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Pavlov, oltre il condizionamento (1973) di William Horsley Gantt – I grandi esperimenti di psicologia Nr. 12

#10: Pavlov, oltre il condizionamento di William Horsley Gantt (1973). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

Quando ho conosciuto Pavlov, il 29 ottobre del 1922, e ho visto i suoi esperimenti sul riflesso condizionato, ho scritto nei miei appunti: “Il giorno più bello trascorso in Europa”. Avevo ottenuto un permesso dall’Ospedale dell’Università del Maryland, presso cui svolgevo il mio internato, per recarmi in Russia per 4 mesi; i miei progetti e la mia vita furono totalmente sconvolti da quel “giorno più bello”. Dopo il mio incontro con Pavlov, rimasi in Russia per 7 anni. Prima di tornare in America avevo imparato la lingua di Pavlov, avevo imparato a vivere come un russo. […] Fu Pavlov il primo a farmi comprendere come la psichiatria potesse essere studiata con metodi oggettivi.

Il dr. Horsley Gantt, nel suo lavoro del 1973, si riferisce agli esperimenti sui cani, in cui Pavlov analizzava risposte fisiologiche in corrispondenza a stimoli ambientali. Queste ricerche lo portarono a teorizzare uno dei principi fondamentali del comportamentismo, il condizionamento classico.

Secondo gli studi di Pavlov, infatti, quando uno stimolo neutro (ad esempio, il suono di una campanella) viene associato a uno stimolo significativo (la presentazione di cibo), il soggetto (nel suo caso un cane) tenderà ad associare i due stimoli. Pertanto, dopo aver appreso tale associazione, il soggetto a cui viene presentato lo stimolo neutro produrrà risposte fisiologiche in linea con lo stimolo significativo. Il cane di Pavlov comincia a salivare non alla presentazione del cibo, bensì al suono della campanella. Sono innumerevoli le applicazioni che tale studio ha dimostrato nel tempo e fin qui niente di nuovo; ma ci sono diversi aspetti della ricerca di Pavlov che non sono così noti.

Innanzitutto, prima di Pavlov i processi fisiologici venivano studiati quasi esclusivamente attraverso autopsie, perché non c’era la possibilità di verificare cosa accadeva ad esempio nell’apparato digerente senza provocare lesioni decisamente fatali. Pavlov creò e utilizzò la cosiddetta ‘fistola cronica’, un macchinario non molto comodo, ma che risparmiava agli animali testati un destino molto più crudele. La fistola cronica era una sorta di piccolo contenitore esterno, posto sul fianco del muso del cane, in cui veniva deviato un dotto salivare. In questo modo lo studioso poteva analizzare le risposte fisiologiche dei suoi animali in vivo, creando procedure sperimentali più complesse e raccogliendo dati innovativi.

Approfondendo gli studi sul condizionamento classico, Pavlov notò come in alcuni casi il comportamento degli animali arrivava a mostrare segni patologici. In particolare, questo avveniva quando i cani venivano sottoposti all’esperimento cerchio-ellisse. In questa procedura, Pavlov addestrava gli animali a riconoscere tra le due figure, premendo un tasto A se veniva presentato un cerchio o un tasto B di fronte a un’ellisse. A risposta giusta seguiva una ricompensa, mentre per ogni errore veniva inferta una scossa elettrica. Quando le ellissi presentate mostravano fuochi ravvicinati tra loro, la loro forma risultava molto simile a una circonferenza e questo creava confusione negli animali. I cani, terrorizzati e impauriti di fronte alla possibilità di sbagliare, mostravano comportamenti differenti, che Pavlov imputò a tratti temperamentali specifici.

Da queste osservazioni, il ricercatore dedusse che l’origine della psicopatologia umana potesse ritrovarsi nella difficoltà a rispondere adeguatamente a stati interni di incertezza e confusione. A seconda poi delle caratteristiche peculiari del sistema nervoso dei soggetti, la risposta a tali stati di incertezza poteva manifestarsi con modalità afferenti a un meccanismo eccitatorio piuttosto che inibitorio, ma il nucleo patologico era comunque da identificarsi in un eccessivo stress a cui il cervello veniva sottoposto.

Tale teoria aveva anche qualcosa in comune con l’ideologia del contemporaneo Kraepelin, che riconosceva differenti sottogruppi della schizofrenia. Per questo motivo Pavlov ipotizzò che la cura per la schizofrenia potesse essere una terapia fatta di quiete e riposo, che venne per un periodo applicata negli stati dell’URSS, ma con scarsi risultati.

Nel suo articolo sulla sua esperienza con Ivan Pavlov, Gantt dedica un ultimo paragrafo alla personalità dello scienziato, vincitore del premio Nobel per la Medicina nel 1904. Descrive un uomo appassionato sul lavoro, ma non meno attento alla realtà politica che lo circondava. Nel 1923 richiese ufficialmente a Lenin di poter trasferire i suoi laboratori all’estero, indignato dalla crudeltà e dalla distruzione portate dalla Rivoluzione. Scrisse a Stalin indignato per l’ammissione di alcuni professori di ideologia comunista all’interno dell’Accademia Russa delle Scienze. Ma non lasciò mai il suo paese, dove morì a 86 anni. E nel suo testamento, rivolgendosi ai giovani scienziati, scrisse: ‘…ma non fatevi mai accecare dalla vanità … la vanità vi spingerà a rifiutare preziosi consigli‘.

Pavlov, oltre il condizionamento (1973) di William Horsley Gantt - I grandi esperimenti di psicologia Nr. 12_IMMAGINE
Foto inserita nell’articolo originale. Pavlov (seduto al centro, con la barba bianca) e collaboratori, inverno 1922. Il secondo uomo seduto a partire da sinistra è il dr. Horsley Gantt.

 

L’oggettivazione sessuale nelle donne: che cos’è, i fattori di rischio e le conseguenze

L’oggettivazione sessuale è una forma di deumanizzazione, che riduce la persona ad un corpo teso a soddisfare i desideri sessuali, e quindi ad un oggetto da sfruttare e manipolare (Volpato, 2011). Gli atteggiamenti “oggettivanti” si orientano sulle funzionalità sessuali che vengono scisse dalle altri componenti identitarie ed esaminate isolatamente, come se rappresentassero l’intera persona.

Si tratta, in altre parole, di un fenomeno che spersonalizza l’essere umano e lo valuta in base ad una parte di sé, nella fattispecie il corpo, tralasciando gli aspetti della personalità, della dignità, dell’empatia e dell’unicità che rendono il soggetto unico e diverso dagli altri (Pacilli, 2012).

 

Il ruolo dei mass-media nell’oggettivazione sessuale

Per comprendere la complessità dei fattori di rischio, occorre riflettere, in primo luogo, sull’effetto suscitato dalle immagini e dai video divulgati attraverso la TV, Internet e i giornali che propongono modelli estetici irrealistici e irraggiungibili per la gran parte della popolazione, non tanto perché evidenziano una bellezza rara e “acqua e sapone”, in cui lo sforzo e l’attenzione verso il corpo sono minimi, ma perché, al contrario, esaltano una bellezza curata, attenta a ridurre le disarmonie, e quindi artificiale, e per essere tale deve sottoporsi ad un ventaglio di tecniche finalizzate ad annullare o attenuare i difetti; dalla chirurgia estetica, al ritocco fotografico e ai pesanti make-up come il contouring, ognuna ha il compito di trasformare il corpo (Pacilli, 2012).

Se a questo si aggiungono le pose ammiccanti e sessualizzanti l’effetto oggettivante è amplificato e nell’osservatore si innesca un inevitabile “confronto dall’alto”. Detto altrimenti, sulla base della teoria del confronto sociale di Festinger (1954), le donne che osservano un modello estetico promosso dai mass-media si percepiscono in “difetto” e iniziano a maturare un’insoddisfazione corporea (De Piccoli & Rollero, 2013). Questo avviene perché si innesca una percezione del canone estetico come normativo e reale, e quindi si confonde molto spesso la bellezza mass-mediatica, ricercata e trasformata, con la bellezza realistica, naturale e spontanea.

La discrepanza tra il proprio aspetto e quello esterno produce una sensazione di deviazione dalla “normalità” che viene vissuta sempre più dolorosamente al crescere del divario e degli standard che mirano a simulare una perfezione inesistente (Dakanalis et al., 2012). Più il canone è alto, irraggiungibile, modificato, e anche “normalizzato”, più la discrepanza sarà avvertita come insormontabile e l’insoddisfazione crescerà con pericolose conseguenze sull’autostima, sulla sicurezza e sulla predisposizione alle psicopatologie che coinvolgono il corpo: disturbi dell’immagine corporea, disturbi alimentari nella maggioranza dei casi.

 

Oggettivazione sessuale e auto-oggettivazione

La teoria dell’ oggettivazione sessuale è stata sviluppata da Frederickson e Roberts (1998) che considerano l’importantissimo passaggio tra oggettivazione e auto-oggettivazione. Mentre l’ oggettivazione è un’osservazione proveniente dall’esterno, che può essere relativa al singolo o alla collettività, l’ auto-oggettivazione è la progressiva interiorizzazione di quella osservazione: lo sguardo da esterno diventa interno, e questo comporta un’assidua sorveglianza sul corpo.

La costante focalizzazione sull’aspetto fisico può contribuire a scatenare, così, l’insorgenza degli stati ansioso-depressivi, disturbi della sfera corporea e alimentare, l’aumento delle emozioni negative, e la riduzione della consapevolezza degli stati interni. L’ auto-oggettivazione può essere una tendenza di “stato” o di “tratto”; nel primo caso si tratta di un atteggiamento dipendente dalle variabili ambientali, come l’esposizione a modelli oggettivati o a commenti negativi sul proprio aspetto fisico nel “qui ed ora”, nel secondo, al contrario, di una caratteristica stabile e indipendente dal contesto che correla con l’insoddisfazione verso il corpo, i disturbi dell’immagine corporea e dell’alimentazione, le disfunzioni sessuali e le psicopatologie depressive (Dakanalis et al., 2012).

 

Oggettivazione sessuale: fattori di rischio

I canali di comunicazione mass-mediatica sono indubbiamente potenti e spesso sottovalutati, ma non restano gli unici nella lista dei fattori di rischio.
Secondo una ricerca italiana (Pacilli, 2012) il tempo trascorso davanti alla TV rafforzerebbe la tendenza ad auto-osservarsi e auto-oggettivarsi in modo stabile e prendere in seria considerazione l’ipotesi di ricorrere alla chirurgia estetica per ridurre il divario tra il proprio corpo e quello promosso dai modelli televisivi. Oltre alla televisione, anche Internet amplifica la tendenza ad auto-oggettivarsi perché l’esposizione alle immagini di corpi modificati delle modelle o celebrità varie è inevitabile. Proprio per questa “inevitabilità” ogni donna, per quanto possa vagamente assomigliare al modello proposto, si sottopone al confronto, e alcune di loro, nonostante siano già magre tendono a percepirsi in sovrappeso sperimentando sentimenti di vergogna e inadeguatezza (Dakanalis et al., 2012).

L’età più a rischio è l’adolescenza quando il corpo comincia a cambiare e vi è una maggior sensibilità al giudizio esterno e al confronto con i coetanei. Tuttavia, il fenomeno è inversamente proporzionale all’età, e quindi decresce man mano che gli anni avanzano.
Dal punto di vista culturale, in Italia il fenomeno dell’ oggettivazione sessuale risulta più accentuato nel sistema mass-mediatico e colpisce le donne quantitativamente e qualitativamente in misura maggiore rispetto agli uomini. La controparte maschile non è esclusa dal fenomeno, ma le donne restano il principale bersaglio del fenomeno.
Una buona parte giocano gli ambienti sportivi e artistico-lavorativi, come la danza, la moda e in generale lo star system, che esercitano particolari pressioni sul raggiungimento della forma fisica perfetta per essere sempre “sulla cresta dell’onda” o per migliorare le prestazioni.

Nel panorama dei fattori di rischio non bisogna dimenticare il ruolo delle strategie educative e la qualità dei legami primari di attaccamento che in certi casi accentua l’attenzione al corpo e all’estetica, a discapito di altre competenze e risorse. Lo sguardo oggettivante può nascere quindi dalla stessa famiglia d’origine e agevolare un’interiorizzazione precoce che stimola a curare il corpo già in tenerà età. Alcuni studi hanno rilevato come le domande relative alle opinioni esterne sul proprio corpo (“Come appaio agli altri?”) possano insorgere già a partire dai 6 anni di vita scatenando la prima scintilla di malessere psicologico (Pacilli, 2012).

Per quanto riguarda la personalità, i temi prevalenti concernono in primis la ricerca di approvazione e di perfezione e la spiccata sensibilità alle opinioni che suggerirebbero una probabile organizzazione di significato personale di tipo dappico (Guidano, 1992). Le donne oggettivate avvertono un forte bisogno di definirsi attraverso l’esterno, e in particolare il parere degli altri, temuto e al tempo stesso ricercato che nasconde una forte insicurezza interiore (Pacilli, 2012). Nei pazienti con tale organizzazione non è infrequente riscontrare emozioni e considerazioni negative verso il proprio corpo che possono sfociare, talvolta, in disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia, che esprimono spesso la strenua necessità di essere ammirate e accettate anche a costi alti per il benessere (Bara, 2005).

 

Le conseguenze dell’oggettivazione sessuale: immagine sociale, rivalità e invidia femminile, ridotta empatia

L’ossessione per la forma estetica comporta notevoli costi sul piano del benessere relazionale, sulla rappresentazione sociale e sulla qualità degli interessi. Oltre alla predisposizione alle varie forme di psicopatologia e al malessere psicologico, le donne oggettivate vengono ritenute meno competenti e intelligenti, sperimentano più competitività nei confronti del genere femminile, trovano meno interessi costruttivi da coltivare, infine, vengono considerate meno “umane” (Dakanalis et al., 2012; De Piccoli & Rollero, 2013; Pacilli, 2012).

L’assidua dedizione all’aspetto estetico induce, così, a ridurre l’esplorazione degli interessi e dei doveri e a focalizzare l’attenzione sul corpo, proprio ed altrui. Da qui si deduce non solo la diminuzione della quantità, del rendimento e dell’interesse nelle passioni e nei compiti lavorativi/scolastici, ma anche un sovrainvestimento sull’esasperato confronto con le altre donne per paragonarsi e risultare “vincenti”. Atteggiamenti competitivi, critiche, invidie e rivalità si sostituiscono all’accettazione delle differenze e alla focalizzazione su altre risorse interne ed esterne, trascurate e tralasciate. In sostanza, la sorveglianza maniacale sul corpo porta a sperimentare in misura maggiore elevati livelli di ostilità, sentimenti di inferiorità e di invidia, rispetto alle donne non oggettivate che avvertirebbero tali emozioni con un’intensità, estensione e frequenza minore (De Piccoli & Rollero, 2013).

A tal proposito, non è difficile immaginare quanto sia difficile per una donna che si auto-oggettiva in maniera pervasiva coltivare rapporti intimi e soddisfacenti con le amiche e il partner e percepirsi come una persona nella sua interezza e non come un corpo. L’esplorazione delle passioni costruttive è così inibita dalla dedizione e dall’impegno verso l’interesse estetico che alimenta il vuoto e l’insoddisfazione, mentre agli occhi dell’esterno la morbosa ossessione per la bellezza risulta una dimostrazione evidente della superficialità, dell’incompetenza e della stupidità che potrebbe trasformarsi in una pericolosa profezia auto-avverante (Merton, 1948).

Sul piano collettivo, più la società promuove l’ oggettivazione sessuale, più gli stereotipi e la discriminazione in base ai ruoli e alle competenze di genere si rafforzano e si radicano nella cultura, rendendo sempre più ardua la parità tra i sessi (Pacilli, 2012).
Oltre a questo dato, occorre riflettere sull’effetto deumanizzante che si nasconde nell’ oggettivazione sessuale e toglie le qualità di calore e dignità umana non solo alle donne che si auto-oggettivano, ma anche alle donne che vengono oggettivate (Pacilli, 2012; Volpato, 2011).

 

Conclusioni

L’ oggettivazione sessuale femminile è un fenomeno complesso che richiama diversi fattori di rischio a livello individuale, relazionale e sociale.
È necessario, pertanto, esaminare non solo l’insieme di elementi che ne predispongono l’insorgenza e l’esacerbazione, ma anche i fattori protettivi che entrano in gioco, come la buona qualità delle figure di attaccamento, la coltivazione degli interessi costruttivi, l’impegno scolastico e lavorativo, senza tralasciare l’importanza della comunicazione mass-mediatica.

Alcuni preziosi contributi, come il documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne (2010) sulla mercificazione del corpo nella televisione italiana, e la ricerca di Esther Honig e le battaglie di alcune star come Keira Knightley contro l’abuso del foto-ritocco dimostrano una crescente attenzione al fenomeno e alle sue conseguenze, non solo in Italia, ma anche in tutto il mondo e l’abbandono delle passerelle di moda da parte di alcune modelle, come Cara Delevingne e Lily Cole per dedicarsi alle passioni più costruttive, come il cinema, il canto e lo studio universitario.

Tuttavia la strada è ancora ardua e complessa e lo dimostra, dall’altra parte, la perseveranza di immagini oggettivate, di strategie sempre più raffinate e alla portata di tutti per modificare drasticamente l’aspetto. Tra queste il contouring facciale, una chirurgia “istantanea e temporanea”, eseguita a colpi di fondotinta, correttori e altri make up, che trasforma il viso delle donne incrementando l’insicurezza interna (Robertson et al. 2008).
In particolar modo nell’età più a rischio, in adolescenza e nella prima età adulta, è necessario prestare una maggiore attenzione alla sensibilità ai cambiamenti corporei e promuovere un progressivo percorso di accettazione della propria bellezza, nonché l’importanza del valore di sé a prescindere dall’aspetto fisico, senza omettere l’esplorazione di altre passioni tese a stimolare l’intelligenza, la creatività, la cooperazione e l’impegno.

Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39 di C. G. Jung – Recensione

Le lezioni di Jung sul capolavoro di Nietzsche: un documento fondamentale per la conoscenza della psicologia analitica, ma anche il più ampio commento mai proposto al Così parlò Zarathustra.

 

L’influenza di Nietzsche sulla psicologia del profondo fu certamente di incalcolabile importanza, anche se non sempre i primi protagonisti lo hanno totalmente ammesso. Alfred Adler considerava la volontà di potenza come la più importante motivazione della condotta umana e fu certo esplicito nell’indicare Nietzsche come fonte di ispirazione (Ellenberger, 1970).

Più complessa fu la posizione di Sigmund Freud. Il patriarca viennese accolse come allieva la musa di Nietzsche, Lou Andreas-Salome, e decise persino di evocare il titolo nietzschiano Al di là del bene e del male nel proprio Al di là del principio del piacere. Ciò nonostante, Freud sostenne di essersi negato il piacere di leggere Nietzsche, prima di aver pubblicato le proprie principali opere, pur di non venirne influenzato (Freud, 1924, p. 125). Questo asserto, a lungo ritenuto attendibile dai biografi di Freud, è stato recentemente almeno in parte smentito dalla pubblicazione delle giovanili lettere all’amico Silberstein (Freud, 1871-81, p. 86).

Per quanto riguarda Jung, invece, si può senz’altro affermare che l’influenza nietzschiana fu profonda, esplicita e costante lungo l’arco di tutta la sua vita. Quando Jung si iscrisse all’Università di Basilea, l’unica che avesse visto Nietzsche in veste di docente, questa era ancora ‘vibrante del suo impeto‘ (Jung, 1906-61, vol. 3, p. 322). La lettura del Così parlò Zarathustra, dunque, compiuta verso i ventritré anni (Jung, 1961, pp. 138-41) dovette essere affrontata fin dalle prime pagine con un interesse fortemente acuito dall’influenza dell’ambiente. Un tale interesse è testimoniato già dalle giovanili Conferenze di Zofingia (Jung, 1896-99), e dalla tesi sui ‘cosiddetti fenomeni occulti’ (Jung, 1902). Citazioni, allusioni, riferimenti allo Zarathustra costellano le Opere di Jung, il quale riconobbe in Nietzsche l’unico autore in grado di offrirgli delle risposte nei momenti più incerti della propria giovinezza (Wehr, 1969, p. 54-5).

Ricordi, sogni, riflessioni reca un’ulteriore testimonianza del rapporto spirituale con Nietzsche: allorché Jung parla dei suoi primi anni, ed accenna a un contrasto tra una personalità ‘numero uno’ e una personalità ‘numero due’, chiama quest’ultima Zarathustra. Jung peraltro ritiene che, attraverso il personaggio di Zarathustra, Nietzsche dia voce alla propria personalità numero due (Jung, 1961, pp. 139-40; Jung, 1934-39; cfr. Ellenberger, 1970, pp. 199, 326, 776, 837).

Il quadro viene ulteriormente arricchito da elementi offerti dall’epistolario Freud-Jung.  Due lettere junghiane sembrano in particolare significative. La prima viene scritta in risposta a una precedente lettera di Freud, in cui questi auspicava la collaborazione di mitologi, linguisti e storici della religione con gli psicoanalisti: ‘altrimenti‘ concludeva ‘dovremo fare ancora una volta tutto da soli‘ (McGuire, 1974, p. 297). Jung interpretò l’auspicio di Freud come una non troppo velata convinzione che da parte dello stesso Jung un contributo importante in ambito di storia della cultura non sarebbe mai giunto. Rispose dunque piuttosto piccato, sottolineando come i propri interessi al riguardo fossero tutt’altro che superficiali e citando Nietzsche e Erwin Rohde (personaggio a Niezsche vicino) come prove dei propri approfondimenti (McGuire, 1974, p. 300).

La seconda lettera è ancora più significativa perché è quella che segna la cosiddetta Declaration of Independence di Jung da Freud (McGuire, 1974, p. 539), marcata da un’ampia e significativa citazione da Nietzsche, e proprio dal Così parlò Zarathustra:

Si ripaga male un maestro se si rimane sempre scolari. E perché non volete sfrondare la mia corona? Voi mi venerate, ma che avverrà se un giorno la vostra venerazione crollerà? Badate che una statua non vi schiacci! Voi non avevate ancora cercato voi stessi: ed ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti […] E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi avrete rinnegato io tornerò tra voi (Nietzsche, 1882-84, p. 93, citato in McGuire, 1974, p. 529).

Non si può neanche dimenticare che Trasformazioni e simboli della libido (Jung, 1912), l’opera che contiene le prime idee junghiane ufficialmente ‘eretiche’ rispetto alla psicoanalisi freudiana, sia l’opera di Jung che contiene il maggior numero di riferimenti a Nietzsche: venti richiami, tra i quali sei menzioni del Così parlò Zarathustra e altre quattro al personaggio Zarathustra.

In questo quadro generale non può del tutto stupire che, nell’ambito dei Seminari dedicati ai propri allievi analisti, Jung abbia dedicato alla lettura e al commento dello Zarathustra gli anni dal 1934 al 1939. Jung sospese il proprio impegno a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale, allorché per gli allievi non svizzeri sarebbe stato troppo difficile raggiungere Zurigo. Era giunto, di fatto, all’incirca a metà del testo nietzschiano. Ciò nonostante, il seminario su Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche costituisce nell’insieme la più lunga opera di Jung e il più vasto commento esistente a una singola opera di Nietzsche (se non a una singola opera filosofica). Come per gli altri Seminari la trascrizione del testo è circolata a lungo solo in forma privata ed è stata pubblicata ufficialmente molto tempo dopo la scomparsa di Jung (si veda la recensione de I sogni dei bambini).

Il seminario costituisce un documento eccezionale per comprendere il pensiero junghiano, a partire, naturalmente, dalla possibilità di valutare quanto profonda sia stata l’influenza di Nietzsche sul suo pensiero. Lasciamo la parola, al riguardo, allo stesso Jung:

La maggior parte delle persone che leggono lo Zarathustra non si preoccupa mai di concentrarsi sui particolari per chiarire che cosa realmente vien detto, e così spalanca le porte del proprio inconscio a qualcosa di rivoluzionario senza neanche farci caso. Di conseguenza tutte le persone rispettabili finiscono necessariamente per sviluppare una reazione naturale contro questo libro, e se chiedi loro il motivo di questa avversione, rispondono invariabilmente con citazioni che si rivelano colme di errori […] Lo Zarathustra è difficile da ricordare, perché si associa immediatamente con l’inconscio. Capita anche a me, a volte ricordo che lo Zarathustra di Nietzsche ha detto qualcosa – ma di che si tratta? Dopodiché scopro di averlo citato in maniera sbagliata. È associato al mio inconscio perché viene da quei luoghi oscuri (Jung, 1934-39, vol. 1, p. 296)

Sembra abbastanza evidente che quel ‘la maggior parte della gente’ sia frutto di proiezione o intellettualizzazione, come indica anche la parziale ammissione successiva. Jung sta dicendo che lui stesso, nel leggere Così parlò Zarathustra, assorbe contenuti dei quali fatica a ricordare l’origine.

A dimostrazione di ciò si può notare che, in più di un luogo del seminario, Jung affermi che la dottrina dell’eterno ritorno non compaia in quest’opera nietzschiana, che la menziona invece più volte. Jung, anzi, attribuisce esplicitamente l’eterno ritorno all’opera postuma (in realtà pseudo-nietzschiana) La volontà di potenza (Jung, 1934-39, vol. 3, p. 1110). Ciò non significa certo che Jung non abbia letto con attenzione lo Zarathustra, visto che si permette anche delle disquisizioni filologiche sulla traduzione inglese, ma testimonia al contrario proprio della presenza di materiale oscuro associato con un luogo oscuro dell’inconscio di Jung.

A ulteriore prova che Jung continuò a riprendere in mano l’opera nietzschiana durante tutta la sua vita, si può notare invece che Mysterium coniunctionis ricordi al contrario, in una nota, l’importanza del concetto di eterno ritorno nel Così parlò Zarathustra (Jung, 1955-56, vol. 2, p. 351).

Una menzione particolare meritano l’accurata traduzione italiana e la curatela di Alessandro Croce, che compensa le omissioni del curatore inglese, dovute presumibilmente a una scarsa frequentazione, da parte di quest’ultimo, delle opere di Nietzsche.

Concludendo, la lettura di Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche può essere considerata fondamentale sia per i cultori del filosofo tedesco, sia per i lettori di Jung.

Un modello cognitivo dei disturbi alimentari focalizzato sul controllo

Il nostro modello di trattamento dei disturbi alimentari focalizzato sul controllo non è una terapia nuova. Si tratta di una variante del trattamento cognitivo standard per i disturbi alimentari secondo la quale l’accertamento e il trattamento delle credenze sul controllo aumenterebbe la comprensione della psicopatologia dei disturbi alimentari e l’efficacia della terapia cognitiva.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Un modello cognitivo dei disturbi alimentari focalizzato sul controllo (Nr. 16)

 

Il modello originario della terapia cognitiva dei disturbi alimentari considera la bassa autostima e il perfezionismo patologico  come le principali distorsioni cognitive sottostanti il disturbo alimentare e gli obiettivi più importanti del trattamento psicologico (Fairburn et al. , 2003).  Lo scopo del lavoro cognitivo-comportamentale che critica e mette in discussione il perfezionismo patologico e la bassa autostima consiste nel diminuire sia il timore pervasivo dell’insuccesso da parte della persona, sia il focus sulla performance, e nel ridurre l’auto-criticismo che deriva dalla percezione negativa della sua prestazione.

Il nostro trattamento sostiene che anche le credenze disfunzionali e i processi sui temi del controllo siano tra le distorsioni cognitive rilevanti nei disturbi alimentari e, pertanto, devono essere aggiunte al perfezionismo patologico e alla bassa autostima come obiettivi della terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi alimentari.

Il concetto clinico della percezione ansiosa di mancanza di  controllo è applicabile ai disturbi alimentari. Infatti, la necessità dei soggetti con disturbi alimentari di percepire il controllo sulla propria vita è spostato sul controllo del cibo, del peso, e sulla forma del corpo, pena una pervasiva percezione di controllo insufficiente.  I soggetti con anoressia nervosa cercano spesso il controllo (Bruch 1973; Button, 1985) e la sensazione di controllo è sovente ottenuta con continui monitoraggi dell’alimentazione, del  peso e delle forme corporee. (Fairburn, Harrison, 2003; Slade, 1982).  La ricerca, inoltre, suggerisce che soggetti con disturbi alimentari ritengono sia possibile e obbligatorio esercitare un controllo assoluto sia su se stessi sia sulla realtà esterna (Sassaroli e coll.). Non si tratta della percezione ansiosa della mancanza di  controllo ma potrebbe rappresentare un desiderio attivo e ossessivo di aumentare il controllo (Moulding, Kyrios, 2006; Sassaro- li, Ruggiero, 2010).

 

Trattamento sul controllo nei disturbi alimentari: i cinque passi fondamentali

Per quanto riguarda il trattamento sul bisogno di controllo, il  terapeuta dovrebbe sviluppare una strategia che metta in discussione sia la credenza secondo cui il grado di controllo esercitato dal paziente è insufficiente (valutazione di controllo come insufficiente), sia la credenza in base alla quale solo il controllo assoluto è accettabile (desiderio e compulsione al controllo).  Questi i passi previsti dal trattamento sul controllo nei disturbi alimentari:

  • Passo 1: Valutazione della credenza sul controllo.

Noi assumiamo che in individui con disturbi alimentari, l’alimentazione disregolata e i comportamenti eliminatori rappresentino dei tentativi per ottenere un senso di controllo. Per questo motivo il terapeuta esplora il senso di controllo personale del paziente, la sua percezione di controllo sufficiente/ insufficiente, il desiderio di aumentare il controllo e la compulsione per un controllo assoluto. Il trattamento cognitivo della credenza sul controllo inizia con la valutazione di questa credenza. Il terapeuta chiede alla paziente di spiegare i comportamenti alimentari disfunzionali e  le emozioni associate in termini di pensiero. Il terapeuta incoraggia un atteggiamento critico nel paziente e chiarifica che ogni dato comportamento e/o emozione è preceduto da/o  corrisponde a un pensiero, che è una valutazione della situazione in termini di credenze e scopi. In questo modo il paziente può considerare e concepire i suoi comportamenti e le sue emozioni come azioni consapevoli e non più come impulsi incontrollabili. Noi crediamo che nei disturbi dell’alimentazione i comportamenti alimentari disfunzionali rappresentino un tentativo per raggiungere una sensazione di controllo  sugli eventi esterni, sugli altri, sul mondo e su di sé. All’inizio dell’intervista il terapeuta chiederà quali timori del paziente si potrebbero verificare nel caso in cui abbandonasse le sue  abitudini alimentari disfunzionali.

  • Passo 2: Valutazione della relazione tra il controllo dell’alimentazione, del peso e del cibo e la percezione del controllo generale sulla propria vita.

Il terapeuta valuta se questo senso di controllo coinvolge non solo l’alimentazione e il corpo, ma anche l’intero corso della vita della persona e se è presente un’assunzione consapevole  che associa l’alimentazione, il peso e/o le forme corporee con un senso di controllo sugli eventi esterni, sugli altri, sul mondo e su di sé.

  • Passo 3: Ristrutturare la credenza di un controllo insufficiente.

Fondamentalmente, la credenza del controllo è una credenza  ansiosa. Il paziente teme che il grado di controllo su di sé, sulle sue emozioni e sul mondo sia insufficiente. Il motivo per cui si valuta e si discute questa assunzione riguarda fondamentalmente la paura di perdere la percezione del controllo su di sé  e sulla realtà (Lehay, Holland, 2000). Così, noi dobbiamo ristrutturare tale paura mettendo in discussione:

  • Quanto è possibile tale perdita di controllo: quali prove e/o indizi il paziente porta per supportare la paura di perdita di controllo?
  • Se possibile, quanto è probabile?
  • Se probabile, tale perdita quanto potrebbe essere grave e insopportabile?
  • In che modo il paziente potrebbe rimediare a questa perdita di controllo?
  • In che modo il paziente potrebbe tollerare questa perdita  di controllo?

È importante discutere il rapporto tra il timore di perdere il controllo su di sé e sulla realtà e la paura di perdere il controllo sull’alimentazione, sul grasso e sul peso. Inoltre, il terapeuta prova a rendere il paziente consapevole di passati episodi di riduzione del controllo. L’obiettivo dell’intervento consiste nella decatastrofizzazione della perdita di controllo e di come è possibile sopportare un ridotto livello di controllo.

Il terapeuta guida il paziente a riconoscere che è possibile tollerare una parziale diminuzione del controllo, che tutti noi possediamo una serie di esperienze passate nella quale non avevamo il controllo assoluto ecc.  Alla fine il terapeuta incoraggia il paziente ad accettare una riduzione del controllo, a pensare che il timore di un controllo insufficiente può essere gestito. Il terapeuta, inoltre, incoraggia il paziente a mettere in discussione la credenza secondo cui il controllo sulla sua vita è insufficiente e a riconoscere che un livello parziale di controllo consente frequentemente un ragionevole grado di protezione personale e di sicurezza emotiva. 

Il terapeuta discute poi l’associazione tra la sensazione di controllo generale sulla propria  vita e il controllo del grasso e del peso.  Da ultimo, incoraggia il paziente ad aumentare la sua percezione di controllo visualizzando precedenti episodi di controllo e di successo. 

  • Passo 4:  Ristrutturazione del desiderio e della compulsione al controllo assoluto.

Il terapeuta incoraggia il paziente a mettere in discussione la sua rigida e dicotomica concezione di controllo. Secondo  le distorsioni cognitive del paziente, l’unica vera e accettabile forma di controllo è il controllo assoluto. Questo controllo estremo comprenderebbe non solo l’alimentazione e il peso ma anche se stesso e il mondo esterno. Il terapeuta elenca le aree al di fuori dell’alimentazione alle quali il paziente applica la sua compulsione al controllo e propone un progetto per diminuire i comportamenti di controllo in ciascuna area. Il terapeuta analizza e discute i sentimenti e le difficoltà incontrate dal paziente nello svolgimento del programma. Gli scopi finali sono una piccola riduzione del controllo esercitato e la capacità di giudicare sufficiente anche in un parziale livello di controllo. In sintesi, il terapeuta guida il paziente a pensare che è in grado di ottenere e tollerare un minore grado di controllo. Un altro passo terapeutico consiste nell’incoraggiare il paziente a pensare che è in grado di rinunciare al controllo assoluto  di almeno una cosa piccola. 

Un importante concetto riguarda il fatto che l’opposto del controllo assoluto non è la perdita di controllo tout court, bensì l’attiva rinuncia al controllo.  Il terapeuta guida il paziente a riconoscere che è possibile attuare e affrontare una parziale rinuncia al controllo, che ciascuno di noi ha avuto molte esperienze passate nelle quali non aveva un controllo totale, e così via.

Un altro importante intervento consiste nell’esplorazione e  valutazione dell’emozione legata al desiderio e alla rinuncia  di controllo assoluto.  È importante che il paziente capisca che cosa prova effettivamente in relazione alle sue idee di controllo assoluto.

La parte finale del trattamento riguarda l’attiva esposizione comportamentale a una situazione con controllo non assoluto. Durante la sessione, il terapeuta e il paziente decidono insieme un piano di attiva rinuncia al controllo.

In conclusione, le fasi del trattamento del desiderio di controllo assoluto sono:

  1. definizione di controllo assoluto;
  2. l’emozione sperimentata in situazioni di rinuncia di controllo;
  3. relazione tra controllo e autostima, successo e tolleranza;
  4. l’apprendimento di metodi che riducano attivamente il  controllo;
  5. l’apprendimento di metodi di cui si apprezzano i risultati anche se il controllo non è assoluto.
  • Passo 5:  Intervento comportamentale.

Il terapeuta guida il paziente a mettere in atto comportamenti  di non controllo, in riferimento non solo all’alimentazione e al cibo, ma anche ad altre aree della sua vita che presentano un  crescente coinvolgimento emotivo.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Le emozioni al tempo del Botox: i trattamenti estetici a base di botulino alterano la percezione delle emozioni

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Le infiltrazioni di botulino nei muscoli del viso che, provocando una leggera paralisi, distendono le rughe di espressione e donano un aspetto più giovane alla pelle, hanno un effetto non facilmente prevedibile: minano la capacità di comprendere le espressioni nel viso degli altri.

 

Questa conseguenza dipende, spiegano gli scienziati della SISSA in una nuova ricerca, da un temporaneo blocco del feedback propriocettivo, il processo che ci aiuta a comprendere le emozioni degli altri riproducendole su noi stessi.

Siamo abituati ormai a vederne i risultati più o meno riusciti sulle celebrity nostrane e internazionali, ma in realtà il mercato dei ritocchini a base di Botox (un trattamento estetico che sfrutta gli effetti della tossina del botulino di tipo A) interessa un gran numero di persone.

Tanto per dare un’idea, basti sapere che nel 2014 in Italia ci sono stati circa 250mila interventi. È naturale perciò porsi domande sugli effetti collaterali di questa pratica.

Una conseguenza difficilmente prevedibile ha a che fare con la sfera delle emozioni, in particolare con la percezione delle informazioni emotive e delle espressioni facciali.

Spiega Jenny Baumeister, ricercatrice della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste prima autrice di uno studio pubblicato sulla rivista Toxicon (al quale ha collaborato anche l’Ospedale di Cattinara, di Trieste):

La paralisi dei muscoli facciali, temporanea per fortuna, che questa tossina provoca peggiora la nostra capacità di cogliere il significato delle espressioni sul viso degli altri

L’intuizione di Baumeister ha origine in una teoria scientifica molto nota, quella dell’embodiment.

L’idea è che il processamento a livello cognitivo delle informazioni a contenuto emotivo, per esempio le espressioni del viso, passi anche attraverso la riproduzione delle stesse emozioni sul nostro corpo. Come dire che quando osserviamo un sorriso la nostra faccia tende a sorridere a sua volta (spesso in maniera impercettibile e incosciente) mentre cerchiamo di capire la natura di quell’espressione.

Se però i nostri muscoli sono paralizzati dal Botox, ecco che il processo può diventare più difficile.

Jenny Baumeister ha sottoposto a una serie diversificata di test atti a valutare la comprensione delle espressioni emotive un campione di soggetti, immediatamente prima e dopo un paio di settimane da un trattamento estetico a base di Botox, e le ha confrontate con le stesse misure in un campione analogo di soggetti che però non hanno ricevuto alcun trattamento. Non importa quale fosse il tipo di misura (giudizi o tempi di reazione) l’effetto della paralisi era evidente.

L’effetto negativo è molto chiaro quando le espressioni osservate non sono molto marcate. Quando il sorriso è aperto ed evidente, i soggetti non hanno invece difficoltà a riconoscerlo anche se sono stati sottoposti al trattamento – spiega Francesco Foroni, ricercatore della SISSA che ha coordinato lo studio – Per gli stimoli molto intensi la differenza nella prestazione, pur osservando una chiara tendenza al peggioramento, non era significativa. Per gli stimoli ‘ambigui’ invece, più difficili da cogliere, l’effetto della paralisi era molto forte.

L’osservazione conferma l’assunzione che almeno in parte i processi embodied ci aiutano nella comprensione delle emozioni. Inoltre suggerisce che l’influenza negativa del Botox può manifestarsi proprio nelle situazioni in cui questo aiuto potrebbe rivelarsi più utile. Pensate per esempio una normale conversazione fra due individui, dove la comprensione reciproca è fondamentale per una corretta interazione sociale: fallire nel cogliere delle sfumature emotive o dei cambiamenti repentini nell’umore dell’altro può fare la differenza fra uno scambio di successo e uno fallimentare.

Il nostro studio è stato pensato per approfondire l’embodied cognition. Allo stesso tempo pensiamo che essere a conoscenza di questa conseguenza sia utile per chi si occupa di medicina estetica, anche al fine di informare correttamente chi si voglia sottoporre a questi trattamenti – ha commentato Foroni.

The needs and struggles of migrants, refugees and asylum seekers

There is little research and attention about the needs and struggles of migrants, refugees and asylum seekers, and in particular to their access to appropriate health care.

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Research about this topic comes mainly from Canada, Australia and New Zealand. Little is known about the health of refugees on arrival and their subsequent health care trajectories. Therefore, there is an urgent need for an improved understanding of refugee demographics and health status on arrival, changes in health status over time, utilization of health services, and characteristics associated with optimal health outcomes (Gabriel, Morgan-Jonker, Phung, Barrios, & Kaczorowski, 2011). Guidelines (Pottie et al., 2011) inform us that immigrants should be routinely provided with vaccination and medical screening. There is high need for continued provision of settlement services to assist refugees with job training, labour market access, and counseling for traumatized refugees (Maximova & Krahn, 2010). A meta-analysis highlighted that the multiple dimensions of refugees’ resettlement cannot be understood without consideration of a wide range of pre- and post-migration stressors beyond those that are acutely post-traumatic (Porter & Haslam, 2005; Ringold, Burke, & Glass, 2005).

Immigrant and refugee health needs may differ significantly from those of host country people due to differential prior exposure to certain diseases and lack of access to preventive health care (e.g., vaccinations) (Hobbs, Moor, Wansbrough, & Calder, 2002). In addition, causes of migration (forced versus voluntary), familiar and financial conditions and hot country language proficiency should be assessed. In 2001 Burnett and Peel have  described some of the barriers which asylum seekers face in accessing health services in the UK. First difficulty is just problems in registering with a general practitioner and being given access health services. Language is the most important barrier that hinders refugees to access to health services.

Unfortunately, much less is known in European and Mediterranean and European countries, which is currently the area of highest migration and discomfort. In Canada, refugees receive a federally funded package which includes some medical, paramedical and dental coverage plus laboratory, imaging, physician or nursing services locally funded. Australian and New Zealand studies explored the barriers faced by refugees in accessing health services, and the challenges faced by providers. The main problem are refugees’ severe physical health needs, depending on malnutrition, poverty, abuse, overcrowded refugee camps and inadequate health care provision. The second major challenge is refugees’ mental health problems and psychological distress, which reason is having experienced or witnessed torture, violence, rape and death. In addition, some refugees may resist utilising counselling services to alleviate trauma because, in their culture, silence and forgetting are more common as coping mechanisms (Burnett & Peel, 2001).

Another strand of literature addresses the challenges which practitioners face in tackling refugee health needs. Burnett & Peel (2001) suggest that health workers face a number of challenges when working with refugees, including language, time pressure and cultural differences. Providers needs specific training in order to take care and look after refugees and immigrants. They should know immigrants’ cultural background and migration history. Simple questions, such as “How would a pharmacist help you in your country?” may make difference when initiating a patient assessment with an immigrant (Pottie et al., 2011).

Literature says that pharmacists are often the first health care professionals to assist newcomers with their health care needs and in this case also guidelines exist to support pharmacy care for immigrants and refugees (Ingar, Farrell, & Pottie, 2013). Another primary care frontline is provided by charity, non-profit community owned and operated health clinic designed to deliver accessible affordable and appropriate primary health care services (Lawrence & Kearns, 2005).

Health care is a core institutional process in resettlement societies n order to allow refugee groups a full integration  in host countries (Mortensen, 2008). Coping with emotional and mental disorders is a primary skill for health care professionals who happen to have to assist newcomers. Emotional and mental health issues put pressure on local primary and secondary care services, given that social isolation and loneliness of refugees migrants has led to underlying emotional, social and mental health issues.

Many obstacles may hamper appropriate access to health services. Shame or fear of what family and friends might think, fear of being judged by the treatment providers, fear of hospitalisation, and logistical difficulties are significant impediments to accessing health care services for women (Day, 2016; Drummond, Mizan, Brocx, & Wright, 2011).

Managing the challenges of working in a relief program with refugees and immigrants imply many skills. The need of specialized courses designed to prepare people to work in the field of humanitarian assistance cannot be overlooked (Harrel-Bond, 2002; Walkup, 1997). In fact, general practitioners are reported as under-resourced, at both individual level and structural level, to provide effective care and manage health conditions unique to refugees (Johnson, Ziersch, & Burgess, 2008). Transcultural competence is needed in order to offer a comprehensive framework for assessing and addressing refugees’ healthcare and makes a difference in terms of asylum seekers’ satisfaction with medical encounters, confidence in the future value of the attending physician’s recommendations, and perceived healthcare effectiveness in their new surrounding (Koehn, 2005).

In order to measure the degree of integration of refugees and immigrant, the use of adapted measures of acculturation adapted from existing acculturation scales with evidence of good reliability and validity to assess language use and proficiency, ethnic–social relations and media use (Deyo, Diehl, Hazuda, & Stern, 1985; Marín, Saboga, VanOss Marín, Otero-Sabogal, & Pérez–Stable, 1987).

L’accoglienza ai rifugiati: cosa ci dice la ricerca empirica?

Cosa sappiamo davvero dei migranti e dell’accoglienza che riusciamo a fornire? C’è poca ricerca sui bisogni dei rifugiati e richiedenti asilo, in particolare sul loro accesso alle cure mediche appropriate.

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La ricerca arriva principalmente dal Canada, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. Poco si sa sulla salute dei rifugiati in arrivo e sui percorsi di assistenza sanitaria (Gabriel, Morgan-Jonker, Phung, Barrios, & Kaczorowski, 2011). Le linee guida (Pottie et al., 2011) ci informano che gli immigrati dovrebbero essere dotati di vaccinazione e screening medico di routine. C’è un grande bisogno di continuare a fornire servizi di assistenza ai rifugiati per la formazione professionale, l’accesso al mercato del lavoro e la consulenza per i traumatizzati (Maximova & Krahn, 2010). Una meta-analisi ha evidenziato che le molteplici dimensioni dell’integrazione dei rifugiati non possono essere comprese senza tener conto di una vasta gamma di fattori di stress pre e post-migrazione (Porter & Haslam, 2005; Ringold, Burke, e Glass, 2005).

I bisogni di salute dei rifugiati potrebbero differire significativamente da quelli delle persone del paese ospitante a causa della precedente esposizione a malattie esotiche e la mancanza di accesso alla prevenzione sanitaria, come ad esempio, le vaccinazioni (Hobbs, Moor, Wansbrough, & Calder, 2002). Inoltre vanno valutate le cause della migrazione -forzata contro volontaria- le condizioni familiari e finanziarie e la conoscenza della lingua. Nel 2001 Burnett e Peel hanno descritto alcuni degli ostacoli che i richiedenti asilo affrontano nell’accesso ai servizi sanitari nel Regno Unito. La prima difficoltà è comprendere la procedura di registrazione con un medico di medicina generale. La lingua è la barriera più importante che ostacola i rifugiati nell’accesso ai servizi sanitari.

Purtroppo, mentre la ricerca descrive con una certa ricchezza la situazione in Canada, Australia e Nuova Zelanda, molto meno si sa su cosa accada nei paesi europei e mediterranei, che sono attualmente la zona di massima migrazione e disagio. In Canada, i rifugiati ricevono un pacchetto finanziato dal governo federale che comprende qualche copertura medica, paramedica e dentistica, più laboratori medici o infermieristici di radiografia e vari servizi finanziati a livello locale. Studi australiani e neozelandesi hanno esplorato gli ostacoli incontrati dai rifugiati nell’accesso ai servizi sanitari, e le sfide affrontate dai fornitori. Il problema principale sono gravi esigenze di salute fisica dei rifugiati a causa della malnutrizione, della povertà, degli abusi, del sovraffollamento dei campi profughi e dell’inadeguata fornitura di assistenza sanitaria.

La seconda sfida sono i problemi di salute mentale e il disagio psicologico dei rifugiati, che hanno sperimentato o testimoniato la tortura, la violenza, lo stupro e la morte. Inoltre, alcuni rifugiati possono non descrivere loro problemi nei servizi di consulenza specifica per alleviare il trauma, perché nella loro cultura il silenzio e l’oblio sono i meccanismi di gestione più comuni (Burnett & Peel, 2001).

 

 

Accogliere i rifugiati: le sfide degli operatori

Un altro filone della letteratura affronta le sfide che devono affrontare gli operatori. Gli operatori sanitari devono affrontare una serie di sfide quando lavorano con i rifugiati, tra cui la lingua, la pressione del tempo e le differenze culturali (Burnett & Peel, 2001). Gli operatori hanno bisogno di una formazione specifica per sapere prendersi cura dei rifugiati e degli immigrati. Dovrebbero conoscere la storia degli immigrati. Domande semplici, come ad esempio “Come vi aiuterebbe un farmacista nel vostro paese?” possono fare la differenza quando si inizia una valutazione di un paziente immigrato (Pottie et al., 2011).

La letteratura dice che i farmacisti sono spesso i primi operatori sanitari che aiutano i nuovi arrivati ​​con i loro bisogni di assistenza sanitaria e anche in questo caso le linee guida confermano l’importanza delle farmacie per la cura degli immigrati e rifugiati (Ingar, Farrell, e Pottie, 2013). Un’altra prima linea di assistenza primaria è fornita dagli Istituti caritatevoli, società senza scopo di lucro progettate per fornire servizi sanitari di base a prezzi accessibili e adeguati (Lawrence & Kearns, 2005). L’assistenza sanitaria è un processo fondamentale per consentire ai gruppi di rifugiati una piena integrazione nei paesi ospitanti (Mortensen, 2008).

Far fronte a disturbi emotivi e mentali è una competenza primaria per gli operatori sanitari per aiutare i nuovi arrivati. I problemi di salute emotiva e mentale mettono sotto pressione i servizi di cure primarie e secondarie locali, dato che l’isolamento sociale e la solitudine dei rifugiati ha portato a problemi emotivi, sociali e mentali. Molti ostacoli possono impedire un adeguato accesso ai servizi sanitari. Vergogna o paura di ciò che la famiglia e gli amici potrebbero pensare, paura di essere giudicati da parte dei fornitori di trattamento, paura dell’ospedalizzazione e difficoltà logistiche sono ostacoli significativi per l’accesso ai servizi di assistenza sanitaria (Day, 2016; Drummond, Mizan, Brocx e Wright , 2011).

Gestire la sfida di lavorare in un programma con i rifugiati e gli immigrati richiede molte abilità. Non può essere trascurato il bisogno di corsi specializzati, progettati per preparare le persone a lavorare nel campo dell’assistenza umanitaria (Harrel-Bond, 2002; Walkup, 1997). Al momento attuale i medici di base hanno poche risorse, sia a livello individuale che a livello strutturale, per fornire cure efficaci e gestire le condizioni di salute per i rifugiati (Johnson, Ziersch, e Burgess, 2008). La competenza transculturale è necessaria per offrire una valutazione e un trattamento completi e fa la differenza in termini di soddisfazione del paziente (Koehn, 2005). Per misurare il grado di integrazione dei rifugiati e degli immigrati l’uso di misure adeguate di acculturazione è fondamentale (Deyo, Diehl , Hazuda, e Stern, 1985; Marín, Saboga, Vanoss Marín, Otero-Sabogal, e Pérez-Stabile, 1987).

Concepire un figlio se si è depresse: uno studio rivela le condizioni che rendono difficile il concepimento

Un recente studio promosso dalla Boston University ha mostrato come la presenza di sintomi depressivi gravi riduca la probabilità di una donna di rimanere incinta, mentre l’uso di psicofarmaci non sembri danneggiare la fertilità.

 

 

La fecondabilità è definita come la probabilità di una data coppia di concepire un figlio, nell’arco di un certo tempo di rapporti non protetti. Dal momento che la maggior parte dei disturbi dell’umore o di ansia si manifestano durante gli anni di maggiore fertilità, una parte della letteratura ha indagato l’associazione esistente tra depressione, ansia e fecondabilità, portando tuttavia a risultati incoerenti.

Se gli studi trasversali, in generale, suggeriscono che ansia e/o depressione possono avere ripercussioni negative sulla fertilità di una donna, l’unico studio longitudinale condotto ha mostrato solo una piccola associazione.

Cercando di fare chiarezza, un recente studio promosso dalla Boston University ha mostrato come la presenza di sintomi depressivi gravi riduca la probabilità di una donna di rimanere incinta, mentre l’uso di psicofarmaci non sembri danneggiare la fertilità.

I dati provengono da uno studio on-line sulla gravidanza, noto come PRESTO (PREgnancy STudy Online), curato dalla Boston University, che sta indagando i fattori che influenzano la fertilità coinvolgendo coppie statunitensi e canadesi intenzionate ad aver un figlio. Le donne selezionate (n=2146) dal campione di studio (età 21-45 anni) hanno completato un questionario preliminare riguardante le informazioni demografiche, l’eventuale storia di depressione e/o ansia diagnosticata, i sintomi depressivi auto-riferiti e l’uso passato o corrente di psicofarmaci. Le partecipanti hanno poi completato questionari di follow-up ogni 8 settimane per un massimo di 12 mesi o fino al concepimento con lo scopo di valutare i cambiamenti intercorsi e lo stato di gravidanza.

Nel complesso, il 22% del campione ha segnalato una diagnosi clinica di depressione nella propria storia medica; il 17,2% ha utilizzato in passato psicofarmaci e il 10,3% ne fa uso corrente.

Lo studio, pubblicato sull’ American Journal of Obstetrics and Gynecology, ha riscontrato una diminuzione del 38% nella probabilità media di concepimento in un dato ciclo mestruale nelle donne che riferivano sintomi depressivi da moderati a gravi, rispetto a quelle con sintomatologia lieve o assente.

Nonostante studi precedenti avessero riscontrato associazioni tra infertilità e uso di antidepressivi, antipsicotici o stabilizzatori dell’umore nelle donne infertili, in questo studio, l’uso corrente di psicofarmaci non influenzava negativamente il concepimento.

Sebbene lo studio non approfondisca il perché le donne con sintomi depressivi gravi possano metterci più tempo per rimanere incinte, gli autori hanno riferito diversi meccanismi potenziali che forniscono interessanti spunti per approfondimenti futuri. Ad esempio, la depressione è stata più volte associata a disregolazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che influenzerebbero il ciclo mestruale e conseguentemente il concepimento.

Il distress nei pazienti oncologici: cos’è, come si valuta e come si agisce

Distress nei pazienti oncologici: La diagnosi e il trattamento del cancro sono accompagnati da significative conseguenze psicologiche, che portano a sintomi da distress emotivo e a disturbi quali ansia e depressione, nel 30-40% dei pazienti (Grassi et al., 2005). Però, la depressione, pur essendo il disturbo psichiatrico più comune nei pazienti con il cancro e sia associato a significative menomazioni funzionali, viene sotto-diagnosticata e non trattata, portando ad un peggioramento della qualità di vita, ad un aumento dell’ansia e del dolore corporeo ed ad una diminuzione della vitalità e delle funzioni sociali (Hopko et al., 2008).

 

Il distress nei pazienti oncologici

Nel 1997, il National Comprehensive Cancer Network (NCCN), riunì una commissione multidisciplinare per esaminare le preoccupazioni psicosociali dei pazienti. La commissione scoprì che “distress” era la parola migliore per rappresentare la gamma delle preoccupazioni emotive dei pazienti con esperienza di cancro senza portare lo stigma delle altre parole qualche volta usate per i sintomi emotivi e raccomandò di utilizzare una semplice domanda: “Qual è il tuo distress in una scala da 0 a 10?” utilizzando i punteggi di 4 o maggiore di 4 come punto da cui partire per ulteriori domande e possibile invio ad un Servizio Psicosociale.

Nel 2003, la commissione del NCCN per la gestione del distress nei pazienti oncologici, pubblicò standards più precisi di cura psicosociale e gestione del distress, che stabiliva per la prima volta delle indicazioni:
– Il distress doveva essere riconosciuto, monitorato, documentato e trattato a tutti gli stadi di malattia.
– Tutti i pazienti dovevano essere valutati in relazione al distress durante la prima visita, ad intervalli di tempo, in base alle indicazioni cliniche e specialmente in caso di cambiamenti della malattia, quali remissioni, ricorrenze e progressioni.
– La valutazione doveva identificare il livello e la natura del distress.
– Il distress doveva essere valutato e gestito secondo le linee guida della pratica clinica.

Ad oggi, il National Comprehensive Cancer Network (NCCN) definisce il Distress nei pazienti oncologici come un’esperienza emozionale spiacevole, multifattoriale -psicologica, sociale e/o spirituale – che può interferire negativamente con la capacità di affrontare il cancro, i suoi sintomi fisici, il suo trattamento. Il Distress si estende lungo un continuum che va da normali sentimenti di vulnerabilità, tristezza e paura, a problemi che possono diventare disabilitanti, come depressione, ansia, panico, isolamento sociale, crisi esistenziale e spirituale.

Molti studi, infatti, hanno dimostrato che dai pazienti ammalati di cancro, vengono riportati sintomi di distress emotivo come conseguenza della malattia e dei trattamenti effettuati; molti di questi sintomi soddisfano i criteri di diagnosi psichiatriche quali disturbi dell’adattamento, ansia e depressione (Mitchell, Chan, et al., 2011)
Sebbene questo danneggi la qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari, portando ad un percorso riabilitativo più lungo, meno del 33% dei pazienti con il cancro che hanno una diagnosi di distress sono riconosciuti nell’ambiente oncologico e conseguentemente inviati ad un intervento clinico appropriato. (Mitchell, Vahabzadeh et al., 2011).

Per questi motivi, sono state sviluppate molte linee guida di screening psicosociale e il distress è stato indicato come il sesto parametro vitale, dopo la pressione arteriosa, il polso, la respirazione, la temperatura e il dolore che deve essere monitorato per identificare i pazienti che necessitano di intervento clinico (Bultz et al., 2006).

 

Come valutare il distress nei pazienti oncologici

Per misurare il Distress nei pazienti oncologici è stato sviluppato uno strumento semplice ed efficace, il Termometro del Distress, che misura il livello di sofferenza e le sue possibili cause (Holland et al., 2010). Attraverso questo strumento si chiede al paziente di descrivere la quantità di disagio emotivo che ha provato nell’ultima settimana indicando un numero che va da 0 (nessun disagio emotivo – nessuno stress) a 10 (massimo disagio emotivo – massimo stress) in un termometro disegnato. Si chiede, inoltre, di indicare con una crocetta sì/ no se i problemi elencati in una lista (Problem List) e raggruppati in 5 categorie, che sono emersi nell’ultima settimana. Le categorie individuate sono: problemi pratici (es. nella cura dei figli, di alloggio, economici, ecc.); problemi relazionali (es. nel rapporto con il partner, con i figli, ecc.); problemi emozionali (es. depressione, paure, ecc.); aspetti spirituali; problemi fisici (es. dolore, nausea, ecc.).

Questo strumento è molto semplice da usare, occupa poco tempo (da tre a quattro minuti) per completarlo e riesce attraverso la scrittura (piuttosto che verbalmente) a far esprimere meglio le preoccupazioni al paziente.
Un altro strumento che può essere utilizzato per la misurazione del distress nei pazienti oncologici è il PDI (Psychological Distress Inventory), questionario di autovalutazione costituito da 13 items; per ciascun item, i pazienti sono invitati a segnare tra le opzioni proposte quella più vicina al loro sentire nell’ultima settimana. (Morasso et al., 1996)

La valutazione del distress sembra quindi fondamentale per migliorare la qualità di vita e le possibilità di guarigione dei pazienti oncologici; a questa valutazione, però, va aggiunta la modalità di gestione del distress.
Quindi, non solo l’uso di appropriati strumenti di screening ma anche un sistema di amministrazione e rivalutazione dei risultati dello screening, la conduzione di valutazioni di follow up e l’attribuzione di ulteriori valutazioni, supporti e trattamenti quando necessari.
Inoltre, il successo di un qualsiasi programma di screening e gestione del distress dipende dalla presenza di uno staff qualificato e formato.
Molte organizzazioni, tra cui, l’ACoS (American College of Surgeons), la NCCN (1) , l’Istituto di Medicina (Adler, Page, 2008) e la Società Americana di Clinica Oncologica (12) hanno identificato la valutazione e il trattamento del distress psicosociale nella routine della cura del cancro come uno standard di qualità delle cure.

Nel 2015, la Commissione sugli standard del cancro dell’ACoS (American College of Surgeons), ha stabilito di implementare i programmi di screening del distress psicosociale indicando 6 aspetti dello standard al quale attenersi (Williams et al., 2014):
1) Comitato: Presenza di un Comitato (gruppo di lavoro) coordinato da un responsabile che supervisiona l’amministrazione del programma con competenze specifiche nella conoscenza dei dati epidemiologici e numerici del distress nei pazienti oncologici. Necessaria l’inclusione nel processo di assistenti sociali, psicologi clinici o altri professionisti della salute mentale. Lo standard richiede una documentazione delle riunioni del comitato che discute dei risultati dello screening; ogni discussione del comitato deve partire dall’analisi dei pazienti e della classificazione dei risultati per valutare le soglie cliniche oltre le quali deve essere identificato un piano di lavoro psicologico su quel paziente. Può essere utile il feedback dei pazienti e familiari sull’effettività del programma di screening.
2) Tempo: lo screening dei pazienti dovrebbe essere effettuato durante le visite cliniche di maggior impatto emotivo (alla prima diagnosi, ad appropriati intervalli, al cambio di stato della malattia e trattamento). La poca letteratura disponibile è a favore dello screening ad ogni visita; nella pratica viene fatto al momento della presa in carico in oncologia che corrisponde al momento della diagnosi; sarebbe, comunque, opportuno non somministrare lo screening una volta sola perché il distress può intervenire in vari momenti anche dopo la diagnosi.
3) Metodo: Lo screening può essere amministrato sia dai medici (che permette una valutazione immediata del questionario ed eventuali azioni in caso di rischio suicidiario) sia dai pazienti (la maggior privacy può facilitare l’apertura del paziente; tuttavia l’attendibilità può essere compromessa dal livello culturale e di comprensione dello strumento). Attualmente si stanno diffondendo strumenti elettronici del distress che possono integrare il materiale in possesso del medico.
4) Strumenti: Dato che il distress ha dimensioni multiple, strumenti che valutino solo un aspetto, come la depressione e l’ansia, non sono sufficienti. Vengono consigliati, quindi, strumenti multidimensionali, psicometricamente validati preferibilmente in pazienti oncologici. Esempi di strumenti sono il DT (Distress Thermometer) e il PHQ-4 (Patient Health Questionnaire – 4).
5) Valutazione: viene raccomandato un protocollo standardizzato per la valutazione dei punteggi e dei risultati dello screening per identificare i pazienti che necessitino di follow-up e di ulteriori valutazioni. Il protocollo dovrebbe prevedere i seguenti ruoli:
– Un membro responsabile dello staff che supervisioni l’utilizzo dello strumento di screening, raccolga i risultati e assicuri che la valutazione venga effettuata da personale clinico qualificato.
– Un team di clinici (infermieri, assistenti sociali, psicologi) responsabili per la valutazione dei dati dello screening e la scelta dei pazienti che richiedono follow-up.
– Un team di clinici responsabili del follow-up dei pazienti affetti da distress. Il follow up dovrebbe includere i risultati dello screening e ricostruire una breve storia e possibilmente somministrare strumenti aggiuntivi per chiarire il tipo e la severità e le fonti del distress. Viene raccomandata l’indagine sul rischio suicidario per via dell’aumento dei casi in oncologia.
6) Documentazione: i clinici dovrebbero documentare nella cartella medica lo strumento usato, i risultati e le interpretazioni cliniche dello screening; per i pazienti per i quali viene identificato un distress dovrebbero essere identificati i seguenti punti: i risultati dello screening, un piano di follow up, il tipo, la fonte e la severità del distress, la storia rilevante, ogni tipo di ideazione suicidaria, tipo di interventi raccomandati, inclusi un piano per eventuali ulteriori valutazioni.

Concludendo, questo tipo di programma potrebbe migliorare la qualità della cura e portare ad una diminuzione della sofferenza e ad un accrescimento del livello di soddisfazione dei pazienti, migliorando i risultati in termini di salute.

 

Alcuni studi sul distress nei pazienti oncologici

In uno studio effettuato nel 2013 (Grassi et al., ) è stato evidenziato come il termometro del distress, proposto dal NCCN, sia uno strumento semplice ed efficace anche per i pazienti ammalati di cancro italiani e come tale strumento sia paragonabile ad altri strumenti quali l’HADS (Hospital Anxiety and Depression Scale) e il BSI-18 (Brief Symptom Inventory -18) e che il suo utilizzo aumenta la rilevazione del distress nella pratica clinica.

In questo studio si è constatato come il distress non sia correlato all’età, all’educazione, allo stato civile, allo stadio della malattia cancerogena o al tipo di intervento; non è neanche correlato alla comorbidità medica. E’ invece, associato al genere (viene rilevato maggiore distress nelle donne) e a precedenti disturbi psicologici ed eventi di vita stressanti prima della diagnosi di cancro; inoltre la presenza di sintomi fisici possono aumentare il rischio di distress.

In un altro studio effettuato nel 2014 (Fabbri et al., 2014) si è indagato se ad alti livelli di distress siano correlati una maggiore disponibilità ad effettuare un colloquio psicologico e se esiste una correlazione tra età, sesso, livello di distress e accettazione del colloquio.
I risultati dello studio indicano che, per il primo quesito, il 75% dei pazienti con elevato distress ha espresso la disponibilità a parlare con uno psicologo. La restante percentuale, pur avendo un livello di distress elevato, non ha dato questa disponibilità.

Invece, il 70,7 % dei pazienti che hanno espresso la disponibilità al colloquio con lo psicologo al termine della batteria di test somministrata risulterà poi avere bassi livelli di distress. Questo risultato conferma la letteratura esistente che riporta come la disponibilità a ricevere supporto psicologico non sia sempre correlata con il disagio percepito dai pazienti. (Merckaert et al., 2010)
Per quanto riguarda il secondo quesito, lo studio evidenzia che la probabilità di accettare il colloquio diminuisce all’aumentare dell’età ed aumenta al crescere dei valori del distress.

Infine è interessante sottolineare come negli ultimi anni il programma di riduzione dello stress basato sulla consapevolezza (MBSR – Mindfulness based stress reduction) sia divenuto un intervento psicosociale promettente per i pazienti oncologici. La Mindfulness viene definita come la consapevolezza, che si coltiva esercitando l’attenzione in una modalità intensa e peculiare, ossia con intenzione, nel momento presente, e senza attitudine giudicante (Kabat-Zinn 2012). L’MBSR, attraverso pratiche di meditazione, aiuta i partecipanti a prestare attenzione al passato e alle esperienze correnti, imparando a disimpegnarsi dai pensieri disfunzionali e concentrandosi sulle sensazioni emotive e corporee del momento presente; permette di fornire ai partecipanti, la capacità di fare un passo indietro rispetto alla ruminazione circa il passato e il rimuginio per il futuro, semplicemente vivendo le esperienze. (Kabat-Zinn 1990; Segal et al., 2002). Una recente meta-analisi (Piet et al., 2012) ha concluso che c’è un’evidenza positiva che l’uso degli interventi basati sulla Mindfulness riducano il distress nei pazienti oncologici.

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla psicologia

Stadio pre operatorio: Il bambino durante questo stadio diventa in grado di usare i simboli, le immagini, le parole e le rappresentazioni mentali che si manifestano principalmente attraverso l’imitazione differita, grazie alla quale è capace di osservare e successivamente, a distanza di tempo che possono essere ore o giorni, di riprodurre quello che ha osservato dimostrando che ha conservato una rappresentazione interna del modello.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

Lo stadio pre operatorio secondo Piaget

Continuiamo a parlare dello sviluppo cognitivo del bambino e questa volta ci soffermeremo sullo stadio pre operatorio. Il periodo in questione varia dai 2 ai 6 anni e comprende una serie di progressi cognitivi che portano fino all’acquisizione di funzioni complesse come il linguaggio.
In aggiunta a quanto ottenuto alla fine dei due anni, periodo in cui si conclude lo stadio sensomotorio, in questa fase compaiono la deambulazione, il riconoscimento del sé, in cui il bambino impara a identificare le persone familiari e la propria immagine riflessa allo specchio, e lo sviluppo della parola.

 

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget: da cosa è costituito

Il bambino durante lo stadio pre operatorio diventa in grado di usare i simboli, le immagini, le parole e le rappresentazioni mentali che si manifestano principalmente attraverso l’imitazione differita, grazie alla quale è capace di osservare e successivamente, a distanza di tempo che possono essere ore o giorni, di riprodurre quello che ha osservato dimostrando che ha conservato una rappresentazione interna del modello. Egli utilizza il gioco simbolico, usa un oggetto con una funzione diversa da quella cui assolve realmente, ad esempio la scopa come se fosse un cavallino e il linguaggio per riferirsi ad oggetti o persone non presenti nell’immediato, dimostrando di saper utilizzare schemi verbali appresi per indicare una realtà mentale, che è presente ma non nell’immediato o risulta solo immaginata.

Durante questo periodo è presente l’egocentrismo intellettuale che equivale a dire che il bambino è totalmente centrato e concentrato su se stesso, non è ancora in grado di percepire la presenza di punti di vista, emozioni, pensieri, diversi dai propri.
Inoltre, il pensiero è rigido e segue sempre dal particolare al generale, mentre i contenuti acquisiti sono legati tra loro attraverso concetti simili non sempre adeguati anzi il più delle volte non hanno nulla in comune.

Le azioni mentali sono irreversibili, poiché composte da rappresentazioni mentali isolate non legate le une con le altre. Questo processo è facilmente dimostrabile attraverso l’esecuzione di compiti di conservazione: si mostra al bambino un recipiente basso e largo contenente del liquido e gli si chiede di versare il liquido in un recipiente di forma identica. Il bambino, è in grado di riconoscere che la quantità di liquido nei due contenitori è identica. Poi, si chiede di versare il liquido da uno dei due recipienti in uno alto e stretto. Durante questo periodo, quello pre operatorio quindi, il bambino non riesce a riconoscere che i contenitori anche se di forma diversa contengono la stessa quantità di liquido.

Il periodo pre operatorio è anche caratterizzato da quello che è definito realismo nominale, ovvero la tendenza ad attribuire un nome all’oggetto facente parte del mondo esterno e dall’ intenzionalità, cioè dotare gli elementi del mondo naturale di una propria esistenza.
Il pensiero presentato dal bambino è ancora concreto perché non riesce ad andare oltre all’apparenza e al dato percettivo, per questo è definito pre-logico. In questo caso il bambino affronta i problemi focalizzandosi su un solo elemento per volta in maniera selettiva.

 

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget: evoluzione

Piaget considera lo sviluppo intellettuale intimamente legato alle operazioni, azioni interiorizzate di comportamenti acquisiti, che permettono di organizzare le informazioni, provenienti dall’ambiente esterno, secondo schemi o concetti consoni al bambino. Chiaramente tutta questa procedura è fortemente influenzata da tutte quelle capacità che caratterizzano e sostanziano questa fase:
1. Egocentrismo intellettuale, già citato sopra, che porta a non riuscire a differenziare il proprio punto di vista da quello altrui. È possibile superare l’egocentrismo grazie alla socializzazione con il gruppo dei pari e alla cooperazione con i coetanei volta all’individuazione e al raggiungimento di scopi comuni. La mancanza di decentramento, derivante dall’egocentrismo, induce alla presenza di confusione tra la sfera soggettiva composta da desideri, pensieri, intenzioni propri del bambino e la sfera oggettiva, che riguardano gli altri e l’ambiente esterno. La mancanza di decentramento si manifesta attraverso tre tendenze del pensiero del bambino:
a. Animismo, I bambini tendono ad estendere le caratteristiche degli esseri viventi agli oggetti inanimati. I bambini non distinguono con chiarezza le cose vive da quelle inanimate.
b. Finalismo, Tendenza ad attribuire un fine/scopo all’azione dei corpi.
c. Artificialismo, Tendenza a considerare tutte le cose come prodotto umano.

2. La rigidità di pensiero, Si manifesta in vari modi:

a. Irreversibilità: consiste nel ricordare gli oggetti e gli eventi nell’ordine in cui sono stati inizialmente conosciuti. Quindi, il bambino non è capace di spostare mentalmente le sequenze di azioni o schemi mentali, secondo un ordine diverso da quello appreso.
b. Difficoltà ad adattarsi al cambiamento nell’aspetto: il pensiero è totalmente ancorato alla percezione dell’oggetto che si verifica all’inizio.

3. Il ragionamento prelogico: i bambini usano un ragionamento trasduttivo grazie al quale percepiscono una relazione causale che non esiste tra due elementi concreti solo perché i due elementi si manifestano congiuntamente. I processi logici a questo stadio di sviluppo cognitivo non sono ancora presenti.

 

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget: vedersi allo specchio

Importantissime per questo stadio sono le reazioni che si ottengono ponendo il bambino di fronte a uno specchio o a un vetro: prova a toccare con un dito sia la propria immagine sia quella di un’altra persona se presente. Chiaramente, in questo periodo il bambino non riesce a distinguere la propria immagine dalla percezione dell’altro, di conseguenza non concettualizza lo spazio virtuale, ma avverte solo l’esistenza di qualcosa che non capisce si riferisca alla propria persona.

A 12 mesi il bambino, invece, nello specchiarsi riesce a percepire qualcosa che gli appartiene, una parte del suo corpo, principalmente è attratto dalle mani. In questo modo si verifica un primo riconoscimento di se stesso allo specchio, anche se parziale, perché riguarda solo una parte del proprio corpo e non il tutto.
Verso i due anni il bambino guardandosi allo specchio ha una reazione di evitamento, come se percepisse qualcosa di strano nel vedersi allo specchio, come se ci fosse un intruso. Si tratta di una reazione derivante da una evidente consapevolezza cenestesica, che porta a sottolineare come il bambino mostri una dettagliata percezione e concezione del proprio corpo, mentre non ha ancora acquisito quella dello spazio virtuale, tanto è vero che presenta il fenomeno dell’aggiramento. Questo fenomeno consiste nell’aggirare lo specchio dopo essersi guardato per verificare se vi sia qualcuno dietro di esso.

Sia l’evitamento sia l’aggiramento scompaiono nell’arco di uno, due mesi, intorno, all’incirca, all’età di 24 mesi quando il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio ed è felice di potersi riconoscere.
Questo comportamento è dimostrato da due prove:

– la prova della macchia: se il bambino ha una macchia sul viso, inizialmente prova a eliminarla dall’immagine riflessa allo specchio . Verso i 24 mesi, al contrario, la elimina direttamente sul suo viso. Questo comportamento manifesta la formazione di un concetto di spazio virtuale come diverso da quello reale. A circa 3 anni tenderà a girarsi per guardare alle sue spalle, poiché acquisisce la consapevolezza di sé e riesce a vedersi con gli occhi dell’altro.
– la prova con il video. Il bambino ripreso da una telecamera vede la sua immagine sul video. A 24 mesi il bambino si riconosce allo specchio come al video nella sua totalità di individuo. Successivamente, capisce che l’immagine osservata corrisponde a se stesso e rappresenta un riflesso della sua figura.

Per concludere, quanto detto finora conferma che lo sviluppo di capacità cognitive avviene per gradi e ogni volta che si immagazzina una nuova funzione si cede il passo a funzioni più complesse e strutturate.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Le capacità imitative dei neonati: le nuove scoperte sull’imitazione neonatale

Un nuovo studio pubblicato su Current Biology, ha fatto nuova luce sull’argomento dell’imitazione neonatale, proponendosi come la più grande e completa ricerca longitudinale sul tema mai realizzata fino ad oggi.

 

Per lungo tempo si è sostenuto che l’imitazione negli esseri umani, sia un fenomeno che si presenta fin dalla nascita. Molte delle principali teorie propongono che esista un modulo di imitazione innato, che starebbe alla base della cognizione sociale (potenzialmente sostenuta da un sistema di neuroni specchio).

Tuttavia, questo fenomeno di imitazione neonatale è rimasto sempre controverso. Ricordiamo ad esempio che autori illustri, come Jean Piaget (padre della psicologia dello sviluppo), sostenevano che tale capacità viene raggiunta dal bambino non prima degli 8-9 mesi di età.

Un nuovo studio pubblicato su Current Biology, ha fatto nuova luce sull’argomento, proponendosi come la più grande e completa ricerca longitudinale sull’imitazione neonatale mai realizzata fino ad oggi. I precedenti studi hanno avuto il grosso limite di essere stati condotti con metodologie limitate, su base trasversale con campioni molto ridotti e con scarsi gruppi di controllo.

Oggi può essere il momento di rivedere le convinzioni sulle radici della cognizione sociale umana.

 

L’imitazione neonatale: uno studio longitudinale

Janine Oostenbroek e i suoi colleghi hanno valutato 106 neonati per quattro volte a distanza di tempo, durante le primissime fasi di crescita. Le misurazioni sono state condotte dopo una settimana di vita, e in seguito a tre, sei e nove settimane. Durante ogni singolo test i ricercatori eseguivano una serie di movimenti facciali, oppure semplici azioni o suoni, per una durata di 60 secondi ciascuno. I comportamenti da imitare sarebbero stati ad esempio semplici operazioni come: mostrare la lingua, aprire la bocca, fare una faccia triste o felice, indicare un punto con il dito, oppure vocalizzare semplici suoni come ‘mmm‘ o ‘eee‘.

Durante i 60 secondi, il comportamento del neonato veniva filmato e veniva poi accuratamente rivalutato in seguito, per ricercare eventualmente presenti segni di imitazione.

I risultati ottenuti dai ricercatori, mettono in discussione le precedenti teorie, in quanto non è stata rilevata nessuna evidenza significativa a sostegno della tesi per cui i neonati siano in grado in maniera deliberata di imitare facce o suoni, o imitare semplici movimenti.

Ad esempio non era più probabile che i bambini aprissero la bocca o mostrassero una faccia triste nel momento in cui il ricercatore eseguiva il gesto, di quanto non fosse l’esecuzione di qualunque altro movimento. Grazie ai più strutturati e più ampi gruppi di controllo realizzati nella presente ricerca si sono potuto cancellare iniziali ambiguità.

Sulla base di questi risultati, i ricercatori sostengono che le idee esistenti sui moduli innati riguardo all’imitazione, dovrebbero essere modificate e riviste.

Essi sostengono che la verità potrebbe essere più vicina a quanto sosteneva Piaget e che tali abilità imitative emergerebbero nel bambino intorno ai sei mesi di vita.

Autoefficacia e accettazione nella relazione con il paziente oncologico – Report dal Convegno di Verona

Si è svolto a Verona nella giornata di martedì 31 maggio il workshop esperienziale “ Autoefficacia e accettazione nella relazione con il paziente oncologico”. L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, in collaborazione con la dottoressa Samantha Serpentini, psicologa presso l’Istituto Oncologico Veneto. Ospiti del workshop sono stati il professor Thomas Merluzzi, psicologo, dell’Università di Notre Dame dell’Indiana (Stati Uniti) e il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna.

 

Il concetto di autoefficacia

Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo a tutti coloro che si occupano di oncologia, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.
Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state l’autoefficacia e l’accettazione nella relazione con il paziente oncologico. Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Merluzzi che ha aperto la mattinata. Durante la prima parte del suo speech, il professor Merluzzi ha mostrato una panoramica di diverse teorie psicologiche, partendo dalla teoria dell’autoregolazione, passando alla teoria della resilienza e terminando con la teoria dell’autoefficacia, postulata da Albert Bandura. Stando alla definizione del grande psicologo canadese possiamo definire l’autoefficacia come [blockquote style=”1″]l’insieme delle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati [/blockquote](Bandura, 2000).

Per lo sviluppo e l’incremento dell’autoefficacia, sono di fondamentale importanza le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace, le esperienze vicarie, la persuasione verbale ed infine il controllo degli stati fisiologici ed affettivi. In particolare, sottolinea il professor Merluzzi, le esperienze vicarie possono essere un aiuto importante per questi pazienti. L’osservare altre persone, simili a sé, che affrontano la malattia può portare a credere di avere le abilità necessarie per fare quanto osservato. Da qui l’importanza del supporto sociale per una buona gestione di queste patologie. Nell’ambito terapeutico invece, continua il professor Merluzzi, si lavora soprattutto sulla fonte della “persuasione”, vale a dire l’incoraggiamento, sul piano verbale e non, che infonde nel paziente la possibilità di possedere competenze. Per questo motivo, il professor Merluzzi, ha definito il lavoro dello psicologo come “costruttore di autoefficacia”.

L’autoefficacia è inoltre comportamento-specifica: provare un alto grado di autoefficacia nel mettere in atto un comportamento non implica che si perseguirà con la stessa autoefficacia una condotta in un altro ambito. Come ha sottolineato Merluzzi essa è strettamente collegata alle situazioni, posso avere ad esempio una scarsa autoefficacia nel tennis, e magari un’autoefficacia molto elevata nel calcio.

Gli aspetti centrali di tale teorizzazione sono quindi il processo di valutazione (assessment delle capacità), l’autoefficacia percepita (“Sono in grado di affrontare il cancro?”), le aspettative di risultato (analisi costi/ benefici) ed infine il comportamento (plan). Vedere adattare questo costrutto, già molto diffuso e conosciuto in diversi ambiti della psicologia scolastica e lavorativa, anche al campo clinico e in particolare a quello oncologico è stato molto arricchente per i partecipanti. Inoltre gli studi presenti in letteratura evidenziano che l’autoefficacia sia un elemento di fondamentale importanza nel mediare il rapporto tra sintomi e depressione nei survivors. Tale caratteristica ha, infatti, un ruolo essenziale nel ridurre la depressione, che non deve essere sottovalutato nella presa in carico della persona che si trova ad affrontare o ad aver affrontato una diagnosi di cancro.

 

La teoria dell’autoregolazione

La sessione è continuata con un approfondimento sulla teoria dell’autoregolazione (Carver e Scheirer,1998). Quando si parla di un evento traumatico, come può essere la neoplasia, si identificano diverse modalità di reazione. Tra quelle positive vi è il recupero (resilienza di I livello) e la resilienza di II livello, cioè “thriving”. Mentre la prima condizione fa riferimento al momento in cui è ripristinato il livello pre-traumatico, nel secondo tale livello viene addirittura superato, arrivando a un maggiore stato di benessere, e livello di funzionamento. Le persone in tale condizione hanno sfruttato il potenziale post-traumatico per sviluppare nuove capacità, arrivando alla migliore e più auspicabile condizione di “prosperità”.

Durante la parte finale del suo speech, il relatore ha esposto alcuni degli strumenti da lui elaborati e validati, come il “Cancer Behavior Inventory” (CBI-B), e che grazie all’importante contributo della dottoressa Serpentini ora è disponibile anche in lingua italiana.
Un fattore d’indagine di tale strumento è la capacità dell’individuo di ricercare il supporto sociale. Tale aspetto è direttamente collegato all’agentività personale.

 

La Mastery Enhancement Therapy

L’intervento del professor Merluzzi si è concluso parlando della Mastery Enhancement Therapy. Tale intervento punta a valutare cosa è importante per la persona in relazione al suo passato e alle sue esperienze, e si è mostrato efficace nel migliorare l’autoefficacia dei pazienti affetti da neoplasia. Attraverso un percorso di quattro sessioni, della durata di 30-40 minuti, si cerca di incoraggiare il paziente a mettere in atto dei piani per far accadere ciò che decide di ripromettersi di fare. Il motto è quindi “Keep it simple and feasible”. Tale intervento, caratterizzato da brevità e semplicità, può essere svolto in mancanza di risorse anche dal personale infermieristico. Questo permetterebbe allo psicologo di focalizzare il suo intervento su quei casi che richiedono un trattamento più strutturato.

 

Self-compassion, mindfulness e accettazione

Un workshop particolarmente avvincente ha chiuso la giornata di formazione. I principali temi trattati sono stati quelli della self-compassion e della consapevolezza, approfonditi tramite esercizi esperienziali svolti a coppie e tramite l’uso della mindfulness per affrontare più efficacemente le situazioni di stress, cui spesso sono esposti i professionisti che si occupano di malattia oncologica. Il workshop è stato abilmente condotto dal professor Presti, presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science), e dal dottor Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Grazie al contributo di questi due importanti esponenti dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ancora una volta è emerso come sia essenziale, soprattutto in relazione alla malattia neoplastica, aumentare la flessibilità psicologica, accogliendo e accettando i propri pensieri. Il controllo del dolore e delle emozioni spiacevoli è una competenza essenziale in campo oncologico. Spesso gli specialisti del settore si trovano a porsi l’interrogativo di come “stare con” le emozioni dolorose della persona, di come comunicare la diagnosi o di come accogliere il dolore che il paziente porta in seduta. Stare con il dolore, toccare con mano la terminalità possono esporre l’equipe curante al fenomeno del burn-out.

Tale modello si propone di aiutare il curante (ma anche il paziente) a essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con qualcosa di “avversivo”. L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo al personale curante una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza lavorativa. Quest’approccio ha fornito numerose evidenze cliniche anche in campo terapeutico.

 

Conclusioni: l’importanza di sviluppare l’autoefficacia nel paziente oncologico

L’esperienza della malattia oncologica comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi presentati durante questo convegno, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro autoefficacia. Un punto basilare resta che il supporto psicologico offerto ai pazienti e ai loro famigliari, nonché la formazione e supervisione del personale curante, sono servizi necessari ed essenziali, conclusione che si auspica diventerà realtà concreta in tutti i contesti clinici che si occupano di tali patologie.

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, il prossimo incontro internazionale del GIS “Act for Health” si svolgerà sempre a Negrar il giorno 29 giugno, e avrà come ospiti il professor Joseph W. Ciarrocchi e il dottor Daniel J. Moran, attuale presidente ACBS.

Il Selfie e la costruzione sociale dell’identità – Seminario OPL, 13 Giugno 2016

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Il Selfie e la costruzione sociale dell’identità

Milano, 13 giugno 2016

 

Il selfie non solo come fenomeno virale, ma anche come forma chiara e riconoscibile del processo di costruzione dell’identità individuale e sociale. Questo il tema che verrà affrontato nel terzo incontro promosso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia presso Casa della Psicologia a Milano.

Parteciperanno Sara Beretta, antropologa (Università degli Studi di Milano Bicocca), Vanni Codeluppi, sociologo (IULM), Franco Natili, psicologo (Ariele, Università Cattolica, Milano) e Daniele Piparo, curatore d’arte. A coordinare l’incontro Dario Forti, psicologo (Comitato Scientifico della Casa della Psicologia). Parteciperà: Erika Samsa, graphic recording.

In occasione dell’appuntamento saranno esposte per la prima volta le opere di: Alessandro D’Aquila, Angela Florio, Francesco Messina, Carlo Alberto Rastelli, Stefania Ruggiero, Matteo Sclafani.

 

Data e Luogo:

  • Lunedì 13 giugno 2016, ore 21.00 – 23.00
  • Casa della Psicologia, Piazza Castello 2- Milano

 

Modalità di partecipazione:

Evento gratuito e aperto a tutti, previa iscrizione all’inidirizzo mail: [email protected]

 

Contatti Ufficio Stampa:

 

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Il trattamento della dipendenza da cocaina: psicoterapie a confronto

Nel trattamento della dipendenza da cocaina, vi sono prove di efficacia per le psicoterapie cognitivo-comportamentali, psicodinamiche, di gruppo, interpersonali, terapie familiari e persino per il Programma dei Dodici Passi, ma non c’è evidenza che definisca un trattamento come il più efficace.

Alessandro Raggi

 

 

Sul sito di State of Mind, in data 27 maggio 2016, Giada Costantini nel suo articolo ‘Assunzione Di Cocaina: Psicopatologia e Trattamento‘ dichiara che “il trattamento più efficace è quello cognitivo comportamentale“, ma questa affermazione è sbagliata.

Non vi sono, al momento, evidenze univoche circa la maggiore efficacia di uno specifico trattamento psicoterapico rispetto a tutte le altre psicoterapie. La dimensione dell’efficacia della sola psicoterapia nel trattamento della dipendenza da cocaina è per altro molto relativa (NTA, 2002), di qualunque psicoterapia si tratti. Ad ogni modo la CBT (terapie cognitivo-comportamentale) ha dato negli anni (US NDA, 1998) sicuramente prova di essere efficace nel trattamento della dipendenza da cocaina. Dire però che la terapia cognitivo-comportamentale è il trattamento più efficace nella dipendenza da cocaina è errato. L’errore di questa affermazione è rilevabile su più piani, proviamo a considerarne alcuni.

È necessario far notare che non vi sono sufficienti trial scientifici comparativi per affermare che una terapia (in questo caso la CBT) sia in assoluto più efficace di altre psicoterapie che non sono state testate affatto, oppure che non sono state comparate con la prima.

Inoltre, uno studio che rilevi l’efficacia di una terapia non dimostra automaticamente che questa terapia lo sia più di altre per un dato quadro psicopatologico, inclusa la dipendenza da cocaina.

Oltre a ciò vi è anche un errore logico, che può portare a conseguenti errori sul piano epistemologico: quando si compara un termine (è più efficace) lo si dovrebbe comparare con un altro termine (un’altra psicoterapia in questo caso), oppure si dovrebbero portare prove che quel termine è in assoluto più efficace di tutte le altre terapie, incluse quelle (psicoterapie) mai testate o mai confrontate con il primo termine e di questo non vi è traccia nell’attuale letteratura.

Nel trattamento della dipendenza da cocaina, vi sono prove di efficacia per numerosi altri tipi di intervento psicoterapico e in studi su larga scala effettuati dal National Institute on Drug Abuse negli Stati Uniti, anche la terapia psicodinamica (Crits-Christoph P. et al., 1999) è risultata efficace quanto la terapia cognitivo-comportamentale. Allo stesso modo, le terapie di gruppo monosintomatiche per assuntori di cocaina, si sono mostrate efficaci quanto le terapie cognitivo-comportamentali (Leichsenring et al., 2006) e sia le terapie cognitivo-comportamentali, che le terapie psicodinamiche, da sole, si sono mostrate meno efficaci di queste stesse terapie ma in combinazione con gruppi di sostegno monosintomatici (ibidem, 2006).

Uno dei pochi studi importanti (e randomizzati) sulla dipendenza da cocaina, che vedono comparate terapie cognitivo-comportamentali (CBT), terapia psicodinamica (PDT) e counseling individuale basato sulla filosofia dei 12 passi, ha mostrato una maggiore efficacia del counseling individuale. Né CBT né PDT si sono mostrate più efficaci del counseling e non si sono differenziate l’una dall’altra in termini di efficacia (Crits-Christoph P. et al., 1999).  Ad ogni modo, il counseling individuale non si mostra efficace laddove vi siano comorbidità psichiatriche importanti (Crits-Christoph P. et al., 2001). In studi più ampi (Crits-Christoph P. et al., 2008) anche altre forme di psicoterapia espressivo-supportiva, oltre PDT, hanno mostrato la loro efficacia nel trattamento della dipendenza da cocaina, mentre in altri casi ancora si è evidenziata una durevole tenuta nei follow-up (Barber, 2008), e dunque nell’evitamento delle ricadute, in soggetti che erano stati trattati con terapie espressivo-supportive.

È fondamentale però evidenziare che la dimensione dell’efficacia dei trattamenti psicoterapici nella maggior parte degli studi, non è comunque molto elevata in assoluto e non lo è neppure per i trattamenti cognitivo-comportamentali (McHugh, 2010). Occorre ricordare che un conto è l’efficacia statistica di una ricerca scientifica, altro conto è l’efficacia clinica di un trattamento psicoterapico. In molte ricerche sul trattamento psicoterapico della dipendenza da cocaina, infatti, non più del 38% dei casi trattati, con follow-up a tre mesi dal trattamento, risulta ancora in astinenza.

Ancora (NQF, 2005) le terapie psicosociali (CBT) sono state indicate come inefficaci, al pari dell’agopuntura o dei soli farmaci antidepressivi, quando somministrate a soggetti con dipendenza da sostanze patologica grave e presenza di altrettanto gravi comorbidità psichiatriche. Le terapie psicodinamiche individuali in determinati studi si mostrano, invece, poco efficaci (ibidem, 2005), mentre in altre ricerche più recenti l’efficacia delle terapie psicodinamiche nel trattamento della dipendenza da cocaina (Fonagy, 2015) risulta significativa. In ampie ricerche transnazionali (EMCDDA, 2014) le terapie psicosociali (CBT) sono presentate come efficaci e raccomandate, ma non si fa alcun cenno a una loro presunta efficacia assoluta. Persino programmi più tipicamente comportamentisti basati sul binomio rinforzo-punizione (CM, contingency management) si sono mostrati più efficaci di trattamenti as usual (di norma la gestione farmacologica, senza psicoterapia), addirittura tre volte di più (ibidem, 2014).

Vi è un ultimo ma non meno importante aspetto che riguarda più in generale la relazione tra ricerca scientifica in psicoterapia e pratica psicoterapeutica. Già Seligman (1995) metteva in guardia dall’utilizzare facili trasposizioni tra i due contesti di clinica e ricerca; l’autorevole istituto nazionale per la salute degli Stati Uniti d’America (National Institutes of Health, 2012) nel Rapporto sui Trattamenti nell’abuso di droghe (ibidem) mette in guardia dall’applicabilità pratica nel contesto clinico delle rilevazioni effettuate attraverso le ricerche scientifiche nel campo delle dipendenze da sostanze. Sempre il NIDA (National Institute for Drug Abuse), nel riconoscere la più ampia diffusione nel contesto clinico dei trattamenti cognitivo-comportamentali (‘most common used treatment‘), sostiene con chiarezza che ‘nessun trattamento è valido per tutti‘ (ibidem, p.2) e che occorrerà, nel tempo, ‘valutare l’efficacia reale dei trattamenti evidence-based e ciò sarà un passo fondamentale nel portare la ricerca scientifica alla pratica clinica‘ (p.74). In questo documento non si sostiene che una terapia è la più efficace.

La dipendenza da cocaina, più in generale, non è una condizione clinica avulsa dal soggetto, ma una complessa forma di dipendenza patologica che si lega inestricabilmente alle caratteristiche individuali del soggetto dipendente, alla sua storia clinica, alla sua anamnesi e alla sua biografia, alle eventuali comorbidità psichiatriche.

Aspetti quali la personalità del soggetto, l’organizzazione psicologica, la rete di supporto sociale e familiare, il tipo d’uso soggettivo che egli sperimenta con la sostanza – che non è unicamente prestazionale come spesso si tende a dare per scontato (Raggi, 2015) – sono variabili che incidono in modo significativo nella clinica pratica sull’esito di qualunque trattamento. Lavorare con soggetti esclusivamente definiti ‘dipendenti da cocaina’, senza tener conto delle variabili soggettive, è un artificio sperimentale, molto utile nel semplificare le ricerche e nel renderle più attendibili, ma il prezzo che si paga è una drastica riduzione della loro validità.

Ciò significa anche che quando si citano studi e ricerche, almeno in psicoterapia, occorre sempre molta prudenza nel riferirne l’applicazione in ambito clinico, al di là di qualunque orientamento possa più o meno rappresentarci.

 

*Dott. Alessandro Raggi: Psicoterapeuta, psicoanalista. Didatta Scuola di psicoterapia analitica AION. Responsabile nazionale Centri ABA

Scoperto il gene che ci fa sentire il dolore: il PRDM12

In questo articolo viene presentata la scoperta del gene essenziale per la produzione della sensazione del dolore, dell’Università di Cambridge, che apre la strada a nuovi metodi nel campo della terapia del dolore.

 

I ricercatori, guidati da Geoffrey Woods e Jan Senderek dell’Università di Cambridge, hanno scoperto il gene responsabile della percezione del dolore, denominato PRDM12.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics con il seguente titolo: ‘Transcriptional regulator PRDM12 is essential for human pain perception’ (G. Woods, J. Senderek, 2015)

La percezione del dolore ha un valore adattativo, in quanto ci allerta di fronte eventuali pericoli e ai relativi danni che possono arrecare ai nostri tessuti:

Pain perception has evolved as a warning mechanism to alert organisms to tissue damage and dangerous environments (G. Woods, J. Senderek, 2015).

Ci sono però alcuni individui, che a causa di una rara caratteristica, non percepiscono il dolore e questo ha conseguenze dannose.

Attraverso dettagliate mappature del genoma, alcuni ricercatori hanno collaborato al fine di analizzare le caratteristiche genetiche di 11 famiglie (non imparentate tra loro) portatrici di una insensibilità congenita al dolore (CIP), una condizione ereditaria che impedisce di percepire il dolore, ma anche il calore e il freddo (N. Vitali, 2016).

Lo studio ha individuato 10 diverse mutazioni in entrambe le copie del gene PRDM12 nei pazienti analizzati, affetti da CIP. Da ciò si è dedotto che la causa della condizione di insensibilità al dolore risiede proprio nelle varianti del gene PRDM12.

Nello specifico: le persone affette da CIP nel loro corredo genetico presentano una mutazione a carico di ciascuna delle due copie di PRDM12, se dal genitore viene ereditata una sola copia invece, la patologia non si manifesta. I ricercatori hanno inoltre osservato che alcuni neuroni sensibili al dolore risultano assenti nei pazienti CIP. È stato così compreso dai ricercatori che «doveva esserci qualcosa che bloccava la produzione di queste cellule nervose già durante lo sviluppo degli embrioni» (N. Vitali, 2016).

Il PRDM12 rappresenta il quinto gene identificato come connesso all’assenza della percezione del dolore. In passato sono stati, infatti, identificati due geni che hanno condotto allo sviluppo di antidolorifici (in fase di sperimentazione).

La speranza dei ricercatori risiede proprio nel fatto che questa scoperta porti alla creazione di nuovi farmaci, in quanto la proteina che il gene PRDM12 produce, è un fattore importante per la genesi dei nervi collegati alle sensazioni e può quindi essere presa come centro per terapie antidolore.

 

Transcriptional regulator PRDM12 is essential for human pain perception – Abstract –

Pain perception has evolved as a warning mechanism to alert organisms to tissue damage and dangerous environments. In humans, however, undesirable, excessive or chronic pain is a common and major societal burden for which available medical treatments are currently suboptimal. New therapeutic options have recently been derived from studies of individuals with congenital insensitivity to pain (CIP). Here we identified 10 different homozygous mutations in PRDM12 (encoding PRDI-BF1 and RIZ homology domain-containing protein 12) in subjects with CIP from 11 families. Prdm proteins are a family of epigenetic regulators that control neural specification and neurogenesis. We determined that Prdm12 is expressed in nociceptors and their progenitors and participates in the development of sensory neurons in Xenopus embryos. Moreover, CIP-associated mutants abrogate the histone-modifying potential associated with wild-type Prdm12. Prdm12 emerges as a key factor in the orchestration of sensory neurogenesis and may hold promise as a target for new pain therapeutics.

I sogni dei bambini. Seminario tenuto nel 1936-41 da C. G. Jung – Recensione

Carl Gustav Jung colto nella sua attività di docente universitario. Un’integrazione alla teoria junghiana del sogno e un documento importante per la storia della psicologia.

In Ricordi, sogni, riflessioni, Carl Gustav Jung (1961) racconta che il suo primo approccio alla lettura dell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud sarebbe stato di incomprensione, salvo rivalutarne l’importanza dopo i propri studi sull’esperimento associativo. In realtà, da come cita il libro di Freud fin dalla tesi (Jung, 1902, pp. 68, 88, 111), si capisce che lo psicologo svizzero aveva capito subito il significato dell’opera freudiana, che costituì per lui (come per molti altri) il motivo della sua adesione iniziale alla teoria psicoanalitica. In ogni caso, fin dal periodo della collaborazione con Freud, Jung aveva già talmente metabolizzato la teoria del sogno da iniziare a introdurre delle proprie innovazioni (Jung, 1906; 1909). Tali innovazioni diventeranno sempre più originali nel corso di pochi anni, fino alla proposta di un modello ermeneutico radicalmente diverso rispetto a quello di Freud.

 

In estrema sintesi, e con qualche approssimazione, si può riassumere la versione definitiva della teoria junghiana del sogno come segue:

  1. Il sogno costituisce in alternativa:
    1. una compensazione rispetto alla vita diurna del sognatore;
    2. il riflesso della condizione presente del sognatore; per quelli che Kohut, senza citare Jung, chiamò in seguito sogni sullo stato del Sé (Kohut, 1972-76, p. 162);
    3. un’elaborazione inconscia volta a prevedere possibili sviluppi futuri della vita del sognatore (funzione prospettica). In ogni caso il sogno tendenzialmente guarda al presente e al futuro piuttosto che al passato e marca spesso una tappa in direzione dell’autorealizzazione del soggetto (ciò che Jung chiama ‘processo di individuazione‘).
  2. Il sogno deve essere interpretato in senso letterale e non come un rovesciamento pressoché totale del contenuto latente (idea ripresa dal gruppo di Lichtenberg con il motto ‘il messaggio contiene il messaggio‘; si veda Lichtenberg et al., 1996, pp. 173-90). Le difficoltà di comprensione sono legate alla diversità del linguaggio con il quale si esprime l’inconscio piuttosto che da una necessità di censura. Ciò non vuol dire, come Jung sottolinea anche ne I sogni dei bambini, che il sognatore non possa riscontrare una certa difficoltà a parlare dei propri sogni, ma ciò sarebbe dovuto alla resistenza operata ex post dai suoi complessi (Jung, 1936-41, p. 244).
  3. I simboli onirici non hanno un significato univoco (segnico, in termini di filosofia del linguaggio) e spesso mettono in contatto il sognatore con i contenuti dell’inconscio collettivo, ovvero quella parte dell’inconscio che è in qualche misura comune a tutta l’umanità.

Con L’interpretazione dei sogni, Freud propose un trattato completo sull’argomento, che peraltro avrebbe voluto riscrivere del tutto in capo a pochi anni dalla prima uscita, avendo posto le pulsioni e non più i desideri al centro della propria teoria della motivazione (McGuire, 1974, pp. 423 e ss.). Ad impedirlo fu il suo editore Franz Deuticke, il quale, non a torto, pensava che rivedere completamente un’opera così ponderosa a breve distanza dall’uscita avrebbe suscitato notevoli perplessità nel pubblico dei lettori (McGuire, 1974, p. 453). Jung, invece, scrisse solo brevi saggi al riguardo (oltre ai citati: Jung, 1914; 1931; 1945; 1948; 1961a), per quanto osservazioni sulla sua teoria dei sogni siano disseminate in tutte le opere e addirittura tutta la prima parte di Psicologia e alchimia (Jung, 1944) non sia altro che l’articolata interpretazione di una lunga sequenza di sogni del fisico Wolfgang Pauli (si veda la recensione dell’epistolario Jung-Pauli). Da questo punto di vista quindi, un particolare interesse rivestono i Seminari di Jung sui sogni. Quello sui sogni degli adulti è da tempo disponibile in italiano (Jung, 1928-30). Questo sui sogni dei bambini ha visto la luce nel nostro paese molto di recente.

I Seminari di Carl Gustav Jung sono cicli di lezioni tenuti dallo psicologo svizzero in varie sedi, il cui testo è stato fortunatamente raccolto dagli uditori (similmente con quanto è avvenuto nel caso di Jacques Lacan, del quale i seminari costituiscono di fatto la gran parte del lascito). La loro importanza è considerata tale da averne fatto ritenere opportuna la pubblicazione come volumi supplementari delle Opere sia nell’edizione in tedesco che in quella in inglese. In Italia l’editore Bollati Boringhieri ne aveva inizialmente sottovalutato il rilievo, onde Psicologia analitica (Jung, 1924) e Visioni (Jung, 1930-34) sono usciti per Magi, che ha pubblicato anche il dialogo Sui sentimenti e sull’ombra (Jung, 1957-59), le giovanili Conferenze di Zofingia (Jung, 1896-99) e le Lettere (Jung, 1906-61), recentemente ristampate. Bollati Boringhieri ha dapprima pubblicato La psicologia del Kundalini Yoga (Jung, 1932) e il già menzionato Analisi dei sogni (Jung, 1928-30); di recente, forse sulla scorta dell’interesse suscitato dal Libro rosso (Jung, 1913-30), si è profusa in uno specifico sforzo produttivo. Hanno così visto la luce i quattro volumi del commentario allo Zarathustra di Nietzsche (Jung, 1934-39; su di essi si tornerà a parlare su State of Mind) e i due dei Sogni dei bambini. Dell’edizione italiana del Libro rosso, in ogni caso, i due Seminari di più recente pubblicazione mantengono l’impostazione grafica e cromatica della copertina.

I Sogni dei bambini è il frutto dell’insegnamento di Jung presso l’università di Zurigo negli anni 1936-37 e 1940-41. Il testo è stato edito in tedesco per la prima volta nel 1987. Potrebbe sembrare strano e paradossale che importanti testimonianze dell’insegnamento di un personaggio così noto siano state rese disponibili tanti anni dopo la sua morte. La ragione è connessa a scelte dello stesso Jung, che teneva queste lezioni per una cerchia molto ristretta di partecipanti e inizialmente aveva autorizzato la circolazione delle relative trascrizioni solo fra i partecipanti stessi. In generale, ciò sembra dovuto sia a ragioni di discrezione, legata a contenuti clinici discussi in modo aperto e senza mascheramenti; sia a una modalità molto libera e informale di commentare da parte dello stesso Jung, che avrebbe forse voluto rivedere i testi in vista di eventuali pubblicazioni; sia al coinvolgimento nelle discussioni di terzi (pressoché tutti i partecipanti), i quali pure avrebbero dovuto essere consultati prima che i loro contributi circolassero. La famiglia di Jung ha col tempo autorizzato invece l’edizione dei Seminari, anche interpretando in senso possibilista il sempre minore rigore da parte dello psicologo svizzero verso una diffusione meno esclusiva di essi, nel corso degli anni.

Questo specifico seminario è caratterizzato da una partecipazione molto intensa da parte degli allievi di Jung, ognuno dei quali illustra a rotazione almeno un esempio clinico. Il testo complessivo, dunque, è costituito da brevi introduzioni generali ai corsi da parte di Jung; da una serie di sogni raccolti e commentati dai partecipanti e naturalmente da Jung stesso, che a sua volta propone alcuni dei sogni discussi; dall’esposizione del contenuto e dal commento di alcuni testi antichi sul significato dei sogni, da Artemidoro in poi. I sogni presentati non provengono psicoterapie infantili in corso ma da ricordi dei propri primi sogni, raccontati in analisi molti anni dopo dai rispettivi sognatori. Secondo Jung, i sogni così raccolti rivestirebbero un interesse specifico:

Perché provengono dai più intimi recessi della personalità, costituendo perciò non di rado un’anticipazione del destino del sognatore. I sogni successivi divengono via via meno importanti, a meno che il sognatore non abbia un destino particolare. Durante la pubertà e fino ai vent’anni i sogni tornano a divenire rilevanti, per poi perdere nuovamente d’importanza e riprenderla solo dopo il trentacinquesimo anno di età (Jung, 1936-41, p. 3).

Jung, inoltre, ritiene che i sogni che alludano a un problema esistenziale già superato vengano in seguito dimenticati, mentre i sogni che si ricordano alludono a qualcosa di non ancora risolto, oppure a qualche aspetto del proprio percorso esistenziale che ‘forse non si è ancora compreso, o non si comprenderà mai‘ (Jung, 1936-41, p. 383).

Una particolare caratteristica della tecnica interpretativa junghiana trova uno spazio particolarmente ampio nelle pagine del seminario, ovvero l’amplificazione. L’analista associa in prima persona ai simboli del sogno elementi che egli ritiene connessi all’inconscio collettivo: ciò avviene quando egli è in grado di accostare contenuti onirici che gli vengono proposti a simbologie archetipiche provenienti anche da culture distanti. ‘Spieghiamo dunque un sogno ampliando la portata dei singoli elementi e utilizzando tutte le nostre conoscenze‘ (Jung, 1936-41, p. 246). Si tratta di quell’aspetto delle idee junghiane che ha trovato il suo massimo sviluppo nella psicologia archetipica di James Hillman. Non si può, in ogni caso, dimenticarne l’indubbio valore storico.

Gli esiti degli interventi psicologici con adolescenti: la traduzione italiana del CORE-Young Person

Il CORE Young Person è uno strumento di valutazione pre e post intervento, cioè di valutazione di esito. La versione originale inglese nasce come adattamento del CORE-OM per persone dagli 11 ai 16 anni. È una checklist che cerca di definire il livello di problematicità ed il funzionamento della persona.

D. Rebecchi *; R. Di Biase*, N. Lusuardi*, F. Ronchetti*, G. Palmieri**, C. Evans***

* Servizio Psicologia, Dipartimento Salute Mentale, Ausl Modena
** Ospedale Villa Igea, Modena
***Universities of Nottingham and Roehampton, UK

Introduzione

L’interesse per la valutazione degli esiti dei percorsi psicologici ha compiuto negli ultimi decenni notevoli progressi generando un ricco corpus di letteratura scientifica. La misurazione dell’esito permette la valutazione del risultato del processo terapeutico, della sua efficacia teorica (efficacy), della sua efficacia nella pratica (effectiveness).

È importante quindi che siano creati ed utilizzati strumenti psicometrici che diano innanzitutto una valida formulazione concettuale del costrutto di esito e che ne sappiano fornire una soddisfacente misurazione specifica per popolazione clinica.

 

I disturbi più frequenti negli adolescenti e gli strumenti di valutazione

Osservando la popolazione adolescente italiana, i disturbi psichici interessano un’ampia parte di essa: lo studio PrISMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti; Frigerio et al, 2007) ha evidenziato che il 9,8% dei partecipanti sottoposti a screening sono risultati ‘probabili’ casi con problemi emotivo-comportamentali, mentre l’8,2% dei preadolescenti soffriva, al momento dell’indagine, di un disturbo mentale conclamato. I disturbi emotivi (disturbi d’ansia e depressivi) erano più rappresentati di quelli esternalizzanti, presenti in una percentuale inferiore a quella comunemente riscontrata in altri studi. Monitorare quindi nello specifico i percorsi riguardanti questa fascia d’utenza appare un obiettivo prioritario.

Gli strumenti utilizzabili a tale scopo sono pochi e solo parte di essi si presta come misura di esito validata, tra questi: lo Strenghts and Difficulties Questionnaire (SDQ; Goodman, 1997), il Children Depression Inventory (CDI; Kovacs, 1985), la Child Behaviour Checklist (CBCL, Achenbach, 1991), (la C-GAS, Shafer, 1983) o la Symptom Checklist-90 (SCL-90 Derogatis, 1994). Tuttavia la maggior parte di queste scale individuano i casi più gravi, configurandosi fondamentalmente come misure di screening, oppure evidenziano specifiche aree sintomatico-patologiche e sono poco adatte ad un uso routinario.

La scelta degli strumenti di valutazione di esito deve tenere conto di alcuni criteri generali segnalati dalla letteratura internazionale e dall’esperienza clinica:
– Facilità e semplicità dell’uso nella pratica clinica
– Validazione psicometrica in termini di attendibilità, validità e sensibilità nell’evidenziare i cambiamenti occorsi nel tempo rilevanti per i clinici e gli utenti
– Disponibilità di norme per la popolazione funzionale e disfunzionale

Tutto ciò suggerisce la necessità di uno strumento relativamente breve, adatto a somministrazioni ripetute e sufficientemente versatile, in modo da poter essere utilizzato con tipologie di pazienti, di setting e di servizi diversi. Dovrebbe inoltre essere snello, trovare una buona accoglienza da parte degli psicoterapeuti e configurarsi come utile non solo per la valutazione degli esiti di efficacia ma anche per fornire informazioni al clinico durante le varie fasi della terapia.

 

Il CORE Young Person

Tali esigenze sono alla base del progetto di validazione italiana del questionario CORE-Young Person (YP-CORE o CORE-YP).
Il CORE Young Person è uno strumento di valutazione pre e post intervento, cioè di valutazione di esito. La versione originale inglese nasce come adattamento del CORE-OM per persone dagli 11 ai 16 anni. È una checklist che cerca di definire il livello di problematicità ed il funzionamento della persona. Gli item consentono la valutazione del rischio (1 item), del benessere (1 item), dei sintomi/problemi e del funzionamento del soggetto (4 item); ogni item prevede una risposta a scelta multipla su scala Likert a cinque livelli, relativa alla presenza di uno specifico sintomo nell’ultima settimana: ha dato origine a uno score con cinque livelli. È uno strumento breve, di facile somministrazione essendo autosomministrato e ha mostrato buone proprietà psicometriche (Twigg, 2009; Twigg, 2016).

 

La validazione italiana del CORE Young Person

Il Servizio di Psicologia del Dipartimento Salute Mentale dell’Ausl di Modena si è fatto promotore della validazione italiana del CORE Young Person con la collaborazione del Prof. C. Evans, uno degli autori del CORE (Clinical Outcomes in Routine Evaluation) e del Dr. Palmieri che aveva precedentemente validato in italiano il CORE-OM .

La traduzione italiana dello strumento ha previsto l’adattamento linguistico della versione inglese del questionario quale fase preliminare. Attualmente si sta procedendo con la validazione, mediante uno studio osservazionale multicentrico con la collaborazione della SIPSOT, Società Scientifica Italiana Psicologi Ospedalieri e Territoriali. Partecipano diverse Ausl, quali Trento, Livorno, Matera, Cagliari, Piacenza, Modena, Bari. Il questionario viene somministrato in diversi setting clinici e non. A fine estate, terminata la raccolta dei dati, questi verranno sottoposti a valutazione formale della validità ed attendibilità attraverso le analisi statistiche effettuate sull’intero campione.

La valutazione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: uno sguardo d’insieme

Disturbi della nutrizione e della alimentazione: L’inquadramento diagnostico si attua a livello ambulatoriale e prevede che il paziente venga valutato a livello clinico, nutrizionale e psicologico. Si tratta di condizioni cliniche che presentano elevata comorbilità clinica e psichiatrica che deve essere indagata. La valutazione internista comprende dunque la valutazione clinico – anamnestica, nutrizionale, della condotta alimentare e della spesa energetica.

[blockquote style=”1″]L’eccesso, l’orgia alimentare e il digiuno, non quello obbligato dalla carestia, ma quello imposto a se stessi con un atto di volontà, figurano da sempre nella mitologia, nella letteratura, nelle arti figurative, nei riti religiosi, nelle pratiche sociali[/blockquote] (Cuzzolaro, 2014, p.45).

L’anomalo rapporto con il cibo e il corpo seppur con nomi e criteri clinici differenti era stato già rilevato nell’antichità e con esso talvolta l’esigenza di classificazione dell’alterazione per giungere a una diagnosi.

 

I disturbi della nutrizione e della alimentazione secondo il DSM-5

I disturbi del comportamento alimentare oggi definiti nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali DSM 5 «Disturbi della nutrizione e della alimentazione» si presentano distinti in sei categorie diagnostiche principali:
– Pica.
– Mericismo.
– Disturbo alimentare evitante/restrittivo.
– Anoressia nervosa.
– Bulimia nervosa.
– Disturbo di alimentazione incontrollata.

Oltre alle precedenti si individuano due categorie residue:
disturbo della nutrizione o della alimentazione specificato: si tratta di casi sottosoglia dell’anoressia, della bulimia, del disturbo da alimentazione incontrollata oltre al disturbo con condotte di eliminazione e sindrome del mangiare di notte.
Disturbo della nutrizione o della alimentazione non specificato, ossia un disturbo dell’alimentazione in cui mancano delle informazioni per specificarne le caratteristiche.

 

L’eziopatogenesi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione

L’ultimo ventennio è stato caratterizzato da un innegabile interesse e un notevole ambito di ricerca in questo campo e ha condotto a risultati significativi nella gestione di queste complesse condizioni cliniche.
L’eziopatogenesi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione è di tipo multifattoriale. Essi sono il risultato dell’interazione di fattori predisponenti (genetici, psicologici, ambientali e socioculturali), fattori precipitanti (diete restrittive e difficoltà psicologiche personali) e fattori di mantenimento (sindrome da digiuno e il rinforzo positivo dall’ambiente).

Sul piano epidemiologico, uno studio recente americano condotto su un campione di popolazione generale molto vasto ha rilevato che la prevelenza lifetime dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa si aggirano rispettivamente intorno allo 0,9% all’1,5%, nel genere femminile, mentre in quello maschile le percentuali sono 0,3 per l’anoressia e 0,5 per la bulimia.

Si tratta di condizioni cliniche a elevata comorbilità con altri disturbi psichiatrici, che influiscono in maniera rilevante sulla qualità della vita e producono difficoltà interpersonali, scolastiche, lavorative e gravi complicazioni fisiche. Queste ultime possono essere di natura cardiocircolatoria, ematologica, immunitaria, endocrina, gastroenterica, respiratoria, osteoscheletrica, dermatologica, renale, epatica e neuromuscolare.

I disturbi della nutrizione e della alimentazione rappresentano una delle più frequenti cause di disabilità giovanile e a essi si associa un rischio elevato di mortalità. Spesso l’osservazione clinica è preceduta da una storia di malattia molto lunga e questo complica notevolmente il processo di guarigione.
[blockquote style=”1″]Abbiamo sempre meno familiarità con noi stessi e la grammatica visiva del nostro tempo ci spinge a vedere il corpo e la nostra immagine come un oggetto che non ci piace mai abbastanza, che si può e si deve perfezionare[/blockquote] (Dalla Ragione & Mencarelli, 2012, p.20).

 

La diagnosi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione

L’appropriatezza della diagnosi e di conseguenza di un trattamento adeguato diventa oggetto imprescindibile d’interesse, d’informazione e di aggiornamento per quanti lavorano in ambito clinico.
A tal proposito molta attenzione merita oggi la necessità di integrare competenze e promuovere a tutti gli effetti e su un piano univoco professionalità differenti per il processo di valutazione diagnostica precoce e per il trattamento.

Come sostiene Paolo Santonastaso questo diventa tanto necessario, quanto più si riflette sulla complessità, la multifattorialità eziologica, la numerosità delle resistenze al cambiamento che conducono alla cronicità della malattia.
In questo modo si rende possibile un lavoro accurato di gestione del disturbo in cui è possibile fornire risposte ai bisogni del paziente, che si riferiscono a livelli diversi.

Il processo diagnostico è un momento particolarmente delicato in cui sono molteplici gli aspetti da prendere in esame. Se eseguita correttamente la diagnosi consente di escludere altre patologie che possono avere effetti secondari sulla relazione con il cibo, come disfagie, spasmi esofagei e pilorici, dispepsie, patologie tumorali, malattie infettive, da uso di sostanze e altre patologie psichiatriche caratterizzate da iperfagia o ipofagia.

L’inquadramento diagnostico si attua a livello ambulatoriale e prevede che il paziente venga valutato a livello clinico, nutrizionale e psicologico. Come detto in precedenza si tratta di condizioni cliniche che presentano elevata comorbilità clinica e psichiatrica che deve essere indagata.
La valutazione internista comprende dunque la valutazione clinica – anamnestica, nutrizionale, della condotta alimentare e della spesa energetica.

Nel corso della valutazione clinico-anamnestica ci si occupa di eseguire un’attenta raccolta anamnestica unitamente all’esame obiettivo e alla prescrizione di una serie di esami tra cui l’esame delle urine, l’emocromo completo, la glicemia, il test per la funzionalità epatica, l’assetto lipidico, la creatininemia, l’azotemia, il BMI.

Lo stato nutrizionale in cui il soggetto si trova include il calcolo del BMI, il bilancio energetico, ossia la differenza tra la quantità di nutrienti introdotta e consumata, la composizione corporea, distinta in massa grassa e magra, la funzionalità corporea, ossia la stima dei nutrienti introdotti in relazione alla loro funzione.

Nello specifico per la misurazione del bilancio energetico a riposo si ricorre alla calorimetria indiretta, un esame che misura l’ossigeno di un determinato volume di aria inspirata e l’anidride carbonica prodotta. La valutazione della composizione corporea può essere eseguita attraverso il ricorso all’antropometria, la bioimpedenzometria e la densiometria a doppio Raggio X. La prima fornisce una misura della massa corporea misurando lo spessore delle pliche cutanee e delle circonferenze, la seconda misura lo stato d’idratazione e di elettroliti nel corpo. La densiometria invece distingue massa grassa, magra e ossea secondo le loro proprietà di attenuazione dei raggi X.

Lo stato di funzionalità corporea può essere indagato attraverso un’analisi accurata dei parametri biologici in precedenza indicati. Altrettanto rilevante è l’analisi della funzionalità motoria in termini di resistenza e forza.
[blockquote style=”1″]Nei disturbi alimentari si radicalizza il passaggio del cibo da valore d’uso a valore di consumo, per cui l’alimento diventa strumento, il gusto perduto e la sensorialità alterata[/blockquote] (Senatore, 2013, p.28).

I Disturbi della nutrizione e della alimentazione possiedono tra le malattie psichiatriche un elevato rischio di mortalità con eziologia cardiovascolare, in particolar modo l’anoressia nervosa. La valutazione del rischio cardiovascolare deve essere eseguita attraverso gli esami strumentali elettrocardiografici ed ecocardiografici opportuni. Sachs e al. (2015) suggeriscono che cambiamenti strutturali negativi del miocardio potrebbero essere responsabili di un aumento della mortalità. Le anomalie più frequentemente riscontrate riguardano alterazioni a carico del pericardio, variazioni dei ventricoli, alterazioni della conduzione, bradicardia e aritmie maligne.

In presenza di persistenti alterazioni della condotta alimentare e soprattutto nel caso dell’anoressia nervosa ci troviamo di fronte anche a notevoli cambiamenti endocrini, che interessano differenti assi e la cui gravità è spesso correlata al grado di denutrizione. Come indicato da Madhusmita & Klibanski (2014) questi cambiamenti coinvolgono l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi causando l’amenorrea e iposecrezione degli ormoni gonadotropina, follicolo-stimolante (FSH) e luteinizzante, (LH), l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide. È stata rilevata, infatti, un’ipersecrezione dell’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH) e del cortisolo oltre a un’iposecrezione dell’ormone di rilascio della tireotropina (TRH) e dell’ormone tireotropo (TSH). Ulteriori alterazioni riguardano aumentati livelli di grelina e del peptide YY responsabili della regolazione della fame e della sazietà e bassi livelli di leptina e adiponectina che contribuiscono all’ipogonadismo e alla bassa densità ossea.

Si comprende dunque la rilevanza del ricorso alla diagnostica per immagini (indagini ecografiche e altre tecniche di imaging biomedico) per la valutazione del profilo endocrinologico.
Alla luce di quanto detto l’assessment diagnostico si concentra oltre che sull’accertamento clinico – nutrizionale anche su quello dello stato psicologico. A tale scopo, il clinico impiega il colloquio e la valutazione psicodiagnostica per indagare in modo accurato le abitudini alimentari, la storia del peso, i sintomi psicologici, gli atteggiamenti riguardo al vissuto corporeo.
[blockquote style=”1″]Nel corpo c’è infatti una perfetta identità tra essere e apparire, e accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio. [/blockquote](Galimberti, U, 2002, p. 292).

Nello specifico sono impiegati strumenti psicometrici, come interviste semistrutturate e strutturate. Le più conosciute e utilizzate sono:
Eating Attitudes Test (EAT).
Eating Disorders Examination (EDE).
Structured Clinical Interview for DSM (SCID).

Per la valutazione di aspetti relativi alla frequenza e la gravità dei sintomi, le preoccupazioni, i comportamenti, le sensazioni e gli aspetti cognitivi associati all’alimentazione è possibile ricorrere a questionari autosomministrati, per menzionarne alcuni: l’EDE-Q, il Clinical Impairment Assessment (CIA), l’Eating Disorder Inventory (EDI), il Body Uneasiness Test (BUT), il Body Attitudes Test (BAT) e la Binge Eating Scale (BES).
Rivolgendo uno sguardo all’elevata comorbilità psichiatrica risulta appropriato impiegare inoltre inventari di personalità per l’indagine di altri sintomi psichiatrici.

 

Conclusioni

Per concludere, le valutazioni precedentemente descritte consentono di identificare la presenza di indicatori somatici e psichici di gravità, essi riferiscono il grado di compromissione del paziente e sono necessari per la successiva indicazione al trattamento.
L’intervento immediato e attraverso un approccio integrato risulta cruciale, nonostante vi siano non poche difficoltà associate alla diagnosi precoce, poiché rende possibile un’assistenza adeguata al paziente a alla sua famiglia producendo esiti favorevoli.

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