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Amare gli animali e mangiare gli animali: come riduciamo la dissonanza cognitiva del “meat paradox”

FLASH NEWS

 

E’ il meccanismo della riduzione della dissonanza cognitiva che ci viene davvero in aiuto ogni qualvolta, seppur consapevoli dell'”umanità” animale, ci facciamo una bella bistecca: a 9 su 10 di noi, non potendo adattare il proprio comportamento al proprio sistema di credenze e valori (per esempio diventando vegetariani), non resta che adattare le proprie idee al comportamento.

L’italiano medio consuma 81 kg di carne all’anno, poca se si considera che l’americano tipo ne consuma invece più di 250, un appetito alimentato dal massacro di 10 miliardi di animali. Il consumo di carne convive, nella maggior parte delle persone, con la cura e l’amore per gli animali, sopratutto quelli domestici. Ma come viene gestita la tensione psicologica creata da questi comportamenti apparentemente così contrastanti?

Steve Loughnan dell’Università di Melbourne lo chiama il “paradosso della carne”. Lui e il suo team hanno lavorato anni per comprendere il lavorio mentale a cui ricorriamo per risolvere e convivere con questo dilemma morale.

Il modo più sicuro e più ovvio per eliminare questa tensione morale e psicologica è quello di astenersi dal mangiare carne, diventando vegani o vegetariani. Molti vegani dicono che sono disgustati dall’idea di mangiare carne, e il disgusto è un’emozione potente.

Ma non sono molti a compiere questo passo. Questo perché la carne ci piace, ha un buon sapore, e mangiarla ci dà piacere. È l’interazione tra piacere e disgusto a determinare se ci asteniamo o cediamo di fronte ad un hamburger. 

Loughnan si è chiesto a cosa è attribuibile il trionfo del piacere o quello del disgusto, e per scoprirlo ha studiato i carnivori stessi: Quali sono i loro atteggiamenti e valori in genere? come percepiscono bovini e cani? Come fanno pendere la bilancia verso il piacere e tengono lontano il disgusto?

Lui e il suo team hanno trovato alcune differenze interessanti tra i mangiatori di carne e vegetariani. Ad esempio, i mangiatori di carne tendono ad essere più autoritari, accettano l’espressione dell’aggressività e sono anche più propensi ad accettare le disuguaglianze e ad abbracciare le gerarchie sociali.

A quanto pare questi atteggiamenti verso altri esseri umani gli permettono di percepire il consumo di carne come meno problematico moralmente. II mangiare carne è anche strettamente legato all’identità maschile, come se nell’immaginario comune i “veri uomini” non mangiassero niente che non si stacchi da un osso!

Questi valori personali si riflettono anche nelle credenze sugli animali che mangiamo, cioè sulla percezione che abbiamo della loro mente e su quanto li percepiamo simili a noi. Quello che ci domandiamo, insomma, è: “ma gli animali soffrono? E quanto consapevoli del dolore che provano?”.

Loughnan e il suo team hanno scoperto che mangiare un animale “consapevole” e “pensante”, ad esempio un cane, è pecepito come più immorale e disgustoso del mangiare un maiale, percepito come meno consapevole.

Tutte queste percezioni, combinate tra loro a formare il punto di vista individuale di ciascuno, forniscono uno strumento cognitivo potente per risolvere il “paradosso della carne”. Uno in particolare sembra permetterci di salvare capra e cavoli: percepiamo gli animali come capaci di soffrire, ma non se li uccidiamo “umanamente”.

Ma è il meccanismo della riduzione della dissonanza cognitiva che ci viene davvero in aiuto ogni qualvolta, seppur consapevoli dell’”umanità” animale, ci facciamo una bella bistecca: a 9 su 10 di noi, non potendo adattare il proprio comportamento al proprio sistema di credenze e valori (per esempio diventando vegetariani), non resta che adattare le proprie idee al comportamento…ecco allora che l’animale che ci stiamo per mangiare diventa improvvisamente meno “pensante”, e quindi meno in grado di pecepire la sofferenza.

 

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Mangiare o non mangiare animali?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Loughnan, S., Bratanova, B., & Puvia, E. (2012). The Meat Paradox: How are we able to love animals and love eating animals. In-Mind Italia, 15-18. DOWNLOAD

L’educazione religiosa nei bambini riduce la loro capacità di distinguere tra fantasia e realtà

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Secondo un’interessante ricerca pubblicata su Cognitive Science i bambini che ricevono un’educazione religiosa avrebbero difficoltà a distinguere tra realtà e finzione. 

I ricercatori hanno presentato a un campione di 66 bambini di 5 e 6 anni tre diversi tipi di storie – religiose, fantastiche e realistiche – allo scopo di valutare quanto i bambini fossero in grado di identificare nelle narrazioni elementi impossibili o di fantasia.

I risultati indicano che i bambini che avevano ricevuto un’educazione religiosa erano significativamente meno capaci rispetto agli altri di identificare gli elementi soprannaturali e fantastici del racconto, come ad esempio gli animali parlanti. 

I racconti religiosi ricchi di elementi apparentemente impossibili (ad esempio, Gesù che trasforma l’acqua in vino) diventano per loro l’impalcatura affidabile alla quale affidare il loro sistema di categorizzazione, che ne risulta compromesso quando si trovano a dover discriminare tra elementi di fantasia e reali.

Confutando l’idea che i bambini siano “credenti nati”, gli autori concludono: “l’insegnamento religioso, in particolare l’esposizione a storie di miracoli, porta i bambini ad una ricettività più generica verso l’impossibile, cioè, una più ampia accettazione che l’impossibile può accadere a dispetto di relazioni causali ordinarie.”

 

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Neurocezione e relazioni sociali: Il contributo della Teoria Polivagale

Molto spesso la sofferenza psicologica è determinata proprio dal “fallimento” della neurocezione e può riguardare due aspetti centrali per la nostra sopravvivenza: l’incapacità di disattivare il sistema di difesa in condizioni di sicurezza o al contrario l’impossibilità di attivare comportamenti difensivi in situazioni di pericolo.

Osservando i neonati o bambini molto piccoli è esperienza molto comune vederli reagire in modo diverso allo stesso gioco o allo stesso abbraccio in presenza di persone diverse. Allo stesso modo possono ricercare attivamente l’attenzione di un estraneo o sentirsi terrorizzati dal suo solo ingresso nella stanza in cui fino ad un attimo prima giocavano serenamente. Cosa determina queste reazioni?

Secondo il modello di Stephan Porges, già discusso in precedenti contributi sull’argomento, il nostro sistema nervoso sarebbe costantemente impegnato nella valutazione dei rischi, attraverso la continua elaborazione di informazioni e stimoli che dall’ambiente raggiungono i nostri sensi: Neurocezione è il termine coniato dal Prof. Porges per spiegare questo processo.

La nostra eredità come specie ha reso necessaria sin da subito questa abilità per riconoscere i predatori e ancora oggi questo istinto resta scritto nei circuiti neurali più primitivi e ci porta ad avere comportamenti di socializzazione verso persone familiari e comportamenti difensivi verso gli estranei. Il tutto avviene in base a quanto ci sentiamo al sicuro e questo sin dai primissimi attimi di vita!

Molto spesso la sofferenza psicologica è determinata proprio dal “fallimento” della neurocezione e può riguardare due aspetti centrali per la nostra sopravvivenza: l’incapacità di disattivare il sistema di difesa in condizioni di sicurezza o al contrario l’impossibilità di attivare comportamenti difensivi in situazioni di pericolo.

Le moderne tecniche di neuroimaging ci hanno dato la possibilità di individuare le aree del cervello che si “accendono” tutte le volte che ci sentiamo al sicuro (lobi temporali) e che sono in grado di “spegnere” i circuiti neurali responsabili delle risposte difensive (attacco, fuga, freezing, svenimento). Le stesse aree temporali promuovono i processi di affiliazione e comportamenti pro sociali tra esseri umani, grazie all’attivazione di ormoni che favoriscono un legame empatico, positivo e cooperativo.

Uno dei più coinvolti nella capacità di costruire e trarre benessere dalla relazione con gli altri è l’ossitocina: molto presente durante le ultime fasi della gravidanza, il parto e le primissime fasi di vita del bambino, viene rilasciata nel nostro cervello ogni volta che da adulti sentiamo piacere nel contatto o nell’abbraccio di una persona cara, ogni volta che riusciamo a sentire profonda intimità con l’altro. Al contrario non vi è alcun rilascio di ossitocina se ci sentiamo minacciati da un contatto o dall’abbraccio di qualcuno. La stessa esperienza non è più fonte di sicurezza e, dunque, neanche di piacere. 

Il passo successivo all’inibizione dei circuiti difensivi è dunque guadagnare la prossimità fisica e il contatto. Quali sono i segnali del corpo che consentono di ridurre la distanza e di entrare in contatto con gli altri?

Il modo in cui l’altro si muove verso di noi, con il suo corpo e con la sua presenza, determina indubbiamente la lettura che facciamo delle sue intenzioni: ci aiuta a distinguere una ricerca di contatto intimo e affettuoso da una ricerca di contatto violento, minaccioso.

Se tuttavia il sistema di attaccamento sociale fosse legato alla sola lettura ed espressione del movimento volontario, i neonati sarebbero enormemente svantaggiati proprio perché in loro lo sviluppo neurale del sistema motorio corticale, legato al movimento intenzionale, è completamente immaturo.

La ricerca di contatto e prossimità sembra piuttosto dipendere, all’inizio della nostra vita, dal modo in cui muoviamo i muscoli del volto e della testa, regolati da vie neurali più primitive che legano la corteccia al tronco cerebrale (vie cortico spinali). Attraverso questi muscoli riusciamo a dare espressione al volto, a regolare il tono della voce, a direzionare lo sguardo e a distinguere la voce umana tra rumori di fondo.

Queste vie neurali sono sufficientemente sviluppate sin dalla nascita e consentono al neonato di attivare il caregiver attraverso vocalizzazioni e smorfie e di entrare in contatto con il mondo attraverso la direzione dello sguardo, il sorriso e la suzione.

La regolazione neurale e la tonicità dei muscoli del volto e della testa influenzano dunque enormemente come ognuno di noi percepisce l’altro e come l’altro legge le nostre emozioni; il perfezionamento di questa regolazione reciproca e positiva riduce gradualmente la distanza necessaria alla sicurezza, favorendo la costruzione di una maggiore intimità e, nel tempo, di un legame affettivo più forte e solido.

Questo ‘scambio di segnali di sicurezza’ permette a noi esseri umani, sin dalla nascita e poi da adulti, di mantenere il legame e comunicare efficacemente con l’altro attraverso:

 – il contatto oculare, 

– le vocalizzazioni o un tono di voce in grado di attirare gli altri, 

– il ritmo e il suono della voce, 

– le espressioni facciali congrue a come ci sentiamo e 

 la modulazione dei muscoli dell’orecchio medio, per distinguere la voce umana dai rumori di fondo. 

Al contrario, quando la tonicità e la regolazione di questi muscoli è ridotta, la risposta del corpo cambia e cambiano i messaggi che diamo e che riceviamo dagli altri:

– le palpebre sono più chiuse e limitano il contatto oculare, 

– la voce diventa più stereotipata e perde le inflessioni, 

– le espressioni facciali positive scompaiono, 

– la percezione del suono della voce umana diventa meno intensa, 

– la sensibilità e l’interesse per la vicinanza dell’altro si riduce drasticamente. 

La ridotta tonicità e reattività dei muscoli del volto può essere causata da molte situazioni: succede automaticamente in risposta alla neurocezione di un pericolo o di una minaccia alla propria vita proveniente dall’ambiente esterno (es. persona, situazione, evento stressante) oppure può essere determinata da un’alterazione dell’equilibrio interno (es. malattia, dolore fisico, malessere psicologico).

Il nostro modo di interagire con gli altri e di ingaggiarci in legami sociali può variare enormemente in tutte queste situazioni. E’ importante sottolineare a questo proposito come non è solo l’attivazione intensa di questi muscoli legata ad emozioni negative (rabbia, paura) ad essere riconosciuta come pericolosa dal nostro sistema neurocettivo, ma anche un’espressione piatta (still face) come quella di un genitore depresso o di un bambino malato può essere percepita come minacciosa per la vita e inibire la regolazione affettiva spontanea nei processi di interazione sociale e nella lenta costruzione di legami di reciprocità.

In presenza di disturbi psichiatrici e di sofferenza psicologica, in cui la minaccia è spesso interna e legata ad una cronica incapacità di sentire e mantenere un senso di sicurezza personale, si è spesso portati a vivere il rapporto con l’altro in modo estremo e disfunzionale cercando la regolazione affettiva (e neurobiologica) di cui abbiamo bisogno in modo pressante e incongruo o talora rinunciando a questa regolazione, rifiutando ogni contatto, disinvestendo completamente nella possibilità di essere aiutati o confortati dalla sola vicinanza dell’altro.

Anche nelle relazioni adulte, e la psicoterapia è spesso soprattutto questo, è possibile rintracciare questi segnali di disarmonia (difficoltà nel mantenere una contatto oculare, occhi chiusi, sguardo in basso, testa reclinata in basso o lateralmente, voce alta o improvviso calo del tono di voce, espressioni del viso incongrue rispetto al dialogo in corso,..) e riuscire a leggerli in tempo, su se stessi e sugli altri, può aiutare nel ripristinare una buona regolazione e una più efficace comunicazione.

Grazie al Prof. Porges ora sappiamo che tutti questi cambiamenti hanno a che fare con sistemi neurobiologici molto primitivi e ci segnalano sempre che qualcosa di importante sta avvenendo nella relazione o nella situazione in cui siamo. Sta a noi coglierli o lasciarli inosservati.

DA SEGNALARE:

Per ulteriori approfondimenti su aspetti clinici della Teoria Polivagale, il Prof. Porges sarà a Milano il 25 e il 26 Ottobre 2014 in occasione del Convegno dal titolo: “APPLICAZIONI CLINICHE DELLA TEORIA POLIVAGALE: IL POTERE TRASFORMATIVO DELLA SENSAZIONE DI SICUREZZA”.

 

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La Teoria Polivagale: fisiologia della paura – Report dal Congresso 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il dialogo con le voci: come conoscere e ascoltare il lato oscuro di sè

 

La scoperta dei tanti sé che abitano la nostra psiche e guidano la nostra vita è il compito numero uno nel percorso di consapevolezza. E’ solo assumendo responsabilità delle nostre parti che possiamo smettere di vederle negli altri. Reclamando la nostra intera eredità, possiamo vedere gli esseri umani, compresi noi stessi, con maggior compassione e comprensione. 

Dall’epoca dell’Illuminismo l’umanità ha rinnegato tutte le energie “più oscure” come la passionalità, l’irrazionalità, il misticismo, il dubbio, il paradosso ed ha ammirato, quasi venerato, la razionalità, il distacco, l’obiettività scientifica, la chiarezza.

In tal modo è stato negata gran parte dell’informazione che era accessibile a noi in quanto esseri umani. Abbiamo negato anche la nostra collera, la nostra irritabilità, mancanza di sicurezza e confusione, in favore di equilibrio, buon umore, certezza e fiducia in noi stessi. 

I “sette vizi capitali ” (dal latino vitium = difetto, abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) cioè sessualità, sensualità ed emotività, sono bisogni naturali e per lungo tempo sono stati rinnegati poiché intesi come inclinazioni morali e comportamentali distruttivi per l’animo umano, e sono stati contrapposti alle virtù, che invece promuovevano la crescita.

Tutte le attitudini considerate immorali e devianti sono state estirpate dalla società e poiché considerate inaccettabili, si sono trasformate in lato oscuro.

Il lato oscuro è quella parte di ciascuno di noi che nascondiamo a noi stessi o agli altri poiché inaccettabile. E’ ragionevole ritenere che ci voglia una gran quantità di energia per tenere sepolta la nostra vita istintiva, e quanto più a lungo e profondamente è sepolta, tanto più oscura diviene e tanta più energia è necessaria per tenerla sepolta.

 

I nostri sé

Agli inizi degli anni ’70 gli psicologi Stone cominciano ad interessarsi alle tematiche legate alla psicologia dei Sè ed affermano che la psiche contiene molti sé individuali, ognuno con una sua modalità di percezione della realtà, con la sua storia personale, le sue caratteristiche fisiche, le sue reazioni emotive, le sue opinioni su come dovremmo vivere la nostra vita (Stone & Stone, 1996).

Sidra e Hal Stone affermano:

[blockquote style=”1″].. Molto presto nelle nostre esplorazioni iniziammo a vedere che noi siamo composti da sé primari ovvero un gruppo di sé che definiscono la nostra personalità. Ogni volta che ci identifichiamo con un sé primario dall’altra parte c’è, uguale e contrario, il suo opposto ovvero un sé rinnegato. Cominciammo a vedere, comunque, che il vero dono del lavoro non era semplicemente parlare con i sé primari. Al contrario, iniziammo a vedere che il significato vero del lavoro era nel lavorare direttamente con gli opposti. Sembrava importante imparare a separarsi dai sé primari, parlare con i sé rinnegati, e poi imparare a stare fra gli opposti (dei sé primari e rinnegati) sentendoli chiaramente entrambi contemporaneamente. Erano gli opposti ad essere importanti.[/blockquote]

Quando l’Io viene a confrontarsi con la pressione di angosce non elaborabili, percepite come disintegranti e non è possibile integrare in coscienza le parti che abitano il lato oscuro, si verifica l’attivazione di un meccanismo di difesa che Melanie Kein definisce con il termine identificazione proiettiva (Kein, 1946) secondo cui si introducono parti scisse di sé all’interno dell’oggetto esterno al fine di possederlo e controllarlo.

Dalle parole di Klein:

[blockquote style=”1″]Una delle primissime difese nei confronti della paura dei persecutori, siano questi immaginati nel mondo esterno o interiorizzati, è costituita dalla scotomizzazione, cioè dal diniego della realtà psichica; questo può produrre una limitazione considerevole dei meccanismi dell’introiezione e della proiezione e tradursi in diniego della realtà esterna, una situazione che costituisce la base delle psicosi più gravi.[/blockquote]

Se non permettiamo a queste parti che ci appartengono di dialogare con noi, se continuiamo a rinnegarle, esse aumenteranno di intensità, verranno proiettate all’esterno e alla fine proromperanno nelle nostre vite fuori controllo. Al contrario noi abbiamo più possibilità di controllarle quando è permesso loro di esprimersi in modo equilibrato e di essere ascoltate.

La scoperta dei tanti sé che abitano la nostra psiche e guidano la nostra vita è il compito numero uno nel percorso di consapevolezza. E’ solo assumendo responsabilità delle nostre parti che possiamo smettere di vederle negli altri. Reclamando la nostra intera eredità, possiamo vedere gli esseri umani, compresi noi stessi, con maggior compassione e comprensione.

Il Dialogo con le Voci 

Il Dialogo con le Voci fornisce l’accesso diretto alle sub-personalità (i nostri sé) e offre l’occasione di separarle dalla personalità totale e di trattarle come unità psichiche indipendenti ed interagenti. Usando il Dialogo con le Voci ci si rivolge direttamente ad ogni sub-personalità, sia come entità individuale, sia come parte di una personalità totale.

 

Questa tecnica ho lo scopo di aumentare consapevolezza nella costituzione psicologica del soggetto. Questa è una esplorazione rilassata e allo stesso tempo vigile che tende ad incoraggiare la voce a parlare della persona in questione come di un’entità separata. Poiché le voci sono come persone, se il facilitatore è veramente disponibile ed interessato, esse si aprono; se al contrario sentono la mancanza di accettazione o la disapprovazione, tendono a ritirarsi o perfino ad aggredire.

Inoltre, il Dialogo con le Voci è un esplorazione congiunta, e questo atteggiamento allontana il vincolo relazionale genitore-bambino ma incoraggia il soggetto ad evitare di rinunciare al proprio potere in favore di quello del facilitatore. Infatti, lo scopo ultimo è l’espansione della coscienza e non la convalida della visione del facilitatore.

Il Dialogo con le Voci è a volte utilizzato nel lavoro con gli uditori di voci e prevede una o più conversazioni dove il facilitatore entra in contatto direttamente con le voci che la persona sente ed il soggetto uditore riporta ciò che la voce risponde (Cortens et al., 2007).

Secondo questa prospettiva, in accordo con quanto prima espresso, le voci vengono considerate vere per la persona che le sente e quindi vengono esplorate, riconosciute, onorate ed ascoltate (Romme & Escher, 2000). Nella sostanza non vi sono grandi differenze se non che l’uditore non riconosce la voce come parte di sé.

Lo scopo ultimo del dialogo con le voci è quello di una esplorazione vigile e rilassata di chi sono le voci e di cosa vogliono dalla persona e si pratica solo quando certe condizioni sono soddisfatte, ad esempio la piena volontà di collaborazione da parte dell’uditore.

La persona stessa può essere incoraggiata a strutturare una parte della giornata per ascoltare e dialogare con le sue voci, ad esempio dandosi degli appuntamenti quando sono entrambe le parti disponibili (questo potrebbe aiutare la persona ad entrare in una migliore relazione con la voce).

Lo scopo del rapportarsi con le voci, anche quelle più critiche, consiste nello scoprire la funzione protettiva delle voci più aggressive e comprendere quali siano le esperienze che elicitano la loro ira. Quando l’emozione che guida la voce aggressiva è riconosciuta ed accettata, di solito la voce si calma o si ritira (May, 2014). Questa tecnica con gli uditori di voci può essere unita a tecniche derivanti dalla Gestalt (ad esempio la tecnica della sedia vuota) e dalla Drama Therapy.

Cambiare il rapporto con le proprie voci potrebbe essere di grande aiuto per le persone che provano forte stress dovuto alla presenza di voci critiche, aggressive ed invalidanti. Questo viaggio di scoperta e consapevolezza può essere affrontato all’interno di un percorso più ampio che prevede la collaborazione di diverse figure professionali e di altri significativi per la persona.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Atei & Credenti: cambia il senso della moralità?

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L’idea secondo cui gli atei sarebbero più immorali dei credenti appare allora erronea, come risulta indagando su questa linea sia in termini pratici che teorici.

Che gli atei siano malvisti dall’opinione pubblica non è difficile da credere; in un ipotetico indice di gradevolezza, tale categoria risulterebbe in fondo alla lista.

Molti studi si muovono in questa direzione; ad esempio la ricerca del Professor Edgell dell’University of Minnesota dimostra che gli Americani condividono meno la visione della società che hanno le persone atee, rispetto ad altri gruppi quali, ad esempio, i musulmani, i cristiani, gli omosessuali, gli immigrati. Questo anche in seguito ai fatti dell’11 Settembre, che avrebbero fatto piuttosto pensare ad una generica tendenza da parte degli americani a disapprovare il pensiero delle persone musulmane.

In uno studio pubblicato da Gervais nel 2011, si richiede ad un campione di 105 persone di leggere un testo in cui si descrivono due azioni immorali (urtare una macchina in un parcheggio senza lasciare il proprio numero e rubare i soldi da un portafoglio trovato gettandolo in seguito nella spazzatura) commesse da Richard, un personaggio immaginario; si chiede dunque ai soggetti di avanzare delle ipotesi sulla categoria di appartenenza di tale personaggio: insegnante, oppure insegnante e cristiano, insegnante e musulmano, insegnante e stupratore o, infine, insegnante ed ateo.

 

Ebbene, la maggior parte dei soggetti ha scelto quest’ultima ipotesi ovvero, in altre parole, è più facile che una persona si “comporti male” quando sia atea; è interessante notare che, nello specifico, è anche più probabile che una persona commetta azioni immorali quando si tratti di un ateo, piuttosto che quando si tratti di un violentatore.

Quanto detto finora, ci porta a concludere che la maggior parte delle persone crede che il pensiero ateo sia socialmente incompatibile e più immorale rispetto a quello di altre minoranze, stupratori compresi.

Questa credenza risulta insostenibile alla luce di due osservazioni. Le statistiche, innanzitutto. Ammesso che consideriamo la criminalità come indice di immoralità, gli atei detenuti nelle prigioni americane sono solo lo 0,07%. In testa alla statistica ci sono piuttosto Cristiani, Protestanti e Musulmani.

La seconda osservazione è che, per l’appunto, la definizione del concetto di moralità risulta essere problematica. I credenti, per esempio, definiscono il fatto di non avere una fede in sé stesso immorale. Quindi, secondo questa logica, gli atei sono, a prescindere, individui immorali.

In uno studio pubblicato in Settembre 2014, Hoffman dimostra che gli stessi atti sono ugualmente considerati morali oppure immorali dagli atei e dai credenti. Il ragionamento, dunque, risulta fallace a causa dell’ambiguità della definizione stessa del concetto di moralità.

L’idea secondo cui gli atei sarebbero più immorali dei credenti appare allora erronea, come risulta indagando su questa linea sia in termini pratici che teorici.

Si spera che le persone possano in futuro guardare all’ateismo con una mente più aperta anche perché, come disse Gervais, se si eliminassero dalla popolazione americana tutte le persone atee ed agnostiche, si perderebbe il 93% della popolazione della National Academy of Sciences, e meno dell’1% degli individui detenuti nelle prigioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Altruismo: si è sviluppato da ragioni egoistiche

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Gli autori suggeriscono che gli animali che vivono in gruppo, inclusi gli esseri umani, hanno sviluppato una sensibilità verso l’ingiustizia per evitare di essere sfruttati all’interno del gruppo di appartenenza.

“Assicurati di giocare correttamente” dicono spesso i genitori ai loro figli. In realtà, i bambini non hanno bisogno d’incoraggiamenti per essere onesti, è una caratteristica della vita sociale che emerge durante l’infanzia.

Quando ai bambini si dà la possibilità di condividere i dolci, essi tendono a comportarsi egoisticamente, ma dall’ età di 8 anni la maggior parte preferiscono distribuire le risorse per evitare le disuguaglianze, almeno all’interno del proprio gruppo.

I biologi sono sorpresi da questa tendenza dei bambini a comportarsi altruisticamente. La teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale prevede che gli individui si comportino così in modo da massimizzare il proprio benessere; quindi vengono selezionati solo quei comportamenti che garantiscono la sopravvivenza e la riproduzione dell’individuo singolo o della famiglia a cui fa parte . Tuttavia, il comportamento mostrato dai bambini sembra essere opposto, mostrando dei comportamenti altruistici nei confronti dei loro compagni con cui non sono imparentati.

Il senso di correttezza, egualitarismo o l’avversione verso la disuguaglianza, può essere “danneggiato” dalle istruzioni ricevute per “essere corretti” e dalle ricomprese associate a tali comportamenti.

Questo succede in quanto una motivazione intrinseca del bambino viene trasformata in una regola imposta dall’esterno. E come ben si sa è più semplice seguire le regole in cui si crede invece di quelle che vengono imposte dall’esterno.

 

Gli uomini sono di natura prosociali. Spesso siamo motivati ad aiutare il prossimo in assenza di una richiesta esplicita d’aiuto, come per esempio nel pianto. Poiché le pratiche culturali non influenzano in modo diretto le tendenze prosociali dei bambini in via di sviluppo si pensa che il senso di correttezza che essi possiedono deve aver avuto una forte valenza positiva durante il corso dell’evoluzione umana.

In un recente studio pubblicato sulla rivista Science, Sarah Brosnan dell’Università di Georgia e Frans de Waal della Università di Emory, hanno indagato come si è evoluta la nostra capacità di essere corretti e di reagire di fronte alle ingiustizie.

Per il presente studio sono state studiate le risposte in specifici compiti di diverse specie di primati (scimmie cappuccino e scimpanzé) cani, uccelli e pesci. Dai risultati è emerso che solo gli scimpanzé reagiscono negativamente quando all’interno del gruppo dei pari vengono ricompensati di meno per lo stesso comportamento svolto rispetto agli altri membri (come per esempio ricevere dei pezzi di banana ogni talvolta volta che si tira la stessa corda). Questo comportamento non emerge all’interno dei membri della stessa famiglia.

Gli autori suggeriscono che gli animali che vivono in gruppo, inclusi gli esseri umani, hanno sviluppato una sensibilità verso l’ingiustizia per evitare di essere sfruttati all’interno del gruppo di appartenenza.

Inoltre gli autori suggeriscono che la motivazione di ricevere uguali ricompense, nonostante si penalizzi se stessi,  avviene per preservare la cooperazione trai i pari necessaria per la sopravvivenza di un gruppo.

Le azioni eroiche e di carità (come salvare la vita di un’altra persona, donare sangue e soldi) possono essere interpretate in termini di benefici, sostengono gli autori del presente studio. In quanto le persone che le attuano guadagnano il riconoscimento e l’apprezzamento dei pari.

 

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Le motivazioni alla base dei comportamenti altruistici – Neuroscienze

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Se la mamma ha il nuovo fidanzato, mi fidanzo anch’io!

di Aufiero Daiana e Pichieri Valerio

 

I cambiamenti familiari dovuti alla separazione dei genitori e l’unione di questi con nuovi partner comporterebbero l’aumento di precoci relazioni sentimentali da parte dei figli adolescenti.

Nella società attuale ci sono sempre più famiglie con genitori separati o divorziati (nell’ultimo ventennio si è passati dal 4,5% al 9,3% dei casi secondo dati dell’Istat) e l’annosa questione dell’etichettamento e del pregiudizio rispetto all’argomento va affievolendosi.

I cambiamenti familiari dovuti alla separazione dei genitori e l’unione di questi con nuovi partner comporterebbero, piuttosto, l’aumento di precoci relazioni sentimentali da parte dei figli adolescenti.

Un recente articolo pubblicato a giugno 2014 sul Journal of Marriage and Family, spiegherebbe ciò col fenomeno linked lives (Elder, 1985), secondo il quale, gli eventi di vita genitoriale sarebbero collegati ai cambiamenti nella vita dei figli adolescenti. Questi ultimi sarebbero portati ad avere esperienze sentimentali simili a quelle dei genitori, pertanto, i figli dei separati o divorziati tenderebbero ad avere ben presto relazioni sentimentali e a sperimentare anch’essi la separazione o il divorzio da adulti, soprattutto se a cercarsi il nuovo fidanzato è stata la mamma.

Questo interessante dato emerge da uno studio volto ad indagare la struttura e il clima delle famiglie di adolescenti olandesi e americani.

A tal fine, sono state contattate 135 scuole primarie, di cui il 90,4% ha accettato di partecipare. Il 76,0% dei genitori degli allievi da sottoporre allo studio ha dato il proprio consenso, permettendo di creare un campione di 2.230 partecipanti. Questi ultimi sono stati sottoposti a interviste della durata di 45 minuti, nelle loro stesse case. I soggetti sono stati invitati a ricordare se, in ambito familiare, avevano avuto luogo alcuni eventi rilevanti nel corso degli ultimi 5 anni (a partire dall’inizio dell’adolescenza, sino alla raccolta dei dati), se i genitori avevano divorziato e se loro stessi avevano intrapreso una relazione sentimentale durante quel periodo.

Gli adolescenti hanno riferito com’era la loro struttura familiare 5 anni prima e al momento dell’intervista; hanno riferito le eventuali separazioni e uscite da casa da parte di uno dei due genitori, il mese e l’anno in cui hanno iniziato e finito le proprie relazioni sentimentali.

In linea generale, è emerso che gli olandesi sono molto dediti alla famiglia e ai figli, dato rilevabile dalla bassissima percentuale di divorzi, dal fatto che le mamme lavorino quasi tutte con orari part time e i figli parlino molto con i genitori delle proprie esperienze sentimentali intraprese maggiormente nella tarda adolescenza. Al contrario, negli USA c’è una percentuale di divorzi ben tre volte più alta, le mamme lavorano quasi tutte con orario full time, come gli uomini, pertanto hanno poco tempo da dedicare ai figli, i quali tenderebbero a sopperire a queste mancanze con altre relazioni affettive e sentimentali fuori dal contesto familiare in modo precoce e repentino.

Dallo studio emerge, dunque, che un’atmosfera familiare stressante dovuta alla separazione, unita alla diminuzione di attenzione e di controllo genitoriale sui figli (in particolare da parte della mamma), costituirebbero i fattori che spingono gli adolescenti a cercare altrove il calore emotivo venuto a mancare in casa.

È come se il cambiamento dello stile di vita familiare fungesse da spinta per gli adolescenti a cercare nuove relazione sentimentali… se la mamma ha il nuovo fidanzato, mi fidanzo anch’io!

Un po’ come accade nel film drammatico del 1991 Papà ho trovato un amico, diretto da Howard Zieft, dove la protagonista, un’adolescente, s’innamora precocemente di un ragazzino quando, in questo caso, il padre rimasto vedovo intraprende una storia sentimentale con la nuova collega di lavoro e comincia a trattare la figlia con freddezza.

Dovremmo indagare, dunque, sul perché l’effetto di spinta alla ricerca precoce del partner da parte dell’adolescente arrivi per lo più se è la mamma a cercare il nuovo fidanzato piuttosto che il papà; potrebbe forse esserci lo zampino del primordiale attaccamento madre-figlio di Bowlby?

 

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La trasmissione intergenerazionale della violenza: un’ipotesi sistemica sui contesti di apprendimento

BIBLIOGRAFIA:

  • Elder, G. H. (1985). Life course dynamics: Trajectories and transitions, 1968–1980. Ithaca, NY: Cornell University Press.

Il ruolo delle Meta-emozioni e Credenze sulle emozioni – Congresso SITCC 2014

Congresso SITCC 2014 Genova

Il ruolo delle Meta-emozioni e Credenze sulle emozioni 

S. Giuri, R. Bedini, A. Brugnoni, G. Caselli, C. Manfredi, A. Mannarino 

Scuola di Psicoterapia Cognitiva Modena 

 

 

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Pronunciamento sul copyright della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) – Congresso SITCC 2014

Il 27 settembre 2014 la Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) ha emesso un comunicato in cui chiariva la sua posizione rispetto alla possibile applicazione, nell’ambito della psicoterapia, delle regole e delle leggi sul copyright e sulla protezione dei prodotti intellettuali. Posizione che è di rifiuto. Cosa significa?

Significa che la linea della SITCC è che non si possa proibire a nessun terapeuta formato e abilitato il diritto di affermare di essere in grado d’implementare una certa tecnica terapeutica e, se essa è compatibile con la propria formazione generale, una certa terapia.

Il pronunciamento è evidentemente concepito come una risposta agli sviluppi degli ultimi anni della terapia cognitiva. Sviluppi che vedono una sempre maggiore articolazione e -purtroppo- anche frammentazione delle psicoterapie cognitive.

Frammentazione nella quale le nuove tecniche terapeutiche, invece di limitarsi a incrementare il repertorio operativo di base, tendono invece a costituirsi come nuove terapie a se stanti, non più cognitive. Così sono sorte la Schema Therapy di Young, la Metacognitive Therapy di Wells (2002) o l ‘Acceptance and Committment Therapy di Hayes (Hayes, Strosahl, Wilson, 1999). Ponendosi come paradigmi alternativi e non come sviluppi storici della terapia cognitiva tradizionale queste nuove terapie tendono anche a disconoscere –a volte con mezzi legali- ai terapeuti cognitivi standard la capacità di apprenderle, eseguirle e insegnarla.

Tutto questo, a modo di vedere della SITCC, è un’indebita interpretazione del concetto di proprietà intellettuale e di diritto d’autore. Il che è vero, se consideriamo che un’applicazione massiva di questa interpretazione restrittiva del copyright costringerebbe ogni terapeuta cognitivo a un’eterna formazione spesa in un logorante esplorazione approfondita di ogni angolino terapeutico della teoria cognitiva.

D’altro canto la formazione, se non eterna, diventa sempre più continua. Ed è in parte vero che queste nuove terapie, se è eccessivo pensarle come dei nuovi paradigmi, al tempo stesso non sono delle mere tecniche ma richiedono uno sguardo differente che non può essere appreso solo dai libri. Indubbiamente sono apparse sul mercato terapie diverse che, a partire da prove di efficacia in determinate aree, si pongono come efficaci tout court in tutte le aree e sono molto connotate e molto ben vendute. La legge dice che queste terapie possono disporre di un logo che non può essere emulato e usato indebitamente. Le idee invece sono di tutti.

Ma il rapporto tra un logo che rappresenta un pacchetto di teorie, tecniche, ed esperienze e questo stesso pacchetto non è scontato. Quanto sia stretta questa relazione è più facile capirlo per una borsa di Gucci che per una psicoterapia. Le innovazioni stilistiche di Gucci sono di tutti, ma a nessuno piace avere un fake di Gucci. Allo stesso modo, l’attenzione di Marsha Linehan alle skills training è un patrimonio di tutti, ma l’aderenza al modello è un apprendimento sotto un logo che può essere protetto?

Gruppi con terapeuti esperti lo sanno fare e lo fanno da anni, ma lasciare tutto esclusivamente all’autocertificazione individuale è un problema che non possiamo trascurare. Insomma per noi terapeuti, non solo della SITCC, c’è qualche motivo di riflessione su cui vorremmo aprire un dibattito.

 

COMUNICATO SITCC:

LEGGI ANCHE:

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BIBLIOGRAFIA:

  • Hayes, S.C., Strosahl, K., Wilson, K. G. (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An Experiential Approach to Behavior Change. Guilford Press, New York. ACQUISTA
  • Young, J.E., Klosko, J.S., Weishaar, M.E. (2003). Schema therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità. Tr. it. Eclipsi, Firenze, 2007. ACQUISTA
  • Wells, A. (2008). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press. ACQUISTA

Bimbi abusati in rete? Il fenomeno dell’adescamento online

Nel nostro contesto il grooming indica una tecnica di manipolazione psicologica, che gli adulti potenziali abusanti utilizzano online, per indurre bambini e adolescenti a superare le resistenze emotive e instaurare una relazione intima e/o sessualizzata con l’adulto.

La rete non è nè buona nè cattiva, dipende dall’ uso che ne facciamo. Questo è il concetto fondamentale dal quale è utile partire per evitare che genitori ed insegnanti dei cosiddetti nativi digitali entrino in una spirale catastrofica che attribuisce estrema pericolosità a quello che è, e deve rimanere, solo uno strumento.

E se il focus rimane sull’uso che facciamo di una certa cosa è sempre possibile percorrere delle strade che hanno a che fare con l’educazione, l’informazione, e la responsabilizzazione. Sentieri forse più incerti e lenti rispetto ai viadotti del controllare, bloccare e terrorizzare, ma che ci permettono di arrivare con i nostri figli in un luogo certamente più sicuro.

Quando si parla di sicurezza online ci si riferisce a cose molto diverse tra loro. In inglese ci sono due termini che ci aiutano a specificare meglio: security e safety. Con security ci si riferisce all’hardware e al software del nostro dispositivo elettronico, tutto ciò che posso utilizzare per rendere più sicuro il mio strumento, quindi antivirus, filtri ecc. Quando invece si parla di safety ci si riferisce a comportamenti e atteggiamenti che vengono o meno messi in atto e che possono mettere in sicurezza l’utilizzatore dello strumento e non lo strumento in sé. Dunque, ben vengano i filtri, il parental control ecc, importanti soprattutto per proteggere i più piccoli dall’esposizione a contenuti non adatti.

Ma quando incomincia l’età in cui viene meno il controllo genitoriale, è necessario che i nostri ragazzi siano già stati aiutati a raggiungere quelle competenze (tecniche, cognitive, emotive, valoriali) che gli permetteranno di navigare in maniera sicura e responsabile.

Lavorando in un’ ottica di prevenzione dunque è necessario muoversi in una dimensione educativa che tenga conto dei loro bisogni affettivi, sociali, di riferimento, di conoscenza, ecc. e dei loro diritti, primo fra tutti quello alla partecipazione ai sistemi di convivenza cui appartengono.

La conoscenza, l’aumento di senso critico, la possibilità di scegliere consapevolmente, e soprattutto la presenza e disponibilità degli adulti di riferimento nel difficile ruolo di guida verso la cittadinanza (che è anche digitale) sembrano essere, anche in un contesto complesso come quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), le migliori soluzioni.

È bene quindi conoscere oltre alle tante straordinarie opportunità che ci offrono le TIC, anche le insidie che si nascondono in esse per prevenire possibili conseguenze negative e soprattutto per aiutare i nostri figli ad orientarsi in esse.

I principali rischi online sono:

– adescamento online (grooming)

– sexting

– cyberbullismo

– gruppi pro-ana pro-mia

– esposizione a contenuti dannosi

– violazioni della privacy

– dipendenza

Partiamo dal trattare un fenomeno molto complesso: quello dell’adescamento online o grooming.

Grooming (dall’inglese “groom” – curare, prendersi cura) è un termine di derivazione etologica che letteralmente si riferisce a quel comportamento osservato in diversi primati, tra cui gli scimpanzé e i bonobo, per cui un animale provvede a ripulire un suo simile dai parassiti. Nel nostro contesto indica una tecnica di manipolazione psicologica, che gli adulti potenziali abusanti utilizzano online, per indurre bambini e adolescenti a superare le resistenze emotive e instaurare una relazione intima e/o sessualizzata con l’adulto.

Gli adulti interessati sessualmente a bambini e adolescenti utilizzano gli strumenti come i social network, le chat (soprattutto quelle dei giochi online), gli SMS per entrare in contatto con loro. Il grooming definisce proprio il percorso attraverso il quale l’adulto instaura una relazione “di fiducia” con il bambino o adolescente. Tale percorso si sviluppa in tre passaggi distinti:

  1. Contatto. Viene instaurato il primo contatto tra l’adescatore e il minore. Questo può avvenire semplicemente tramite una chat di un gioco online o tramite una richiesta di amicizia su di un social network.
  2. Fiducia. Generalmente dopo i primi contatti, l’adescatore si informa sul livello di “privacy” nel quale si svolge la relazione con il bambino/adolescente (dove è situato il computer in casa, se i genitori sono presenti, se qualcun altro oltre al minore ha accesso allo smartphone ecc.); dopo aver ottenuto queste informazioni, avvia un processo finalizzato a conquistarne la fiducia; condividendo, ad esempio, interessi comuni (musica, attori/attrici preferiti, hobby, ecc.). Se il minore possiede un profilo personale in un social network come Facebook non è difficile per l’adulto ottenere preziose informazioni sui gusti personali del bambino/a… per passare poi a confidenze di natura sempre più privata e intima. In questa fase può verificarsi lo scambio di immagini, non sempre a sfondo sessuale (almeno in una prima fase);
  3. Esclusività. Quando l’adulto è certo di non correre il rischio di essere scoperto, inizia la fase dell’esclusività, che rende impenetrabile la relazione ad esterni. È in questa fase che può avvenire la produzione, l’invio o lo scambio di immagini – anche attraverso l’utilizzo di una webcam – a sfondo sessuale esplicito e la richiesta di un incontro offline. Spesso materiale pedopornografico può essere utilizzato dall’adulto al fine di normalizzare e rendere accettabile una relazione sessualizzata tra un adulto e un bambino/adolescente; a volte, il minore stesso viene sollecitato a inviare sue immagini e/o video. Le stesse immagini/video oppure i testi inviati dal minore in cui, ingenuamente possono avere confessato, ad esempio, le sue fantasie intime, possono poi essere utilizzate in forma ricattatoria in seguito ad un suo eventuale rifiuto nel continuare il rapporto online o nell’avviare una vera e propria relazione sessuale.

Spesso il minore ignora che dall’altra parte potrebbe trovarsi un adulto, altre volte l’età è chiara fin da subito ma non costituisce un problema anche grazie alla presenza dello schermo che mettendo distanza facilita l’apertura.

Quanto è diffuso il fenomeno dell’adescamento online?

Da un’indagine condotta negli Stati Uniti nel 2010, è emerso che un adolescente su 10 è stato adescato online. Nel 69% dei casi, tuttavia, il tentativo di adescamento non si è concluso con una richiesta di contatto al di fuori della Rete.

E’ stato osservato che gli adolescenti sono maggiormente a rischio di essere adescati rispetto ai bambini più piccoli; inoltre, per le ragazze vi è un rischio maggiore rispetto ai loro coetanei maschi.

Secondo un’indagine condotta da EuKids nel 2012 su un campione di oltre 25.000 bambini e adolescenti (età 9-16 anni) provenienti da 25 Paesi europei, il 30% ha riferito di avere conosciuto persone estranee attraverso internet (il 23% ha riferito di averne conosciute 5 o più). Nel 9% dei casi, al contatto online è seguito un incontro offline, ma solo l’1% ha riferito di essersi sentito preoccupato o turbato per questi incontri, mostrando una sottostima dei possibili rischi connessi all’incontro con persone sconosciute.

L’adescamento online è un fenomeno in forte espansione anche nel nostro paese negli ultimi anni e specialmente a seguito del boom dei social network, le vittime degli abusi online appartengono a fasce d’età sempre più basse, tra i 10 e i 12 anni.

Contrariamente a quanto si può pensare, non sono solo le ragazze ad essere esposte a questa tipologia di rischio; i ragazzi maschi, soprattutto quelli disorientati rispetto alla costruzione della propria identità e orientamento sessuale, possono essere particolarmente vulnerabili e quindi ugualmente esposti alla possibilità di entrare in contatto con adulti potenzialmente abusanti.

Educare, informare e responsabilizzare.

Non sempre però abbiamo presente che il minore davanti alle nuove tecnologie ha un ruolo attivo, un modo personale di pensare, sentire e comportarsi e soprattutto ha un ruolo decisionale nei tentativi di adescamento. Per questo è nostro dovere far sapere ai ragazzi:

  • che immagini che ritraggono minori in atteggiamenti sessualizzati spedite o pubblicate su internet potrebbero essere usate in maniera imprevedibile fino a danneggiarci;
  • che per pedopornografia si intende qualsiasi immagine di natura sessuale che ritrae minori di 18 anni;
  • che la legge punisce chi produce ma anche chi scarica, diffonde o pubblicizza questo tipo di immagini.

Nel nostro Paese, l’azione di lotta alla pedofilia online è condotta dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni, specialmente attraverso l’attività del Centro Nazionale per il contrasto della pedopornografia sulla rete Internet.

Per contrastare il fenomeno dell’adescamento online, la legge 1 ottobre 2012 n.172 di ratifica della Convenzione di Lanzarote, prevede l’introduzione del nuovo reato di “adescamento di minorenni” (art. 609-undecies del codice penale). Questa nuova fattispecie di reato consiste in qualsiasi atto volto a carpire la fiducia di un minore di 16 anni attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, allo scopo di commettere uno dei reati sessuali contro i minori previsti dalla legge.

La pena prevista per che si macchia di questo reato è la reclusione da 1 a 3 anni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Pica – Definizione Psicopedia

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Si caratterizza per la continuativa ingestione di una o più sostanze di contenuto non alimentare e non commestibili per almeno 1 mese. Esempi possono essere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, vernice, gomma, metallo, cenere, terra, ciottoli, ghiaccio………

 

 Rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 (uscito nel maggio 2013), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria. Nella versione precedente era inserita nel paragrafo “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”, del capitolo “Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza”.

Si caratterizza per la continuativa ingestione di una o più sostanze di contenuto non alimentare e non commestibili per almeno 1 mese. Esempi possono essere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, vernice, gomma, metallo, cenere, terra, ciottoli, ghiaccio………

Vanno escluse le pratiche di ingestione all’interno di contesti culturali e sociali particolari, quali rituali di popolazioni lontane o immigrate.

Abitualmente non si manifesta avversione per il cibo.

L’esordio è più frequente in età infantile, comunque superiore ai 2 anni (fino ad allora fa parte dei gesti abituali degli bambini piccoli), anche in presenza di uno sviluppo normale; negli adulti, invece, spesso, si associa a disabilità intellettiva grave o altri disturbi mentali, in questo caso viene apposta la diagnosi di pica solamente in presenza di un quadro clinico importante. Il decorso del disturbo, soprattutto negli adulti, con comorbilità è duraturo.

Può comparire nelle donne in gravidanza come desiderio incontrollato, si pone però solo diagnosi di pica quando c’è un rischio medico legato all’ingestione.

Conseguenze mediche di questo comportamento sono ostruzioni intestinali, avvelenamenti, infezioni e deficit nutrizionali.

 

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Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione – Definizione Psicopedia 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM – 5). Raffaello Cortina editore.  ACQUISTA ONLINE

Persi nei social network: a volte gli adolescenti non sanno resistere!

FLASH NEWS

 

Un recente studio condotto dall’Università di Iowa sostiene che gli adolescenti sono molto più sensibili degli adulti a ricevere ricompense immediate per i loro comportamenti. I risultati potrebbero aiutare a spiegare come mai rispondere agli sms ricevuti invece che studiare è più gratificante nell’immediato per gli adolescenti in quanto lo studio presume uno sforzo non ricompensato a breve termine.

In qualità di genitore, non ti arrabbiare la prossima volta quando scopri che il figlio adolescente scrive sms invece di studiare. Lo fa semplicemente perché non è in grado di resistere.

Un recente studio condotto dall’Università di Iowa sostiene che gli adolescenti sono molto più sensibili degli adulti a ricevere ricompense immediate per i loro comportamenti. I risultati potrebbero aiutare a spiegare come mai rispondere agli sms ricevuti invece che studiare è più gratificante nell’immediato per gli adolescenti in quanto lo studio presume uno sforzo non ricompensato a breve termine.

“Le ricompense hanno una forte attrazione percettiva e sono più allettanti per gli adolescenti; di conseguenza, anche se un comportamento non sarebbe più nell’interesse dell’adolescente di attuarlo, continuerà ad essere eseguito in quanto l’effetto della ricompensa iniziale persiste molto di più nell’adolescente che nel bambino” sostiene Jatin Vaidya, professore di psichiatria e autore del presente studio.

Per facilitare il processo decisionale degli adolescenti nel compiere i compiti scolastici, ai genitori viene suggerito di eliminare i possibili “distrattori” come computer collegati all’internet che permettono l’accesso immediato ai network di socializzazione come Facebook o Twitter.

Tali comportamenti si devono attuare non per negare l’accesso alla tecnologia ma per aiutare gli adolescenti a regolare la loro attenzione in modo che possano sviluppare le capacità di controllo degli impulsi.

Gli autori del presente studio suggeriscono che oltre ad avere difficoltà nel prendere le decisioni, gli adolescenti attuano dei comportamenti impulsivi e a rischio. La maturazione incompleta dei lobi frontali, potrebbe essere una delle ipotesi avanzate dagli autori per spiegare tali comportamenti.

Lo scopo del presente studio era quello di capire il funzionamento del sistema di ricompensa e come esso cambia dall’infanzia all’età adulta. Al presente studio hanno partecipato 40 ragazzi (tra 13 e 16 anni) e 40 adulti di età compresa tra 20 e 35 anni. I partecipanti dovevano svolgere un compito in cui veniva chiesto loro di trovare un anello rosso o verde rispettivamente nascosto all’interno di un’immagine che rappresentava diversi altri anelli colorati, presentata su uno schermo di un PC. Una volta trovato, il partecipante doveva segnalare se all’interno dell’anello fosse disegnata una linea bianca verticale o orizzontale.

Il ritrovamento dell’anello veniva rimborsato con 2 o 10 centesimi rispettivamente. Per metà dei partecipanti il colore verde veniva retribuito di più e viceversa per l’altra metà. Nessuno dei partecipanti conosceva a priori il valore della ricompensa per il ritrovamento dell’anello. Dopo la presentazione di 240 trials, ai partecipanti veniva chiesto se avessero notato qualche associazione collegata al colore dell’anello. La maggior parte dei partecipanti non è stata in grado di identificare il legame tra la ricompensa e il colore quindi il compito dell’anello non coinvolge dei processi decisionali di alto livello. 

Nella fase successiva dell’esperimento i partecipanti hanno mostrato di aver sviluppato un’associazione intuitiva quando è stato chiesto loro di trovare un diamante tra diversi anelli utilizzati come distrattori. Ciò significa che, durante le prime prove del compito, invece di individuare il nuovo bersaglio – il diamante – sia adolescenti che gli adulti individuavano il bersaglio del primo compito: l’anello del colore a cui veniva associata la retribuzione maggiore.

Dopo la presentazione di un paio di trials gli adulti sono stati in grado di risintonizzarsi in base alla nuova richiesta del nuovo compito a differenza degli adolescenti che continuavano ad essere più propensi a scegliere anche dopo 250 trials il vecchio bersaglio (l’anello).

Dai risultati emerge quanto sia difficile estinguere in un adolescente un’associazione imparata in un compito soprattutto se collegata ad una ricompensa.

Gli autori del presente studio sostengono che l’incapacità di regolare gli impulsi potrebbe spiegare certi comportamenti inappropriati come, per esempio, il motivo per cui un’adolescente continua a fare commenti inappropriati in classe anche se i compagni non ridono più alle sue specifiche battute.

Inoltre gli autori sostengono che nel futuro si dovranno condurre nuove ricerche per approfondire se ci siano regioni del cervello o dei circuiti neurali che continuano a svilupparsi dall’adolescenza all’età adulta e che giocano un ruolo importante nell’allontanare l’attenzione da stimoli ricompensa che non siano rilevanti per i compiti svolti. E se si, quali esperienze di vita potrebbero aiutare lo sviluppo di tale abilità.

 

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Misurare la fiducia si può!

FLASH NEWS

 

In un recente studio hanno identificato non solo un metodo di misura, ma anche la regione cerebrale che, nei ratti, sembra necessaria per esprimere fiducia nelle loro decisioni. 

La vita è un susseguirsi di decisioni e ognuna di esse, banale o essenziale che sia, è un rischio, un azzardo, una scommessa che porta con sé la possibilità di un ripensamento.

Il nostro desiderio di persistere lungo una strada intrapresa è quasi interamente determinato dalla fiducia che riponiamo in quella decisione: quando si è sicuri che la scelta fatta sia corretta, si è disposti a portarla avanti molto più a lungo.

La fiducia è dunque una componente sostanziale nelle nostre decisioni e determina gran parte del nostro percorso, nella vita. Ma che cos’è? Molti la descriverebbero come un’emozione o un sentimento. Ma gli scienziati del Cold Spring Harbor Laboratory hanno scoperto che è più di un’emozione, è una quantità misurabile e non esclusivamente umana. 

In un recente studio hanno infatti identificato non solo un metodo di misura, ma anche la regione cerebrale che, nei ratti, sembra necessaria per esprimere fiducia nelle loro decisioni.

Per questa ricerca gli scienziati hanno misurato il tempo che alcuni ratti erano disposti ad attendere per ottenere la ricompensa nascosta dietro una porta. 

Il compito era semplice: ai ratti veniva fatto annusare un odore che erano stati addestrati ad associare ad una porta. Quando, di fronte a due alternative, sceglievano la porta giusta ricevevano una ricompensa.

L’idea era che, il tempo che i ratti erano disposti ad aspettare la ricompensa fosse una misura oggettiva della loro fiducia nella scelta fatta.
I ricercatori avevano ipotizzato poi che la corteccia orbitofrontale fosse coinvolta in questo processo.

I risultati hanno confermato anche questa ipotesi: quando inattivata, infatti, i ratti non esibivano più livelli appropriati.

Scoperte simili offrono un ottimo spunto di riflessione per i processi cognitivi di livello superiore ed è probabile che il funzionamento sia simile anche negli esseri umani, visto che la corteccia orbitofrontale umana è una versione più sofisticata della stessa area nei ratti.

Uno sviluppo futuro potrebbe dunque essere quello di esplorare se un sentimento elusivo come la fiducia sia basato su predizioni oggettive che influenzano quindi le nostre decisioni.

 

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Sindrome del sopravvissuto: la trappola della (non) responsabilità

Eventi di intensa tragicità – ci insegna la storia – tendono ad accompagnarsi alla nascita di una particolare tipologia di senso di colpa, definita appunto “del sopravvissuto”.

 

“Ha avuto la sensazione del sopravvissuto, il senso di colpa di chi resta?”

“Senso di colpa no, ma la sensazione molto comune di stare vivendo dei sentimenti e delle emozioni mai provati prima. E di sentirti impotente”.

 

Sono queste le parole che l’attore John Turturro usa per rispondere a un giornalista de “L’Espresso”, interessato allo stato d’animo, nonché psicologico, dell’attore dopo l’11 Settembre 2001. Turturro ha perso in quell’occasione quattro amici, è intervenuto in prima persona per prestare soccorso e, presumibilmente, ha manifestato una commistione di sintomi che potrebbero essere classificati come “post traumatici da stress”, primo fra tutti il senso di impotenza menzionato dall’attore stesso durante l’intervista.

Ma la domanda del giornalista si riferisce a ben altro, e viene fatta con cognizione di causa: “Ha avuto la sensazione del sopravvissuto?”.

Eventi di tale tragicità – ci insegna la storia – tendono difatti ad accompagnarsi alla nascita di una particolare tipologia di senso di colpa, definita appunto “del sopravvissuto”: esempio eclatante e noto a chiunque è quello dello scrittore ebreo Primo Levi, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, ma morto suicida perché vittima di un intollerabile (e apparentemente ingiustificato) senso di colpa nei confronti di chi non è mai tornato a casa.

Il senso di colpa può essere descritto come “il dispiacere provato per aver compromesso il perseguimento di uno scopo a un soggetto X, per essere stati causa di un suo disagio o malessere” (Castelfranchi, D’Amico, Poggi, 1994). Ciò che caratterizza questa emozione, è il fatto che il soggetto si riconosce colpevole per il danno, ingiusto, causato all’altro; ma non solo: è sufficiente che il soggetto si ritenga colpevole di aver avuto l’intenzione o il desiderio di causare danno, portando il tutto a un piano ancor più astratto e scorporato dalla realtà (Mancini, 1997).

Questo aspetto di “scissione” tra realtà e intenzione concerne la fondamentale differenza tra il cosiddetto “senso di colpa da colpa” (Poggi, Bartolucci e Violini, 2000) e il “senso di colpa del sopravvissuto”.

“Per provare il senso di colpa del sopravvissuto non sono necessari alcuni ingredienti, tipici invece del senso di colpa da colpa: innanzitutto non serve che C (il Colpevole) assuma l’esistenza di un nesso di causa fra il proprio comportamento e il danno della vittima; non è neanche necessario che C assuma che avrebbe potuto fare diversamente e nemmeno di aver infranto una delle norme da lui stesso condivise. Per giunta C può essere onestamente consapevole di non aver desiderato il danno di V (la Vittima), addirittura può essergli chiarissimo l’avere una disposizione fortemente positiva verso V” (Mancini, 1997).

 

Nello specifico, la “colpa del sopravvissuto” risulta per il soggetto paralizzante per due motivi:

  1. Per il fatto di vivere una situazione di privilegio a spese di altri o nel confronto con altri che appaiono maggiormente danneggiati (Kubany e Manke, 1995);
  2. Per le azioni o inazioni che hanno aumentato il senso di minaccia alla propria sopravvivenza, ossia la percezione di non aver fatto abbastanza per prevenire la catastrofe e le sue conseguenze (Parson, 1986).

 

Dunque, che cosa genera questo forte senso di responsabilità? Perché un sopravvissuto all’olocausto, all’attacco alle Torri Gemelle, a un incidente o a un episodio drammatico che ha causato la morte di altre persone, può sviluppare un senso di colpa così forte da portare addirittura al suicidio?

“L’operazione cognitiva necessaria per provare senso di colpa del sopravvissuto è un semplice confronto tra le fortune del colpevole e quelle della vittima che, per generare senso di colpa, deve dare un risultato sfavorevole alla vittima. Il soggetto pone su un piatto della bilancia le proprie fortune ed i propri meriti e sull’altro quelli della vittima. Se la bilancia pende a favore del primo allora vi è senso di colpa” (Poggi, 1994). Insomma, quello che viene fortemente minacciato nel caso del senso di colpa del sopravvissuto è il senso di equità e di uguaglianza che si presume debba vigere tra gli esseri umani, e che impedisce di dare risposta alla domanda “Perché lui sì, e io no?”.

Riportiamo un caso clinico che meglio può spiegare questa attitudine (Bottelli, 2012): Francesca è una donna di circa 40 anni, che si avvicina al percorso terapeutico su suggerimento del medico di base, dopo aver sviluppato sintomatologia da attacco di panico, unitamente a un forte senso di vuoto e colpa dopo la morte (improvvisa e ravvicinata) di entrambi i genitori e della sorella minore (i primi, per tumore e a seguito di infarto, la seconda per un cancro al seno). Da notare, emerso nella raccolta anamnestica, un aneurisma avuto dalla paziente in giovane età, dal quale si è ripresa completamente nonostante la prognosi negativa.

“La paziente si vive come una sopravvissuta rispettoa i suoi familiari, risparmiata sia dal cancro, che dall’aneurisma. Ritiene di aver avuto la fortuna di ristabilirsi, al contrario della sorella e dei genitori. La paziente, durante questi anni, si è sentita molto responsabile dello stato di salute dei familiari e della loro gestione, come se l’esito delle cure dipendesse dai suoi sforzi. Di qui, il senso di fallimento e colpa nel non aver salvato la sorella e la madre e, quindi, di essere ingiustamente sopravvissuta”.

Nel caso specifico del senso di colpa legato a un evento traumatico, quale può essere, appunto, il caso della “colpa del sopravvissuto”, la terapia cognitiva comportamentale si rivela efficace, in quanto la colpa è originata essenzialmente dal modo in cui una persona valuta ed interpreta gli eventi.

La terapia cognitivo comportamentale per la colpa legata a un trauma comprende: (a) l’assessment; (b) esercizi di esposizione immaginativa; (c) correzione degli errori di ragionamento che conducono a conclusioni erronee associate alla colpa (rivalutazione della percezione di giustificazione, responsabilità e azioni commesse).

Nello specifico, poi, il terapeuta dovrebbe aiutare il paziente a distinguere tra cosa era in passato e cosa è ora, a diventare maggiormente consapevole dei pensieri e delle credenze sottostanti i sensi di colpa, ad esempio attraverso il self-monitoring. Egli, inoltre, conduce il paziente a formulare interpretazioni più realistiche della situazione: ad esempio aiutandolo a comprendere che l’evento traumatico era completamente al di fuori del suo controllo, e che egli ha fatto del suo meglio in quella situazione.  Riducendo la colpa, quindi, si può anche lavorare con il paziente con l’obiettivo di favorire un incremento della self-compassion e dell’accettazione (Gilbert e Procter 2006). La self-compassion consiste in un’attitudine emotivamente positiva e funzionale che dovrebbe proteggere l’individuo dalle conseguenze negative del giudizio verso se stessi, dall’isolamento e dalla ruminazione. Il paziente può imparare ad essere, pertanto, più compassionevole e non giudicante nei confronti di se stesso, a percepire la propria esperienza come parte dell’esperienza umana più ampia, piuttosto che percepirsi come isolato e separato dal resto, e, infine, a sviluppare un atteggiamento mindfulness, ovvero una maggiore abilità nel controllare i propri pensieri e sentimenti, piuttosto che identificarsi eccessivamente con essi.

 

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 BIBLIOGRAFIA:

Anoressia inversa – Definizione Psicopedia

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

E’ così chiamata in quanto apparentemente i suoi sintomi sono opposti a quelli dell’anoressia nervosa, altrimenti detta anche vigoressia, dismorfia muscolare, bigoressia, complesso di Adone.

Questa condizione ha una prevalenza maggiore nel sesso maschile ed in particolare tra frequentatori di palestre e appassionati di body-building, sul finire dell’adolescenza o inizio dell’età adulta.

Attualmente, questo disturbo non è incluso del DSM-5 (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria) come categoria diagnostica a sé stante, ma si discute se debba essere inquadrato tra i Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione o come sottotipo del Disturbo di Dismorfismo Corporeo, a sua volta contenuto nella categoria Disturbo Ossessivo-Cnompulsivo e disturbi correlati.

Il bigoressico è ossessionato dall’idea di essere esile e poco sviluppato fisicamente e, nonostante abbia spesso una muscolatura molto sviluppata, non è soddisfatto a causa della distorsione dell’immagine corporea. L’autostima si basa quasi esclusivamente sul peso corporeo e sulle forme fisiche, che in quanto riferiti a dei modelli irraggiungibili, richiedono un livello estremo di perfezionismo.

I soggetti affetti da anoressia riversa sono soliti: osservarsi costantemente allo specchio, paragonare di sovente il proprio fisico con quello di altri, provare stress se saltano una sessione d’allenamento in palestra o uno dei loro numerosi pasti, domandarsi costantemente se hanno assunto abbastanza proteine ogni giorno, assumere anabolizzanti potenzialmente pericolosi, trascurare il lavoro, gli studi, la famiglia, e le relazioni sociali pensando solo ad allenarsi.

In genere le persone con questo disturbo non si rivolgono ad un psicoterapeuta che li possa aiutare in quanto non riconoscono il loro disturbo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  American Psychiatric Association, (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione, DSM-5. Milano: Raffaello Cortina Editore.  ACQUISTA ONLINE
  • Invernizzi, G., e Bressi, C. (2012). Manuale di Psichiatria e Psicologia clinica, quarta edizione. Milano: McGraw-Hill.  ACQUISTA ONLINE

L’evoluzione della Terapia Sessuale dal modello Kaplaniano ad oggi: sviluppi ed integrazioni – Congresso SITCC 2014

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Evoluzione della Terapia Sessuale - SITCC_2014

Un interessante esempio di integrazione della Terapia Mansionale con la psicoterapia viene presentato dal socio fondatore dell’AISPA Dott. Roberto Bernorio, medico specialista in ginecologia, psicoterapeuta e sessuologo clinico, che durante il suo intervento mostra l’applicazione della Body-mind connection therapy nel trattamento del vaginismo. 

“Verranno mostrati video un po’ forti”. Quando sento questo avvertimento ad inizio simposio, mi domando cosa debba aspettarsi chi va in terapia sessuale oggi.

Nel 1974 Kaplan rivoluzionava la sex therapy proponendo un modello terapeutico innovativo che combinava la terapia mansionale di Masters & Johnson (1970) con teorie psicoanalitiche, introducendo il ruolo della componente psicologica nel trattamento dei disturbi sessuali.

A 40 anni di distanza la psicoterapia sessuale non solo si è arricchita di strumenti e tecniche (es. EMDR, sensorimotor), ma attribuisce al paziente un ruolo più attivo, per esempio nella co-costruzione delle mansioni.

Anche le competenze del terapeuta hanno subito modifiche: lo psicosessuologo deve sì conoscere le tecniche e applicare le mansioni, ma il suo bagaglio clinico deve comprendere per esempio i modelli operativi interni, le teorie sulla costruzione dei legami di attaccamento, il lavoro sulle emozioni…

Tutto ciò a dispetto delle ultime edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM IV-R e DSM V) che codificano come disfunzioni sessuali il Disturbo maschile dell’erezione, l’Eiaculazione precoce o ritardata, il Disturbo dell’eccitazione femminile, ma non rendono conto della vasta gamma di disturbi legati alla sfera sessuale in cui entrano in gioco anche aspetti che non sono legati esclusivamente alla sessualità “rettiliana”, primitiva, ma che coinvolgono l’intimità e l’attaccamento.

 

Un interessante esempio di integrazione della terapia mansionale con la psicoterapia viene presentato dal socio fondatore dell’AISPA Dott. Roberto Bernorio, medico specialista in ginecologia, psicoterapeuta e sessuologo clinico, che durante il suo intervento mostra l’applicazione della Body-mind connection therapy nel trattamento del vaginismo.

Il primo video mostra la fase di inquadramento diagnostico di una grave forma di vaginismo: la paziente è sdraiata sul lettino, il ginecologo inizia ad effettuare la visita, ma non appena tenta di inserire un dito all’interno della vagina la paziente mette in atto una reazione muscolare difensiva involontaria che oltre alla contrazione della vagina coinvolge anche i muscoli del perineo, del bacino e delle gambe; la paziente si contorce sul lettino fino a scalciare via il medico.

“Alla base di tale reazione che scatta in modo automatico è presente la fobia, ovvero la paura immotivata, della penetrazione e del possibile dolore ad essa legata.”

Nel secondo video il Dott. Bernorio illustra invece il metodo da lui utilizzato per agire sul corpo con lo scopo di cambiare la mente: la Body Mind Connection Therapy. La paziente in seduta prova a mettere in pratica la terapia mansionale prescritta dal medico cercando di inserire all’interno della vagina un piccolo cono fallico senza successo. Il medico, a questo punto, prima mette in atto un intervento psicoeducazionale – spiegando come debba avvenire il corretto inserimento ed aiutando la paziente nell’esercizio – e poi interviene sulla reazione fobica: quella a cui assistiamo non è altro che esposizione in vivo seguita da ristrutturazione cognitiva. 

“Rendere la donna capace di introdurre e muovere in vagina i dilatatori attraverso l’aiuto diretto da parte del terapeuta cambia la prospettiva percettiva-reattiva nei confronti della penetrazione e realizza un’esperienza emozionale correttiva”. I risultati riportati dal Dott. Bernorio, sulla base di una metanalisi di quasi 200 casi trattati, mostrano la risoluzione del problema in più del 95% dei casi, a fronte di una rigorosissima selezione a monte dei pazienti per diagnosi clinica e motivazione al trattamento.

Se la possibilità di accedere in seduta in diretta all’emozione disfunzionale del paziente è una preziosa occasione per il lavoro terapeutico, nell’ambito della sfera sessuale la questione è oltremodo delicata. L’esposizione guidata dal terapeuta è una tecnica che in diverse occasioni è stata utilizzata nel trattamento del vaginismo (ter Kuile et Al., 2013; Melles RJ et Al., 2014; Molaeinezhad et Al., 2014).

Al di là dell’ovvia considerazione che un ginecologo può “spingersi” laddove uno psicologo non può (per esempio, in Olanda gli psicologi che praticano l’esposizione guidata in terapia sessuale non hanno il permesso di toccare la paziente), appare interessante riflettere sulle ripercussioni che questa tecnica potrebbe avere sulla relazione terapeutica e in che modo debbano essere gestite, su come fattori quali il sesso del terapeuta (maschio o femmina) piuttosto che le fantasie che il paziente normalmente sviluppa sul terapeuta assumano una nuova connotazione nel momento in cui si inseriscono all’interno della relazione terapeutica la nudità e l’esplorazione intima del proprio corpo.

E voi cosa ne pensate? Quali possono essere i vantaggi ed i rischi dell’esposizione sessuale guidata?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Decision making: anche ciò che non vediamo influenza le nostre scelte

FLASH NEWS

Contrariamente all’idea tradizionale secondo cui il cervello accede al significato – o al ricordo – di un oggetto solo dopo averlo percepito, la nostra mente processa immagini senza che se ne sia pienamente consapevole ma queste informazioni vengono comunque utilizzate per formulare giudizi e scelte.

Ogni giorno il nostro sistema visivo viene bersagliato da molte più informazioni di quanto sia possibile considerare.

Gli studi classici sostengono che il processo percettivo in prima istanza opera una distinzione tra figura e sfondo e successivamente accede ai significati ma solo delle figure, non analizza lo sfondo.

Eppure uno studio condotto dall’università dell’Arizona dimostra che i dati “eccedenti” non vengono persi, anzi, influenzano comunque il comportamento ma ad un livello non consapevole . Gli oggetti che ci circondano non hanno dunque bisogno di essere notati consapevolmente per influenzare le nostre decisioni. 

 

Contrariamente all’idea tradizionale secondo cui il cervello accede al significato – o al ricordo – di un oggetto solo dopo averlo percepito, la nostra mente processa immagini senza che se ne sia pienamente consapevole ma queste informazioni vengono comunque utilizzate per formulare giudizi e scelte.

Il compito proposto per questo studio consisteva nel classificare come naturali o artificiali nomi di oggetti che apparivano su uno schermo premendo due tasti.

Ad insaputa dei partecipanti prima di ogni nome appariva anche un’immagine: una sagoma nera che aveva la forma di oggetti naturali o artificiali definita da una regione bianca esterna. Veniva proiettata così velocemente che anche sapendolo non sarebbero comunque stati in grado di prestare attenzione all’immagine.

Le performance erano migliori quando immagine e parola erano concordanti.

Questo dimostra che il cervello dei partecipanti era stato in grado di accedere al significato degli oggetti rappresentati nella sagoma nera nonostante non ne fossero consapevoli.

Laura Cacciamani e colleghi hanno dimostrato così che esiste una maggiore interazione tra memoria e percezione di quanto finora presunto: la nostra mente valuta il significato di tutto ciò che ci circonda prima che sia percepito coscientemente.

Per cui non sottovalutate l’occhio della mente: gli oggetti non hanno bisogno di essere notati per influenzare le vostre scelte.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’attivazione del sistema immunitario compromette le abilità di discriminazione complesse

FLASH NEWS

L’infiammazione al cervello può compromettere la nostra capacità di recuperare ricordi complessi d’esperienze simili ma distinte, come sostengono Irvine Jennifer Czerniawski e John Guzowski due ricercatori dell’Università di California.

Il loro studio, pubblicato recentemente su The Journal of Neuroscience, individua specificatamente come le molecole di segnalazione del sistema immunitario, chiamate citochine, compromettono la comunicazione tra i neuroni dell’ippocampo, un’area del cervello che controlla le capacità discriminative.

I dati sono stati ottenuti analizzando i deficit cognitivi nelle persone sottoposte a chemioterapia e in quelle con delle malattie autoimmuni o neurodegenerative, tutte condizioni mediche caratterizzate da un elevato livello di citochine.

Guzowski, uno degli autori, sostiene che la presente ricerca fornisce il primo collegamento tra l’attivazione del sistema immunitario, la funzione del circuito neurale alterato e le abilità di discriminazione compromesse.

I risultati possono essere utili per i malati di cancro e per coloro che hanno malattie croniche, come la sclerosi multipla, in cui si verifica la perdita di memoria. Inoltre, gli autori sostengono che un dato interessante emerso dai risultati è che la crescita dei livelli di citochine nell’ippocampo danneggia solo le capacità di discriminazione complesse che ci permettono di distinguere tra esperienze analoghe, come per esempio per ciò che riguarda quello che abbiamo fatto al lavoro o mangiato a cena. Le altre capacità più semplici, elaborate dall’ippocampo – che ci permettono di ricordare il dove si lavora – non vengono alterate dall’infiammazione al cervello.

Nel presente studio i ricercatori hanno esposto dei ratti per diversi giorni a due percorsi simili, ma distinguibili ricevendo delle scosse lievi ogni talvolta che i ratti entravano in uno dei due. Una volta che i roditori hanno mostrato di avere imparato la differenza tra i due percorsi, ad alcuni di essi i ricercatori hanno somministrato una bassa dose di un agente batterico che induce una risposta neuroinfiammatoria con conseguente rilascio di citochine. I roditori esposti all’agente batterico  non erano più in grado di distinguere tra i due percorsi.

In seguito, i ricercatori hanno esplorato i pattern di attività dei neuroni nell’ippocampo dei ratti usando un metodo di imaging cellulare “gene-based” sviluppato nel laboratorio Guzowski. Nei roditori che hanno ricevuto l’agente batterico le reti neurali attivate nei due percorsi erano molto simili a differenza di quelle nei ratti non esposti all’agente batterico. Questa scoperta suggerisce che le citochine interrompono la funzione di questi circuiti neuronali specifici dell’ippocampo.

“Le citochine hanno indotto la rete neurale a reagire come se non avesse avuto luogo l’apprendimento”, sostiene Guzowski, professore di Neurobiologia e comportamento. Inoltre l’autore sostiene che la presente ricerca potrebbe spiegare un fenomeno mentale connesso alla chemioterapia conosciuto come “cervello chemio”, in cui i malati di cancro hanno difficoltà a elaborare in modo efficiente le informazioni. I neuro-oncologi hanno scoperto che gli agenti chemioterapici distruggono le cellule staminali del cervello; cellule che sarebbero diventate neuroni per la creazione e la memorizzazione dei ricordi.

Daniela Bota, co-autrice di questo studio, sta attualmente collaborando con il gruppo di ricerca di Guzowski per vedere se l’infiammazione del cervello potrebbe essere un’altra causa associata ai sintomi del “cervello chemio”.

La ricercatrice sostiene, inoltre, che il loro gruppo di ricerca sta attualmente cercando un semplice intervento, come ad esempio un farmaco anti-infiammatorio o steroidi, che potrebbe diminuire l’infiammazione post-chemio. Bota metterà alla prova questo approccio sui pazienti una volta ottenuti i risultati sui animali.

Grazie a delle indagini future questo metodo potrebbe migliorare la qualità della vita delle persone affette da cancro limitando i danni delle cellule cerebrali causate dalla chemioterapia.
 

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 BIBLIOGRAFIA:  

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