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Disturbo da Alimentazione Incontrollata: La Storia di Carmela

Carmela è una persona con Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Era una bambina paffuta. Veniva consolata, premiata e viziata con il cibo. Oggi per lei questa è una sensazione familiare. Mangia per la rabbia, per la tristezza o per la noia, senza sentirsi affamata.

Carmela non conosce la sensazione di sentirsi piena. Carmela è grassa e indifesa. Soprattutto le persone che le sono più vicine non lo vedono. È la collega più servizievole, l’amica paziente, la madre che si sacrifica. Generalmente è molto apprezzata.

Nella sua vita personale ha un trattamento iniquo – ma non quando mangia, e questo ha delle conseguenze. Soprattutto di sera, quando è sola, il frigorifero la invita. Anche se ha tempo, mangia in fretta e spesso direttamente nell’incarto. Distoglie semplicemente lo sguardo! In seguito si sente sempre di più e sempre più spesso nauseata e viene assalita dai rimproveri. Inizia ad avere la coscienza sporca, perché in fondo Carmela è consapevole della sua responsabilità. Cerca senza successo una risposta che le spieghi perché si lasci andare così, pur essendo consapevole delle conseguenze. Spesso si sente come se qualcun altro la stesse controllando, qualcuno che la terrorizza.

Dopo numerosi tentativi di dieta ha gettato la spugna. A volte ha funzionato, quando Carmela riusciva davvero a tenersi “sotto controllo”. E per quanto tempo? Mesi di disciplina per avere per due settimane il peso dei suoi sogni? Carmela ha rinunciato a cercare di nascondere il suo corpo sotto i vestiti. Tanto tutto sembra una tenda. E se qualcuno la ama, allora dovrebbe accettarla per quello che è. Ma ultimamente non c’è niente da segnalare in questo campo.

Una donna “corazzata” spaventa anche il più forte degli uomini, e oltretutto c’è questo maledetto ideale di bellezza. Carmela oscilla tra il disprezzo e la tristezza, la rabbia e l’impotenza. Carmela sente sempre più il bisogno di fare qualcosa per se stessa. Il suo medico le conferma che è in sovrappeso e le consiglia di chiedere qualche consiglio sull’alimentazione. Lei esita, sa già tutto. Sul giornale trova la pubblicità di una clinica per i disturbi alimentari. Tenterà la sorte? Cosa ha da perdere?

Durante l’incontro di consulenza, le risulta evidente quanto la sua speranza in una soluzione veloce e senza problemi sia utopistica. Tuttavia si sente compresa e inizia a affrontare alcune cose. L’idea di riconoscere la funzione compensatoria del cibo, di sviluppare una nuova relazione con esso e il rischio si modificano passo dopo passo… Carmela è piena di dubbi, come le altre donne nel suo gruppo di auto-aiuto.

Solo dopo alcune settimane impara davvero a essere più paziente con se stessa e a abbandonare il suo precedente motto – Meglio un’infelicità conosciuta che una felicità sconosciuta. Accarezza l’idea di richiedere anche un aiuto terapeutico o di trovare un posto in una clinica. Nel centro di consulenza Carmela riceve anche le informazioni più aggiornate sul trattamento del Disturbo da Alimentazione Incontrollata. Lì viene indirizzata nella giusta direzione rispetto ai tipi di sport che sono adatti a lei. Esercizio fisico – Mente – Alimentazione – Carmela ora si prenderà cura di queste tre aree. Si prenderà il suo tempo perché aggiustare il suo stile di vita è un obiettivo sia eccitante che stressante.

 

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Interazioni disorganizzate e sintomi clinici nella media infanzia

 

L’analisi dei child-reports e dei parent-reports di bambini classificati come disorganizzati ha confermato che l’attaccamento disorganizzato è associato a sintomi clinicamente significativi di depressione, di fobia sociale e di problemi di pensiero e di attenzione.

Non c’è epoca nella vita che non sia segnata da relazioni di attaccamento e da vicende di separazione, più o meno felicemente elaborate, che contribuiscono a costruire nell’ individuo il senso di possedere fiducia in se stesso e una base sicura (Gorrese, 2005).

Il termine attaccamento è stato introdotto in seguito a numerose ricerche sullo sviluppo per riferirsi ad un legame specifico costruito tra madre e bambino. Sin dalle prime teorizzazioni sull’ evoluzione sociale dell’uomo, queste precocissime interazioni sono state oggetto di profonda riflessione per la loro potenza sullo sviluppo e la regolazione di quelle future.

Dal grado di armonica rispondenza tra i sistemi comportamentali di madre e bambino, l’esperienza di attaccamento evolve in condotte che rivelano differenti gradi di sicurezza, ansietà, resistenza, disorganizzazione (Bucolo & Accursio, 2007).

Le connotazioni assai specifiche di questo sistema sono state scoperte anche attraverso il ricorso al paradigma sperimentale della Strange Situation, che ha reso possibile la distinzione di tre stili di attaccamento: sicuro, insicuro-evitante e insicuro-resistente. L’adattamento alla vita futura è stato definito da questo momento in poi segnato dall’ influenza predominante dell’attaccamento insicuro.

È interessante notare come differente attenzione sia stata riservata all’ attaccamento disorganizzato. Questa categoria identificata solo in un secondo momento è affascinante per le sue peculiari tendenze comportamentali. In essa disposizioni di avvicinamento si mescolano a quelle di allontanamento in maniera bizzarra e conflittuale. Si ipotizza una loro comparsa quando comportamenti attivati all’interno dell’infante competono per l’espressione. Il rifiuto di avvicinarsi alla figura primaria si accompagna al dondolio sulle ginocchia e può essere seguita dal pianto o dall’ improvvisa immobilizzazione nel movimento di accostarsi al genitore. Tali tendenze non possono che costituire la testimonianza di una relazione parentale disorientante e contraddittoria.

Tra gli studi interessati ad esplorare un sistema tanto conflittuale, emerge quello dei ricercatori M. J. Crowley, L. C. Mayes, D. H Davis dell’Università di Yale e la ricercatrice Jessica Borrelli dell’Università del Claremont. Questa ricerca ha il pregio di aver spostato il focus attenzionale da altre fasi di sviluppo alla media infanzia, indagandone il legame con i sintomi clinici, poiché proprio in questa fase e nell’ adolescenza si riscontra un aumento ripido dell’incidenza di disturbi psichiatrici.

In precedenza, il pattern disorganizzato era stato associato a problemi d’internalizzazione, di reticenza nelle situazioni sociali e a difficoltà di pensiero e attenzione.

Sulla scorta di questi studi la ricerca ha preso in esame un campione di novantasette bambini di 8-12 anni di ceto medio-basso dell’area circostante New Heaven, ricorrendo a strumenti che hanno analizzato sia i modelli del discorso narrativo delle relazioni di attaccamento, sia la frequenza dei vari comportamenti indagati in più contesti.

Più precisamente, durante la prima sessione, è stata indagata l’esperienza presente e passata dei bambini con i caregivers primari, mentre i genitori hanno completato questionari per la valutazione dei problemi di pensiero e di attenzione e del disturbo depressivo maggiore e della fobia sociale.

Durante la seconda sessione di studio, sono state misurate le caratteristiche comportamentali, cognitivo-emotive e fisiologiche della depressione ed è stata valutata la timidezza, attraverso la compilazione di questionari da parte dei bambini.

L’analisi dei child-reports e dei parent-reports di bambini classificati come disorganizzati ha confermato che l’attaccamento disorganizzato è associato a sintomi clinicamente significativi di depressione, di fobia sociale e di problemi di pensiero e di attenzione.

Tali conclusioni sottolineano la necessità per la ricerca futura di una esplorazione più profonda del legame tra l’attaccamento disorganizzato e i sintomi di psicopatologia, attraverso il ricorso a batterie di valutazione più ampie e estendendo l’indagine anche a svariate popolazioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La diagnosi in psichiatria: ripensare il DSM-5 di Allen Frances – Recensione

Il libro pone in evidenza la necessità di un uso corretto e utile della diagnosi e della sua integrazione con gli obiettivi che essa consente di conseguire in termini di conoscenza del paziente e adeguatezza degli interventi intesi a ridurne la quantità/qualità della sofferenza.

Fin dalla sua fase preparatoria il DSM-5 è stato a gran voce criticato da Allen Frances, Coordinatore della task force del DSM-IV. Le critiche mosse dall’autore riguardano l’abbassamento delle soglie diagnostiche e l’aggiunta di nuovi disturbi da lui considerati speculativi e inutilmente medicalizzanti.

Il DSM-5 introduce il concetto di “spettro” che è strettamente legato all’approccio dimensionale che si va a contrapporre all’approccio categoriale che ha caratterizzato il DSM-III e il DSM-IV e che era ritenuto meno adeguato a descrivere la realtà clinica.  Il volume di Frances evidenzia come l’utilità di una diagnosi consiste nella sua capacità di rispondere a requisiti di specificità e generalizzabilità.

L’autore non inserisce all’interno del libro tutti i disturbi mentali presenti nel DSM-5 e la sequenza è differente, è basata sulla frequenza di comparsa dei diversi disturbi in un contesto clinico e sull’interesse diagnostico. Per ciascun disturbo viene inoltre riportato il codice ICD-9-CM e dove possibile anche il codice ICD-10-CM.

Il libro fornisce una descrizione prototipica di ogni diagnosi invece di criteri diagnostici difficili da ricordare e un elenco delle condizioni che devono essere escluse ai fini della diagnosi differenziale. Nella rilettura del DSM-5, Frances, inserisce i “Riquadri di Avvertenza” sui cambiamenti introdotti.

Il DSM-5 ha introdotto i requisiti sintomatologici per la diagnosi di DDAI negli adulti e ha aumentato l’età di esordio richiesta a 12 anni; la diagnosi da disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, per descrivere i bambini soggetti a frequenti scoppi di ira; la nuova categoria diagnostica di disturbo neurocognitivo lieve per identificare le persone con problemi neurocogitivi che al momento non soddisfano i criteri per la diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore; il disturbo da binge-eating.

Ha eliminato la clausola di “esclusione del lutto” che discriminava i sintomi del lutto da quelli del disturbo depressivo maggiore, viene però inclusa una nota che cerca di discriminare tra i sintomi. Ha riunito le categorie precedentemente separate di abuso di sostanze e dipendenza da sostanze, il disturbo da uso di sostanze.

La sezione sui disturbi correlati a sostanze e da addiction include il gioco d’azzardo patologico e introduce il concetto di dipendenza comportamentale.

Infine, a seguire, si trovano alcune linee guida per giungere ad una diagnosi efficace alla base di una buona pratica clinica: la relazione con il paziente deve essere al primo posto, la diagnosi è uno sforzo comune; i giudizi diagnostici devono essere continuamente riesaminati durante tutto il lavoro clinico; la guida nella formulazione della diagnosi e nell’indicazione del trattamento è la valutazione dei costi e dei benefici.   

Il libro pone in evidenza la necessità di un uso corretto e utile della diagnosi e della sua integrazione con gli obiettivi che essa consente di conseguire in termini di conoscenza del paziente e adeguatezza degli interventi intesi a ridurne la quantità/qualità della sofferenza. Si utilizzi pure il DSM-5 per fare una diagnosi facendo precedere un ragionamento diagnostico che ci permetta di non cadere in errore.

 

GUARDA L’INTERVISTA AD ALLEN FRANCES:

Intervista Allen Frances - SLIDE

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Frances, A. (2014). La diagnosi in psichiatria: ripensare il Dsm-V. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE

Il binge drinking adolescenziale produce danni cerebrali permanenti

FLASH NEWS

Bere alcol ha effetti negativi sullo sviluppo fisico dei percorsi neurali nella corteccia prefrontale, una delle ultime regioni del cervello a maturare.

Il binge drinking in adolescenza può avere effetti duraturi sui circuiti cerebrali che sono ancora in via di sviluppo. A sostenerlo sono i ricercatori della University of Massachusetts Amherst e della Louisiana State University sulla base di uno studio condotto su un modello di bing-drinking adolescenziale effettuato sui roditori: il cervello di ratti adolescenti sembra infatti essere sensibile all’esposizione episodica all’alcol.

Questo è il primo studio a dimostrare che bere alcol ha effetti negativi sullo sviluppo fisico dei percorsi neurali nella corteccia prefrontale, una delle ultime regioni del cervello a maturare.

Negli esseri umani, l’esordio precoce del consumo di alcol è stato collegato a problemi di memoria, impulsività e un aumento del rischio di alcolismo in età adulta. Poichè l’adolescenza è un periodo in cui la corteccia prefrontale matura, è possibile che l’esposizione all’alcol possa alterare il corso dello sviluppo cerebrale.

La corteccia prefrontale è il centro del processo decisionale e regola le emozioni e gli impulsi. In particolare, i ricercatori hanno esplorato il danno fisico alle guaine mieliniche che avvolgono e isolano gli assoni, i “fili” che trasmettono le informazioni da un neurone all’altro. La mielina aumenta la velocità con cui gli impulsi elettrici viaggiano lungo gli assoni, migliorando l’elaborazione delle informazioni e le prestazioni cognitive.

Come gli adolescenti, i topi amano le bevande dolci e sono disposti a impegnarsi per ricevere questo premio premendo una leva in una scatola. Questo approccio ha sostenuto lo sviluppo di un circuito di rinforzo comportamentale e ha generato una quantità elevata di consumo volontario di alcol durante la prima fase dello sviluppo adolescenziale dei ratti. 
I ricercatori hanno esaminato la mielina alla fine del periodo di binge drinking adolescenziale e hanno scoperto che si era ridotta nella corteccia prefrontale.

In un secondo esperimento, hanno esaminato la mielina alcuni mesi più tardi e hanno scoperto che bere alcol ha causato una significativa perdita di materia bianca e danneggiamento della mielina nella corteccia prefrontale del topo adulto. Gli effetti dell’alcol sugli adolescenti erano paragonabili a quanto osservato dopo la dipendenza da alcol in età adulta. Questo dimostra che già nel cervello adolescente può essere accresciuta la sensibilità all’alcol.

I ricercatori sperano che le loro scoperte portino a nuove strategie terapeutiche nel trattamento dell’abuso di alcol e nuovi approcci per le famiglie e i professionisti che lavorano con gli adolescenti. Inoltre, i risultati di questo lavoro, concentrandosi sulla corteccia prefrontale, potrebbero aiutare a capire meglio la funzione della mielina e come deficit di mielina possono contribuire ad altre patologie psichiatriche associate con i danni prefrontali, come l’impulsività, la sindrome di Tourette e la schizofrenia.

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BIBLIOGRAFIA:

CBT: il risveglio della bella addormentata

Incontro a Padova tra esponenti della psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia

La terapia cognitiva e comportamentale –ovvero la CBT (cognitive behavioural therapy)- in Italia è una bella addormentata. Se ne sta rinchiusa nel suo castello e si accontenta delle sue formidabili mura fortificate, che si chiamano “rigore scientifico”, “provata efficacia clinica”, “successo internazionale” e “modernità”. E dorme. Illudendosi che basti attendere e un principe azzurro verrà a liberarla, consegnandole le chiavi del regno della psicoterapia.

Il principe azzurro, però, appartiene a un’altra favola, quella di Biancaneve, e non comparirà in questo racconto. Sarebbe ora che la CBT si desse una mossa e la smettesse di illudersi che bastino rigore scientifico e provata efficacia per diffondersi nella pratica clinica italiana. Accanto alla Scienza esiste anche la Storia con le sue leggi altrettanto rigorose, seppur meno prevedibili. E tra queste regole c’è quella che dice che i profeti disarmati fanno poca strada. Occorre organizzarsi, porsi degli obiettivi, muoversi.

Per fortuna qualcuno lo sta facendo. Forse un principe azzurro in fondo c’è, deciso a risvegliare la principessa dai suoi sogni. E questo principe potrebbe essere Ezio Sanavio, professore di psicologia a Padova e figura storica dello sviluppo della CBT in Italia. La settimana scorsa Sanavio ha invitato a incontrarsi i direttori di alcune tra le più importanti scuole di specializzazione in CBT. L’incontro è avvenuto a Padova venerdì 14 novembre nell’aula “Cesare Musatti” del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova.

Sanavio desidera compattare le forze del cognitivismo e comportamentismo clinico italiani, movimento che in Italia non ha avuto ancora il pieno successo di cui gode all’estero. La CBT, è, al giorno d’oggi, la psicoterapia che più di ogni altra può aspirare al titolo di cura scientificamente efficace. I suoi meccanismi di azione e la sua capacità di generare benessere in pazienti di vari disturbi psicologici sono stati testati in studi rigorosi (vedi tabella), il cui standard scientifico è paragonabile a quello rispettato per provare scientificamente l’efficacia dei farmaci chimici e gli interventi chirurgici raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Che infatti raccomanda anche la CBT.

 

Protocolli CBT efficaci per disturbi psicologici

Abuso di sostanze Beck, Wright, Newman e Liese (1993)
Accumulo patologico (hoarding) Frost, Krause e Steketee (1996)
Ansia Beck e Emery (1985)
Ansia sociale

 

Clark e Wells (1995); Heimberg (1997); Rapee (1997)
Disturbi alimentari Fairburn (1981); Fairburn, Shafran e Cooper (1999)
Disturbo d’ansia generalizzato Wells (1995); Dugas (1998)
Disturbo d’ansia per la salute Salkovskis (1985)
Disturbo bipolare Basco e Rush (2005)
Disturbo dismorfofobico Veale (2002)
Disturbo ossessivo compulsivo Salkovskis (1985); Rachman (2002)
Disturbi di personalità Beck, Freeman e collaboratori (2003)
Disturbo post-traumatico da stress Ehlers e Clark (2000); Brewin (2001)
Gestione delle crisi Dattilio e Freeman (1994)
Insonnia Harvey (2003)
Problemi di coppia Beck (1988)
Psicosi

 

Beck, Grant, Rector e Stolar, (2008); Chadwick (1998)
Rabbia Beck (1999)
Tic O’Connor (2003)

 

Malgrado questo, oggi la CBT è poco diffusa in Italia. È praticata in studi privati e in alcuni centri specialistici pubblici e privati. La sua presenza nel servizio pubblico è a macchia di leopardo: in alcune zone sporadica, in altre meno. Non esiste un piano generale di diffusione, la sua presenza sul territorio è affidata all’eventuale passione dei singoli operatori. Eppure per alcuni disturbi, come le varie forme di ansia, è il trattamento di elezione, come potrebbe esserlo l’aspirina per alcuni stati infiammatori. Immaginiamo un servizio pubblico che prescrive l’aspirina ina base alle convinzioni dei singoli medici che presidiano un certo territorio. Una situazione intollerabile.

Le colpe non sono solo della scarsa informazione del governo politico, ma anche della poca coordinazione degli esponenti della CBT in Italia. E per questo Sanavio si è mosso, invitando alcuni di questi esponenti a Padova per parlare, confrontarsi e iniziare a disegnare una linea d’azione.

La redazione di State of Mind era presente ufficialmente all’evento, con l’incarico di raccontarlo.

L’incontro prevedeva una serie di relazioni, una libera discussione e una conclusione che convenisse su una qualche preliminare linea d’azione. Per prima ha parlato Antonella Montano del Beck Institute di Roma, che ha difeso una concezione omogenea della CBT come terapia scientifica e pragmatica. Ha aggiunto che in Italia occorre migliorare il contributo originale alla ricerca e alla validazione empirica del modello CBT. La parte più interessante è stata quando la Montano ha raccomandato un forte controllo sull’aderenza dei terapeuti italiani ai protocolli CBT validati, lasciando da parte la tendenza alla personalizzazione creativa dei trattamenti.

Dopo la Montano, Carlo Ricci dell’Istituto Walden di Roma ha difeso gli standard formativi italiani e proposto la costituzione di un’agenzia che garantisca il rispetto degli standard di aderenza. Che gli standard italiani siano elevati e tra i più severi d’Europa grazie alla legge fondante delle scuole di terapia è vero. Al tempo stesso, però, sono carenti nel fornire un percorso di formazione continua che vada al di là degli anni iniziali. Inoltre, è sembrato che la proposta di Ricci di un’agenzia rischi di generare solo nuovi organi e nuova burocrazia.

Lucio Sibilia del Centro per la Ricerca in Psicoterapia ha parlato con franchezza di un altro problema che danneggia la diffusione della CBT in Italia: la frammentazione teorica e clinica che sta iniziando a investire la CBT, anche all’estero. Difficile diffondere un paradigma che sta iniziando a dividersi. Per questo Sibilia proporne la formazione di un vocabolario comune che unisca le differenti correnti. Il rischio però sarebbe la produzione di un tentativo eclettico e poco capace di svilupparsi.

Silvio Lenzi della scuola bolognese di psicoterapia cognitiva a indirizzo costruttivista ed evolutivo è esponente di una delle correnti che si stanno differenziando dal tronco centrale della CBT e quindi ha difeso questo processo di differenziazione come una ricchezza e uno sviluppo. Lenzi inoltre non ha negato il bisogno che anche questa corrente si misuri con la ricerca. Parere forse di parte, ma che ha diritto di parola. Certo, si spera che la differenziazione di sotto-paradigmi non diventi un caotico gioco fine s stesso.

Sandra Sassaroli della Scuola Studi Cognitivi di Milano ha invece difeso la centralità della CBT e dell’aderenza ai protocolli, pur lasciando spazio alla possibilità di integrare sviluppi collaterali costruttivisti ed evolutivi. Sassaroli ha inoltre condiviso con forza la necessità di costruire una associazione che tuteli le scuole cognitivo comportamentali verso le istituzioni.

Paolo Moderato professore di Psicologia Generale presso la Libera Università IULM di Milano e direttore di IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano) ha parlato dei recenti sviluppi di terza ondata come una possibilità di riunificazione e non di frammentazione; questi sviluppi danno attenzione ai processi clinici, sui quali si può trovare un accordo scientifico.

Roberto Anchisi dell’Accademia di Scienze Comportamentali e Cognitive di Parma ha insistito sulla necessità di un trattamento olistico, che non restringa la psicoterapia cognitiva alla cura del sintomo. Antonino Tamburello dell’Istituto Skinner di Roma ha raccomandato la necessità di un’azione concreta.

Infine, Francesco Mancini ha parlato della centralità della ricerca sperimentale come base scientifica della CBT. Nella discussione successiva hanno parlato Maria Grazia Strepparava dell’Università di Milano Bicocca e Paolo Michielin dell’Università di Padova, entrambi invocando azioni concrete. In particolare Michielin ha evocato lo spettro della consunzione che colpisce tutti i movimenti che non riescono a montare sul treno del successo quando passa.

Tra le relazioni emergevano alcune differenze, tra le quali la maggiore era tra chi spingeva per protocolli di cura focalizzati e scientificamente rigorosi e chi invece desiderava una concezione della CBT che sapesse unire aspetti umanistici alla scientificità.

Il risultato più confortante, però, è il desiderio concreto di far nascere una Consulta che raccolga le personalità più influenti della psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia e sappia rappresentare i suoi interessi presso gli organi ministeriali e governativi. La fine della giornata ha visto la costruzione di un piccolo gruppo di partecipanti che si occuperà di costruire il primo statuto della consulta da proporre alla prima riunione che si terrà a Padova i primi di febbraio.

Binge Eating Disorder: Disturbo da Alimentazione Incontrollata – Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è un disturbo alimentare con una causa psicologica (psicogeno), spesso correlato a sovrappeso e obesità.

Caratteristiche del Disturbo da Alimentazione Incontrollata

La differenza essenziale tra il Disturbo da Alimentazione Incontrollata e la Bulimia è la mancanza, nel primo caso, di contromisure dopo le abbuffate: per esempio non ci sono comportamenti di compensazione come l’eccessivo esercizio fisico, il digiuno o il vomito.

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è un disturbo alimentare con una causa psicologica (psicogeno), spesso correlato a sovrappeso e obesità. Questo però non significa che tutte le persone che sono in sovrappeso soffrono di Disturbo da Alimentazione Incontrollata. È altrettanto vero che il Disturbo da Alimentazione Incontrollata può presentarsi anche in persone normopeso.

Tra i disturbi alimentari con origine psicogena il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è quello meno studiato. Non c’è ancora una definizione universalmente accettata dei criteri diagnostici.

Caratteristiche del Disturbo da Alimentazione Incontrollata:

•    Frequenti attacchi di fame vorace, che porta a consumare grandi quantità di cibo

•    Comportamento alimentare disturbato tra un’abbuffata e l’altra

•    Pasti irregolari

•    Iniziare e smettere frequentemente diete

•    Scarsa consapevolezza del senso di fame e del senso di sazietà

•    Poco movimento fisico e poca attività sportiva

•    Preferenza per interessi sedentari nel tempo libero come la televisione e i giochi al computer

•    Repressione delle emozioni (noia, rabbia, tristezza, felicità)

Possibili Indicatori Diagnostici:

•    Ricorrenti episodi di fame vorace (almeno due volte alla settimana per sei mesi). Questi episodi sono percepiti dalla persona come compulsivi e non controllabili. Le persone con attacchi di fame divorano enormi quantità di cibo in un periodo di tempo relativamente breve. In seguito la loro sicurezza di sé, già danneggiata, viene tormentata da senso di colpa, depressione e autoaccusa.

•    Le abbuffate sono caratterizzate da almeno 3 dei seguenti sintomi:

1.    Mangiare in modo troppo veloce, ingozzandosi

2.    Mangiare fino a sentirsi troppo pieni

3.    Mangiare grandi quantità di cibo senza sentire fisicamente fame

4.    Mangiare da soli per la vergogna

5.    Dopo aver mangiato, emozione di disgusto, umore depresso e senso di colpa

•    Il cibo che viene consumato durante le abbuffate viene trattenuto in corpo, senza fare niente per espellere le calorie o consumarle con l’esercizio fisico.

Le conseguenze fisiche dannose in caso di obesità (BMI>30) comprendono disturbi cardiaci e circolatori (alta pressione sanguigna, ictus, attacchi cardiaci), dolori articolari, lesioni alla colonna vertebrale, diabete mellito. Alcuni farmaci, per esempio quelli per la pressione alta o gli antidepressivi, rendono molto difficile perdere peso. Quando si desidera perdere peso si deve consultare uno specialista.

Le conseguenze psicologiche comprendono rassegnazione, mancanza di energia, depressione, odio per il proprio corpo, evitamento degli specchi, problemi nel definire i propri limiti. Inoltre, possono essere coinvolti anche abuso di alcool, attacchi d’ansia, odio per se stessi, e pulizia e lavaggi compulsivi.

Lo sapevi?

•    Le persone con Disturbo da Alimentazione Incontrollata hanno iniziato molte diete. In totale, circa il 75% delle donne ha già provato a fare una dieta

•    2 persone in sovrappeso su 3 hanno raggiunto il loro peso iniziale dopo sette mesi di dieta prescritta dal proprio medico

 

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Ambiente e benessere. L’educazione ambientale come educazione alla salute

Keywords: Ambiente, Inquinamento, Ecosistema, Salute

Abstract

Nell’ultimo periodo si è assistito ad un’attenzione maggiore per l’ambiente, in quanto il mantenimento della salute e l’implementazione del benessere passano attraverso la salubrità dell’habitat in cui si vive.
Alla luce di ciò, l’educazione alla salute deve legarsi all’educazione ambientale, vista come paradigma fondante di un nuovo modo di essere che congiunge la qualità della vita alla qualità dell’ambiente.

Gli ecosistemi

Da tempo sono noti gli effetti nocivi che l’inquinamento produce sull’ organismo umano. Lo studio di questi effetti è divenuto l’archetipo di una scienza, l’epidemiologia ambientale. In pratica, essa si occupa di stabilire le relazioni che intercorrono fra la salute dell’uomo e gli elementi che costituiscono il suo ambiente di vita, ovvero gli elementi fisici, chimici e biologici (Terracini, 2014).
Il benessere dell’uomo è assicurato dalla biodiversità presente sul globo terrestre. Questa molteplicità biologica è alla base degli ecosistemi. Per ecosistema, come Viaroli (2014, pag. 2) fa notare, si intende

“un sistema complesso e dinamico costituito da comunità vegetali, animali e microbiche che interagiscono fra di loro e con l’ambiente abiotico come un’unica unità funzionale”.

È proprio da questa interazione equilibrata fra gli elementi che costituiscono i vari ecosistemi che dipende la salute dell’intero pianeta terra.
Nella storia recente, a causa di politiche dissennate che hanno avuto come epicentro ideologico la cultura del profitto, i vari ecosistemi sono stati alterati o distrutti, causando degli effetti catastrofici che hanno avuto il loro riverbero sul clima, sull’ ambiente idrogeologico e sulla salute degli esseri viventi.

L’inquinamento delle acque e la salute

Le conseguenze più grandi di tali variazioni si possono compendiare nel fenomeno dell’inquinamento, che, sempre più, ha un ruolo fondamentale nell’ insorgenza di molte malattie che interessano l’uomo.
Relativamente all’ ecosistema marino, è in atto un processo di degrado ambientale, che è alla base di alterazioni di notevole portata. Nel mare, in ogni parte del mondo, sono versate le acque di rifiuto provenienti dagli agglomerati urbani, dalle industrie, dagli allevamenti di bestiame e dall’ agricoltura. Questi prodotti frequentemente non subiscono nessun processo di depurazione, per cui scaricano in mare delle quantità enormi di funghi e batteri, che impoveriscono l’acqua di ossigeno.
Altrettanto avviene per le acque dolci destinate all’ uso umano (fiumi, falde acquifere, laghi di acqua dolce). Esse, di sovente, appaiono inquinate da nitrati, arsenico, metalli pesanti, pesticidi, fertilizzanti ecc. A titolo di esempio si riportano gli effetti di due elementi chimici molto diffusi nelle acque potabili.
I nitrati, provenienti dall’agricoltura e dagli allevamenti, sono considerati degli agenti cancerogeni, per cui svolgono un ruolo importante nell’ insorgenza dei tumori.
L’arsenico, secondo le direttive della Organizzazione Mondiale della Sanità, non deve essere presente nelle acque potabili. È ammesso, eventualmente, un contenuto massimo di 5 microgrammi per litro. In Italia, per esempio, ci sono alcune acque per uso umano che contengono valori decisamente più alti.
Questa sostanza chimica è considerata un potente agente cancerogeno e può provocare il cancro al polmone, alla vescica, al rene, alla pelle, al fegato e al colon. Inoltre, provoca malattie a carico del sistema cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del sangue, della pelle, dell’apparato neurologico e riproduttivo (Litta, 2014, pag. 3).
Molti composti chimici inquinanti, presenti nelle acque potabili, sembrano essere alla base di patologie molto diffuse.

L’inquinamento dell’aria e la salute

È palese che l’aria che si respira è ricca di sostanze inquinanti. Tali composti possono essere suddivisi in gassosi, volatili e solidi. “…Secondo un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la qualità della salute respiratoria e cardiovascolare è inversamente proporzionale ai livelli di inquinamento atmosferico…” (Di Ciaula, 2014, pag. 2).
Durante l’età pediatrica, l’inquinamento dell’aria svolge un ruolo fondamentale nell’insorgenza dell’obesità, della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2.
Fra gli inquinanti gassosi sono da ricordare gli ossidi di azoto, zolfo e carbonio. Essi determinano malattie dell’apparato respiratorio (bronchiti, asma, cancro ai polmoni, ecc.).
Gli inquinanti volatili rientrano nella categoria dei microinquinanti. Fra di essi è da menzionare prevalentemente il benzene, che causa malattie tumorali e quadri clinici a carico del sistema nervoso, dell’apparato endocrino, del sistema immunitario e degli organi riproduttivi (Di Ciaula, op. cit., pag. 5).
Le sostanze solide sono rappresentate dai particolati. Con questo termine si intende una miscela costituita da carbonio, metalli pesanti e sostanze organiche.
“Il particolato è responsabile nel breve termine di incrementi di morbilità e mortalità per cause cardiocircolatorie (infarti, ictus, scompensi cardiaci e aritmie) e respiratorie (riacutizzazione di broncopatie croniche, asma) e nel lungo termine del cancro del polmone” (Di Ciaula, op. cit., pag. 3).

L’educazione ambientale

Se si vuole modificare la distruzione sistematica dell’ambiente bisogna educare le nuove generazioni al rispetto della natura.
In ambito scolastico, il concetto che va perseguito è quello di abituare i bambini, come futuri cittadini, a farsi portatori di uno sviluppo socio – economico sostenibile, ovvero uno sviluppo che si basi sulla sostenibilità ambientale “…intesa come conservazione del capitale naturale e dei servizi ecologici a esso connessi, soprattutto la produzione di risorse e l’abbattimento degli inquinanti…”.
Per questa ragione, l’educazione alla salute, che si deve perseguire in ogni contesto e a qualsiasi età, deve legarsi all’ educazione ambientale, vista come paradigma fondante di un nuovo modo di essere che congiunge la qualità della vita alla qualità dell’ambiente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Inquinamento atmosferico & rischio di autismo e schizofrenia

BIBLIOGRAFIA:

  • Di Ciaula, A. (2014). Inquinamento atmosferico. Milano: Zadig Editore.
  • Litta, A. (2014). Acqua e salute (le principali problematiche sanitarie derivanti dal degrado e dall’inquinamento delle acque destinate a consumo umano). Milano: Zadig Editore.
  • Terracini, B. (2014). L’epidemiologia ambientale e l’ISDE. Milano: Zadig Editore.  DOWNLOAD
  • Viaroli, P. (2013). Biodiversità a rischio per gli ecosistemi acquatici. Ecoscienza. Vol. n. 5  DOWNLOAD

Violetta: una vita senza amore – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.16 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

Il senso di essere sbagliata, fuori posto, dannosa non è riferito a uno o più comportamenti ma propriamente alla sua essenza. E’ un difetto di fabbrica ineliminabile e del quale, contraddittoriamente, si sente anche colpevole. Per placare questa percezione di difettualità avrebbe bisogno di sentirsi amata. Per cercare di ottenere questo amore cerca di non dare mai fastidio (non richiedere niente) e rendersi utile.

Il parco auto a disposizione del CIM acquistato al momento della fondazione, invecchiava inesorabilmente come gli operatori e la carenza di fondi rendeva le riparazioni un evento straordinario quando invece auto guidate da moltissime persone richiederebbero una manutenzione assidua e affettuoso.  I più utilizzavano per le trasferte le macchine private con un rimborso chilometrico di 50 cent, ma i pazienti non potevano assolutamente esservi trasportati non essendo protetti da assicurazione.

Al lettore sembrerà sciocca una tale divagazione sui mezzi in ciò dimostrando la sua ignoranza sull’operatività di un CIM soprattutto di una grande provincia che avviene prevalentemente sul territorio con grandi spostamenti. Il lettore porterà dunque pazienza se tarderò ancora un po’ a riportarlo nel palpitare dell’attività clinica. Le auto erano due fiat tipo bianche con le insegne della Asl, un pulmino ford transit azzurro per le attività di gruppo e la cosiddetta ammiraglia della flotta. L’ammiraglia era una Fiat bravo nera usata per i viaggi più lunghi o quando c’era fretta essendo più potente e sicura. Sapendo quanto Biagioli ci tenesse tutti gli operatori gli avevano regalato  per i suoi cinquant’anni un autoradio che era stato montato sulla “Bravo”. Il vero regalo consisteva soprattutto nell’aver seguito le procedure per poter ottenere il montaggio. Chi non ha avuto esperienza di ASL non può immaginare quanto sia difficile non soltanto ottenere qualcosa dalla ASL (ad esempio un pagamento per forniture) ma anche donarle qualcosa. Quell’autoradio rappresentava una vittoria contro la burocrazia ed era motivo di orgoglio di tutti.

Essendo  i presenti piuttosto ridotti dalla coda delle ferie della seconda metà di agosto, la scelta ricadde facilmente sulle più disponibili e la dottoressa Mattiacci e la dottoressa Filata furono subito lanciate sulla superstrada che portava fuori provincia verso l’ospedale di Montello. Il rombo del motore 1.9 turbo diesel  disturbava le canore dichiarazioni di Vasco Rossi circa il desiderio di  una vita spericolata. Lina e Maria, praticamente coetanee, al contrario si raccontarono  per buona parte del tragitto quante spericolatezze avrebbero volentieri cancellate dalle proprie vite.

Lina avrebbe volentieri fatto a meno del brivido di andare a ricercare per le campagne di Monticelli il padre demente del suo convivente assurgendo, come era successo una volta, agli onori di “chi l’ha visto?” Avrebbe anche volentieri evitato le continue discussioni con il suo compagno vedovo che, pur non volendola sposare per rispetto della povera Assunta, voleva un figlio con il sistema dell’utero in affitto. Lina sospettava che la fecondazione del suddetto utero dovesse essere nelle intenzioni di Riccardo piuttosto tradizionale: passava le notti in rimuginii e le giornate in controlli. Maria attraversava un tribolatissimo inizio di menopausa: si accorgeva di essere diventata invisibile agli uomini e inutile per i suoi due ragazzoni. Bravissimi a scuola ed ora avviati ad una duratura disoccupazione avevano occhi e attenzioni solo per le due ragazze che si erano appropriate del loro cuore e delle loro camere senza mai porsi il problema di dare una mano. Il pensionato era aumentato da due a quattro ospiti e la collaborazione già scarsa dimezzata “hanno altro per la testa”.  Giovanni che non amava la confusione ed i piena crisi di andropausa era sempre più assente e distratto. Su questo tema che potremmo definire di gelosia le preoccupazioni di Lina e Maria si allearono rinforzandosi reciprocamente. Se le avesse fermate un poliziotto maschio lo avrebbero probabilmente insultato e preso a schiaffi.

Spensero Vasco mandandolo a quel paese e si lasciarono cullare dai saliscendi e dalle curve  in un paesaggio che sotto il verdeggiare rigoglioso degli alti fusti mostrava a terra  screpolature e siccità per una estate torrida che non accennava a placare le sue fiamme. Se fosse andato a fare la spesa Vasco si sarebbe accorto come fosse spericolato già l’acquistare le verdure di stagione che avevano dovute essere annaffiate tutti i giorni.  Per rendere più spericolato l’inizio della giornata e grazie ai saliscendi e alle curve. Maria vomitò per metà oltre la portiera del passeggero ma per l’altra metà sulla moquette interna della Bravo con l’autoradio prediletta da Biagioli.

Violetta era ricoverata all’ospedale di Montello perché avevano tardato ad intervenire. Dalla vigilia di ferragosto i vicini erano allarmati per quella signora stravagante che aveva intensificato le minacce di suicidio, isteriche a detta di tutti, da quando Elio il marito ingegnere edile era stato licenziato ed era partito per la Germania dove conosceva un cognato. Lei era convinta che non avrebbe trovato soltanto lavoro e già si viveva come abbandonata. Non c’erano i figli a trattenerlo in Italia e i genitori di lui erano morti l’anno passato. I genitori di Violetta invece vivevano nella capitale e si occupavano esclusivamente dei due gemelli disabili (oligofrenici gravi) nati dieci anni dopo di lei ed ora quarantenni a totale carico degli anziani genitori cui mancava lo spazio per altro dolore.

Per essere sinceri i vicini di Violetta non erano davvero preoccupati per lei considerata una stravagante rompiscatole sempre in cerca di affetto e dunque talvolta pericolosamente equivoca con i mariti del circondario. Temevano semplicemente che un tentativo di suicidio maldestro (gas) potesse trasformarsi in una tragedia.

In anamnesi aveva un T.S. con l’ingestione di aspirine, un TS con numerosi tagliuzzi sull’avambraccio ed un quasi coma alcolico. Tutti i tentativi erano stati fatti nell’immediatezza del ritorno a casa del marito. Insomma l’intenzionalità suicida non sembrava molto forte. Siccome non si sa mai il CIM era stato avvertito più volte daquelli rimasti nel palazzo nonostante il periodo estivo. Tutto si era acquietato con la partenza di Violetta per la casa di campagna della zia a Montello. Problema risolto. Invece  si era ingozzata un flaconcino di pillole per il cuore della vecchia ed era giunta al pronto soccorso per miracolo. Prima di raggiungere il letto di Violetta bisognava attraversare e chiedere informazioni a metà ospedale affrontando lo sguardo rimproverante dei sanitari che costretti a lavorare per un paziente fuori zona accusavano i colleghi locali di non aver fatto bene il loro lavoro. Persino in cartella avevano scritto “nonostante le ripetute segnalazioni dei vicini……”.

Andò avanti la dottoressa Mattiacci che alimentando volontariamente il pensiero dell’utero ricercato da Riccardo aveva un aspetto che sconsigliava il contraddirla. La dottoressa Filata, al seguito, incontrava sorrisi e gentilezza in sovrappiù come da chi esagera per compenso e per scusarsi dopo un deciso rimprovero. Una solerte caposala attrezzò una stanzetta essenziale (tre sedie e una scrivania) tranquilla e riservata più di quelle di  cui usufruivano al CIM di Monticelli.

Violetta giunta in emergenza aveva un abbigliamento rimediato dalle infermiere e donato da qualche altra paziente, non dunque il consueto pigiama d’ordinanza o le consuete tute che popolano le corsie ospedaliere. L’insieme comunque era stato da lei scelto e assemblato con cura tanto da conferirle un certo fascino sbarazzino e zingaresco. La casacca verde da infermiere di sala operatoria troppa larga era cinta in vita da una kefiah palestinese a disegni rossi che drappeggiava sopra dei pantaloncini corti che considerati i ricami dovevano essere stati delle mutande di una nonna della bella epoque. I piedi curatissimi e smaltati di un rosso ferrari  in sandali di cuoio che si arrampicavano oltre la caviglia.  Non mancava nessun accessorio utile a identificarla come una ex ragazza della generazione del boom economico e della rivoluzione hippy:  collane di pietre coloratissime intrecciate tra loro tre orecchini per orecchio assolutamente diversi tra loro, un tatuaggio piccolo del segno “fate l’amore e non fate la guerra sul polso destro ed un inconfondibile profumo di Paciuli  che attivò nelle due dottoresse un ondata di ricordi, come solo i profumi sanno fare, e la meraviglia che ancora fosse in commercio.

Violetta era pressoché coetanea delle due dottoresse.  Avrebbe compiuto 50 anni nel mese di settembre. Lo stile generale del suo aspetto sembrava orientato con molta attenzione a far vedere che non si curava. Insomma quella seduttività da “gatta morta” che  spesso inganna i maschi ma non sfugge alle altre donne provocandone l’irritazione in quanto considerata concorrenza sleale. Di poco sotto il metro e settanta aveva però tutti i tratti della femminilità solidi e ben conservati segno di una attenta politica di conservazione. Non li mostrava ma era molto attenta a verificare che fossero intuiti e apprezzati. Capelli biondi da paggetto e grandi occhi azzurri velati di una malinconia straziante che, di tanto in tanto si inumidivano  senza decidersi alle lacrime vere e proprie. Musetto imbronciato in cui si mischiavano producendo uno strano effetto tre emozioni. Il dolore per una perdita. La rabbia per un torto subito. Le scuse per aver osato chiedere ciò che non le spettava. Insomma un bambino capriccioso che si dispera per essere stato sgridato e fermamente convinto di avere ragione. 

Quasi per non creare disturbo Violetta dichiarò subito che il tentativo di suicidio era stato un momento di debolezza per lo sconforto di non riuscire a parlare con Elio che arrivato in Germania da una settimana  ancora era irraggiungibile dovendo modificare il contratto del cellulare. Le era sembrata una grave disattenzione nei suoi confronti e si era presa l’intera boccetta delle pilloline di Cuorenorm della zia Matilde. Per rassicurare le due dottoresse aggiunse che aveva lasciato la porta di casa spalancata e sapeva che la zia sarebbe tornata dopo mezz’ora.

Tanta volontà di normalizzare il gesto e di rassicurare le due dottoresse ottenne l’effetto opposto. Consultatesi con la scusa di un caffè al distributore automatico concordarono sulla sensazione di un dolore profondo inconsolabile che doveva venire da ben più lontano. Avevano l’impressione che volesse rassicurarle per liberarsene e portare a termine il progetto iniziato e, infine che  in due erano troppe e concordata la terapia farmacologica con il reparto si potevano proporre le dimissioni  e poi proseguire con una psicoterapia  affidata alla dottoressa Filata con cui sembrava esserci un particolare feeling. Avvertirono telefonicamente Biagioli perché facesse  vedere con grande evidenza che d’ora in poi Violetta sarebbe stata seguita assiduamente dal CIM. Insomma doveva fare “la moina” per rassicurare i coinquilini e diminuire così l’ostracismo nei suoi confronti. I farmaci si limitarono a blandissimi ansiolitici. La Mattiacci non amava sparare pesantemente sui sintomi senza aver prima capito i motivi profondi di un disagio.

La stanza della Filata  dove avvenivano i colloqui se si eccettua l’odore di Paciuli  sottolineava le radici culturali e generazionali comuni e le metteva a proprio agio. Naturalmente le due cornici con i figli di Maria finirono in un cassetto  dopo un bacio di saluto e di scuse della madre.

Violetta riferiva una assoluta mancanza di senso dell’intera sua esistenza. Vivere non era tanto doloroso quanto soprattutto inutile e siccome molto spesso faticoso non vedeva che senso avesse affaticarsi tanto per nulla. Il desiderio di non essere mai nata l’aveva accompagnata sin dalla prima infanzia. Usava come fantasia consolatoria nei momenti bui l’immagine di lei rannicchiata dentro una bara tre metri sottoterra  con tutto il mondo che continuava ad affaccendarsi sopra di lei. Donna colta con due lauree (scienze della formazione e sociologia) ed un diploma da logopedista, aveva già fatto due psicoterapie tra i venti ed i trent’anni quando erano gli attacchi di panico a dominare la scena.

La prima junghiana era stata interrotta per esplicite molestie sessuali del terapeuta. La seconda freudiana di tre anni aveva ben identificato il nucleo problematico nella sua famiglia d’origine. Attualmente si guadagnava da vivere lavorando come logopedista in una struttura convenzionata e la partenza del marito la metteva in serie difficoltà economiche. Il nucleo del suo problema era facilmente riassumibile quanto difficilmente modificabile avendo radici profonde nelle esperienze familiari della prima infanzia. Violetta pensava di non valere niente o peggio, di essere un elemento dannoso che rovinava tutto ciò con cui veniva in contatto, la cosiddetta “mela avariata” che fa marcire tutto il paniere.

Il senso di essere sbagliata, fuori posto, dannosa non è riferito a uno o più comportamenti ma propriamente alla sua essenza. E’ un difetto di fabbrica ineliminabile e del quale, contraddittoriamente, si sente anche colpevole. Per placare questa percezione di difettualità avrebbe bisogno di sentirsi amata. Per cercare di ottenere questo amore cerca di non dare mai fastidio (non richiedere niente) e rendersi utile. Quando tuttavia le attenzioni e i riconoscimenti arrivano li riferisce ai suoi comportamenti e non incidono dunque sull’essenza di difettualità. Non ritenendosi amabile  e certa che l’altro prima o poi scoprirà il bluff e quanto sia disgustosa non si lascia avvicinare confermando l’idea di indesiderabilità.

Oltre la professione d’aiuto che svolge è sempre stata impegnata  nel volontariato  con persone e soprattutto animali (più rassicuranti) che avessero un tale stato di bisogno da ritenerla indispensabile e dunque non lasciarla. Primogenita ha da subito dovuto occuparsi dei due fratelli più piccoli dopo l’allontanamento del padre violento e alcolista che ha lasciato la madre, quando lei aveva tre anni, in uno stato di indigenza economica e di grave depressione da cui è uscita ponendo cinicamente se stessa e i suoi bisogni al centro dell’universo. Violetta è sempre stata convinta di essere la causa dell’allontanamento del padre.

Durante l’adolescenza ha scoperto che un altro tipo di accondiscendenza con cui ottenere attenzioni e affetto era quella sessuale. Ha vissuto un periodo eroico e rischioso per promiscuità e droghe. Non che godesse. Per lei si trattava sempre di un impegnativo lavoro in vista di un riconoscimento e di un amore che curasse quella sua difettualità originaria. Non può dire di non essersi anche divertita ma quel suo disagio, quel senso di inutilità non l’ha lasciata un istante. Ed ora è stanca, tanto stanca.

Prima di Elio ha avuto altre due importanti storie inconsapevolmente scelte per confermare  la sua idea di difettualità. Renato un tossico gravissimo che  l’ha sempre lasciata al secondo posto dopo l’eroina. Gianni che per sette anni le ha detto che la moglie non contava niente per lui e aspettava solo di andarsene e nel mentre ci ha fatto altri due figli. Freud chiamava “coazione a ripetere” il riproporsi nella vita delle persone sitazioni analoghe, dolorose e dichiaratamente non volute. Più modestamente la dottoressa Filata pensava che faccia meno paura un male conosciuto piuttosto che l’ignoto. Infine era arrivato Elio  il classico buon partito, buona laurea, buon lavoro, solida famiglia alle spalle. Disposto a prendersela nonostante dopo la storia con Renato fosse molto chiacchierata. Per lei era una scelta protettiva e di stabilità dopo il periodo di follie, qualcuno con cui invecchiare serenamente.

In realtà Elio era rimasto figlio della sua famiglia d’origine senza mai proiettarsi nella nuova. A 35 anni comunicò di non volere figli perché in futuro si sarebbe dovuto occupare della cura dei propri adorati genitori. Violetta accettò perché da parte sua si riteneva incapace di procreare qualcosa di buono e tanto meno di accudirlo. Oggi il rimpianto per quella scelta la devasta. L’assoluta anaffettività di Elio se da un lato era motivo di sofferenza dall’altro suonava come conferma della sua non amabilità e dunque la giustificava ampiamente: era ciò che si meritava e non poteva pretendere di più.

Violetta aveva molti amici  a motivo della sua oblatività coatta.  Il suo dramma che la spingeva al suicidio lo descriveva dicendo che non tollerava di vivere senza essere la cosa più importante per qualcuno. Si descriveva come un pappagallo che ha bisogno di un trespolo su cui posarsi. Non lo trova ed è sempre più stanco. Siccome frugando su internet e ricordando i suoi studi di psicologia si era diagnosticata una “depressione anaclitica” caratteristica dei bambini privati di cure materne e che per tutta la vita cercano qualcuno cui appoggiarsi sentendo altrimenti di non esistere, si accordarono di chiamare questo vissuto  che la assillava “Anacleto”.

Lo scopo di Violetta era di essere amata solo se occupava completamente la mente di qualcun altro sentiva di esistere. Altrimenti non c’era. Che dico?magari non esserci. Il suo vissuto era quello di un morire infinito, un affogare senza mai toccare il fondo. Uno spasmo fisico le asserragliava il torace. Per spiegarlo a Maria disegnava una bambina su un foglio e mentre la cancellava diceva di sentirsi così. La paura di scomparire non veniva dismessa dal suo accadere. A precipizio seguiva precipizio e il terrore di cadere rimaneva intatto. L’atrocità stava nella lucidissima consapevolezza dell’imminenza della fine che non arrivava mai. Immagina, diceva,il vissuto di una partita di roulette russa o la tortura della finta esecuzione.

La gravità del caso era spesso oggetto di discussione nelle riunioni cliniche del CIM su esplicita richiesta di Mattaccini e Filata sempre più preoccupate. I pareri discordi si estremizzavano a diventare partiti. Per Irati, per la prima volta in assoluto d’accordo con una psicologa nella persona della dottoressa Daniela Ficca, era semplicemente una isterica anzi una “istericona” come si usava dire quando la categoria diagnostica veniva usata in termine dispregiativo nel senso di esagerata, commediante, viziata, manipolatrice e persino un po’ mignotta (come se chi avesse bisogno di fare tutto ciò per ottenere attenzione non fosse grandemente sofferente).

Per la Mattaccini ed il dottor Cortesi si trattava di un disturbo bipolare dell’umore e lo sbarco farmacologico in grande stile era stato fin troppo e rischiosamente rimandato. Chi sembrava capirla perfettamente era il dottor Biagioli appoggiato come al solito da Luisa Tigli. Lui che aveva sofferto da piccolo di una fortissima ansia da separazione non stentava a mettersi nei suoi panni .Spiegava agli altri che quella mancanza è un dolore muto, non riesce a dispiegarsi in parole, soffoca, svuota dal di dentro, ti lascia vivere da morto. Era pessimista, diceva che solo l’amore l’avrebbe potuta curare senza tuttavia guarirla mai ma quell’amore non era un servizio fornito dal CIM. Secondo i vecchi militanti dell’antipsichiatria ( Giovanni Brugnoli,Antonio Nitti e Maria detta Gilda) era una crisi esistenziale da menopausa ed il CIM doveva proporle una serie di attività che dessero un senso alla sua esistenza. A loro avviso si doveva puntare ad utilizzare l’oblatività coatta di Violetta e fecero numerose proposte. Volontariato nell’hospice “Exit” che operava a domicilio dei terminali, operatrice retribuita con un sussidio ASL nel centro per  homeless che il CIM aveva appena aperto nei locali della parrocchia di San Carluccio. Corso di danza africana (di cui era esperta) per i pazienti del centro diurno regolarmente in sovrappeso per i farmaci.

Violetta obbediente si sperimentava con senso del dovere in tutte queste proposte ma il senso di inutilità non si modificava. Non voleva aiutare gli altri, voleva disperatamente essere amata. Dopo che Elio le comunicò con una raccomandata A/R che non aveva intenzione di tornare chiedendole di inviare ad un indirizzo di Amburgo le sue poche cose Gilda rispolverò il suo orgoglio femminista e tutta la sua spregiudicatezza e partì all’attacco. La spinse a frugare su internet alla ricerca di occasioni di incontro per cinquantenni “ben tenute”.

In terapia alla dottoressa Filata riportava l’universo di solitudine e di squallore che le si era parato innanzi. Se si escludeva il settore delle coetanee a caccia di sesso virtuale e, se fortunate, di cazzi a tempo determinato. Era un mondo molto popolato dove riconobbe sotto nickname improbabili alcune amiche felicemente sposate e sorprendentemente una certa Makeba28GR che scoprì essere sua madre. Chi non era impegnato in safari genitali ambo i sessi si dedicava a tutto quel mondo che andava dall’astrologia, alle pratiche magiche nord europee e più o meno animiste. C’erano gruppi per ogni cosa. Vergini attempate che accoglievano la primavera danzando la notte nei boschi. Sette religiose e alimentari di ogni genere che giuravano di aver trovato il senso dell’esistenza nel quotidiano lavaggio intestinale, nell’assoluta astinenza da tutti i derivati della soia o nel rifiuto del sapone e i suoi derivati. Non ce la poteva fare. Si accusava di essere forse troppo snob ma non erano cose per lei.

Il costante peggioramento della situazione  rendeva concreto il rischio suicidiario e, di nuovo si crearono due partiti. Quelli favorevoli al ricovero immediato in trattamento sanitario obbligatorio perchè Violetta non voleva saperne e coloro che ritenevano fosse diritto di ognuno decidere per la propria vita e non ci fossero criteri esterni e oggettivi per stabilire se fosse o meno degna di essere vissuta.

Perchè di fronte ad una SLA terminale senza possibilità di comunicare con gli altri o in una “sindrome locked in” si è disposti a prendere in considerazione l’eutanasia o perlomeno la cessazione delle cure ed in una vita ritenuta intollerabile perchè senza amore no? Non c’è forse una impropria sovrapposizione dei criteri dei curanti su quelli del paziente per espropriargli una sua decisione? I dibattiti filosofici lasciarono il passo alla consuetudine clinica ormai guidata soprattutto dall’evitare questioni medico legali (la cosiddetta medicina difensiva schierata a proteggere le terga dei medici) e Violetta fu ricoverata con ordinanza del sindaco e sospiro di sollievo dei coinquilini presso l’ospedale territoriale di Vontano. Qualche piccola rogna la passò invece l’infermiere del reparto che nel tentativo di trattenerla rimase con uno di quei suoi deliziosi sandali in mano. Ma loro hanno una assicurazione specifica e prendono anche una  cospicua indennità di rischio quasi come i radiologi.

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CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

Intelligenza: una questione di genetica e non di socializzazione tra genitori e figli

FLASH NEWS

I risultati indicano chiaramente che il QI non è il risultato della socializzazione tra figli e genitori. Insomma socializzare con i nostri figli li farà sentire sicuramente più amati e fiduciosi in sé stessi, ma non innalzerà il loro QI.

Nessuna delle buone abitudini che il senso comune suggerisce essere alla base di una sana socializzazione tra genitori e figli – leggere la storia della buonanotte, impegnarsi a comunicare, cenare insieme – ha alcuna influenza rilevabile sulla futura intelligenza dei bambini.

Risultati di studi precedenti sostengono la correlazione tra intelligenza e comportamenti genitoriali, ma questo dato, sostiene Kevin Beaver, professore di criminologia alla Florida State University, potrebbe essere falsato dal fatto di non tenere conto dell’influenza genetica. In altre parole bambini più intelligenti avrebbero genitori più intelligenti e il fatto che siano anche più socializzanti non influenzerebbe la loro intelligenza.

Proprio per testare queste due ipotesi, Beaver ha utilizzato un disegno di ricerca adoption-based. Infatti, studiare i bambini che non condividono il DNA con i genitori adottivi elimina la possibilità che la socializzazione dei genitori sia in realtà un marker della trasmissione genetica.

Il disegno di ricerca prevedeva l’analisi e la comparazione di due campioni di giovani provenienti dal National Longitudinal Study of Adolescent Health (un campione di giovani, rappresentativo a livello nazionale e un campione di bambini adottati).
Lo studio ha analizzato i comportamenti genitoriali e se questi hanno avuto un effetto sull’intelligenza verbale dei figli, misurata con il Picture Vocabulary Test (PVT). I test di intelligenza sono stati somministrati ai ragazzi durante le scuole medie e superiori, e successivamente tra i 18 e i 26 anni.

I risultati indicano chiaramente che il QI non è il risultato della socializzazione tra figli e genitori. Insomma socializzare con i nostri figli li farà sentire sicuramente più amati e fiduciosi in sé stessi, ma non innalzerà il loro QI.

 

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La Mindfulness come strumento di prevenzione e gestione dello stress lavoro-correlato

La presenza attenta e non giudicante, a quello che c’è, alla persona che è davanti a me in questo momento, produce frutti anche per la qualità delle relazioni, nel team, nell’azienda. Più ascolto, più sintonia, empatia, sollecitudine. In altri termini più intelligenza emotiva e sociale.

Cos’e’ lo stress correlato al lavoro?

Lo stress lavorativo può essere definito come un danno fisico e una risposta emotiva che interviene quando le caratteristiche del lavoro non corrispondono alle capacità, risorse o bisogni dei lavoratori (EU-OSHA, 2009).

Lo stress non è una malattia, ma uno stato di prolungata tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può causare gravi problemi di salute psicologica e fisica. Lavorare sotto una certa pressione per un breve periodo può migliorare le prestazioni e, quando si raggiungono obiettivi impegnativi, può anche produrre effetti psicologici positivi quali un aumento della soddisfazione lavorativa, motivazione e senso di autoefficacia personale. Al contrario, quando le richieste e la pressione diventano eccessive e prolungate possono causare stress e gravi problemi di salute mentale e fisica.

Perche’ e’ importante gestire lo stress lavoro-correlato?

“…Considerare il problema dello stress sul lavoro può voler dire una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme…” (Accordo Europeo sullo stress sul lavoro, Bruxelles, 8 ottobre 2004).

Attualmente la legge che disciplina la valutazione del rischio stress lavoro correlato è il Decreto legislativo 81/08, art. 28 e successive modifiche e integrazioni. Tale decreto, in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro, obbliga il datore di lavoro ad effettuare la valutazione dello stress correlato al lavoro secondo quanto previsto dall’Accordo Quadro Europeo, siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004.

Affrontare lo stress lavoro-correlato e i rischi psicosociali può essere considerato costoso, ma le ricerche mostrano che ignorare questi rischi costa molto di più (EU-OSHA, 2013). Studi recenti nei Paesi della Comunità Europea evidenziano come lo stress legato alla attività lavorativa sia il problema di salute più largamente diffuso tra i lavoratori europei dopo i disturbi muscoloscheletrici.

La condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa ed è stato stimato che una percentuale compresa tra il 50% e il 60% delle giornate lavorative perse in un anno è correlata allo stress lavorativo (EU-OSHA, 2000). Lo stress comporta costi significativi sia per le organizzazioni sia per le economie nazionali (EU-OSHA, 2014).

Da una recente relazione dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (2014) è emerso che l’ingente costo economico dello stress lavorativo è spiegato principalmente dai costi correlati alla perdita di produttività, all’assenteismo per malattia e all’assistenza sanitaria.

Inoltre, le ricerche indicano che è altamente probabile che il fenomeno aumenti in futuro, a causa di alcuni cambiamenti in corso nel mondo del lavoro (es. contratti di lavoro precari, insicurezza lavorativa, forza lavoro sempre più vecchia, squilibrio fra lavoro e vita privata): l’Organizzazione mondiale della Sanità prevede che entro il 2020 la depressione – spesso associata a uno stile di vita stressante – sarà la principale causa di assenza sul lavoro.

Effetti dello stress sui lavoratori e sulle organizzazioni

Gli effetti dello stress lavorativo a livello individuale riguardano principalmente disturbi del sonno (insonnia, incubi notturni, spossatezza al risveglio), mal di testa, disturbi dell’umore (cambiamenti di umore, ansia, attacchi di panico, depressione, apatia), disturbi cognitivi (disturbi della memoria, difficoltà di concentrazione), disturbi del comportamento (abuso di alcol, droga, cibo).

Quando lo stress è prolungato e cronico si può assistere alla comparsa di disturbi fisici, tra cui disturbi all’apparato digerente, disturbi dell’apparato cardiocircolatorio (ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica), disturbi dell’apparato genitale (alterazioni del ritmo mestruale, amenorrea), disturbi della sfera sessuale (calo del desiderio, impotenza), disturbi muscoloscheletrici, disturbi dermatologici (dermatiti, psoriasi, arrossamenti) e diabete (Backé et al., 2012; Belkic et al., 2000; Beswick et al., 2006; Chen et al., 2009).

Lo stress può causare conseguenze negative non solo per il singolo lavoratore ma anche per le organizzazioni, con particolare riferimento ad uno scarso rendimento complessivo (Baillien et al., 2009; Yildirim, 2009), maggiore assenteismo (Kivimaki, Elovainio e Vahtera, 2000; Griep et al., 2010), turnover e presenteismo (le persone continuano ad andare a lavorare quando sono malate e non possono essere efficienti), un aumento dei tassi di incidenti e infortuni e di richieste di pensionamento anticipato (Arcuri & Caciolli, 2011), un peggioramento del clima interno e dell’immagine aziendale.

Tutti questi elementi rappresentano per l’azienda evidenti costi che potrebbero essere sensibilmente ridotti applicando un percorso di prevenzione dello stress lavoro-correlato che non sia semplicemente una procedura dovuta al mero rispetto della normativa.

Come intervenire?

Gli interventi psicologici volti alla prevenzione e gestione dello stress lavorativo possono essere suddivisi in: a) interventi diretti all’organizzazione e b) interventi diretti all’individuo.

I primi riguardano interventi di tipo organizzativo che agiscono su quei fattori di rischio relativi al contenuto e al contesto del lavoro (es. job redesign, rotazione del personale). Questi interventi risultano essere efficaci in quanto vanno ad agire direttamente sulla fonte di stress, ma sono di difficile attuazione in quanto richiedono importanti risorse e l’implementazione di veri e propri cambiamenti organizzativi.

Gli interventi a livello individuale mirano a promuovere efficaci strategie di coping e di resilienza individuale al fine di modificare la valutazione cognitiva del potenziale stressor e, di conseguenza, ridurre il suo potenziale impatto negativo sulla salute. A questo proposito, le tecniche di rilassamento, tra cui in particolare la Mindfulness, sono risultati efficaci strumenti di gestione dello stress, utili anche a fronteggiare gli eventi stressanti nei luoghi di lavoro (Hulsheger et al., 2013).

Cos’è la Mindfulness

I pensieri automatici giocano un ruolo importante nello sviluppo dello stress lavoro-correlato. Divenire consapevoli di questi, quindi, può aiutare a prevenire lo stress o a gestire in modo più efficace una situazione stressante. Una pratica utile per sviluppare la consapevolezza di sé è la Mindfulness.

Si tratta di un’antica pratica meditativa di origine buddista, che può essere definita come “uno stato di coscienza o processo mentale caratterizzato da un’attenzione consapevole, libera da valutazioni e focalizzata sul presente, verso l’esperienza interna ed esterna e priva di reazioni verso di essa” (Didonna, 2009). L’obiettivo della Mindfulness, quindi, è quello di essere presenti nel “qui e ora” e di accogliere le emozioni e i pensieri, senza giudicarli.

A partire dagli anni Ottanta una grande mole di ricerche scientifiche ha mostrato l’efficacia clinica di queste tecniche sia per il trattamento di disturbi psichiatrici (Depressione, Disturbi d’Ansia, Uso di Sostanze ecc.) sia per disturbi di tipo medico (oncologia, psoriasi, dolore cronico). Sono stati approntati dei protocolli e dei modelli terapeutici di provata efficacia in cui le tecniche della psicoterapia cognitivo-comportamentale si integrano con la Mindfulness.

Un ulteriore aspetto importante di questa pratica è la rilevanza attribuita all’unità mente-corpo, basata sull’assunto che il benessere si declina e si sviluppa anche attraverso un’adeguata sintonia tra questi due sistemi. La Mindfulness consente di esplorare la propria corporeità in modo spontaneo e decentrato e di comprendere i rapporti tra le dimensioni cognitiva, emotiva e fisico-sensoriale.

Esistono delle tecniche specifiche che vengono impiegate al fine di sviluppare la consapevolezza e tra queste vi sono:

– il Body Scan, che consiste nella focalizzazione dell’attenzione sulle varie parti del proprio corpo, concentrandosi sulle sensazioni che ogni parte trasmette e che ha l’obiettivo di incrementare la consapevolezza corporea;

– la Meditazione camminata, che consiste nel porre attenzione alternativamente ad un arto e all’altro, durante il movimento, concentrandosi sui movimenti delle singole parti.

A sostegno dell’efficacia e diffusione della tecnica emerge che circa il 41% dei terapeuti (dei principali orientamenti) riferisce di impiegare la Mindfulness in psicoterapia, e, nello specifico, che circa il 69% dei terapeuti cognitivi riferisce di utilizzarla.

Il programma MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) per lo stress lavoro-correlato

L’applicazione della Mindfulness per interventi sullo stress o di tipo preventivo può quindi portare a importanti benefici. La prima applicazione della Mindfulness allo stress si è avuta nel 1979, con il programma di Mindfulness Based Stress Reduction. Questo programma è nato da un’idea di Jon Kabat Zinn, un biologo americano.

I primi destinatari di questo programma furono dei malati cronici. Per contenere lo stress portato dalle sofferenze continue a cui erano sottoposti, Zinn sottopose questi pazienti a un ciclo di otto incontri, che prevedevano la pratica attiva di questa disciplina.  Alla fine del ciclo, si osservò nei pazienti un aumento delle strategie di coping positive e una diminuzione di quelle negative.

Un programma di ricerca, fondato sulla MBSR, è stato svolto più recentemente dal Centro di Ricerca Extreme Physiology (centro che ha come obiettivo principale lo studio della risposta psicofisica dell’organismo a condizioni estreme), con operatori socio-sanitari, medici ed infermieri. Prima dell’inizio del programma, il personale sanitario è stato sottoposto a misurazioni psicofisiologiche per rilevare una condizione di stress, quali ECG, misurazione di valori pressori pre e post turno di lavoro, rilevazione del cortisolo e dei livelli di colesterolo presenti nel sangue, test psicometrici per valutare il livello di stress percepito ed eventuali disturbi del sonno. Successivamente il personale è stato introdotto alle pratiche Mindfulness.

Al termine del ciclo di incontri, sono state effettuate nuovamente delle misurazioni psicofisiologiche, per valutare come e se fossero variati i livelli di stress percepito. Analisi statistiche hanno evidenziato una diminuzione del valore medio della scala relativa all’ansia e allo stress.

Una ricerca simile è stata condotta con il personale medico e paramedico rispetto all’influenza della Mindfulness sul burnout. Goodman e Schorling (2012) hanno sottoposto il personale sanitario a misurazioni pre e post corso di Mindfulness, per quanto riguarda le tre dimensioni del burnout, misurate dal Maslach Burnout Inventory (MBI): Esaurimento emotivo, Depersonalizzazione e Diminuzione di Autoefficacia. Dal confronto tra le misurazioni pre e post, gli autori hanno stimato un decremento nelle dimensioni di Esaurimento emotivo e Depersonalizzazione e un aumento nella percezione del senso di Autoefficacia.

Effetti psicofisiologici della Mindfulness

Gli effetti positivi della Mindfulness sono stati riscontrati anche a livello del funzionamento cerebrale. Davidson et al. (2003) ha condotto infatti uno studio per valutare l’impatto della Mindfulness sulle funzioni cerebrali, servendosi del neuroimaging. La Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) ha rivelato una crescita di quelle aree della corteccia prefrontale dedicate alla Stabilità Emotiva, alla Capacità di Regolazione delle Emozioni, alla Sintonia Interpersonale e alla Conoscenza di Sé.

Un’altra ricerca condotta da Lazar et al. (2000) ha trovato nei praticanti di Mindfulness un ispessimento della corteccia mediale e un ampliamento dell’insula destra, rispettivamente sedi dell’Empatia e della Capacità di Autosservazione.

Ulteriori ricerche hanno riportato i seguenti dati:

• maggiore attenzione rispetto all’ambiente circostante (suoni, odori ed aspetti visivi);

• maggiore consapevolezza rispetto all’influenza delle emozioni su pensieri e comportamento;

• acquisizione di un atteggiamento non giudicante rispetto ai propri pensieri ed emozioni;

• incremento della capacità di sentire le emozioni;

• espressione più efficace delle proprie emozioni.

L’acquisizione di un atteggiamento non giudicante rispetto a pensieri ed emozioni consente di identificare gli assunti che guidano le interpretazioni che si danno a percezioni e stimoli interni ed esterni. Ciò può permettere una gestione più efficace delle emozioni elicitate da tali assunti. La regolazione delle emozioni, infatti, è alla base della prevenzione e gestione dello stress.

Perché molte organizzazioni inseriscono la Mindfulness nei loro programmi di sviluppo e formazione?

Pesci. Due pesci rossi, arrivando da direzioni opposte si incontrano e uno chiede all’altro: “com’è
l’acqua dalla tua parte?” “l’acqua? cos’è l’acqua?”

Umani. Il responsabile marketing scende soddisfatto dalla sala riunioni dopo il grande successo della sua presentazione al Direttore Generale. La presentazione ha comportato mesi di lavoro dei suoi tre bravi collaboratori. Lui passa veloce davanti alla loro stanza. Li vede. Ma non li nota. Non li guarda. Tira dritto. Loro invece lo hanno notato.

Di cosa stiamo parlando?

Stiamo parlando di Mindfulness: presenza mentale, e del suo contrario, la Mindlessness, ossia quello stato mentale caratterizzato da: distrazioni, automatismi, reattività, che fa vivere la vita guidati dal pilota automatico. Come quella del pesce che non sa dell’acqua in cui vive, o del responsabile marketing che non vede il bisogno di riconoscimento dei collaboratori.

Stiamo parlando di una facoltà, la Mindfulness, che è la base per la crescita personale e lo sviluppo professionale; una capacità che agendo direttamente sul livello della persona permette di migliorare anche le competenze di un ruolo all’interno dell’organizzazione. Siamo nel campo di training della persona, del cambiamento nelle persone. E poiché sono le persone che formano le organizzazioni, stiamo parlando anche di organizzazioni che crescono, si sviluppano ed imparano ad affrontare efficacemente i numerosi cambiamenti che la società moderna impone.

Stiamo parlando di accompagnare le persone e le organizzazioni in un percorso di crescita per lo sviluppo di quelle competenze trasversali che contraddistinguono il valore aggiunto delle imprese moderne. Stiamo parlando di vera leadership e di followership. Capacità indispensabili per poter lavorare con efficienza in team. 

Infine stiamo parlando di Mindfulness come capacità di rispondere (che è diverso da reagire) efficacemente all’eccessivo stress imparando a gestirlo, e a ridurre la sofferenza ed il disagio, sia nel lavoro che nella vita di tutti i giorni. Molte aziende, sia all’estero che in Italia, stanno inserendo il training alla pratica di Mindfulness nei loro programmi di sviluppo risorse umane.

Questo sta avvenendo anche in molte business school, che sono i luoghi di preparazione dei futuri manager. Qual è il motivo di questa diffusione? Ci sono ragioni diverse, attinenti aree differenti, ma fortemente convergenti.

La prima investe l’area del personal developement di quadri e dirigenti. Sempre di più assistiamo ad una presa di coscienza che la formazione e l’apprendimento vanno perseguiti con percorsi che lascino spazio alla soggettività, alla messa in gioco dell’individuo, al suo lavoro su se stesso. In questo senso va letta la crescente diffusione del coaching. Lo stesso vale per la pratica di Mindfulness: un lavoro condotto anche in gruppo che attiva percorsi di consapevolezza individuale profonda.

Questi approcci formativi sono adottati dalle organizzazioni che necessitano di quadri e manager più consapevoli, presenti, capaci di ascolto, ricettivi e aperti al cambiamento, meno reattivi e intrappolati in reazioni emotive automatiche e inconsapevoli, come la paura del nuovo, l’ansia, l’autoriferimento, ecc. I programmi di Mindful leadership vengono condotti per far crescere capi consapevoli ed empatici, capaci di assumere profondamente il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, e di gestire efficacemente i gruppi di lavoro.

Una seconda ragione di diffusione della Mindfulness nei contesti organizzativi riguarda il tema delle relazioni. La presenza attenta e non giudicante, a quello che c’è, alla persona che è davanti a me in questo momento, produce frutti anche per la qualità delle relazioni, nel team, nell’azienda. Più ascolto, più sintonia, empatia, sollecitudine. In altri termini più intelligenza emotiva e sociale. Meno reattività, con tutto il tristemente noto seguito di conflitti, scontri egoici, contrapposizioni. Fattori che oltre a rendere tossica la vita delle persone nel lavoro, comportano costi elevati anche in senso economico. Il punto è proprio costruire, passando per le singole persone, quel Mindful workplace, o luogo di lavoro consapevole, che rifletta le qualità viste sopra.

La terza ragione investe l’area energia/stress/benessere. Le aziende rischiano di diventare ambienti con elevati livello di stress diffuso. L’eccesso di stress brucia l’energia delle persone e quindi dell’azienda, e provoca situazioni di squilibrio, di potenziale burn out, aumenta il rischio di turnover, ed i livelli di assenteismo con un relativo calo della produttività delle imprese.

La pratica della Mindfulness attiva risorse e consapevolezze che consentono alle persone di passare ad un livello più consapevole di rapporto con le cause di stress e di imparare a gestire lo stress contribuendo a una vita lavorativa più appagante con il conseguente incremento delle performance. Il benessere in azienda non va visto come una parentesi di rilassamento ogni tanto, ma come un modo più bilanciato di stare nel quotidiano lavorativo, momento dopo momento.

Molte organizzazioni e business school stanno acquisendo consapevolezza dell’importanza della pausa, nel vorticoso ritmo del “fare fare fare”, tipico della vita aziendale. Senza la capacità di schiacciare ogni tanto il tasto pausa noi perdiamo di vista noi stessi, il nostro corpo, la nostra energia, le nostre emozioni, e il senso di ciò che stiamo facendo. E perdendoli di vista non siamo più in condizione di prenderci cura di queste cose importantissime, che influenzano sia la vita lavorativa che la vita privata.. e così ci dimentichiamo di chi fa il fare, cioè di noi stessi.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte e degli studi condotti sulla percezione dello stress lavoro correlato sarebbe utile approfondire questa pratica che ha ormai preso piede anche in occidente e di iniziare a considerarla come una valida alternativa o come tecnica integrativa alle classiche tecniche di rilassamento e alle terapie individuali, che vengono abitualmente usate negli interventi sullo Stress.

[blockquote style=”1″]Osservare deliberatamente il tuo corpo e la tua mente, lasciando che le tue esperienze scorrano liberamente di momento in momento e accettandoli così come sono. Non significa rifiutare i pensieri o bloccarli o reprimerli. Non significa controllare alcunchè, eccetto la direzione della tua attenzione[/blockquote]

Jon Kabat-Zinn, 1990

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli sdraiati e i loro padri, di Michele Serra – Recensione

È un esercito di vanagloriosi, quello dei vecchi, troppo intenti a mostrarsi ancora forti e capaci, non finiti, da non capire quanto una battaglia contro i giovani sia inutile e infruttuosa e vada contro la bellezza, la natura e la vita stessa.

Il giornalista e scrittore Michele Serra ci presenta con dolceamara ironia la sua visione di paternità, ponendosi dal di dentro. È lui il padre ed è suo il figlio portati ad esempio, sullo sfondo di una modernità, anche emozionale, che li ospita.

Nonostante la brevità dello scritto, nelle pagine si intrecciano tre strade narrative: episodi quotidiani del rapporto tra il Serra-padre e suo figlio adolescente, a cui si interpongono spezzoni di un romanzo sarcastico, che l’autore dichiara di voler scrivere, ambientato in un futuro ipotetico e che racconta della grande guerra finale tra giovani e vecchi. Compaiono, inoltre, brevi flash di una gita in montagna.

Il fil rouge è lo scambio intergenerazionale tra gli “eretti” e gli “sdraiati”, tra vecchi padri e giovani figli, tra generazioni consecutive ma allo stesso tempo lontane.

Forse a causa di una modernità più larga e più comoda, sono le posizioni ad essere cambiate, e con esse la visione che ciascuna prospettiva comporta. Il rapporto genitori/figli che emerge dall’asciutta prosa dell’autore è un rapporto di conflitto, di incomprensioni, di mancata conoscenza reciproca e di una conseguente estraneità che connota questa coppia relazionale e ne allontana i membri.

La voce del padre che urla tre le righe del romanzo sottilmente racconta proprio di una non comprensione e per certi aspetti di una non accettazione del mondo dei figli, che può evolversi in un’inadeguatezza nell’avvicinarsi a loro, o addirittura in un’ostilità. Ciò che non si conosce, spaventa e ciò che spaventa, o si allontana o si combatte.

Proprio quello che l’autore si propone di portare in scena nel fantascientifico romanzo di cui anticipa la genesi: è la lotta tra vecchi e giovani, tra la superiore lungimiranza dei primi e la confusione dei ultimi.  È un esercito di vanagloriosi, quello dei vecchi, troppo intenti a mostrarsi ancora forti e capaci, non finiti, da non capire quanto una battaglia contro i giovani sia inutile e infruttuosa e vada contro la bellezza, la natura e la vita stessa.

Nell’epilogo della gita in montagna, infine, fa capolino l’essenzialità del messaggio dell’autore/padre. Bastano due sillabe urlate al fondo di un sentiero nel paesaggio dove ancora galleggiava la sua infanzia a destarlo dal dialogo mentale che si snoda per tutte le 100 pagine: è un’accusa, un richiamo all’ordine. “Io – non altri- sono quelle due sillabe. Io sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve” (p. 107). È un riconoscimento: la restituzione da parte del figlio al padre, del giovane al vecchio, dell’importanza di un ruolo, del suo peso imprescindibile, della sua necessaria presenza.

Al di là di regole, schemi, consigli, cioè che rende genitori è esserci nella relazione, riconoscere la propria parte, senza dare per scontata l’assoluta adesione alla stessa. Si diventa genitori, ma si continua ad essere persone che seguitano comunque a vivere: “L’amore naturale che si porta ai figli bambini non è un merito. Non richiede capacità che non siano istintive. Anche un idiota o un cinico ne è capace. […] E anni dopo, è quando tuo figlio si trasforma in un tuo simile, in un uomo, in una donna, insomma in uno come te, è allora che amarlo richiede le virtù che contano. La pazienza, la forza d’animo, l’autorevolezza, la severità, la generosità, l’esemplarità…troppe, troppe virtù per chi nel frattempo cerca di continuare a vivere.” (p. 21).

È una sagoma paterna (più in generale, genitoriale) delicata, quella che compare sullo sfondo del romanzo, che rappresenta anche un elogio ad una generazione tanto discussa, ma forse poco compresa. Sono gli sdraiati e i loro padri.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Serra, M. (2013). Gli sdraiati. Feltrinelli Editori, Milano.

The Walking Dead: dalla parte degli zombies – Psicologia & TV Series

Il virus che sembrava essere controllato, ha preso piede. I morti si risvegliano ed attaccano i vivi, la cui presenza è sempre minore. I pochi superstiti presto si accorgeranno che i veri nemici sono gli altri esseri umani, spinti unicamente dall’istinto di sopravvivenza.

In America prima ed ora anche in Italia ha grande successo la pluripremiata serie di FOX The Walking Dead. prodotta dal 2010 e basata sull’omonima serie a fumetti scritta da Robert Kirkman.

Rick Grimes è uno sceriffo vittima di un incidente durante uno scontro a fuoco con dei fuorilegge: colpito alla schiena, va in coma, lasciando tra le lacrime la moglie Lori e il figlio Carl. Il risveglio, poco tempo dopo, è traumatico: l’ospedale è distrutto ed è pieno di cadaveri. Rick non ci metterà molto a capire la situazione: il virus che sembrava essere controllato prima del suo incidente, ha preso piede. I morti si risvegliano ed attaccano i vivi, la cui presenza è sempre minore. Lo sceriffo sfrutterà tutte le sue abilità di sopravvivenza e di capacità con le armi per sopravvivere ed uscire dalla città, trovando altri superstiti rifugiati tra i boschi: tra questi, ritrova la famiglia e il suo migliore amico Shane. Costretti poi a spostarsi, presto si accorgeranno che i veri nemici sono gli altri esseri umani, spinti unicamente dall’istinto di sopravvivenza.

In un mondo da day after si scatena una guerra tra bande di umani per la sopravvivenza. L’unico sistema motivazionale attivo è quello agonistico tra i vari gruppi e all’interno degli stessi gruppi con una lotta spietata per la definizione del rango, anche quando apparirebbe decisamente più conveniente un atteggiamento cooperativo considerata la costante minaccia esterna.

I figli mi accusano di complicità con gli zombies per i frequenti moti di pena e tenerezza che esprimo nel vedergli aprire la testa come cozze pelose baresi con ogni strumento possibile (armi da fuoco, frecce, mazze da baseball) unico modo per ucciderli definitivamente.

Non metto in dubbio che per il loro aspetto da cadavere raffermo appena diseppellito, l’andatura da emiparetico, un linguaggio che non oltrepassa gli ingenui versacci gutturali che si fanno per spaventare i bambini nel gioco la strega di mezzanotte e soprattutto la cattiva abitudine di azzannare gli umani per nutrirsene trasformandoli a sua volta in zombies non suscitino immediata simpatia, anche se, a guardar bene, alcune gonnellone che sembrano reduci da Woodstock, non siano affatto male (sono consapevole che deve essere qualche perverso adolescenziale imprinting a condizionarmi).

Mi sono chiesto dunque perché, nel profondo, stessi dalla loro parte (gonnellone a parte). Risposta semplice. Essi sono esattamente come i matti. Malati (si ricordi che sono colpiti da un virus) non si pensa di curarli ma di allontanarli ed eliminarli considerandoli portatori di tutti i possibili mali e soprattutto capaci di attaccare la follia, la Zombaggine, ai sani. Questi ultimi peraltro non si fanno mancare niente e non hanno bisogno di alcun contagio per mostrare in proprio tutti i possibili più gravi disturbi di personalità (antisociali pericolosi, narcisisti maligni e borderlinaggine per tutti q.b).

Insomma nell’atteggiamento verso gli zombies ho ritrovato tutti i pregiudizi dello stigma verso i pazienti psichiatrici.

La serie, peraltro affascinante nella regia e con effetti speciali che non cessano di suscitare incredulità può essere anche letta in questa prospettiva.

 

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Perchè la tristezza dura più a lungo delle altre emozioni?

FLASH NEWS

Le emozioni che durano meno sono anche quelle suscitate da eventi considerati soggettivamente poco importanti; le emozioni che durano di più invece sono legate a eventi a forte impatto per il soggetto, con conseguenze marcate.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Motivation and Emotion, la tristezza si spegne più lentamente di altre emozioni, come vergogna, sorpresa rabbia e noia. Perchè?

I ricercatori della University of Leuven, in Belgio, hanno chiesto a 233 studenti delle scuole superiori di ricordare episodi emotivi recenti e di valutarne la durata. I partecipanti dovevano, inoltre, rispondere a domande sulle strategie usate per valutare e gestire le emozioni in questione.

Dallo studio emerge che la dimensione che permette di distinguere tra emozioni altrimenti molto simili è proprio la durata. I risultati, infatti, indicano differenze significative nella durata delle diverse emozioni: su una serie di 27 emozioni, la tristezza è durata più a lungo delle altre, mentre la vergogna, sorpresa, paura, disgusto, noia, irritazione o sensazione di sollievo erano spesso momentanee.

È interessante notare che la noia era tra le emozioni vissute per un minor tempo; secondo i ricercatori, a dispetto della sensazione comune che la noia duri a lungo, quest’emozione è in realtà molto fugace. Il senso di colpa invece persiste molto più a lungo della vergogna, mentre l’ansia dura più a lungo della paura.

In generale è emerso che le emozioni che durano meno sono anche quelle suscitate da eventi considerati soggettivamente poco importanti; le emozioni che durano di più invece sono legate a eventi a forte impatto per il soggetto, con conseguenze marcate.

Alcune delle implicazioni di un evento possono diventare evidenti solo con il passare del tempo a causa del pensiero ripetitivo attorno all’evento stesso: rimuginare o ruminare aumenta l’emozione corrispondente che a sua volta incrementa il pensiero attorno all’evento e alle sue conseguenze, in un circolo vizioso emotivo-ideativo autorinforzante.

“La ruminazione, sostengono i ricercatori, è il fattore centrale nel determinare perché alcune emozioni durano più a lungo rispetto ad altre. Emozioni associate con alti livelli di ruminazione dureranno, inevitabilmente, più a lungo”.

Questo studio sottolinea e suggerisce quanto sia importante, in ambito clinico, poter intervenire sui processi ruminativi che sottendono alla persistenza dell’emozione di tristezza nei disturbi depressivi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze comportamentali e società: oltre il Neodarwinismo – XI Edizione dell’ICBS, Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

Non si può più sostenere la vecchia dicotomia “influenze ambientali vs ciò che è geneticamente determinato”, ma è necessario andare oltre: è riduttivo fermarsi all’idea che l’ambiente impatti sul corredo genetico concretizzando le condizioni di rischio (vulnerabilità o suscettibilità) congentite, bisogna invece riconoscere che l’ambiente agisce anche determinando modifiche nell’espressività dei geni nel corso della vita.

Oggigiorno il primato della genetica sembrerebbe indiscutibile: ogni due per tre i giornali pubblicano articoli che titolano a caratteri cubitali SCOPERTO IL GENE… e proliferano studi sui geni coinvolti nell’autismo, nell’invecchiamento, nelle differenze di genere (per una discussione vedi Di Nuovo, 2014), nell’amicizia (Fowler et Al., 2011), nel divorzio (Walum et. Al, 2012), e chi più ne ha più ne metta.

La rilevanza della genetica viene ben sintetizzata dal pensiero di Jean-Pierre Changeaux (1998): “L’importanza di fattori genetici nell’organizzazione anatomica del sistema nervoso, nella genesi e propagazione dell’attività nervosa e infine nella realizzazione di comportamenti così evoluti come l’apprendimento o gli stati affettivi. L’onnipotenza dei geni è qui.” 

Ma riconoscere il potere dei geni – sostiene il prof. Di Nuovo – non significa sottomettere qualsiasi cosa alla loro autorità! Possiamo sostenere che il cervello e la sua organizzazione siano la mera espressione di un programma genetico? No! E questo ce lo dimostra l’epigenetica, che studia i geni alla luce delle loro modificazioni espressive nell’ambiente e non come se fossero un’entità immutabile.

Il background genetico di una persona, infatti, è sì una struttura stabile, ma il funzionamento dei geni, la loro espressione, può cambiare sulla base di stimoli esterni: per esempio, sappiamo che non tutti i geni sono espressi, alcuni sono silenti; sappiamo che ci sono geni che non sono sempre espressi; sappiamo che alcuni geni non sono espressi contemporaneamente ad altri… e stimoli esterni sono in grado di realizzare quello che viene definitivo imprinting genomico, che include fenomeni quali l’attivazione o silenziamento di un gene, l’instabilità cromosomica e il rimodellamento cromosomico.

L’interazione dei meccanismi epigenetici con l’esposizione a fattori ambientali (es. agenti biologici o chimici, alimentazione, stressors, ambiente arricchente o negativo…) determina delle epi-mutazioni, cioè delle variazioni nel funzionamento dei geni la cui struttura, però, rimane immutata.

Quanto sopra descritto ha una forte relazione con il concetto di plasticità neuronale: mentre i geni guidano l’iniziale processo di sviluppo del cervello e la formazione di connessioni neurali, l’esperienza dell’individuo e la sua interazione con un ambiente più o meno ricco di stimoli portano ad una modifica degli stadi finali dello sviluppo dei circuiti cerebrali ed infine allo sviluppo di diverse forme di comportamento.

Alla luce di ciò la relazione tra geni → meccanismi neurobiologici e neurochimici → comportamento (normale e patologico) non può essere più letta in maniera lineare top – down, con interventi che hanno come target privilegiato solo i meccanismi neurobiologici e neurochimici (farmaci); poiché comportamento (inteso nel senso ampio del termine, che comprende gli aspetti emotivi, cognitivi e verbali) e meccanismi neurobiologici interagiscono tra loro e si influenzano a vicenda, anche gli interventi sul comportamento acquistano un ruolo importantissimo. I possibili campi di applicazioni di interventi psicologici sono svariati, dallo sviluppo infantile alle malattie neurodegenerative, dall’indebolimento cognitivo nella vecchiaia all’esordio delle malattie oncologiche ai disturbi cognitivi e comportamentali…

Non si può più sostenere la vecchia dicotomia “influenze ambientali vs ciò che è geneticamente determinato”, ma è necessario andare oltre: è riduttivo fermarsi all’idea che l’ambiente impatti sul corredo genetico concretizzando le condizioni di rischio (vulnerabilità o suscettibilità) congentite, bisogna invece riconoscere che l’ambiente agisce anche determinando modifiche nell’espressività dei geni nel corso della vita.

La portata di un superamento del paradigma neodarwiniano a favore di una prospettiva che riconosca il ruolo attivo giocato dall’ambiente nella modifica dell’espressività genetica è evidente: la possibilità di creare ambienti in grado di offrire stimoli arricchenti sia per il corpo che per la mente rappresenta una opportunità che deve essere colta sia in ambito psicologico che sociale come forma di intervento di certo non secondaria agli interventi farmacologici.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Behavior Science and Policy: XI Edizione dell’ICBS – Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

 

BIBLIOGRAFIA:

Behavior Science and Policy: XI Edizione dell’ICBS – Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

Chi pensava che il comportamentismo fosse morto ha commesso un grave errore: il paradigma si è certamente evoluto rispetto al riduzionismo e riduttivismo che lo ha caratterizzato nei primi anni della sua esistenza e oggi continua ad influenzare, grazie anche alla rigorosa metodologia scientifica che lo distingue, vari campi, dalla salute umana.

Il 6 e 7 novembre l’università IULM di Milano ha ospitato il Behavior Science and Policy, XI Edizione dell’ICBS – International Congress on Behavior Studies organizzato da IESCUM, l’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano, centro studi e ricerche no profit che ha l’obiettivo di “promuovere lo studio scientifico e l’avanzamento della conoscenza relativi al comportamento umano (compresi gli aspetti emotivi, cognitivi e verbali) con particolare attenzione alle applicazioni psicologiche per la soluzione di problemi pratici nonché alla prevenzione e al rimedio del disagio umano in un mondo soggetto a rapidi e continui cambiamenti”.

La XI Edizione dell’ICBS è stata l’occasione per “approfondire e discutere temi di grande attualità e interesse secondo la prospettiva della scienza del comportamento che, attraverso il metodo scientifico, studia il comportamento umano per promuovere in maniera efficace il cambiamento individuale e della società.”

Il congresso ha visto moltisssimi interessanti contributi in diversi ambiti, tra cui salute e prevenzione, politiche sociali, amministrazione pubblica, sostenibilità e smart cities. Per citarne alcuni, nell’ambito delle politiche sociali T.V. Joe Layng ha illustrato il ruolo delle contingenze di esclusione nello sviluppo della violenza e del terrorismo e gli interventi da adottare per prevenirli o contrastarli; nell’ambito della salute Hans Rudiger Rottgers ha descritto il ruolo delle scienze comportamentali nella terapia dell’autismo in Germania mentre la Dott.ssa Majani, attraverso il brillante intervento “La psicologia in sanità fa risparmiare?”, ha mostrato come per poter promuovere la psicologia nell’ambito sanitario – dove chi prende le decisioni parla un linguaggio economico – , è importante sapersi interfacciare sia con gli aspetti di efficacia clinica degli interventi psicologici sia con la loro utilità economica.

Durante il congresso si è inoltre discusso, tra i tanti argomenti affrontati, con il Prof. Santo Di Nuovo dell’Università di Catania del rapporto di influenza reciproca tra genetica e comportamento, si è parlato con il Dott. Goyos del ruolo dell’ambiente nell’influenzare il comportamento (Behavioral Games and the study of generosity), e alcuni esponenti dello IESCUM hanno evidenziato come interventi psicologici (es. ACT – Acceptance and Commitment Therapy) volti ad aumentare la flessibilità psicologica possano promuovere comportamenti efficaci e benessere all’interno di contesti sociali.

Il comportamentismo nel 2013 ha festeggiato un secolo di vita con la pubblicazione del testo Cent’anni di comportamentismo. Dal manifesto di Watson alla teoria della mente, dalla BT all’ACT (Franco Angeli Edizioni), un prezioso volume che raccoglie gli scritti di esponenti storici del comportamentismo italiano e internazionale (di questi ultimi i contributi sono in lingua inglese) offrendo una visione attuale e aggiornata di questo paradigma.

Chi pensava quindi che il comportamentismo fosse morto ha commesso un grave errore: il paradigma si è certamente evoluto rispetto al riduzionismo e riduttivismo che lo ha caratterizzato nei primi anni della sua esistenza e oggi continua ad influenzare, grazie anche alla rigorosa metodologia scientifica che lo distingue, vari campi, dalla salute umana (si pensi agli interventi Evidence Based) alla prevenzione, dall’ambito sociale a quello politico (es. la Nudge Theory1), dimostrando che dall’alto dei suoi cento anni non solo è vivo e vegeto, ma ha ancora tanto da offrire allo studio del comportamento umano.

 

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Neuroscienze comportamentali e società: oltre il Neodarwinismo – XI Edizione dell’ICBS, Congresso Internazionale delle Scienze del Comportamento

 

BIBLIOGRAFIA:

Ti presento Bill (Meet Bill) (2007) – Cinema & Psicoterapia #32

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #32

Ti presento Bill (Meet Bill) (2007)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Bill presenta i tratti di una personalità dipendente. È un perdente, dipende economicamente e affettivamente dalla moglie Jess. Teme di essere abbandonato e quando la moglie lo tradisce e lo dileggia con il suo amante, è pronto a perdonare e tentare di riconquistarla.

Un film di Bernie Goldmann, con Aaron Eckhart, Jessica Alba, Elizabeth Banks, Logan Lerman, Holmes Osborne. Commedia. USA 2007.

Trama

Bill è un uomo in crisi d’identità. Sposato con la figlia di un banchiere, da cui dipende, non ha scopi e ambizioni, vive agiatamente ma non è felice. La moglie Jess lo tradisce con un presentatore televisivo, arrogante e narcisista.

Dopo aver scoperto il tradimento, Bill viene anche umiliato, ridicolizzato e sbattuto fuori casa dalla moglie. Ciò nonostante Bill non vorrebbe lasciare Jess e invece di agire con dignità e assertivamente, assume comportamenti goffi e maldestri. L’amicizia con un giovane studente e con la sua compagna aiuterà il protagonista a superare le difficoltà e a decidere di abbandonare la moglie.

Motivi d’interesse

Bill presenta i tratti di una personalità dipendente. È un perdente, dipende economicamente e affettivamente dalla moglie Jess. Teme di essere abbandonato e quando la moglie lo tradisce e lo dileggia con il suo amante, è pronto a perdonare e tentare di riconquistarla.

Nonostante venga umiliato, ridicolizzato, anche se la moglie lo tradisce nel suo letto dopo avergli impedito di avvicinarsi a casa, e con arroganza e durezza ribalta la colpa su di lui, non riesce a reagire, si sente perso.

Jess lo tradisce con un uomo che è al polo opposto, un narcisista che ha una considerazione grandiosa di sé. Il contrasto e la contrapposizione tra i tratti di personalità dei due è evidente.

La difficoltà di regolare le scelte e l’assetto mentale senza più legami di dipendenza fa scivolare Bill in un vuoto terrifico. L’amicizia con lo studente e la sua amica in una prima fase risponde all’uso ipertrofico del coordinamento interpersonale come strategia di mastery, ma pian piano consente un processo di autonomizzazione e indipendenza che culminerà nella scelta di abbandonare la moglie e cambiare vita.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può aprire scenari alternativi e indicare una via percorribile per i pazienti con disturbo dipendente di personalità. Offre ottimi spunti per confrontarsi sugli stati mentali del paziente e sui cicli interpersonali disfunzionali.

In fase di assessment può avere una funzione specchio che faciliti il riconoscimento e incrementi la consapevolezza e la motivazione.

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Fai le ore piccole? Hai un rischio maggiore di fare abuso di alcool

 FLASH NEWS

La preferenza ad andare a letto tardi e dormire durante il giorno è risultata essere statisticamente associata ad una maggiore quantità di alcol ingerito e ad una più alta frequenza di comportamenti di Binge Drinking.

Comunemente esistono soggetti che preferiscono alzarsi presto al mattino e altri che amano stare svegli fino a tardi per poi dormire di giorno. Tali comportamenti sono in realtà regolati da fattori genetici. Inoltre, la tendenza a “fare le ore piccole” esporrebbe il soggetto a un maggior rischio di consumo di alcol, che potrebbe avvenire o in tarda giornata o durante la notte.

A tale proposito, Nathaniel Watson e i colleghi dell’University of Washington e dell’University of Texas hanno recentemente indagato la relazione esistente tra la preferenza a dormire durante il giorno ed il consumo di alcol.

Per fare ciò i ricercatori hanno sviluppato uno studio su un campione di 2.945 soggetti. La preferenza per un particolare ritmo sonno/veglia è stata valutata attraverso la somministrazione del Morningness-Eveningness Questionnaire (rMEQ). Il consumo di alcol è stato indagato chiedendo ai soggetti informazioni in merito alla frequenza e alla quantità di alcol ingerito, compresa la frequenza di episodi di Binge Drinking (consumo di sei drink o più in un’unica occasione).

Nell’analisi dei risultati è stato utilizzato un modello quantitativo genetico per indagare i fattori genetici ed ambientali che determinano la preferenza per svegliarsi presto oppure stare  svegli fino a tardi per poi dormire nel corso della giornata. Inoltre, tali ritmi sonno/veglia sono stati messi in relazione al consumo di alcol.

Da tale studio è emerso che:

•    I fattori genetici spiegano il 37% della varianza in merito alla preferenza per uno dei due ritmi sonno/veglia;

•    Tra le due tendenze non esiste una differenza in termini di frequenza nel consumo di alcol;

•    La preferenza ad andare a letto tardi e dormire durante il giorno è risultata essere statisticamente associata ad una maggiore quantità di alcol ingerito e ad una più alta frequenza di comportamenti di Binge Drinking.

Secondo gli autori tra i geni responsabili della preferenza per uno dei due comportamenti sonno/veglia esisterebbe un sottogruppo specifico (NPAS2) che risulta implicato anche nella regolazione del consumo medio di alcol.

Il limite più importante in questo studio riguarda la scelta della modalità di indagine del consumo di alcol. Infatti, gli autori riconoscono che gli item utilizzati erano troppo pochi e che, inoltre, indagavano nello specifico problematiche legate all’abuso o alla dipendenza da alcol. Ciononostante, i risultati di tale ricerca sono importanti in quanto sottolineano che la tendenza a “fare le ore piccole“ costituisce un fattore di rischio rilevante in merito al consumo di alcol, sulla base dell’implicazione di fattori genetici in entrambi i processi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

I disturbi psichici nel bambino e nell’adolescente: dal pregiudizio all’evidenza scientifica – Report dal Congresso di Rimini, II giornata

Responsabile dell’unità operativa di neuropsichiatria dell’ospedale Bambin Gesù di Roma,  il dott. Stefano Vicari affronta con uno stile dichiaratamente provocatorio l’intervento dal titolo: “I disturbi psichici nel bambino e nell’adolescente: dal pregiudizio all’evidenza scientifica”. Il suo intervento cerca di abbattere alcuni tra i più diffusi miti e credenze che ruotano attorno al tema della salute mentale nei minori.

1. Le malattie mentali esistono davvero anche in età evolutiva? Non sono piuttosto disturbi che appartengono solo al mondo degli adulti?

La risposta è no. Le proiezioni per il 2020 dell’Organizzazione mondiale della sanità  parlano chiaro: il carico di disabilità legato ai disturbi mentali è destinato ad aumentare e nel 2020 i bambini e adolescenti ad aver bisogno di un supporto psicologico o psichiatrico saranno il 20%.

Inoltre le malattie mentali in età evolutiva non solo esistono ma la maggioranza dei disturbi mentali in età adulta hanno preso origine in infanzia e in adolescenza. Infatti il 75% di queste si manifesta in maniera sintomatologicamente evidente entro i 25 anni. Il picco di incidenza delle malattie psichiatriche si ha tra i 12 ed i 35 anni (Patel, Fisher et al., 20071).

Supereroi fragili: Convegno Rimini - Grafico 1

 Nella figura si nota come gran parte dei disturbi mentali più frequenti hanno avuto un’età di insorgenza di molto precedente l’età adulta. Il disturbo d’ansia ad esempio è evidente in una percentuale che va dal 50% al 75% dei casi già dai 5-6 anni. Purtroppo però nonostante siano chiaramente presenti anche in età infantile spesso non vengono riconosciuti, diagnosticati e trattati come dovrebbero.

Secondo uno studio pubblicato nel 2011 su The Lancet la prima causa di disabilità in termini generali fra i 10 e 24 anni d’età sono i disturbi dell’umore. Al secondo posto ci sono gli incidenti stradali, al terzo posto la schizofrenia e al quarto il disturbo bipolare.

 Vanzetta - grafico 2

 

Nel nostro paese uno studio epidemiologico svolto nel 2009 mostra come il 10% degli adolescenti testati nelle scuole su in campione di quasi 3500 partecipanti presentano un disturbo mentale diagnosticabile secondo i criteri del DSM-IV.

Lo studio è stato separato  in due fasi che hanno visto la somministrazione della child behavior checklist/ 6-18 (CBCL) e l’intervista semistrutturata development and well-being assessment (DAWBA). Il dato meno incoraggiate di questa ricerca è che di questo 10% di ragazzi con un disturbo mentale evidente l’80% non aveva mai ricevuto una consulenza medica o psicologica.

2. Se un bambino ha un disturbo mentale è tutta colpa della famiglia.

Il secondo punto sul quale Vicari articola il suo intervento è quello dell’eziologia dei disturbi mentali in età evolutiva. Rimane purtroppo ancora oggi un forte pregiudizio che punta il dito esclusivamente verso la famiglia d’origine. In realtà gli agenti di rischio possono essere molteplici come i fattori biologici, quali l’uso di tabacco e alcool durante la gravidanza, la familiarità, i traumi cranici, il basso peso alla nascita.

Oltre ai fattori di rischio ci sono anche dei fattori di protezione, tra i più importanti il quoziente intellettivo; fattori psicologici come ad esempio avere o meno un disturbo dell’apprendimento; fattori sociali, dove ovviamente la differenza la fanno la famiglia, la scuola, il contesto comunitario e il gruppo dei pari. La famiglia da sola quindi non determina un disturbo mentale ma è sempre un intreccio complesso di fattori che può portare ad un disturbo complesso. Così come il fumo da solo non provoca il cancro al polmone ma certamente lo può facilitare.

3. Come possono essere curati? In fondo basta dare loro tanto amore.

Purtroppo l’amore non basta. Per intervenire in una realtà complessa e difficilmente sottoponibile a schematismi come quella della salute mentale è necessario andare al di là delle polemiche “un po’ medioevali” che vedono contrapposte terapia psicoterapica e terapia farmacologica.  “Un depresso è molto diverso da uno schizofrenico. Un dislessico sarà ben diverso da un disturbo bipolare quindi bisogna garantire la migliore cura sulla base delle conoscenze attuali”. Significa che, disturbo per disturbo, dobbiamo affidarci agli studi controllati e mettere in atto il trattamento che risulta essere ad oggi più efficace.

Ci sono studi che ci dicono ad esempio che per la cistite, se risultata positiva ad un esame colturale, l’antibiotico rimane la migliore cura possibile. Questo esiste anche in ambito psicologico. Ad esempio grazie alle ricerche scientifiche sappiamo che non esiste un farmaco che cura l’autismo. Sappiamo anche che l’intervento psicoanalitico è completamente inutile mentre altre tecniche, come quelle comportamentali, sono più efficaci.

Sappiamo che nella depressione lieve la psicoterapia cognitivo-comportamentale è sufficiente, mentre per la depressione media o grave il farmaco è la prima risposta. Se abbiamo un esordio schizofrenico la prima risposta è il farmaco, non è l’unica naturalmente ma deve essere la prima. Quindi ridurre il dibattito a farmaco si-farmaco no è piuttosto semplicistico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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