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V Corso Internazionale Nuove frontiere nella cura del trauma Venezia 10-12 giugno 2016

Report dal V Corso Internazionale: Nuove frontiere nella cura del trauma. Venezia 10-12 giugno 2016 Con Janina Fisher, Dolores Mosquera, Giovanni Tagliavini

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 15 Giu. 2016

Aggiornato il 30 Gen. 2018 14:13

Si è conclusa domenica la V Edizione del corso Nuove frontiere nella Cura del Trauma, che come ogni anno si è rivelata una brillante formazione per i clinici specializzati nella cura del trauma complesso e dei disturbi dissociativi.

L’appuntamento veneziano è ormai fondamentale e unico nel suo genere per chi in Italia si occupa oggi di questi temi e negli anni é stato e continua ad essere un luogo di importantissimo confronto con relatori di fama internazionale, che riescono ad offrire insieme grande solidità teorica, serissima ricerca scientifica e grande esperienza clinica. In un panorama scientifico sempre più sensibile al tema del trauma, questo corso di alta formazione costituisce indubbiamente un’eccellenza imperdibile per chi lavora quotidianamente in questo ambito.

 

La vergogna e la memoria nel trauma

Il corso ha visto quest’anno il ritorno di Janina Fisher, già presente nel 2012, e della sua incedibile esperienza nel campo della cura dei disturbi dissociativi attraverso l’utilizzo della terapia sensomotoria e il lavoro sulle parti, già descritto nei precedenti contributi sul tema, e ispirato alla cornice teorica della Dissociazione Strutturale di van der Hart, Nijenhuis, Steele (2006). Quest’anno la Fisher ha concentrato l’attenzione sulla esplorazione della vergogna e degli ostacoli che questa emozione pone al lavoro con pazienti sopravvissuti a storie di abusi e violenze nel corso dell’infanzia.

La vergogna può essere infatti, in queste persone, una reazione emotiva orientata non solo alla protezione della propria immagine sociale, ma anche a garantire la stessa sopravvivenza, poiché attiva nelle vittime un’immediata regolazione dell’impulsività con successivo blocco dell’azione e ritiro (Schore, 2010), che mette al riparo dall’esacerbarsi di conflitti, da punizioni estreme, umiliazioni e ulteriori vittimizzazioni. Apprendere la reazione di vergogna in contesti violenti e imprevedibili, può essere vitale e dunque restare scritto nella memoria procedurale in forma di reazione automatica al pericolo.

A questo si lega l’altro tema fondamentale affrontato dalla Fisher: l’importanza per noi clinici e per i nostri pazienti di conoscere a fondo il funzionamento del cervello e di come esso reagisce in situazioni traumatiche, con particolare riguardo al funzionamento della memoria.

Questa conoscenza permette infatti di poter lavorare sempre e contemporaneamente su due fronti: da un lato c’è il presente e la narrazione delle memorie esplicite, cioè quello che le persone possono volontariamente recuperare e raccontare di loro stessi e della loro storia, dall’altro c’è il passato e le sue intrusioni in forma di memorie implicite, cioè quello che le persone non possono ricordare intenzionalmente, ma che continuamente rivivono attraverso sintomi, sensazioni fisiche, immagini, pensieri intrusivi, credenze automatiche, postura e modalità di relazione. Se è vero che “la persistenza di sensazioni intrusive correlate al trauma [anche] dopo la costruzione di una narrativa contraddice la nozione che trasformare l’esperienza traumatica in parole concorra in maniera affidabile ad eliminare l’occorrenza dei flashbacks”” (Van del Kolk, Fisler, 1995), allora sarà importante tenere conto dell’emergere di memorie implicite poiché esse possono generare grande destabilizzazione nel paziente ogni volta che il loro ricordo viene innescato da eventi esterni o interni alla persona (trigger). Insomma, tutto quello che ci ha salvato nella vita viene ben memorizzato in forma di memoria procedurale implicita e ogni volta che il nostro corpo e il nostro cervello si sentiranno minacciati o in pericolo, reagiranno con le strategie di protezioni apprese fino ad allora. Metterle in discussione e modificarle è la più grande sfida in terapia.

 

Le fobie dissociative

Insieme alla Fisher, anche quest’anno ha partecipato Dolores Mosquera, con la sua grande competenza sui disturbi dissociativi, trauma complesso e disturbo borderline di personalità. Come ogni anno la Mosquera ci ha proposto molta clinica e pochissima teoria, se non per alcuni temi centrali nel trattamento di queste situazioni difficili. In linea con il suo approccio progressivo trifasico, già descritto in precedenti contributi sul tema, e con l’utilizzo combinato di diverse tecniche terapeutiche evidence based, quali EMDR e terapia sensomotoria, la Mosquera ci ha portato a riflettere quest’anno sul tema delle fobie dissociative e su come procedere con microelaborazioni sin dalle prime sedute, lavorando in un’ottica di integrazione anche laddove non sia subito possibile accedere alle memorie traumatiche.

Gli ingredienti imprescindibili del suo approccio sono: promuovere buone capacità di self care nel paziente, attraverso una graduale alleanza tra la o le parti adulte nella protezione e cura adeguata delle parti infantili; mantenere una costante focalizzazione sull’intero sistema interno, sia nella scelta di obiettivi terapeutici che degli strumenti di lavoro; valorizzare le risorse già presenti nel paziente, in aree di competenza e di vita libere da trigger e riattivazioni traumatiche delle memorie implicite. La stabilizzazione del paziente nasce quindi dalla continua ricerca e attivazione delle sue risorse interne, al fine di promuovere lo sviluppo di un sé adulto sempre più capace di orientarle all’interno del sistema e di mantenere una migliore connessione e integrazione tra le parti diverse che al suo interno muovono e reagiscono.

 

Self care del terapeuta ed emozioni positive

Ultima nota formativa, ma di grande risonanza nelle tre lunghissime giornate di lavori, il workshop in piccoli gruppi condotto da Giovanni Tagliavini sulla self-care del terapeuta e sull’importanza di saper cogliere, riconoscere e affrontare emozioni positive in terapia. Lavorando con pazienti che raccontano situazioni così drammatiche e storie di sofferenza incredibile, da clinici siamo molto concentrati (e talvolta allarmati!) su aspetti psicopatologici, sui conflitti interni, sul lungo lavoro da fare nella elaborazione di ricordi traumatici per favorire una risoluzione rapida dei sintomi e della sofferenza. Nel trattamento di pazienti sopravvissuti a traumi nell’infanzia, diventa invece essenziale ricordarsi di sperimentare, validare ed esplorare con altrettanta attenzione le emozioni positive che emergono in terapia, e non solo quelle che esitano da una lenta trasformazione nella consapevolezza o dal raggiungimento di un obiettivo terapeutico, ma anche quelle che semplicemente arrivano nel presente, senza un legame diretto con il percorso di cura: avere il coraggio di cogliere e stare in ascolto di un’emozione positiva, autentica e integrata, di osservarla, di accettarne le sensazioni fisiche e i pensieri che la accompagnano, può essere un’esperienza trasformativa forte nella direzione dell’integrazione, laddove l’emergere di sensazioni positive legate al piacere, alla gioia o alla soddisfazione può costituire talvolta un trigger molto potente che riattiva al contrario antiche punizioni o umiliazioni.

Nei prossimi contributi l’approfondimento sui temi trattati!

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K. (2006). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano: Cortina, 2011.
  • van der Kolk, B.A., Fisler, R. Dissociation and the fragmentary nature of traumatic memories: overview and exploratory study. J Trauma Stress. 1995 Oct;8(4):505-25.
  • Schore A., I disturbi del sé. La disregolazione degli affetti. Astrolabio Ubaldini, 2010
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