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Se vuoi sapere come sto, chiedimi cosa penso di te: la mentalizzazione nei disturbi neurodegenerativi – Congresso SITCC 2014

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Dr. Jekyll o Mr. Hyde- Afferrare le intenzioni del movimento - SCREEN - SITCC 2014

I test di mentalizzazione, sostiene il Dott. Adenzato, devono invece essere inclusi nell’assessment standard dei pazienti con disturbi neurodegenerativi (Poletti et al., 2012) perché, a differenza dei test neuropsicologici classici, il funzionamento dei processi di mentalizzazione può essere predittivo della comparsa di una FTD. 

Due anni fa Matthias L. Schroeter scrisse una lettera a Brain (Schroeter, 2012) sottolinenando quanto fosse assurdo che le nuove linee guida per la diagnosi di una possibile demenza frontotemporale (FTD) non prendessero in considerazione criteri quali dati di neuroimaging (es. atrofia frontale o temporale anteriore) e il decadimento della social cognition in particolare nell’abilità di teoria della mente, nonostante le numerose evidenze scientifiche in letteratura (Bertoux et al., 2012; Pardini et al., 2013).

I test di mentalizzazione, sostiene il Dott. Adenzato, devono invece essere inclusi nell’assessment standard dei pazienti con disturbi neurodegenerativi (Poletti et al., 2012) perché, a differenza dei test neuropsicologici classici, il funzionamento dei processi di mentalizzazione può essere predittivo della comparsa di una FTD.

Per esempio, soggetti che ottengono una bassa prestazione al Reading of Mind in the Eye Test (RME), al follow up a 2 anni hanno una maggiore probabilità di presentare un peggioramento ai test neuropsicologici e un’atrofia cerebrale, segni di FTD.

La possibilità di identificare precocemente i soggetti a rischio di sviluppare FTD permette di intervenire in maniera mirata nei primi stadi della malattia, quando gli interventi hanno una maggior possibilità di essere più efficaci (Rascovsky et al., 2011).

  

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BIBLIOGRAFIA:

Il metodo psicosomatico – Plenaria con il Prof. Giovanni Fava – Congresso SITCC 2014

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Fava - Il Metodo Psicosomatico - SITCC 2014

Il professor Fava inizia la sua relazione con un aneddoto. Ci racconta di quando ancora studente della facoltà di medicina, dopo aver fatto una schermografia, pensava di aver contratto la tubercolosi. Quando si recò alla visita di verifica stava male fisicamente… ma nel momento in cui seppe di essere sano come un pesce era felice e fisicamente si sentiva bene. Iniziò a riflettere su questo. Si chiese…

“Eppure io sono arrivato alla verifica che stavo male…quasi in barella! Qual è l’influsso della psiche sul corpo?”

In quel periodo poco c’era sulla psicosomatica e il giovane Fava si imbattè nell’articolo di Engel, l’ideatore del modello bio-psico-sociale. Decise di scrivergli e da lì nacque un’esperienza di affiancamento al lavoro di Engel stesso.

L’originalità di Engel era legata alla critica del concetto di malattia del modello biomedico secondo il quale i processi biologici erano gli unici responsabili della genesi della malattia.

Engel propose così un concetto di malattia più unitario in cui sottolineò la complessità del concetto di salute contestualizzandola all’interno dell’ambiento psicosociale.

Successivamente Tinetti et al. (2004) pubblicarono un articolo su The American Journal of Medicine dove, riprendendo Engel, proposero di abbandonare la malattia come focus primario e di identificare delle variabili (biologiche e non) su cui poter intervenire.

Feinstein Alvan, epidemiologo americano, durante le sue discussioni di casi clinici a Yale, riportava come la medicina clinica tendeva a trascurare quell’informazione detta “soft” che aveva a che fare con le reazioni umane, la sintomatologia e la qualità di vita. Eppure anche questi dati si potevano misurare in modo attendibile! Ecco così che nacque la clinimetria cioè la misurazione di quei dati clinici che non trovano spazio nella tassonomia in generale.

Dopo questo excursus storico vediamo ora cosa si intenda con il termine psicosomatica.

La psicosomatica è:

  • La valutazione del ruolo dei fattori psicosociali nell’influenzare la vulnerabilità individuale, il decorso e l’esito di ogni tipo di malattia.
  • Considerazione olistica della pratica medica
  • Interventi specialistici per integrare le terapie psicologiche nella prevenzione, trattamento e riabilitazione delle malattie

Il metodo psicosomatico è un approccio generale alla considerazione del paziente e della malattia che si applica a qualunque condizione medica. E’ inoltre un approccio specialistico di aggregazione interdisciplinare che supera le distinzioni tradizionali. La valutazione psicosomatica così come la cura viene presentata come una modalità più ampia di gestione del caso.

Secondo questo approccio inoltre non andiamo a considerare da una parte le malattie psicosomatiche e dall’altre quelle non psicosomatiche, ma consideriamo tutte le patologie come aventi una variabile psicosociale.

Fava, Sonino e Wise (Il metodo psicosomatico, Fioriti, 2014) forniscono le basi dell’approccio clinimetrico che utilizza la macro-analisi, cioè una correlazione fra sindromi e/o problemi, e la micro-analisi, intesa come un’analisi dettagliata dei sintomi.

Dopo averci illustrato nella pratica tale metodo grazie a dei casi clinici i Prof. Fava infine ci illustra la WBT (Well Being Therapy), la Terapia del Benessere, dove il monitoraggio avviene sulla variazione del benessere dell’individuo e non del malessere. La WBT è a intervento breve che ha lo scopo appunto di aumentare i livelli di benessere.

Apprezziamo il modello bio psicosociale e le sue evoluzioni che i medici, generalmente più tendenti alla iperspecializzazione anziché alla visione globale, hanno sviluppato.

Ci piace perché il paziente non è più trattato come un “pezzetto” di qualcosa, ma come una persona inserita in un contesto. E a noi psicoterapeuti, si sa, il funzionamento della persona e il suo contesto ci piacciono parecchio.

 

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Dr. Jekyll o Mr. Hyde? Afferrare le intenzioni del movimento – Congresso SITCC 2014

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Dr. Jekyll o Mr. Hyde- Afferrare le intenzioni del movimento - SCREEN - SITCC 2014

E’ possibile comprendere le intenzioni degli altri osservandone i movimenti?

Grazie all’analisi cinematica, che misura le caratteristiche del movimento, è possibile capire come il sistema nervoso organizza il movimento, ma si può anche “misurare” l’intenzione? Il quesito è assolutamente intrigante! Immaginiamo di imbatterci nel Dr. Jekyll/Mr. Hyde mentre, con un bisturi in mano, si avventa contro un uomo a terra. Possiamo discriminare dal solo movimento se ci troviamo di fronte al Dr. Jekyll che sta cercando di salvare l’uomo o a Mr. Hyde che sta cercando di ucciderlo?

La Dott.ssa Becchio e colleghi (2008) hanno condotto un esperimento in cui i soggetti dovevano afferrare un oggetto per poi o passarlo ad un’altra persona (social condition) o metterlo in una base concava (single agent condition). Analizzando attraverso la cinematica la fase iniziale di movimento (componente di prensione nell’azione di afferrare) si è osservato un pattern di movimento differente nelle due condizioni. Quindi intenzioni differenti si traducono in movimenti.

Ma un osservatore esterno è in grado di cogliere queste differenze e quindi capire l’intenzione del soggetto agente dal movimento?

Il Dott. cavallo mostra i risultati di un interessante studio (Manera et al. 2011) in cui i partecipanti guardando un video in cui si vedeva una mano afferrare un oggetto dovevano capire se l’intenzione del soggetto agente era di cooperare (passando l’oggetto ad un altro per costruire una torre), competere (per mettere l’oggetto in un determinato punto prima del concorrente) oppure mettere l’oggetto in una base concava velocemente o lentamente.

I soggetti erano in grado di discriminare tra cooperazione e single agent condition lenta e tra competizione e single agent condition veloce. Quindi osservando il movimento è possibile capire le intenzioni.

Quali sono i meccanismi neurali sottostanti?

La capacità di comprendere le intenzioni durante l’osservazione di un movimento è mediata da due sistemi neurali: mirror e mentalizing. (Becchio et al., 2012)

In conclusione, un bellissimo intervento, che ci mostra come intenzioni differenti si riflettono in movimenti differenti, spingendoci così a riconsiderare le intenzioni non più come stati mentali privati e nascosti, ma come stati accessibili dall’esterno anche in assenza di un contesto grazie alla nostra capacità di sfruttare l’informazione cinematica.

 

Tratto dal simposio CAPIRE, SPIEGARE E CURARE L’INTERAZIONE CON L’ALTRO: CERVELLO E COMUNICAZIONE

Chairman: Bruno G. BARA, Professore ordinario di Psicologia, Centro di Scienza Cognitiva, Università e Politecnico di Torino

Discussant: Christian KEYSERS, University of Groeningen, Groeningen

 

BIBLIOGRAFIA

  • Becchio, C., Sartori, L., Bulgheroni, M., & Castiello, U. (2008). The case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde: A kinematic study on social intention. Consciousness and cognition, 17, 557-564.
  • Manera, V., Becchio, C., Cavallo, A., Sartori, L., & Castiello, U. (2011). Cooperation or competition? Discriminating between social intentions by observing prehensile movements.
  • Experimental Brain Research, 211, 547-556.
  • Becchio C., Cavallo A., Begliomini C., Sartori L., Feltrin G., & Castiello U. (2012). Social grasping: from mirroring to mentalizing. NeuroImage, 61, 240-248.

 

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SITCC 2014 -Rassegna Stampa- La Repubblica: La scuola va in analisi

 

La Redazione di State of Mind segnala questo contenuto:

 

È questo il tema di uno dei seminari in programma al congresso nazionale della Sitcc, Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva, che prosegue fino a domenica ai Magazzini del Cotone di Genova. Una quattro giorni dal programma ricchissimo…

La scuola va in analisiConsigliato dalla Redazione

“Gli alunni sono sempre meno motivati”. Ai Magazzini del Cotone di Genova congresso nazionale della Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva (…)

Tratto da: Repubblica.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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I Neuroni Specchio: dalla ricerca alle applicazioni in Psicoterapia – Congresso SITCC 2014

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I neuroni specchio dalla ricerca alle applicazioni in psicoterapia - SITCC 2014

I neuroni specchio dalla ricerca alle applicazioni in psicoterapia 2 - SITCC 2014

I neuroni specchio sono una delle scoperte più intriganti della ricerca scientifica. Ma quali sono le applicazioni in ambito clinico? Ce le illustra l’interessante simposio presieduto dal Dott. Piegiuseppe Vinai.

Ma prima, un po’ di storia con la Dott.ssa Ambrosecchia.

Più di 20 anni fa nella corteccia premotoria ventrale della scimmia furono scoperti dei neuroni che scaricano durante l’esecuzione di atti motori finalizzati (Rizzolatti et al., 1988). Nel 1996 fu individuato nell’area cerebrale F5 un gruppo di neuroni che scarica anche durante l’osservazione dell’esecuzione di un’azione da parte di altri: i neuroni specchio. (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996).

Il passo successivo fu interrogarsi sull’esistenza di questa tipologia di neuroni nell’uomo: ad oggi più di 800 studi di risonanza magnetica funzionale si sono occupati dell’argomento.

Nel cervello umano esistono sistemi multipli dotati di meccanismi specchio coinvolti nell’integrazione e differenziazione degli aspetti percettivi e motori dell’azione di sé e di altri (Mukamel et al., 2010), e durante l’esecuzione e l’osservazione di movimenti finalizzati si attivano aree premotorie e parietali somatotopicamente organizzate (Buccino, 2001).

Quando osserviamo qualcuno compiere un’azione, i neuroni specchio scaricano come se stessimo compiendo noi quell’azione e, fatto ancor più interessante, il grado di attivazione delle aree coinvolte dipende dall’expertise del soggetto in quella azione: un giocatore di tennis che osserva una persona che gioca a tennis avrà un’attivazione maggiore rispetto ad un osservatore che non ha mai tenuto in mano una racchetta.

 

Cosa accade quindi quando osserviamo qualcuno esprimere un’emozione?

La Dott.ssa Alibrandi presenta uno studio pilota sulla valutazione delle emozioni facciali indotte dalla visione del proprio volto emozionato. L’analisi delle emozioni è stata effettuata attraverso il FACS, il Sistema di Codifica delle Espressioni Facciali che misura e classifica i movimenti muscolari del volto che formano le espressioni. Il FACS permette inoltre di valutare l’intensità delle emozioni su una scala da 0 a 5.

Lo studio era così articolato: i soggetti dell’esperimento venivano filmati mentre si mostrava loro un video in grado di suscitare paura (in alcuni anche sorpresa o disgusto). Successivamente esperti codificatori FACS valutavano le emozioni espresse alla vista del video e la loro intensità. Successivamente veniva mostrato ai soggetti il video in cui erano stati ripresi i loro volti oppure i volti di un altro soggetto dello studio. In entrambi i casi i soggetti venivano nuovamente filmati e anche questo video veniva analizzato dai codificatori FACS. Confrontando i punteggi ottenuti dall’analisi dell’intensità delle emozioni espresse nei tre casi (mentre guardavano il video / mentre guardavano il proprio volto emozionato / mentre guardavano il volto emozionato di un altro).

Lo studio ha evidenziato come osservare il proprio volto emozionato induca maggiore empatia che guardare il volto emozionato di qualcun altro.

A questo punto è lecito domandarsi quali possano essere le applicazioni cliniche dei neuroni specchio.

Uno degli obiettivi più comuni in terapia è portare il paziente a riconoscere le proprie emozioni. Nella terapia cognitiva, in particolare, lo strumento principe è l’ABC (Ellis, 1965) che facilita l’automonitoraggio dei propri stati affettivi.

In seduta, poi, si pongono spesso domande esplicite volte a far riflettere il paziente sui propri stati emotivi (es. “Cosa prova?”), ma – fa notare il Dott. Maurizio Speciale – il 20% della popolazione non clinica ha difficoltà ad etichettare i propri stati emotivi, mentre il 40% della popolazione clinica è alessitimica. Spesso il paziente alla domanda “Cosa prova?” risponde in maniera generica (es. “Sono nervoso”) o etichetta l’esperienza emotiva provata con un’emozione incongruente con la propria espressione facciale. Il paziente, però, trasmette con il proprio comportamento non verbale l’emozione che sta provando, ma non sempre il terapeuta è in grado di sfruttare tale informazione.

La Self Mirroring Therapy permette al paziente stesso di usufruire delle proprie emozioni attraverso la videoregistrazione delle proprie espressioni emotive. In questo modo il riconoscimento dell’emozione non avviene attraverso un accesso diretto autoriflessivo, ma utilizzando uno stimolo esterno, permettendo così al paziente di sfruttare verso di sé quei meccanismi innati che normalmente gli consentono di comprendere lo stato emotivo altrui.

Poiché recenti ricerche di neuroimaging dimostrerebbero che il sistema dei neuroni specchio si attiva in modo più intenso osservando il proprio volto rispetto a quello altrui (Uddin et al., 2006), la Self Mirroring Therapy appare una valida tecnica per far riconoscere le proprie emozioni ai pazienti in psicoterapia sfruttando i meccanismi coinvolti nell’empatia.

Come sottolinea il Dott. Piergiuseppe Vinai, attraverso la Self Mirroring Therapy le emozioni vengono effettivamente condivise in seduta attraverso un protocollo che partendo dal richiamo alla memoria di un episodio emotivo (RECALL) tramite il VIDEOFEEDBACK permette al paziente di osservarsi mentre osserva se stesso raccontare l’episodio (SELF MIRRORING). A questo punto si può intervenire con la RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA.

 

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BIBLIOGRAFIA

  • Rizzolatti G, Camarda R, Fogassi L, Gentilucci M, Luppino G, Matelli M. Functional organization of inferior area 6 in the macaque monkey. II. Area F5 and the control of distal movements. Exp Brain Res 1988; 71:491-507.
  • Rizzolatti, G., L. Fadiga, V. Gallese, and L. Fogassi. 1996. Premotor cortex and the recognition of motor actions. In Cogn. Brain Res. 3:131-141.
  • Gallese, V., L. Fadiga, L. Fogassi, and G. Rizzolatti. 1996. Action recognition in the premotor cortex. In Brain 119:593-609.
  • Mukamel R, Ekstrom A, Kaplan J, Iacoboni M, Fried I. 2010. Single-Neuron Responses in Humans during Execution and Observation of Actions. Current Biology 20: 1-7
  • Buccino G., Binkofski F., Fink G.R., Fadiga L., Fogassi L., Gallese V., Seitz R.J., Zilles K., Rizzolatti G., Freund H.J. Action observation activates premotor and parietal areas in a somatotopic manner: an fMRI study. European Journal of Neuroscience 13:400-404, 2001.

La Ballata del Cognitivismo – La Psicantria al Congresso SITCC 2014

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Psicantria - Ballata del Cognitivismo - Congresso SITCC 2014

Cos’ è psicantria?

E’ un neologismo coniato da Palmieri e Grassilli per cantare dello “psicomondo” perché nessuno mai ha raccontato sia a suon di musica che in modo sistematico la psicopatologia.

E’ così i colleghi ci raccontano di questo creativo progetto che ha le finalità di :

  • Divulgare e trattare il tema della malattia mentale e del disagio psichico attraverso l’uso dello strumento canzone, combattendo lo stigma della malattia mentale stessa
  • Promuovere l’uso della canzone come strumento educativo e di riflessione in diversi contesti
  • Valutare le potenzialità della canzone come strategia all’interno di una terapia

Dopo una breve introduzione su come è nato il progetto e i suoi obiettivi ecco che entriamo nel vivo di Psicantria

Palmieri, Grassilli e Mantovani si alzano dal tavolo, imbracciano gli strumenti… e si parte.

Cantano i loro brani e i partecipanti al congresso vengono travolti dalle loro note, dalla loro simpatica e arguta creatività.

E’ un crescendo…e ecco il “colpo finale” di questi geniali colleghi che rapisce definitivamente i partecipanti al congresso… E’ “La ballata del cognitivismo” sulle note di una nota canzone… in fondo la SITCC quest’anno è pur sempre a Genova!

Ecco qui per voi il testo e il video della performance de “La ballata del cognitivismo

DALLA PSICOPATOLOGIA CANTATA ALLA PSICANTRIA DELLA VITA QUOTIDIANA
Palmieri, Grassilli, Mantovani.

 

La Ballata del Cognitivismo

E lo chiamavano cognitivista, costruttivista, razionalista

Lo chiamavano cognitivista costruttivista post razionalista

 

Fu all’inizio il comportamento

Ad attirare ogni attenzione

Bastava un suono di campanella

Ad aumentare la salivazione

Ma dopo Pavlov con il suo cane

Arrivò Skinner con i rinforsi

Ma c’è chi disse che l’uomo ha pensieri

E non aveva tutti i torti

Arrivò Beck dagli Stati Uniti

Con la sua triade cognitiva

La depressione, gli automatismi

Già brillavano per inventiva

 

Ma la pulsione spesso conduce

Ad origliare dietro le porte

Quella di Bolwby lo psicoanalista

Che all’etologia fece la corte

E fu così che da un giorno all’altro

L’attaccamento si tirò addosso

L’interesse dei cognitivisti

Che lo studiarono a più non posso

Anche in Italia Guidano e Liotti

Due pionieri coi loro approcci

Fecero scuola e istituzione

Meriterebbero una canzone

 

E per avere nuovi consigli

Sulla metacognizione

Venne fondato il Terzo Centro

Che la serviva anche a colazione

Con narrative e nuove moviole

 

Poi arrivarono Lenzi e Lambruschi

Adolescenti, adulti e bambini

Ce ne era per tutti i gusti

E per rileggerere i nostri sogni

Rezzonico Giorgio e Bara Bruno

Sono stati così generosi

Hanno scritto un libro per uno

La Sassaroli e il perfezionismo

E la passione del giornalismo

Con Davide Dettore gli ossessivi

Dei rituali diventan privi

 

Alla stazione successiva

Emdr Mindfulness Schema

Mancava solo l’accettazione

Adesso davvero ho la testa piena

Se di qualcuno ci siam scordati

Certi di essere perdonati

Ringraziando per l’attenzione

Arriviamo alla conclusione

 

E lo chiamavano cognitivista, costruttivista, razionalista

Lo chiamavano cognitivista costruttivista post razionalista.

 

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I fattori predittivi del senso di vuoto in un campione di pazienti con disturbo borderline – Congresso SITCC 2014

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 Fattori predittivi del senso di vuoto nei pazienti con disturbo borderline di personalità - sitcc 2014

Roberto Framba - Congresso SITCC 2014
Dr. Roberto Framba

In una delle discussioni libere durante il simposio SITCC di venerdì 26, è stata presentata una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori di Studi Cognitivi di Bolzano sui fattori predittivi del senso di vuoto in un campione di pazienti con Disturbo Borderline.

In ambito psicologico, la presenza del senso di vuoto viene spesso associata ai disturbi di personalità come il Borderline .

La perdita del continuum storico in un individuo crea un presente senza profondità, quindi si manifesta una sorta di vuoto narrativo che può essere usato da alcuni pazienti per sottrarsi da un conflitto tra un sé indegno e un sé intollerabile, staccandosi da tutto e da tutti per entrare in una sorta di anestesia emotiva.

La condizione di vuoto ha una forte rilevanza clinica dato che in essa si verificano più frequentemente gesti suicidari e atti autolesivi, che possono rappresentare sia l’effetto di uno stato di distacco assoluto dal mondo, sia un modo per evocare tale distacco.

I pazienti borderline con questi atti cercherebbero di intervenire sul loro stato di disregolazione emotiva.

Con lo scopo di stabilire quali fattori determinano il senso di vuoto, il gruppo di ricerca di Bolzano ha condotto la presente ricerca su un gruppo di 45 pazienti diagnosticati con disturbo Borderline, di cui 27  donne e 18 uomini che venivano seguiti in una struttura psichiatrica del nord Italia.

Ai partecipanti sono stati somministrati i seguenti test psicologici:

– SCID II ( Intervista per la formulazione della diagnosi dei disturbi di personalità riportati sull’Asse II del DSM-IV;

– Emptiness Sense Scale ( Questionario sulla valutazione del senso di vuoto);

– Barrat Impulsivity Scale 11 ( Questionario sulla valutazione della impulsività);

– Aggression Questionnaire; (Questionario sulla valutazione dell’aggressività);

– Difficulties in Emotion Regulation Scale (Questionario sulla difficoltà di regolazione

emotiva);

– Anger Rumination Scale (Questionario sulla Ruminazione rabiosa);

I dati ottenuti sono stati analizzati attraverso diverse statistiche multivariate mettendo in relazione lo stato di vuoto, l’esperienza di disregolazione emotiva e diversi altri fattori come l’impulsività e l’aggressività.

Dai risultati emerge come il senso di vuoto funzioni da fattore mediazionale che determina il sintomo ma solo nella presenza della disregolazione emotiva. I risultati ottenuti potrebbero spiegare da dove deriva il senso di vuoto che, analizzato in questo prospettiva, potrebbe costituire il “sintomo” cardinale della disregolazione emotiva.

Inoltre i risultati suggeriscono come attraverso il concetto del senso di vuoto si possa rappresentare in modo più chiaro e definito l’esperienza emotiva problematica attraverso il riconoscimento degli antecedenti che caratterizzano in termini emotivo/cognitivo le esperienze.

Gli studi futuri si dovrebbero focalizzare sulla costruzione di uno specifico protocollo di intervento clinico sullo stato mentale del vuoto che permetta di verificare se attraverso la terapia possa essere elaborato.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • R., Petet, 2011.   Approaching Emptiness: Subjective, Objective and Existential Dimensions. Journal of Religion and Health, 3, 558-563.

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Il servizio perinatale: esperienza di cura per la mamma e di prevenzione per il bambino – SITCC 2014

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Benessere Malessere - SITCC 2014Durante il simposio presieduto da Lavinia Barone e Bruno Intreccialagli si è discusso sul ruolo e sull’importanza dei Servizi Psichiatrici Perinatali durante la gravidanza.

Il periodo della gravidanza e del puerperio è un momento della vita in cui viene richiesto alla neo-mamma di adattarsi ad un contesto mai provato prima. Dal punto di vista psicologico, la neo mamma si prepara all’incontro con il proprio bambino, costruendo nella sua mente una propria rappresentazione di esso, riconosciuta nella letteratura con il termine del “bambino fantasmatico” che inevitabilmente si confronterà con quella del bambino reale, dopo il parto.

Anche se dal punto di vista biologico Il corpo, con la produzione neuro-endocrina, facilita questo difficile processo possono comparire dei disturbi dell’umore post parto che fanno parte di un continuum tra fisiologia e patologia di questo particolare momento di vita.

Quindi, durante la gravidanza la futura mamma ha bisogno di essere sostenuta: ha bisogno di forti reti sociali e di servizi pronti e preparati ad accoglierla e a risponderle alle domande e alle paure collegate al parto. La futura mamma, come sottolineato più volte dal professore Bruno Interccialagli durante il simposio, dovrebbe essere aiutata ad elaborare questo importante evento della vita.

Cosa succede però quando le neo mamme non riescono o non sono in grado di elaborare questo evento per una serie di diversi fattori?

Come sottolineato dalle dottoresse Donata Caira e Katia Aringolo le neo mamme possono sviluppare diversi disturbi psichiatrici del puerperio come:

Maternity blues

Un disturbo che esordisce qualche ora o giorno dopo il parto e si esaurisce nel giro di qualche settimana senza necessità di intervento medico. È caratterizzato da sbalzi d’umore, labilità emotiva, pensieri tristi, in alcune occasioni anche drammatici, irritabilità, difficoltà di concentrazione, tristezza, disturbi del sonno e dell’appetito. Anche se con qualche difficoltà, la mamma riesce a prendersi cura di sé e del suo bambino.

La Depressione Post Partum

ė un disturbo che interessa il 10/15% delle puerpere. Comincia entro sei mesi dal parto e la sintomatologia è talmente evidente che molto spesso le pazienti che arrivano all’attenzione del clinico necessitano dell’introduzione di un trattamento psicofarmacologico. Segnali iniziali importanti sono l’esclusione del partner dall’accudimento del bambino e la presenza di ruminazioni mentali sulla salute del bambino.

La Psicosi Puerperale

Un disturbo molto raro nella popolazione generale (stimato intorno allo 0,1-0,2% ) a cui incidenza può aumentare notevolmente (fino al 25%) in pazienti affette da disturbi psichiatrici, in particolare disturbo bipolare e disturbo schizoaffettivo e in pazienti con storia pregressa di psicosi puerperale. Richiede il ricovero nel reparto psichiatrico e il trattamento farmacologico. Trai i principali sintomi vengono elencati: deliri, disturbi del pensiero legati alla salute del proprio bambino (si crede sia posseduto da forze demoniache o avvelenato) ed in casi gravi allucinazioni.

Tutti questi disturbi non incidono soltanto sullo stato di salute della mamma ma sopratutto comportano dei scompensi sullo sviluppo bio psico sociale dei bambini.

Gli studi della letteratura, come sottolineato dalla Professoresa Donata Caira, suggeriscono come i bambini di madri depresse mostrino minori segnali di protesta nel tentativo di ristabilire il contatto interpersonale perso, si mostrano evitanti nella relazione (evitando lo sguardo della mamma) e presentano una bassa reattività allo stress.

Per affrontare tale problematiche legate alla salute della mamma e del feto vengono instaurati i Servizi Psichiatrici Perinatali.

Durante il simposio, la dottoressa Cecilia Fusco presenta la propria esperienza lavorativa svolta nel Regno Unito in una struttura Psichiatrica Perinatale. Come lei racconta, I servizi psichiatrici perinatali britannici si basano sul principio della prevenzione dei Disturbi psichiatrici gravi nella madre e sulla valutazione dell’attaccamento nei bambini.

Il punto forte di questi servizi e La MULTIDISCIPLINARIETA` in quanto si collabora con diversi specialisti come: psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, puericoltrici, ostetriche e diversi dottori.

Servizio perinatale -  foto simposio - sitcc 2014
Lavinia Barone, Bruno Interccialagli, Katia Aringolo, Cecilia Fusco, Donata Caira

Per quanto riguarda i servizi autoctoni la Dottoressa Donata Caira sottolinea che nel contesto italiano i Servizi Psichiatrici Perinatali sono molto eterogenei per la distribuzione sul territorio, l’organizzazione e le sovvenzioni.

Peraltro, l’esistenza di questi centri non è conosciuta dalla popolazione.

La Dottoressa ha sottolineato come nella realtà italiana manchi l’aspetto della prevenzione, la multidisciplinarietà e in primis l’esperienza del ricovero condiviso madre-bambino.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • “Why the maternal brain?”, C.H., Kinsley, E., Amony-Meyer. Journal of Neuroendocrinology, 2011.
  • “The course of Postpartum Depression: A review of Longitudinal Studies”, N., Vliegen, S., Casalin, P., Leyten. Harv. Rev. Psychiatry, 2014

La ruminazione rabbiosa nel disturbo borderline di personalita’ – SITCC 2014

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ruminazione rabbiosa - sitcc 2014 La ricerca che oggi la Dr.ssa Martino ci presenta all’interno del simposio “Gestione delle emozioni in soggetti clinici e di controllo” è un interessante studio multicentrico.

Vediamo però prima alcune informazioni preliminari che ci permettono di comprendere meglio questa ricerca.

Secondo la teoria bio-psicologica di M. Linehan (1991) Il cuore del Disturbo Borderline di Personalità è la disregolazione emotiva che è causata dall’interazione tra la vulnerabilità emotiva da una parte e dall’altra da un ambiente invalidante.

La conseguenza di questa disregolazione emotiva sono i comportamenti disregolati che i pazienti mettono in atto proprio come tentativo di autoregolazione emotiva. Questo modello noto e forte in letteratura non considera tuttavia i meccanismi cognitivi specifici che portano dalla disregolazione emotiva al discontrollo comportamentale.

Nello studio e nella conoscenza di questi processi cognitivi disfunzionali interviene il Modello della Cascata Emotiva (MCE) di Selby, Anestis et al. (2008, 2009)

Questo modello mostra come il passaggio dalla disregolazione emotiva al comportamento disregolato sia causato dalla “Cascata Emotiva”, caratterizzata da processi disfunzionali (ruminazione) attivati di fronte a stimoli emotivi.

Focalizziamoci ora sul processo disfunzionale ruminativo nello specifico sulla ruminazione rabbiosa.

La ruminazione rabbiosa è uno stile maladattivo di pensiero che si attiva in presenza di emozioni di rabbia, focalizzando l’attenzione su questa, sulle sue cause e sulle sue conseguenze, alimentando l’attivazione emotiva negativa e aumentando la tendenza a rispondere con comportamenti aggressivi (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012, Pedersen et al., 2011, Anestis et al 2009)

In letteratura sono presenti studi condotti su studenti con tratti borderline e ruminazione rabbiosa. Tali risultati mostrano come la ruminazione rabbiosa incrementi le emozioni di rabbia e predica la tendenza all’aggressività (Anestis et al 2008, Selby et al 2009), come i tratti borderline siano correlati a forme di ruminazione depressiva e soprattutto rabbiosa (Abela et al. 2003, Smith et al. 2006, Baer et al 2011) e come la ruminazione medi la relazione tra il distress psicologico e il controllo del comportamento (Selby et al. 2008).

Tali studi non prendono tuttavia in considerazione un campione clinico. Cosa succede quindi per chi ha un Disturbo Borderline di Personalità e non solo dei tratti?

Ecco la novità di questo studio. Il campione è composto da 151 pazienti con diagnosi di Disturbo di Personalità, età maggiore dei 18 anni e assenza di Deficit Cognitivi e/o Disturbi Psicotici.

Gli strumenti utilizzati sono Structured Clinical Interview per DSM-IV – Asse II (SCID-II), Anger Rumination Scale (ARS), Aggression Questionnaire (AQ), Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS).

I risultati di questo studio possono così riassumersi:

  • Nel Disturbo Borderline di Personalità è presente la Ruminazione rabbiosa.
  • La disregolazione emotiva predice la tendenza all’aggressività del campione
  • La ruminazione rabbiosa media totalmente la relazione tra disregolazione emotiva e tendenza all’aggressività, sottolineando la responsabilità centrale di processi cognitivi disfunzionali nella messa in atto di comportamenti problematici
  • La diagnosi di DBP predice insieme alla ruminazione la tendenza a mettere in atto i comportamenti aggressivi. Tale dato testimonia l’importanza della ruminazione sul comportamento in maniera specifica per la diagnosi di DBP.

Proviamo ora a capire cosa però questo significhi nella pratica, cosa significhi per noi terapeuti quando nella nostra stanza si siede davanti a uno una persona con questo tipo di sofferenza. Quali sono quindi le implicazioni cliniche di tutto questo?

Significa che i trattamenti evidence based attualmente più diffusi per il trattamento del DBP (DBT, MBT) quelli che quindi maggiormente utilizziamo, potrebbero implicitamente bersagliare la ruminazione mediante tecniche indirette (Selby et al 2009). Allo stesso tempo significa anche che delle tecniche più esplicite e mirate alla ruminazione potrebbero favorire l’acquisizione di strategie di pensiero più funzionale e di conseguenza una maggiore capacità di regolazione emotiva e comportamentale.

 

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Malessere e benessere: perché e come – Congresso SITCC 2014

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Benessere Malessere - SITCC 2014 Il simposio “Malessere e benessere: perché e come” si è svolto nel primo pomeriggio con la Dr.ssa Mezzaluna nel ruolo di chairwoman e la Dr.ssa Piccioni nel ruolo di Discussant.

Aprono il simposio il Dr. Lorenzini e il Dr. Scarinci, psicoterapeuti didatti SITCC che lavorano sul tema del benessere. Il simposio è sperimentale e ha richiesto la partecipazione attiva ai partecipanti partendo dalla compilazione della Scala di Valutazione del Benessere.

Il Dr. Lorenzini ci racconta che secondo la sua esperienza clinica, scorrendo i suoi pazienti emerge che il 50% ha una diagnosi riconosciuta e conclamata, il 20% ha una diagnosi “tirata per i capelli”, mentre il 30% è “DSM free”, ma insoddisfatto della propria vita. Questi ultimi portano in terapia una richiesta rispetto a un malessere diffuso e poco chiaro su cui però è necessario un intervento; sono quel malesseri che forse tempo fa si risolvevano con le relazioni sociali, e a cui oggi bisogna essere pronti a rispondere.

Il malessere è quello che gli autori chiamano “Tribolazioni”, cioè “modi in cui la gente riesce a darsi sofferenza”. Dall’opinione degli autori, la gente “tribola” in questo senso perché cade in alcune trappole che si auto-infligge. Un esempio di queste situazioni è la trappola della scelta, generata da credenze secondo cui esiste una soluzione perfetta senza difetti che ci porta a essere sempre insoddisfatti; inoltre, le persone non considerano che c’è un cambio di criteri prima e dopo la scelta dato dal fatto che i precedenti bisogni sono ora soddisfatti. Un’ulteriore trappola è data dal fatto di giudicare noi stessi come decisori sulla base del risultato della scelta, che invece può portare a conseguenze dannose ma essere comunque corretta se valutata sulla base dei dati che avevamo a disposizione al momento di scegliere. Come dice Lorenzini, “la schedina si gioca al sabato, non la domenica mattina a risultati ottenuti”.

Per quanto riguarda l’accettazione, altro tema importante valutando il benessere, si sottolinea come

accettare non voglia dire essere felici per una cosa triste, ma significa smettere di investire su un risultato non raggiungibile, anche se questo non vuol dire che le emozioni associate al danno debbano essere positive.

In seguito, il Dr. Scarinci espone la tematica del benessere, come costituita da diversi pilastri:

–           Il senso della vita, che possiamo individuare trovando degli scopi/valori, dando loro un punteggio di importanza e pianificando azioni al fine di conseguirli (cosa vuoi, quanto lo vuoi e cosa vuoi fare per perseguirlo)

–           La consapevolezza: un esercizio che possiamo fare per aumentare il nostro benessere è incrementare la consapevolezza dell’importanza di quello che abbiamo (come accade con la salute, che non viene considerata finché stiamo bene e di cui si capisce l’importanza solo quando si sta male)

–           Relazionalità, che approfondiamo con un esercizio da svolgere in coppia. La relazionalità presuppone apertura e sintonizzazione nei confronti degli altri e gli esercizi che ci fanno svolgere in coppia aumentano questo atteggiamento

–           Accettazione, rispetto alla quale viene proposta la metafora dell’autobus di Hayes e colleghi: immaginando di essere un autista che guida il suo autobus verso una meta per lui importante, eventuali passeggeri fastidiosi (come pensieri o emozioni dolorose) possono essere ignorati tenendo in mente la meta del viaggio, per lui così importante. Pensieri fastidiosi e disturbi fisici possono essere allo stesso modo ignorati alla luce della destinazione a cui vogliamo arrivare (non ti curar di loro ma guarda e passa)

–           Trascendenza

In chiusura al simposio, la Dr.ssa Paparusso ha presentato i dati della ricerca che ha portato alla validazione della Scala di Valutazione del Benessere, individuando quattro fattori: senso della vita e consapevolezza, relazionalità, accettazione e trascendenza.

È possibile approfondire l’argomento presentato nel simposio, in tutte le sue componenti, nel libro “Dal malessere al benessere. Attraverso e oltre la psicoterapia” di Lorenzini e Scarinci (2013).

 

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Lo psicologo nella pancia: esperienze in chirurgia bariatrica – Congresso SITCC 2014

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Chirurgia bariatrica - Congresso SITCC 2014

Primo giorno di lavori alla SITCC e tra i molteplici simposi scegliamo quello dei colleghi Pastorini, Mian, Rancati, Celotti che da tempo collaborano e si occupano della gestione del paziente obeso.

Cos’è prima di tutto l’obesità?

E’ una malattia multifattoriale costituita da un danno organico, da una sofferenza psicologica e da difficoltà nelle relazioni sociali. Questa malattia è quindi una condizione eterogenea e complessa. Per farci un’idea dell’impatto dell’obesità pensiamo che in Italia 1 soggetto su 10 è in sovrappeso e 1 su 10 è obeso. Inoltre riflettiamo anche sui costi elevati che l’obesità comporta anche a causa della sua comorbilità con altre patologie ad esempio di tipo endocrinologico e cardiaco. Ci ritroviamo quindi spesso a sentire parlare di obesità ma a noi che piace guardare alla persona rimane la domanda: chi è il paziente obeso?

Ci aiuta a rispondere Pastorini presentando le caratteristiche del paziente obeso tramite uno studio effettuato su un campione di 50 soggetti usando come strumenti SCL-90, BDI, EDI II.

Da questo studio emerge che è un soggetto depresso, insoddisfatto del proprio corpo, preoccupato per la salute, con alterazioni nel ritmo sonno veglia e/o nella sessualità, deluso, con aspettative elevate e resistenza al cambiamento.

Questo tipo di paziente prima di venire da noi ha effettuato uno “shopping terapeutico”, tentando numerose strade senza però avere successo. Ho tentato diete “selvagge”, centri estetici, naturopata, medico specialista, farmaci da banco…e nulla è cambiato.

Questa risulta un’ informazione rilevante da tenere in considerazione nel trattamento di tali soggetti. Cosa fare dunque?

Mian e Rancati/Celotti ci propongono diverse tipologie di trattamento in base alla propria esperienza clinica.

Mian ci racconta la chiurgia bariatrica per i pazienti obesi. I criteri di accesso per questi interventi sono un’età compresa tra i 18-60 anni, obesità di II e III grado, presenza di comorbilità e precedenti tentativi di trattamento falliti. Vengo invece esclusi quei pazienti con Bulimia Nervosa, Binge Eating Disorder, Night Eating Syndrome, Depressione Maggiore , Disturbo di personalità, Abuso di sostanze e di alcolici, Disturbi psicotici.

(CONTINUA DOPO LE DIAPOSITIVE)

E’ importante la valutazione della presa in carico di questi pazienti: le tappe del processo devono essere tra loro strettamente correlate e interdipendenti, con una codificazione delle procedure.

L’assessment psicologico si focalizza su: storia del peso corporeo e indagine sui possibili disturbi alimentari, psicopatologie e farmacoterapie pregresse, storia dei trattamenti dietoterapici precedenti, valutazione delle difficoltà in ognuno di essi e analisi dell’eventuale deresponsabilizzazione, monitoraggio del comportamento alimentare attuale e dei comportamenti disfunzionali, motivazione e resistenza al cambiamento, intolleranza alle frustrazione, strategie di coping, valutazione delle aspettative del paziente, informazione e monitoraggio dell’ immagine corporea e la sua futura integrazione con “il nuovo corpo” e soprattutto il nuovo “stile di vita”.

Perché appare importante lo psicologo non solo nella valutazione? Il circolo vizioso del paziente obeso è caratterizzato da il caos nutrizionale, la fame emotiva, le diete ed il loro fallimento, l’aumento del peso, i sentimenti depressivi conseguenti e l’intolleranza alle emozioni.

Nel momento in cui quindi questi interventi hanno successo ed il caos alimentare, con le sue conseguenze, non è più predominante ecco che si potrà focalizzare in modo più efficace l’intervento sull’intolleranza delle emozioni.

Celotti e Rancanti ci presentano infine un modello residenziale dove il cuore è costituito dall’ empowerment del paziente obeso basato sia su un percorso di gruppo sia individuale. Perché l’empowerment? Perché si vuole “far fare” un processo di cambiamento e non raccontarlo, perché si vuole insegnare al paziente a valorizzarsi e a responsabilizzarsi con quello che è un problem solving comune.

Ecco che il paziente ha un ruolo attivo in cui vive una sperimentazione guidata. Un ruolo che forse in precedenza mai aveva sperimentato con tutte quelle diete solo prescritte e mai fatte proprie. In fondo come diceva Pascal

“Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui”.

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Il Cervello Empatico: la plenaria di Christian Keysers al Congresso SITCC 2014

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SITCC 2014 - Plenaria Keysers

Prof. Christian Keysers - Neuroscientist
Prof. Christian Keysers – Neuroscientist

Dopo il benvenuto del comitato organizzativo, la SITCC 2014 di Genova si apre con una plenaria del Prof. Keysers sull’empatia. Dopo un post-doc a Parma con il team del Prof. Rizzolatti, Keysers si è interessato delle basi neurali dell’empatia, con particolare interesse per quello che succede negli psicopatici e nelle persone affette da autismo.

Il relatore inizia la sua presentazione con un frammento di James Bond, evidenziando come vedere il protagonista terrorizzato da un ragno porti il pubblico a comprendere il suo vissuto emotivo: “noi in realtà vediamo solo i pixel che lampeggiano, ma riusciamo a percepire che lui è terrorizzato, anche se il terrore rimane dentro alla sua testa”.

E se abbiamo tutti chiaro ormai come gli studi con a capo proprio il Prof. Rizzolatti ci illustrino come vedere svolgere un’azione attivi in noi gli stessi neuroni che si attivano quando questa azione la eseguiamo noi, che ruolo può avere in questo sistema a specchio la componente sonora? Il sistema motorio si attiva solo se vediamo l’azione degli altri o anche se la sentiamo? Osservando le immagini fRMI sembra che anche solo ascoltare un’azione senza vederla (per esempio ascoltare qualcuno che fa gargarismi o che apre una lattina) porti a un’attivazione del sistema motorio corrispondente, anche se a un minor livello rispetto alla stimolazione visiva.

Quindi, da un punto di vista neurologico cosa succede? Quando vediamo l’azione degli altri attiviamo aree visive e uditive, poi regioni parietali e premotorie che ci permettono di replicare l’azione nel caso in cui volessimo farlo. Se una persona si immedesima molto, l’attivazione premotoria diventa così forte che passa nel corpo, arrivando anche a muovere le stesse parti che vediamo muoversi. Questo lo vediamo bene osservando per esempio tifosi sfegatati che guardano la finale di campionato della loro squadra, e che non riescono a trattenere il calcio di rigore che stanno osservando in TV.

In seguito, Keysers ha spiegato come non solo attiviamo la nostra azione guardando quelle degli altri, ma attiviamo anche le nostre sensazioni osservando le sensazioni degli altri. Per esempio, se vediamo qualcuno sollevare un oggetto riusciamo a capire più o meno quanto questo oggetto sia pesante valutando la fatica che questa persona sta facendo.

Ma l’empatia non è una cosa che c’è o non c’è.

È una caratteristica modulabile e modulata nelle diverse situazioni. A sostegno di ciò, Keysers e collaboratori hanno valutato l’attivazione neurale in un esperimento in cui prima di andare nella fRMI i partecipanti venivano sfidati da un’altra persona giocando soldi con un avversario sleale e con un avversario leale. In seguito, i partecipanti osservano dare un elettroshock all’avversario, e le immagini fRMI mostrano come mentre le femmine empatizzano di più se osservano soffrire il compagno leale ma attivano il sistema a specchio anche se osservano soffrire il compagno sleale (seppur in misura minore), i maschi che osservano il compagno sleale non attivano minimamente il sistema a specchio, e anzi attivano un poco la zona del piacere.

E per quanto riguarda la psicopatia?

Una delle teorie sulla psicopatia dice che gli psicopatici non hanno emozioni, e per questo non attivano regioni a specchio se vedono altri provare dolore. In realtà, dagli esperimenti di Keysers si osserva come gli psicopatici senza istruzioni non hanno alcuna attivazione delle regioni a specchio vedendo altri soffrire, mentre se vengono istruiti all’empatia hanno la stessa attivazione dei soggetti sani: non è vero che gli psicopatici non sanno provare empatia, è vero che non sono abituati a farlo.

Ovviamente questo ha importanti ricadute soprattutto nel recupero delle persone criminali, che a questo punto non sembrano avere un deficit di empatia, quanto piuttosto una minore propensione a essere empatici di default.

 

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L’intelligenza è innata o appresa? Non importa, se si ha il giusto incoraggiamento

FLASH NEWS

 

Un recente studio dell’Università Statale del Michigan offre una nuova prospettiva che sposta l’attenzione sui risultati della performance più che sulla natura di chi la compie e sostiene che, in certi casi, un buon incoraggiamento può essere una spinta sufficiente al successo.

“Essere o non essere (intelligenti)? Questo è il problema.” Parafrasando Shakespeare, che per parlare di intelligenza è sempre appropriato, ci si potrebbe chiedere se una mente brillante sia solo frutto di un genio innato, una capacità che c’è o non c’è.

Il talento è indubbiamente un’invidiabile dote di pochi, ma è determinata? O si può sviluppare grazie all’esercizio e all’impegno?

Il dilemma sulla questione “innato/appreso” è uno dei dibattiti sempre aperti e sempre affascinanti ma di difficile soluzione. Un recente studio dell’Università Statale del Michigan offre una nuova prospettiva che sposta l’attenzione sui risultati della performance più che sulla natura di chi la compie e sostiene che, in certi casi, un buon incoraggiamento può essere una spinta sufficiente al successo.

Lo studio: due gruppi di partecipanti hanno letto due diversi articoli, il primo riportava che l’intelligenza è in gran parte determinata geneticamente, l’altro sosteneva che la struttura genetica influisce poco sui risultati perché l’intelligenza si sviluppa in un ambiente sfidante e quindi ciò che conta è l’impegno con cui si affronta. Dopo aver letto il rispettivo articolo ogni gruppo doveva eseguire un semplice compito al computer mentre ne veniva registrata l’attività cerebrale.

I risultati: i soggetti che avevano letto l’articolo a favore della tesi genetica hanno affrontato i compiti focalizzandosi su di sé, sulla propria performance; mentre gli appartenenti al gruppo a cui era stato assegnato l’articolo pro-impegno hanno prestato attenzione agli errori commessi per decidere dove concentrarsi maggiormente di volta in volta.

Questo ha provocato una risposta cerebrale molto più efficiente per il secondo gruppo: miglioravano ogni volta che eseguivano un compito dopo aver commesso un errore e più attenzione ponevano agli errori, più veloci erano le risposte al compito successivo.

Questo dimostra che al di là delle effettive differenze personali, l’atteggiamento è fondamentale. Dire ad un individuo che il duro lavoro conta più della bravura può provocare cambiamenti reali nel suo comportamento. La giusta sollecitazione può quindi spingere le persone a impegnarsi di più e di conseguenza ad ottenere risultati migliori.

L’importanza di uno studio simile raggiunge trasversalmente diversi ambiti, dagli adulti ai bambini, dal lavoro all’istruzione: promuovere l’impegno, stimolare l’apprendimento e la motivazione può effettivamente favorire performance più efficienti.

 

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Intelligenza? Una questione di ormoni

 

BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness & Sensorimotor su Attaccamento e Trauma: III giornata – Report dal congresso, 19-21 Settembre 2014

Report dal congresso

Attaccamento e Trauma 

Roma, 19-21 Settembre 2014

III Giornata

 

 

  VEDI EVENTO

Tutta al femminile questa terza e ultima giornata di lavori. L’intervento di Pat Ogden ci fa riemergere dal torpore mattutino e dalla stanchezza di questi giorni intensi: con la sua presenza fisica piena di energia e tranquillità insieme ci accompagna nell’esplorazione della Terapia Sensomotoria e della Mindfulness relazionale integrata con pazienti traumatizzati.

Il trauma resta attivo non solo sotto forma di ricordi, ma sotto forma di aspettative inconsce, schemi d’azione, sensazioni e movimenti. Una terapia che si occupi solo di ciò che il paziente ricorda esplicitamente e basata solo sulla parola potrebbe trascurare tanta parte degli esiti dell’esperienza traumatica e risultare inefficace. Ciò che la Ogden propone è di privilegiare una consapevolezza “mindful” dell’esperienza nel qui e ora, che include l’esperienza interna, fatta anche di sensazioni e movimenti, e il mondo esterno. Nella psicoterapia sensomotoria la mindfulness è integrata e incorporata in ciò che emerge momento per momento tra terapeuta e paziente.

Mostrandoci alcune videoregistrazioni di sedute con i suoi pazienti, Pat Ogden ci mostra come avviene questo processo: ciò che il terapeuta fa è riconoscere innanzi tutto quello che il paziente porta, innanzi tutto nel suo corpo. Proprio il riconoscimento dei loro bisogni è ciò che è mancato nell’esperienza di questi pazienti con le loro figure di attaccamento. E’ dunque importante farli parlare con quelle parti di sé che emergono, riconoscendole insieme e ponendo domande che li aiutino a focalizzarsi sull’esperienza presente interna.

Lavorando ai margini della finestra di tolleranza (“safe but not too safe”, come insegna Bromberg), si propongono ai pazienti piccoli esperimenti verbali e somatici, sempre in consapevolezza mindful e da una posizione cooperativa. Il terapeuta in questo modo aiuta il paziente a riconoscere parti di sé che le figure di attaccamento non avevano riconosciuto o avevano confutato e che per questo avevano trasformato in parti “non-me”, come per esempio la capacità di dire di no, di mettere dei confini, o, al contrario, di cercare la vicinanza degli altri.

Questo lavoro attraverso il corpo su ferite passate e al contempo orientato a stimolare l’impegno sociale tra terapeuta e paziente crea un’intensa intersoggettività, che veicola un’azione riparatoria nei confronti del trauma e del fallimento dell’attaccamento.

Isabel Fernandez ci illustra il contributo dell’EMDR nel trattamento dei traumi. La sua relazione parte da un dato molto importante: è ormai sempre più evidente e sostenuto da solidi dati di ricerca come le esperienze traumatiche, dagli eventi catastrofici ai traumi dell’attaccamento, abbiano un forte e duraturo impatto sulla salute mentale e fisica. Questo, i clinici e i professionisti della salute mentale lo sanno da tempo. Quello che sta cambiando è il riconoscimento “ufficiale” di questa scoperta dell’acqua calda.

 

Non solo l’Organizzazione Mondiale della Sanità promulga politiche sociali volte a far fronte alle implicazioni di questa consapevolezza, ma anche il DSM-V si muove nella stessa direzione. In questa nuova edizione del manuale, infatti, vengono finalmente messe in relazione le diagnosi e le esperienze di vita: da molti disturbi è stata tolta la familiarità come fattore di rischio ed è stata data, invece, molta rilevanza alle esperienze traumatiche.

Non solo disturbi direttamente collegati ad un’esperienza avversa, come il PTSD e il disturbo dell’adattamento, ma anche molti altri disturbi vengono associati a fattori stressanti e/o a esperienze sfavorevoli di attaccamento. Questo è un passo molto importante. Anche perché riconosce finalmente che la traumatizzazione va al di là del PTSD: molti bambini esposti ad esperienze traumatiche non presentano sintomi di PTSD, ma quasi tutti mostrano problemi di regolazione emotiva, controllo degli impulsi e immagine di sé, dissociazione, attenzione e concentrazione, comportamenti a rischio, aggressività.

Ma l’impatto non è solo sulla salute mentale: anche sul piano fisico sono tante le ricadute del trauma, soprattutto se precoce. Il maltrattamento e la trascuratezza nell’infanzia, inoltre, sono associati ad anomalie strutturali e funzionali in diverse aree cerebrali.

In questo panorama l’EMDR è riconosciuto come uno dei più efficaci trattamenti del trauma, poiché consente di elaborare i ricordi, sbloccando le connessioni neurali che li contengono. La ricerca neurobiologica supporta questa efficacia, mostrando come in seguito al trattamento EMDR ci sia un cambiamento nell’attivazione delle aree cerebrali che si sposta dalle regioni limbiche e prefrontali a quelle corticali con valenza associativa. Aumenta l’elaborazione cognitiva e diminuiscono le emozioni negative collegate al ricordo. L’EMDR sembrerebbe permettere anche un cambiamento dei modelli operativi interni, favorendo lo spostamento verso uno stato mentale più sicuro, come misurato dall’AAI.

E’ l’interessantissimo intervento di Kathy Steele a chiudere i contributi di questi densi giorni di lavori. Ancora una volta è la relazione terapeutica al centro dell’attenzione, con il dilemma vissuto dai terapeuti che si occupano di persone traumatizzate: a fare da punto di riferimento, infatti, è sempre stato il paradigma dell’attaccamento sicuro, con il modello di madre-terapeuta “sufficientemente buono” per dirla alla Winnicott che crea per il paziente l’opportunità di guadagnare sicurezza.

Ma questi pazienti, con i loro traumi e loro modelli operativi interni insicuri, quanto riescono davvero ad affidarsi tranquillamente all’attaccamento sicuro del terapeuta? Oltretutto un paradigma infantile sembra poco adatto per un modello terapeutico adulto. Occorre allora ripensare alla relazione terapeutica come finalizzata a supportare competenza e interdipendenza nell’adulto, consentendo la comparsa regolata di sentimenti di dipendenza senza travolgere né il paziente né il terapeuta, promuovendo comprensione oltre che sicurezza.

Come fa notare la Steele, ci sentiamo più amati quando ci sentiamo del tutto compresi. La terapia è un incontro di menti, che non riguarda solo la comprensione e condivisione della mente del paziente, ma anche del terapeuta e di altre persone, è impegno sociale. Non abbiamo solo bisogno di sicurezza, ma anche di far parte integrante del gruppo sociale, comunicando e collaborando per un impegno sociale continuo.

 

Gli stati mentali di terapeuta e paziente devono essere sintonizzati e reciprocamente influenti, sia a livello esplicito sia a livello implicito. Le comunicazioni momento per momento tra terapeuta e paziente sono di cardinale importanza per la regolazione dell’arousal. Certamente essere presenti con pazienti che hanno vissuto esperienze tanto dolorose e difficili è molto impegnativo, tuttavia, è solo attraverso una condivisione collaborativa che è possibile accedere a una co-regolazione adeguata, alla costruzione di competenze e ad esperienze ed emozioni positive.

Un rapporto basato unicamente sulla dipendenza non fa crescere il paziente, anzi implica impotenza e comporta spesso emozioni di vergogna e inadeguatezza. Occorre distinguere tra una dipendenza adattiva, che sostiene e accompagna il paziente verso una crescente competenza, autonomia a cura di sé, e una dipendenza maladattiva, in cui i pazienti si aggrappano al terapeuta, incapaci di regolare le emozioni e di affrontare le difficoltà.

La terapia è dunque collaborazione, intersoggettività e impegno sociale, in cui l’obiettivo non è solo offrire opportunità di sviluppo, ma anche di comunicazione collaborativa nelle interazioni momento per momento tra paziente e terapeuta. Il terapeuta non deve essere concentrato su cosa “fare” per alleviare la sofferenza del paziente, ma piuttosto sull’aiutare il paziente a notare e tollerare la sua esperienza di sofferenza e di connessione.

Questo è tanto più importante con pazienti dissociati, comunicando e sintonizzandosi con tutte le parti nel loro insieme. In questo assetto collaborativo la riparazione interattiva conseguente alla rottura dell’alleanza terapeutica sembra essere ancora più importante del contatto iniziale.

La tavola rotonda che chiude ufficialmente il congresso è guidata da Fabio Veglia che sostituisce Liotti come chairman. Dopo averci coinvolti nel divertente racconto dell’emersione, durante le relazioni di oggi, di sue memorie traumatiche legate alla lingua inglese, propone una riflessione sull’evoluzione del lavoro sul trauma, su quanto il trauma relazionale sia diventato centrale nei pensieri di moltissimi clinici e su quali confini sia eventualmente necessario mettere per non leggere tutto come trauma relazionale.

Ciò che emerge dalle considerazioni dei vari relatori è la necessità di un generale cambio di direzione, spostando l’attenzione verso i processi e l’elaborazione. Occorre guardare non solo agli eventi ma al sistema interno del paziente, al suo modo di funzionare. Molte diagnosi diverse hanno a che fare con processi simili. I disturbi che i pazienti portano sono davvero specifici disturbi o sono gli effetti di un disturbo sottostante più ampio? Le diagnosi sono importanti perché aiutano ad orientarsi, ma occorrono strumenti per misurare meglio i processi.

La ricerca deve inoltre misurare la mente di paziente e terapeuta nello stesso momento, occorre un modello psicologico interattivo, poiché i significati si creano nella diade. E’ necessaria anche una valutazione diagnostica precoce, verso la prevenzione, per realizzare interventi quando il cervello è ancora plastico e sulla diade madre-bambino.

Nell’ambito del trauma un importante cambiamento di paradigma è già in atto, come è emerso in tanti momenti di queste giornate e come evidenzia Porges in chiusura, rivoluzionando l’ottica cartesiana: non più “penso, dunque sono” , ma “sento, dunque sono”.

 

 

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Attaccamento e Trauma: II giornata – Report dal congresso

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

II Giornata – A. Shore, D. Siegel, G. Liotti, Tavola rotonda (Onofri, Siegel, Shore, Liotti, Ogden)

 

VEDI EVENTO 

 

Dopo una prima giornata finalizzata a circoscrivere gli oggetti di studio in esame, l’attaccamento ed il trauma, il secondo giorno di lavori comincia ad entrare nel merito di come andare ad intervenire sulle dinamiche intrapersonali ed interpersonali della persona traumatizzata.

L’intervento di apertura è affidato ad Allan Shore, il quale, avvalendosi di un’ampia gamma di studi al riguardo, si focalizza sul concetto di enactment (messa in atto); la ragione di tale scelta risiede nel fatto che, dato che il trauma, come messo in luce dalle relazioni del giorno precedente, ha una radice relazionale anche il processo terapeutico deve sfruttare, per essere efficace, le dinamiche relazionali ed interpersonali.

In questo quadro l’ enactment rappresenta un meccanismo relazionale molto potente: esso costituisce una forte esplosione affettiva, che si verifica a livello inconscio nell’ambito della relazione terapeutica, attraverso la quale è possibile accedere alle aree traumatizzate ed inconsapevoli della mente.

Stiamo quindi parlando di traumi molto precoci che si collocano ad uno stadio preverbale dello sviluppo dell’individuo; ciò determina un accesso estremamente difficoltoso alla verbalizzazione e conseguente consapevolizzazione di tali traumi.  Gli enactment che avvengono nella relazione terapeutica rappresentano un modo per prendere coscienza di tali vissuti dolorosi inconsci, che sono stati fatti oggetto di un processo di dissociazione da parte dell’individuo. In una prospettiva neurobiologica interpersonale gli enactment ricreano la disregolazione dell’emisfero destro legata ai traumi relazionali dell’attaccamento precoce, processo che coinvolge in modo rispecchiante, come sottolineato più volte da Shore, non solo l’emisfero destro del cliente ma anche quello del terapeuta (da qui la caratteristica di reciprocità del fenomeno di enactment).

Alla luce di questa premessa Shore afferma, citando Russel, che

la principale forma di resistenza nel processo di trattamento è la resistenza del terapeuta a quello che il paziente sente

non è affatto semplice entrare in risonanza empatica, a livello sia verbale che non verbale, con tali vissuti.

Nonostante l’enactment reciproco sia una delle dimensioni intersoggettive più stressanti del trattamento terapeutico è enorme il suo valore, perché esso rappresenta un’esperienza emozionale correttiva, con ricadute direttamente a livello di funzionamento cerebrale: promuove l’integrazione top-down e bottom-up del sistema corticale e sottocorticale dell’emisfero destro del cliente, permettendo l’espansione del cervello emotivo lateralizzato a destra (il substrato biologico dell’inconscio umano).

Il successivo intervento di Siegel torna anch’esso sul tema dell’integrazione contestualizzandola nell’ambito del trattamento psicoterapeutico dei vissuti traumatici; si parte dalla premessa che il trauma determini la compromissione dell’integrazione necessaria per una regolazione efficace.

L’impossibilità, da parte del soggetto di operare un’adeguata integrazione conduce all’estremizzazione degli opposti e alla conseguente creazione di profili di caos o rigidità (ad esempio, uno stato maniacale rappresenta un profilo di caos, uno stato depressivo un profilo di rigidità) lungo una varietà di domini interni e interpersonali.  L’assessment clinico deve, quindi, includere una valutazione di tali estremi e la conseguente pianificazione terapeutica si concentra sui domini di integrazione compromessi in seguito a un trauma, che sono i seguenti: l’integrazione della coscienza, bilaterale, verticale, della memoria, narrativa, di stato, interpersonale e temporale; in questo quadro gli interventi terapeutici sono finalizzati a stimolare attivazione e crescita neurale (SNAG, stimulate neuronal activation and growth) verso l’integrazione.

La relazione pomeridiana è affidata a Liotti il quale, per quanto sacrifichi la sua verve oratoria in favore dell’ospitalità, decidendo di fare il suo intervento in inglese, ben sintetizza il suo decennale lavoro nel campo dell’attaccamento e del trauma mostrando come l’attaccamento disorganizzato sembri avere un ruolo di fondamentale importanza nella genesi dei disturbi dissociativi.

Partendo dai dati di ricerca solidi, infatti, Liotti evidenzia come l’attaccamento disorganizzato nel primo anno di vita sia un potente predittore della dissociazione, più di quanto lo siano traumi successivi, avanzando l’ipotesi che l’interazione fra ricordi traumatici e attaccamento disorganizzato possa essere il necessario antecedente della dissociazione patologica.

Il possibile meccanismo alla base di ciò sembrerebbe risiedere nella particolare interazione tra due sistemi motivazionali innati frutto dell’evoluzione: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento. Mentre in condizioni ottimali questi due sistemi funzionano in perfetta armonia (il bambino scappa dal pericolo rifugiandosi dalla mamma, ed essendone confortato disinnesca il sistema di difesa), nell’attaccamento disorganizzato la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di pericolo e di conforto, generando nel bambino un terrore senza sbocco.

La teoria polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.

Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento. Queste strategie controllanti funzionano bene finché una sollecitazione troppo intensa del sistema di attaccamento non le faccia collassare, facendo emergere il MOI disorganizzato. 

Questa teorizzazione, il cui sostegno da parte della ricerca sembra incoraggiante, ha una ricaduta di primaria importanza nella relazione terapeutica con pazienti traumatizzati: un terapeuta troppo accudente potrebbe far emergere i modelli operativi interni disorganizzati, con la fobia dell’attaccamento e la fobia della perdita di attaccamento, favorendo processi dissociativi. Un migliore assetto relazionale è invece garantito da una posizione collaborativa, paritetica, fra terapeuta e paziente. La costruzione e la riparazione dell’alleanza terapeutica ancora una volta, sembra essere uno dei principali strumenti del trattamento, soprattutto per pazienti pesantemente traumatizzati.

La giornata si conclude con una tavola rotonda in cui Antonio Onofri coinvolge i relatori della giornata e Pat Ogden in una preziosa riflessione proprio sul ruolo della relazione terapeutica.

Ciascuno, sottolineando quanto il lavoro degli altri abbia influenzato il proprio, riconosce come la relazione terapeutica sia lo strumento di guarigione, la base da cui partire per affrontare il lavoro con i pazienti. A fianco al dialogo esplicito è di fondamentale rilevanza il dialogo implicito, fra le parti inconsce del terapeuta e del paziente, in un viaggio in cui rotture e riparazioni dell’alleanza sono straordinarie occasioni di cambiamento. Ciò è possibile se si rinuncia a portare il paziente dove vogliamo noi e siamo disposti a chiedergli i suoi obiettivi, se si è pronti a essere curiosi, a essere insieme, a combattere insieme, anche a perdere insieme al paziente. La chiave non è cosa fare, ma stare col paziente, al suo fianco: diversi e collegati, per una piena integrazione.

Queste riflessioni diventano occasione per mostrare anche il merito principale di questo congresso e di questi grandi clinici e scienziati: la reciprocità, l’intersoggettività e l’integrazione non sono solo parole in questi giorni. E’ l’aria che si respira.  Tutti i relatori riconoscono quanto i contributi degli altri presenti siano stati negli anni apporti fondamentali al loro lavoro. Ognuno dalla propria prospettiva, ognuno a partire dalla propria disciplina, ha aggiunto un pezzo al grande e ambizioso puzzle: comprendere la mente umana e creare un modello di terapia integrato. E’ proprio questo secondo Siegel l’integrazione: differenza e collegamento.

Nell’ambito del trauma forse si riuscirà a fare quanto finora è stato possibile fare: andare oltre le singole fazioni, rinunciare alla competizione in favore di una più ampia collaborazione e creare un modello integrato, supportato dalla neurobiologia e dalla clinica, che possa davvero essere di aiuto a questi pazienti.

Dobbiamo imparare a usare il nostro cervello, il cervello sociale, come ricorda Liotti: il lavoro di ciascuno è influenzato dal lavoro di tanti colleghi, i nostri cervelli devono diventare molteplici, estendere i loro limiti, ricordando che tutti facciamo parte di qualcosa di più grande.

 

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La Teoria Polivagale su Attaccamento e Trauma (2014) – Report dal Congresso

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

I Giornata, II parte

S. Porges, Tavola rotonda (Liotti, Siegel, Gallese, Porges)

 

 

VEDI EVENTO

Il pomeriggio della prima giornata del congresso inizia con l’intervento di Stephen Porges, il quale, nell’esporre i capisaldi della teoria polivagale, da lui elaborata, cerca di rispondere alle seguenti domande:

  • in che modo le esperienze traumatiche e/o di abuso cronico alterano i processi omeostatici fisiologici e il comportamento sociale?
  • in modo il trauma distorce i processi percettivi e sostituisce i comportamenti sociali spontanei con reazioni di difesa?
  • quali trattamenti clinici consentono di intervenire su queste problematiche?

Si parte dalla premessa che gli esseri umani sono collegati gli uni agli altri (si tratta di una forma di adattamento funzionale alla sopravvivenza) e sono in grado di co-regolarsi. In questo quadro il comportamento rappresenta una qualità emergente che ha un substrato biologico: quando gli esseri umani non riescono ad entrare in relazione si verificano delle ricadute anche a livello corporeo; parimenti, lo stato fisiologico e psicologico influenza il comportamento.

La corteccia temporale è in grado di decodificare l’intenzionalità dei movimenti nei mammiferi; un ruolo molto importante viene rivestito dal muscolo ubicolare dell’occhio, dotato di una doppia innervazione, il quale entra in gioco nei contatti oculari (il contatto oculare è essenziale nel creare un senso connessione tra esseri umani, diventa meno importante solo quando c’è una connessione a livello fisico).

Nei processi comunicativi tra esseri umani non sono le parole e i contenuti verbali, bensì le caratteristiche melodiche, la prosodia, l’intonazione, i contenuti emotivi che agiscono sul nervo vago mielinizzato, il quale controlla anche l’attivazione del sistema di difesa.

Nelle esperienze traumatiche (nell’ambito della relazione di attaccamento) l’interazione sociale non è più fonte di sicurezza, cosa che può determinare uno stato dissociativo nella persona, la quale cerca, in questo modo, di distanziarsi da contenuti emotivi dolorosi; si verifica, a livello cerebrale, la violazione di “un’aspettativa neurale”, determinata dalla mancanza di reciprocità nella relazione e dall’assenza di sintonizzazione.

Ciò pone le premesse per un atteggiamento conservativo, osservabile nelle persone che hanno subito dei traumi, le quali sono portate ad interpretare le situazioni neutre come situazioni potenzialmente pericolose da cui bisogna difendersi.

La teoria polivagale, inoltre, mette in evidenza come sia necessario includere, nella gamma delle reazioni istintive di fronte ad una situazione di pericolo, non solo la reazione di attacco/fuga (fight/flight), ma anche la reazione dissociativa di paralisi e immobilità, congelamento con paura (shutdown), una stato di “finta morte” (aspetto sul quale tornerà poi Liotti nel suo intervento), antitetico all’immobilità senza paura, della persona che si sente al sicuro e si abbandona fiduciosamente alla relazione.

L’espressione facciale riflette in modo diretto lo stato polivagale della persona; attraverso un processo di “neurocezione” (si tratta di un processo neurofisiologico) il sistema nervoso valuta il rischio presente nell’ambiente circostante senza consapevolezza e, spesso, indipendentemente da una narrazione cognitiva. In questo quadro, è possibile che la neurocezione del pericolo, in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche, si attivi in modo automatico anche quando non esiste un pericolo “reale”.

Come possiamo, in qualità di terapeuti, andare ad intervenire? Avvalendoci del potere riparativo della comprensione della funzione adattiva delle reazioni allo stress, quale importante complemento al trattamento.

Gli interventi terapeutici efficaci devono promuovere una neurocezione della sicurezza, con i conseguenti miglioramenti nella salute mentale e fisica, permettendo a mobilizzazione e immobilità di aver luogo in uno stato di sicurezza, di assenza di percezione del pericolo.

A tirare le somme della prima giornata di lavori una tavola rotonda, moderata da Liotti, cui prendono parte Siegel, Gallese e Porges. Il moderatore chiede ai tre relatori di individuare i punti di interconnessione, tra i loro tre approcci, nel comprendere l’esperienza intersoggettiva.

Emergono punti di contatto legati all’importanza di valorizzare i vissuti corporei (Porges afferma che “Solo sentirci all’interno del corpo ci permette di sperimentare cosa sia davvero l’empatia”) e di sottolineare l’importanza dei neuroni specchio anche nella comprensione del trauma (i neuroni specchio delle persone traumatizzate sono ipereattivi e vigilanti).

In ambito terapeutico, ricorda Porges, è necessario individuare la stato fisiologico del cliente e capire come ne condiziona il comportamento. Inoltre, è estremamente importante prestare attenzione al linguaggio non verbale e alla prosodia della voce, tenendo presente che un paziente che ha subito un trauma può essere molto sensibile a stimoli acustici a bassa frequenza che ispirano un senso di pericolo; si tratta di una forma di vulnerabilità del sistema nervoso del cliente.

In conclusione, viene sottolineato da Gallese come la segregazione rigida tra azione, percezione e cognizione non ha ragion d’essere, dato che si tratta di funzioni che a livello cerebrale sono fortemente integrate.

 

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REPORT 1/4

Daniel Siegel & Vittorio Gallese su Attaccamento e Trauma (2014) Report

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

I Giornata, I parte – D. Siegel, V. Gallese

 

 

VEDI EVENTO

Il primo relatore a dare il via al confronto è Daniel Siegel, il quale, nell’ottica di analizzare quale sia l’impatto del trauma sull’integrazione neurale, esordisce con il porre, ad un uditorio composto in larga parte da psicologi e psicoterapeuti, la seguente domanda: “Perché ci definiamo professionisti della salute mentale, mind health, piuttosto che della salute del cervello?”.

I lavori di questi intensi tre giorni di full immersion sui temi dell’attaccamento e del trauma si aprono con un toccante ricordo della figura umana e professionale di Michele Giannantonio, prematuramente scomparso lo scorso Aprile; al suo costante impegno e lavoro di approfondimento e divulgazione proprio in merito a tali temi tanto dobbiamo, come sottolineato a nome di tutti da Pat Ogden.

Il primo relatore a dare il via al confronto è Daniel Siegel, il quale, nell’ottica di analizzare quale sia l’impatto del trauma sull’integrazione neurale, esordisce con il porre, ad un uditorio composto in larga parte da psicologi e psicoterapeuti, la seguente domanda: “Perché ci definiamo professionisti della salute mentale, mind health, piuttosto che della salute del cervello?”.

In altre parole, cosa differenzia il concetto di cervello da quello di mente, facendo sì che non siano due entità sovrapponibili? Siegel prova a rispondere elencando tre differenze fondamentali:

• l’esperienza soggettiva ed intersoggettiva – non c’è modo di evidenziare come l’esperienza che il soggetto ha di se stesso e del proprio sé in relazione con le soggettività altrui si correli con gli aspetti fisici e biologici del funzionamento cerebrale;

• la coscienza – non è possibile circoscrivere i meccanismi di funzionamento alla base della coscienza; se viviamo un’esperienza soggettiva senza esserne coscienti si tratta sempre di un’esperienza soggettiva o, invece, di un’esperienza puramente fisiologica?

• Il rapporto (relationship) tra le menti come condivisione e trasferimento di informazioni – le informazioni possono essere considerate in termini di energia, energia dotata di un significato.

Le nostre esperienze mentali si collocano sempre in un contesto relazionale e le relazioni danno forma alla nostra esperienza interiore; alla luce di questo appare riduttivo ritenere che la mente umana sia limitata al cranio, al corpo o al cervello, intendendo per mente unicamente il risultato delle attività cerebrali. La mente è, quindi costituita dal cervello e dalla rete di relazioni che esso intrattiene con la realtà circostante; i processi relazionali possono essere definiti, come detto in precedenza, in termini di scambi di informazioni.

Alla luce di queste premesse, quando andiamo ad analizzare i processi di attaccamento studiamo come la mente del bambino si sviluppa sotto l’influenza del contesto relazionale in cui egli è immerso. Allo stesso modo, nell’attività clinica noi ci serviamo della relazione terapeutica per apportare delle modifiche al cervello del nostro cliente.

 

La mente può, quindi, essere definita come un sistema, un sistema caratterizzato da un processo di funzionamento ricorsivo: la mente crea se stessa nel rapporto con se stessa e con gli altri; si tratta di un sistema complesso in quanto sistema aperto, caotico (disposto in modo casuale) e non lineare (input piccoli determinano risultati ampi e non prevedibili).

In qualità di professionisti della salute mentale dobbiamo favorire, nei nostri clienti, il funzionamento sano della mente. Ma cosa si intende per mente sana? Per Siegel la risposta sta nella parola integrazione: una mente sana è una mente integrata.

Affinché il sistema-mente sia integrato è necessario che esso sia flessibile, adattivo, coerente ed energizzato, collegando in modo armonico l’una all’altra le parti differenziate che lo compongono. Nell’esplicitare questo concetto Siegel si avvale della metafora del coro: una mente sana ed integrata funziona armonicamente come le singole voci di un unico coro che, pur mantenendo la loro differenziazione si armonizzano l’una con l’altra producendo un suono comune, prodotto dal contributo di ogni voce componente.

Anche alla base del processo di attaccamento c’è un processo di sintonizzazione, quello tra bambino e caregiver: una relazione di attaccamento sana è una relazione che oscilla in modo armonico tra i poli della differenziazione e della integrazione.

La comunicazione integrata all’interno di una relazione di attaccamento sicuro stimola nel bambino integrazione a livello di sviluppo cerebrale, mentre esperienze traumatiche e/o di abuso, sempre nell’ambito della relazione con le figure di attaccamento, influiscono negativamente sullo sviluppo delle seguenti aree cerebrali:

• corpo calloso (la connessione tra emisfero destro e sinistro);

• ippocampo (area medio-temporale);

• corteccia pre-frontale (zona ricca di neuroni specchio che gioca un ruolo molto importante nei processi di connessione e di relazione con le soggettività altrui).

L’aver subito, durante l’infanzia, esperienze traumatiche nell’ambito della relazione di attaccamento (esperienze di abuso e/o di trascuratezza, la quale può determinare, nelle fibre nervose, un livello di disorganizzazione persino maggiore rispetto all’abuso) incide in modo diretto sulla formazione dei neuroni specchio; ciò significa che l’attaccamento compromesso da un trauma rappresenta un attacco massivo all’integrazione interpersonale. In altre parole, anche a livello neuronale è possibile constatare come le esperienze traumatiche condizionino negativamente le abilità introspettive e le capacità relazionali del soggetto.

In questo quadro il soggetto va aiutato a recuperare l’integrazione sia a livello interiore, promuovendo l’enterocezione (capacità di percepire le sensazioni interne) e la mind-sight (capacità di percepire i processi mentali interiori), che a livello relazionale, acquisendo la capacità di imparare a gestire la soggettività e di monitorare le relazioni.

Una delle principali finalità della mindfulness, di cui oggi tanto si parla, è proprio quella di aumentare l’integrazione nelle aree non integrate del cervello, aiutando il paziente a “sentirsi sentito”; l’integrazione si estrinseca anche nella relazione terapeutica attraverso l’empatia, la presenza, la sintonizzazione, la fiducia e la capacità di “onorare le differenze”, per usare le parole dello stesso Siegel.

 

L’intervento successivo di Vittorio Gallese si colloca sulla stessa lunghezza d’onda concentrandosi sul tema dell’intersoggettività; vengono analizzati i seguenti aspetti:

• il ruolo dei neuroni specchio

• la simulazione incarnata

• l’approccio relazionale in seconda persona alla cognizione sociale.

Partendo dalla premessa che i fenomeni mentali e fenomeni fisiologici non sono altro che le due facce della stessa medaglia, Gallese mette l’accento sulla necessità che gli esseri umani hanno, nel relazionarsi agli altri, di interpretare e di ricondurre alla categoria di “fenomeni mentale” i comportamenti osservati, i quali vengono percepiti in termine di “mera azione biologica”.

Questo processo di riconversione attiene alla Teoria della Mente, la quale cerca di spiegare come noi attribuiamo agli altri, sulla base delle azioni che vediamo loro compiere, degli stati mentali; ciò implica la necessità di superare il gap che separa gli esseri umani, intesi come monadi ognuna dotata della propria mente, attraverso la capacità di attribuzione di significato e di “mentalizzazione” dei comportamenti osservati.

In questo quadro, è un obiettivo ancora difficile da raggiungere, da parte dei neuroscienziati, l’elaborazione di un modello che spieghi in modo esaustivo come, a livello di funzionamento cerebrale e di circuiti neuronali, gli esseri umani sono in grado di comprendere gli stati mentali altrui.

Piuttosto che lasciarsi sedurre da prospettive riduzionistiche, che non rendono conto della complessità dell’oggetto di studio, conviene optare per un differente approccio epistemologico.

La scoperta dei neuroni specchio ha modificato in modo in cui concettualizziamo l’intersoggettività: abbiamo capito che, nel relazionarci agli altri, non ci limitiamo semplicemente ad osservare i loro comportamenti per poi provare a capirli (ossia ad attribuire loro un corrispondente stato mentale) attraverso un processo di inferenza per analogia (rapportandoli ai nostri comportamenti e stati mentali); noi siamo in grado, attraverso processi di simulazione, di mappare le azioni degli altri utilizzando le nostre rappresentazioni motorie e somato-sensoriali.

Di conseguenza, noi abbiamo accesso alla conoscenza degli altri attraverso l’intercorporeità, che rappresenta un modo di innovativo di ripensare l’intersoggettività; si tratta di un assunto dimostrato sul piano sperimentale, utile anche per spiegare l’impatto dei traumi sulla personalità degli individui (in tal senso viene proposto uno studio che dimostra come esperienze traumatiche precoci contribuiscono a costruire un “muro difensivo” rispetto alle emozioni altrui) per ripensare da una prospettiva differente le dinamiche del setting terapeutico.

 

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ATTACCAMENTO TRAUMA

Come rendere efficace un annuncio di lavoro

FLASH NEWS

 

Gli annunci che hanno fatto leva sulle esigenze, desideri e preferenze dei candidati hanno ricevuto più visite, rispetto a quelli che sottolineavano le esigenze della società.

Nel mondo del lavoro e della ricerca del personale dover scegliere tra una rosa di candidati con curricula scadenti, competenze e qualifiche basse, è quanto di peggio possa capitare a un responsabile delle risorse umane. Un insieme di curricula mediocri, però, non riflette necessariamente una carenza di talenti disponibili sul mercato del lavoro, ma può essere, più semplicemente, il risultato del linguaggio usato negli annunci di reclutamento.

Secondo una ricerca dell’Università di Saskatchewan, sembra infatti, che gli annunci abbiano una migliore possibilità di attrarre buoni candidati quando sottolineano ciò che il lavoro offre, piuttosto che ciò che richiede ai candidati.

La ricerca si basa sulla premessa che chi cerca lavoro è attratto da posizioni che non si adattano solo alla necessità di uno stipendio, ma anche al bisogno psicologico di realizzazione e di raggiungere dei risultati.

Il team di ricercatori ha ipotizzato che sia possibile creare annunci di lavoro che siano universalmente attraenti e questo anche specificando quanto soddisfacente e significativo potrà essere svolgere quel lavoro.

Schmidt e il suo team hanno lavorato con una grande società di ingegneria e di consulenza multinazionale, manipolando il testo degli annunci di lavoro online che la società aveva predisposto per le posizioni di ingegnere, progettazione tecnica e gestione del progetto. Alcuni annunci mettevano in risalto l’autonomia e le opportunità di avanzamento offerte dal lavoro. Altri sottolineavano principalmente i requisiti richiesti dall’azienda per la posizione da occupare.

I ricercatori hanno monitorato il numero di visualizzazioni on-line di ciascun annuncio e il livello di formazione, esperienza e competenza delle persone che li hanno visualizzati. Successivamente tra quelli che hanno inoltrato domanda per le posizione offerte i ricercatori hanno indagato le loro percezioni sull’annuncio di reclutamento.

Come atteso, gli annunci che hanno fatto leva sulle esigenze, desideri e preferenze dei candidati hanno ricevuto più visite, rispetto a quelli che sottolineavano le esigenze della società. Inoltre, gli annunci che sottolineavano la realizzazione personale e opportunità di carriera hanno attratto candidati con profli professionali più elevati.

Un altro dato interessante riguarda le differenze nel tipo si posizioni offerte. La domanda per professioni tecniche, quali ingegneri e designer è particolarmente elevato rispetto a quella del personale amministrativo, e lo studio ha dimostrato che il livello dei candidati tecnici era superiore quando l’annuncio faceva appello ai bisogni psicologici dei candidati. Al contrario, la formulazione degli annunci non ha avuto alcun effetto sul livello dei candidati che cercavano le posizioni amministrative.

Questo risultato indica che persone di talento, soprattutto in settori ad alta richiesta, sono significativamente più concentrate su come trovare le posizioni che soddisfano le loro esigenze, rispetto a di chi cerca posizioni amministrative meno negoziabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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