sperimentatori. Il confronto tra le valutazioni pre-trattamento e post-trattamento hanno messo in luce una significativa riduzione delle paure notturne e dei sintomi d’ansia manifestati dai bambini.

Questi dati sono incoraggianti, rappresentano un valido esempio di integrazione tra ricerca e pratica clinica evidenziando come i risultati derivati dalla letteratura che ha esaminato le competenze di discriminazione realtà-fantasia dei bambini possano essere un valido punto di partenza per integrare l’attività del clinico con nuovi obiettivi di lavoro raggiungibili attraverso il ricorso a tecniche cognitivo comportamentali classiche e alternative, quali la biblioterapia.

Festival Psicologia – Stiamo Fuori! – Desidera, Progetta, Realizza

Nelle principali piazze romane sono stati posizionati strategici punti di informazione e consulenza, identificati da simboli dell’Ordine degli Psicologi; sotto ad ogni gazebo, si trova personale a disposizione per ogni tipo di chiarimento e dubbio.

[blockquote style=”1″] Il Festival della Psicologia incontra le persone per strada e nelle piazze, aperto agli stimoli della società, in dialogo con i dubbi, i progetti e i desideri delle persone, capace di facilitare processi di cambiamento e promuovere qualità di vita e lavoro.[/blockquote]

Si presenta cosi la home page sul sito del Festival, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio, durante le giornate del 23 e 24 maggio 2016; un’iniziativa che sia nella capitale che nella città di Torino, aveva già riscosso un enorme successo.
L’idea di base è ovviamente avvicinare la società alla psicologia, non intesa come materia scolastica, ma come concetto insito e imprescindibile dell’essere umano.
E’ un momento storico importante per la psicologia; infatti proprio in questi giorni, il Senato ha approvato il ddl Lorenzin, il quale inserisce la professione di psicologo nell’ambito delle professioni sanitarie.

Nelle principali piazze romane sono stati posizionati strategici punti di informazione e consulenza, identificati da simboli dell’Ordine degli Psicologi; sotto ad ogni gazebo, si trova personale a disposizione per ogni tipo di chiarimento e dubbio.

Come ambiti principali a cui la moderna psicologia pone maggiore attenzione, sono stati selezionati lo Sport, l’Alimentazione, la Scuola, il Lavoro, la Cronicità e la Perinatalità; queste sei tematiche sono state distribuite in tre differenti piazze con esperti disponibili per tutta la giornata.

Inoltre sul sito ufficiale dell’evento, sono scaricabili gratuitamente degli e-book, uno per ogni tema della manifestazione, che personalmente ho trovato completi e utili; in particolare l’e –book in materia Lavoro, dove sono raccolti preziosi consigli per chi si affaccia alla professione, per quanto concerne competenze personali, desideri e settori preferenziali, ma anche suggerimenti pratici sulla compilazione di un corretto curriculum.
Non è finita qui; l’iniziativa quindi promuove allo stesso tempo il benessere psicologico dei cittadini e l’attività lavorativa dei professionisti.

Gli psicologi, infatti, attraverso l’adesione al festival, hanno avuto modo di farsi conoscere e di offrire agli interessati, la possibilità di scaricare un voucher dalla pagina online, che consente loro un primo incontro gratuito con il professionista e l’applicazione di una tariffa agevolata per gli incontri successivi.
Un’iniziativa moderna e ben gestita, in cui si sottolinea sempre di più la necessità di una nuova idea di psicologia, una scienza che non si occupa solamente di gravi problematiche psichiche, ma che sostiene ogni tipo di persona, la accompagna fianco a fianco, promuovendo l’autonomia e il benessere.

Effetti del trauma emotivo sulla metacognizione e sulle funzioni esecutive – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Effetti del trauma emotivo sulla metacognizione e sulle funzioni esecutive

Fiammetta Monte, Monia Torrieri, Michela Grandori, Martina Torresi, Tatiana Bartolatto, Chiara Caruso, Tiziana Ciccioli, Clarice Mezzaluna

Introduzione

La sperimentazione di molteplici traumi, in particolare nei primi anni di vita, aumenta il rischio per lo sviluppo di disturbi cognitivi (Bremner et al., 1995;) e metacognitivi (Myers & Wells, 2015) e i deficit cognitivi interessano in particolar modo l’attenzione, la memoria, e le funzioni esecutive.

La compromissione delle funzioni esecutive è stata osservata in diversi adulti con Disturbo da stress post traumatico (DSPT). Tuttavia, un’importante limitazione di questi studi è il ricorso eccessivo a campioni clinici che corrono il rischio di enfatizzare eccessivamente gli effetti specifici della sintomatologia del DSPT sui deficit cognitivi a scapito degli effetti intrinseci del trauma. Infatti alcuni autori osservano che la semplice esposizione al trauma è in grado di produrre di per sé una compromissione delle funzioni esecutive (Navalta et al. 2006; Stein et al. 2002).

Myers e Wells (2015) hanno osservato che l’abuso emotivo correla positivamente e significativamente con alcune credenze metacognitive, determinando che le esperienze negative e in particolare l’abuso emotivo siano un fattore rilevante nello sviluppo problematico della metacognizione e del distress emotivo, a differenza di altre forme di trauma precoce, come l’abuso sessuale e fisico o gli eventi traumatici in generale come le malattie gravi, le quali non sono connesse alle credenze metacognitive e all’affettività negativa (Myers e Wells, 2015).

Nel modello dell’Autoregolazione delle funzioni Esecutive (Self-Reguatory Executive model S-REF; Wells e Matthews, 1994, 1996; Wells, 2000) i disturbi psicologici sono dovuti all’elaborazione prolungata di informazione negativa come strategia di coping. Questa elaborazione prolungata viene chiamata CAS (cognitive Attentional Sindrome) e consiste in rimuginio, ruminazione, e focus attentivo su minacce esterne ed interne. Questo stile cognitivo è determinato da un deficit delle funzioni esecutive che produce un’incapacità di controllare e monitorare i processi di pensiero disfunzionali (es. metacredenze positive e negative), rispettivamente tramite processi top down (controllo inibitorio, risoluzione del conflitto, correzione degli errori, pianificazione e allocazione delle risorse) e bottom-up (monitoraggio della fonte e detenzione degli errori), dando luogo a bias attentivi verso stimoli minacciosi e a delle strategie cognitive patologiche.

Lo scopo della ricerca è di analizzare gli effetti del trauma in soggetti adulti senza Disturbo Post traumatico da stress (PTSD) con eventi traumatici avvenuti prima dei 18 anni. E stato ipotizzato che i partecipanti con abuso emotivo abbiano rispetto ad altre tipologie di trauma punteggi più elevati al Metacognition Questionaire-30 e che presentino maggiore deficit delle funzioni esecutive (FE) (controllo inibitorio e flessibilità cognitiva).

 

Metodo

Gruppo sperimentale: 13 soggetti con trauma emotivo. Gruppo di controllo: 29 soggetti senza trauma emotivo. I soggetti sono stati divisi in due gruppi: Gruppo 1 (presenza trauma emotivo); Gruppo 2 (assenza trauma emotivo), considerando i punteggi ottenuti alla TEC.

Strumenti: TEC (Traumatic Experiences Checklist), Self-Report Symptom Inventory – Revised (SCL-90-R); State-Trait Anxiety Inventory-x (STAI-X); Beck Depression Inventory (BDI); Dissociative Experiences Scale-2 (DES-2); Metacognition Questionnaire (MCQ-30); Difficulties in Emotion Regulation Strategies (DERS); Emotional Inhibition Scale (EIS); Penn State Worry Questionnaire (PSWQ); Ruminative Response Scale (RRS); Davidson Trauma Scale (DTS), Span di cifre, Test di Stroop, Torre di Londra; Trial Making Test (TMT A -B), Wisconsin Card Sorting Test (WCST).

 

Risultati

I dati sono stati analizzati utilizzando un test non parametrico di Mann-Whitney per campioni indipendenti. I due gruppi differiscono significativamente tra loro per i valori ai test del Digit Span Forward (p< 0,01) e WCST (p< 0,01) rispetto agli errori perseverativi: in particolare il gruppo 1 presenta performance migliori per quanto riguarda la memoria di lavoro. Il gruppo 1 risulta inoltre meno perseverativo rispetto al gruppo 2.

 

Conclusioni E Limiti

La migliore performance osservata nel gruppo 1 risulta in conflitto con studi che individuano nei soggetti che hanno subito un trauma (con e senza PTSD) dei deficit delle FE (Bremner et. Al, 1995).

D’altra parte, coerentemente con il modello di Wells, i soggetti del gruppo 1, che non hanno deficit delle FE, non hanno sviluppato disturbi metacognitivi. Una possibile spiegazione potrebbe essere che, come sostiene Aupperle (Aupperle et al., 2011), un miglior funzionamento delle FE, potrebbe agire come fattore di protezione per lo sviluppo del PTSD. La migliore performance del gruppo 1 potrebbe essere altrimenti attribuibile ai maggiori livelli d’ansia. Sebbene non sia stata controllata l’ansia di tratto potremmo ipotizzare che secondo il fenomeno del mood congruity effect, aumenti l’accuratezza delle risposte sul Digit span e il WCST perchè gli stati affettivi emozionali determinano un aumento dell’arousal che porterebbe ad un maggior monitoraggio dell’informazione da elaborare, comportando quindi una migliore capacità di memorizzazione e una migliore pianificazione e flessibilità.

Limiti dello studio sono la bassa numerosità del campione e il mancato bilanciamento tra i due gruppi.

Il supporto familiare e gli amici aiutano a prevenire la depressione negli adolescenti

Tra i ragazzi che nell’infanzia hanno subìto bullismo e vissuto in contesti famigliari difficili, un ambiente famigliare supportivo e delle buone amicizie durante la prima adolescenza possono configurarsi come fattori protettivi per lo sviluppo della depressione nei tre anni successivi.

 

Tra i principali fattori di rischio per l’insorgenza della depressione durante l’adolescenza vi sono le avversità del contesto familiare sperimentate durante l’infanzia (i.e., un ridotto o assente affetto mostrato dai parte dei genitori, abusi di tipo emotivo, fisico o sessuale, problemi finanziari, disturbi psichici o la perdita di un membro della famiglia). Inoltre, il bullismo perpetuato da pari durante l’infanzia, in associazione alle esperienze negative di un contesto familiare difficile, condurrebbe ad un rischio ancor più elevato di sviluppare sintomi depressivi.

Stando alle conclusioni di un nuovo articolo pubblicato su Plos One, tra i ragazzi che nell’infanzia hanno subìto bullismo e vissuto in contesti famigliari difficili, un ambiente famigliare supportivo e delle buone amicizie durante la prima adolescenza possono configurarsi come fattori protettivi per lo sviluppo della depressione nei tre anni successivi.

I ricercatori del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Cambridge, infatti, hanno reclutato 771 adolescenti (322 maschi e 449 femmine) e, in uno studio longitudinale durato 3 anni, hanno esaminato l’effetto delle amicizie e i contesti famigliari supportivi all’età di 14 anni sui sintomi depressivi rilevati a 17 anni tra i ragazzi che avevano vissuto ambienti famigliari difficili e bullismo prima degli 11 anni.

I risultati, come spiegato dalla dott.ssa Anne-Laura van Harmelen, prima autrice dell’articolo, evidenziano come le esperienze familiari negative vissute nell’infanzia siano inversamente associate con il supporto familiare fornito all’età di 14 anni che, a sua volta, è negativamente associato alla presenza di sintomi depressivi all’età di 17 anni.

Inoltre, i risultati mostrano come le amicizie supportive in adolescenza medino il rapporto tra le esperienze di bullismo tra pari e l’insorgenza di sintomi depressivi.

Così, sembrerebbe che gli adolescenti che hanno sperimentato contesti famigliari negativi nell’infanzia abbiano più probabilità di subire bullismo a scuola e abbiano meno probabilità di ricevere supporto dalla famiglia durante l’adolescenza, periodo chiave e delicatissimo per lo sviluppo della persona. Questo avverrebbe poiché le esperienze famigliari negative durante l’infanzia incrementerebbero il livello di attivazione o arousal e di ansia del giovane influenzando in senso negativo le sue interazioni sociali.

I risultati, tuttavia, lasciano aperte molteplici possibilità di interpretazione. Ad esempio, secondo un’ipotesi fornita dal il team di ricercatori, le amicizie e i contesti famigliari supportivi fornirebbero sollievo dallo stress e incrementerebbero il livello di autostima dei ragazzi garantendo lo sviluppo di skills interpersonali efficaci. Il diretto risultato di ciò sarebbe l’incremento delle abilità di coping dei giovani nei confronti delle situazioni difficili. Secondo tale punto di vista, quindi, diventerebbe indispensabile intervenire con specifici training sulle capacità di supporto delle famiglie dei ragazzi in difficoltà, al fine di ridurre in questi ultimi il rischio di sviluppare depressione.

Essere insoddisfatti del proprio aspetto fisico: quali fattori risultano associati?

L’ insoddisfazione corporea è un problema molto diffuso tra le donne e gli uomini del mondo occidentale. La maggior parte delle donne desiderano essere più magre e sono insoddisfatte del proprio corpo e peso, mentre lo scontento degli uomini è legato al desiderio di possedere un buon tono muscolare e bassi livelli di grasso corporeo.

 

Lo studio sui fattori associati all’ insoddisfazione corporea

A tal proposito la Chapman University ha recentemente condotto uno studio nazionale con lo scopo di individuare i fattori che sono legati alla soddisfazione del proprio aspetto e peso. Hanno partecipato alla presente ricerca 12.176 soggetti residenti negli Stati Uniti con un’ età compresa tra i 18 e i 65 anni, i quali hanno completato un sondaggio online pubblicato su NBCNews.com e Today.com. Le domande poste al campione vertevano sulla personalità, sulle credenze relative alle relazioni sentimentali, sull’autostima, sul guardare la televisione, e sulle caratteristiche personali.

Come primo dato fondamentale dai risultati è emerso che i sentimenti provati dai partecipanti rispetto al loro aspetto e al loro peso giocavano un ruolo estremamente importante sulla soddisfazione della loro vita in generale. Nello specifico per le donne la soddisfazione corporea era il terzo predittore più importante per la soddisfazione complessiva della vita, seguendo la soddisfazione economica e la soddisfazione con il partner. Per gli uomini invece la soddisfazione corporea era il secondo predittore più forte, anticipato solo dalla soddisfazione economica.

 

I risultati dello studio

Guardando nel dettaglio i risultati relativi alla soddisfazione corporea, è emerso che solo il 24% degli uomini e il 20% delle donne si sentono molto soddisfatti in relazione al proprio aspetto, e solo la metà del campione si sente un po’ soddisfatta. Si tratta di dati che confermano le credenze sulle donne di voler essere più magre, e quelle sugli uomini di voler essere più atletici, mostrando così un panorama della popolazione americana che sembra essere piuttosto lontano dalla possibilità di essere veramente felici in relazione al proprio corpo.

Le persone che erano insoddisfatte del loro peso hanno inoltre riferito una bassa soddisfazione della vita sessuale e un livello generale di autostima molto basso. Si tratta di fattori che in qualche modo vanno ad influenzare quelli che sono gli stili di attaccamento, ad esempio coloro che possiedono un attaccamento ansioso sono spesso preoccupate relativamente alla loro relazione sentimentale con il partner e provano una forte paura di essere lasciate. Dallo studio è emerso che le donne con stili di attaccamento ansiosi e timorosi presentavano una insoddisfazione corporea maggiore rispetto alle altre. Ciò che è stato osservato è che l’insoddisfazione e gli stili di attaccamento ansioso possono portare ad una spirale fuori controllo. Coloro che sono insicuri in relazione al proprio corpo hanno una paura maggiore di essere abbandonati dal proprio partner, andando ulteriormente ad alimentare la propria insoddisfazione corporea.

Altri risultati minori, ma comunque cruciali per lo studio sono stati:
Le persone che spendono molte ore a settimana a guardare la televisione sono meno soddisfatti del proprio corpo e del proprio peso.
Le persone maggiormente soddisfatte del proprio aspetto fisico e peso presentano stili di attaccamento più sicuri.
Le persone soddisfatte del proprio corpo presentano una maggiore autostima, soddisfazione della vita, soddisfazione sessuale, buone relazioni sociali, amorose e familiari, ed infine una stabilità economica.
L’indice di massa corporea (BMI) è fortemente legato all’ insoddisfazione corporea.

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