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Martin Kolbe e il suo tour bipolare (Bipolar Roadshow) – Intervista

 

La storia di Martin è drammatica e affascinante allo stesso tempo, fatta di salite e discese, un po’ come il disturbo bipolare. A metà degli anni ottanta Martin deve arrendersi al disturbo bipolare, che lo terrà lontano dal palco per quasi vent’anni, onde poi tornare con un nuovo bellissimo disco dal titolo emblematico Songs from the Inside.

Sono venuto a conoscenza dell’esistenza del chitarrista e cantante tedesco Martin Kolbe attraverso l’International Bipolar Foundation, un’attivissima associazione americana che da anni svolge un’opera di sensibilizzazione e psicoeducazione sul disturbo affettivo bipolare, della quale fanno parte tantissime persone affette da tale disturbo e i loro familiari, provenienti da ogni parte del mondo.

La storia di Martin è drammatica e affascinante allo stesso tempo, fatta di salite e discese, un po’ come il disturbo bipolare. Martin alla fine degli anni Settanta è un chitarrista di successo, in duo acustico con il chitarrista Ralf Illenberger, con il quale in dieci anni ha registrato sei dischi e si è esibito in più di mille concerti in quaranta paesi. Esistono tanti video su Youtube delle performance del duo, tratti da trasmissioni televisive dell’epoca, dove colpisce il virtuosismo chitarristico della coppia, che spazia dal fingerpicking più classico fino alla creazione di atmosfere new age (di cui successivamente Illenberger diventerà interprete e compositore acclamato).

A metà degli anni ottanta Martin deve arrendersi al disturbo bipolare, che lo terrà lontano dal palco per quasi vent’anni, onde poi tornare con un nuovo bellissimo disco dal titolo emblematico, Songs from the Inside, contenente canzoni ispirate alla sua esperienza di paziente e al percorso di cure dalla malattia. Un disco catartico che Martin presenta al pubblico con il tour Bipolar Roadshow, che lo porta ad esibirsi anche a congressi di psichiatria e luoghi di cura, riaccendendo la speranza in tante persone.

Le canzoni del disco sono caratterizzate da arrangiamenti folk abbastanza essenziali ma molto efficaci, che valorizzano la voce profonda di Martin e la sua raffinata tecnica chitarristica. I testi sono poetici, ma anche molto interessanti dal punto di vista psichiatrico.

 Il brano Come water ad esempio parla di un ragazzo affetto da disturbo ossessivo compulsivo che Martin ha incontrato in clinica e che aveva la compulsione al lavaggio, Prayer arriva diretta come un pugno nello stomaco in quanto ritrae una sorta di mantra suicidiario, che risuona nella testa della persona depressa mentre prende in rassegna le diverse modalità per togliersi la vita: A needle in my heart/ Poison on my tongue/ Fire on my skin/ Water in my lungs… (Un agone nel mio cuore, veleno sulla mia lingua, fuoco sulla mia pelle, acqua nei miei polmoni). Il testo si sposa perfettamente a un accompagnamento musicale ripetitivo e solenne, su tonalità minori, che da la sensazione all’ascoltatore di sprofondare sempre più verso il basso. Family descrive un episodio maniacale e quella particolare sensazione di fratellanza universale che può provare la persona in fase di euforia camminando per strada e pensando che tutti gli sconosciuti che incontra siano come fratelli. Something holding you, scritta insieme a un amico, rappresenta invece l’esperienza depressiva, l’altra faccia della medaglia in tutta la sua tragicità: You wait for sunrise and a crystal sky/ That’s just a dream, better say good-bye (Aspetti il tramonto e un cielo cristallino /Quello è solo un sogno, meglio dire addio) e ancora You say you’ve changed but it won’t last for long/ Nobody else is gonna make you strong (Dice di essere cambiato ma non durerà a lungo/ Nessuno altro ti renderà più forte). Con delle canzoni di questo tipo non potevamo non volerne sapere di più.

La tua storia di alti e bassi è drammaticamente affascinante e credo molto interessante per le persone che combattono ogni giorno contro i disturbi psichiatrici. Da musicista professionista in duo con Ralf Illenberger, agli anni della malattia e delle cure e poi il ritorno alla musica con questo nuovo progetto in cui è come se avessi rielaborato questa esperienza dolorosa. Te la senti di raccontarci come sono andate le cose?

Martin Kolbe Sono stato attratto dalla musica molto precocemente. I miei genitori mi hanno raccontato che già a cinque anni  amavo cantare nel sottoscala di casa perché il suono era fantastico e c’era una specie di riverbero naturale. Quando  avevo circa dieci anni ho scoperto una vecchia chitarra acustica che mia madre suonava occasionalmente. Nello stesso periodo ho scoperto la musica fantastica dei Beatles tramite mio fratello e mia sorella e ne sono rimasto affascinato. Così la prima canzone che ho cercato di strimpellare con la chitarra è stata I need you di George Harrison, con l’aiuto del fidanzato di mia sorella che mi mostrò qualche accordo. Negli anni successivi ho esplorato sempre di più lo strumento, amando scoprire nuovi accordi, accordature e tecniche in modo autonomo, liberamente (es. mettendo un microfono dentro la cassa e attaccandolo al registratore di mio fratello). A tredici anni ho iniziato a suonare la batteria in diverse band rock-blues locali fino all’età di diciotto anni.

Quando avevo diciassette anni un mio amico mi registrò mentre suonavo e cantavo e decise di produrmi un disco. La radio locale iniziò a trasmettere uno dei brani del disco quotidianamente (un riadattamento strumentale del brano Mrs Robinson di Paul Simon). Da quel punto in avanti le cose si sono sviluppate in modo abbastanza rapido e naturale. Durante le scuole superiori ho registrato altri due dischi solisti e ho iniziato a suonare in locali e festivals durante i weekend o durante le ferie scolastiche. 

Nel 1977 ho incontrato Ralf Illenberger, un chiatarrista che viveva nella città vicino alla mia. Scoprimmo da subito una grande affinità artistica e ci fu una sorta di innamoramento musicale. Dopo questo incontro il suonare da soli era diventato così noioso e entrambi concordammo sul fatto che non ci restava che dare vita a un duo chitarristico. Il nostro primo disco insieme è stato un successo immediato ed è succeduto a dieci anni di attività live e di studio, comprese diverse esibizioni televisive e radiofoniche.
Dopo il primo anno di collaborazione con Ralf ho avuto il primo episodio bipolare. E’iniziato con una fase depressiva (oggi si chiamerebbe forse Sindrome da bornout), seguita da una vero episodio maniacale, che sfociò rapidamente in una psicosi. Non riuscivo davvero a rendermi conto cosa stesse succedendo dentro di me. Il conseguente ricovero in clinica mi ha riportato sulla
terra con l’aiuto delle medicine e i medici si riferirono all’accaduto come a una crisi adolescenziale.

Dopo quattro anni di benessere ebbi un secondo episodio depressivo nel 1983, non così grave, che si risolse spontaneamente senza la necessità di ricovero o cure farmacologiche. Nel 1987 ebbi un’altra ricaduta molto pesante, che mi portò a separarmi da Ralf, quasi a separarmi anche da mia moglie e i bambini e che ha rovinato la mia carriera musicale per molti anni. A questo punto mi venne fatta la diagnosi di disturbo bipolare. E’ stato un lento processo di presa di coscienza durato venticinque anni, dall’insorgenza dei primi sintomi, la diagnosi fatta otto anni dopo, una prima negazione del problema, fino a una progressiva accettazione che mi ha portato a stare attento all’insorgenza dei sintomi precoci e, la cosa più importante, ad attivarmi subito in caso di instabilità, per prevenire tutte le conseguenze negative della mania.

Essere un musicista famoso è stato per certi versi un ostacolo alle cure del tuo disturbo?

 Beh…in realtà non ero proprio così famoso, non ero una rockstar. Avevamo i nostri fans che ci seguivano, ma la nostra  musica era un po’ di nicchia, troppo particolare per raggiungere la vetta delle classifiche. Per questo motivo l’essere musicista non ha influenzato le cure.

Ci racconti qualcosa di più del tuo percorso di cure?

Il mio primo episodio maniacale è stato trattato con Aloperdolo, che è stato molto efficace, ma che mi ha causato terribili effetti collaterali, come crampi muscolari dolorosissimi. Successivamente, durante un ricovero mi hanno prescritto Benperidolo, che è stato anche peggio. Durante il mio terzo e ultimo ricovero, nel 1993 non mi hanno dato farmaci perché non avevo sintomi maniacali (mi ha fatto ricoverare la mia ex moglie che pensava fossi in fase maniacale). Successivamente alla diagnosi di disturbo bipolare mi è stato prescritto il Litio, che ho continuato per circa sei mesi. Ho deciso di smetterlo perché la mia vita emotiva si era molto appiattita e, cosa ancora peggiore, la mia creatività era svanita. In questi anni ho sentito tante storie di persone in terapia con Litio, a cui questa medicina non ha ostacolato la creatività, ma a me faceva questo effetto. Tutti i medici che ho incontrato dopo la diagnosi di disturbo bipolare non mi hanno consigliato un uso continuativo di stabilizzatori dell’umore in quanto tra gli episodi critici passava un lasso di tempo di almeno quattro anni. L’idea era invece di intervenire a livello farmacologico in fase acuta in caso di instabilità. Questa strategia è stata usata fino al 2003, quando ho avuto l’ultimo e più estremo episodio maniacale. Successivamente mi sembra di aver trovato un modo autonomo per gestire i miei sbalzi di umore ed energia.

Non ho mai provato la psicoterapia. Dopo il primo ricovero era stata consigliata dal medico della clinica. Allora ho avuto un colloquio con due psicoterapeuti. La prima era una sessantenne con atteggiamento tipicamente freudiano. La prima domanda è stata infatti Com’era tua madre? e non mi ha fatto sentire nel posto giusto. Il secondo era uno psicologo più giovane che mi ha chiesto se era mia o del medico l’idea di iniziare una terapia. Visto che l’idea non era mia ho deciso di non andarci più.

Dove ti esibisci di solito con il Bipolar Roadshow? Come reagisce il pubblico?

La reazione del pubblico ha superato le aspettative. Sembra proprio che la nostra modalità di diffondere informazioni sul disturbo bipolare funzioni perfettamente. In questo senso non misuro il successo con la forza e la lunghezza degli applausi o con il numero di bis richiesti. Il successo qui è vedere come gli spettatori siano toccati e commossi e le loro reazioni personali molto intense dopo i concerti ci dimostrano quanto siano stati coinvolti.

Ci racconti qualcosa del tuo disco Songs from Inside? La sua realizzazione ha avuto per te un effetto catartico o terapeutico? Come sono nati i testi?

Mah, non credo di usare il pubblico come terapeuta o di cercare di risolvere i miei problemi personali raccontandoli nelle canzoni. Le canzoni del CD sono state scritte subito dopo che si sono verificate le situazioni di cui trattano. Il mio obiettivo è stato quello di condividere le mie esperienze e le mie emozioni con gli altri, anche per far sentire alle persone con esperienze simili che non sono sole e che si possono superare eventi di vita traumatici. Un altro obiettivo è stato quello di raccontare qualcosa della psichiatria nei suoi vari aspetti ai cosiddetti normali.

Credo che i testi non abbiano bisogno di particolari commenti o spiegazioni in quanto sono piuttosto realistici e diretti. Ad esempio Keys parla del trovarsi nel reparto chiuso di un ospedale psichiatrico, Cage Birds racconta di altri pazienti che ho incontrato là, Holes è la storia di un compagno di stanza disperato e Prayer non è altro che il ripetitivo mantra suicidiario che gira e rigira nella tua testa quando sei molto depresso.

Esistono diversi studi sul rapporto tra la creatività e il disturbo bipolare, soprattutto nei grandi compositori (Beethoven, Schumann, etc.). Nella tua esperienza cosa ci puoi dire della relazione tra umore e creatività?

Non è così facile da dire in realtà. Credo che il disturbo bipolare possa portarti ad essere più sensibile e vulnerabile rispetto alle altre persone. Questo può essere un aiuto rispetto alla creatività. Durante un episodio maniacale diventi iper-creativo e può essere davvero stressante cercare di realizzare tutte le idee brillanti che nascono in continuazione. In ogni caso ho scoperto successivamente che la maggior parte di ciò che ho scritto, composto e suonato durante tali episodi non era così meritorio, in quanto tendeva ad essere super-espressivo e difficile da ascoltare in uno stato mentale equilibrato. Dall’altra parte nella fase depressiva non succede nulla, non c’è creatività in nessun aspetto, la vita stessa e tutti i tipi di suoni musicali diventano più una tortura che un’esperienza piacevole.

Cosa ne pensi dell’influenza degli eventi di vita sul disturbo bipolare?

Chiaramente non ho prove scientifiche a riguardo ma penso che ci sia una relazione tra alcuni miei problemi e impedimenti personali che si sono verificati nella mia vita e la comparsa del disturbo. Il punto potrebbe essere il non essere stato in grado di accettare di essere omosessuale e di non essere stato abbastanza coraggioso per vivere di conseguenza. Un’infanzia vissuta negli anni Sessanta in un piccolo villaggio del Sud della Germania come figlio di un pastore protestante potrebbe non essere stato il punto di partenza ideale per una vita felice e libera da gay. Sono convinto che si reprime una parte così importante di sé per un periodo così lungo sia molto probabile sviluppare un qualche tipo di disturbo, compreso il disturbo bipolare.

E dei percorsi psicoeducativi e psicoterapici per il disturbo bipolare che opinione hai?

Conosco un sacco di persone affette da disturbo bipolare che hanno beneficiato di trattamenti psicoterapici, benchè io non li abbia mai sperimentati. Da tutto quello che ho sentito sono arrivato alla conclusione che la terapia cognitivo comportamentale possa rappresentare un aiuto maggiore della terapia psicanalitica freudiana classica. In ogni caso ne so troppo poco per esprimere una reale opinione in merito. Credo fermamente che la psicoeducazione sia un aspetto molto importante nell’affrontare il disturbo bipolare: più cose sai sui sintomi precoci e su come gestirli, più riesci a prevenire gli esiti peggiori.

Ci racconti qualcosa sulla tua collaborazione con l’International Bipolar Foundation?

Muffy Walker, co-fondatrice dell’International Bipolar Foundation (IBPF) si mise in contatto un paio d’anni fa con la German Society for Bipolar Disorders (DGBS). Da lì è nata la nostra collaborazione. Ho conosciuto Muffy lo scorso inverno e sono rimasto impressionato dalla sua forza di volontà e dedizione. Nella primavera del 2014 abbiamo partecipato a un simposio sulle attività di sostegno ed autoaiuto durante il congresso a Seul dell’International Society for Bipolar Disorder (ISBD). Ho anche tenuto un webinar sul mio Bipolar Roadshow, trasmesso lo scorso agosto.

 Ci dici qualcosa sulla situazione dello stigma nei confronti dei malati psichiatrici in Germania e se l’attitudine è cambiata negli ultimi anni?

Credo, o almeno spero, che lo stigma stia lentamente ma inesorabilmente diminuendo. Se tutti remiamo dalla stessa parte! Nel mio caso ho avuto più un’auto-stigmatizzazione che una critica dall’esterno. Dopo il primo ricovero volevo che nessuno lo sapesse e ho cercato di tenere la cosa segreta al pubblico. C’erano sicuramente delle situazioni e delle osservazioni che facevano male. Per esempio una dele mie sorelle mi disse Sarebbe stato meglio che avessi fatto un incidente in auto e fossi morto, che questo. Oggi ho cambiato completamente la mia attitudine parlando in modo assolutamente aperto del problema a chiunque sia interessato. Cerco di attirare l’attenzione dei media e sono felice che molti giornalisti chiedano di intervistarmi per giornali, programmi televisivi o radiofonici. Sono sicuro che il modo migliore per combattere lo stigma sia parlare apertamente del fatto di essere matto, così che l’altra gente veda che non c’è motivo per avere paura di noi o si vergogni per la propria condizione. Non l’abbiamo scelto! Un giorno forse sarà naturale e normale parlare della malattia mentale come lo è adesso discutere di prolemi di diabete o di pressione. C’è ancora molta strada da fare ma ci stiamo lavorando.

In che modi credi cha la musica possa promuovere la salute mentale?

Non te lo posso ancora dire perchè il mio progetto è ancora troppo giovane. Le cose sembrano promettere bene in ogni caso. Recentemente ho conosciuto una cantante inglese, Emily Maguire, che soffre di disturbo bipolare che ha appena prodotto un disco con canzoni che parlano della sua condizione e delle sue battaglie. E’ un CD molto ben arrangiato, interpretato e prodotto e spero abbia tanto successo. Spero che possa partecipare al Bipolar Roadshow 2015! Il tentativo di promuovere le questioni legate alla malattia mentale attraverso le arti e specialmente la musica è per me molto stuzzicante, con il fatto che puoi colpire il pubblico su un livello emotivo che ha un effetto più forte e duraturo rispetto all’ascolto di un discorso scientifico.

Ho l’impressione che la diagnosi di disturbo bipolare stia diventando sempre più popolare anche sui media negli ultimi anni. Molte rockstar, attori e personaggi pubblici hanno iniziato a fare coming out  su tale disturbo (a volte anche per giustificare comportamenti problematici che non hanno niente a che vedere con la psichiatria). Cosa ne pensi?

Beh per molte celebrità il distubo bipolare viene ancora rivelato dopo la morte (es. Curt Kobain o Amy Winehouse) o si tratta di una sventura come per Catherine Zeta-Jones, per la quale l’informazione riguardante la sua malattia fu venduta ai media da un paziente della clinica dove era ricoverata. Gente come Sinead O’Connor, Jean-Claude van Damme e Stephen Fry sono ancora delle eccezioni.

Sto attendendo il giorno in cui un famoso sportivo o un politico faccia coming out di disturbo bipolare, facendo capire che non c’è niente di cui vergognarsi. Questo aiuterebbe enormemente la lotta allo stigma e aiuterebbe a capire. Nel frattempo noi dobbiamo andare avanti con la nostra pacifica crociata verso un futuro più luminoso, aperto e umano.

 

 

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Piergiuseppe Vinai

Maurizio Speciale

Studi Cognitivi, Cognitive Psychotherapy School

GNOSIS – No profit research group

 

 

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APA 2014 – WASHINGTON DC

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Il bilinguismo nell’infanzia migliora lo sviluppo cognitivo

FLASH NEWS

 

 

Un gruppo di ricercatori di Singapore, in un recente studio pubblicato il 30 Luglio su Child Development sostiene che l’esposizione a un ambiente bilingue nell’infanzia produca dei benefici al livello cognitivo.

Allo studio hanno partecipato bambini di sei mesi di età, bilingue e monolingue, sottoposti ad un compito di abituazione visiva (una tecnica utilizzata spesso nella psicologia dello sviluppo che sfrutta la spontanea tendenza del bambino a “preferire” la novità, ossia a fissare più a lungo uno stimolo nuovo rispetto ad uno familiare).

Ai bambini venivano presentate delle immagini colorate di un orso e di un lupo. Mentre ad una metà del gruppo di partecipanti nella fase dell’abituazione veniva presentata l’immagine dell’ orso (stimolo familiare) e nella fase test l’immagine del lupo (stimolo nuovo), la sequenza opposta veniva presentata all’altra metà.

Dai risultati è emerso che i bambini bilingue si annoiavano più velocemente dello stimolo familiare rispetto ai bambini monolingue.

Gli studi precedenti hanno evidenziato come la velocità con cui un bambino si annoia di fronte ad un’immagine familiare e la conseguente preferenza per la novità è un predittore di esiti migliori in età prescolare nelle aree come l’intelligenza non verbale, il linguaggio espressivo e ricettivo e gli esiti nei test che misurano l’IQ.

Inoltre, dai risultati è emerso che i bambini bilingue preferivano di più lo stimolo nuovo dimostrando una “preferenza per la novità”. Tale preferenza è un predittore di esiti migliori nei test di vocabolario in età scolare.

Il professore Lether Singh, autore del presente articolo sostiene che: “Una delle maggiori sfide nel campo della psicologia dello sviluppo è la raccolta dei dati. L’abituazione visiva funziona meravigliosamente in quanto dura pochi minuti ma riprende il comportamento naturale del bambino e la sua tendenza a preferire la novità. Anche se è un compito semplice, l’abituazione visiva è uno dei pochi compititi che vengono utilizzati nella prima infanzia come predittore dello sviluppo cognitivo”.

Un bambino bilingue è esposto ad una maggiore quantità d’informazione linguistica nuova rispetto ai suoi coetanei monolingue. A sei mesi impara già a distinguere tra due codici linguistici diversi e, dato che imparare due lingue in contemporanea richiede più efficienza nella elaborazione dell’informazione, i bambini sviluppano delle competenze specifiche per affrontare tale compito.

Da adulti, imparare una nuova lingua è un processo lungo, scrupoloso e laborioso. Tante volte proiettiamo che le stesse difficoltà possono riscontrare anche i nostri bambini immaginando uno stato di grande confusione nelle loro teste nel tentativo d’imparare più lingue in contemporanea. Tuttavia, da un grande numero di studi è emerso che i bambini sono bene equipaggiati per affrontare le sfide dell’acquisizione bilingue e di fatto possono beneficiare di tale opportunità.

 

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Il bilinguismo ritarda l’età di insorgenza della demenza

 

BIBLIOGRAFIA:

 

EVENTO: BAMBINI E RAGAZZI OGGI: Un corpo per crescere, come si diventa persona

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

 

20 settembre 2014:
BAMBINI E RAGAZZI OGGI
Un corpo per crescere
come si diventa persona

BAMBINI E RAGAZZI OGGI
La psicoanalisi nella loro e nella nostra vita

Sabato 20 settembre 2014
Centro Milanese di Psicoanalisi, h 10.00 – 12.30

coordinato da
Daniela Alessi – Libera Comandini
Un corpo per crescere
Come si diventa persona

Ingresso libero fino ad esaurimento posti

 

 

BAMBINI E RAGAZZI OGGI: Un corpo per crescere, come si diventa personaConsigliato dalla Redazione

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicoogiche - Flash News
Centro Psicoanalitico Cesare Musatti, Milano / 20 Settembre 2014 – Evento Aperto (…)

Tratto da:

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Gennaro Gattuso: il calcio e il Problema Secondario – Psicoterapia

 

Proprio grazie a quella esplorazione, infatti, possiamo accedere ai suoi temi dolorosi, più centrali, con cui probabilmente starà lottando da anni e che cerca in tutti i modi, modi che spesso mantengono lo stato problema, di tenere ben lontano. Si deve ad Ellis la scoperta del problema secondario che concettualizza la patologia come il giudizio, negativo, che diamo ai nostri stati mentali.

Più volte su State of Mind è stato scritto sul problema secondario e sull’importanza che riveste all’interno della terapia cognitiva. Come il soggetto, da una prospettiva metacognitiva, giudica e attribuisce un significato alla propria esperienza interiore è un punto fondamentale per spiegare la sua sofferenza patologica.

Proprio grazie a quella esplorazione, infatti, possiamo accedere ai suoi temi dolorosi, più centrali, con cui probabilmente starà lottando da anni e che cerca in tutti i modi, modi che spesso mantengono lo stato problema, di tenere ben lontano. Si deve ad Ellis la scoperta del problema secondario che concettualizza la patologia come il giudizio, negativo, che diamo ai nostri stati mentali.

Proviamo a fare un esempio per cercare di descriverlo meglio. Pensiamo ad uno studente che vive una forte esperienza d’ansia in prossimità di un esame e che giudica questa sua reazione come segno di fragilità “Ecco, sono sempre il solito!! Solo un debole può farsi prendere dalla paura per un semplice esame. E’ la prova che non riuscirò a fare proprio nulla nella vita!”. Criticandosi per averla provata, il soggetto non la utilizza come informazione importante per esplorare quale tema sente minacciato da quell’esame ma concentra tutte le sue attenzioni verso quello stato mentale ingaggiando una lotta con l’obiettivo di tenerlo ben lontano.

L’importanza del problema secondario si percepisce ancora meglio quando ascoltiamo alcune motivazioni che spingono il soggetto ad andare in terapia. Nel momento in cui chiediamo il perché di una prima visita con lo psicoterapeuta non è raro ascoltare frasi come “il mio problema è l’ansia” o “questa vergogna non mi fa più vivere”, ritorna quindi prepotentemente la lettura metacognitiva del proprio stato mentale che diventa da una parte la molla per chiedere aiuto e dall’altra la motivazione a mettere in atto determinate strategie che nella mente del paziente hanno lo scopo di allontanare l’esperienza emotiva, ma che nei fatti spesso la rinforzano.

Diversi punti in comune col problema secondario li possiamo osservare, ad esempio, con modelli inseriti all’interno della terza ondata della Terapia cognitivo comportamentale come l’Act (Hayes, Strosahl, Wilson, 1999). Questo modello, infatti, concettualizza la sofferenza cognitiva come conseguenza non del dolore esperito in una determinata situazione ma della lotta incessante che il soggetto attua con quello specifico pezzo di sé; e mentre lotta per allontanarlo perde di vista tutte quelle attività che lo potrebbero aiutare a crearsi una vita ricca e significativa.

Questo articolo però non è stato pensato per descrivere un costrutto, quello del problema secondario appunto, più e più volte descritto molto dettagliatamente. L’obiettivo è invece descrivere un episodio visto in televisione diversi anni fa e a cui ripenso spesso quando ascolto storie di pazienti ingaggiati nella loro personale battaglia contro quel pezzo di sé che considerano la fonte della loro sofferenza.

E’ luglio del 2006 e come tutti ricorderete in Germania l’Italia stava affrontando quei Mondiali che poi avrebbe vinto. Durante il telegiornale a pranzo, la sera si sarebbe disputata la finale con la Francia, un servizio mostra una conferenza stampa molto improvvisata in mezzo al campo di allenamento con un capannello di giornalisti che circonda Gattuso, ormai ex giocatore di calcio.

Prima ancora delle domande le telecamere puntano sulla sua espressione, una volta di più la mimica facciale non mente: ha profonde occhiaie, molto contratto, visibilmente agitato. Iniziano le domande e la seconda è la più curiosa. Il giornalista gli chiede al principio come sta e Gattuso risponde che non ha dormito e che ogni 30 minuti si è alzato per andare in bagno, vi risparmio il linguaggio colorito del giocatore. A quel punto il giornalista gli chiede, e qui ipotizzo una sua formazione cognitivista, cosa pensa di quella sua agitazione, se in un certo senso lo preoccupa. Tocca un piano meta o, riprendendo la terminologia precedente, esplora in qualche modo il problema secondario di Gattuso.

Gattuso dà una risposta che descrive meglio di tutto l’essenza dello sport; vado a memoria sempre al netto del suo linguaggio colorito : “è da quando gioco a calcio che aspetto di provare questa agitazione perché significa che sono arrivato ad un metro dal mio sogno”.

In questa frase ci sono tanti pezzi che meriterebbero una riflessione da un punto di vista umano e clinico perché all’interno vi è la consapevolezza del proprio obiettivo più alto e del significato attribuito a quell’ansia che diventa fedele testimone di questo traguardo. Potrebbe litigarci o cercare di scacciarla ed invece si dà il permesso di provarla attribuendogli ,anzi, un preciso significato in base alla sua storia, rendendola così la sua compagna di viaggio.

L’idea di questo articolo nasce dal ripensare a quella testimonianza che a distanza di anni continua a farmi compagnia per la capacità di sottolineare l’importanza di come noi giudichiamo le nostre esperienze interne, delle battaglie che spesso ingaggiamo con esse e al contrario dell’aprirsi ad esse diventando nostre compagne di viaggio nella nostra storia e nei nostri obiettivi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Psicoterapia: L’ABC, Albert Ellis & il problema secondario 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Vincere le abbuffate: come superare il disturbo da binge eating – Recensione

Vincere le abbuffate, traduzione dell’opera di C. G. Fairburn, è un testo destinato alle persone con problemi di binge eating che si divide al suo interno in due parti. La prima parte riassume al lettore le conoscenze più attuali sul disturbo, la seconda comprende un programma di auto aiuto basato sulla CBT-E, trattamento ad oggi più efficace a disposizione.

La prima parte del testo è stata scritta per fornire a coloro che ritengono di avere problemi nel controllo della propria alimentazione un resoconto di facile lettura dei problemi di binge eating e del modo per affrontarli. Si compone di una descrizione di che cosa sono le abbuffate, quali sono le loro caratteristiche, come ci si abbuffa, come hanno inizio e come terminano.

A seguire viene offerta una panoramica su quelli che sono i problemi alimentari e i disturbi alimentari e la loro classificazion: bulimia nervosa, anoressia nervosa, disturbo da binge eating, disturbi alimentari atipici, disturbi alimentari misti, sindrome da alimentazione notturna, prospettiva transdiagnostica. Si affrontano poi temi quali chi si abbuffa, gli aspetti psicologici sociali, i problemi fisici associati al binge eating, che cosa causa le abbuffate ed infine il trattamento.

 Il testo sottolinea che, nella ricerca di un aiuto professionale per un problema di binge eating, ad oggi il trattamento di elezione e quindi più efficace è la CBT-E. Nella maggior parte dei casi le persone ne traggono beneficio e i cambiamenti sono duraturi. I soggetti che non sono sottopeso, non hanno seri problemi di salute, non sono in gravidanza, non hanno compromissioni dovute al binge eating legate alla salute fisica, non sono significativamente depressi o demoralizzati e non hanno problemi di alcol, droghe o gesti autolesivi possono utilizzare per il trattamento degli episodi ricorrenti di binge eating, in una prima fase, l’Autoaiuto (puro o guidato, seguire il programma con il supporto e la guida di un terapeuta) e in un secondo momento la terapia individuale. Se si ritiene invece ricorrere all’aiuto di un professionista è importante muoversi in questa direzione.

Il programma di autoaiuto può avere successo se la persona che ha deciso di intraprenderlo desidera cambiare. In genere, le persone impiegano da 4 a 6 mesi per completare il programma. Non è bene aspettarsi che il successo arrivi in brevissimo tempo, di fare progressi in modo liscio e senza intoppi, che l’impulso ad abbuffarsi scompaia. È importante inoltre fare sessioni di revisione settimanali in cui valutare i progressi compiuti e considerare sempre la possibilità di chiedere aiuto.

Il programma è così composto:

Step 1: iniziare bene

  • Automonitoraggio (diario alimentare giornaliero)
  • Pesarsi settimanalmente (pesarsi sempre in uno stesso giorno, al mattino)

Al termine di ogni step si consiglia di compilare la scheda riepilogativa composta da 6 colonne nelle quali indicare da quante settimane si sta seguendo il programma, quante abbuffate ci sono state nei 7 giorni, l’utilizzo di un controllo sul peso con vomito o lassativi, quante giornate ci sono state in cui si è fatto del proprio meglio per seguire il programma, il peso e infine gli elementi degno di nota, quando si è passati da uno step a quello successivo.

Step 2: mangiare in modo regolare

  • Introdurre un regime alimentare regolare
  • Interrompere il vomito autoindotto e l’abuso di lassativi e diuretici.

Step 3: alternative alle abbuffate

  • Sostituire le abbuffate con attività alternative 
  • Identificare i cambiamenti nel peso

Step 4: risolvere i problemi

  • Fare pratica di problem solving

Step 5: fare il punto della situazione

  • Passare in rassegna i progressi fatti
  • Decidere cos’altro c’è da fare
  • Modulo della dieta
  • Affrontare le diete rigide
  • Modulo dell’immagine corporea
  • Affrontare le preoccupazioni per la forma del corpo, il controllo, l’evitamento e il sentirsi grassi.
  • Finire bene
  • Mantenere i progressi fatti
  • Affrontare le ricadute

Come terapeuti il programma va supportato con sedute regolari. Un aspetto importante del programma di autoaiuto guidato è mantenere la persona motivata, che segua il programma con un ritmo adeguato e che si mantenga focalizzata sull’obiettivo, ovvero liberarsi delle abbuffate. L’obiettivo del programma è che il paziente diventi terapeuta di se stesso.
Il libro viene ulteriormente utilizzato in associazione alla farmacoterapia, alla terapia cognitivo-comportamentale, e ad altre terapie psicologiche disponibili. È spesso utilizzato dai pazienti ricoverati.

Alla realizzazione di questo volume hanno partecipato anche pazienti e volontari che hanno offerto contributi e testato il programma.

Questo volume, di facile consultazione, rappresenta quindi la forma più efficace di autoaiuto del binge eating sia per sé sia in combinazione con un supporto esterno. È la versione rivisitata del programma originale basato sulla CBT-E. Un testo sia per gli operatori che per tutti coloro fossero interessati al problema. Lascio la parola ai clinici e a coloro che ne fossero interessati per offrire il proprio punto di vista confrontandosi sulle possibilità che lo strumento offre.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fairburn, C. G. (2014). Vincere le abbuffate. Come superare il disturbo da binge eating. Milano, Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

Il Modello LIBET in Psicoterapia: presentazione al Congresso APA 2014 – Washington DC

 Congresso APA 2014 – Washington DC

Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (LIBET)

 

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli, Andrea Bassanini, Carolina Redaelli, Giovanni Maria Ruggiero

Studi Cognitivi, Post-graduate cognitive psychotherapy specialization school. Milano – Italia 

 

 

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La percezione del proprio corpo nei neonati

FLASH NEWS

 

 

Sembrerebbe che sin dai primi giorni di vita i bambini possiedano informazioni fondamentali che permettono loro di distinguere il proprio sé dal resto del mondo.

Le informazioni che ci arrivano dal mondo che ci circonda sono dinamiche e provengono da diversi canali sensoriali. Gli esseri umani hanno quindi sviluppato dei sistemi che consentono loro di integrare e coordinare le informazioni provenienti dai diversi sensi in modo da percepire se stessi come delle entità uniche e distinte dagli oggetti presenti nell’ambiente che li circonda. Mentre la percezione del sé è stata ampliamente indagata negli adulti, ben poco si sa sullo sviluppo di questa capacità.

Lo studio di Filippetti et al. (2014), ha permesso di fare luce sulle origini della capacità di riconoscere il sé come una entità separata dal resto del mondo.

Questi autori hanno indagato attraverso il paradigma della preferenza visiva la capacità di neonati di pochi giorni di vita di cogliere la sincronia tra eventi provenienti da diversi canali sensoriali. In un primo esperimento ai neonati sono stati presentati contemporaneamente su un monitor due video in cui il volto di un bambino veniva toccato sulla guancia da un pennello. Mentre il neonato osservava queste due immagini veniva a sua volta toccato con un pennello sulla guancia con un ritmo che era sincrono solo con il tocco mostrato da una delle due immagini che osservava sullo schermo.

I risultati hanno mostrato che i neonati hanno osservato per un tempo maggiore il video che mostrava un tocco rilasciato con un ritmo sincrono alla stimolazione tattile sulla propria guancia, rispetto al video che mostrava un tocco asincrono con tale stimolazione.

In un secondo esperimento, i neonati osservavano sullo schermo un volto capovolto invece che un volto presentato in una posizione canonica. In questo caso, la preferenza era svanita: i neonati non avevano osservato per un tempo maggiore la condizione sincrona rispetto a quella asincrona.

I risultati di questo studio hanno portato gli autori a concludere che i neonati sono in grado di cogliere la sincronia tra un tocco osservato e un tocco percepito solo in presenza di stimoli che si riferiscono al proprio corpo.

L’abilità di cogliere la sincronia intersensoriale è considerata un’abilità cruciale per lo sviluppo della percezione del sé. Questo studio ha dimostrato, quindi, che questa capacità è presente sin dalla nascita. Dunque, sin dai primi giorni di vita i bambini sembrano possedere informazioni fondamentali che permettono loro di distinguere il proprio sé dal resto del mondo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La Psicoterapia Cognitiva in Italia – Report dal Congresso APA 2014

 

 Congresso APA 2014 – Washington DC

The role of the Emotive and Developmental Components in Cognitive Therapy in Italy

 

Giovanni Maria Ruggiero

Sandra Sassaroli

Studi Cognitivi – Cognitive Psychotherapy School 

Milano – Italia 

 

 

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Autismo e Crescita Familiare (2014) – Recensione

Oggi gli studiosi escludono che la causa primaria dell’autismo possa essere di natura psicosociale e ambientale, e i genitori, inizialmente accusati di essere la causa del problema, sono considerati fattori indispensabili per l’efficacia del trattamento e la durata nel tempo degli apprendimenti.

Il libro sintetizza il lavoro svolto all’interno dell’Associazione Il Filo dalla Torre a favore delle famiglie con un figlio autistico, secondo i principi dell’approccio PEIAD (progetto evolutivo integrato autismo e disabilità).

Storicamente le ipotesi eziologiche dell’autismo sono state ricercate nella natura dei rapporti interpersonali precoci con le figure di riferimento, in particolare nella madre; anche il modo di considerare il sistema familiare di una famiglia con un componente con un disturbo autistico è stato di tipo patologizzante: la famiglia era considerata essa stessa una famiglia disabile, con un fattore ineliminabile e continuo di stress. Questo ha portato per anni ad escludere la famiglia nel trattamento dei bambini affetti da tale disturbo.

Oggi gli studiosi escludono che la causa primaria dell’autismo possa essere di natura psicosociale e ambientale, e i genitori, inizialmente accusati di essere la causa del problema, sono considerati fattori indispensabili per l’efficacia del trattamento e la durata nel tempo degli apprendimenti.

Il libro propone quindi una tipologia di trattamento in cui la famiglia, in una prima fase destinataria dell’intervento, è in seguito considerata l’esperta del trattamento, il quale si basa sulle caratteristiche di quel bambino e di quel sistema familiare di cui fa parte.

Il principio fondante dell’approccio PEIAD è quello di lavorare sull’empowerment familiare e non considerare la famiglia come portatrice di deficit, carenze o patologie, ma riconoscerne le competenze e le possibilità.

Nell’approccio PEIAD l’intero percorso svolto dalla famiglia parte dalla necessità di un sostegno globale per la gestione quotidiana del proprio figlio autistico, passando per l’acquisizione delle competenze necessarie per il contenimento, la relazione, l’educazione del proprio figlio, per arrivare ad una nuova consapevolezza della propria famiglia, dell’autismo, del proprio figlio e di se stessi in senso generale.

 Questo approccio mira all’evoluzione della famiglia verso l’acquisizione di consapevolezza affinchè ogni membro possa comprendere il senso del nuovo assetto familiare dove è presente una disabilità, e il proprio ruolo nella vita in genere, a partire da questo evento critico. La difficoltà e lo stress presenti in una famiglia con figlio disabile non sono date dall’evento in sé, ma dal significato e dalla rappresentazione che ne consegue. La nascita di un figlio autistico è un momento di crisi, che costituisce una possibilità decisiva di svolta verso un miglioramento o un peggioramento. La famiglia con disabilità grazie a questa esperienza ha l’opportunità di ristrutturarsi sia come famiglia sia come singolo individuo, mettendo in discussione i vecchi modelli di riferimento per acquisirne nuovi più ampi.

L’approccio PEIAD può essere considerato come uno strumento di trasformazione che, attraverso un intervento sul piano funzionale e sistemico, permette di intervenire sulle relazioni in modo di armonizzarle e renderle fonte di cambiamento, fornendo alla famiglia gli strumenti di lettura emotivi e funzionali della loro situazione, fino a raggiungere una nuova visione del bambino
autistico, del senso del suo comportamento, e della sua presenza.

Il bambino autistico viene educato non pensando di adattarlo alle richieste ambientali, ma portandolo a comprendere e utilizzare le proprie strategie interne in modo funzionale e finalizzato.

Come riportano le numerose testimonianze presentate nel libro di genitori che partecipano da anni al programma dell’associazione, ridare luce alla disabilità del figlio porta ad avere livelli molto positivi di soddisfazione familiare e personale. Queste testimonianze sono parte di un’indagine svolta dall’assaociazione stessa sulla qualità della vita di famiglie con un figlio autistico, ed indagano principalmente le dimensioni dell’adattabilità e della coesione familiare, il social support network, lo stress e le risorse dei familiari.

Se dal libro risulta molto chiaro l’importanza strategica della famiglia nel prendersi cura di un loro membro secondo il metodo PEIAD, non si lascia spazio per descrivere gli strumenti e le modalità con i quali si opera nell’approccio descritto. Lo ritengo adatto più che come un manuale operativo come un esempio per chi si stia costruendo una visione globale rispetto agli interventi con famiglie con un bambino autistico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Sepe, D., Onorati, A., Folino, F., Abblasio, C. (2014). Autismo e Crescita Familiare. Roma, Armando Editore. ACQUISTA ONLINE

Elogio della sobrietà: raggiungere il benessere psicologico attraverso la semplicità

 

 

Probabilmente l’intrigo della vita è da ricercarsi nelle potenzialità possibili e nei diversi sentieri inesplorati che essa permette di percorrere. Perché tutto questo possa divenire il valore euristico dell’esistenza, è necessario ritrovare la sobrietà e la semplicità in un percorso di vita orientato al raggiungimento del benessere psicologico.

Abstract

Un concetto radicato nella nostra cultura è che il valore di un individuo si misura dalle cose che possiede. Questo costrutto alimenta un’ideologia del vivere che ha come archetipo il volere sempre di più. Ciò si palesa nella “smania del nuovo”, che diventa un bisogno essenziale e paradigmatico di ogni esistenza.

Probabilmente l’intrigo della vita è da ricercarsi nelle potenzialità possibili e nei diversi sentieri inesplorati che essa permette di percorrere. Perché tutto questo possa divenire il valore euristico dell’esistenza, è necessario ritrovare la sobrietà e la semplicità in un percorso di vita orientato al raggiungimento del benessere psicologico.

Il possedere come sinonimo del valere

L’incremento delle sovrastrutture di marxiana memoria per lungo tempo è stato considerato sinonimo di soddisfazione, ovvero la strada maestra per giungere al benessere. Nella follia consumistica di questi ultimi anni si sono percorsi sentieri alla ricerca della felicità in anfratti dove essa non si è mai annidata. Il preconcetto che ha alimentato la percezione antropologica è stato quello che il possesso delle merci – feticci promuovesse il benessere psicologico, ritenuto il fine ultimo di ogni esistenza.

Dave Eggers (2001, pag. 40) esprime questo vissuto “… Ci spetta tutto quello che vogliamo, un esemplare per ogni articolo, qualunque cosa ci sia nel negozio, un’ubriacatura di shopping di ore e ore, del colore che vogliamo, delle marche e nella quantità che vogliamo…”. Il possedere il tutto ha fugato i fantasmi legati al confronto con una realtà incommensurabile per le nostre forze, un titanico contesto nel quale sovente ci si sente piccoli e inferiori, alla mercé di un’inadeguatezza probabilmente endemica alla natura umana, come sottolineato da Adler (1975, pag. 71) “…dobbiamo concludere che un sentimento di inferiorità più o meno radicato sussiste sempre alla base di ogni esistenza psichica…”.

L’avere, come valenza fenotipica del valere, alimenta la strana equazione che si è in base a quello che si possiede. In questa ideologia della vita si perde il concetto di misura, ovvero ogni persona possiede le cose al di là di quella che può essere la sintonia con la propria natura.

In altre parole, ogni individuo deve essere in base a quella che è la sua personalità e questo permette di trovare la dimensione giusta per raggiungere il proprio benessere. In un romanzo degli anni Sessanta la Christie faceva dire ad uno dei suoi poliziotti “…Se è della giusta grandezza avrà successo…Tutto ha una sua misura…” (1967, pag. 33).

L’intrigo dell’esistenza

Che la vita nel suo complesso non sia facile da vivere non è un mistero, quello che sostiene nella gran parte dei casi è la potenzialità insita in ogni processo vitale, ovvero quel dispiegarsi secondo varie direzioni, spesso le più disparate possibili. Ed è proprio in questo, piuttosto che nel possesso, l’intrigo dell’esistenza. “…La tua vita è un bambino ancor non nato…” ribadisce Maria Luisa Spaziani in un sua poesia (1979, pag. 105). Ogni vita merita di essere vissuta, ogni vita ha un suo fascino che è sintonico con la personalità di chi la vive, ogni vita è uno specchio di una vicenda umana sempre intrigante. Da questo punto di vista non esistono delle esistenze che siano più affascinanti di altre o delle ideologie che insegnano a vivere bene. Semplicemente esistono degli individui, ognuno con la sua caleidoscopica personalità, che indirizzano le loro vite. “…Potete lavorare dieci anni con un maestro cercando di capire…Ma ciò che imparerete è solo questo: che ognuno deve vivere la propria vita…” afferma Deng Ming – Dao (1998, pag. 97).

La strutturazione della vita si crea attraverso una serie di vicende che si accavallano nel tempo e che affollano di eventi positivi e negativi ogni ciclo vitale. Sono proprio questi episodi che plasmano la forza di ogni singola persona, la sua unicità, certamente non omologabile alle variabili che entrano a far parte del patrimonio materiale.

Ugo Riccarelli (2005, pag. 62 – 63) ci avverte “…La mentalità, la durezza della vita, la conoscenza… gettavano i fanciulli nel mezzo di un’esistenza che era difficile e faticosa… Avrebbero dovuto guadagnarsi rispetto e voce negli anni, per essere uomini e donne fatte, ma prima erano foglie al vento, fragili cose in balia del mondo…”.

L’avere come simbolo di potere

L’accumulo di merci – feticci comporta una forma di pseudosoddisfazione che si palesa nel guardarli, nell’elencarli, nel farne oggetto continuo della propria attenzione. Tutto questo sembra dare un senso alla propria esistenza, come se fosse un diario materiale nel quale si scrivono le tappe fondamentali del proprio ciclo vitale, testimoniate dagli oggetti posseduti. Ed è sempre la stessa storia al di là dell’evoluzione delle singole civiltà. La medesima ideologia si trova nelle culture di popolazioni non ancora contaminate dal modernismo e dal post – modernismo della civiltà occidentale.

L’etnologo Marcel Mauss in un saggio degli anni Cinquanta (2011, pag. 100), descrivendo la cultura di una popolazione tribale, ci spiega “…Ciascuno di questi oggetti preziosi, ciascuno di questi contrassegni di ricchezza… possiede una individualità, un nome, delle qualità, un potere…”. Che tutto questo possa essere in rapporto a qualche bisogno fondamentale che nel corso dell’evoluzione è andato perso? In tal senso sembra coinvolgente l’ipotesi elaborata, seppure ironicamente, da Bruce Chatwin (1997, pag. 27) “l’uomo… aveva acquisito insieme alle gambe un istinto migratorio… e quando era tarpato trovava sfogo… nell’avidità… nella smania del nuovo…”.

La smania del nuovo

“La smania del nuovo” è quella che spinge a voler ricercare qualcosa che non si sa che cosa sia, a non accontentarsi mai di quello che si ha già, a non godere fermamente delle cose fatte. Tutto ciò contiene i semi dell’infelicità e rende estremamente complesso il vivere quotidiano.

Probabilmente la ragione è ascrivibile al fatto che, profondamente, aspiriamo al malessere piuttosto che al benessere. La poetessa Saffo (1996, pag. 29) ha il coraggio di ammetterlo “…Non spero mai / di sfiorare il cielo con un dito…”.
Un’altra ipotesi potrebbe essere il continuo bombardamento sensoriale, che la società dei consumi effettua, e che rende dipendenti dalle novità. Presumibilmente bisognerebbe rieducare i sensi con le strategie pedagogiche della Montessori (1973, pag. 158) “… Noi dunque possiamo aiutare lo sviluppo dei sensi… graduando e adattando gli stimoli…”.

D’altra parte, il volere più di quello che si ha è un’esigenza legittima dell’essere umano, laddove essa è paradigmatica di un miglioramento della qualità della vita. La mistificazione è insita nel continuo processo di desiderare di più senza godere appieno di quello che nel frattempo si è raggiunto. In tal senso Carlson (1998, pag. 224 – 225) osserva “…Se pensi che di più sia meglio, non sarai mai soddisfatto… ricordati che anche se ottieni quello a cui stai pensando, non sarai… più soddisfatto di prima, perché continuerai a desiderare sempre di più…”.

Alla luce di ciò, il reperimento del proprio benessere passa attraverso una riscoperta della sobrietà e della semplicità, che consentono di apprezzare quello che si è, quello che si ha e quello che si fa. Si scopre così nella frugalità l’origine delle propria grandezza. “Temo un uomo dal discorso frugale- /…temo che egli sia grande…” (Dickinson, 1996, pag. 37).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Adler, A. (1975). La conoscenza dell’uomo nella psicologia individuale (F. Parenti trad.). Roma: Newton Compton Editori.
  • Carlson, R. (1998). Non perderti in un bicchier d’acqua (T. Riva trad.). Milano: Bompiani.
  • Chatwin, B. (1997). Anatomia dell’irrequietezza (F. Salvatorelli trad.). Milano: Adelphi.
  • Christie, A. (1967). Miss Marple al Bertram Hotel (M. Mammana Gislon trad.). Milano: Mondadori.
  • Dickinson, E. (1996). 51 Poesie (M. Bacigalupo trad.). Milano: Mondadori.
  • Eggers, D. (2001). L’opera struggente di un formidabile genio. (G. Strazzeri trad.). Milano: Mondadori.
  • Mauss, M. (2011). Saggio sul dono (F. Zannino trad.). Milano: R. C. S. Libri.
  • Ming – Dao, D. (1998). Il Tao per un anno (A. Rusconi trad.). Milano: R. L. Libri.
  • Montessori, M. (1973). La scoperta del bambino. Milano: Garzanti.
  • Riccarelli, U. (2005). Il dolore perfetto. Milano: Mondadori.
  • Saffo (1996). Poesie. Milano: Mondadori.
  • Spaziani, M. L. (1979). Poesie. Milano: Mondadori.

Il Progetto Calcio Sociale: un programma di riabilitazione per pazienti psichiatrici.

 

 

Il CSM 5 dell’AUSL di Viterbo ha avviato un programma di riabilitazione psichiatrica denominato “Calcio Sociale”.

Il calcio sociale sta avendo una larga diffusione. Si basa su principi e valori che mirano a diffondere la cultura dell’inclusione, dell’accoglienza e del rispetto delle diversità, per una promozione umana integrale.

Il calcio come metafora della vita riveste un carattere pedagogico e assume un valore riabilitativo. L’attenzione è spostata dagli handicap alle risorse, dalle disfunzioni ai punti di forza dei soggetti considerati problematici.

Le regole comportano che le squadre partecipanti a tornei e competizioni siano il più possibile eterogenee e accolgano al loro interno giocatori di differente età, sesso e condizione.

Il progetto del CSM5 prevede la partecipazione di pazienti in carico al servizio, operatori, familiari e il coinvolgimento di associazioni, istituzioni locali e utenti di altri servizi.

Le finalità sono molteplici:

  • promuovere interventi contro lo stigma;

  • sollecitare la partecipazione attiva di familiari, associazioni e istituzioni nella promozione della salute mentale;

  • operare interventi di riabilitazione e psicoeducazione;

  • promuovere una cultura dell’inclusione che favorisca la piena partecipazione alla vita sociale di soggetti troppo spesso esclusi ed emarginati.

Le regole del gioco sono state adottate in riferimento al regolamento dell’ASSOCIAZIONE CALCIOSOCIALE (ISICULT, 2010).

La filosofia a cui si ispirano ha come obiettivo quello di non creare eccessive differenze tecniche tra squadre in competizione, in modo che i singoli partecipanti possano vivere l’esperienza in modo costruttivo seguendo un percorso di crescita personale. I componenti delle squadre si mettono in gioco con se stessi e in relazione agli altri, consapevoli dei propri limiti e delle proprie risorse, in un clima di cooperazione.

Alcuni esempi possono rendere meglio lo spirito che anima il progetto:

  • il rigorista è il giocatore con minor coefficiente tecnico;

  • ogni giocatore non può segnare più di tre goal a partita;

  • i due capitani insieme all’arbitro prendono di comune accordo le decisioni tecniche;

  • in ogni squadra è presente un educatore;

  • tutti i giocatori devono ruotare in modo da giocare lo stesso numero di minuti;

  • all’inizio e alla fine di ogni partita le squadre si riuniscono in cerchio a centrocampo e condividono pensieri ed emozioni.

Il progetto prevede una valutazione sugli effetti della riabilitazione in relazione alla diminuzione dei sintomi, all’incremento della metacognizione dei soggetti partecipanti e al loro funzionamento complessivo. I dati del gruppo sperimentale saranno confrontati con quelli di un gruppo di controllo. Gli strumenti di valutazione utilizzati sono la SCL-90 (Derogatis, 1994) , il Metacognitions Questionnaire (Cartwright, Wells, 2002) e la Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento (APA, 2000) somministrati all’inizio dell’intervento e a distanza di un anno.

La Symptom Checklist-90-R è uno strumento autosomministrato. Nella sua versione definitiva la scala risulta composta da 90 item e valuta la presenza e la gravità di sintomi di disagio psichico nell’ultima settimana (incluso il giorno in cui avviene la valutazione) in diversi domini. A ogni item viene attribuito un punteggio su una scala Likert a cinque punti. La natura multidimensionale della SCL-90-R consente di ottenere informazioni specifiche rispetto al disagio sintomatologico nei diversi domini indagati, oltre che informazioni più generali attraverso la lettura degli indici globali.

Il Metacognitions Questionnaire misura contenuti metacognitivi. E’ composto da 65 item che formano 5 sottoscale: credenze positive sul rimuginio; credenze negative sul rimuginio; efficienza e fiducia metacognitive; credenze negative generali; autoconsapevolezza cognitiva. Gli item sono valutati su una scala Likert a 4 punti.

La Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento considera il funzionamento psicologico, sociale e lavorativo nell’ambito di un ipotetico continuum salute-malattia mentale. Si compone di 11 range con un punteggio che varia da 1 a 100. Il punteggio è assegnato dal curante che dispone delle informazioni sul paziente.

L’intervento di riabilitazione proposto può risultare efficace per rimediare ai deficit cognitivi e comportamentali (ritiro sociale, scarsa iniziativa e resistenza allo stress, incapacità di mantenere ruoli sociali) (Bellack, 2003).

L’attività dovrebbe consentire di migliorare l’autostima e l’autoefficacia ampliando e ristrutturando la prospettiva negativa e autocritica dei pazienti (Brenner et al., 1997).

In un’atmosfera emotiva calda e accogliente l’interazione tra i componenti della squadra che perseguono uno scopo comune secondo regole condivise può migliorare i deficit nell’area della memoria e dell’attenzione, le abilità ricettive ed espressive, l’assertività e le capacità metacognitive.

Molti studi ormai dimostrano che le abilità che consentono di identificare gli stati mentali e di intervenire su di essi, attribuendo a se stessi e agli altri emozioni, scopi e credenze sono essenziali per adottare piani funzionali per la vita relazionale e l’adattamento all’ambiente (Carcione, Nicolò, Procacci, 2012).

Una riabilitazione cognitivamente orientata ha sempre come obiettivo il cambiamento di credenze su di sé, sugli altri, sul mondo ma le modalità con le quali si mira ad ottenere il risultato, come avviene normalmente anche nella vita, sono di tipo esperienziale.

La squadra di calcetto del CSM5 è composta da sette pazienti, un infermiere professionale, uno psichiatra e uno psicologo.

Quattro dei sette pazienti che hanno dichiarato la disponibilità a intraprendere il programma hanno una diagnosi di schizofrenia di tipo paranoide (DSM IV F.20.0X), uno ha una diagnosi di disturbo psicotico NAS (DSM IV F.29), tutti vengono trattati farmacologicamente con neurolettici di nuova generazione; un soggetto ha diagnosi di disturbo depressivo maggiore ricorrente (DSM IV F. 33. X) e viene trattato con neurolettico di nuova generazione, stabilizzatore dell’umore e psicoterapia; il settimo partecipante ha diagnosi di disturbo borderline di personalità (DSM IV F. 60.31) con trattamento psicoterapeutico. La scala per la Valutazione Globale del Funzionamento dei pazienti in fase di stabilizzazione al momento dell’intervento presenta un range che varia da 55 a 60 punti (sintomi moderati – es: affettività appiattita e linguaggio circostanziato, occasionali attacchi di panico oppure moderate difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo e scolastico – es: pochi amici, conflitti con i compagni di lavoro).

I soggetti del gruppo di controllo sono stati selezionati in modo da avere omogeneità con il gruppo sperimentale relativamente alla diagnosi, al trattamento e alla valutazione globale del funzionamento.

L’attività è appena iniziata. Sono stati somministrati i test d’ingresso e spiegato il razionale del programma con un intervento di psicoeducazione circa il significato del regolamento adottato. Sono stati svolti alcuni allenamenti e un paio di partite con pazienti del SERT e di un Centro Diurno.

Alla ripresa, dopo la pausa estiva, sono previsti incontri ad hoc con familiari, associazioni di volontariato e istituzioni per organizzare tornei e competizioni con una larga partecipazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  American Psychiatric Association, (2000) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders Fourth Edition, Text Revision (DSM IV –TR), Masson, Milano.  ACQUISTA ONLINE LA QUINTA EDIZIONE
  • Bellack, A.S. et al. (2003) Social Skills Training per il trattamento della schizofrenia, Centro Scientifico Editore, Torino.  ACQUISTA ONLINE
  • Brenner, H.D. et al.(1997) Terapia Psicologica Integrata. Programma strutturato per la riabilitazione del paziente schizofrenico, Mc Graw-Hill, Milano.  ACQUISTA ONLINE
  • Carcione, A., Nicolò, G., Procacci, M. (2012) Manuale di terapia cognitiva delle psicosi, Franco Angeli, Milano.  ACQUISTA ONLINE
  • Derogatis, L.R. (1994). Symptom Checklist-90-R: Administration, scoring, and procedures manual (3rd ed.). Minneapolis, MN: National Computer Systems.  ACQUISTA ONLINE
  • ISICULT (2010) Intervista a Massimo Vallati. Presidente Associazione Calcio Sociale, Roma, www. Isicult.it
  • Wells, A. (2002) Disturbi emozionali e metacognizione, Erickson, Trento.  ACQUISTA ONLINE

La globalizzazione comporta la scomparsa della varietà linguistica?

FLASH NEWS

 

 

Il progresso tecnologico, lo sviluppo economico, la globalizzazione, sono tutti fattori di crescita che favoriscono l’integrazione e facilitano gli scambi e la comunicazione tra le diverse aree del mondo. Tuttavia, questi fenomeni portano anche a una maggiore omogeneità culturale a discapito delle tradizionali differenze.

Un esempio è dato da ciò che sta accadendo alla lingua, poiché alcune di loro sono in via di estinzione.

Un recente studio dell’università di Cambridge mostra come la crescita economica sia una delle cause principali della scomparsa di lingue minoritarie e prova a identificare quali possano essere i motivi di tale minaccia.

Innanzitutto sono stati individuati tre fattori di rischio:

  • le dimensioni ridotte della popolazione di riferimento (un numero limitato di “parlanti”);

  • ridotte dimensioni anche dell’area geografica in cui la lingua è diffusa;

  • cambiamento della popolazione (inteso come diminuzione dell’uso del linguaggio all’interno della popolazione).

 

Sulla base di queste dimensioni i ricercatori hanno trovato che i livelli di Gross Domestic Product – prodotti domestici all’ingrosso (GDP) mostrano una correlazione con la perdita della diversità linguistica, ovvero maggiore è il successo economico maggiore è la rapidità con cui la varietà linguistica scompare.

Con lo sviluppo economico, infatti, spesso una lingua diventa dominante per i mercati, di conseguenza anche a livello politico e nazionale, e le persone sono costrette ad adottare la lingua prevalente per non essere tagliati fuori.

In ogni caso non è solo una questione di uso prioritario, sono sempre di più le comunità che, per questo motivo, rinunciano del tutto ad insegnare la loro lingua tradizionale alle nuove generazioni che di conseguenza perdono parte del loro patrimonio culturale. Il linguaggio utilizzato da una popolazione non è soltanto uno strumento di comunicazione ma parte dell’identità personale e sociale di quella società culturale.

Pare, dunque, che le aree più soggette a questo processo siano l’Australia del nord, il nord-ovest di Stati Uniti e Canada, ma anche i tropici e le regioni dell’Himalaya che sono in rapida crescita economica così come Brasile e Nepal.

Le più importanti organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e il Worldwide Found for Nature sono già attivamente impegnate per promuovere la tutela della diversità linguistica ma suggeriscono anche che incoraggiare il bilinguismo è un’ottima strategia di salvaguardia della diversità oltre al suo valore intrinseco: è noto infatti che i bambini bilingui hanno molti vantaggi sul piano educativo, cognitivo e d’interazione sociale.

Come afferma il Dr Tatsuya Amato, del dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge: “Ovviamente ognuno ha il diritto di scegliere quale lingua parlare, ma preservare lingue morenti è importante per mantenere la varietà della cultura umana in un mondo che è sempre più globalizzato.”

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Le promesse e le trappole di un Approccio Transdiagnostico: Thomas Ehring – EABCT 2014

 EABCT 2014 The Hague

Report dal congresso

 

 

TUTTI I REPORTAGE DAI CONGRESSI EABCT

L’assemblaggio di tecniche evidence-based non è una terapia evidence-based.  

Una delle prime letture magistrali del congresso è affidata a Thomas Ehring, esperto di ruminazione e rimuginio o più in generale, come lui preferirebbe: pensiero negativo perseverativo.

Conosco personalmente Thomas da qualche anno, so che è della corrente dei processualisti transdiagnostici, coloro che hanno spostato l’attenzione dai contenuti cognitivi ai processi ma senza virare a protocolli di training squisitamente esperienziali della serie mindfulness-based interventions (MBI).

Mi stupisco di vederlo in questa posizione entro un congresso di Terapia cognitivo-comportamentale dove negli ultimi anni ha regnato il binomio tra terapia cognitiva classica e approcci basati su mindfulness. Anche lui sembra un po’ stupito all’inizio, pochi processualisti non sono stati messi all’angolo in anni recenti.

Però in breve si abitua, si prepara e apre un vaso di pandora che molti conoscono e di cui pochi parlano. La questione in sintesi è la seguente: (1) i pazienti presentano contemporaneamente un quadro variegato di sintomi, non sono così lineari come i manuali diagnostici vorrebbero farci credere, (2) questo porta il terapeuta a costruire percorsi individualizzati basati su assemblaggio a intuito di diverse tecniche cognitivo-comportamentali (un sistema modulare), (3) questa strategia è la più utilizzata ma anche la meno validata scientificamente e porta con sé il rischio dell’essere eclettici prima che scientifici, (4) per quanto comprensibile è una tattica che apre il divario tra scienza e pratica clinica e mina alcune basi del nostro lavoro come psicoterapeuti: l’assemblaggio di tecniche evidence-based non è una terapia evidence-based. 

Posto il problema si aprono le soluzioni. Potremmo spingere verso protocolli specifici e lottare contro la tendenza a una terapia individualizzata, ma non è una opzione in cui crede Thomas Ehring. La sua alternativa è cercare di semplificare la concettualizzazione dei casi clinici in pochi processi che sottendono molti sintomi e costruire interventi validati non tanto sulle diagnosi ma su processi transdiagnostici.

L’esempio cardine tra i processi transdiagnostici è il rimuginio. Nella prospettiva di Ehring il rimuginio potrebbe anche avere una componente adattiva, ma assume atteggiamento maladattivo se interagisce con altri aspetti: (1) credenze metacognitive su danno e incontrollabilità del rimuginio (Wells, 2009), (2) bias nell’attenzione selettiva su stimoli a valenza negativa, (3) tentativi di sopprimere il rimuginio con comportamenti disfunzionali (es. uso di alcool), (4) eccessiva astrattezza del rimuginio.

La concettualizzazione del problema è molto vicina alla Teoria Metacognitiva di Adrian Wells, ma Thomas cerca di rimanere attaccato alla terapia cognitivo-comportamentale classica. Lo fa in due modi. Innanzitutto attraverso implicazioni terapeutiche che richiamano la Rumination-focused CBT: (1) psicoeducazione su natura ed effetti del rimuginio, (2) uso dell’analisi funzionale per identificare stimoli attivatori e conseguenze rinforzanti del rimuginio, (3) uso di training cognitivi ed esperienziali per insegnare al paziente come spostarsi da una modalità di pensiero astratto a una più concreta.

E poi cerca di salvare i contenuti. Intervento su processi e su contenuti potrebbe avere diversa importanza per diversi pazienti e che sarebbe importante studiare come e in che misura può essere utile un approccio integrato.

Questo cenno nelle prospettive di ricerca futura però è ciò che lascia ai contenuti e agli schemi cognitivi. Un po’ poco, ma forse sufficiente per tenere un ponte tra vecchia e nuova generazione.

Anche lui sembra stupito.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • EABCT Congress Magazine 2014. DOWNLOAD

Come e quando ridurre il dolore: dentro la regolazione emotiva – EABCT 2014

EABCT 2014 The Hague 

Report dal congresso

 

 TUTTI I REPORTAGE DEI CONGRESSI EABCT

Ieri è iniziato il congresso annuale della European Association of Behavioral and Cognitive Therapy a Den Haag (Aia) in Olanda. Il tema principale è una sfida tanto proibitiva quanto centrale per il futuro della psicoterapia: la costruzione di un ponte stabile tra mondo della ricerca e quello della pratica clinica. In un’epoca di disgregazione teorica e moltiplicazione degli interventi tecnici, si tenta di identificare alcuni punti saldi attraverso l’indagine scientifica.

Costrutti tanto consumati da apparire vaghi e confusi, sono presi d’assalto. Uno di questi è la regolazione emotiva, processo considerato deficitario in molti disturbi psicologici e nucleo portante di varie forme di psicoterapia individuale e di gruppo. Gli interventi che aiutano la regolazione emotiva sono utili. Ma quali nel dettaglio? Su cosa intervengono nello specifico? Quando sono preferibili?

Sven Barnow apre il simposio con alcune riflessioni in questa direzione. Gli interventi di regolazione emotiva sono assemblaggi variegati che possono assumere efficacia maggiore se si colgono quali tecniche operano meglio. Per esempio, il perspective taking, acquisizione di una prospettiva diversa dalla propria innanzi a una questione interpersonale, è la più efficace forma di regolazione emotiva.

Anche la rivalutazione della situazione (reappraisal) riduce l’intensità emotiva ma solo in risposta al ricordo di un evento stressante. Fallisce nel momento in cui viene applicata su persone che sperimentano on-line un elevato livello di cortisolo nel sangue (stress). Questo può spiegare la distinzione tra cognizioni fredde e calde.

Rivalutare il problema riduce lo stato d’animo negativo solo se la persona non è immersa nel problema. Applicarlo quando si è immersi nel problema può addirittura tenere agganciati al problema e allo stimolo che lo genera. Persone che utilizzano il reappraisal per gestire i conflitti interpersonali mostrano una peggiore performance nella gestione dei conflitti. Il reappraisal non spinge a fronteggiare la situazione ma a una passiva ricerca di ulteriori spiegazioni (Tamir & Ford, 2011).

Poi si entra negli studi di efficacia. Le tecniche di regolazione emotiva non si devono limitare alla riduzione delle emozioni ma anche controbilanciare processi psicopatologici. In questa direzione gli studi mostrano buoni risultati rispetto alla riduzione dei conflitti, aumento delle capacità di problem solving, riduzione della ruminazione mentale.

Ciò che manca è un effetto sulla tendenza alla soppressione di pensieri ed emozioni negative. Gli individui continuano a considerare le emozioni negative come un male piuttosto che un’ esperienza normale. Esistono una serie di aree della vita in cui le emozioni negative sono utili all’individuo.

Un aspetto centrale cui devono prestare attenzione i training di regolazione emotiva è NON trasmettere l’idea che ansia, rabbia e tristezza richiedano sempre un intervento di autoregolazione. L’eliminazione delle esperienze negative non sempre è adattiva.

 

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REGOLAZIONE EMOTIVA

 

BIBLIOGRAFIA:

Le correlazioni tra un’infanzia traumatica e l’obesità da adulti

FLASH NEWS

 

 

Subire abusi, emotivi o comportamentali durante l’infanzia pare aumenti il rischio di obesità nell’età adulta.

Questa è la conclusione a cui giunge una meta-analisi eseguita dai ricercatori del Karolinska Institute in Svezia e pubblicata sulla rivista Obesity Reviews, realizzata su 23 studi che comprendevano un totale di 112.000 partecipanti.

Nello studio è stato dimostrato che l’abuso fisico subito durante l’infanzia aumenta il rischio di obesità del 28 per cento, l’abuso emotivo del 36 per cento, gli abusi sessuali del 31 per cento, e un abuso non meglio specificato del 45 per cento. In generale, coloro che hanno subito gravi esperienze di abuso mostrano un rischio di obesità pari al 50 per cento rispetto al 13 per cento di chi ha subito un abuso moderato.


In sostanza, si evidenzia che gli eventi di vita difficili lasciano delle tracce che possono manifestarsi tardivamente nella vita attraverso dei disturbi fisici. Praticamente, eventi negativi portano a maggiore stress, pensieri ed emozioni negative, stanchezza mentale che si traduce in un possibile aumento di infiammazioni in diverse parti corporee, un abbassamento delle difese immunitarie e del metabolismo che è legato alla obesità.

Questi eventi di vita, dunque, avrebbero un impatto negativo sulla regolazione dell’appetito, sul metabolismo e sul comportamento alimentare fino a modificare una serie di abitudini che alla lunga portano al manifestarsi dell’obesità.


I risultati pubblicati indicherebbero la causalità dell’abuso sull’obesità. Tuttavia, non tutti coloro che sono sottoposti ad abusi svilupperanno ovviamente obesità, e non tutti gli individui obesi sono stati abusati, quindi ci sono ovviamente altre variabili intervenienti che determinerebbero in maniera incisiva il manifestarsi della malattia, come ad esempio i fattori psicologici.

Questi dati ottenuti potrebbero aiutare a smentire i numerosi pregiudizi che esistono sulle persone che sono in sovrappeso, in quanto dimostrano che l’obesità è causata da molti fattori e non solo dall’eccesso di cibo o da uno stile di vita sedentario. Per questo, bisognerebbe adottare un approccio olistico nel trattamento e nella prevenzione dell’obesità, dove è data più importanza all’infanzia dell’individuo e agli aspetti psicologici ed emotivi rispetto ad altro. Tutto ciò potrebbe essere utilissimo in terapia per ottenere effetti più duraturi e positivi per la cura dell’obesità.

 

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Più stupido di una scimmia? Intelligenza di uomo e primati a confronto

Sirotti Elena & Di Dodo Valentina 

OPEN SCHOOL

 

Nel linguaggio comune se le parole scimmia e intelligenza vengono usate nella stessa frase, generalmente si ha a che fare con un’offesa. Ma le scimmie sono davvero così stupide?

Anni di ricerche hanno evidenziato nei nostri cugini primati abilità empatiche, di problem solving e comunicative. Oggi un altro baluardo dell’intelligenza umana crolla: anche nei giochi di strategia gli scimpanzé sembrano essere abili, forse più dell’uomo.

Un recente esperimento effettuato da alcuni scienziati del Primate Reserch Institute dell’università di Kyoto e del California Institute of technology di Pasedena, ha dimostrato che gli scimpanzé sono più abili nei giochi strategici rispetto agli esseri umani.
I ricercatori hanno utilizzato la teoria dei giochi per fare previsioni su scelta e dinamica temporale in tre differenti situazioni competitive.

In uno di questi compiti i due partecipanti dovevano scegliere tra due quadrati identici (destra o sinistra) su uno schermo, la scelta veniva poi mostrata dal computer all’avversario. Il primo partecipante vinceva quando sceglieva il quadrato opposto a quello dell’avversario (destra-sinistra); il secondo partecipante vinceva quando sceglieva lo stesso quadrato dell’avversario (destra-destra). Alla fine del compito solo uno era il vincitore e riceveva una ricompensa adeguata: una mela per gli scimpanzé e dei soldi per gli uomini.

Analizzando i risultati i ricercatori hanno notato che gli esseri umani arrivavano lentamente a una strategia, senza mai avvicinarsi al gioco ottimale stabilito dalla teoria dei giochi. Invece gli scimpanzé imparavano velocemente a riconoscere le mosse dell’avversario e usavano un metodo di gioco ottimale. Questo accadeva anche quando venivano introdotte nuove regole, scambiati i ruoli o modificate le ricompense.

I ricercatori hanno osservato che questi risultati sono solo in apparenza così strabilianti. In realtà, come sottolineato da Colin Camerer, gli scimpanzé per sopravvivere hanno dovuto sviluppare e mantenere numerosi comportamenti di tipo competitivo e varie abilità strategiche per analizzare e anticipare il comportamento dei predatori. Mentre, nel corso dell’evoluzione, gli uomini hanno sviluppato maggiormente comportamenti cooperativi e pro-sociali.

 Sempre in ottica evolutiva, per gli scimpanzé sono numerosi i vantaggi nell’essere forti, veloci e precisi nei comportamenti di dominanza, mentre nella società umana queste abilità portano a minori benefici essendo una società meno agonistica e competitiva rispetto al mondo animale.

Un’ulteriore attenuante per le peggiori prestazioni ottenute dall’uomo in questo tipo di compiti è l’assenza dell’uso del linguaggio.

I ricercatori sottolineano l’importanza del linguaggio nell’uomo anche a livello corticale. Infatti, aree celebrali che negli scimpanzé sono dedicate alla memoria e alla processazione di stimoli visivi, rilevanti in questo tipo di compiti, sono state sostituite nell’uomo dalle aree dedicate al linguaggio e alla processazione semantica, abilità non utilizzata in questo tipo di ricerca.

Quindi per ora il nostro orgoglio è salvo.

Anche se gli scimpanzé hanno molte abilità e caratteristiche che li accomunano alla specie umana, esse non possono essere comparate in modo diretto. Nelle due specie, infatti, queste abilità hanno assunto nel corso dell’evoluzione funzioni e scopi diversi: un comportamento intelligente per una scimmia non è funzionale al raggiungimento degli scopi prioritari per l’uomo e viceversa.

 

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Parlare con le voci: esplorare il significato delle voci che le persone sentono

 

 Il sentire delle voci si potrebbe considerare come una strategia di sopravvivenza ingenua e creativa che non dovrebbe essere vista come un sintomo di malattia, ma come una esperienza significativa e complessa che va esplorata.

Nel 2013 Eleonor Longden racconta su TED, un canale divulgativo americano, la sua storia come uditrice di voci. Oggi il link del suo discorso pubblico ha ricevuto ben 2,496,324 visite ed è stato tradotto in 33 lingue .

Dopo aver passato diversi anni tra ambulatori medici ed ospedali, Eleonor ha superato la sua diagnosi di schizofrenia ed è oggi laureata in psicologia e prosegue gli studi tramite un dottorato di ricerca. Il suo messaggio è quello che sia possibile cambiare visione sulla malattia mentale scostandosi da un modello medico-centrico e dimostrare, anche dal punto di vista scientifico, che le sue voci non sono altro, come nel suo caso, che una reazione sana a circostanze insane.

La psicologa inglese afferma infatti che nonostante la medicina tradizionale possa pensarla diversamente, né lei né gli altri uditori di voci sono persone matte o soprattutto malate. Si potrebbe invece considerare questo fenomeno come una strategia di sopravvivenza ingenua e creativa che non dovrebbe essere vista come un sintomo di malattia, ma come una esperienza significativa e complessa che va esplorata.

I dati oggi a nostra disposizione dicono che circa il 4% della popolazione sente le voci e solo una minor parte di persone si rivolge ai servizi di salute mentale (Beavan et al. 2011). Infatti, circa un terzo degli uditori di voci afferma che tale esperienza non causa loro disagio e quindi non sente la necessità di essere aiutato. Un’altra ragione per cui le persone tendono in prima istanza a nascondere la loro esperienza è perché, come afferma Eleonor:

persone come me, che ammettono di sentire voci, possono generalmente aspettarsi due cose: una diagnosi di insanità e una terapia farmacologica pesante.

 Tuttavia, non sempre tale esperienza è associata a problemi di salute mentale. In uno studio condotto su un campione di soggetti sani viene dimostrato che circa il 71% delle persone ha sentito una voce ad un certo punto della vita (Posey & Losch, 1983). Di questa percentuale il 39% erano pensieri detti ad alta voce, l’11% era la voce di Dio, ed un 5% conversazioni tra voci. Nello studio non fu trovata nessuna associazione tra questo fenomeno occasionale e problemi di salute mentale.

Un gruppo di professionisti della salute mentale (psicologi, psichiatri etc.), unitamente ad Intervoice1, credono che sia tempo di riconsiderare l’etichetta di schizofrenia e le medicine implicate nel trattamento. Si crede invece fortemente che tali persone dovrebbero ascoltare ed esplorare la propria esperienza nel tentativo di darle un senso, e questo sarebbe possibile interagendo con le voci nella loro testa.

Il Dr. Rufus May, anch’egli esperto per esperienza e psicologo clinico, sostiene che lo scopo di connettere le persone con le loro voci è quello di permettergli di incorporarle nella loro vita quotidiana di modo che esse non provochino più disagio.

Egli afferma che:

Le voci in quanto tali non sono il vero problema, è invece importante la relazione che la persona ha con le voci. Quindi, invece che essere qualcosa che vogliamo evitare e sopprimere a tutti i costi, come vorrebbe il tradizionale modello psichiatrico di malattia mentale, dovremmo incoraggiare le persone ad affrontare queste voci, comprenderle e lavorarci insieme.

Ci sono testimonianze di persone che dicono che le voci negative possono essere trasformate in una esperienza positiva, ad esempio se una voce ti sta dicendo di ammazzarti questo potrebbe essere espressione del fatto che ciò che stai provando è rabbia. Quindi colui che sente questa voce potrebbe risponderle: Grazie per aver portato alla mia attenzione questo mio sentimento. Non farò quello che mi dici ma mi hai fatto capire che ci sono delle cose di me che devo cambiare e mi impegnerò a farlo!

Dialogare con le proprie voci è un momento importante in cui le voci possono svelare la loro identità e rivelare cose mai dette prima alla persona (Cortens, et al, 2011). Per alcuni individui, tale esperienza può migliorare la loro auto-consapevolezza dei problemi emotivi e sociali sottostanti che sono relazionati alla presenza delle voci e può produrre un rapporto più sereno e produttivo tra le voci e la persona in questione.

Spesso infatti le voci sono legate a traumi o eventi di vita e coloro che vedono i loro sintomi come risposte coerenti, significative e potenzialmente formative ad eventi di vita hanno un potenziale di guarigione maggiore di coloro che vedono la psicosi come un evento aberrante e casuale che è al di fuori del loro controllo. Tuttavia dialogare con le voci non è alquanto facile, per cui spesso occorre appoggiarsi a gruppi di auto mutuo aiuto per uditori di voci o esperti per professione (tramite percorsi psicoterapici o farmacologici integrativi).

Per quanto riguarda la storia di Eleonor, il suo percorso di guarigione cominciò quando incontrò uno psichiatra che oltre ad ascoltare la sue esperienza e cosa lei pensasse della sua esperienza, le consigliò di parlare con le sue voci, perché probabilmente esse avevano un significato simbolico che la poteva aiutare a guarire. Lo psichiatra la incoraggiò quindi a parlare e rispondere loro quando le sentiva. Eleonor afferma:

…cominciai a far loro delle domande, e le loro risposte mi fecero pensare a quelli che potevano essere le mie emozioni nascoste, questo fu molto importante, in un secondo momento cominciai a negoziare con le voci, dando per esempio degli appuntamenti in cui ci potevamo parlare in momenti più tranquilli in cui entrambe eravamo a disposizione.

Oggi Eleonor sente ancora occasionalmente le voci, solo quando è molto stressata, ma al contrario di prima è in pieno controllo di questa esperienza e la vede come un segnale, un termometro dello stress e, come spesso dice,  quello di mia mamma è l’emicrania, il mio sono le voci.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

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