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La costruzione dei ricordi: Il senso di una fine di Julian Barnes (Recensione)

Il libro spazia tra passato e presente, tra l’attuale vita di Tony (in pensione e separato) e il suo passato da adolescente e da ragazzo. Colpisce, a volte, come in un romanzo si trovi tanta psicologia quanta se ne possa trovare in un manuale universitario.

Colpisce, a volte, come in un romanzo si trovi tanta psicologia quanta se ne possa trovare in un manuale universitario. Leggendo anche i trascorsi e le vicende degli autori, si riesce a fare una serie di collegamenti e associazioni che fanno capire quanto i temi che emergono nel corso della lettura siano in realtà strettamente legati alle vite personali di chi quel libro l’ha scritto. 

Julian Barnes è uno scrittore inglese, vincitore con il libro Il senso di una fine del Booker Prize del 2011. Nel suo ultimo libro, Livelli di vita, parla della tragica esperienza della morte della moglie avvenuta nel 2008. In una recente intervista (Il dolore non serve a niente– Repubblica delle idee) dichiara quanto sia stato terapeutico per lui tenere un diario dal momento in cui ha saputo della malattia della moglie. …temevo di dimenticare, confida.

E sono proprio i temi della memoria e del ricordo che emergono prepotentemente dalle pagine che raccontano la vita relativamente tranquilla di Tony Webster.

Il libro spazia tra passato e presente, tra l’attuale vita di Tony (in pensione e separato) e il suo passato da adolescente e da ragazzo. Un gruppo di quattro amici separati dalle vicende della vita, una ragazza un po’ particolare che, dopo aver preferito il suo amico Adrian a lui, ritorna dopo anni come portatrice di elementi di cambiamento, fanno da sfondo ai ricordi di Tony. Fino ad arrivare alla morte per suicidio dell’amico Adrian e all’arrivo in eredità del suo diario.

Ciò che emerge dal racconto di Barnes è il concetto di memoria, non come copia fedele degli eventi trascorsi bensì come meccanismo attivo di costruzione e trasformazione. Tale concezione può essere ricondotta, in ambito psicologico, alle prime teorie di Bartlett che assimilava la memoria a uno schema, cioè a una struttura organizzata che guida il nostro comportamento, un modello che può essere modificato per adattarsi a circostanze diverse. Bartlett si oppose alle concezioni cognitiviste precedenti, come quella di Neisser, che propendevano più per un’ipotesi di riapparizione dei ricordi. Ovvero, i ricordi potevano ritornare alla memoria così come erano stati immagazzinati.

Ciò che Bartlett rivoluzionò fu la possibilità di integrare i processi mnestici ad altri processi cognitivi come quelli legati alle emozioni, alle motivazioni e all’immaginazione. Il legame tra memoria ed emozioni è ben esplicato dall’Associative Network Model che spiega, in un modello generale, come sono connessi affettività e cognizione (Mecacci, 2001).

La memoria opererebbe quindi una ricostruzione adattiva, integrando passato e presente. Non è quindi una mera riproduzione del passato. Lo stesso Barnes ci dice che molte volte, raccontando la storia della nostra vita la aggiustiamo, la miglioriamo, applicandovi tagli strategici. Tale meccanismo potrebbe servire per molteplici scopi come per esempio salvaguardare la propria identità escludendo tutto ciò che risulta essere dissonante, mirando quindi a una coerenza.

E alla coerenza mira anche la narrazione. Ricordare qualcosa, infatti, somiglia molto al raccontare una storia. Per questo motivo la memoria potrebbe seguire gli stessi principi della struttura narrativa. Tony, rivedendo i suoi ricordi alla luce di nuovi elementi emersi anni dopo, afferma come

la nostra vita non è la nostra vita ma solo la storia che ne abbiamo raccontato. Agli altri ma soprattutto a noi stessi.

Infatti, la teoria dei flashback di memoria (New Print Theory) prevede proprio l’importanza, per la maggior vividezza del ricordo, della reiterazione verbale e dei resoconti forniti ad altre persone (Brown & Kulik, 1977).

I personaggi di questo libro, avvolti a tratti da un’atmosfera che sembra fredda e lugubre, vanno alla disperata ricerca di un senso. Quindi non solo il senso di una fine, ma probabilmente anche di una vita.

Ognuno di loro sembra interrogarsi sul senso del mondo e dello stare al mondo: c’è chi non sceglie e chi invece vuole poter scegliere se andare avanti oppure no, prendendo in mano le redini della vita e della sua fine. Questa ricerca dura tutta la vita. Ma alla fine la risposta non arriva. Anzi,quando crediamo di aver compreso qualcosa, di aver messo insieme i tanti pezzettini del puzzle, in realtà ci accorgiamo di non aver capito nulla.

Tra diario e narrazione autobiografica, concezione costruttivista della memoria e creazione dell’identità mediante narrativa, molti sono i temi legati agli studi psicologici che rendono questo libro piacevole da leggere e anche molto istruttivo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Relazioni infelici: perchè la coppia non scoppia?

Quel feeling che lega e mantiene salda la coppia dovrebbe essere alla base della solidità. Allora nasce la questione: come è possibile portare avanti relazioni che non funzionano?

Persone sposate, o in relazione da molto tempo, pare siano apparentemente compatibili su molte cose, ma non riescono a diventare veramente intimi. In sostanza, condividono la quotidianità, ma nulla di realmente privato che possa portarli alla vera conoscenza e confidenza con il partner. Eppure tante coppie, costituite da partner non totalmente simili, portano avanti la relazione per anni, ma ad un certo punto scoppiano e divorziano.

E’ logico che col tempo, attraverso la conoscenza si scoprano molte cose dell’altro, ma quel feeling che lega e mantiene salda la coppia dovrebbe essere alla base della solidità. Allora nasce la questione: come è possibile portare avanti relazioni che non funzionano?

Gli psicologici sono molto interessati all’argomento, ma spesse volte si concentrano su cosa determini la scelta di una persona, senza andare ad identificare quali siano le variabili che portano ad avere una buona relazione duratura. Avere partner ricchi, belli, forti, eleganti, etc., tutte caratteristiche che nel tempo possono sparire o mutare e per questo se si costruisse una relazione sulla base di queste qualità è possibile possa non resistere a lungo.

Allora, perché avvengono queste scelte? Un team di ricercatori dell’Università di Toronto offre una nuova chiave di lettura su cosa determini le scelte nelle relazioni affettive. Secondo la ricercatrice Samantha Joel e i suoi colleghi, la mente umana ha tendenze prosociali e automatiche forti determinate dalla credenza che non è piacevole infliggere dolore sociale. Per questo si tende ad essere gentili con l’altro per non causargli dolore e sofferenza, e questa cosa porta a mantenere le relazioni anche con partner non compatibili. Di conseguenza rifiutare qualcuno diventa più facile a dirsi che a farsi, almeno questa è la teoria cui sono giunti gli scienziati di Toronto.

Vediamo da dove sono partiti. I ricercatori del gruppo di Joel hanno reclutato giovani uomini e donne soli ma interessati a conoscere e uscire con qualcuno. Così è stato creato un sito per appuntamenti con foto di gente non molto attraente. Dopo aver effettuato la loro scelta, i partecipanti, hanno fissato un appuntamento con la persona designata. Ma qui arriva la parte più importante dell’esperimento: ad alcuni dei partecipanti era detto che la persona scelta era nello stesso posto nel quale si trovavano loro ed era disponibile immediatamente ad un incontro, ad altri invece che dovevano solo immaginare cose poteva accadere con questa persona. E cosa è successo?

Quando si trattava di una persona più prossima fisicamente tendevano a considerarla più attraente di quanto non lo fosse, e quando veniva loro chiesto come mai avveniva questa cosa rispondevano di essere preoccupati della reazione emotiva avuta dall’altro nel caso avessero deciso di non incontrarlo. Tendevano, insomma, ad essere più gentili e disponibili!

Beh, è incoraggiante che le persone siano mosse da una così forte empatia e disponibilità, ma cosa succede se sulla scia di queste emozioni si costruiscono relazioni infelici? Non è chiaro da questi studi fino a che punto la gente sarebbe disposta ad accondiscendere l’altro. E’ plausibile che col crescere dell’empatia si investa di più in un rapporto, tanto meno si vuole danneggiare il partner e per questo aumentino le probabilità di rimanere insieme. E poi, cosa potrebbe accadere?

Ai posteri l’ardua sentenza, ma una cosa è certa: la gentilezza non paga nelle relazioni d’amore! O meglio, potrebbe portare a pagare l’avvocato divorzista!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Joel, S., Tepper, R., & MacDonald, G. (in press). People overestimate their willingness to reject potential romantic partners by overlooking their concern for others. Psychological Science

Scoperto un gene che influenza l’apprendimento delle norme culturali

 FLASH NEWS

 

 

La loro tesi è che i geni potrebbero rendere le persone più o meno sensibili alle norme culturali. In particolare un gene, il DRD4, potrebbe contribuire all’apprendimento di valori individualistici o comunali.

Individualista o cooperativo? Al di là degli stereotipi che vedono alcuni gruppi culturali o etnici più assimilabili all’uno o all’altro orientamento sociale, cosa influenza l’orientamento sociale individuale?

Una possibilità è la genetica. Non ci sono geni per l’individualismo o per la socialità, ma forse c’è un altro modo in cui i geni interagiscono con la cultura per generare la variabilità individuale. Questa è l’idea che Shinobu Kitayama e i suoi colleghi dell’Università del Michigan hanno cercato di verificare.

La loro tesi è che i geni potrebbero rendere le persone più o meno sensibili alle norme culturali. In particolare un gene, il DRD4, potrebbe contribuire all’apprendimento di valori individualistici o comunali.

È’ noto che le variazioni di questo gene influenzano l’efficienza del neurotrasmettitore dopamina, e che la trasmissione della dopamina a sua volta stimola alcune regioni cerebrali legate all’elaborazione della ricompensa. Questa sensibilità alla ricompensa influenza l’apprendimento, incluso, in teoria, l’apprendimento di norme culturali. Il team ha testato quest’idea in laboratorio.

Ha reclutato un folto gruppo di studenti universitari, circa la metà di origine americana e europea e l’altra metà asiatica. L’orientamento sociale dei volontari è stato valutato approfonditamente. Gli scienziati hanno poi prelevato campioni di saliva per l’analisi del DNA e suddiviso i volontari sulla base della variabilità del gene DRD4.

Incrociando i dati genetici con quelli sull’orientamento sociale hanno scoperto che:  i volontari americani ed europei erano significativamente più indipendenti mentalmente, e gli asiatici molto più interdipendenti

Nessuna sorpresa dunque, fino alla scoperta di un altro dato ben più intrigante: questa differenza culturale era molto più pronunciata sia negli asiatici che negli americani e europei che possedevano la variante del gene della dopamina. Mentre non c’era assolutamente nessuna differenza tra americani/europei e asiatici che non possedevano la variante del gene. 

Questo studio, che solleva un sacco di interrogativi sulla co-evoluzione di geni e cultura, è il primo a dimostrare che il gene DRD4 svolge un ruolo importante nel modulare influenze culturali.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione di cibo – Definizione Psicopedia

Si caratterizza per il disinteresse per il cibo, la selezione di alcuni alimenti basato sugli aspetti sensoriali (sensibilità estrema, con un quadro ben diverso dai bambini “schizzinosi”) o anche su alcune marche, la preoccupazione per le conseguenze negative del mangiare, quali eventuali vomito o soffocamento.

Rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 (uscito nel maggio 2013), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria. Nella versione precedente era denominato Disturbo della nutrizione dell’infanzia o della prima fanciullezza: inoltre sono stati ampliati i criteri diagnostici.

Si caratterizza per il disinteresse per il cibo, la selezione di alcuni alimenti basato sugli aspetti sensoriali (sensibilità estrema, con un quadro ben diverso dai bambini “schizzinosi”) o anche su alcune marche, la preoccupazione per le conseguenze negative del mangiare, quali eventuali vomito o soffocamento.

 

Come conseguenza negli adulti c’è una significativa perdita ponderale e nei bambini l’incapacità di raggiungere gli aumenti di peso previsti, la malnutrizione, la dipendenza dall’alimentazione parenterale (sondino nasogastrico) o da integratori nutrizionali orali, e ovviamente è compromesso il funzionamento psicosociale, come il mangiare in pubblico e le relazioni.

Vanno escluse la mancanza di disponibilità di cibo, le pratiche di digiuno all’interno di contesti culturali e sociali particolari, quali i digiuni religiosi, l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa.

In caso di presenza di condizioni mediche particolari (disturbi gastrointestinali, allergie e intolleranze alimentari) o altri disturbi mentali, viene apposta la diagnosi di disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo solamente in presenza di un quadro clinico importante, non spiegato dalla stessa patologia.

L’esordio dell’evitamento o della restrizione legati alla mancanza di interesse per il cibo è più frequente in età infantile, ma può continuare nell’età adulta. L’evitamento o restrizione basato su aspetti sensoriali insorge solitamente entro i dieci anni e diventa relativamente stabile, non intaccando in modo particolare il funzionamento sociale, anche da adulto. L’evitamento associato a conseguenze avverse può insorgere a qualunque età.

 

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Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione – Definizione Psicopedia 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association. (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM-5). Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE 

Procrastinazione: dipende dalla nostra percezione del tempo

FLASH NEWS

 

Secondo uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Consumer Research abbiamo maggiori probabilità di iniziare un lavoro quando questo ci sembra parte del presente; se invece un compito ci appare come parte del futuro facilmente lo rimanderemo. 

Perchè riusciamo a svolgere prontamente alcune incombenze o lavori mentre ne rimandiamo altri all’infinito? La risposta sembra essere nella nostra percezione del tempo.

Secondo uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Consumer Research, infatti, abbiamo maggiori probabilità di iniziare un lavoro quando questo ci sembra parte del presente; se invece un compito ci appare come parte del futuro facilmente lo rimanderemo. 

Yanping Tu della University of Chicago’s Booth School of Business e Dilip Soman dell’Università di Rotman School of Management di Toronto, hanno condotto una serie di studi per mettere alla prova la loro teoria.

In uno di questi, 100 studenti avevano cinque giorni di tempo per completare un compito di immissione dei dati di quattro ore; l’assegnazione è stata fatta alla fine di aprile.

Gli studenti a cui è stato assegnato il compito il 24 o il 25 aprile dovevano terminarlo entro il 29 o il 30 e avevano, secondo la teoria in esame, maggiori probabilità di iniziare i lavori di quelli a cui il compito è stato assegnato il 28 e che dovevano terminarlo nei primi giorni di maggio.

Il cambiamento di mese, come previsto, ha agito sugli studenti come una barriera temporale virtuale, che ha reso il compito parte di un futuro non imminente e quindi maggiormente procrastinabile.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Uso di cannabis e insorgenza di disturbi psichiatrici: quale relazione?

Alcuni studi che hanno esaminato gli effetti del consumo di cannabis negli adolescenti hanno rilevato una forte correlazione tra uso di cannabis e l‘insorgenza di molti disturbi psichiatrici, come la psicosi da cannabis, la depressione e gli attacchi di panico.

Questi disturbi possono insorgere a causa di uno specifico effetto farmacologico della cannabis, o come risultato delle esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione da cannabis. Si è rilevato, inoltre, che tra i consumatori di cannabis vi è un alto rischio di insorgenza di ideazione suicidaria e di tentativi di suicido. 

Secondo dati provenienti da indagini condotte sulla popolazione, in media il 31,6% dei giovani adulti europei (15-34 anni) ha utilizzato la cannabis almeno una volta nella vita, mentre il 12,6% ne ha fatto uso nell’ultimo anno e il 6,9% nell’ultimo mese. Una percentuale ancora più alta di europei appartenenti alla fascia dei 15–24 anni ha utilizzato la cannabis nell’ultimo anno (15,9%) o nell’ultimo mese (8,4%) (Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, 2010).

Il consumo di cannabis è stato associato ad un aumento del rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici. In uno studio longitudinale condotto in Svezia su 50.465 maschi svedesi, ad un follow up condotto dopo 15 anni, si è rilevato che coloro che avevano cominciato a consumare cannabis
a 18 anni avevano una probabilità due volte e mezzo maggiore, rispetto ai non consumatori, di essere diagnosticati schizofrenici (Andreasson et al., 1987).

Secondo i risultati di uno studio condotto in Bosnia-Erzegovina (Licanin et al., 2002) l’ abuso di sostanze è risultato molto più alto tra gli adolescenti delle aree urbane (con tassi del 62,4% per l’abuso di alcool e del 70,0% per abuso di cannabis) rispetto a quelli che vivono nelle aree rurali (dove si registra un tasso del 37,6% per abuso di alcool e del 30% per abuso di cannabis). Per quanto riguarda l’età, l’abuso di cannabis è risultato più frequente tra gli adolescenti di età compresa tra i 15 ed i 17 anni. Gli adolescenti consumatori di cannabis sono a rischio sia di
abbandono che di ridotto rendimento scolastico.

L’ uso occasionale o continuativo di cannabis può indurre molti disturbi psichiatrici come psicosi da cannabis, attacchi di panico, depressione che può sfociare in tentativi di suicido. Wayne Hall e Louisa Dagenhardt (2009) hanno individuato degli effetti collaterali legati all’assunzione sia occasionale che continuativa di cannabis.

Per gli autori, gli effetti collaterali legati all’uso occasionale di cannabis possono essere di tre tipi:

  • attacchi di ansia e di panico, in particolare nei nuovi consumatori;
  • sintomi psicotici (nel caso di consumo di dosi elevate di cannabis);
  • incidenti stradali legati alla guida in stato di intossicazione da cannabis.

Gli effetti avversi legati all’uso continuativo di cannabis sono invece:

  •  sindrome di dipendenza da cannabis (osservata in circa il 10% dei consumatori);
  • bronchite cronica e funzione respiratoria compromessa nei fumatori abituali di cannabis;
  • sintomi psicotici e disturbi psichiatrici nei consumatori che fanno uso massiccio di cannabis, in particolare nei soggetti con una storia pregressa di sintomi psicotici o con una storia familiare di questi disturbi;
  • ridotto livello di istruzione negli adolescenti che sono consumatori regolari;
  • deterioramento cognitivo per i consumatori abitudinari giornalieri da più di 10 anni.

Altri possibili effetti collaterali, individuati dagli autori, legati al regolare consumo di cannabis con relazione causale sconosciuta sono:

  • tumori delle vie respiratorie;
  • disturbi comportamentali in bambini le cui madri hanno fatto uso di cannabis durante la
    gravidanza;
  • disturbi depressivi, mania, e suicidio;
  • uso di altre droghe illecite da parte degli adolescenti.

Cannabis nel DSM IV-TR

Secondo il DSM IV-TR le problematiche derivanti dall’uso di Cannabis sono dipendenza da cannabis e abuso di cannabis.

I disturbi psichici indotti dal abuso di cannabis sono:

  •  Intossicazione da cannabis;
  •  Delirium da Intossicazione;
  •  Disturbo Psicotico Indotto da Cannabis (con manie o con allucinazioni);
  •  Disturbo d’Ansia indotto da Cannabis
  •  Disturbo cannabis-correlati non altrimenti specificati: come il Disturbo Delirante indotto da cannabis che è una sindrome (di solito con deliri di persecuzione) che si sviluppa subito dopo l’uso di cannabis. Essa può essere associata a marcata ansia, depersonalizzazione,
    e labilità emotiva e può essere erroneamente diagnosticata come schizofrenia. Successivamente all’episodio può subentrare amnesia .

L’uso occasionale di cannabis può generare sintomatologie che potrebbero essere diagnosticate erroneamente come crisi di panico, disturbo depressivo maggiore, disturbo delirante, disturbo bipolare, o schizofrenia paranoide.

Ipotesi sul rapporto tra uso di cannabis e psicosi

Ci sono due ipotesi che possono spiegare l’insorgenza di psicosi legato al consumo di cannabis. Lo stato psicotico può verificarsi sia come risultato di uno specifico effetto farmacologico della cannabis, che come il risultato di esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione di
cannabis. L’effetto psicotico sembrerebbe derivare dall’azione del delta-9-tetraidrocannabinolo (delta-9-THC), uno dei maggiori e più noti principi della cannabis. La seconda ipotesi è che l’uso di cannabis possa generare schizofrenia, o aggravarne i sintomi, in un
individuo vulnerabile o predisposto. In particolare l’uso regolare e continuativo di cannabis sembrerebbe quadruplicare il rischio di sviluppare un disturbo schizofrenico (Hautecouverture et al., 2006).

Cannabis e ideazione suicidaria

Licanin et al. (2003) hanno osservato una maggior prevalenza di ideazione suicidaria nei consumatori che abusano di cannabis (50,0%) e di alcol (36,6%) rispetto ai non-consumatori, indipendentemente dal sesso del consumatore e/o da cause ambientali. L’aumento dell’ideazione
suicidaria, non è stato osservato nei fumatori di tabacco. In uno di studio condotto in Bosnia-Erzegovina relativo al rapporto tra pensieri suicidari e l’abuso di droghe psicoattive, si è constatato che il 28,7% degli adolescenti che abusavano di droghe psicoattive e il 20,2% che, in particolare, abusava di cannabis, in seguito aveva sviluppato pensieri suicidari (Spremo & Loga, 2005).

Per molto tempo la cannabis è stata la droga illecita più usata dai giovani, soprattutto gli adolescenti. Il consumo di cannabis si è dimostrato essere associato ad un aumentato rischio di disturbi mentali. Gli effetti collaterali del consumo di cannabis dipendono dalla modalità di
somministrazione, dalla dose ricevuta, dal tempo di utilizzo, dalle aspettative del consumatore e dalla sua personalità. Il rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici è molto alta nei soggetti vulnerabili, comprese le persone che hanno usato cannabis durante adolescenza, quelli che in
precedenza avevano sperimentato sintomi psicotici, e quelli ad alto rischio genetico di disturbi psichiatrici.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Andreasson, S., Engstrom, A., Allebeck, P. & Rydberg, U. (1987). Cannabis and schizophrenia: a longitudinal study of Swedish conscripts,.Lancet, 2,1483-86.
  • American Psychiatric Association (2001). DSM-IV-TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Text Revision, Masson: Milano.
  • Hall, W., & Degenhardt, L. (2009). Adverse health effects of nonmedical cannabis use, Lancet, 374, 1383-92.
  • Hautecouverture, S., Limosin, F., & Roullon, F. (2006). Epidemiology of schizophrenic disorders, Presse Med, 35, 452-3.
  • Ličanin, I., Loga, S., & Cerić, I., et al.( 2002). Zloupotreba psihoaktivnih supstanci kod adolescenata u ruralnoj i urbanoj sredini, Med. Arh, 56 (5-6) 285-288.
  • Ličanin, I., Cerić, I., & Loga, S., et al. (2003). Socio-ekonomski parametri zloupotrebe supstanci kod adolescenata u BiH, Zbornik radova Prvog kongresa psihijatara Bosne i Hercegovine, Sarajevo, 212-213.
  • Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Evoluzione del fenomeno della droga in Europa Relazione annuale 2010.
  • Spremo, M., Loga, S., Burgić-Radmanović, M. & Ličanin, I. (2006). Psychoactive supstances and risk behavior among adolescents, Neurologia Croatica, vol. l55, suppl. 2, 161-162.
  • Slobodan, L., Svjetlana, L., & Mira, S. (2010). Cannabis and psychiatric disorders, Psychiatria Danubina, Vol. 22, No. 2, 296–297

Vuoi sapere se sono felice? Chiedimi se dormo!

Elena Sirotti & Valentina Di Dodo OPEN SCHOOL

 

Recenti ricerche hanno dimostrano che i disturbi del sonno contribuirebbero in prima linea all’evoluzione della sintomatologia depressiva. In questo senso si può dire che i disturbi del sonno possono precedere e prevedere la depressione.

Com’ è ormai noto i disturbi del sonno sono una caratteristica comune nella depressione, infatti rappresentano uno dei nove sintomi riscontrabili in un episodio depressivo maggiore. Alcuni dati indicano che fino al 90% delle persone con diagnosi di Depressione Maggiore hanno anche una diagnosi d’insonnia, inoltre ci sono prove empiriche che la depressione sia associata a problematiche legate al sonno anche in casi di insonnia sub-clinica.

Recenti ricerche (Chen et all.) hanno dimostrano che i disturbi del sonno contribuirebbero in prima linea all’evoluzione della sintomatologia depressiva. In questo senso si può dire che i disturbi del sonno possono precedere e prevedere la depressione.

Un recente studio americano di W. Michael Vanderlind e collaboratori, ha cercato di identificare i meccanismi di fondo che generano una correlazione tra disturbi del sonno e depressione.

Gli autori ipotizzano che i disturbi del sonno influenzino i sintomi depressivi attraverso il loro impatto sulle abilità cognitive, in particolare quelle abilità che riguardano il controllo cognitivo. Infatti, in altre ricerche che studiavano separatamente le problematiche relative al sonno e al disturbo depressivo, è stato trovato un collegamento, in entrambi i casi, proprio con un deficit nel controllo cognitivo.

Alla luce di questi risultati, Vanderlind ha esaminato se le difficoltà del sonno possano essere associate ad un ridotto controllo cognitivo su stimoli emotivi e se queste riduzioni possano essere legate o meno ad un aumento dei sintomi depressivi.

Questo studio utilizza sia questionari self-report per la misurazione della sintomatologia depressiva, che misure oggettive per valutare la qualità del sonno. In particolare i ricercatori hanno utilizzato un Actigraph, un dispositivo dotato di un accelerometro che permette di valutare la qualità e la quantità del sonno in modo oggettivo. L’Actigraph permette ai ricercatori di valutare i periodi di sonno e di veglia attraverso la misurazione dei movimenti della persona, inoltre questa tecnica permette di ottenere una misurazione anche dei ritmi circadiani, tutto in un ambiente naturale al di fuori del laboratorio.

Il campione era composto da 58 studenti universitari, i quali sono stati sottoposti a due sessioni a distanza di 3 settimane una dall’altra, durante le quali venivano somministrati i questionari e raccolti i dati. Nel periodo che intercorreva tra una sessione e l’altra veniva utilizzato l’Actigraph per raccogliere i dati oggettivi che servivano per rilevare i disturbi del sonno. L’ipotesi della ricerca era che una minore qualità e quantità di sonno avrebbe dato luogo ad un incremento dei sintomi depressivi.

In linea con l’ipotesi di partenza i dati hanno mostrato che la qualità del sonno riferita dagli studenti attraverso i questionari self-report è associata ad un aumento nei sintomi depressivi, pertanto sarebbe possibile prevedere un aumento della sintomatologia se è presente una diminuzione della qualità del sonno.

Questa scoperta supporta quelle di Chen e collaboratori, i quali suggeriscono che i disturbi del sonno non sono solamente un sottoprodotto della depressione, ma possono precedere il disturbo e i suoi sintomi. Anche se la carenza di sonno clinicamente rilevante (ad esempio insonnia) è predittiva della depressione, non è però stato possibile osservare una relazione tra la durata del sonno e il cambiamento nella gravità della sintomatologia depressiva.

 

Vuoi sapere se sono felice-chiedimi se dormo_grafico

Fig. 1. Path analysis predicting change in depressive symptoms.

 

Infine, i ricercatori hanno testato un loro modello teorico ipotizzando che, dato il collegamento tra i disturbi del sonno e il deficit di controllo cognitivo, e i sintomi depressivi e lo stesso deficit di controllo cognitivo, allora il controllo cognitivo sugli stimoli negativi medierebbe la relazione tra la qualità del sonno e i cambiamenti dei sintomi depressivi.

La scarsa qualità del sonno è stata associata con una maggiore difficoltà di attenzione e maggiore difficoltà a distrarsi da stimoli emotivamente negativi, che a loro volta portano a prevedibili aumenti di sintomi depressivi. Inoltre è stato osservato un rapporto indiretto tra stabilità del ciclo sonno-veglia e sintomi depressivi. In sintesi, le alterazioni del sonno possono contribuire allo sviluppo di depressione alterando il controllo cognitivo.

Come ultima analisi, i ricercatori hanno esplorato la relazione di un gene detto clock con le variabili della ricerca. Questo studio presenta dei risultati preliminari, che suggeriscono che la qualità del sonno potrebbe essere influenzata dal gene clock, anche se questo gene non sembra influenzare né la durata del sonno né il controllo cognitivo.

Questo studio innovativo ha dato risultati molto interessanti e utili nella prevenzione della depressione e delle sue ricadute.

Tuttavia questi dati sono ancora parziali e la ricerca ha più di un limite: ad esempio l’esiguo numero di soggetti studiati, un modello teorico ancora non ben strutturato, l’utilizzo di questionari self-report che hanno limiti legati alla soggettività delle risposte e l’uso dell’Actigraph che basandasi sul movimento dei soggetti potrebbe aver sovrastimato o sottostimanto le ore di sonno.

In futuro la ricerca dovrebbe continuare a esplorare il rapporto tra queste variabili all’interno di un unico modello per sviluppare una sempre più completa comprensione della depressione e del suo rapporto con i disturbi del sonno e il controllo cognitivo di stimoli emotivi.

 

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I sensi e l’inconscio di Giuseppe Civitarese – Recensione

 

 

Il libro di Civitarese “I sensi e l’inconscio” (2014) pubblicato quest’anno ha –tra i suoi meriti- quello di chiarire cosa potrebbe esserci in Bion che tanto affascina i colleghi psicoanalisti italiani. Civitarese offre una concezione della teoria analitica che consapevolmente si richiama a Bion e alla concezione che Bion aveva dell’inconscio.

Gli psicoanalisti italiani nutrono una passione per Wilfred Bion. Citato spesso nei seminari e nei libri, evocato con trasporto intellettuale ed emotivo. Lo aveva notato già Davide Lopez, quando si trasferì in Italia negli anni ‘60 dopo il suo soggiorno londinese (Lopez, 2011), quasi meravigliandosi del prestigio che Bion godeva tra noi, probabilmente maggiore che nel mondo anglo-sassone. In Italia Bion sembra essere concepito come autore di una vera svolta paradigmatica, di pari peso rispetto alla teoria delle relazioni oggettuali o della teoria delle difese dell’Io.

Perché? Non è facile rispondere, soprattutto per chi è estraneo all’ambiente psicoanalitico, come sono io. Il libro di Civitarese “I sensi e l’inconscio” (2014) pubblicato quest’anno ha –tra i suoi meriti- quello di chiarire cosa potrebbe esserci in Bion che tanto affascina i colleghi psicoanalisti italiani. Civitarese offre una concezione della teoria analitica che consapevolmente si richiama a Bion e alla concezione che Bion aveva dell’inconscio.

Una visione dell’inconscio diversa da quella freudiana e che forse si apparenta con un modo di vedere le cose che fa parte della tradizione di pensiero italiana, della nostra visione della realtà, dell’uomo e quindi della sua mente.

In Bion l’inconscio riceve una nuova centralità. Sembrerebbe un ritorno a Freud, e lo è. Non del tutto, però. In Bion l’inconscio non è solo un calderone di pulsioni cieche da soddisfare. Al contrario, esso è il vero centro di elaborazione della mente, è il luogo dove davvero si pensa un pensiero vivente, al tempo stesso vissuto e anche razionale (ma non razionalistico).

Il pensiero inconscio di Bion si contrappone sia alle elaborazioni astratte e razionalistiche del pensiero puramente consapevole (che sono in realtà difese) sia alle pulsioni istintive non elaborate.

È un’ipotesi che somiglia in parte alla teoria delle difese, ma che se ne discosta laddove pone al centro del processo curativo l’inconscio. La teoria delle difese vedeva la terapia come un progressivo rinunciare alle difese. Più positivamente, Bion vede la terapia come un vero a proprio abbandonarsi all’inconscio senza difese, fiduciosi che proprio in quest’abbandono si crea la condizione che permette all’inconscio di fare il proprio lavoro di elaborazione sentita, vivente e non difensiva e astratta.

Civitarese spiega tutto questo e usa un termine evocativo, “inconsciare”. Anche il sogno ritorna centrale in Bion, come in Freud. E anche in questo caso con una differenza: il sogno non è solo possibilità di decifrare i desideri inconsci, ma di elaborarli. Solo sognando diventiamo in grado di pensare i nostri desideri e di portarli alla luce del sole.

E infine il corpo e la relazione di gruppo ricevono da Bion attenzione. Il corpo e la relazione sono altri luoghi di questo pensiero vivente, emotivo e razionale al tempo stesso e mai astratto e razionalistico, difensivo e morto.

Sebbene le distanze di questo mondo analitico dal mio mondo cognitivista siano grandi, la lettura di Civitarese suscita risonanze evocative e stravaganti nella mia mente. La visione bioniana di un inconscio pensante e non solo bestialmente desiderante non è lontana da una visione cognitiva della mente. L’idea di Bion e di Civitarese che l’elaborazione mentale sia per lo più un processo inconscio si avvicina agli ultimi sviluppi del cognitivismo, con il loro interesse per i processi inconsapevoli.

Il suggerimento di lasciarsi andare all’attività spontanea della mente, fino a considerare ogni buon pensiero come un sogno da svegli e, nelle parole di Civitarese, il considerare la stessa seduta analitica un sogno mi richiama alla mente il modello metacognitivo, in cui la coscienza, piuttosto che sostituire le emozioni, le utilizza per mettersi in contatto con il mondo esterno. E così via.

Ci sono dei parallelismi tra questa visione bioniana dell’inconscio come sede di un pensiero vivente, vero pensiero storicamente incarnato nell’individuo reale e distinto sia dalle formule astratte del razionalismo che dal cieco istinto. Il pensiero filosofico italiano ha sempre concepito l’attività mentale come un misto tra razionalità ed emozioni, in cui l’elaborazione è più frutto di un abbandono emotivo che di uno sforzo consapevole. Secondo il filosofo Roberto Esposito (2010), autore di una descrizione della filosofia italiana che è già un classico tradotto in molte lingue, troviamo questa concezione via via in Machiavelli, Giordano Bruno, Giambattista Vico, Vincenzo Cuoco, Giacomo Leopardi, Croce e Gentile fino a Gianni Vattimo.

La somiglianza tra questa concezione italiana, emotivista ma non istintualista, razionale ma non astratta, e infine profondamente relazionale della mente umana e la concezione di Bion potrebbe anche spiegare la spontanea predilezione degli psicoanalisti italiani per questo psicoanalista.

Per chi si fosse incuriosito per Bion e per la concezione italiana di Bion, raccomando la lettura del libro di Civitarese. Lettura sia consapevole che inconscia. Naturalmente.

 

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I sensi e l’inconscio di Giuseppe Civitarese (2014) – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’ossitocina può ingannare le nostre percezioni sociali

FLASH NEWS

 

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science in alcune situazioni sarebbe proprio l’ossitocina ad impedirci di comprendere a fondo le intenzioni non del tutto amichevoli del nostro interlocutore, inibendo la nostra capacità di rilevare le intenzioni nascoste nelle facce degli altri.

L’ossitocina, anche chiamato ormone della fiducia, sembra favorire i rapporti sociali in una varietà di situazioni: basta una stretta di mano o un complimento a darci una carica di ossitocina e una sensazione di connessione.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, però, in alcune situazioni sarebbe proprio l’ossitocina ad impedirci di comprendere a fondo le intenzioni non del tutto amichevoli del nostro interlocutore, inibendo la nostra capacità di rilevare le intenzioni nascoste nelle facce degli altri.

La psicologa ricercatrice Eyal Winter e il suo team hanno chiesto a un campione di 84 individui di guardare il programma “Friend or Foe?” (amico o nemico?) e valutare, dopo dopo essere stati istruiti per farlo, chi era sincero e degno di fiducia e chi no. Prima di guardare lo spettacolo, alcuni partecipanti hanno ricevuto una dose intranasale di ossitocina, mentre altri hanno ricevuto un placebo.

Nel complesso, entrambi i gruppi erano in grado di identificare i volti amichevoli e quali concorrenti sarebbero stati in grado di cooperare. Tuttavia i risultati nei due gruppi si discostavano quando si trattava di identificare i concorrenti più falsi e ingannevoli.

Secondo i ricercatori, infatti, l’ossitocina sopprimerebbe l’attenzione per gli stimoli sociali negativi, con conseguente diminuzione della capacità di identificare l’astuzia nascosta in un volto apparentemente amichevole: “Quando motivazioni miste si nascondono sotto la patina di un volto amico, l’ossitocina può ostacolare la nostra capacità di riconoscere che qualcosa non quadra” concludono.

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Monogamia & Ossitocina 

 

BIBLIOGRAFIA:

EABCT 2014 – An empirical test of a metacognitive model of craving

 

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Udire le voci: malattia o malessere? E cos’è la “Recovery”?

 

 

 Secondo l’ approccio della recovery, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali,tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona.

L’approccio dei professionisti della salute mentale all’esperienza dell’udire le voci (con in termine “voci” si intende qualsiasi esperienza o percezione inusuale: voci interiori, compagni invisibili, la voce della coscienza, spiriti, angeli, demoni, la voce di Dio, personalità scisse, allucinazioni visive etc.) è ancora, troppo spesso, stigmatizzante e, di fatto, iatrogeno poiché sentire le voci è considerato ipso facto uno dei sintomi cardinali delle psicosi.

In molti Paesi del mondo occidentale, una persona che ode le voci viene immediatamente vista come qualcuno che ha un problema psichiatrico tipicamente identificato come schizofrenia. Altri aspetti significativi di tale esperienza non vengono quasi mai presi in considerazione poiché la priorità è data al sopprimere il sintomo di malattia prima ancora di comprenderlo.

Tuttavia, nella storia dell’umanità, l’udire le voci è ampiamente riscontrabile sin dalle più antiche civiltà. Il primo famoso uditore di voci è stato Socrate (469-399 aC) che riferiva di udire la voce di un demone al quale tuttavia conferiva una valenza positiva. Altri famosi uditori di voci sono stati Maometto, Gesù, San Paolo, Giovanna d’Arco, William Blake, Virginia Woolf, ed il compositore Robert Schumann. In alcune società orientali l’udire le voci viene ancora tutt’oggi considerato come un’esperienza relativamente normale e spesso apprezzata in senso positivo.

Da circa vent’anni è emersa a livello mondiale una prospettiva nuova, adottata da professionisti della salute mentale e dagli uditori di voci stessi, denominata “Recovery”. Secondo tale approccio, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, i fenomeni inusuali non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona.

Seguendo questa prospettiva si cerca di uscire dalla dicotomia malattia/guarigione ponendosi invece in un’ottica di Recovery, ovvero di percorso di riappropriazione della propria vita.

 

Il termine Recovery non possiede un esatto equivalente nella lingua italiana e non è semplicemente traducibile con il termine guarigione, ma piuttosto con forme verbali riflessive quali ad esempio con il termine “riappropriarsi”. A differenza della parola “guarire”, quest’ultima implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine. Con il termine Recovery non ci si riferisce infatti ad una situazione di ritorno al prima della malattia.

Secondo Anthony (1993) esistono diversi tipi di guarigione:

  •  guarigione clinica che consiste nella remissione sintomatologica;
  • guarigione sociale che consiste in un ritorno al funzionamento sociale e lavorativo dell’individuo;

  • guarigione personale che consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita;

Sebbene il termine Recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.

Anthony descrive il Recovery come:

a deeply personal, unique process of changing one’s attitudes, values, feelings, goals, skills and/or roles. It is a way of living a satisfying, hopeful, and contributing life even with limitations caused by the illness. Recovery involves the development of new meaning and purpose in one’s life as one grows beyond the catastrophic effects of mental illness”.

Tuttavia, questo processo non riguarda solo persone affette da una “malattia” ma tutti. Ognuno può fare i conti con la sua personale “malattia”, ovvero la sua rigidità di pensiero, la tendenza a delegare agli altri la soluzione dei problemi, la difficoltà a credere che i sogni si possano realizzare, etc. Si può quindi asserire che ognuno può fare il proprio percorso di Recovery e che non esiste un percorso uguale all’altro o soluzioni migliori a priori poiché siamo tutti diversi e ugualmente importanti.

 

Per quanto riguarda gli uditori di voci, esistono testimonianze di persone che si sono riprese dalla sofferenza causata dall’udire le voci (Romme et al., 2011). Queste persone hanno superato gli atteggiamenti sociali e psichiatrici invalidanti e hanno combattuto duramente, anche con se stesse, per poter accettare e trovare un senso alle voci e hanno cambiato il loro rapporto con esse per poter finalmente rivendicare il diritto alla propria vita.

Per loro guarire ha significato comprendere che le loro voci non erano un segno di pazzia, bensì una reazione a determinati problemi di vita che prima non si sapeva come affrontare. Tali persone hanno riscontrato il fatto che le voci parlano dei problemi che la persona non ha risolto e che pertanto le voci hanno un senso. Ne deriva che il processo di Recovery per gli uditori di voci riguarda quindi l’accettazione delle voci, il cambiamento del rapporto con esse ed il fronteggiamento dei problemi della propria vita.

Circa il 70% di uditori di voci afferma che le voci si riferiscono a traumi e altre situazioni dove la persona ha esperito un forte senso di impotenza. In accordo con ciò recenti ricerche dimostrano che i sintomi considerati indicativi di psicosi sono correlati agli abusi e alla trascuratezza subiti nell’infanzia almeno quanto molti altri problemi di salute mentale e che questa relazione è di fatto causale, con un effetto dose dipendente (Bloom, 2003).

Da quanto detto finora, emerge chiaramente che guarire per un uditore di voci non significa liberarsi delle voci, tanto meno cancellarle o sopprimerle, come invece troppo spesso imposto dalle tradizionali cure psichiatriche che seguono un modello medico-centrico di malattia mentale. Diversamente, nel processo di recovery di un uditore di voci, viene incoraggiata la possibilità di sperimentarsi e la ricerca di connessioni tra le voci, le emozioni e fatti accaduti nella vita (Read, 2005).

Spesso l’ansia, le sensazioni di impotenza, il senso di colpa che il soggetto esperisce nel suo rapporto con le voci, sono una metafora della relazione di potere esistente nelle situazioni traumatiche e nelle situazioni in cui non era possibile esprimere ciò che la persona sentiva veramente. Il punto di svolta è spesso rappresentato nel cambiamento nel rapporto con le voci laddove la persona è in grado di riappropriarsi delle proprie esperienze ed emozioni e da vero protagonista della sua vita passa dal ruolo passivo di vittima a quello di vincitore del proprio disagio mentale (Coleman and Smith, 2011).

Ron Coleman è un noto uditore di voci che è guarito dal suo disturbo causato dalle voci. Nel suo libro “Guarire dal male mentale” (2007) egli descrive la sua storia ed il suo personale percorso di recovery rilevandone quattro elementi chiave:

  1. Coinvolgere gli altri, perché si ha bisogno di indicazioni, speranza, sostegno e rapporti amicali. Lui è infatti grato tutt’oggi a coloro che hanno sostenuto la speranza per lui quando ancora lui non poteva o meglio non riusciva a farlo.

  2. Lavorare sulle quattro auto: autostima, auto-fiducia, auto-consapevolezza, auto-accettazione.

  3. Fare delle scelte ovvero diventare responsabili di sé e delle proprie decisioni nonché trovare uno scopo nella vita.

  4. Assumere il possesso, ovvero riappropriarsi della propria esperienza di vita e dei propri diritti nei confronti degli altri e delle proprie voci.

Egli asserisce che guarire significa riprendersi la vita in mano e per farlo si devono compiere delle scelte ed imparare a fronteggiare le conseguenze sia sociali che emotive dei problemi originari. Questo implica una presa di responsabilità della persona in questione, per agire e per muoversi verso l’incertezza del cambiamento. Aggiunge anche che il Recovery non è un viaggio che si compie da soli ma che al contrario c’è bisogno di relazioni profonde e di fiducia, contatti caldi e umani per non sentire che si è soli. Spesso il supporto di un gruppo di auto mutuo aiuto, una buona relazione con il medico di riferimento e un sostegno psicoterapico sono di grande aiuto per intraprendere un percorso così profondo ed importante.

 

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Parlare con le voci: esplorare il significato delle voci che le persone sentono

 

BIBLIOGRAFIA:

The Experiment (Das Experiment) (2001) – Cinema & Psicoterapia #28

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #28

The Experiment (Das Experiment) (2001)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

Il film riprende il famoso esperimento condotto alla Stanford University da Zimbardo, conosciuto come “Effetto Lucifero”. L’esperimento ricrea artificialmente le stesse condizioni ambientali di una prigione. Come nel film, nel 1971 si dovette interrompere l’esperimento in quan­to si verificarono le stesse dinamiche violente di un carcere.

Info:

Un film di Oliver Hirschbiegel, con Moritz Bleibtreu, Oliver Stokowski, Christian Berkel, Wotan Wilke Möhring, Justus von Dohnanyi. Thriller. Germania 2001.

Trama:

Una squadra di psicologi assolda alcune persone per un esperimen­to: da una parte chi dovrà recitare il ruolo di detenuto dall’altra i carce­rieri. Tutti inseriti in una finta prigione, isolati dal mondo e controllati attraverso sistemi di videosorveglianza 24 ore su 24. I detenuti rinunce­ranno ai diritti civili e alla privacy, le guardie dovranno mantenere l’or­dine. È vietato qualunque comportamento violento. Non è possibile abbandonare l’esperimento, ma lo stesso può essere interrotto in qual­siasi momento dagli ideatori.

La tensione si rivela ben presto difficile da sostenere e la situazione degenera, in una spirale di violenza che consiglia l’interruzione dell’esperimento. Non sarà, però, così semplice perché anche il team di ricer­catori viene fatto prigioniero. Il bilancio finale sarà di due morti e nume­rosi feriti. L’esperimento rivelerà fino a che punto può spingersi il com­portamento umano e quanto il contesto è influente.

Motivi di interesse:

Il film riprende il famoso esperimento condotto alla Stanford University da Zimbardo, conosciuto come “Effetto Lucifero”. L’esperimento ricrea artificialmente le stesse condizioni ambientali di una prigione. Come nel film, nel 1971 si dovette interrompere l’esperimento in quan­to si verificarono le stesse dinamiche violente di un carcere. Di recente, i famosi avvenimenti di Abu Ghraib, dove sono stati torturati prigionie­ri iracheni da parte dei soldati occupanti americani, ha nuovamente acce­so il dibattito intorno all’esperimento.

Gli attori iniziano a recitare il proprio ruolo per gioco, ma ben presto si calano nella parte e riproducono le dinamiche classiche di un’istituzio­ne totale. Nel film, così come nell’esperimento alla Stanford University, ci troviamo in una prigione, ma potremmo trovarci in un manicomio.

Il regime chiuso, formalmente amministrato ingloba e assimila in un processo di socializzazione che viene continuamente testato sull’obbe­dienza e la trasgressione, facendo seguire premi e punizioni a seconda dei comportamenti dei controllati. Del resto i carcerieri sono chiamati a far rispettare le regole e l’ordine. Le imposizioni spezzano il potere che i dete­nuti hanno sul mondo: autodeterminazione e libertà lasciano il posto a mortificazioni e restringimento del sé. Le due sub culture carcerarie, quel­la degli internati e quella dei custodi, si confrontano in una escalation che conduce ad agire comportamenti violenti disumani e disumanizzanti.

Indicazioni per l’utilizzo:

I contenuti del film mostrano in modo crudo quanto il contesto sia influente in relazione all’interazione sociale e ai ruoli che ognuno è chia­mato a interpretare. I caratteri di stato della personalità possono essere influenzati in maniera da determinare un repentino mutamento del sen­tire e percepire il mondo, se stessi e gli altri in termini regressivi.

Umiliazioni, degradazioni, spersonalizzazione, perdita di identità in contesti simili, segnano il tempo e lo spazio di vita sollecitando uno sforzo incessante per mantenere dignità e improvvisarsi virtuosi della sopravvivenza. L’organizzazione delle strutture sanitarie residenziali e semiresidenziali dedicate ai malati di mente non può prescindere da quanto emerge da queste risultanze per rispettare il principio dell’uma­nizzazione della cura e della riabilitazione.

Trailer:

 

SULLO STESSO TEMA:

Vincere. Un film di Marco Bellocchio, con Filippo Timi, Giovanna Mezzogiorno. Drammatico. Italia-Francia 2009

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Sei sotto stress? Potresti assumere comportamenti ansiosi alla guida!

FLASH NEWS

 

 

Il distress causato da un incidente, collegato a sentimenti di paura, impotenza, pericolo, controllo e alla certezza della morte aumenta la possibilità di sviluppare comportamenti di guida ansiosi nelle persone che attraversano delle situazioni di vita molto stressanti.

Almeno una volta nella nostra vita, quasi ognuno di noi potrebbe essere coinvolto in un incidente d’auto. Le statistiche del settore assicurativo stimano che il guidatore medio americano reclama una collisione circa ogni 18 anni. Nel corso della nostra vita al volante è molto probabile “collezionare” tre o quattro incidenti.

Per molte persone, l’esperienza di un incidente d’auto può scatenare l’ansia di guida. I comportamenti di guida ansiosa alterano la performance, portano a più errori di guida e accrescono la possibilità di provocare nuovi incidenti.

In un recente studio un team di psicologi dell’Università di Wyoming hanno esaminato se eventi di vita stressanti non correlati alla guida possano rendere le persone più vulnerabili nel sviluppare comportamenti di guida ansiosi dopo aver avuto un incidente.

I ricercatori hanno esaminato 317 studenti universitari che erano stati coinvolti in incidenti stradali ma che continuavano a guidare un’ auto. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare la gravità del loro incidente e se l’incidente avesse generato sentimenti angoscianti come paura o impotenza.

Per la valutazione dello stress, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti allo studio di compilare un questionario su eventuali eventi traumatici subiti come ad esempio la morte di un famigliare.

Inoltre, un questionario standardizzato sul comportamento alla guida è stato utilizzato per determinare come i partecipanti reagiscono di fronte a situazioni di guida considerate pericolose.

Contrariamente alle aspettative, la gravità dell’incidente non è stata associata allo sviluppo di comportamenti di guida ansiosi. Per coloro che invece avevano sperimentato alti livelli di stress in altri settori della loro vita è risultato che le risposte emotive collegate ai loro incidenti possono far emergere comportamenti di guida ansiosi.

Il distress causato dall’incidente, collegato a sentimenti di paura, impotenza, pericolo, controllo e alla certezza della morte aumenta la possibilità di sviluppare comportamenti di guida ansiosi nelle persone che attraversano delle situazioni di vita molto stressanti, sostiene Clapp, uno degli autori del presente studio.

Poiché nello studio non era stato controllato se gli incidenti avvenivano prima o dopo l’insorgere di un evento stressante, studi successivi sono necessari per capire meglio l’impatto dello stress sui comportamenti di guida ansiosi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ricorsività in psicoterapia: riflessioni sulla pratica clinica di Bianciardi e Telfener (2014) – Recensione

 

 

“Ricorsività in psicoterapia: Riflessioni sulla pratica clinica” (Bianciardi e Telfener, 2014) mostra molti dei pregi della tradizione sistemica in psicoterapia: l’attenzione per la complessità e per la visione circolare, anti-riduzionistica e non lineare del mutamento clinico.

Bianciardi e Telfner tentano di aggiornare il modello sistemico aggiungendo alla teoria di Gregory Bateson i successivi sviluppi di von Foerster e Maturana e Varela.

Il contributo specifico di Bianciardi e Telfner è l’applicazione alla psicoterapia di queste idee. I capitoli del libro affrontano varie aree teoriche e cliniche: la diagnosi, la definizione di psicoterapia, la relazione terapeutica in termini circolari e sistemici e le operazioni riflessive di gestione del processo. Quest’ultima parte sembra generare un corrispettivo sistemico degli sviluppi metacognitivi in atto nella terapia cognitiva, e non a caso Dimaggio e i suoi collaboratori (2007) sono citati spesso.

L’idea più originale e stimolante del libro è la riflessione su quattro saperi riflessivi individuati dagli autori: non solo i classici sapere di sapere (ovvero la conoscenza esplicita) e sapere di non sapere (la consapevolezza socratica del limite) ma anche il non sapere di sapere (ovvero il sapere intuitivo e operativo non definibile verbalmente) e perfino il non sapere di non sapere (ovvero le zone più cieche della conoscenza umana).

Il libro naturalmente condivide anche l’inevitabile limite del pensiero sistemico. Si tratta però di un limite voluto e intrinseco a questo modo di pensare e operare: la circolarità e l’anti-riduzionismo impediscono -o meglio volutamente evitano- l’accesso alla verifica empirica dei risultati e alla testabilità del modello stesso. Come scrivono gli stessi autori, la loro posizione costruzionista parte dall’essenziale non-linearità tra problemi presentati e trattamento e implica la rinuncia a protocolli standardizzati e il ricorso a interventi creativi e perturbanti.

Perché la clinica diventi una buona prassi occorre innanzi tutto “prendersi cura del processo di cura”, ossia sottoporla a una costante valutazione ricorsiva o di secondo ordine, che operi sulle proprie operazioni, tra rigore e flessibilità, accettando come un dono l’equilibrio felicemente instabile tra le proprie conoscenze, la propria ignoranza, le zone cieche e la processualità in atto, assumendosi tutti i rischi del caso. Tra questi, è proprio il rigore l’aspetto che mi pare più a rischio, dato il retroterra anti-lineare e anti-causalista di questo modo di ragionare. Confesso che gli interventi creativamente perturbanti mi turbano un po’. D’altro canto il pregio della linea sistemica è l’assenza di scolasticità e meccanicità.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bianciardi, M., e Telfener, U. (2014). Ricorsività in psicoterapia: Riflessioni sulla pratica clinica. Torino: Bollati Boringhieri.  ACQUISTA ONLINE
  • Dimaggio, G., Semerari, A., Carcione, A., Nicolò, G., Procacci, M. (2007), Psychotherapy of Personality Disorders: Metacognition, States of Mind and Interpersonal Cycles. Routledge, London.  ACQUISTA ONLINE

Bravo nel disegno a 4 anni…più intelligente a 14!

FLASH NEWS

 

Secondo una nuova e interessante ricerca condotta su un ampio campione di bambini le abilità nel disegno a 4 anni correlerebbero con l’intelligenza a 14.

I ricercatori hanno studiato 7.752 coppie di gemelli identici e non (per un totale di 15.504 bambini) partecipanti al Twins precoce Development Study (TEDS), finanziato dal Medical Research Council (MRC) nel Regno Unito, e hanno scoperto un legame tra disegno e intelligenza che sembra essere influenzato dai geni.

I bambini, su invito dei loro genitori, hanno hanno completato il ‘Draw-a-Child’ test, che consiste nel disegnare la figura intera di un bambino. Ad ogni figura è stato assegnato un punteggio tra 0 e 12, a seconda della presenza e della corretta funzionalità delle varie parti del corpo. Per esempio, un disegno con due gambe, due braccia, un corpo e la testa, ma non i tratti del viso, potrebbe avere un punteggio di 4. Ai bambini sono stati somministrati anche dei test di intelligenza verbale e non verbale a 4 e a 14 anni.

 

I risultati indicano che i punteggi più alti al test grafico erano anche moderatamente associati a punteggi di intelligenza più elevati a 4 e a 14 anni.

“Il Draw-a-Child test è stato ideato nel 1920 per valutare l’intelligenza dei bambini, quindi il fatto che il test correlasse con intelligenza all’età di 4 anni era previsto”, spiega la ricercatrice a capo dello studio Rosalind Arden. “Quello che ci ha sorpreso è che correlata con l’intelligenza anche dieci anni dopo.” 

“La correlazione è moderata, quindi i nostri risultati sono interessanti, ma questo non significa che i genitori debbano preoccuparsi se il loro bambino disegna male”, spiega Arden “infatti ci sono innumerevoli fattori, sia genetici che ambientali, che influenzano l’intelligenza nella vita adulta.”

Un altro dato riguarda l’ereditarietà delle abilità grafiche: all’età di 4 anni, i disegni di gemelli identici erano più simili tra loro di quelli di gemelli non identici. Secondo i ricercatori questo starebbe a indicare una forte matrice genetica nella correlazione osservata.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le persone più belle sono più intelligenti – Psicologia

Da un lavoro di un gruppo di ricercatori della London School of Economics è emerso che esiste un’associazione tra l’intelligenza generale (intesa come Q.I.) e l’attrattività fisica (la bellezza).

Lo stereotipo della classica bella ragazza e del bel ragazzo, fisicamente attraenti ma poco svegli, potrebbe andare incontro ad un ridimensionamento.

Da un lavoro di un gruppo di ricercatori della London School of Economics è emerso che esiste un’associazione tra l’intelligenza generale (intesa come Q.I.) e l’attrattività fisica (la bellezza).

La conclusione che le persone belle sono più intelligente deriva da 4 assunzioni:

– gli uomini più intelligenti hanno una probabilità maggiore di raggiungere uno status sociale più alto degli uomini meno intelligenti.

– gli uomini con uno status sociale alto, hanno maggiori probabilità di avere una bella donna come compagna rispetto a quelli di status sociale più basso.

– l’intelligenza è ereditabile.

– la bellezza è ereditabile.

Se queste quattro assunzioni sono empiricamente vere, allora la conclusione che le persone più belle sono più intelligenti deve essere logicamente vera.

Evidenze empiriche riscontrate in molti studi suggeriscono che queste assunzioni sono vere, ad esempio: è noto nella psicologia che il Q.I. è un predittore del successo accademico e lavorativo, e i genetisti del comportamento stimano che l’ereditabilità dell’intelligenza generale sia tra il 40% e l’80%.

Uno degli studi più recenti ha riscontrato che questa connessione è più forte tra gli uomini piuttosto che tra le donne. Lo studio longitudinale ha preso in considerazione dei bambini (inglesi) a cui è stato somministrato un test di intelligenza a 7, 11 e 16 anni; inoltre è stato chiesto alle persone vicine a questi ragazzi di definirli “attrattivi” o “non attrattivi”.

Innanzitutto, è emerso che l’attrattività a 6 anni è predittiva dell’attrattività a 11, e quest’ultima è predittiva dell’attrattività a 16 anni: questo ci fa notare che la bellezza nell’infanzia è correlata con la bellezza durante l’adolescenza.

I risultati dello studio mostrano che i ragazzi attraenti hanno un punteggio di Q.I. più alto di 13,6 punti rispetto agli altri, mentre le ragazze attraenti mostrano un Q.I. più alto di 11,4 punti. Tuttavia non possiamo escludere che una sorta di “effetto alone”, ovvero un bias cognitivo per cui la percezione e la valutazione di una caratteristica dell’individuo è influenzata da altre sue caratteristiche, ha portato a credere che i ragazzi più intelligenti siano anche più belli di quanto non siano in realtà.

 

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Intelligenza: si vede dalla faccia (solo degli uomini!) – Psicologia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kanazawa, S., Kovar, J. L. (2004). Why beautiful people are more intelligent. Intelligence, 32, 227-243. DOWNLOAD
  • Kanazawa, S. (2011). Intelligence and physical attractiveness. Intelligence, 39, 7-14. DOWNLOAD

Congresso EABCT 2014: Processualisti, Schematerapisti e Mindfullari

 Congresso EABCT 2014 – The Hague

Report:

Processualisti, Schematerapisti e Mindfullari

 

 

TUTTI I REPORTAGE DAI CONGRESSI EABCT

È il passaggio dalla seconda alla terza ondata della teoria cognitiva clinica: dal contenuto dei pensieri ai processi e agli stati mentali.

Un intero congresso cognitivo senza mai sentire o leggere la parola beliefs mi dice l’amico e collega Gabriele Caselli a questo congresso della EABCT (European Association of behavioural and Cognitive Therapies), la società europea di terapia cognitiva e comportamentale. E ha ragione. Per il tutto il congresso sembra che non si parli mai di contenuti cognitivi, di idee distorte, di credenze (beliefs) maladattive. Si parla semmai di processi, ovvero di stati ruminativi, di rimuginio, oppure di traumi e disregolazioni emotive. Altre volte si parla di mindfulness, di mente che osserva e che non giudica, e così via.

È il passaggio dalla seconda alla terza ondata della teoria cognitiva clinica: dal contenuto dei pensieri ai processi e agli stati mentali.

Non è un caso allora che a questo congresso siano assenti Clark, Salkovskis, Fairburn e altri esponenti della seconda ondata. Il fatto curioso è che sono anche assenti quelli che negli anni passati hanno promosso il passaggio alla terza ondata processualista. Non c’è Hayes, non c’è Wells, non c’è Teasdale, non c’è Williams. Alcuni di questi sono stati letteralmente espulsi da questo congresso alcuni anni fa, come per esempio accadde a Hayes. Altri se ne sono andati, stanchi di non essere ascoltati, come Wells.

Naturalmente può essere un’impressione illusoria. Una persona singola può seguire solo una frazione di un congresso. Una frazione che però non è piccola, soprattutto per quanto riguarda le keynote lectures. Anche lì, niente credenze e zero beliefs, mi pare. C’era anche la Judith Beck, che parlava di -indovinate!- relazione. Un’evoluzione che abbiamo già visto nella psicoanalisi: quando i concetti forti di istinto, inconscio e rimozione sono affondati, ci si è buttati nella relazione.

Non vorrei che la relazione, questo concetto così generico, finisca per essere l’ultima spiaggia di tutte le disillusioni in psicoterapia. Quando non si sa più che fare, e le terapie diventano delle routine affidate all’estro e all’arte del singolo operatore invece che alla scienza, allora si finisce per parlare di relazione. Talvolta scadendo nel banale. Ovvero, che occorre accogliere il paziente, farlo sentire a suo agio, cooperare con lui senza però accudirlo in maniera infantilizzante. La relazione spesso non è altro che buon senso, sapere e non scienza.

Torniamo ai processualisti, che propongono un’alternativa alla relazione. Come dicevo, gli iniziatori della terza ondata sono assenti.

E allora chi c’era a rappresentare la corrente processualista, così prevalente? Si tratta di un gruppo di studiosi più giovani, che a loro tempo non entrarono in conflitto con i baroni di seconda ondata (i Clark, i Salkovskis, i Fairburn) e che hanno elaborato modelli processualisti almeno apparentemente meno polemici con i modelli contenutistici. Si tratta spesso di studiosi del fenomeno del rimuginio e della ruminazione, prosecutori del lavoro di Tom Borkovec e Susan Nolen-Hoeksema e spesso allievi diretti. Per qualche misteriosa ragione sono stati percepiti come meno rivoluzionari e più continuisti rispetto alla seconda ondata. I più importanti presenti a L’Aja sono Edward Watkins (Università di Exeter) e Thomas Ehring (Università di Muenster), di cui ha parlato Caselli in un articolo già pubblicato.

Rispetto a Wells, che pure si occupa di rimuginio e ruminazione, concepiscono questi processi in maniera meno metacognitiva. Per Ehring e Watkins ruminare e rimuginare non sono scelte consapevoli dettate da metacognizioni, ovvero dal pensiero che pensare molto sia conveniente. Per questo gruppo di ricercatori il persistere del rimuginio dipende più da una sua qualità intrinseca, una sua vischiosità interna legata alla sua natura astratta e vaga, che ipnotizza la persona che ci casca. La differenza in termini terapeutici è che nel primo caso –quello della terapia metacognitiva di Wells- è possibile accorgersi che pensare troppo sia inutile e che è possibile smettere, sia pure con una dose di allenamento specifico (la cosiddetta detached mindfulness), Nel secondo caso, invece, la scomparsa del rimuginio dipende dall’adozione di uno stile di pensiero differente, più concreto e vivido, più episodico e meno semantico, volendo utilizzare una terminologia più tecnica.

Perché questo gruppo sia stato considerato più in linea con la terapia cognitiva standard e invece la banda metacognitiva sia stata accompagnata al confine non è chiarissimo. Ci sono anche componenti personali che sporcano il quadro. O anche semplicemente il caso: il primo gruppo di rivoltosi è stato scacciato dai vecchi dinasti che si sentivano ancora forti, il secondo è stato adottato –forse a malincuore- dal gruppo dirigente indebolito, ormai alla vigilia della pensione e del meritato riposo (infatti non c’erano; avranno preferito un’isola greca alle nebbie olandesi?)

È un po’ la stessa manovra diplomatica che è riuscita al gruppo di seguaci della mindfulness based cognitive therapy. Anch’essi sono riusciti a farsi accettare come continuatori del modello standard. Ci sono riusciti facendosi adottare da un gruppo di vecchi dinasti della seconda ondata che a loro tempo erano parsi più collaterali e meno vicini alla stanza del potere: Segal, Williams e Teasdale, Anche costoro, però, mi sono parsi meno presenti a questo congresso. Forse erano presenti solo i loro seguaci, di cui ignoro il nome. Non me ne sono reso conto. Mia distrazione o il flirt tra terapia cognitiva standard e mindfulness ha iniziato a declinare? Vedremo.

Un ultimo gruppo di successo tra le nuove proposte è quello della Schema Therapy. Qui la storia è più intrigante. A una prima fase più conflittuale –capitanata da Jeffrey Young, iniziatore di questa terapia- segue ora una seconda fase di maggiore confluenza di questo modello nel mainstream. Questa seconda fase però vede un avvicendamento: il bastone del comando sembra essere passato a Arnoud Arntz, che ha dato un solido basamento scientifico alle intuizioni di Young.

Arntz, come si sa, ha promosso lo studio dei modes accanto agli schemi nella schema therapy. Trasformando così quello che era un modello baroccamente contenutistico (gli schemi sono pensieri, e soprattutto sono tanti) a un modello che oscilla tra processualismo, relazionalità e contenuti (i modes sono costellazioni di credenze che descrivono atteggiamenti interpersonali). Questa manovra ha permesso la costruzione di un modello eclettico, continuista ma anche in grado di fornire un senso di svolta. Da segnarsi però un dato: la schema therapy sembra essere il modello più efficace per i disturbi di personalità. Così come la terapia metacognitiva di Wells presenta i dati più forti per i disturbi di primo asse.

E, per ora, ci fermiamo qui.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • EABCT Congress Magazine 2014.  DOWNLOAD

Martin Kolbe and his Bipolar Roadshow – Interview

 

Martin’s story is dramatically fascinating, full of rises and falls, like the bipolar disorder. In the eighties, Martin was diagnosed with bipolar disorder, which kept him away from the musical scene for twenty years. He is just come out with a new wonderful record titled Songs from inside, which includes songs inspired from his experience as a psychiatric patient.

I knew about the German guitarist and singer Martin Kolbe through the International Bipolar Foundation, a very active American charity which works for sensibilization and psychoeducation on bipolar disorder, and which gathers patients and relatives from all over the world. 

Martin’s story is dramatically fascinating, full of rises and falls, like the bipolar disorder. In the seventies Martin was a famous guitarist in Germany, performing in acoustic duo with Ralf Illenberger, with whom he produced six records and played more than thousand gigs in forty countries. On Youtube there are some original videos of the duo, mostly from TV programmes, where the virtuoso performances, between fingerpicking and new age atmospheres (after the split up of the duo, Illenberger specialized in this musical genre) can be appreciated.

In the eighties, Martin was diagnosed with bipolar disorder, which kept him away from the musical scene for twenty years. He is just come out with a new wonderful record titled Songs from inside, which includes songs inspired from his experience as a psychiatric patient. Martin is presenting his music through the Bipolar Roadshow, a special tour that includes gigs at psychiatric conferences or for patients associations, giving hope to many people who struggle every day with depressive disorders.

The songs of the record have a very minimalist musical arrangement, which highlights Martin’s deep voice and guitar technique. The lyrics are poetical, but also very interesting from a psychiatric perspective.

For example in the song Come water Martin talks about a guy he met in the psychiatric hospital, who suffered from Obsessive Compulsive Disorder, with washing compulsions. Prayer is the suicidal mantra, that echoes in the mind of the depressed hopeless person, who considers how to commit suicide (A needle in my heart/ Poison on my tongue/ Fire on my skin/ Water in my lung). The music of this song, very repetitive and solemn, is well integrated with the lyrics and listening to it you get the effect of falling down and down. Family describes a manic episode in which a person can feel an euphoric sensation of brotherhood with every stranger he meets on the street. Something holding you, written with a friend, represents the depressive experience, the tragic downside (You wait for sunrise and a crystal sky/ That’s just a dream, better say good-bye… You say you’ve changed but it won’t last for long/ Nobody else is gonna make you strong). With such songs, we couldn’t ignore Martin Kolbe any longer!

Your story of ups and down is dramatically fascinating and can be very interesting for many people who struggle every day with mental disorders. Can you tell us more about it: from appreciated professional musician and the seven records with the acoustic duo with Ralf Illenberger, to many years of psychiatric problems and treatment and back to music with this new project, in which in some way you elaborated your experience.

Martin Kolbe I was drawn to music quite early in my life. My parents told me later that as a young kid of five or so I loved to sing in  the large staircase of our house because it sounded really good there with all the natural reverberation. When I was  about 10 years old I discovered an old acoustic guitar which had been played by my mother occasionally in former years. At the time I discovered it the Beatles were the big thing and my brothers and sisters brought this music to our house – I was immediately fascinated by it. So the first song I tried on this guitar was “I Need You” by George Harrison. My sister’s boyfriend showed me some chords. During the following years I explored this instrument more and more, not being tought at all, loving it to discover new chords and techniques myself and experimenting quite freely, e.g. throwing a microphone into the soundhole and playing through my brother’s tape recorder or trying out different tunings. At the age of 13 I started playing drums in various local Rock and Blues bands until I was 18.

When I was 17 a friend of mine recorded my guitar playing and singing and decided to produce a record of these tapes. The local radio station played one of these takes daily (an instrumental adaption of Paul Simon’s “Mrs Robinson”). From that point on things developed rather quickly and kind of naturally. While still attending high school I released two more solo records and played concerts and festivals at the weekends or during the school holidays.

In 1977 I met Ralf Illenberger, a guitar player living in a town next to mine. We discovered an amazing musical congruence and kind of fell musically in love with each other. After this meeting playing alone seemed to be so boring and the two of us felt that there no way round starting a guitar duo. Our first joint record was successful right away and the following 10 years were filled with studio work, extensive live performances (more than 1.000 concerts in about 40 countries on this planet), TV and radio shows.
After the first year of collaboration with Ralf I encountered my first bipolar episode. It started with a depressive phase (nowadays it surely would be called “burnout syndrom”) which was followed by a truly manic time that let led into a psychosis rather quickly – I could not handle at all what was going on with me. In a clinic they brought me back to earth with heavy medication and called this whole strange experience “crisis of adolesence”. Well. After that I had 4 so-called normal years until I faced the next episode in 1983 which was not as heavy and stopped by itself without being hospitalized and medicated. In 1987 the next burst happened and this time it was so heavy that I split from Ralf, almost split from my wife and kids and ruined my musical career for many years. At this point the diagnosis bipolar disorder was given. It was a learning process of 25 years all together from the first symptoms, the diagnosis 8 years later, then first neglecting it, slowly accepting the facts to finally being aware of early symptoms and – the most important thing! – wanting to react quickly in case of instability to prevent all those negative consequences of a mania.

Being a famous musician was in some way an obstacle for the treatment of your bipolar disorder?

Well, I was not really famous, not a household name or a big star. We had our true fans and followers but our music was too special to become hits, so the whole thing was more like a niche. In that respect being a musician did not matter much in the treatment.

Can you tell us something about your treatments? Drug treatment? Admission to psychiatric hospital? Psychological treatments?

My first mania was treated with Haloperidol which was effective but a horrible experience due to extremely painful cramps. During my next stay in a mental hospital it was Benperidol which was even worse. My third and last stay in a psychiatric clinic was in 1993 and at this occasion there was no medication at all because there was no mania (my ex-wife thought I was manic and let me be hospitalized).

After the diagnosis was given I was told to take Lithium which I did for about 6 months. Then I decided to abandon it because my emotional life was reduced to a minimum and – even more important – all my creativity was gone. In the meantime I have learned that Lithium works for a lot of bipolar people and they are not hindered in their creativity. Just in my case it has this effect. All the doctors I encountered after my diagnosis was given did not recommend the steady use of mood stabilizers since in between my bipolar episodes there always were long gaps of minimum 4 years. The plan was to interfere with acute medication in case of instability. This concept only works since 2003 when I encountered my so far last and most extreme mania. After that I seem to have found my personal way to handle my mood and energy swings.

I never had psychotherapy. After my first stay in a mental hospital it was recommended by my doctor in the clinic. I went to two interviews with therapists. The first one was a typical Freudian woman in her late sixties. Her first question was “How was your mother?” – it did not feel that I was in the right place there. Next I went to a rather young psychologist who asked me whether it was my idea or the doctor’s in the clinic to start a therapy. As the latter was true I decided not to go for that any longer.

What is the reaction of public to you Bipolar Roadshow gigs? Where do you usually play?

The reactions of the audiences was even better than we had expected. It seems our concept of spreading informations about bipolar disorders this way works perfectly. In this special case I do not measure success with the strength and length of applause or the number of encores demanded. Success means here how moved and touched the listeners were and the overwhelming and very intense personal reactions after the concerts showed that we had really reached them.

Can you tell us something about your CD Songs from the Inside? Had it in some way a therapeutic or cathartic effect on you? Can you make some comments on the lyrics of the songs and the topics you sing about?

Well, I would not use the audience as a therapist or try to sort out my personal problems by writing songs about them. The lyrics on this CD were written way after the situations they are referring to. My goal was to share my experiences and emotions with others, either to show people with similar backgrounds that they are not alone and you can get over traumatic life events or to tell all the so-called normal others something about psychiatry and its various aspects.

I think the lyrics speak well for themselves as they are realistic and point out things rather directly. For example, “Keys” is about being locked up in the closed section of a mental hospital, “Cage Birds” refers to three people I met there, “Holes” tells a story about a desperate roommate and “Prayer” is nothing else than the ongoing suicidal mantra that spins round and round in your head when you are depressive.

There are few studies about the relationship between creativity and bipolar disorders, mostly in classical composers (Beethoven, Schumann, etc.). In your own experience which is the relationship between your mood and your creativity?

That’s hard to say, really. I guess with this condition you are more sensitive and vulnerable than other people. Maybe this supports creativity. In a manic episode you are over-creative and it can cause real distress when you try to realize all those brilliant ideas that keep coming all the time. However, I discovered later that most of what I had written, composed and performed in such episodes was not very good as it was super-expressive and in a sober state of mind sometimes hard for me to listen to. On the other hand, in a depression nothing at all happens, there is no creativity in any aspect – my life and all kinds of musical sounds are more like a torture than a blessing.

What do you think about the influence of life events on bipolar disorders?

Of course I do not have any proof but I think there is a link between some very personal problems and hindrances in my life and the appearance of the disorder. The main point could be not being able to accept being homosexual and not being courageous enough to live it. A childhood as a son of a vicar in the sixties in a small village in the south of Germany might not have been the best starting point to a free and happy gay life. I am convinced that if you suppress such an essential part of yourself for such a long time it is very likely you develop some kind of disorder, including the possibility of a bipolar disorder.

And about psychotherapy or psychoeducation in bipolar disorder?

I know a lot of people with bipolar disorder who benefit a lot from psychotherapy although I myself never had it. From all I heard I draw the conclusion that behavioral therapy seems to be more helpful and promising than the classical freudian analysis-based therapy. However, I know too little about it to really make a statement here. I strongly believe that psychoeducation is a very important part on the way to cope with bipolar disorders: the more you know about the (early) symptoms and what you can do in case they show up the better can you deal with them and prevent a really bad outcome.

What about your collaboration with International Bipolar Foundation?

Muffy Walker, co-founder of the IBPF, contacted the German Society for Bipolar Disorders (DGBS) a couple of years ago. Since then our collaboration gradually grows. I met Muffy last winter and was impressed by her willpower and dedication. In spring 2014 we had a joint symposium at the ISBD congress in Seoul concerning the trialogical concept of the DGBS and advocacy in general, besides an IBPF webinar on the Bipolar Roadshow will take place on August 20th on the IBPF website.

Can you tell us about the stigma situation in Germany when your bipolar disorder was diagnosed and if it has changed in some way now?

I think – or at least I hope – that stigma very slowly but surely decreases. IF we all pull together! In my case it was more self-stigmatization than being talked down by others. After my first stay in a clinic I did not want anybody to know about it and kept it as secret as possible for the public. Well, of course there were situations and remarks that really hurt. For instance one of my sisters said “He better had a car accident and died than this.” Outch. Nowadays I have changed my attitude dramatically by speaking absolutely open about it to whoever wants to know about. I try to draw the attention of the media and I am glad that quite a lot of journalists take the chance to interview me for the press, TV or radio programmes. I am sure the best way to fight stigma is to talk openly about being a “looney” so that other people can see there is nor reason to be afraid of “us” or to be ashamed for having this condition. We did not choose it! Someday it should be as natural and normal to talk about mental illness as it is now to discuss diabetes or blood pressure problems. It is still a long way to go but we keep working on it.

In which way do you think music can be useful to promote mental health?

I cannot tell yet because my project is just too young. Things look very promising, though. I recently got to know a singer from England, Emily Maguire, who is bipolar herself and has just released a record with songs about her life and struggle. It is a very professionally arranged, performed and produced CD and I wish her all the best with it and a lot of success. I hope she will be part of the Bipolar Roadshow 2015!
The attempt of promoting the issues of mentally ill people via arts and especially music still is very catchy to me as you reach the audience on an emotional level which has a greater and longer lasting effect than listening to another scientific speech.

I get the impression that the bipolar disorder diagnosis is getting very popular on the media in the last years. Many rock-stars, actors and public figures do come out on that (sometimes to justify behavioural problems that are not linked to psychiatric problems). What do you think about that?

Well, most celebrities with bipolar disorder are still outed after their death (see Kurt Cobain or Amy Winehouse) or it is a mishap like in the case of Catherine Zeta-Jones: the information about her illness was sold to the media by a patient in the clinic she stayed. People like Jean-Claude van Damme, Sinead O’Connor or Stephen Fry still are the exceptions. I am waiting for the day when a famous sportsman or even a politician stands up and comes out with a fact that is no reason to be ashamed, confessing he/she is bipolar. This would help enormously to fight stigma and develop understanding. Meanwhile we have to go on on our peaceful crusade towards a more open, more human and brighter future.

 

 

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