Guarire d’amore è un libro scritto da Irvin Yalom, classe 1931, psichiatra e psicoterapeuta a orientamento esistenzialista. Yalom ha aprofondito diversi temi nel corso della sua professione, a partire dalla terapia di gruppo (su cui ha scritto un bellissimo volume teorico nel 1970), per arrivare alle problematiche che lui definisce esistenziali (morte, senso della vita, isolamento e libertà).
Ho deciso di leggere questo libro a partire dal titolo e dal mio interesse per la dipendenza affettiva, convinta che trattasse di psicoterapie che avessero a che fare, appunto, con difficoltà relazionali. Che detta così, si potrebbe anche controbattere che tutte le psicoterapie hanno a che fare in qualche modo con difficoltà relazionali. E infatti. Comunque, per chi avesse interpretato il titolo nella mia stessa direzione, va premesso che: niente terapie di coppia, niente filo conduttore che avesse a che vedere con una diagnosi o un funzionamento comune.
Ma partiamo dall’inizio. Guarire d’amore è un libro scritto da Irvin Yalom, classe 1931, psichiatra e psicoterapeuta a orientamento esistenzialista. Yalom ha aprofondito diversi temi nel corso della sua professione, a partire dalla terapia di gruppo (su cui ha scritto un bellissimo volume teorico nel 1970), per arrivare alle problematiche che lui definisce esistenziali (morte, senso della vita, isolamento e libertà) e di cui ha scritto in un volume che ad oggi non è stato tradotto in italiano e nella sua versione originale del 1980 prende il nome di Existential Psychotherapy.
Guarire d’amore: uno dei romanzi di Yalom
Guarire d’amore si inserisce invece in un altro filone, quello dei romanzi o comunque delle testimonianze romanzate di psicoterapia, che Yalom ha coltivato a partire da Le lacrime di Nietzsche (1992), fino a Il problema Spinoza (2012), collocandosi in una posizione strana della linea temporale, visto che la prima versione è stata stesa nel 1989. Yalom ai tempi aveva 57 anni e affiancava l’attività clinica all’attività di ricerca, con un focus privilegiato sul tema del lutto complicato.
(Su State of Mind abbiamo anche recensito “Sul lettino di Freud“, 2015 di Irvin Yalom, Ndr)
Guarire d’amore si configura come una raccolta di 10 psicoterapie, raccontate dall’autore dal proprio personale punto di vista, cariche tuttavia di dettagli sull’inquadramento iniziale, sull’andamento delle sedute, sulla relazione terapeutica e sul dipanarsi delle problematiche specifiche.
La storia di Thelma
Apre le danze la storia di Thelma: settant’anni, un bel caratterino, arriva in terapia con sintomi depressivi cronicizzati che l’hanno portata a spasso per studi psichiatrici negli ultimi 20 anni e l’hanno fatta approdare allo studio di Yalom a seguito della rottura con il suo precedente terapeuta. Rottura non solo professionale, perché viene fuori che Thelma e Matthew (giovane e affascinante psicologo conosciuto 11 anni prima) avevano spinto troppo sulla confidenzialità, per arrivare ad avere una brevissima storia di 27 giorni fatta di innamoramento, passione, notti in bianco e stomaco chiuso. Il problema non è tanto quello (già di per sé spiazzante) della rottura del setting, quanto il fatto che Thelma si dica bloccata in uno stato di attesa e rêverie da 8 anni, con brevi intervalli fatti da tentativi disperati di recuperare l’attenzione di Matthew anche attraverso gesti suicidari o parasuicidari: sono 8 anni che aspetta una spiegazione a seguito della brusca rottura voluta da Matthew, sono 8 anni che si immagina le sue scuse e il suo tentativo di ricongiungimento.
Ora, va da sè che come prima cosa quello che viene più facile sentire è una profonda rabbia per Matthew, un collega che in modo iatrogeno ha rotto ogni tipo di regola relazionale relativa alla psicoterapia: viene molto facile identificare Thelma con il ruolo di vittima e Matthew con il ruolo di carnefice, alleandosi con la prima e cercando in tutti i modi di farla passare oltre questa sua sensazione, secondo cui “la mia vita è stata vissuta otto anni fa”.
A partire da questa dinamica quasi automatica, è interessante per Yalom scoprire come Thelma rimanga aggrappata a quella visione della sua esistenza attuale, un arto fantasma rimasto a penzoloni dopo che la grande epica è stata vissuta, in attesa solo di chiudere questa partita durata fin troppo. Dal senso di protezione per Thelma, si passa velocemente a un senso di disfatta, una specie di contagio emotivo che porta anche il terapeuta a pensare che in effetti il sintomo attuale non sia il peggiore dei mali, una sorta di rinuncia che suona come “se sei tanto affezionata a questa depressione, tienitela”.
In un modo molto affascinante (bisogna ammetterlo), Yalom rompe a sua volta i protocolli, senza mai uscire dai limiti della deontologia professionale, trovando modo di scuotere l’apatia della paziente e tirare fuori dall’armadio i fantasmi veri, che purtroppo o per fortuna con Matthew hanno ben poco a che fare e che ci aiutano finalmente a rispondere alla domanda che spesso ci troviamo di fronte quando abbiamo a che fare con pazienti così tanto cronicizzati, e che ha a che fare con i benefici secondari del sintomo: [blockquote style=”1″]stai malissimo, ma esattamente perché preferisci stare così piuttosto che provare a cambiare qualcosa? Cosa stai tenendo lontano, che senti come ancora peggiore di così?[/blockquote] Ovviamente, niente spoiling, andate a pagina 98.
La storia di Carlos
Lasciamo l’idealizzazione della cara Thelma per passare a Carlos, che da anni combatte contro un linfoma e gestisce la paura della morte con l’attivazione di una sorta di iper-sessualità compulsiva. Semina il panico durante una seduta di gruppo, dichiarando che vorrebbe che lo stupro fosse legale per sentirsi libero di procedere con diverse delle componenti del gruppo stesso. Con Carlos, Yalom ci mostra bene la difficoltà a integrare terapie con setting diversi (individuale e di gruppo) e a gestire pazienti in équipe (ovviamente, dopo questa affermazione, la giovane psicologa in training che conduceva il gruppo vorrebbe serenamente fare fuori Carlos e non lasciarne neanche un pezzettino). Anche in questo caso, è interessante seguire la terapia e vedere come i punti di aggancio per il cambiamento possano essere davvero singolari e al di là di ogni aspettativa.
La storia di Penny
Nella terza ricostruzione, l’autore ci presenta Penny, 38 anni, divorziata, due figli in vita e una bambina mancata quattro anni prima a seguito di una grave malattia. Taxista, lavora 60 ore alla settimana per pagare il mutuo e mantenere i due ragazzi dopo che il terribile lutto ha distrutto la famiglia e ha portato i coniugi verso strade troppo distanti per poter restare sotto lo stesso tetto. Quella che segue è una bellissima terapia sulla colpa, sul lutto, sull’evitare di rimanere aggrappati a una cosa che non c’è più a discapito di quello che c’è ancora, sulla possibilità di lasciare andare. Lasciare andare una bambina, una figlia, e tutte le idee di sé come madre e i progetti che quella figlia porta via con sé. Qui Yalom affronta il tema del lutto prendendolo subito dalla sua angolazione più difficile, perché come lui stesso scrive [blockquote style=”1″]Perdere un genitore o un amico di lunga data spesso equivale a perdere il proprio passato […] Invece, perdere un figlio equivale a perdere il futuro: ciò che si è perduto è nientemeno che il proprio progetto di vita – la cosa per cui si viveva, la cosa che ci faceva proiettare nel futuro e sperare di trascendere la morte.[/blockquote]
La storia di Betty
Arriviamo alla storia che a mio avviso è insieme la più interessante e la più complicata da leggere. Perché ti viene da chiudere il libro a colpi di politicamente scorretto. La protagonista è Betty, grave obesa, anche se in realtà il protagonista è Yalom, con tutte le sue difficoltà a empatizzare con persone in sovrappeso. Il terapeuta ci racconta da dove arriva questa disaffezione, che può anche avere un senso, ma allo stesso modo sembra spietato nel raccontarci il controtransfert con tanta spietatezza. Tante volte mi è venuto da pensare “vabbé, ma non c’è bisogno che scrivi proprio tutto il disgusto che provi verso i chili in più della povera Betty”. Invece, ancora una volta, tutta questa self-disclosure verso il lettore è davvero un atto di grande coraggio, che porterà lo Yalom ottantenne a vergognarsi, ma che aiuta molto a parer mio i terapeuti meno esperti, con questa loro (nostra) convinzione che volere un po’ di bene, o almeno non essere disgustato dal paziente sia essenziale per la terapia. Yalom riesce infatti a trovare altri canali per sentire la vicinanza con Betty, canali che possono presentarsi solo se con estrema sincerità sa dire a se stesso che il canale “a pelle” questa volta non è percorribile. Spietato, ma onesto.
Ripensandoci, forse, il protagonista non solo non è il paziente, ma non è neanche il terapeuta. Il protagonista è il controtransfert. Yalom stesso apre il capitolo parlando di disciplina interiore in un modo davvero molto azzeccato: [blockquote style=”1″]I grandi tennisti si allenano cinque ore al giorno per superare i punti deboli del loro gioco, i maestri zen non si stancano mai di ricercare la quiete perfetta della mente, e la ballerina l’equilibrio perfetto del corpo, mentre il prete non cessa mai di esaminare la propria coscienza. In ogni professione, insomma, esiste un campo di sviluppo possibile, all’interno del quale ogni professionista può ricercare la perfezione. Nel gergo dello psicoterapeuta, questo campo – questo interminabile viaggio verso il proprio perfezionamento, mai raggiunto una volta per tutte – si chiama controtransfert.[/blockquote] Il punto di contatto che Yalom identifica e che risulta utile per l’aggancio di Betty (o forse, per l’aggancio di Yalom a Betty) è la sua paura dell’abbandono, che la porta a non legarsi a nulla per evitare di essere lasciata sola. Citando Otto Rank nelle parole di Yalom, è come “rifiutare il prestito della vita per non dover pagare il debito della morte”.
Altre storie
Lasciata Betty, passiamo al momento in cui Elva, anziana vedova, elabora la morte del marito avvenuta anni prima a partire dallo scippo della borsetta. E questo va letto per intero.
Segue Dave: sessantanove anni, tratti narcisistici (ma questo non è scritto), tendenza a intraprendere e coltivare relazioni extraconiugali, legato in modo morboso a una fitta corrispondenza che si era scambiato anni prima con una giovane amante. Anche in questo caso, Yalom non perde occasione per condividere buone prassi e riflessioni sulla pratica psicoterapeutica maturate nel corso degli anni, che sembrano valide in modo trasversale agli orientamenti teorici, come il fatto di “mai togliere qualcosa se non si ha niente di meglio da offrire al suo posto”.
Con Marie, facciamo un’esplorazione sull’attribuzione di significato e su come diversi substrati possano influenzare il senso che diamo allo stesso identico gesto. È il racconto di una terapia difficile e di un momento di co-terapia, in cui Yalom si avvale del supporto di un collega ipnotista. È un bellissimo viaggio in cui i tre protagonisti (i due colleghi e la paziente) raccontano la propria esperienza soggettiva del primo incontro, e in cui vediamo come l’idea che ci facciamo dell’altro sia spesso figlia dell’aspettativa che ci eravamo creati ancora prima dell’incontro vero e proprio. Citando Nietzsche, [blockquote style=”1″]si sa già tutto di una persona la prima volta che la si vede, e i successivi incontri non sono altro che un progressivo accecarsi rispetto a ciò che dentro di noi sappiamo.[/blockquote]
L’ottavo personaggio tocca ancora una volta il tema della depressione e dell’anzianità. Forse una delle cose più interessanti del libro è la scelta dei personaggi: sarebbe stato più facile coinvolgere il pubblico con stereotipi più ammiccanti rispetto agli anziani signori alle prese con il senso della vita che se ne va? Forse in potenza sì, ma va detto che questa scelta difficile rende ancora più giustizia alle capacità umane e narrative dell’autore, che davvero ti lascia a ogni capitolo con la sensazione di essere stato un’ora di fianco a lui in seduta.
Dicevamo che l’ottavo personaggio è Saul, neurobiologo in pensione che come un bambino resta paralizzato davanti alla possibilità che un suo collaboratore non lo apprezzi, ed è pronto a mettere in subbuglio la sua intera esistenza per evitarlo. Forse la parola chiave del capitolo è proprio “evitare”, partendo dal titolo: “Tre lettere non aperte”. Evitare perché prendere atto di una possibile delusione non è accettabile e non lascerebbe niente per cui sopravvivere: tanto vale procrastinare. Bellissima qui la caparbia con cui Yalom prosegue la terapia, anche quando Saul inventa una malattia che lo tiene immobilizzato a casa, e non lascia che il paziente eviti anche il progetto terapeutico stipulato insieme.
Arriva il momento di Marge, giovane e bella paziente con un disturbo borderline ed episodi dissociativi: anche in questo caso, più che l’inquadramento diagnostico quello che traspare è l’importanza della relazione e il legame che il terapeuta instaura con le diverse parti che dialogano con lui in seduta, finalizzato all’integrazione e alla restituzione della capacità di prendersi cura di sé alla paziente stessa. Anche qui, chapeau alla capacità di Yalom di tirare giù le carte con il lettore, mostrando tutta la sua fallacia di uomo prima ancora che di professionista. E anche qui, per i dettagli si rimanda al libro.
Chiudiamo le danze con Marvin, ometto a prima vista convenzionale e poco interessante, che Yalom percepisce da subito come non adatto alla terapia individuale e direziona verso una terapia comportamentale di coppia con la moglie, per affrontare unicamente la disfunzione sessuale. In questo caso è interessante il tema dell’anestesia emotiva, che Yalom anche a seguito della sua formazione esplora attraverso l’indagine sui sogni, ma che ad ogni modo emerge con prepotenza nell’importante scissione tra le parole del paziente e i suoi timori, tra i suoi comportamenti e le cause delle sue difficoltà.
Conclusioni
Complessivamente, cosa si può dire di questo libro? Che, sicuramente con tutte le modifiche del caso, peraltro dichiarate apertamente dall’autore anche al fine di celare l’identità dei pazienti reali, fornisce davvero una possibilità unica: vedere una intera terapia (anzi, dieci) di fianco a Yalom, sentire quello che lui sente, stare negli interventi con lui, sbagliare al suo fianco. L’estrema onestà (che a tratti può suonare brutale) con cui Yalom riferisce il proprio vissuto e la sua completa disponibilità a condividere emozioni e sensazioni, tanto benevole quanto negative, butta giù il muro della vergogna. Tante volte soprattutto chi è alle prime armi pensa che certe cose non si dovrebbero sentire nei confronti di un paziente, che essere infastiditi da qualcuno che ti sta chiedendo un aiuto anche solo a partire dal suo aspetto non sia una cosa conciliabile con la terapia. Ecco, Yalom ci mostra come, prima ancora della disciplina interiore, sia necessaria un’onestà con se stessi, l’accettazione che ci permette di sentire come ogni reazione sia legittima, e anzi utile da interpellare per comprendere meglio come utilizzarla al fine della buona riuscita della terapia.
È molto tenera la postfazione scritta da Yalom, venticinque anni dopo la stesura del libro, in cui dice che vorrebbe poter essere il supervisore di se stesso cinquantenne, per poter ridimensionare la propria sfrontatezza in terapia. Potersi mettere una mano sulla spalla e dirsi “ok, stai esagerando”. Altro aspetto senza dubbio interessante e ricco di spunti sono le premesse sulla relazione terapeutica, su cui si basano tutte le terapie: diverse volte l’autore sottolinea come la sua idea di terapia sia qualcosa che porta il paziente a diventare genitore di se stesso: [blockquote style=”1″]Come terapeuta, il mio compito è invece quello di lavorare al superamento del mio ruolo, ovvero di fare in modo che il paziente assuma la funzione di padre e di madre di se stesso.[/blockquote]
Del resto, citando sempre il Prologo, [blockquote style=”1″]Tale contatto, che è poi il vero e proprio nocciolo della terapia, è una forma di incontro profondamente umano e delicato tra due persone, una delle quali (in genere, ma non sempre, il paziente) ha più problemi dell’altra.[/blockquote]
Infine, partendo da un approccio fondamentalmente diverso da quello esistenzialista (sono una di quelle terapeute cognitivo-comportamentali a cui Yalom avrebbe voluto inviare Marvin, non pronto secondo lui a una terapia vera e propria), se andiamo oltre l’interpretazione dei sogni, ho trovato parecchi punti di contatto tra i principi regolatori presenti nelle terapie raccontate e quelli che mi porto dietro nella mia esperienza. Primo fra tutti, citando Thomas Hardy, la consapevolezza che [blockquote style=”1″]se una via verso il meglio esiste, è quella che esige una conoscenza profonda del peggio.[/blockquote]