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Lo sviluppo cognitivo secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla Psicologia

Secondo Jean Piaget lo sviluppo cognitivo si verifica attraverso l’assimilazione di informazioni e gli scambi che avvengono direttamente con l’ambiente, permettendo in questo modo di strutturare delle rappresentazioni mentali, schemi cognitivi, ben organizzati.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

Lo sviluppo cognitivo nel bambino: introduzione

Quando si parla di sviluppo cognitivo si è soliti riferirsi al progressivo evolvere delle capacità intellettive che variano durante tutto l’arco della vita, mutando e perfezionandosi. Quindi, più nel dettaglio, lo sviluppo cognitivo consente di acquisire informazioni dall’ambiente per immagazzinarle, attraverso rappresentazioni mentali, che permettono di essere utilizzate in momenti successivi della propria esistenza.

Le conoscenze acquisite durante l’interazione con l’ambiente esterno, sono costruite dal bambino, fin da dalla nascita, e sono arricchite con il procedere dell’età, sia quantitativamente sia qualitativamente.

Esistono tappe diverse di acquisizione di capacità mentali per ogni fase di sviluppo. Si individua in questo caso un circolo che inizia e si chiude con il depotenziamento o involuzione delle capacità cognitive, che coincide con la nascita e l’invecchiamento dell’individuo, che raggiunge il picco massimo di acquisizione di informazioni durante la giovane età adulta.

Ogni volta che si parla di sviluppo cognitivo solitamente si cita Jean Piaget, psicologo-pedagogista, che si è largamente occupato di questo argomento individuandone le diverse tappe di immagazzinamento di conoscenza.

 

Lo sviluppo cognitivo: storia

Jean Piaget è da sempre considerato uno dei massimi esponenti dello studio dello sviluppo della cognizione o pensiero infantile. Le sue teorie derivano da anni di studio osservazionale da cui egli inferì l’esistenza di una serie di tappe considerate ancora del tutto valide al giorno d’oggi. La sua teoria parte da un colloquio clinico non strutturato, ma supportato da una serie di compiti pratici svolti dal bambino, come per esempio la manipolazione usata per studiare il ragionamento concreto, tipico delle prime fasi di sviluppo cognitivo nel bambino. Lo scopo finale è chiedere sempre al bambino il perché svolge una serie di azioni, al fine di poter rivelare la logica sottostante al proprio comportamento da cui poter inferire la regola di base acquisita attraverso l’esperienza.

Jean Piaget, dunque, sostiene che lo sviluppo cognitivo del bambino deriva dall’interazione con la realtà circostante, grazie alla quale si verifica una trasformazione in termini di acquisizione di informazioni utili alla conoscenza pratica.

 

Lo sviluppo cognitivo nel bambino: gli stadi

Secondo Piaget lo sviluppo cognitivo si verifica attraverso l’assimilazione di informazioni e gli scambi che avvengono direttamente con l’ambiente, permettendo in questo modo di strutturare delle rappresentazioni mentali, schemi cognitivi, ben organizzati. Di conseguenza si determinano 5 stadi o periodi di crescita intellettiva, aventi diversi livelli di funzionamento cognitivo che si sviluppano durante il corso della vita. L’ordinamento di questi stadi è fisso e universale malgrado si rilevino delle differenze individuali determinate da fattori culturali e ambientali.

Ciascuno stadio presume l’esistenza di una particolare organizzazione psicologica e il passaggio da uno stadio all’altro è direttamente proporzionale all’età e chiaramente varia da un bambino all’altro, in relazione all’ambiente e la cultura. Ogni stadio è diverso dal precedente, poiché presenta caratteristiche e regole specifiche. Inoltre, una volta raggiunto uno stadio si apprendono una serie di capacità che saranno integrate agli stadi successivi (integrazione gerarchica tra stadi).

 

Lo sviluppo cognitivo: le tappe

Secondo Jean Piaget l’intelligenza, è una funzione cognitiva che permette l’adattamento all’ambiente e garantisce l’equilibrio tra le diverse strutture cognitive. Questo processo chiamato equilibrazione consente di implementare conoscenze e di apprendere nuove strutture cognitive sempre più dettagliate della realtà. Si tratta di due funzioni intellettive innate che permettono la creazione e l’apprendimento delle diverse strutture cognitive:
l’organizzazione, ovvero la combinazione e l’integrazione degli schemi disponibili in ogni individuo in sistemi coerenti o in corpi di conoscenza che prendono il nome di strutture; l’adattamento che si divide in assimilazione e accomodamento, consistono in processi di aggiustamento alle richieste dell’ambiente.

Più nel dettaglio, l’assimilazione è la ripetizione di una capacità cognitiva già presente nel proprio repertorio comportamentale, come ad esempio buttare a terra gli oggetti, mentre l’adattamento consiste nella modificazione di comportamenti già acquisiti in relazione al contesto in cui si vive, ad esempio muovere l’oggetto invece di buttarlo a terra quando si scopre che può produrre un suono piacevole.

I due processi si alternano per cercare di individuare un equilibrio omeostatico costante che porta a una sorta di controllo della realtà circostante. Quindi, se dovesse sopraggiungere una nuova informazione non contemplata all’interno degli schemi esistenti, si crea una sorta di disequilibrio. A questo punto il bambino prova a individuare un nuovo equilibrio modificando gli schemi cognitivi già esistenti incorporando le nuove conoscenze acquisite.

 

Lo sviluppo cognitivo nel bambino: le diverse fasi secondo la teoria di Piaget

Secondo la teoria di Piaget le fasi di sviluppo cognitivo sono 5:

1.    Fase senso-motoria, che varia dalla nascita ai 2 anni di età. Durante questa fase il bambino passa dall’uso dei soli riflessi, o istinto, alla ripetizione di una serie di comportamenti per osservare quali possano essere le conseguenze degli stessi prima sul proprio corpo, reazioni circolari primarie, e poi su oggetti facenti parte dell’ambiente esterno, reazioni circolari secondarie. Esattamente dall’ottavo mese il bambino verifica come gli schemi di comportamento producano, in interazione con l’ambiente, nuove informazioni. Inoltre, dai 18 mesi si manifesta il ragionamento simbolico, che permette di testare concretamente le conseguenze delle proprie azioni sull’ambiente esterno.

2.    Fase preconcettuale, dai 2 ai 4 anni di vita. Durante questa fase il pensiero è egocentrico, l’infante pensa che tutti possano conoscere i suoi pensieri o desideri, e potenzia il linguaggio attraverso l’acquisizione di maggiore lessico, ma non è in grado di passare dal ragionamento generale al particolare e viceversa.

3.    Fase del pensiero intuitivo, varia dai 4 ai 7 anni di vita. Con l’avvento della scuola materna si ha un maggiore bagaglio di conoscenza, ma il pensiero non è ancora reversibile. Infatti, il bambino non è in grado di mentalizzare l’azione compiuta verso uno scopo o fine.

4.    Fase delle operazioni concrete dai 7 agli 11 anni. Durante questa fase aumenta la coordinazione tra le azioni compiute e il pensiero induttivo si evolve passando dal particolare al generale e viceversa, ma i processi cognitivi sono ancora legati alle azioni e quindi vincolati ad una fase puramente verbale.

5.    Fase delle operazioni formali dagli 11 ai 14 anni. Questo costituisce il periodo preadolescenziale in cui il ragionamento ipotetico-deduttivo permette di creare scenari puramente immaginativi e la messa in atto di vari tipi di azione, grazie ad un adeguato e costante equilibrio tra assimilazione e accomodamento. Durante questa fase si sviluppano: la capacità di giudizio, la relatività dei punti di vista, le operazioni sui simboli e l’attività di misurazione.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Report dalla 2° Conferenza Internazionale di Mindfuness, Roma, 11-15 maggio 2016

Si è appena conclusa la seconda edizione della conferenza internazionale sulla Mindfulness.

Da mercoledì (con i workshop pre-apertura) fino a domenica, Roma e l’Università della Sapienza hanno fatto da cornice per 5, direi più che intensi, giorni di ricerche e dibattiti sull’argomento che sta diventando sempre più oggetto di ricerca scientifica (così come di interesse popolare): la Mindfulness e tutto quello che la riguarda (in clinica, nei contesti di lavoro, nei bambini, nelle professioni di aiuto), la meditazione e i suoi effetti, la (self)Compassion e le sue relazioni con la Mindfulness, le discipline e le filosofie orientali che forniscono il terreno di nascita, il tutto con una spolverata generosa di neuroscienze.

Molti sponsor e moltissimi speaker provenienti davvero da tutto il mondo per 50 simposi (ebbene sì, proprio 50) oltre a interventi da parte di personalità rilevanti come Paul Gilbert, Antoine Lutz, Peter Malinowski, Rebecca Crane, assieme a maestri di meditazione come Ven. Bhiukkhu Analayo, Ven. Shi-Yan-Hui e Ven. Shi-Heng-Chan.

 

Mercoledì, il giorno di pre-apertura della conferenza

Il mercoledì è giorno di workshop pre-apertura tenuti da Paul Gilbert e Nicola Petrocchi sulla Compassion Focused Therapy, da Peter Malinowski e Liliana Shalamanova su “Healty Mindfull ageing” con interesse ai possibili ruoli protettivi della Mindfulness e della meditazione, da Donald McCown e Diane Riebel sullo sviluppo di skills per insegnanti e infine da Antonella Cammellato e Fabio Giommi sull’ Insight Dialogue e Insight meditation e i suoi effetti nelle relazioni.

 

Il programma delle giornate

La tabella di marcia è serrata, la conferenza apre alle 7:30 del mattino per 45 minuti di meditazione (di tradizione Zen di venerdì, Tibetana il sabato e Chan per la festiva domenica).
Ore 8:15 già al primo coffee time per non farsi mancare niente.
Alle 8:30 si aprono i primi simposi raggruppati per tematiche; 1 ora e mezzo, per 4 presentazioni di circa 20 minuti ciascuna.
Il primo giorno, giovedì, 5 aule in contemporanea, ha visto chiudere la giornata alle 16:30 al simposio nr 20 (prima dell’intervento in plenaria di Paul Gilbert delle 17 nell’Aula Magna con tanto di traduttori simultanei).
Mentre il menu di venerdì e sabato ha previsto 2 keynote lecture ad inizio mattina e pomeriggio e 10 simposi per dì.

La difficoltà non è stata la lingua inglese, unica e sola lingua di tutto il convegno, ma il dover prendere decisioni istantanee per capire in quale stanza sedersi nei tre piani della facoltà di Psicologia e Medicina della Sapienza.
Non da meno, ore 10 e ore 14 è tempo di “Refreshment” e POSTER; e anche in questo caso una ventina di poster al giorno davvero interessanti (molti di questi portati da giovani ricercatori da tutto il mondo con lavori su ogni singola sfaccettatura della Mindfulness).

 

I contributi dai vari Paesi

Provando a moltiplicare tutto questo per autori ne viene fuori un convegno con circa 150 relatori provenienti davvero da tutto il mondo e innumerevoli ricercatori che hanno lavorato per mettere insieme quello che viene definito “lo stato dell’arte” in un’aerea che sta in modo esponenziale catturando l’attenzione di addetti ai lavori e di profani.

Ben rappresentata la lontana Australia e Nuova Zelanda, madre di interessantissimi simposi, così come rilevanti contributi dalla Corea, dal Sud Africa, dal Giappone e Asia in genere, da Israele, e dagli USA, per non nominare l’Europa al completo ovviamente.
Anche l’Italia ha potuto fare conto su illustri nomi di importanti esponenti nel campo, da Fabio Giommi presidente della Società Italiana per la Mindfulness ad Antonella Cammellato ad Antonino Raffone e collaboratori.

Un aspetto che occorre sottolineare non è solo la diversità in termini di provenienza geografica, ma la diversità anche in termini di background professionale di tutti coloro che hanno preso parte all’evento. Da psicologi, psicoterapeuti, e psichiatri (e fin qui niente di strano), a contemplativi, biologi, meditatori, monaci, studenti, ricercatori, neuroscienziati, insegnanti…

Conclusioni

Sono stati giorni di scambio di reciproche visioni, reciproci risultati e reciproche esperienze (in un’ottica davvero ampia, comprensiva delle più svariate angolature), con il suono di campane tibetane e “attenzione al respiro per qualche minuto” come introduzione ai contributi portati.

Tra le cose più interessanti si sottolineano i molti dibattiti clinici tra i paesi con attenzione particolare alle diversità culturali, le numerosissime ricerche ed esperimenti di neuroscienze che tentano di spiegare, svelare e dimostrare gli effetti della meditazione continuativa sia sulla morfologia delle varie aree del cervello sia sugli effetti cognitivi veri e propri, i tentavi di migliorare gli strumenti di misura della Mindfulness nelle sue varie componenti e infine lo spazio dato al concetto di (self)Compassion nella sua interrelazione con la Mindfulness.

Mi ripeto nell’affermare che il dispiacere sia stato nel non avere avuto il dono dell’ubiquità.

Le responsabilità nell’abbandono, nota al post di Umberta Telfener

Cara Umberta Telfener,

vecchia amica, commento al tuo blog ‘Per chiudere una relazione è necessario l’amore’, in cui spingi l’acceleratore sul: ‘valore aggiunto dell’addio, che apre nuove strade’,  ti cito:

Riuscissimo a non volerne a chi se ne va (chiunque abbia provocato l’abbandono le responsabilità sono sempre al 50%), la separazione potrebbe essere reale e lo spazio per l’altro disponibile.

Solo questo punto del tuo bel post mi trova in disaccordo. Questa idea, derivata dalla terapia sistemica per come la conoscevo, che partiva dal sistema e finalmente, in modo innovativo a quei tempi, puntava sulle responsabilità individuali condivise. Sulla distribuzione equa di queste responsabilità per ricominciare. Ed era importante.

Oggi invece non sottoscriverei al 100%  la frase ‘chiunque abbia provocato l’abbandono le responsabilità sono sempre al 50%‘. Questa distribuzione di responsabilità così calibrata oggi mi sembra ideologica, cerchiobottista e forse a volte dannosa per i nostri pazienti.

Se si era fragili, se non si era in grado di capire bene da giovani come sarebbe stata la distribuzione delle forze nella coppia con il passare del tempo, se l’altro invecchia più baldamente o diventa cocainomane, se la vita si sviluppa in una direzione non prevista, con un figlio disabile che l’altro non sa e non vuole trattare, o con malattie psichiche o organiche, ecco non sempre mi viene in terapia questa distribuzione. A volte scoprirsi scemi, vittime, fragili e piangere per questa fragilità senza considerarla una colpa è importante, e anzi può essere, questo sì, l’inizio di un percorso di salvazione che tu indichi con lucidità nella seconda parte del tuo blog.

A volte quando in terapia, a una persona abbandonata, ferita, il terapista spinge troppo sulla responsabilità, mi sembra veramente un modo che potrebbe essere difettoso di empatia. Le vittime esistono magari non 100 a 1 ma spesso 70 a 30 e chi si trova dalla parte del trenta, vuole piangersi addosso per un po’, sentirsi compreso, prima di potere guardare negli occhi la sua responsabilità che è sempre collegata con temi dolorosi che non poteva vedere.

Questi nostri pazienti fregati dalla vita, a volte hanno bisogno di compassione e vicinanza, prima di potere guardare con lucidità la loro parte di condivisione nel disastro relazionale che stanno attraversando, e poi, e poi giustamente piangere piangere e poi risorgere come tu bene spieghi.

 

LEGGI L’ARTICOLO ‘PER CHIUDERE UNA RELAZIONE È NECESSARIO L’AMORE’ DI UMBERTA TELFENER

Le reazioni dei genitori alla diagnosi di disturbo dello spettro autistico dei figli

Non tutti i genitori vivono la diagnosi di disturbo dello spettro autistico del figlio allo stesso modo: mentre in alcuni casi la comunicazione della presenza di un disturbo alla base di determinati comportamenti viene considerata fonte di sollievo e conferma dei propri dubbi e delle proprie preoccupazioni, in altri altri le reazioni dei genitori alla diagnosi possono comportare shock, dolore e insoddisfazione.

Sara Bui – OPEN SCHOOL, Scuola Cognitiva Firenze

 

Definizione di autismo

Il disturbo dello spettro autistico è un disturbo neurologico caratterizzato da un ritardo nello sviluppo delle interazioni sociali e della comunicazione e da forme atipiche di entrambe, oltre che dalla presenza di comportamenti stereotipati e di interessi ristretti (American Psychiatric Association, 2013).

Lo sviluppo del disturbo avviene entro i 36 mesi ed interessa l’individuo per tutta la vita (Poslawsky, Naber, Van Daalen & Van Engeland, 2014; Karst & Van Hecke, 2012). Nelle ultime tre decadi, è notevolmente aumentato il tasso di diagnosi dello spettro autistico (Lord & Bishop, 2010) e ciò ha portato a concentrare l’attenzione dei ricercatori sulla comprensione dei meccanismi genetici e biologici ancora sconosciuti alla base del disturbo, e quella dei clinici allo sviluppo di interventi sempre più efficaci, non solo per aiutare i bambini affetti dal disturbo, ma anche per migliorare la qualità della vita delle loro famiglie (Karst & Van Hecke, 2012).

 

Psicologia: le reazioni dei genitori alla diagnosi

Innanzitutto dobbiamo sottolineare che non tutti i genitori vivono la diagnosi di disturbo dello spettro autistico del figlio allo stesso modo; infatti mentre in alcuni casi la comunicazione della presenza di un disturbo alla base di determinati comportamenti viene considerata fonte di sollievo e conferma dei propri dubbi e delle proprie preoccupazioni, in altri altri le reazioni dei genitori alla diagnosi possono comportare shock, dolore e insoddisfazione, nonostante anche questi familiari avessero dei sospetti al riguardo (Russel & Norwich, 2012; Carlsson, Miniscalco, Kadesjo &Laakso, 2016).

Le negative reazioni dei genitori alla diagnosi derivano da due aspetti principali: la constatazione della presenza di un grave disturbo e le caratteristiche stesse del processo di diagnosi.

Per quanto concerne il primo aspetto, Estes e colleghi (2009) hanno sottolineato che lo stress percepito dai genitori alla diagnosi è maggiore nei casi di autismo piuttosto che nei genitori di bambini con altre tipologie di ritardo nello sviluppo. Ciò sarebbe dovuto anche alle caratteristiche stesse del disturbo come per esempio ritardo cognitivo, problemi comportamentali, umore irritabile, iperattività, assente o ridotta capacità di prendersi cura di sé, deficit nel linguaggio, difficoltà sociali e necessità di essere accuditi per tutto l’arco di vita (Lyons, Leon, Phelps & Dunleavy, 2010; Karst & Hecke, 2012).

Un aspetto particolarmente rilevante riguarda l’influenza che la gravità della sintomatologia riportata al momento della diagnosi ha sulle reazioni dei genitori e sul livello di stress percepito dagli stessi. È stato notato, infatti, che mentre nel periodo successivo alla diagnosi, maggiore è la gravità dei sintomi, più elevato è il livello di stress dei genitori, al momento della diagnosi la situazione si capovolge: infatti per i genitori di bambini con disturbo dello spettro autistico di lieve entità la diagnosi rappresenta una brutta sorpresa, mentre i genitori di bambini con grave sintomatologia ricevono una conferma dei loro sospetti e questo li porta quindi ad esperire livelli inferiori di stress (Siklos &Kerns, 2007; Moh & Magiati, 2012).

Per quanto riguarda, invece, il processo diagnostico, sono stati individuati alcuni aspetti che incidono negativamente sulle reazioni dei genitori alla diagnosi. Un primo aspetto molto importante è l’eccessivo tempo atteso prima di ricevere la diagnosi a partire dalla prima identificazione dei sintomi. Tale situazione viene considerata in maniera particolarmente negativa dai genitori, sia perché il ritardo nel ricevere la diagnosi può associarsi ad incertezza, ansia e senso di impotenza (Bruey, 2004), sia a causa del fatto che i genitori hanno la sensazione che stanno perdendo del tempo prezioso per poter iniziare un intervento adeguato (Cohen, 2006).

Altro aspetto direttamente connesso al ritardo nel ricevere la diagnosi, è il numero di professionisti consultati: Siklos  e Kerns (2007) hanno trovato che in alcuni casi il processo per ottenere una diagnosi può durare anche 3 anni con una media di 4,5 professionisti consultati in questo periodo. Il doversi rivolgere ad un numero elevato di professionisti viene vissuto negativamente dai genitori, i quali dichiarano di essere meno soddisfatti del percorso diagnostico rispetto ai genitori che consultano un numero inferiore di professionisti e che ricevono la diagnosi in tempi più brevi (Goin-Kochel, Mackintosh & Myers, 2006; Moh & Magiati 2012).

Parlando del rapporto con i professionisti, è stato dimostrato che anche il modo in cui gli specialisti stessi si pongono nei confronti dei genitori, e le informazioni che forniscono, hanno una certa rilevanza. Infatti, i genitori sono maggiormente soddisfatti del processo diagnostico quando hanno la possibilità di fare delle domande, quando vengono fornite loro informazioni utili e quando i professionisti stessi si mostrato empatici nei loro confronti (Brogan & Knussen, 2003; Osbourne & Reed, 2008;; Moh & Magiati, 2012).

 

 

Fattori che possono influenzare lo stress genitoriale durante e dopo il processo diagnostico

Innanzitutto occorre sottolineare che la notizia della presenza di disturbo dello spettro autistico ha un grande impatto nelle reazioni dei genitori alla diagnosi, ed alti livelli di stress percepito spesso si manifestano anche in seguito e non solo come reazione alla diagnosi, provocando una diminuzione della qualità della vita all’interno della famiglia e un aumento dei problemi all’interno della coppia genitoriale (Moh & Magiati, 2012; Karst & Van Hecke, 2012).

Nel corso degli anni, vari studi hanno trovato dei fattori che possono influenzare tale stress percepito dai genitori: la gravità della patologia, le strategie di coping adottate, ed il supporto sociale (Lyons et al., 2010, Karst & Van Hecke, 2012; Poslawsky et al., 2014). Per quanto concerne la gravità della patologia, come evidenziato precedentemente, una volta concluso il processo diagnostico mostrano livelli più elevati di stress i genitori i cui bambini presentano una sintomatologia più grave. Secondo Davis e Carter (2008), non sarebbero i singoli sintomi, quanto la combinazione di problemi a livello emotivo, funzionale e comportamentale, tipica dei bambini con disturbo dello spettro autistico, a causare reazioni dei genitori alla diagnosi caratterizzate da elevati livelli di stress e sofferenza.

Altro fattore che gioca un ruolo molto importante sono le strategie di coping. Il coping viene definito da Lazarus & Folkman (1984) come gli sforzi cognitivi e comportamentali per trattare richieste specifiche (interne ed esterne) che sono valutate come eccessive ed eccedenti le risorse di una persona; sono state poi individuate tre strategie principali utilizzate dalle persone per fronteggiare lo stress: coping orientato sul problema, coping centrato sulle emozioni e coping orientato all’evitamento. In linea generale possiamo affermare che le strategie di coping centrate sul problema sono correlate ad un adattamento alla situazione, mentre quelle centrate sulle emozioni alla psicopatologia (Lyons et al., 2010); gli studi condotti sull’adozione di tali strategie da parte dei genitori di bambini con autismo confermano questo dato, per cui i genitori maggiormente centrati sulle emozioni presentano livelli più elevati di stress in quanto maggiormente coinvolti dal punto di vista emozionale, piuttosto che attenti a risolvere e riconcettualizzare la situazione problematica che stanno vivendo (Smith, Seltzer, Tager-Flusberg, Greenberg & Carter 2008).

Lyons e colleghi (2010), inoltre, hanno evidenziato che l’utilizzo di strategie centrate sulle emozioni aumenta lo stress dei genitori in quanto li porta ad avere elevati livelli di pessimismo nei confronti della situazione, mentre le strategie centrate sul problema si collegano anche ad un miglioramento dal punto di vista delle abilità fisiche dei bambini; infine le strategie orientate all’evitamento vengono considerate particolarmente utili nei casi in cui la sintomatologia del bambino sia molto grave.

Infine, occorre sottolineare come ultimo fattore in grado di influenzare le reazioni dei genitori alla diagnosi e il loro adattamento ad essa, anche il supporto sociale. Il supporto sociale si riferisce alla disponibilità di relazioni d’aiuto a cui un individuo può attingere durante un periodo di stress (Leavy, 1983), e date le numerose richieste cui un genitore di un bambino con autismo deve far fronte, si rivela particolarmente necessario (Khanna, Madhaven, Smith, Patrick, Tworek & Becker-Cottrill, 2011).

È stato dimostrato che il supporto sociale non solo è in grado di ridurre lo stress percepito dai genitori, ma può anche contribuire alla diminuzione di sintomi depressivi e al generale miglioramento dell’umore (Ekas, Lickenbrock & Whitman, 2010); tuttavia nelle situazioni di persistente stress genitoriale, comune nei genitori di bambini con disturbo dello spettro autistico, vi è una minore percezione del supporto sociale, per cui può verificarsi la situazione in cui i genitori non siano consapevoli e quindi non utilizzino le risorse di cui invece dispongono (Karst & Hecke, 2012). Un aspetto che contribuisce alla diminuzione del supporto sociale è il fatto di essere un genitore single, questo dato risulta particolarmente importante anche alla luce della forte incidenza di divorzi tra i genitori di bambini con autismo (Hartley, Barker, Seltzer, Greenberg & Floyd, 2011).

Trauma, coscienza, personalità. Scritti clinici di Pierre Janet (2016) – Recensione

Un’antologia di scritti, soprattutto casi clinici, aiuta a riscoprire definitivamente anche in Italia uno dei padri della psicoterapia dinamica: Pierre Janet.

Janet: uno dei padri della psicoterapia dinamica

Quando, nell’ormai lontano 1970, apparve il monumentale volume di Henri Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, molti freudiani ortodossi rimasero perplessi. Prigionieri della biografia agiografica di Freud scritta da Ernest Jones (1953) si ritrovavano davanti agli occhi una ricostruzione sostanzialmente obiettiva della storia della psicoterapia dinamica e non riuscivano ad adattarsi. Come? – pensavano – Freud non era un eroe senza macchia e senza paura? Jung non era un traditore matricolato? Il concetto di inconscio esisteva prima della nascita della psicoanalisi?

Ellenberger (1970) ebbe il merito di mettere in evidenza queste ed altre verità storiche oggi ormai definitivamente acclarate e la maggior parte delle sue posizioni storiografiche è stata acquisita anche dagli ambienti psicoanalitici più conservatori. Soprattutto di fronte ai contributi di autori come Sulloway (1979) e Crews (1995; 1998) che di Freud hanno dipinto ritratti a tinte ben più fosche. Una delle idee di fondo di Ellenberger, però, ha molto tardato a imporsi, quella che Pierre Janet andasse considerato uno dei padri della psicoterapia dinamica, al pari di Freud, Jung e Adler. Eppure anche in questo caso lo storico svizzero aveva ragione: Janet era destinato a essere nuovamente riletto e apprezzato, una volta dissipata la nebbia che la psicoanalisi classica aveva sollevato per coprire i meriti degli avversari di Freud.

 

Breve biografia di Janet

Pierre Janet, in effetti, era una figura assai nota in Europa ben prima che le opere di Freud iniziassero a essere veramente lette e apprezzate al di fuori dell’ambiente medico viennese, con la possibile eccezione degli Studi sull’isteria, che peraltro lo stesso Janet considerava nulla più che una conferma delle sue teorie (Janet, 2016, p. 10). Allievo di Théodule Ribot, padre della psicologia scientifica francese, Janet si era addottorato in filosofia e medicina a Parigi ed era rapidamente divenuto la figura principale della nascente psicoterapia francese. Quando la psicoanalisi cominciava ad affacciarsi sulla scena internazionale per merito di Jung, nel 1906, i contributi scientifici di Janet erano già ben noti agli psichiatri dell’epoca. Janet fu del resto tra i più fieri oppositori all’affermarsi della psicoanalisi. Riteneva infatti che [blockquote style=”1″]Freud si fosse tranquillamente appropriato del suo lavoro, e che la psicoanalisi non fosse altro che una brutta copia della sua analisi psicologica[/blockquote] (Borch-Jacobsen e Shamdasani, 2012, p. 62).

Fu però la psicoanalisi ad affermarsi clamorosamente nel mondo in capo a pochi anni: e la vittoria di Freud portò con sé, appunto, un completo oblio del contributo di Janet alla nascita della psicoterapia. La riscoperta di Janet, tuttavia, auspicata da Ellenberger, è in effetti ormai ampiamente avvenuta. Scriveva infatti già venti anni fa: [blockquote style=”1″]Se si leggesse l’attuale letteratura psicoanalitica come un romanzo gotico a puntate, non sarebbe difficile intravedere il fantasma senza pace di Pierre Janet, scacciato dal castello di Sigmund Freud un secolo fa, ritornare oggi per tormentare i suoi discendenti. Con inquietante comunanza, le principali scuole di pensiero analitico sono diventate responsive al fenomeno della dissociazione e, ognuna a suo modo, sta tentando di adattarlo all’interno del proprio modello di mente e approccio al caso clinico[/blockquote] (Bromberg, 1995, p. 119).

Anche la tecnica terapeutica di Janet può essere rivalutata: “Per fare un solo esempio” argomenta Giovanni Liotti nella prefazione “le tecniche proposte da Janet per incrementare la capacità di ‘sintesi mentale’ (vedi il caso di Justine) sembrano consonare con quelle contemporanee intese ad aumentare la capacità di mentalizzazione, ovvero le abilità metacognitive del paziente” (Liotti, 2016, p. x). Anche la “gestione della relazione terapeuticca” operata da Janet sembra meritare una particolare attenzione, ad avviso di Liotti: Janet a suo avviso “cercava anzitutto di entrare in uno stato intersoggettivo di condivisione empatica con le parti dissociate” della personalità dei suoi pazienti”, usando un atteggiamento “che sembra configurare un’interessante variante dell’empatia” (Liotti, 2016, p. xi).

 

Il libro “Trauma, coscienza e personalità”

Trauma, coscienza e personalità è il secondo libro di Janet che esce per i tipi di Cortina nel giro di pochi anni, facendo seguito alla traduzione integrale della tesi di dottorato in filosofia su L’automatismo psicologico (Janet, 1889) uscita nel 2013. Questa nuova uscita è invece un’antologia, costituita da quattro capitoli dell’edizione del 1911 dello Stato mentale delle isteriche; da due capitoli dell’edizione del 1898 di Nevrosi e idee fisse; da due capitoli di Dall’angoscia all’estasi, del 1926; da un saggio apparso su Scientia nel 1910 dal titolo “Il subcosciente”.

Anche la storia “interna” dei testi è complessa. In particolare, la prima parte dello Stato mentale delle isteriche era stata pubblicata in volume nel 1893 con la prestigiosa prefazione di Charcot e riassumeva una serie di studi precedenti sulle stigmate mentali, concentrandosi su anestesie, amnesie, abulie, difficoltà nei movimenti e modificazioni del carattere. La seconda era uscita l’anno seguente e corrispondeva alla tesi di dottorato discussa il 29 luglio 1893. In questo caso Janet si concentrava piuttosto su idee fisse, sonnambulismo, deliri e sui cosiddetti “attacchi” isterici.

[blockquote style=”1″]A partire da queste osservazioni, Janet suggerisce che l’isteria sia essenzialmente caratterizzata dalla debolezza della sintesi psicologica, dall’impotenza in cui si trova il soggetto di riunire, di condensare i suoi fenomeni psicologici e di condensarli nella propria personalità […] La debolezza della volontà si unisce alla debolezza della sintesi psichica[/blockquote] (Nicolas e Ferrand, 2003, p.287).

La terza parte dell’edizione del 1911 era invece apparsa solo in un libro curato da Albert Robin nel 1898, anche se non conteneva innovazioni teoriche di rilievo. Il fatto che manchino delle indicazioni sulle differenze tra le edizioni originali e quella di riferimento per la traduzione costituisce in effetti un problema, soprattutto per chi voglia utilizzare il libro come fonte storica. Un problema che tuttavia non inficia la più che lodevole iniziativa editoriale, per la quale bisogna ringraziare oltre a Raffaello Cortina, i due curatori Francesca Ortu e Giuseppe Craparo.

Mad in America, cattiva scienza, cattiva medicina e maltrattamento dei malati mentali di Robert Whitaker (2015) – Recensione

Il libro ripercorre la storia della psichiatria americana ed europea a partire dal 1750, quando il malato mentale veniva trattato come un essere inferiore, tanto da meritarsi come cura i salassi, le purghe, la sedia rotante e la somministrazione di sostanze che inducevano la nausea.

 

La storia della psichiatria nel libro di Whitaker

Conoscere la storia della psichiatria riveste grande importanza per comprendere dove siamo arrivati oggi nella cura della malattia mentale. E’ da questa premessa che il giornalista scientifico Robert Whitaker parte per scrivere questo libro, che in parte completa l’altra sua celebre opera Indagine su un’epidemia, che contiene concetti molto provocatori (ma in parte aimè condivisibili) come quello che gli esiti della cura della malattia mentale grave erano migliori cento anni fa (quando non c’erano gli psicofarmaci) o che c’è una remissione maggiore dei disturbi psichiatrici nei paesi in via di sviluppo (dove ci sono pochi psicofarmaci) rispetto ai paesi sviluppati.

Il libro ripercorre la storia della psichiatria americana ed europea a partire dal 1750, quando il malato mentale veniva trattato come un essere inferiore, tanto da meritarsi come cura i salassi, le purghe, la sedia rotante e la somministrazione di sostanze che inducevano la nausea. L’800 ebbe con il francese Pinel una temporanea umanizzazione dei trattamenti, con l’introduzione della cosiddetta terapia morale (antesignana del modello biopsicosociale, che vedeva la malattia mentale anche come conseguenza di eventi di vita stressanti), che venne ripresa in America da alcune comunità di Quaccheri.

Il ‘900 (definito dall’autore l’età più buia) fu caratterizzato da una regressione della visione della malattia mentale, anche grazie alla diffusione dell’eugenetica, che identificava nel malato di mente un portatore di patrimonio genetico alterato che andava pertanto eliminato per migliorare la razza umana.

Negli anni ’20 negli Stati Uniti si arrivò alla sterilizzazione obbligatoria dei malati mentali, alla stregua della Germania Nazista. In quell’epoca manicomiale il disagio psichico era visto come qualcosa da eradicare violentemente producendo lesioni al cervello. I trattamenti terribili in voga in quel periodo comprendevano il coma insulinico, l’uso massiccio di barbiturici, la terapia convulsiva con metrazol e poi con scosse elettriche, la lobotomia (in precedenza altre mostruosità chirurgiche come l’estrazione di tutti i denti o l’isterectomia come possibile cura della follia).

La modalità di sperimentazione scientifica per salute mentale di quel periodo e, secondo l’autore anche in parte del periodo successivo, contravveniva al celeberrimo Codice di Norimberga (prodotto dopo la seconda Guerra Mondiale in opposizione agli orrori sanitari del Terzo reich), che sanciva il principio secondo il quale gli interessi scientifici non avrebbero mai dovuto avere la precedenza sui diritti dell’essere umano.

 

Le ricerche sugli psicofarmaci

Oltre ai danni cerebrali permanenti causati dalla lobotomia, nel libro viene raccontato il periodo delle ricerche americane sull’esacerbazione di psicosi indotta da allucinogeni come l’LSD, che veniva somministrato in dosi massicce senza un valido consenso dei pazienti. La scoperta degli psicofarmaci a partire dagli anni ’50 per certi versi rivoluzionò radicalmente la cura e la qualità di vita delle persone affette da disturbi mentali, anche se l’autore non ne riconosce il valore e anzi sostiene che gli psichiatri americani ne abbiano sempre fatto un uso sconsiderato, in nome di un riduzionismo biologico che in Europa ha sicuramente preso meno piede.

Vengono presentati studi e testimonianze che mettono in discussione l’efficacia degli psicofarmaci, in particolare i neurolettici (anche quelli di nuova generazione), che aumenterebbero addirittura il rischio di ricadute nella malattia. Whitaker accusa la classe psichiatrica americana di essere stata accecata di fronte al miraggio psicofarmacologico, che poi è stato ridimensionato in termini di efficacia e in questo anche le industrie farmaceutiche hanno sicuramente le proprie responsabilità.

Sicuramente un libro-inchiesta molto efficace che pecca un po’ della mancanza dell’aspetto propositivo, privilegiando quello critico.

La scoperta dell’atlante semantico del nostro cervello

Per la prima volta è stata elaborata una mappa semantica della corteccia celebrale, definita atlante semantico, che mostra quali aree celebrali si attivano quando dobbiamo associare un significato alle parole che ascoltiamo.

Lo studio

Nel seguente articolo viene riportata la recente scoperta avvenuta nel campo delle neuroscienze ad opera dei ricercatori dell’Università di Berkeley in California: Alexander G. Huth, Wendy A. de Heer, Thomas L. Griffiths, Frederic E. Theunissen e Jack L. Gallant sono i nomi dei ricercatori che hanno partecipato e contribuito a questa nuova scoperta che può aprire importanti orizzonti nel campo delle neuroscienze e non solo.

Nello specifico, per la prima volta è stata elaborata una mappa semantica della corteccia celebrale, definita atlante semantico, che mostra quali aree celebrali si attivano quando dobbiamo associare un significato alle parole che ascoltiamo. È stato dimostrato così che il linguaggio impegna molte aree del cervello e non esclusivamente quelle a sinistra.

Lo studio che ha portato alla mappatura celebrale del sistema semantico dell’Università della California, Berkeley, è stato pubblicato sulla rivista Nature con il seguente titolo: “Natural speech reveals the semantic maps that tile human cerebral cortex” (Alexander G. Huth, Wendy A. de Heer, Thomas L. Griffiths, Frederic E. Theunissen e Jack L. Gallant, 2016).

Il gruppo – guidato da Alexander Huth, postdottorando di ricerca in neuroscienze, e Gallant, professore di psicologia – per le loro ricerche ha scelto sette soggetti volontari, ai quali è stato chiesto di ascoltare per circa un paio d’ore delle storie narrative dalla “Moth Radio Hour” (Carey B, 2016). È stata così mappata sistematicamente la selettività semantica attraverso la corteccia, utilizzando la modellazione voxel-wise dei dati forniti dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI, questa permette di visualizzare in tempo reale l’attività dell’area celebrale che corrisponde alla facoltà utilizzata dal soggetto in quel dato momento) mentre i soggetti ascoltavano queste storie. I dati forniti sono stati utilizzati per calcolare una stima di modelli voxel-wise che anticipino l’attività in ogni voxel (pixel volumetrici) in base al significato delle parole nelle storie (disponile sul sito).

In altri termini: a questi volontari è stato fatto ascoltare lo stesso programma radiofonico e sono stati confrontati i risultati tra loro attraverso un programma che analizza semanticamente i testi della trasmissione.

[blockquote style=”1″]Using novel computational methods, the group broke down the stories into units of meaning: social elements, for example, like friends and parties, as well as locations and emotions . They found that these concepts fell into 12 categories that tended to cause activation in the same parts of people’s brains at the same points throughout the stories. They then retested that model by seeing how it predicted M.R.I. activity while the volunteers listened to another Moth story. Would related words like mother and father, or times, dates and numbers trigger the same parts of people’s brains? The answer was yes.[/blockquote] (Carey B, 2016).

I ricercatori hanno così dimostrato che il sistema semantico è organizzato in schemi intricati di popolazioni neuronali che mostrano una corrispondenza tra gli individui. Un dato interessante che emerge da questo studio è infatti che le mappe celebrali dei concetti semantici che risultano, sono simili tra i soggetti esaminati. Per fare un esempio, nella corteccia parietale laterale, tutti e sette hanno mostrato una zona selettiva per parole “sociali”, in relazione alle persone.

In questo modo è stato possibile creare il primo atlante semantico.
[blockquote style=”1″]Our results suggest that most areas within the semantic system represent information about specific semantic domains, or groups of related concepts, and our atlas shows which domains are represented in each area[/blockquote] (Alexander G. Huth, Wendy A. de Heer, Thomas L. Griffiths, Frederic E. Theunissen e Jack L. Gallant, 2016).
Si è così scoperto che il sistema semantico è distribuito in più di 100 aree distinte che si trovano in entrambi gli emisferi celebrali.

Lo studio dei ricercatori dell’Università della California Berkeley, che ha elaborato la prima mappa cerebrale del sistema semantico, si può trovare sulla già citata rivista Nature (Alexander G. Huth, Wendy A. de Heer, Thomas L. Griffiths, Frederic E. Theunissen e Jack L. Gallant, 2016) con il seguente titolo: “Natural speech reveals the semantic maps that tile human cerebral cortex”.

È possibile guardare dei video che sinteticamente illustrano tale scoperta, quello prodotto da Nature e l’altro dalla National Science Foundation.

The Brain dictionary (l’articolo prosegue sotto il video)

 

Tour della mappa semantica

Sul sito è stata riportata la mappa semantica del cervello, un tour in 3D tratto da un modello confacente ad ogni cervello umano. I colori indicano la categoria di parole prevista per suscitare la più grande risposta in ciascun voxel. È possibile ruotare, ingrandire il modello del cervello per vederne i vari dettagli. Attraverso il comando “next” si può iniziare tale tour. Si hanno varie sezioni:

– Modelli voxel-wise
Viene qui allestito un modello di regressione separata per ciascuno di 60.000 voxel nella corteccia cerebrale. Un modo per immaginare un modello è quello di prevederne la sua risposta a 10.000 parole differenti e mostrare le 20 con la più alta risposta prevista. Questi voxel nel lobo sinistro occipito-temporale della corteccia, sembrano rispondere alle parole collegate alle informazioni sulla forma e spazio. Molte delle altre parole evidenziate in verde rispondono fortemente alle parole legate allo spazio e al tatto.

– Rappresentazione delle parole sociali
In questa sezione sono evidenziate le parole che sono collocate nel giro angolare nella parte destra. I ricercatori sostengono che lì ci possa essere una forte risposta alle parole che descrivono eventi drammatici, così come le parole che descrivono il tempo. Gli altri voxel, quelli rosso intenso e arancione, prevedono la risposta alle parole sociali o drammatiche. Il rosso scuro e il marrone invece rispondono a parole di tempo e luogo.

– Rappresentazione di parole numeriche
I voxel qui evidenziati sono localizzati nel solco destro precentrale. I ricercatori prevedono che lì ci sia una risposta selettiva ai numeri.

– Ingrandimento della superficie corticale
In questa sezione si mostra come molti dei voxel interessanti nel cervello siano nascosti alla vista, all’interno delle pieghe (circonvoluzioni) nella superficie corticale. I ricercatori sono stati in grado di “gonfiare” la corteccia in modo da rendere visibili alcuni di questi voxel, per vederlo basta premere nel menù (in alto a destra) il tasto “inflate” sotto il tasto “camera”. Per tornare alla vista originale basta premere “reset”.

– Conferma dei modelli voxel
Solo alcuni dei voxel nella corteccia celebrale rispondono selettivamente e in modo affidabile ad alcune categorie di parole. Per determinare quali sono queste categorie, i ricercatori hanno testato l’accuratezza di previsione di ogni modello di una storia a parte, che non era stata utilizzata per il modello di montaggio. Per attivare la visione di quanto detto è possibile premere il tasto “performance” a destra. Per ritornare alla visione originale premere il tasto “selectivity”.

– Atlante PrAGMATiC
Uno dei principali obiettivi della ricerca è stato creare un “atlas of semantic selectivity in the human brain” (dal sito, sezione settima, “PrAGMATiC atlas”); uno degli scopi è stato dunque quello di creare un atlante di selettività semantica nel cervello umano. A tal proposito è stato sviluppato un nuovo modello probabilistico di aree per rivestimento della corteccia per tale atlante. Il modello PrAGMATiC presuppone che ogni soggetto abbia le stesse aree funzionali, ma permette qualche variazione tra gli individui nella precisa posizione e dimensione di ogni area. L’atlante PrAGMATiC divide l’emisfero sinistro in 192 aree funzionali distinte, 77 delle quali sono semanticamente selettive. L’emisfero destro è diviso in 128 aree funzionali, di cui 63 sono semanticamente selettive. Per coloro che consultano questa visione 3D è possibile vedere i maggiori dettagli di selettività semantica (o la sua assenza) facendo un click sull’area che desiderano approfondire.

– PrAGMATiC area SPFC R10
Qui per visualizzare la selettività semantica di ogni area i ricercatori hanno calcolato una media tra i voxel-wise che costituiscono i modelli all’interno di tale area in tutti e sette i soggetti. Hanno poi previsto come quella zona risponderà a ciascuna delle 10.000 parole differenti e visualizzato le 20 parole previste per evocare la risposta più alta. L’area semanticamente selettiva evidenziata qui si trova nella corteccia prefrontale destra. I modelli prevedono una forte risposta alle parole che descrivono luoghi (spesso sedi di attività), ore e numeri.

 

Conclusioni

In conclusione, possiamo dire che l’atlante semantico fornisce, per la prima volta, una mappa dettagliata di come il significato è rappresentato nella corteccia umana. Come è stato accennato all’inizio del presente articolo, questo risultato ha dato modo di scoprire che il linguaggio impegna ampie regioni del cervello e non è limitato solo ad alcune. Questo studio ha fornito, infatti, l’importante risultato di vedere che le rappresentazioni linguistiche sono bilaterali: le risposte nell’emisfero cerebrale destro sono grandi e varie circa quanto le risposte di quello sinistro. Viene così sfidata l’ipotesi (ricavata da studi sui deficit linguistici prodotti da lesioni celebrali) corrente, secondo cui il linguaggio coinvolga esclusivamente l’emisfero sinistro. È stata una sorpresa per i ricercatori stessi il fatto che il linguaggio interessi entrambi gli emisferi.

La recente scoperta fornisce una valida conoscenza per la comprensione dei meccanismi celebrali che sottostanno al linguaggio, ma potrebbe avere anche importanti implicazioni per studiare la riabilitazione a seguito di lesioni celebrali che abbiano danneggiato i settori legati al linguaggio. Gli studi futuri potranno chiarire come tali mappe cambino in presenza di disturbi legati al linguaggio (come la dislessia) o in condizioni neurologiche legate all’elaborazione del linguaggio.

I ricercatori comunque sottolineano il bisogno di approfondire questi studi in quanto, il campione a cui è stato sottoposto l’esperimento è in numero ristretto, per giunta dello stesso gruppo sociale, fattore che potrebbe inficiare sui risultati. Pertanto i ricercatori continueranno i loro studi estendendoli a campioni maggiori, con gruppi più eterogenei al fine di migliorare la precisione delle mappe e per comprendere le differenze individuali.

Insegnare ai bambini la matematica: l’utilizzo di un abaco immaginario

I risultati hanno dimostrato che l’utilizzo di un immagine mentale di un abaco (mental abacus) favorisce un miglior apprendimento della matematica e in particolare delle abilità di calcolo e di aritmetica rispetto alle altre tecniche tradizionali, ma questi benefici non risultano presenti nello stesso modo nei bambini che presentano in partenza minori abilità cognitive di natura spaziale o della memoria di lavoro.

 

La matematica è una materia che richiede abilità cognitive spaziali e della memoria di lavoro e per questo ci si chiede se le tecniche di apprendimento tradizionali siano sufficienti per l’apprendimento della stessa o se sia necessario integrarle con lo strumento (immaginativo) dell’abaco.

Su Child Development è stato pubblicato uno studio condotto in India sugli effetti nel processo di apprendimento derivanti dall’utilizzo della visualizzazione mentale dell’abaco. Hanno partecipato allo studio 183 bambini di età compresa tra i 5 e i 7 anni.

Durante la baseline sono state testate le abilità cognitive e matematiche dei bambini ed essi sono stati assegnati in modo random ad uno dei 2 gruppi: nel primo per 3 ore alla settimana veniva utilizzato l’abaco immaginativo per insegnare la matematica, mentre nell’altro si proponevano 3 ore supplementari di matematica ma senza l’utilizzo della tecnica mental abacus. Lo studio è stato condotto per la durata di 3 anni, al termine dei quali sono state nuovamente testate le abilità matematiche e cognitive dei bambini.

I risultati hanno dimostrato che la visualizzazione mentale dell’abaco favorisce un miglior apprendimento della matematica e in particolare delle abilità di calcolo e di aritmetica rispetto alle altre tecniche tradizionali, ma questi benefici non risultano presenti nello stesso modo nei bambini che presentano in partenza minori abilità cognitive di natura spaziale o della memoria di lavoro.

Questo dimostra che l’abaco mentale è sicuramente uno strumento utile ed efficace per favorire l’apprendimento di abilità matematiche nei bambini, ma non consente di migliorare la capacità di visualizzare o manipolare gli oggetti, qualora esse risultino deficitarie.

 

Il metodo dell’abaco mentale (VIDEO)

 

 

Abstract:

Mental abacus (MA) is a technique of performing fast, accurate arithmetic using a mental image of an abacus; experts exhibit astonishing calculation abilities. Over 3 years, 204 elementary school students (age range at outset: 5–7 years old) participated in a randomized, controlled trial to test whether MA expertise (a) can be acquired in standard classroom settings, (b) improves students’ mathematical abilities (beyond standard math curricula), and (c) is related to changes in basic cognitive capacities like working memory. MA students outperformed controls on arithmetic tasks, suggesting that MA expertise can be achieved by children in standard classrooms. MA training did not alter basic cognitive abilities; instead, differences in spatial working memory at the beginning of the study mediated MA learning.

Fiocchi di grafene per calmare le sinapsi: la tecnologia al grafene apre nuovi orizzonti terapeutici

Tamponare l’attività delle sinapsi con una tecnologia innovativa basata sul grafene, questa è l’idea alla base del lavoro appena pubblicato sulla rivista ACS Nano, coordinato dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e dall’Università di Trieste.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Lo studio in particolare ha svelato l’efficacia dei fiocchi di ossido di grafene di interferire con l’attività delle sinapsi eccitatorie, un effetto che in futuro potrebbe essere sfruttato per nuovi trattamenti di patologie come l’epilessia.

Il laboratorio di Laura Ballerini alla SISSA, in collaborazione con l’Università di Trieste, l’Università di Manchester e l’Università di Castilla-la Mancha, ha scoperto un nuovo approccio per modulare l’attività delle sinapsi. Questa metodologia potrebbe essere utile nel trattamento di condizioni patologiche dove l’attività elettrica nervosa è alterata.

Ballerini e Maurizio Prato (Università di Trieste) sono i principal investigator del progetto che è inserito nella flagship europea del grafene, un’ampia collaborazione internazionale della durata prevista di dieci anni (per un miliardo di euro di finanziamento) che studia gli usi innovativi di questo materiale.

Le terapie tradizionali per le malattie neurologiche in genere si basano sull’utilizzo di farmaci mirati ad agire nel cervello o di approcci neurochirurgici . Oggi però la tecnologia del grafene sembra molto promettente in questo tipo di applicazioni, e per questo sta ricevendo molta attenzione da parte della comunità scientifica. Il metodo studiato da Ballerini e colleghi si basa sull’uso di nano-fiocchi (flake) di grafene, in grado di tamponare l’attività delle sinapsi semplicemente con la loro presenza in loco.

Abbiamo somministrato – in condizioni di esposizione “cronica”, cioè ripendo l’operazione ogni giorno per circa una settimana – delle soluzioni acquose di fiocchi di grafene a normali colture di neuroni su vetrino. Grazie all’analisi funzionale dell’attività elettrica neuronale abbiamo poi tracciato l’effetto sulle sinapsi – spiega Rossana Rauti, ricercatrice della SISSA e prima autrice della ricerca.

Negli esperimenti le dimensioni dei fiocchi potevano variare (10 micron o 80 nanometri) come anche il tipo di grafene: in una condizione si usava grafene normale in un’altra ossido di grafene.

L’effetto di ‘tamponamento’ dell’attività sinaptica si ottiene con i fiocchi più piccoli di ossido di grafene e non nelle altre condizioni – spiega Ballerini – L’effetto è sistematico e selettivo per le sinapsi eccitatorie, mentre è assente in quelle inibitorie.

Questione di dimensioni

Qual è l’origine di questa selettività?

Sappiamo che in linea di massima il grafene non interagisce chimicamente con le sinapsi, o comunque in maniera limitata, il suo effetto è probabilmente dovuto alla semplice presenza in corrispondenza delle sinapsi – spiega Denis Scaini, ricercatore della SISSA fra gli autori dello studio – Non abbiamo ancora prove dirette, ma la nostra ipotesi è che ci sia un legame con l’ampiezza dello spazio sinaptico.

Una sinapsi è un punto di contatto fra un neurone e un altro dove il segnale elettrico nervoso salta dall’unità presinaptica a quella post sinaptica.

Nel punto di contatto c’è in realtà un piccolo spazio, una discontinuità dove il segnale elettrico viene tradotto in neurotrasmettitore e rilasciato dalla terminazione presinaptica nello spazio extracellulare e riassorbito da quella postsinaptica, per essere tradotto nuovamente in segnale elettrico.

La larghezza dello spazio varia a seconda del tipo di sinapsi:

Per quelle eccitatorie del sistema studiato, è più accessibile, quindi maggiore è la probabilità che i fiocchi di grafene vi interagiscano, a differenza di quelle inibitorie, meno fisicamente accessibili in questo modello sperimentale – spiega Scaini.

Un altro indizio che porta a pensare che distanze e dimensioni potrebbero essere cruciali nel processo è dato dall’osservazione che il grafene svolge la sua funzione solo nella forma ossidata.

Il grafene normale si presenta come un foglietto disteso e abbastanza rigido, mentre l’ossido ha un aspetto più accartocciato e per questo potrebbe favorire l’interfaccia con lo spazio sinaptico – aggiunge Rauti.

La somministrazione di soluzioni di fiocchi di grafene lascia i neuroni vivi e intatti, per questo motivo il team pensa che potrebbero trovare spazio in applicazioni biomediche, per il trattamento di alcune patologie. Una fra le migliori candidate sembra essere l’epilessia, che è caratterizzata da attività elettrica nervosa alterata nel cervello.

Si potrebbe pensare ad un rilascio farmacologico mirato sfruttando la apparente selettività di interazione sinaptica (cioè a livello della unità funzionale di base dei neuroni) di questi nano materiali – conclude Ballerini.

Malattia di Alzheimer: il sintomo dell’apatia

L’apatia si manifesta solitamente nelle fasi precoci della malattia di Alzheimer, ma persiste con la progressione della stessa, e rappresenta uno tra i sintomi neuropsichiatrici più diffusi nelle persone con demenza. Nel 2008 il Consorzio Europeo della malattia di Alzheimer ha emesso le linee guida per la diagnosi dell’apatia

Giulia Cesetti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Introduzione: la diagnosi della malattia di Alzheimer

[blockquote style=”1″]Diventando più emotivi e meno cognitivi, noi ricorderemo il modo in cui ci parlate, non quello che ci dite. Conosciamo i sentimenti ma non la trama. Il vostro sorriso, la vostra risata, il vostro tocco sono le cose con cui noi possiamo entrare in relazione. L’empatia è una cura. Amateci per come siamo. Siamo ancora qui, con le nostre emozioni e con il nostro spirito, se solo riusciste a trovarci.[/blockquote]
(Christine Bryden,2005, p.138)

La demenza è una sindrome clinica caratterizzata da perdita delle funzioni cognitive di entità tale da interferire con le usuali attività sociali e lavorative del paziente. Oltre ai sintomi cognitivi sono presenti sintomi non cognitivi, che riguardano la sfera della personalità, l’affettività, l’ideazione, la percezione, le funzioni vegetative e il comportamento (Boller & Traykov, 1999).

Tra le diverse forme di demenza, la malattia di Alzheimer è quella più diffusa (Ott, Breteler, van Harskamp, Stijnen& Hofman, 1998).
La progressione della malattia è caratterizzata da stadi in cui si evidenziano specifici clusters di sintomi e segni cognitivi e funzionali (Dubois et al.,2007).
Nel grado lieve possono presentarsi disturbi di memoria di lieve entità, deficit di problem solving, episodi di disorientamento tempo-spaziale, ansia e depressione anche per la consapevolezza del deficit e anomie.
Il grado moderato è caratterizzato da deficit che interferiscono con la vita quotidiana, scarsa igiene personale, incontinenza urinaria e disturbi del comportamento.
Nel livello grave si possono presentare sintomi come la fatica nella deambulazione, mancati riconoscimenti e linguaggio ridotto.
La fase terminale è caratterizzata da catatonie e complicanze internistiche che portano alla morte.

Le caratteristiche della malattia possono variare da persona a persona, tuttavia la manifestazione iniziale è generalmente subdola e insidiosa e il decorso cronico-progressivo. I sintomi iniziali sono spesso attribuiti ad un normale invecchiamento, allo stress o alla depressione. Nella maggioranza dei casi solo a distanza di uno/due anni dall’esordio la malattia è tale da portare i familiari a richiedere un aiuto specialistico. La presenza di sintomi cognitivi e non cognitivi pone delle difficoltà in termini di diagnosi differenziale e un ritardo nell’individuazione precoce della malattia.

 

Il sintomo dell’apatia nella malattia di Alzheimer

L’apatia può essere definita come una perdita di motivazione rispetto al precedente livello di funzionamento dell’individuo; si manifesta con una diminuzione degli obiettivi di tipo cognitivo e comportamentale (Marin,1991). Tra i pazienti con diagnosi di malattia di Alzheimer (AD) la frequenza dell’apatia si colloca in un intervallo tra il 25% e il 50% (Landes, Sperry, Strauss & Geldmacher, 2001). La depressione è uno dei maggiori disturbi psichiatrici correlati all’apatia nella malattia di Alzheimer, la perdita di interessi e di motivazione sono sintomi comuni ad entrambe le sindromi (Starkstein, Petracca, Chemerinski& Kremer, 2001). Tuttavia l’apatia non deve essere interpretata come un mero sintomo di depressione, considerando il fatto che circa la metà dei pazienti con malattia di Alzheimer che manifestano apatia non presentano una depressione in concomitanza (Starkstein et al.,2001).

L’apatia si manifesta solitamente nelle fasi precoci della malattia, ma persiste con la progressione della stessa, e rappresenta uno tra i sintomi neuropsichiatrici più diffusi nelle persone con demenza (Lyketsos, Lopez, Jones, Fitzpatrick, Breitner, & DeKosky, 2002). Nel 2008 il Consorzio Europeo della malattia di Alzheimer ha emesso le linee guida per la diagnosi dell’apatia (Winblad et al., 2008). Secondo queste linee guida per una corretta diagnosi di apatia la diminuzione della motivazione deve permanere per non meno di quattro settimane e due delle seguenti tre dimensioni devono essere presenti: riduzione dei comportamenti diretti ad un scopo, diminuzione dell’attività cognitiva diretta ad uno scopo ed emotività ridotta. Inoltre, la compromissione funzionale dovrebbe essere attribuibile all’apatia (Robert et al., 2009).

Perché l’apatia possa essere diagnosticata la persona con Alzheimer deve soddisfare i seguenti criteri: A, B, C e D.
Criterio A. Perdita o diminuzione della motivazione in confronto al livello precedente di funzionamento del paziente, la stessa non è coerente con la sua età o la cultura. Questi cambiamenti nella motivazione possono essere segnalati dal paziente stesso o da osservazioni di altri.
Criterio B. Significativa presenza di almeno un sintomo in almeno 2 dei seguenti 3 domini per un periodo di almeno 4 settimane, presente per la maggior parte del tempo.
B1. Dominio del comportamento: Perdita o diminuzione del comportamento diretto ad uno scopo che si evince da uno dei seguenti comportamenti: diminuzione dell’iniziativa alla partecipazione ad attività sociali, ad iniziare o a rispondere ad una conversazione o ad impegnarsi in attività di vita quotidiana.
B2. Dominio della cognizione: la perdita dell’attività cognitiva è dimostrata da almeno uno dei seguenti sintomi: perdita di curiosità/idee spontanee per eventi nuovi e/o di routine.
B3. Dominio delle emozioni: diminuzione dell’emotività comprovata da almeno uno dei seguenti aspetti: perdita di emozione spontanea osservata o auto riferita, ad esempio sensazione soggettiva di emozioni deboli o assenti o l’osservazione da parte di altri di un appiattimento affettivo; perdita di reattività emozionale a stimoli o eventi positivi o negativi.
Criterio C. Questi sintomi (A e B) causano un disagio clinicamente significativo e una compromissione personale, sociale e occupazionale.
Criterio D. I sintomi (A e B) non sono causati esclusivamente da disabilità fisiche (ad esempio, la cecità o la perdita dell’udito), dalle disabilità motorie, dal ridotto livello di coscienza o da effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad esempio, uso di droga o farmaci).
L’apatia potrebbe derivare dalle limitazioni funzionali causate dal deficit cognitivo (Landers et al., 2001).

Diversi studi hanno dimostrato un’associazione significativa tra l’apatia e una riduzione dell’attività metabolica nelle regioni pre frontali (Benoit, Clairet, Koulibaly, Darcourt & Robert, 2004; Craig, Cummings, Fairbanks, Itti, Miller, Li & Mena, 1996) suggerendo che i cambiamenti neuropatologici alla base dell’apatia possono in parte spiegare l’alta frequenza della stessa in pazienti con malattia di Alzheimer.

Ci sono diversi strumenti in letteratura che valutano la presenza di apatia nella persona con malattia di Alzheimer. Uno di questi è l’Apathy Scale (Robert et al.,2002), un questionario dotato di una buona validità e affidabilità composto da 14 item. Il questionario viene compilato dai familiari dei pazienti o da un caregiver e valuta 3 dimensioni che definiscono l’apatia: l’ottundimento emotivo, la mancanza di iniziativa e la mancanza di interessi.
Uno studio longitudinale (Starkstein, Jorge, Mizrahi & Robinson, 2006) ha valutato 354 persone con diagnosi di malattia di Alzheimer e ha misurato la presenza di apatia attraverso il questionario Apathy Scale (Robert et al., 2002) e mediante criteri standardizzati.

Inoltre, sono stati misurati altri aspetti tra i quali la depressione, la compromissione funzionale e il funzionamento cognitivo globale. I risultati hanno evidenziato come l’apatia rappresenti un predittore significativo di una maggiore depressione e di un declino funzionale e cognitivo più rapido.
La sindrome apatica nella malattia di Alzheimer è associata ad un maggiore rischio di mortalità. (Vilalta-Franch, Calvó-Perxas, Garre-Olmo, Turró-Garriga & López-Pousa, 2013).

L’apatia nella persona con malattia di Alzheimer spesso è anche responsabile di un aumento dello stress nei caregivers (Samus et al., 2005; Weiner, Hynan, Bret & White, 2005) e nel corso del tempo la rabbia e i conflitti conseguenti rendono l’apatia un fattore di rischio per l’istituzionalizzazione (Rea, Carotenuto, Fasanaro, Traini & Amenta, 2014).

 

Il trattamento dell’apatia nella malattia di Alzheimer

Considerando il ruolo esercitato dall’apatia nella malattia di Alzheimer, diversi studi hanno indagato la possibilità di ridurre la sindrome apatica attraverso trattamenti farmacologici e/o non farmacologici. Attualmente l’epidemiologia, la patogenesi e il trattamento dell’apatia nella malattia di Alzheimer sono poco chiari e controversi (Drijgers, Aalten, Winogrodzka, Verhey& Leentjens, 2009; Levy & Dubois, 2006; Robert, Mulin, Malléa& David, 2010). Il trattamento farmacologico nella persona con demenza non permette una restituito ad integrum, ma, al massimo consente un lieve rallentamento della malattia. Attualmente il trattamento farmacologico della demenza si basa sulla prescrizione di inibitori dell’acetilcolinesterasi (Donepezil, Rivastigmina, Galantamina) e sull’antagonista del recettore NMDA (Memantina). Questi farmaci sembrano indurre miglioramenti modesti sulle funzioni cognitive, sull’attività della vita quotidiana e sui sintomi comportamentali della demenza in pazienti con un livello di malattia da lieve a grave (Black et al.,2007; Erkinjuntti, Kurz, Gauthier, Bullock, Lilienfeld& Damaraju, 2002; Reisberg, Doody, Stöffler, Schmitt, Ferris & Möbius, 2003).

Tuttavia, secondo una recente review della letteratura (Rea et al.,2014) non vi è ancora un evidente vantaggio di una particolare terapia farmacologica nel trattamento dell’apatia. Lo stesso resta una delle principali sfide nella cura della malattia di Alzheimer.
L’uso dei farmaci in persone con malattia di Alzheimer in alcuni casi non ha mostrato un effetto superiore rispetto al placebo e può essere causa di un peggioramento del disturbo (Doody et al.,2013; McCleery Cohen, & Sharpley,2014; Schneider, Dagerman, & Insel, 2005). Per tali ragioni parte dell’attenzione è stata rivolta anche alle cosiddette terapie non farmacologiche, che hanno dimostrato una certa efficacia nella riduzione dei sintomi comportamentali, psicotici e nel miglioramento dei sintomi cognitivi, del benessere e della qualità della vita delle persone con malattia di Alzheimer (Chen, Liu, Lin, Peng, Chen, Liu, & Chen, 2014; Cooper et al., 2012; Mitchell, McCormack & McCance, 2014; Spagnolo, Aricò, Bergamelli, Mazzucco, Boldrini, Di Giorgi & Gallucci,2015).

Uno studio pilota (Spagnolo et al.,2015) ha indagato il ruolo della stimolazione cognitiva caratterizzata da un’associazione sequenziale di 3 terapie non farmacologiche: la Rot (Realty Orientation Therapy) (Spector, Davies, Woods & 2000), la terapia della Reminiscenza (Goldwasser, Auerbach, & Harkins,1987) e quella della Rimotivazione (Mazzucchi,2006).  Il programma (3R-CS) è stato applicato a 36 pazienti e ai loro caregiver. Tutti i pazienti hanno ricevuto un assessment multidimensionale che consisteva nell’individuare informazioni di carattere socio-demografico, clinico e neuropsicologico.

Al termine del trattamento è stato dimostrato un miglioramento significativo per quanto riguarda l’aspetto cognitivo e delle autonomie nelle attività della vita quotidiana. I sintomi comportamentali delle persone con malattia di Alzheimer e lo stress del caregiver hanno mostrato una significativa riduzione. Considerando la scarsità di dati presenti in letteratura sarebbe importante realizzare studi controllati e randomizzati al fine di indagare gli effetti delle terapie farmacologiche e non farmacologiche e una loro possibile associazione.

In particolare per approfondire gli effetti dei trattamenti nella riduzione dell’apatia occorrerebbe misurare il costrutto in modo adeguato considerando sia la percezione dei familiari che quella di operatori e caregiver, cercando di isolare possibili variabili confondenti e considerando le differenze già individuate in letteratura tra apatia e depressione.

Il modello di Garner e Bemis per i disturbi alimentari

Secondo il modello di Garner e Bemis i sintomi anoressici e bulimici sarebbero sostenuti da un gruppo di assunzioni cognitive non così immediatamente collegate al sintomo del controllo alimentare e del peso, ma con implicazioni più ampie che investono la definizione di sé e il rapporto con gli altri.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il modello di Garner per i disturbi alimentari (Nr. 13)

 

Il modello di Fairburn e i suoi limiti

Il primo modello di Fairburn, benché efficace, presentava parecchi limiti. Era applicabile solo alla bulimia e funzionava soltanto su metà delle pazienti. L’altra metà sfuggiva ai benefici del trattamento. Inoltre, l’analisi cognitiva di Fairburn era eccessivamente aderente al sintomo e trascurava le strutture cognitive più complesse.

Che cosa significa ‘eccessivamente aderente al sintomo’? Come abbiamo visto, la terapia cognitiva si basa sull’analisi delle convinzioni e degli scopi che sottendono ai comportamenti, anche ai comportamenti di natura sintomatologica. In altre parole, i sintomi sarebbero anch’essi comportamenti che mettiamo in atto per ottenere qualcosa. L’ansia, sebbene sgradevole, ci serve per innalzare l’attenzione e la concentrazione  in presenza di un pericolo o davanti a una prova difficile; le compulsioni ossessive hanno una funzione di controllo o espiatoria, e così via.

Lo stesso vale per i comportamenti alimentari disturbati di anoressiche e bulimiche: anch’essi rispondono a scopi e a convinzioni o, in termini cognitivi, a credenze. Fairburn aveva saputo dare una risposta cognitiva ad alcune domande: perché la paziente bulimica vomita? Perché quella anoressica restringe la sua alimentazione? Perché fa dipendere l’autostima dal controllo del peso e dell’aspetto corporeo.

Mantenere l’autostima a un certo livello è l’obiettivo di ogni essere umano. Ma è un obiettivo non facile, perché la vita pone continuamente davanti a sconfitte e frustrazioni e occasioni che ci fanno dubitare del nostro valore.

L’ostacolo si supera a patto di saper relativizzare e contestualizzare gli inevitabili fallimenti. Ma si tratta di un’operazione complessa, che riesce probabilmente soltanto se si possiede la capacità di fissare e raggiungere obiettivi personali soddisfacenti e gratificanti che danno senso, significato e scopo alla vita (ovvero, auto-direzionalità). Le pazienti con disturbo alimentare non hanno questa capacità e  finiscono per legare la propria autostima a un parametro meccanicamente controllabile, appunto il controllo del peso e del  corpo. L’autostima, quindi, era l’unico parametro psicologico sopraordinato presente nel modello elaborato da Fairburn.

 

Prima di Fairburn: il modello di Garner e Bemis

Prima ancora di Fairburn, altri due studiosi, Garner e Bemis, avevano tentato di applicare il modello cognitivo ai disturbi alimentari. Un tentativo, persino più sofisticato di quello di Fairburn, perché secondo il modello di Garner e Bemis i sintomi anoressici e bulimici  sarebbero sostenuti da un gruppo di assunzioni cognitive non così immediatamente collegate al sintomo del controllo alimentare e del peso, ma con implicazioni più ampie che investono la definizione di sé e il rapporto con gli altri.

Intendiamoci: anche per il modello di Garner e Bemis le preoccupazioni sul peso e la forma del corpo  sono importanti, ma non in sé. Esse sono semmai descritte come indici di valore personale e di autocontrollo arbitrariamente scelti dalla paziente. Indici rozzi, certo, ma facilmente quantificabili. Il problema della paziente con disturbo alimentare è proprio l’incapacità di gestire un aspetto così ambiguo e altalenante dell’esistenza come l’amor proprio e l’autostima. È veramente possibile sapere se e quanto valiamo? È veramente possibile nutrire una buona stima di sé, priva di ombre e nonostante gli insuccessi e le delusioni che la scalfiscono? Sì, è possibile, ma non è un’impresa facile. Si tratta di imparare a tollerare stati emotivi dolorosi e sgradevoli.

Di qui la tentazione, in personalità più fragili, di rimpicciolire l’orizzonte del proprio valore personale a un parametro misero e ristretto, come il controllo del peso e dell’aspetto corporeo. Il modello di Garner e Bemis propone una visione che va oltre il modello troppo aderente ai sintomi di Fairburn e che comprende una descrizione più complessa e varia della personalità di anoressiche e bulimiche: ad esempio il loro perfezionismo patologico, stato  ansioso che le spinge a temere ogni errore in quel che fanno o dicono o sono, e che per queste pazienti equivale a un fallimento definitivo; la sfiducia profonda nelle relazioni con gli altri, che le anoressiche vivono come minacciosamente giudicanti e sprezzanti. Tutto questo si lega a una particolare difficoltà a comprendere e gestire i propri stati d’animo più negativi, con la conseguenza che per queste pazienti concentrare tutta la propria vita  sul cibo e il corpo diventa l’alternativa meno dannosa e gravosa.

Un altro parametro segnalato dal modello di Garner e Bemis è il timore della maturità (maturity fear), definito come fuga dal mondo complesso degli adulti, mondo in cui il giudizio di sé e degli altri è troppo sfuggente e cangiante e quindi frustrante, mentre l’anoressica è costantemente alla ricerca di sicurezze, certezze, controllo.

Queste credenze cognitive ampie e che investono l’intera persona vengono poi rimpicciolite nella serie dei pensieri automatici e dei comportamenti stereotipati individuati da Fairburn: cercare di dimagrire seguendo una dieta ferrea o, nel caso si verifichino delle abbuffate, utilizzando svariate condotte eliminative (vomito autoindotto, abuso di lassativi o diuretici, esercizio fisico eccessivo). Il disturbo si mantiene nel tempo grazie a rinforzi cognitivi ma anche ad alterazioni fisiologiche del ciclo fame-sazietà (Garner et al., 1997).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La musica come strumento di narrazione e condivisione: il caso di Gwen Stefani

Ad un anno da quella fatidica sera della cerimonia dei Grammy, Gwen Stefani, ex leader dei No Doubt e solista da ormai molti anni, racconta la sua storia sfidando gli interessi commerciali e persino i gusti del pubblico di seguaci.

 

Il partner di vita, marito da 13 anni e padre dei suoi tre figli, decide di interrompere bruscamente la relazione, portando con sé la storia del tradimento con la tata e tutti i pettegolezzi che pullulano tra i giornali.

Un anno difficilissimo per una diva dello spettacolo, sempre di più spinta a curare l’aspetto estetico e l’immagine, più dei contenuti. In occasione di un evento traumatico che scalfisce drasticamente la sua esistenza, la cantante decide di dare una svolta importante alla carriera: compone, così, un album che parla di sé.

 

La musica come strumento di narrazione e condivisione

Gwen Stefani considera il suo lavoro un misto di creatività e impegno, che coinvolge le aspettative, il sé presente e passato, l’avanzamento e il superamento dei limiti.

La sfida non è nei confronti di un’altra cantante, ma verso una Gwen che per avere successo deve spingersi oltre e migliorare e soprattutto porsi molti interrogativi sull’utilità della sua carriera.

Bellissima e famosa, si ritrova di colpo di fronte ad un divorzio da cui, però, la cantante sembra risalire con stile.

Con ‘This is what the truth feels like’, Gwen Stefani decide di seguire il bisogno artistico e psicologico di comunicare, attraverso le canzoni, la sua storia, i pensieri e i sentimenti più intimi.

Purtroppo, però, i discografici non amano questo slancio di sincerità e le critiche arrivano alla velocità della luce. Troppo personale e poco commerciale, diranno, invitandola a cambiare  stile, altrimenti le vendite caleranno vertiginosamente.

Contrariamente alle aspettative della casa discografica, il disco si aggiudica il primo posto nella classifica delle vendite americane, un’esperienza che la cantante non aveva ancora sperimentato. Il lieto fine si estende anche alla vita privata, perché la donna scopre di avere la speranza, il coraggio, la perseveranza e anche la capacità di innamorarsi di nuovo.

La storia di Gwen Stefani è un esempio di come la musica, unita ad importanti risorse psicologiche possa costituire un ottimo strumento per affrontare le avversità.

Parlare di sé attraverso le canzoni, seguendo la spontaneità e la creatività, nonché il coraggio di mettersi in gioco e di provare una strada diversa dal solito sottolineano una fenomenale capacità di affrontare il trauma con intelligenza e perseveranza.

Imboccando una strada nuova, quella dell’originalità, la cantante riesce addirittura a raggiungere una vetta importante, lasciando il dubbio che una buona parte del successo risieda proprio nel rispecchiamento dei bisogni del pubblico.

In altre parole, ritrovare una connessione tra il testo e le esperienze personali è un processo essenziale, che innesca non solo l’empatia ma anche una riflessione su di sé.

Consapevolmente o inconsapevolmente, la cantante può aver colto il bisogno non solo soggettivo, ma anche collettivo, di attribuire un significato rielaborando una storia unica ed irripetibile, ma con alcuni elementi ricorrenti e comuni riconoscibili in chi ascolta.

Il contributo della psiconeuroendocrinoimmunologia alla psicologia e alla psicoterapia

A Milano il 7 maggio, presso la Casa della Psicologia dell’OPL, si è tenuto il primo incontro del ciclo di conferenze della SIPNEI in relazione al tema della psicologia. In particolare, in questo incontro si è voluto brevemente presentare il modello PNEI e illustrarne le applicazioni in ambito psicologico e psicoterapeutico.

Dal Ciclo di Conferenze SIPNEI organizzate dalla sezione Lombardia

 

Lo stress come sistema di regolazione tra individuo e ambiente

Ad aprire i lavori è stata la dottoressa Marina Risi, specialista Ostetricia e Ginecologia nonché Vice-Presidente della SIPNEI. La dottoressa ha illustrato i principi alla base del paradigma scientifico della PNEI che studia, appunto, la relazione bidirezionale tra psiche e sistemi biologici di regolazione.

E’ stato introdotto il concetto di “stress”, che non va considerato qualcosa di per sé patologico. In realtà lo stress è l’espressione di un sistema di processi che modula, ai fini adattativi, la regolazione tra individuo e contesto. Con un’esposizione chiara e coinvolgente, la dottoressa Risi ha mostrato come l’individuo sia sempre impegnato nel mantenimento di un equilibrio e che i vari stressor (che possono essere di tipo psicologico, fisico, virale, ecc.) modificano questo equilibrio impegnando tutto l’organismo nella ricerca di una nuova stabilità. La reazione fisiologica allo stress è caratterizzata dal sistema portale ipotalamico-ipofisario che collega l’ipotalamo con l’ipofisi controllando, così,  il funzionamento neuroendocrino di tutto l’organismo e definendo delle specifiche interazioni sequenziali, chiamati assi neuroendocrini. Il numero di assi neuroendocrini corrisponde al numero di ormoni prodotti dall’ipofisi ed hanno capacità di autoregolazione.

La dottoressa, dichiarando che “Il corpo è pettegolo”, ha voluto in maniera semplice ma efficace far comprendere come l’organismo umano sia un’unità strutturata e interconnessa dove i sistemi psichici e biologici sono strettamente interdipendenti. I principali sistemi biologici coinvolti nella regolazione fisiologica sono la psiche, il sistema neurologico, quello endocrino e quello immunitario e da qui ne deriva il nome del paradigma. Tali sistemi, appunto, costituiscono un network psicocorporeo di relazione e regolazione capaci di garantire gli equilibri adattativi assimilando l’esperienza e gestendo la regolazione allostatica (ovvero la dinamica del mantenimento/cambiamento).

Il sistema dello stress, infatti, è organizzato in due assi (asse nervoso: circuito locus coeruleus-simpatico-midollare del surrene; e asse chimico: asse ipotalamo-ipofisi-corticale del surrene)  che si attivano contemporaneamente allertando fisiologicamente l’organismo. Tale attivazione comporta l’aumento del battito cardiaco e della pressione arteriosa ed, inoltre, attiva tutte le vie metaboliche le quali incrementano la produzione di energia necessaria per dare una risposta adeguata ad una qualunque minaccia per la sopravvivenza.

Dunque, il sistema dello stress è sempre attivo e, solo in particolari situazioni di eccesso o carenza, può produrre effetti che si rilevano progressivamente dannosi per l’individuo. Le attività legate allo stress producono un carico allostatico (ossia il peso biologico/energetico che il nostro organismo impiega per adattarsi alle condizioni mutevoli che affronta). In relazione a fattori soggettivi o ambientali il carico può diventare “sovraccarico” avviando una catena di conseguenti alterazioni del funzionamento corporeo.

Secondo tale approccio, dunque, lo stress cronico potrebbe concorrere all’insorgenza di patologie croniche come, ad esempio quelle cardiovascolari. In una ricerca pubblicata su Nature nel 2014, infatti, Heidt et al. hanno dimostrato, ad esempio, come il distress influenza negativamente il sistema immunitario inducendo l’aumento della produzione dei globuli bianchi. Tale incremento della produzione di globuli bianchi, a sua volta, determina l’aggravamento dell’infiammazione delle placche aterosclerotiche nelle arterie. L’aterosclerosi è associata all’infiammazione cronica e, nelle forme più avanzate, può portare a un restringimento dell’arteria e un ridotto afflusso di sangue, o produrre trombi e attacchi coronarici acuti.

 

Il ruolo della mente nei processi di regolazione corporea

All’intervento della dottoressa Risi è seguito quello del dottor David Lazzari, presidente SIPNEI – presidente dell’Ordine Psicologi Umbria e Responsabile del Servizio di Psicologia dell’Azienda Ospedaliera di Terni “Univ. S. Maria”.

Il dottor Lazzari ha sottolineato come sia importante lavorare secondo un paradigma di integrazione PNEI, soprattutto nel campo della Psicologia della Salute, focalizzando il suo intervento sul ruolo della mente nei processi di regolazione generale corporea.

All’interno del network corporeo e nel sistema dello Stress, la mente svolge un ruolo fondamentale di modulazione dove i segnali (enterocettivi o provenienti dall’ambiente) assumono significato in base alle esigenze individuali di adattamento.  L’eccessivo carico allostatico e psicologico collegati allo stress sono determinati in gran parte dall’attività mentale e, in quest’ottica, viene considerato tra i fattori di rischio principali per la salute.

Ciascun individuo può essere visto come un sistema che contratta costantemente il suo equilibrio adattativo in maniera più o meno funzionale. Tale negoziazione avviene in base alle risorse che ogni individuo possiede (ad esempio: obiettivi, legami affettivi, capacità di reazione). La mente è immersa nella fisiologia dell’organismo ma lo è anche nel contesto sociale e culturale. Per questo motivo  ha una funzione di regolazione generale rispetto ai processi adattativi e, più in generale, alla vita. In caso di malattia, non è un organo o una funzione del corpo ad ammalarsi, ma è la persona. La malattia è sempre dell’individuo ed è espressione di un malessere generale. Da tempo, infatti, la letteratura scientifica ha dimostrato come fattori soggettivi e psicosociali di persone affette, ad esempio, da patologie oncologiche influiscano in maniera importante sull’aderenza alle cure, sulla gestione e sulle complicazioni della malattia, sulla qualità di vita. Tra i fattori soggettivi, quelli che incidono maggiormente sono le modalità cognitive ed emotive con le quali l’individuo affronta la condizione di malattia, e la presenza di disagi o disturbi psicologici quali ansia e depressione (Leventhal et al, 2008).

Perciò, l’uomo costruisce attivamente la propria realtà, anche nel caso di malattia e, coerentemente con tale costruzione, attua comportamenti che a loro volta influenzeranno il suo stato di salute.

Presentando alcuni dati scientifici, pubblicati nel suo libro “PSICOTERAPIA: effetti integrati, efficacia e costi-benefici” , Lazzari ha dunque mostrato i livelli di efficacia delle psicoterapie e la sua utilità quando inserita in interventi multidisciplinari.

 

L’EMDR: intervento terapeutico del trauma

L’ultimo intervento dell’incontro è stato quello del dottor Mirko La Bella, psicologo e psicoterapeuta, EMDR Pratitioner nonché Responsabile SIPNEI della Regione Piemonte e docente presso l’Università Popolare di Torino.

Il dottor La Bella, ha parlato di regolazione emozionale e ha illustrato la tecnica EMDR come esempio di intervento integrato promosso anche dal paradigma PNEI.

L’EMDR è un approccio terapeutico impiegato per il trattamento del trauma e delle problematiche legate allo stress, sia di tipo traumatico che non.

Partendo dalle evidenze scientifiche che hanno dimostrato gli effetti della tecnica EMDR sul Sistema Nervoso Centrale, il paradigma PNEI ha avviato una riflessione sull’EMDR dal punto di vista dell’integrazione mente-corpo.

In quest’ottica tale tipologia di intervento si mostra efficace in quanto, per il lavoro terapeutico, si prende in considerazione non solo l’aspetto cognitivo ed emotivo ma la totalità dell’esperienza (aspetti fisiologici e relazionali oltre che emotivi e cognitivi). Il lavoro EMDR permette l’elaborazione dell’informazione legata ad eventi stressanti attraverso una nuova integrazione degli aspetti psicobiologici correlati all’evento. Il punto di forza dell’EMDR dunque, in un’ ottica PNEI, è la capacità di prendere in considerazione ed intervenire contestualmente sia sugli aspetti cognitivi ed emotivi che sui vissuti corporei. I dati scientifici attualmente disponibili confermano tali considerazioni. E’ noto, infatti come la tecnica EMDR modifichi i parametri fisiologici riducendo  l’attivazione da stress ed aumentando l’attivazione parasimpatica (Sack et al., 2008).

L’incontro si è concluso con l’augurio di aver suscitato interesse e di aver stimolato ogni professionista a costruire un dialogo multidisciplinare con tutte le figure coinvolte nella cura dei propri pazienti.

I gialli di Van Gogh: la pittura come ossessione che esaspera la nevrosi

La precaria salute mentale di Van Gogh, le sue stravaganze e le sue inquietudini emergono chiaramente nelle sue opere, dove si nota anche un continuo cambiamento dell’uso del colore, che riflette il modificarsi delle sue esperienze emotive. Nei dipinti di Van Gogh la luce non è mai calibrata: o è accecante o è tenebrosa, proprio come i suoi stati d’animo.

 

Se consideriamo l’arte come una rappresentazione del sé, gli ultimi dieci anni di vita di Vincent Van Gogh (1853-1890), che coincidono con la sua produzione artistica, ci permettono di affermare che il pittore olandese era un individuo profondamente depresso, ansioso e mentalmente confuso. Nel 1889 l’artista scrisse al fratello Theo:

Penso di accettare apertamente il mio mestiere di matto, come Degas ha vestito i panni del notaio. Ma ecco, non mi sento ancora tutta la forza necessaria per un simile ruolo.

La precaria salute mentale di Van Gogh, le sue stravaganze e le sue inquietudini emergono chiaramente nelle sue opere, dove si nota anche un continuo cambiamento dell’uso del colore, che riflette il modificarsi delle sue esperienze emotive. Nei dipinti di Van Gogh la luce non è mai calibrata: o è accecante o è tenebrosa, proprio come i suoi stati d’animo. La pittura è, per Vincent, un’ossessione che esaspera la sua nevrosi, tant’è vero che, in alcuni dei suoi ricoveri, gli venne proibito di dipingere. Pochi artisti sono riusciti ad esprimere i dolori e le sofferenze della propria vita con la stessa intensità di Van Gogh.

Dal 1880 il suo colore preferito divenne il giallo e dipinse una serie di ritratti di girasoli per decorare la sua casa gialla ad Arles, nel sud della Francia: i fiori sono sistemati su uno sfondo giallo burro, appoggiati su un tavolo color ocra, i petali, sempre gialli, sono spigolosi, dipinti con un’energia quasi maniacale. La predilezione di Van Gogh per il colore giallo era dovuta, molto probabilmente, all’abuso che faceva dell’assenzio: questo liquore agiva sul suo sistema nervoso, provocando delle allucinazioni e la xantopia, ovvero la visione gialla degli oggetti.

Mentre viveva ad Arles, Van Gogh invitò Paul Gauguin a trascorrere un periodo con lui: la fragilità mentale del primo e l’arroganza del secondo si rivelarono, però, una miscela esplosiva. Dopo una violenta lite tra i due, il pittore olandese si tagliò con un rasoio la parte di un orecchio che portò poi in un bordello per donarlo ad un’amica. Dopo questo episodio, al ritorno dall’ospedale, Vincent dipinse due straordinari autoritratti che mostrano la portata della ferita. Lo scopo degli autoritratti era quello di tranquillizzare il fratello Theo, al quale scrisse:

Credo che il ritratto possa dirti meglio di una lettera come sto.

Iniziò così un periodo caratterizzato da lunghi ricoveri psichiatrici e da una produzione artistica dove le pennellate di giallo diventarono sempre più violente. L’impeto delle sue creazioni è lo specchio della sua condizione psichiatrica.

In questo periodo Vincent ebbe l’aiuto di alcuni amici, tra cui il dottor Rey ed il pastore Salles; alternava periodi di lucidità a momenti di ricadute nella malattia. Nel mese di maggio 1889, Van Gogh entrò volontariamente nell’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole. La diagnosi del direttore della clinica fu di epilessia: i medici gli somministrarono la digitale che accentuò il disturbo della xantopsia. I soggetti principali del lavoro di Van Gogh divennero gli ospedali ed i manicomi: nel 1889 dipinse infatti ‘Davanti al manicomio di Saint-Rémy‘, ‘I giardini di Saint-Paul‘, ‘Il dormitorio di Saint-Paul‘ ed il ‘Ritratto del dottor Rey‘.

 

I gialli di Van Gogh la pittura come ossessione che esaspera la nevrosi - immagine 1
Davanti al manicomio di Saint-Rémy (1889) – V. Van Gogh, olio su tela

 

Nella primavera del 1890 Van Gogh lasciò definitivamente Saint-Remy e si stabiliì a Auvers-sur-Oise, un villaggio non lontano da Parigi, dove viveva il dottor Gachet, che si sarebbe preso cura di lui. Van Gogh era particolarmente nervoso in questo periodo e litigò con lo stesso Gachet di cui scrisse al fratello:

Credo che non bisogna contare in alcun modo sul dottor Gachet. Mi sembra che sia più malato di me, o almeno quanto me. Ora, quando un cieco guida un altro cieco, non andranno a finire tutti e due nel fosso? Non so che dire. Certamente la mia ultima crisi, che fu terribile, fu in gran parte dovuta all’influenza di altri malati.

Ad Auvers-sur-Oise l’artista realizzò parecchi quadri, molti dei quali rappresentavano paesaggi e scene di campagna, in particolare campi di grano. Il suo ultimo capolavoro, ‘Campo di grano con corvi’ (1890), è la sintesi dell’irrequieta esperienza umana ed artistica di Vincent che scriverà, a tal proposito:

immense distese di grano sotto cieli tormentati, non ho avuto difficoltà ad esprimere la mia tristezza, l’estrema solitudine.

Qualcosa di irreparabile era nell’aria ed il sentirsi abbandonato a causa di un mancato arrivo a Auvers-sur-Oise del fratello Theo che per motivi di salute e di lavoro dovette rinunciare alle vacanze, contribuì alla decisione di compiere un drammatico gesto: nel luglio 1890, dopo essere uscito a dipingere nelle campagne che circondavano il paese, Vincent Van Gogh decise di togliersi la vita.

Le cronache hanno sempre parlato della morte per suicidio del pittore; tuttavia, nel 2011, due storici dell’arte, Steven Naifeh e Gregory Smith hanno proposto una diversa ricostruzione: ad uccidere l’artista sarebbe stato un colpo partito accidentalmente dalla pistola di un ragazzino. Durante le ore di agonia, Van Gogh avrebbe deciso di non denunciare il giovane, perché aveva accolto la morte come una liberazione dalla sua depressione.

Pochi mesi dopo anche il fratello Theo venne ricoverato in una clinica per malattie mentali, a Parigi. Dopo un apparente miglioramento si trasferì ad Utrecht, dove morì a gennaio 1891, a sei mesi di distanza dal fratello.

Fattori di rischio nello sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini: il ruolo dell’attaccamento

Violenza e comportamenti aggressivi nei bambini e negli adolescenti sono un fenomeno in crescente diffusione ai giorni nostri. Ma quali sono i fattori di rischio nello sviluppo di tali condotte aggressive?

Federica Di Francesco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Quando si parla di fattori di rischio si fa riferimento a particolari caratteristiche o processi ritenuti all’origine del problema.

Gli eventi che si verificano durante l’infanzia e l’età prescolare sembrano portare allo sviluppo di disturbi nella condotta in età scolare, violenza nell’adolescenza e disordini psichiatrici in età adulta (Loeber, 1991; Robins, 1991).

Un fattore di particolare importanza è la qualità dello sviluppo della relazione genitore-bambino. In particolare,  gravi disordini nell’attaccamento portano allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini, comportamenti controllanti e disturbi nella condotta. Già a partire dai 5-6 anni, questi bambini mostrano mancanza di responsabilità, autogratificazione a spese altrui, disonestà e disprezzo per gli standard sociali (Raine, 1993). Secondo Bowlby (1969) un attaccamento problematico nei primi 3 anni di vita può portare ad una psicopatia affettiva, ossia all’incapacità di formare relazioni affettive significative, unita allo sviluppo di una forte rabbia, scarso controllo degli impulsi e assenza di rimorso.

Prima di soffermarci sull’importanza dell’attaccamento, è bene passare brevemente in rassegna ulteriori fattori significativi che potrebbero contribuire allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini e disordini della condotta.

 

 

Comportamenti aggressivi nei bambini: i fattori di influenza

Una combinazione di fattori emotivi, sociali e biologici possono interagire tra loro e promuovere comportamenti violenti e acting-out antisociali, in particolare l’interazione tra vulnerabilità interna (es. deficit emotivi e/o cognitivi) e fattori ambientali negativi (es. abusi o trascuratezza), possono dar vita a veri e propri disturbi della condotta (Lewis, 1990).

 

Ambiente familiare

Un significativo fattore di rischio è dato dall’ambiente familiare. Numerose ricerche hanno messo in luce una forte correlazione tra particolari aspetti dell’ambiente familiare e comportamenti aggressivi nei bambini e negli adolescenti, in particolare un basso livello socio economico (Sameroff, 1987), l’essere genitori single (Webster-Stratton, 1990), alti livelli di stress e depressione materna (Campbell, 1990) e l’esposizione a violenza fisica e psicologica (Juoriles et al., 1980), contribuirebbero alla formazione di condotte distruttive. Spesso si tratta di genitori con personalità antisociali, che elargiscono al bambino dure punizioni fisiche, non forniscono un’adeguata supervisione e sono poco coinvolti e presenti nella vita del figlio.

 

Fattori ambientali

Oltre alla famiglia, il bambino viene anche a contatto con l’ambiente esterno che può fornirgli modelli ed esempi che esaltano la violenza e in molti casi la giustificano. Quando si parla di fattori ambientali si fa riferimento ad un’atmosfera altamente impoverita, caratterizzata da modelli di violenza all’interno di comunità e dall’immediato accesso alla violenza fornito dai media. I comportamenti violenti possono infatti essere in larga parte appresi. I bambini cresciuti in questi ambienti apprendono che la violenza è un modo per risolvere i problemi e già dall’età prescolare viene a formarsi un sistema di credenze che induce all’uso della violenza: ‘l’aggressività è un modo legittimo per esprimere sentimenti, risolvere problemi, aumentare la propria autostima e raggiungere il potere’ (Shure &Spivak, 1988; Slaby & Guerra, 1988).

Un’ulteriore fonte di apprendimento è la TV, infatti si è visto che bambini che guardano cartoni animati violenti sono più predisposti a picchiare i compagni di scuola, non rispettare le regole all’interno della classe e a discutere con le insegnanti; questi bambini potrebbero risultare, spesso, insensibili al dolore e alla sofferenza degli altri (Huston et al., 1992).

 

Fattori biologici

Ad arricchire il quadro dei fattori di rischio nello sviluppo di disturbi della condotta e comportamenti aggressivi nei bambini , contribuiscono anche i fattori biologici, quali l’esposizione prenatale a droghe e alcool, problemi nello sviluppo del feto, stress materno, complicazioni nel parto e nascite premature, deficit nutrizionali e background genetico.

Come ben sappiamo la violenza non è correlata all’esistenza di un singolo gene, ma a tratti che potrebbero essere ereditati, come ad esempio un temperamento disinibito ed impavido, iperattività e problemi attentivi. Molti studi indicano, inoltre, come problemi cognitivi e linguistici possono precedere lo sviluppo di comportamenti violenti, in particolare sembrerebbe che bambini con disordini della condotta mostrerebbero deficit nell’espressione verbale e nella comprensione linguistica, nonché deficit delle funzioni esecutive correlati a disfunzioni del lobo frontale sinistro (Beitchman, Nair, Clegg, Ferguson & Patel, 1986; Schonfeld, Shaffer, O’Connor & Portnoy, 1988; White, Moffin & Silva, 1989, Gorenstein, Mammato & Sandy, 1989).

 

 

Comportamenti aggressivi nei bambini: il ruolo dell’attaccamento

Oltre ai fattori familiari, ambientali e biologici, particolarmente rilevante nello sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini risulta essere lo stile di attaccamento.

La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1979, 1980, 1988) postula l’esistenza nell’uomo di una tendenza innata a ricercare per tutto l’arco di vita la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta (di riferimento) che accudisce e protegge, ogni volta che si costituiscono situazioni di pericolo, dolore, fatica, solitudine. Quando si raggiunge il riavvicinamento con essa, dopo una fase di lontananza, l’attivazione fisiologica e le emozioni si attenuano e l’individuo si tranquillizza.

L’attaccamento è un sistema motivazionale a base innata che insieme con quelli dell’accudimento, della cooperazione, a quello agonistico e sessuale (Liotti e Intreccialagli, 1992; Liotti, Monticelli, 2008) si attiva nelle relazioni adulte solo in momenti esistenziali e in contesti ambientali particolari e specifici.

All’interno del sistema di attaccamento vengono evocate emozioni di paura, collera, tristezza, gioia e sicurezza, attraverso cui si modula la richiesta di cura e di vicinanza e  si sollecita nel genitore il sistema motivazionale innato di accudimento.

Con il passare del tempo le modalità attraverso le quali si entra in relazione con le figure di riferimento si generalizzano, arrivando a formare gli Internal working model, ossia rappresentazioni di sé, dell’altro e di sé con l’altro, schemi cognitivi interpersonali che regolano in direzioni individualmente diverse il comportamento di attaccamento su base innata (Ainsworth et al., 1978). Queste rappresentazioni apprese costituiscono una caratteristica personale che modella le relazioni interpersonali, portando alla formazione di uno specifico stile di attaccamento: sicuro o insicuro (evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato).

 

Attaccamento sicuro

Un tipo di attaccamento definito sicuro prevede che il bambino abbia sicurezza e protezione dalle vulnerabilità attraverso la vicinanza con il caregiver. In questo contesto risultano fondamentali la sensibilità e la responsività materna che si esplicano in: percezione accurata dei segnali espliciti e delle comunicazioni implicite del bambino, interpretazione accurata dei segnali percepiti, sintonizzazione affettiva (condivisione empatica), risposta comportamentale, ossia prontezza e appropriatezza della risposta, completezza della risposta e costanza (prevedibilità).

Attraverso uno stile di attaccamento sicuro, il bambino apprende funzioni fondamentali per il suo sviluppo:

  • Impara le basi della fiducia e della reciprocità, che gli serviranno come modello per tutte le future relazioni affettive;
  • Esplora l’ambiente con sicurezza, fattore che lo porterà ad un buon sviluppo cognitivo e sociale;
  • Sviluppa l’abilità di autoregolazione, che gli permetterà un efficace controllo degli impulsi e delle emozioni;
  • Crea le basi per la formazione dell’identità, che includerà il senso di competenza, l’autostima e il giusto bilanciamento tra autonomia e dipendenza;
  • Da vita ad una morale prosociale, che comporterà la formazione di atteggiamenti empatici e compassionevoli;
  • Genera un sistema di credenze nucleari, che comprendono una valutazione cognitiva del sé, del caregiver, degli altri e della vita in generale;
  • Sarà protetto da stress e traumi, attraverso la ricerca attiva di risorse e la resilienza.

La creazione di una relazione di attaccamento sicuro tra madre e bambino è il principale fattore protettivo contro la formazione di comportamenti violenti e pattern cognitivi e comportamentali antisociali.

Gli specifici fattori protettivi collegati all’attaccamento che riducono il rischio di sviluppare condotte violente e comportamenti aggressivi nei bambini sono:

  • L’abilità di regolare e modulare impulsi ed emozioni: la funzione primaria dei genitori è aiutare il bambino a modulare l’arousal attraverso la sintonia e la capacità di una buona gestione del tempo nel gioco, nella nutrizione, nel conforto, nel contatto fisico, negli sguardi, nella pulizia e nel riposo; in sintesi insegnando al bambino le competenze che gradualmente lo aiuteranno a modulare il suo arousal;
  • Lo sviluppo di valori pro sociali, empatia e moralità: un attaccamento sicuro promuove valori e comportamenti prosociali che includono l’empatia, la compassione, la gentilezza e la moralità;
  • Stabilire un solido e positivo senso di sé: i bambini che hanno una basa sicura, caratterizzata da risposte appropriate da parte del caregiver e dalla sua disponibilità, hanno più probabilità di essere autonomi ed indipendenti durante l’arco dello sviluppo. Esplorano l’ambiente con poca ansia e maggiore abilità, sviluppando una maggiore autostima, abilità di mastery e differenzazione di sé. Questi bambini sviluppano credenze positive e aspettative circa sé stessi e le relazioni interpersonali (positive internal working model). Credenze positive su di sé: ‘sono buono, ricercato, competente e amabile‘; Credenze positive sui genitori: ‘loro sono responsivi ai miei bisogni, sensibili e affidabili‘; Credenze positive sulla vita: ‘il mondo è sicuro, la vita merita di essere vissuta‘;
  • L’abilità di gestire stress e avversità: numerose ricerche dimostrano come l’attaccamento sicuro costituisca una difesa nello sviluppo di psicopatologie associate a traumi ed avversità (Werner & Smith, 1992);
  • L’abilità di creare e mantenere relazioni emotivamente stabili: l’attaccamento sicuro implica una maggiore consapevolezza degli stati mentali degli altri, che non solo produce un rapido sviluppo della moralità, ma protegge il bambino dallo sviluppo di comportamenti antisociali.

Riassumendo si può affermare che i primi anni di vita costituiscono un’importantissima fase di sviluppo, nella quale il bambino apprende la fiducia, i pattern relazionali, il senso di sé e le abilità cognitive.

 

Attaccamento insicuro

Purtroppo, però, non tutti i bambini sperimentano un attaccamento sicuro, caratterizzato da amore, sicurezza e genitori che offrono protezione. I bambini con una marcata compromissione nell’attaccamento spesso diventano impulsivi, oppositivi, mancano di coscienza ed empatia, sono incapaci di dare e ricevere affetto e amore, esprimendo, quindi, rabbia, aggressività e violenza.

Le cause di disordini nell’attaccamento (attaccamento insicuro) possono essere svariate: abuso, neglect, depressione o patologie psichiatriche dei genitori (contributi genitoriali), difficoltà temperamentali, nascita prematura o problemi prenatali del feto nel bambino (contributi del bambino) e povertà, casa o comunità in cui si esperisce violenza e aggressività (contributi ambientali).

Un attaccamento insicuro può influenzare molti aspetti del funzionamento del bambino ed in particolare:

  • Il comportamento: il bambino tenderà maggiormente ad essere oppositivo, provocatorio, impulsivo, bugiardo, fino a commettere piccoli furti, aggressivo, iperattivo e autodistruttivo;
  • Le emozioni: il bambino proverà una rabbia intensa, si sentirà spesso depresso e senza speranze, sarà lunatico, avrà paura e sperimenterà l’ansia, sarà irritabile e avrà delle reazioni emotive inappropriate di fronte agli eventi esterni;
  • I pensieri: avrà credenze negative su sé stesso, sulle relazioni e sulla vita in generale, problemi attentivi e di apprendimento e mancherà del ragionamento causa-effetto;
  • Le relazioni: mancherà di fiducia verso gli altri, sarà controllante, manipolativo, avrà relazioni instabili con i pari e tenderà ad incolpare gli altri per i propri errori;
  • Il benessere fisico: il bambino potrebbe presentare enuresi ed encopresi, potrebbe essere più incline agli incidenti e avere una bassa tolleranza del dolore;
  • La morale: saranno spesso presenti mancanza di empatia, di compassione e di rimorso.

Nei bambini dai 2 ai 3 anni di età genitori non responsivi e trascuranti possono generare disperazione, eccessiva tristezza o l’esprimersi di una rabbia fuori controllo; questi bambini saranno portati a ricercare disperatamente l’attenzione dei genitori attraverso comportamenti negativi, caratterizzati da irrequietezza e irritabilità. A partire dai 5 anni tenderanno ad essere molto arrabbiati, oppositivi e a mostrare poco entusiasmo nell’apprendimento; svilupperanno inoltre una marcata incapacità di controllare gli impulsi e di gestire le emozioni.

In particolare, numerose ricerche hanno dimostrato che un attaccamento disorganizzato (questo stile si sviluppa quando i bambini percepiscono la figura d’attaccamento come fortemente scostante o addirittura minacciosa; il modello negativo che il bambino si crea della principale figura di riferimento lo porta ad evitare da un lato le richieste d’aiuto e i conflitti e dall’altro a non fidarsi degli altri; lo stato d’animo principale è la paura e la difficoltà a tenere insieme le diverse parti dell’io) è associato con perdite irrisolte, paure e traumi di uno o entrambi i genitori. Le madri di bambini con attaccamento disorganizzato hanno, spesso, storie di violenze familiari e abusi, piuttosto che trascuratezza emotiva prolungata, sono spaventate dalle memorie del trauma passato, possono presentare problemi di dissociazione e far vivere i loro figli all’interno di un dramma familiare irrisolto (Main & Goldwyn, 1984).

Queste mamme non sono assolutamente sincronizzate con le richieste dei loro bambini, rimandando ad essi messaggi confusi, come ad esempio stendere le braccia verso il bambino, mentre stanno indietreggiando, e risposte inappropriate ai segnali dei bambini, come ridere mentre il bambino piange (Lyons-Ruth, 1996; Main, 1985; Spieker & Booth, 1998). Questo dimostra come uno stile di attaccamento disorganizzato, così come ogni altro stile di attaccamento, possa avere una trasmissione intergenerazionale. Genitori cresciuti in famiglie violente e maltrattanti trasmettono le loro paure e i loro conflitti irrisolti ai figli attraverso abusi o deprivazione emotiva. In questo modo i bambini si trovano a vivere un vero e proprio paradosso, da una parte la vicinanza al genitore incrementa le paure del bambino, dall’altra lenisce le sue paure (Lyons-Ruth, 1996; Main & Hesse, 1990).

Le credenze che questi bambini sviluppano sono caratterizzate da autovalutazioni negative e disprezzo verso sé stessi. In particolare penseranno di essere cattivi, incompetenti e non amabili, che i genitori non rispondono ai loro bisogni, sono insensibili e inaffidabili e che il mondo è pericoloso e la vita non merita di essere vissuta. Questo pattern di credenze porta il bambino ad un senso di alienazione dalla famiglia e dalla società in generale; egli sentirà sempre il bisogno di controllare gli altri e di proteggere sé stesso in ogni momento attraverso l’aggressività, la violenza, la rabbia e la vendetta.

Sono proprio i casi di attaccamento disorganizzato a portare allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini e disturbi della condotta, fattori che potrebbero poi contribuire allo sviluppo di una personalità antisociale.

 

 

Conclusioni

In conclusione, l’attaccamento insicuro ed in particolare uno stile di attaccamento disorganizzato, favorisce comportamenti aggressivi nei bambini e devianza sociale a causa dell’utilizzo dell’aggressività come reazione difensiva e per l’assenza di considerazione dei bisogni e dei sentimenti degli altri. Ma questo non è sufficiente per considerare l’attaccamento insicuro/disorganizzato come sinonimo di comportamento aggressivo. La maggior parte dei bambini cresciuti in ambienti poveri e degradati manifesta un attaccamento insicuro, ma non per questo in età adulta si comporta in modo criminale o violento.

Solo nei casi estremi di persone cresciute in condizioni di grave pericolo, di abbandono e di maltrattamento emotivo o fisico, la manifestazione dell’aggressività può risultare non funzionale al mantenimento della relazione, pur svolgendo ugualmente la funzione difensiva di limitare o interrompere il legame di attaccamento per proteggere il Sé dalla pericolosità di genitori (Crittenden, 1999). In questi casi la sofferenza e la paura inducono ad utilizzare l’aggressività non per riavvicinarsi alla figura di attaccamento, ma per controllarla e distruggerla, per cui la vendetta e la punizione diventano obiettivi primari predisponendo a futuri comportamenti violenti e antisociali.

Un intervento d’elezione per prevenire lo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini , sarebbe quello di favorire in età precoce l’incremento di abilità che possano ridurre la necessità di questi bambini di agire in maniera violenta nel loro ambiente. Una modalità interessante a tale riguardo potrebbe essere quella di affiancare al tempo dedicato al gioco libero, lo sviluppo di attività di gioco strutturate che promuovano in tutti i bambini empatia, abilità sociali e rafforzino l’autostima.

Il mestiere delle parole. Cura e vita tra psicoanalisi, epistemologia e fenomenologia (2016) – Recensione

Nel libro di Mauro La Forgia, la domanda sui pilastri epistemologici dell’agire clinico costituisce il vero filo rosso della riflessione dell’autore. La Forgia è un noto psicoterapeuta junghiano, didatta del Centro Italiano di Psicologia Analitica, che ha attraversato un percorso di formazione assai singolare.

 

Karl Popper racconta, in Congetture e confutazioni, di avere indirizzato una volta a un gruppo di studenti di Fisica viennesi l’invito a prendere carta e matita, registrare le proprie osservazioni e infine riferirle. Gli studenti, disorientati, chiesero di rimando a Popper che cosa dovessero osservare. Come un maestro zen, Popper rispose loro che aveva già dimostrato ciò che voleva: gli studenti dovevano rendersi conto che osservare senza intenzione e progetto è impossibile; che i fatti puri non esistono.

L’osservazione è sempre selettiva. Essa ha bisogno di un oggetto determinato, di uno scopo preciso, di un punto di vista, di un problema. E la descrizione che ne segue presuppone un linguaggio descrittivo, con termini che designano proprietà; presuppone la similarità e la classificazione, che a loro volta presuppongono interessi, punti di vista, problemi

(Popper, 1963, p. 84).

 

Questo aneddoto dovrebbe essere raccontato a tutti coloro che nutrono eccessiva fiducia nella psicoterapia evidence based, che dovrebbe partire da una presunta osservazione clinica pura, scevra da pregiudizi teorici o epistemologici. In realtà chi non fonda una pratica clinica su fondamenti solidi di teoria e di epistemologia finisce per adottare semplicemente un realismo ingenuo, una filosofia in cui i pregiudizi (inconsapevoli) o meno divengono lo sfondo imprescindibile del proprio agire. Purtroppo, però, un simile atteggiamento è assai spesso diffuso tra gli psicoterapeuti.

Sorprende in positivo, quindi, imbattersi in un libro, come quello di Mauro La Forgia, nel quale la domanda sui pilastri epistemologici dell’agire clinico costituisce il vero filo rosso della riflessione dell’autore. La Forgia è un noto psicoterapeuta junghiano (didatta del Centro Italiano di Psicologia Analitica), che ha attraversato un percorso di formazione assai singolare. La sua prima vocazione è stata quella di fisico: come tale è divenuto ricercatore nella Facoltà di Fisica della ‘Sapienza’ di Roma, è stato curatore dell’Enciclopedia delle Scienze Fisiche della Treccani e ha offerto contributi di un certo rilievo anche come storico della scienza dell’Ottocento (La Forgia 1982; 1995).

Attratto da Jung, è divenuto psicologo analista sotto la guida di Mario Trevi e infine ricercatore e docente in ambito psicologico. La Forgia è dunque arrivato alla psicoterapia da una solida preparazione nelle hard sciences. Malgrado quanto ci si sarebbe potuti aspettare, tuttavia, ha sempre guardato con estremo sospetto i tentativi di riscrittura in termini di definizioni operative delle teorie psicodinamiche e soprattutto le tecniche cosiddette empiriche di indagine sul processo psicoterapeutico. Tali indagini, basate com’erano su algoritmi che giudicava di estrema banalità, gli apparivano del tutto inutili per comprendere il reale significato della terapia analitica e questo lo ha condotto a subire una certa marginalizzazione in campo universitario.

Da scienziato, storico della scienza e terapeuta, invece, l’approccio di La Forgia si volgeva piuttosto a indagare i fondamenti storici della disciplina e il senso epistemico ultimo delle teorie nel confronto con la prassi analitica. In pratica si trattava di una terza via, distante sia dall’ottimismo ingenuo dei clinici puri (per i quali il successo è di per sé prova della teoria di riferimento), sia dalla tendenza alla quantificazione e alla statisticizzazione. In questo, peraltro, il tracciato di La Forgia non è rimasto isolato, ma si è svolto parallelamente a quello di un ampio gruppo di analisti junghiani (da Aversa a Galimberti, da Trapanese a Pieri, da Marozza a Iapoce) il cui ispiratore è stato Trevi, e il cui principale organo espressivo è stato a lungo la rivista Metaxù (il cui lascito è stato poi raccolto da Atque).

Il mestiere delle parole raccoglie un venticinquennio di ricerche storiche e teoriche di La Forgia, incorporando diversi dei saggi pubblicati dall’autore e donando loro la veste di un tracciato coerente. L’autore si è inizialmente confrontato con gli autori-cardine della tradizione psicodinamica, Freud e Jung, con un approccio certamente originale e figlio della sua formazione. La Forgia è andato infatti alla ricerca di quegli aspetti del pensiero psicoanalitico delle origini sui quali meno si è indagato nel corso del tempo: le metafore scientifiche incorporate nella psicoanalisi e nella psicologia analitica. In questo senso una particolare attenzione ricevono il rapporto tra Freud e Mach e tra Freud e Einstein, da una parte; le filiazioni di Jung da Pauli e pensatori assai meno noti (sconfinanti nella parapsicologia), dall’altra. In quest’ultimo territorio, del resto, l’autore ha già lasciato una traccia significativa in una monografia specifica (La Forgia, 1991). A questi temi è dedicata la prima sezione del libro, intitolata ‘La passione naturalista‘.

In seguito, come molti junghiani italiani, La Forgia si è incontrato, sul territorio della clinica, con autori appartenenti a tradizioni di ricerca differenti. Ciò è avvenuto in particolare nell’affrontare quelle che l’autore chiama ‘condizioni limite dell’esistenza‘ (La Forgia, 2016, p. 7). Ne è risultato un tentativo di integrazione con approcci neofreudiani, delle relazioni oggettuali, della psicologia del Sé o anche cognitivisti. L’autore racconta del resto di come paradossalmente un paziente, il signor P., sia arrivato ad utilizzare in modo spontaneo una tecnica cognitivo-comportamentale di autorassicurazione, sulla base della propria esperienza analitica (La Forgia, 2016, pp. 152-3). Questo incontro è testimoniato dalla sezione intitolata ‘Una grammatica dell’esistenza‘.

Più di recente, infine, anche seguendo con coerenza le tracce di un interesse già sviluppato per Kierkegaard e Heidegger, La Forgia si è invece avvicinato alla fenomenologia e in particolare alla psichiatria fenomenologica e ha vissuto una sorta di svolta linguistica del proprio pensiero (non scevra da tratti wittgensteiniani). Gli ultimi capitoli (‘L’arte della cura‘), infatti, oltre a utilizzare ampiamente autori come Blankenburg e Binswanger, si focalizzano sul gioco linguistico costituito dal dialogo terapeutico. Riprendono inoltre, con un taglio nuovo, attraverso l’attenzione verso l’immagine (soprattutto onirica), quegli aspetti della riflessione sul simbolo che proprio Mario Trevi aveva a suo tempo additato come chiave assai trascurata per la comprensione della psiche umana (Il simbolo è il rimosso del nostro tempo; Trevi, 1986).

Il risultato finale si concentra sul momento decisivo della terapia, quello che Stern (2004) chiamava il now moment; e tenta di illuminare lo spazio attraverso il quale la psicoterapia agisce:

Viviamo ordinariamente un’esperienza nella quale parola e immagine percorrono strade condivise, con intrecci normalizzanti: ma accade che un’occorrenza inattesa denunci il carattere automatizzato della coappartenenza, ponendo le condizioni di un’improvvisa variazione di codice linguistico o di un repentino innesto immaginativo; sperimentiamo in quell’istante che una parola che brucia suscita un’immagine che brucia – o viceversa […] – e quest’evento […] muta qualcosa dentro di noi, decompone in un attimo norme e certezze, adombrando una diversa possibilità di vita

(La Forgia, 2016, pp. 247-8).

Lo chiamavano Jeeg Robot (2016), sentirsi prigionieri della propria realtà – Recensione

Su State of Mind avevamo parlato del profilo psicologico dei personaggi del film ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, successivamente abbiamo approfondito la tematica dei tratti psicologici dei personaggi, giungendo a delle riflessioni cliniche sulla relazione terapeutica con pazienti caratterizzati dallo stesso profilo psicologico di uno dei protagonisti (NdR).

 

L’intreccio delle vite dei tre personaggi dà origine, infatti, ad una storia in cui per lunghi tratti, la tematica del supereroe resta paradossalmente sullo sfondo, sovrastata dalla genuinità del racconto di un mondo popolato da personaggi tanto cinici e grotteschi quanto verosimili.

 

In una Roma contemporanea, sconvolta (e forse neanche tanto) dalle bombe, tra il centro e la periferia entrano in azione i tre personaggi principali del film: Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), ladruncolo di professione, schivo e taciturno, non sposato, senza amici, abita in un appartamento fatiscente e vive di piccoli furti. Fabio (Luca Marinelli), detto lo Zingaro, è invece un ex concorrente di un talent show e capo di una piccola banda di malviventi dedita a rapine e spaccio di droga; nel film cerca in tutti i modi di emergere, lasciare un segno nello squallore di un’esistenza grigia e relegata ai margini dei riflettori che contano. E infine c’è Alessia (Ilenia Pastorelli), giovane psicotica, probabilmente abusata, che vive in un mondo alternativo fatto di fantasia il quale vede come protagonisti i personaggi appunto del famoso cartone giapponese.

Non deve, tuttavia, ingannare il titolo del film: sebbene la trama ruoti intorno alla nascita di un supereroe, non ci troviamo di fronte, per fortuna, ad una versione italiana, e magari un po’ casareccia, dei fortunati film di genere hollywoodiani prodotti negli ultimi tempi.

L’intreccio delle vite di questi tre personaggi dà origine, infatti, ad una storia in cui per lunghi tratti, la tematica del supereroe resta paradossalmente sullo sfondo, sovrastata dalla genuinità del racconto di un mondo popolato da personaggi tanto cinici e grotteschi quanto verosimili. Ad andare in scena è soprattutto la periferia italiana, con il suo sottobosco di esistenze in bilico tra la quotidiana lotta per la sopravvivenza e la speranza del riscatto. In tutto ciò, spicca la capacità del regista Mainetti nel riuscire a fornire alle scene un sapore pulp che trae ispirazione dai migliori film italiani di genere degli anni ’70, quelli alla Fernando Di Leo e Sergio Corbucci, per intenderci.

Ma ritorniamo ai personaggi. Enzo è un uomo dai modi grossolani, che conduce una vita solitaria lontana da interessi ed affetti: ‘Io non so’ amico de nessuno‘, ripete spesso ad Alessia. Enzo non vive nei sobborghi di New York come Peter Parker o a Gotham City come Bruce Wyane; vive a Tor Bella Monaca, periferia est di Roma. Chi si aspetta, quindi, l’abituale traiettoria seguita spesso dalle trame dei film degli eroi della Marvel, rimarrà deluso. Qui siamo lontani dai personaggi americani perfettini, pieni di valori e buoni sentimenti. Enzo non è un bruco destinato a diventare farfalla, ma un delinquente di borgata, ‘sporco e cattivo’; non c’è da attendersi nessuna metamorfosi, né una redenzione. E anche quando per uno strano scherzo del destino si trova ad avere degli incredibili superpoteri, lì userà, in modo abbastanza dissacrante, per continuare a fare l’unica cosa che sa fare nella vita: rubare.

Nella prima parte del film, emerge, quindi, il ritratto di un uomo disincantato, incapace di relazionarsi in modo funzionale agli altri e apparentemente neanche interessato a farlo, una sorta di analfabeta emotivo incapace di provare un genuino senso di appartenenza alla comunità umana.

Tuttavia nel corso del film emergerà un’altra verità: Enzo ha un triste passato segnato da tanti amici persi, inghiottiti dalla violenza della periferia. E’ chiaro allora che questa distanza che lo separa dagli altri è una sorta di corazza che lo difende dai propri vissuti più dolorosi. Sarà però Alessia a trovare una via per infrangerla: paradossalmente, infatti, ci sarà bisogno proprio di una psicotica, costantemente con la testa fra le nuvole, a rimettere Enzo in contatto con i suoi sentimenti e a trasmettergli speranza e quella fantasia necessaria a evadere dal grigiore della realtà alienante che vive giorno per giorno. E questo nonostante un inizio non proprio incoraggiante in cui Enzo faticherà a costruire anche con lei una relazione matura. Emblematica è la scena del rapporto amoroso, che ha luogo negli spogliatoi di un negozio, consumato da Enzo in modo fugace e senza riguardo per la donna, riproponendo nella realtà l’unico modello relazionale che conosce e che ha appreso attraverso il suo passatempo preferito: la visione quasi compulsiva di dvd porno.

C’è, quindi, Fabio, spiccati tratti narcisistici e antisociali, emblema di una generazione spaesata, senza maestri né punti di riferimento, figlia di una società che sembra essersi tramutata di colpo in un grande reality, o peggio ancora un talent show dove l’unica cosa che conta è emergere da un anonimato, diventato oramai sinonimo di mediocrità: ‘io vojo lasciare un segno come ‘sto cojone su youtube‘, dice a un certo punto. E per farlo ogni mezzo è lecito: partecipare ad un casting o piazzare una bomba allo stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio non fa differenza.

Alla fine anche lui, come Enzo riuscirà a ottenere i superpoteri che quindi diventano una sorta di metafora postmoderna, il simbolo di una possibile, forse l’unica,: in un caso, quella di Enzo, è la strada che porta il protagonista a riscoprire la propria dimensione umana; nell’altro, nel caso di Fabio, diventa l’agognata via d’uscita da una mediocrità insostenibile.

 

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT – IL TRAILER DEL FILM:

Abuso sessuale infantile: riconoscere i segni per intervenire efficacemente

Gli indicatori che possono essere chiamati in causa nell’avanzare un’ipotesi di abuso sessuale infantile sono di natura fisica e comportamentale, sebbene non esistano indici comportamentali ed emotivi che permettano di individuare in modo specifico un abuso sessuale.

 

Secondo la definizione del Consiglio d’Europa (Strasburgo 1978), il maltrattamento (o abuso) si concretizza in:

Atti e carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale

(citato in Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2007).

 

All’interno dell’ampia categoria degli abusi all’infanzia, che comprende l’abuso fisico, quello psicologico, la patologia delle cure e l’abuso sessuale (Montecchi, 1998, citato in Caffo, Camerini, Florit, 2004), l’abuso sessuale infantile indica ‘qualsiasi atto compiuto con un soggetto di età inferiore ai diciotto anni finalizzato alla gratificazione sessuale di un adulto‘ (Di Giacomo e coll., 2013), di eccezionale gravità poiché prevede il ‘coinvolgimento di bambini e adolescenti, soggetti quindi immaturi e dipendenti, in attività sessuali che essi non comprendono ancora completamente e alle quali non sono in grado di acconsentire con totale consapevolezza’ (Kempe e coll., 1962).

Un fenomeno, che, secondo un’analisi compiuta da Finkelhor nel periodo 1970-1990, riguarderebbe il 7-36% delle donne e il 3-29% degli uomini, vittime di abuso sessuale infantile (citato in Di Giacomo e coll. 2013).

 

Indicatori dell’abuso sessuale infantile

Gli indicatori che possono essere chiamati in causa nell’avanzare un’ipotesi di abuso sessuale infantile sono di natura fisica e comportamentale.

Tra i primi, corpi estranei nella vagina o nel retto, tracce di liquido seminale, lesioni emorragiche, infezioni trasmissibili sessualmente, gravidanze in adolescenza; tra i secondi, disturbi del sonno, disturbo delle condotte alimentari, alterazioni del tono dell’umore con pianto, rabbia o mutismo, disturbi psicosomatici, tentativi di suicidio.

E’ importante sottolineare come non esistano indici comportamentali ed emotivi che permettano di individuare in modo specifico un abuso sessuale infantile allorché gli stessi indici possono essere presenti in seguito a stress familiari di natura non sessuale, per cui, in presenza di un segno comportamentale, anche perdurante, è necessario procedere con un approfondimento psicodiagnostico specifico (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2007).

 

I comportamenti sessualizzati

Tra gli indicatori di cambiamento comportamentale, particolare rilevanza assumono i comportamenti sessualizzati che, se presenti, sono probabilmente tra i pochi indicatori specifici di abuso sessuale infantile in grado di orientare, più degli altri, verso una diagnosi: l’interesse eccessivo per la tematica, la provocazione, la produzione di parole e/o disegni sul registro sessuale, spiegabili come modalità per ottenere affetto e amore attraverso il sesso e preservare un senso di integrità e di autostima (Friedrich, 1990, citato in Malacrea e Lorenzini, 2002).

 

 

Fattori di vulnerabilità e di protezione

Esistono fattori di vulnerabilità e protettivi dagli abusi, incluso quello sessuale; tra i primi, una storia di abuso nei genitori, l’isolamento sociale e le condizioni abitative inadeguate per igiene e spazi, la presenza di conflitti genitoriali o di vere e proprie patologie, come gravi disturbi di personalità, nonché deficit del bambino, come disabilità psicofisiche; i fattori protettivi comprendono invece la qualità dei legami familiari, il livello di integrazione scolastica e sociale, la presenza di valori morali/religiosi o un buon patrimonio intellettivo del bambino (Cicchetti e Rizley, citato in Caffo, Camerini, Florit, 2004).

 

 

Conseguenze dell’abuso sessuale infantile

In merito alle conseguenze psicopatologiche a lungo termine derivanti da un abuso sessuale infantile esse si collocano a vari livelli (emotivo, psicologico, neurologico), benché non si possano considerare predeterminate, dipendendo da variabili quali la durata e l’invasività dell’abuso subito, l’eventuale concomitanza di più forme di maltrattamento, l’età del minore al momento dell’abuso, l’identità dell’abusante (familiare o non) e la presenza di eventuali fattori protettivi (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2007).

Da un punto di vista emotivo, l’abuso sessuale infantile risulta in relazione particolarmente forte e consistente con problematiche di tipo depressivo e ansioso (Copeland e coll. 2007), con i disturbi del comportamento (Smith e coll. 2006, citato in Telefono Azzurro, 2006) e con un problematico funzionamento della vita sentimentale e sessuale (Salter, 2003, citato in Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2007).

Le compromissioni a lungo termine sono riscontrabili anche a livello cerebrale e consistono in una maggior attivazione dell’emisfero destro, specializzato nell’espressione delle emozioni (in particolare dell’amigdala), rispetto a quello sinistro, specializzato nell’elaborazione dell’esperienza a livello cognitivo e simbolico e nella regolazione dell’emotività. Ciò si traduce nella difficoltà a dare un significato personale agli eventi, attraverso un racconto soggettivo, che contrasta il terrore muto dell’esperienza tipico del trauma e permette di integrare le esperienze dolorose del passato nell’identità in divenire (Van der Kolk, 2004).

 

 

Terapia

Ecco che il trattamento si pone l’obiettivo ultimo di rielaborare cognitivamente e costruttivamente il vissuto traumatico, orientando le energie psicofisiche verso la costruzione di un futuro che superi le ferite del passato, attraverso l’innalzamento dell’autostima e l’autoregolazione delle emozioni.

Una tecnica ampiamente utilizzata nel trattamento dei traumi seguenti ad abuso è l’EMDR, approccio psicoterapico che, impiegando i movimenti oculari per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, consente un rapido ed efficace effetto decondizionante nei confronti delle memorie traumatiche permettendo una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali (Shapiro, 2000). Ciò si traduce nel cambiamento delle valutazioni negative di Sé, degli altri e degli eventi (impotenza, rabbia, disperazione) e delle reazioni fisiche di iperattivazione nei confronti di stimoli legati all’evento, percepiti come pericolosi, fino alla migliore discriminazione dei pericoli reali da quelli immaginari condizionati dall’ansia.

Il ricordo dell’esperienza traumatica diviene in tal modo una parte del passato, un ricordo lontano, in un distanziamento emotivo che riduce l’influenza paralizzante del dolore sulle possibilità di autodeterminazione, e induce un cambiamento a livello delle strutture e del funzionamento cerebrale (EMDR Italia, 2016). In casi di abuso sessuale infantile la psicoterapia (in particolare di quella cognitivo-comportamentale) è da considerarsi opzione preferenziale, riservando l’utilizzo di farmaci solo a casi selezionati (Di Giacomo e coll. 2013).

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