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L’effetto Placebo – Plenaria con il Prof. Benedetti -Congresso SITCC 2014

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Effetto Placebo PLenaria - SITCC 2014 Per l’ultima giornata del congresso SITCC il Prof. Fabrizio Benedetti ha discusso in plenaria di effetto placebo: quell’affascinante interazione fra mente e corpo in cui eventi mentali complessi sono in grado di influenzare l’organismo e la sua chimica.

Il placebo è un farmaco o una terapia inerte, che di per sé non ha proprietà terapeutiche, nato per i gruppi di controllo nella ricerca scientifica. Negli anni però oltre alle scoperte sui farmaci, si è reso via via più evidente che nonostante fosse privo di un potere curativo intrinseco, anche il placebo produceva effetti simili alla cura che simulava. Perché?

Perché anche le parole cambiano il cervello.

Quando un medico somministra un farmaco ad un paziente non gli sta dando solo una molecola ma gesti, parole e strumenti insieme ad essa. E diversi studi mostrano che è il farmaco più il contesto psicosociale che lo accompagna (stimoli sensoriali e stimoli sociali) a mettere il paziente in uno stato di aspettativa positiva. È il rituale dell’atto terapeutico nella sua interezza a provocare il cambiamento dell’attività neuronale in grado di indurre un cambiamento clinico, in un eccezionale connubio tra biologia e psicologia.

Numerosi studi dimostrano che mettersi in uno stato di aspettativa positiva (di beneficio terapeutico) è un’attività mentale complessa e un’attività mentale complessa può produrre un cambiamento a livello cerebrale: tutti questi rituali infatti attivano gli stessi recettori e le stesse vie biochimiche dei farmaci riuscendo a produrre un cambiamento dell’attività neuronale.

Parlare di effetto placebo al singolare è però impreciso: esistono diversi meccanismi e diversi effetti placebo, i modelli più studiati sono quelli per il dolore e per il Morbo di Parkinson.

In questi due casi è stato provato che suggestioni verbali positive inducono aspettative positive nel paziente che hanno un effetto analgesico.

Le suggestioni verbali sono in grado di attivare i recettori oppioidi (i recettori mu, specifici per la morfina), gli endocannabinoidi, la via della ciclossigenasi e i recettori della dopamina, esattamente come fanno i farmaci.
Ci sono ovviamente delle differenze, precisamente: nella durata, variabilità e grandezza dell’effetto che sono minori con il placebo rispetto al farmaco.

Ma non solo, un’altra più curiosa differenza è che non tutti rispondono al placebo.

Per provare a spiegare come questo sia possibile sono state avanzate tre ipotesi principali:

  • L’apprendimento: aver esperito l’efficacia di un farmaco porta il paziente ad avere fiducia nel farmaco stesso e dunque ad aspettarsi un effetto positivo dopo la sua assunzione. Questo gioca un ruolo fondamentale: lo dimostra il fatto che l’effetto placebo è più significativo in chi è stato esposto a trattamenti efficaci prima di prendere il placebo.
  • La genetica: diversi genotipi rispondono bene al trattamento placebo, altri no.
  • La personalità: chi presenta una predominanza di quelli che possono essere definiti tratti dopaminergici (chi cerca novità,rischio,…) sembra rispondere meglio al placebo.

La ricerca ha indagato anche gli effetti dei farmaci somministrati senza rituale (hidden drug) come controprova dell’effettiva influenza del contesto.

Il farmaco ha funzionato ma in una misura inferiore rispetto alla condizione precedente a conferma del modello dell’effetto placebo: la componente psicologica ha effetti rilevabili. Le aspettative del paziente attivano delle molecole del cervello che si vanno a legare agli stessi recettori dei farmaci, sebbene in aree diverse del cervello.

Gli effetti sono dunque additivi ma non solo: usando le medesime vie biochimiche dei farmaci, l’effetto placebo è in grado di modulare persino l’azione dei farmaci stessi.

 

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Dipendenze patologiche: nuove prospettive e tecniche metacognitive – Congresso SITCC 2014

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Dipendenze patologiche- nuove prospettive e tecniche metacognitive - sitcc 2014

L’esperienza di craving non è qualitativamente diversa dall’esperienza del desiderio ed è è molto simile tra le diverse persone dipendenti, indipendentemente dal tipo di sostanza implicata. Il craving risulta quindi essere l’estremizzazione di una normale esperienza di desiderio che tutti possiamo provare: quale è allora la differenza tra chi prova una normale esperienza di desiderio e chi prova un’esperienza di craving? 

Il simposio che vede il Dr. Popolo nel ruolo di Chairman e il Dr. Caselli nel ruolo di Discussant si apre con la presentazione di quest’ultimo, che introduce il tema delle dipendenze e del craving, inserito nel recente DSM-5 come criterio diagnostico.

L’esperienza di craving non è qualitativamente diversa dall’esperienza del desiderio ed è è molto simile tra le diverse persone dipendenti, indipendentemente dal tipo di sostanza implicata. Il craving risulta quindi essere l’estremizzazione di una normale esperienza di desiderio che tutti possiamo provare: quale è allora la differenza tra chi prova una normale esperienza di desiderio e chi prova un’esperienza di craving?

La differenza sembra farla il modo in cui le persone rispondono cognitivamente quando le immagini legate al desiderio giungono alla coscienza: questa esperienza può diventare transitoria se decidiamo che non è il momento di soddisfare quel desiderio oppure può diventare pensiero desiderante se la persona vi si sofferma in modo attivo.

 

Il pensiero desiderante ha due componenti (una verbale e una immaginativa) e anche se nel breve periodo può essere appagante, nel lungo termine porta a frustrazione e produce un’escalation di craving e senso di deprivazione. Infatti, mentre da una parte pensando in modo desiderante aumento il craving, dall’altra scelgo consapevolmente di non agire e questo mi porta ad una continua e faticosa soppressione del desiderio stesso. Desiderare può diventare disfunzionale se è un’attività perseverante, scarsamente regolata e relativa a scopi che non voglio in coscienza perseguire.

Secondo il modello di Wells, ci sono credenze metacognitive che spingono le persone a reagire in modi diversi davanti al desiderio. Queste credenze possono essere negative (relative al pericolo e all’incontrollabilità del pensiero desiderante) o positive (rispetto ai benefit percepiti nel pensiero desiderante, a situazioni e condizioni in cui pensare in modo desiderante “aiuta”).

Il modello presentato (Spada, Caselli & Wells, 2013) comprende tutte queste credenze eè stato validato su 4 campioni diversi di dipendenti da alcol, gamblers, dipendenti da internet e fumatori. Secondo questo modello, le intrusioni attivano credenze metacognitive positive, che portano all’attivazione del pensiero desiderante, che può avere un effetto di sollievo nell’immediato ma passando per le credenze negative sul pensiero desiderante stesso arriva a sostenere un’esperienza di craving. Il fatto di cedere alla fine viene percepita come l’unica strategia che il paziente adotta per uscire da una situazione di stress crescente che valutato come intollerabile.

Impulsi e desideri non sono allora un problema, ma il problema sembra essere il modo in cui vi rispondiamo. “Non possiamo sentire meno desiderio se pensiamo di più al desiderio, e pensare molto a desideri che non vogliamo realizzare non è una buona idea”.

In seguito, la Dr.ssa Gemelli presenta un lavoro in cui sono stati confrontati due interventi attentivi: uno di abituazione e uno di applicazione della SAR (Situational Attentional Refocusing) su un campione di 8 pazienti con diagnosi di abuso di alcool, valutando le ricadute di questi due interventi sulla percezione del craving e sulle credenze metacognitive a 1, 3 e 5 minuti di tempo.

I risultati delle analisi dei dati mostrano che l’intervento SAR riduce le credenze metacognitive sull’incontrollabilità e riduce sia il craving che la sensazione di perdita di controllo. Per questa condizione il tempo sembra non avere importanza: quello che importa è la condizione, cioè il compito a cui il soggetto è sottoposto. Al contrario, nella condizione di abituazione la riduzione di tutti i parametri raccolti è più lenta e il tempo diventa significativo.

La terza relazione è presentata dalla Dr.ssa Pasinetti del Centro TMI e tratta degli schemi interpersonali maladattivi in pazienti in doppia diagnosi (con utilizzo di sostanze e concomitante disturbo di personalità). Viene inizialmente sottolineata la difficoltà ad assegnare ai pazienti una doppia diagnosi, e si prosegue mostrando come la correlazione tra disturbo di personalità e uso di sostanze sia intorno al 90%.

 

Interessante l’approfondimento sulla necessità di approfondire l’uso e l’abuso di sostanze nel Cluster C di personalità: i disturbi di personalità e l’uso di sostanze si rinforzano a vicenda, e le caratteristiche del disturbo di personalità da una parte portano il paziente a essere più sensibile alle ricadute, dall’altra aumentano le difficoltà nella relazione terapeutica. In questo senso, la TMI considera come focus preferenziale dell’intervento le disfunzioni metacognitive, gli schemi maladattivi e i cicli interpersonali problematici.

La relatrice prosegue sottolineando come le sostanze siano la prima forma disfunzionale di auto-terapia che questi pazienti usano per non sentire una rappresentazione del sé dolorosa e approfondisce con esempi clinici il modo in cui gli schemi relazionali di base innescano cicli interpersonali disfunzionali.

L’ultima relazione della Dr.ssa D’Urzo del centro TMI si apre con un caso clinico di un paziente con dipendenza da eroina e in seguito riporta il percorso di trattamento che inizia dal tentativo di fare evocare al paziente memorie autobiografiche chiare, che lui fa a fatica, con conseguente impossibilità da parte della terapeuta e del paziente a esplorare gli stati mentali.

La terapeuta decide allora di sospendere l’esplorazione degli stati interni e spostare il focus sulla relazione terapeutica per creare un’atmosfera cooperativa e all’interno di episodi narrativi andare a individuare pensieri e emozioni, arrivando a identificare gli stati che lo portano a usare sostanze.

Il terzo passo è la ricostruzione dei nessi psicologici di causa-effetto tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti. Il quarto punto è l’evocazione delle memorie autobiografiche che siano simili psicologicamente a quelle raccolte finora, e a partire dalle quali (quinto passo) si va a ricostruire lo schema sulla base dei diversi episodi raccontati. La promozione del cambiamento arriva dopo la restituzione dello schema e inizia con la differenziazione (tra i suoi schemi e la realtà), e con l’assunzione di prospettive differenti per avere accesso alle parti sane del paziente.

In chiusura, il discussant sottolinea le differenze tra le prime due relazioni e le ultime due, proponendo come le prime vadano a intervenire sui mediatori del cambiamento (attraverso un intervento preciso ma che rischia di essere puntiforme) mentre le ultime cerchino di intervenire sui moderatori (portando ad una visione più ricca e a tutto tondo di quello che può intervenire sul disagio ma con il possibile svantaggio di perdersi nella vaghezza che può non modificare in modo specifico i punti che mantengono la psicopatologia). 

In un’ottica cooperativa e di auspicabile integrazione, si chiude il simposio nell’accordo di tutti rispetto all’interesse clinico e di ricerca a confrontarsi e confrontare i diversi modelli di trattamento in particolare sui pazienti con doppia diagnosi. Ci aggiorniamo tra due anni.

 

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Cognitivismo corporeo: sinonimo o ossimoro? Simposio Congresso SITCC 2014

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Il corpo e la terapia cognitiva - SITCC 2014

Al centro del simposio presieduto dal Dott. Ruberti “Il corpo e la terapia cognitiva” c’è il corpo: il corpo come mezzo di conoscenza e come strumento terapeutico.

Come spiega il Dott. Antonio Fenelli, sempre più spesso le persone in difficoltà cercano una spiegazione (e a volte una soluzione) in quello che pensano, al massimo nelle emozioni che provano ma mai in quello che sentono con il corpo. È come se si fosse persa la fiducia in ciò che il nostro corpo ci fa sapere preferendo affidarsi al verbale, ma il verbale inganna tanto quanto inganna il corpo.

Da qui la proposta di riportare l’attenzione sulle sensazioni corporee. Mettere insieme sensazione e cognizione come parte di un tutt’uno, integrare le informazioni e, perché no, astrarre partendo dal corpo.

Non poteva che essere il corpo, dunque, protagonista e strumento unico anche degli interventi in un simposio tutto esperienziale.

La prima simulata è stata proposta dalla Dott.ssa Valeria Ginex: partendo dal teatro russo di inizi novecento fino ad arrivare a parlare di embodied cognition, ha mostrato quanto fondamentale sia il corpo per suscitare emozioni in sé e negli altri.

Nella recitazione, ad esempio, il corpo è persino più importante della parte verbale. Quando postura e gestualità sono incongruenti rispetto al verbale, infatti, sono le prime a mandare il segnale più forte allo spettatore, a suscitare emozioni più intense. Le ricerche di Stanislavskij avevano dimostrato l’efficacia di un approccio bottom up: partire non dalla rievocazione mnemonica, e dunque mentalizzata, dalle emozioni ma dalla loro espressione corporea perché se le azioni fisiche rispecchiano l’emozione riescono a suscitare l’emozione stessa a conferma del predominio dell’azione sul verbale.

Sulla stessa linea di pensiero l’embodied cognition dice che le funzioni cognitive e il sistema senso-motorio sono ampiamente in interazione, e porta evidenze anche a livello fisiologico: quando si elicita un’emozione, oltre all’insula, si attiva anche il sistema senso motorio.

A seguire l’intervento del Dott. Lorenzo Cionini ha affrontato il tema parlando di condivisione e intersoggettività nel silenzio e nel dialogo dei corpi e delle parole. Due colleghi hanno simulato un breve colloquio per riflettere poi su cosa cambia nel corpo durante la narrazione, come il corpo esprime sensazioni ed emozioni e quanto di questo sia consapevole a sé e all’altro in relazione.

La Dott.ssa Savina Stoppa Beretta ha proposto, invece, un esercizio sullo spazio e la prossimità: 8 volontari, in silenzio, hanno dapprima camminato in maniera libera nello spazio a disposizione e successivamente è stato chiesto loro di posizionarsi su due file disposte una di fronte all’altra e andarsi incontro a turno.

La gestione dello spazio e delle distanze hanno permesso di fare luce sulle diverse prospettive e percezioni e su come anche in silenzio sia possibile comunicare sensazioni e stati d’animo.

Come ha concluso il Dott. Benedetto Farina, un approccio terapeutico che non solo tenga in considerazione il corporeo ma parta da esso ha in sé una grande forza. Uno degli ambiti di applicazione più efficace potrebbe essere quello dei pazienti traumatizzati o gravemente dissociati; in questi casi, infatti, non si può utilizzare la cognitività alta ma si deve partire dalla base e, dunque, il corpo é l’ideale.

Perché quando si comincia a scoprire il proprio corpo, si scopre anche qualcosa di sé.

 

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Tra fedeltà dovute e tradimenti confessati: la diffusione e l’adattamento italiano del coping power program – Congresso SITTC 2014

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Tra fedeltà dovute e tradimenti confessati - SITCC 2014

Nel simposio presieduto dal Dott. Furio Lambruschi e Giuseppe Romano si è discusso su come il  Coping Power Program possa essere adattato e utilizzato con successo nel contesto socio culturale italiano.

Il Coping Power Program (Lochman e Wells, 2002) è un programma multimodale per il controllo e la gestione della rabbia per i bambini di età scolare, basato sull’intervento cognitivo comportamentale e sul modello socio-cognitivo di elaborazione dell’informazione di Dodge (Crick e Dodge, 1994).

Il Coping Power Program, inizialmente denominato Anger Coping Program, prevede sessioni di gruppo con i bambini e sessioni di parent training per i genitori. Tale modello di trattamento è riconosciuto oggi dal governo degli USA, nonché dalla comunità scientifica internazionale, come efficace nella prevenzione in bambini e adolescenti che presentano uno scarso rispetto delle regole sociali, comportamenti violenti e abuso di sostanze.

Durante il simposio, Dott. Pietro Muratori ha esposto la sua esperienza su come il programma  Coping Power possa essere inserito ed utilizzato con successo nel contesto italiano. A tale proposito è stato presentato il servizio “Al di là delle Nuvole” per il trattamento dei disturbi del comportamento in età evolutiva dell’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (PI).

 Tale servizio si focalizza sia sui processi del contesto familiare che sui processi cognitivi dei bambini, cercando di promuovere migliori strategie di problem solving e migliori modalità di relazione con i pari. Dai risultati di questi interventi emerge come i bambini che hanno partecipato al programma Coping Power, all’interno del servizio migliorino notevolmente dal punto di vista comportamentale. 

Inoltre, dall’intervento della Dott. Laura Vanzin emerge come il Coping Power Program possa essere adattato e utilizzato nel lavoro con i bambini affetti da Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività (ADHD).

L’aspetto più interessante che è emerso dall’ esposizione della Dott. ssa Vanzin si è focalizzato  su come la consapevolezza possa essere potenziata attraverso un Programma di Coping Power nei bambini con ADHD.

Aumentando la consapevolezza dell’ io, dei pensieri, delle sensazioni corporee, del contesto e della storia personale il bambino impara a focalizzarsi sulle proprie esperienze di vita capendole e gestendole adeguatamente. 

In tal modo, il bambino affetto da ADHD sviluppa l’abilità di stare nel momento presente con piena consapevolezza e apertura all’esperienza, impegnandosi in azioni che siano in linea con i valori personali. 

Inoltre, come sottolineava il dott. Buonanno nel suo intervento durante il simposio, il Coping Power Program riduce i costi relativi all’impatto della sintomatologia esternalizzante (ADHD) e migliora l’attenzione in supervisione in quanto si focalizza sugli acting: prevede le circostanze attivanti e sviluppa regolarità. 

Dall’intervento di Dott. Furio Lambruschi emerge come il Coping Power Program possa essere utilizzato come servizio Sovradistrettuale per il trattamento dei disturbi generalizzati, lavorando sia sui bambini che sui genitori.

Il lavoro sui bambini, ha come obiettivo quello di potenziare: l’abilità a intraprendere obiettivi a breve e a lungo termine, l’organizzazione e le abilità di studio, il riconoscimento e la modulazione della rabbia, il problem solving in situazioni conflittuali, l’abilità a resistere alle pressioni dei pari, le abilità sociali e l’ingresso in gruppi sociali positivi.

Invece il lavoro con i genitori è volto a sviluppare e potenziare le abilità genitoriali relative a: gratificare e fornire attenzione positiva, stabilire regole chiare ed esprimere le aspettative sul comportamento del figlio, promuovere l’organizzazione e le abilità di studio, utilizzare appropriate pratiche educative, modulare lo stress genitoriale, incrementare la comunicazione familiare ed il problem solving in situazioni conflittuali, rinforzare le abilità di problem solving che i bambini stanno acquisendo. 

In conclusione il Dott. Giuseppe Romano sottolinea quanto sia importante essere flessibili rispetto all’utilizzo di protocolli come Coping Power Program presi da contesti culturali diversi come quello statunitense in quanto essi possono essere adattati con successo al contesto socio culturale italiano attraverso un lavoro congiunto.  

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In ricordo di Vittorio Guidano: la scienza della conoscenza – Congresso SITCC 2014

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SIMPOSIO Vittorio Guidano - SITCC 2014

Sono passati ormai 15 anni dalla scomparsa di uno dei padri fondatori della SITCC e del Cognitivismo Post-Razionalista, Vittorio Guidano, e il simposio presieduto dalla Dott.ssa Ardito è l’occasione per ricordare un uomo che è stato per molti un maestro e un mentore. 

Si alternano così gli interventi di colleghi, ma anche amici stretti, e le testimonianze di ex allievi ora co-trainer, in un’atmosfera che si fa via via sempre più carica emotivamente.

Qualcuno tra i presenti si commuove. Per chi non ha conosciuto Vittorio Guidano, i racconti di aneddoti personali del Dott. Reda, del Dott. Balbi e della Dott.ssa Pelliccia intrecciati con i suoi insegnamenti, restituiscono l’immagine di un uomo con un amore infinito per la cultura umanistica e scientifica ed un terapeuta precursore dei tempi. “Parlare con lui era illuminante in qualsiasi circostanza, a lezione come dopocena.” 

 

Vittorio Guidano era fissato con un metodo che fosse esplicativo e non solo descrittivo, che potesse spiegare i motivi dello scompenso psicopatologico – racconta il Dott. Reda – e fu il primo ad inventare agli inizi degli anni ’80 i training di formazione, in cui gli allievi avevano come obiettivo quello di capire chi fossero e venivano valutati in base al loro cambiamento alla fine del training.

Tra i suoi più grandi lasciti vengono ricordati l’importanza del ruolo del terapeuta come perturbatore strategicamente orientato, l’importanza attribuita al lavoro sullo stile affettivo, la concettualizzazione di quello che il Dott. Balbi definisce il più potente modello esplicativo del Self e l’idea che l’eziologia del disturbo psicopatologico sia radicata nello scompenso affettivo:

[blockquote style=”1″]La Terapia Cognitiva Post-razionalista è un metodo attraverso il quale il terapeuta conduce il paziente nella ricostruzione del suo scompenso affettivo, con l’obbiettivo di promuovere, attraverso la distinzione ed integrazione di tutta la gamma di emozioni, sentimenti e stati intenzionali alla discrepanza affettiva in questione, una riorganizzazione progressiva del sistema personale in un nuovo e più articolato livello di coscienza che contenga la nuova maniera di sentirsi.[/blockquote]

A 15 anni dalla sua scomparsa, il grande vuoto che ha lasciato nel panorama cognitivo post-razionalista italiano si sente ancora, nell’attesa che qualcuno riesca ad avere nuove brillanti intuizioni cliniche che possano dare nuovo slancio a questa corrente cognitivista cosi stimolante.

 

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Sogno e Psicoterapia Cognitiva – Congresso SITCC 2014

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Sogno e Psicoterapia Cognitiva - Congresso SITCC 2014

Il simposio Sogno e Psicoterapia Cognitiva si è focalizzato sulle modalità di utilizzo dei sogni in Psicoterapia Cognitiva, prendendo in considerazione diversi punti di vista e diversi orientamenti teorico-clinici: differenti gruppi di ricerca, alcuni di formazione costruttivista altri più vicini all’orientamento cognitivo-comportamentale, hanno dialogato tra loro coordinati dal dott. Aquilar, esponente del modello cognitivo-sociale.

Il gruppo del dott. Bara apre la discussione proponendo un modello costruttivista volto all’ interpretazione emotiva dell’esperienza onirica. L’assunto fondamentale del metodo di interpretazione proposto assume che il sogno sia determinato dalle emozioni attive nel sognatore e possa essere dunque impiegato come strumento per conoscerle in modo più immediato rispetto alla veglia. Non ci dice cos’è successo in passato o cosa succederà in futuro, ma ci mostra il nostro vissuto rispetto alla situazione in cui siamo nel presente.

La trama del sogno, quindi, passa in secondo piano poiché lo scopo terapeutico è incentrato sul recupero consapevole, per quanto possibile, dello stato emotivo onirico. Come afferma il dott Bara “compreso nel suo significato, il sogno diventa un indicatore di direzione: non un vincolo ma una suggestione”.

L’intervento del dott. Rezzonico presenta invece lo stato attuale dell’uso del materiale onirico in Psicoterapia Cognitiva, con un focus particolare all’approccio costruttivista.

Nello specifico, Rezzonico si è soffermato sull’analisi delle differenze esistenti tra l’approccio costruttivista e quello razionalista. Le due correnti, seppur rappresentabili lungo un continuum, ci riportano aspetti talvolta dialoganti e talvolta totalmente scissi.

Il modello razionalista utilizza l’interpretazione dei sogni quando il lavoro terapeutico raggiunge un momento di stallo, l’obiettivo diventa identificare le distorsioni cognitive che accomunano il sogno alla veglia, influenzando la vita del paziente. Si tratta di una sorta di terapia didattica che insegna al paziente “come fare bei sogni”.

L’interpretazione onirica in ottica costruttivista si basa invece su un lavoro di co-costruzione del sogno tra paziente e terapeuta che insieme scelgono il livello di analisi. L’enfasi viene posta sulle emozioni e sulle discrepanze emozionali tra ciò che il paziente ha sognato e l’emozione provata durante l’attività onirica.

L’obiettivo terapeutico diventa quello di far emergere significati personali e raggiungere un maggior livello di consapevolezza. Non si tratta di un significato inconscio che il terapeuta svela al paziente ma di una co-costruzione di significati tra paziente e terapeuta. Il sogno, diventa quindi un mezzo per accedere a nuovi orizzonti personali, prenderne consapevolezza e facilitare il cambiamento nella vita reale.

In conclusione sono stati approfonditi dal dott. Sibillia aspetti relativi alla pratica dei sogni intenzionali nella sindrome da incubi, mentre la dott.ssa Borgo ha concluso il simposio con un interessante parallelismo tra l’attività onirica e i fenomeni allucinatori tipici delle psicosi indotte dall’uso di cannabinoidi.

 

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La formazione personale dei terapeuti nell’ottica post-razionalista – Congresso SITCC 2014

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il lavoro su di sè nel training di formazione - Congresso SITCC 2014

In relazione agli studi riportati risulta importante, per fare una buona psicoterapia, sapersi sintonizzare sul paziente oltre a saper riconoscere e gestire i propri stati emotivi.

Reda ci presenta interessanti studi sulla sintonizzazione tra terapeuta e paziente. Marci C. et al. (2007) hanno misurato il livello di tensione dell’emozione tramite GSR (Galvanic Skin Resistence) mostrando come possano essere presenti diversi livelli di concordanza fisiologica tra paziente e terapeuta.

Le sedute in cui tale concordanza era alta venivano considerate dal paziente come più positive, ed inoltre, successivamente a tali sedute, il paziente esperiva maggior benessere.

Vengono poi presentati successivamente altri studi (Reda et al. 2011; Canestri et al. 2008) dove viene evidenziato come il terapeuta sia meno attivato emotivamente rispetto al paziente prima della seduta, ma tale attivazione è inversa a fine seduta dove l’attivazione del terapeuta è maggiore di quella del paziente.

Il terapeuta deve quindi essere anche capace di uscire da questo ruolo e vivere la propria quotidianità come individuo e non come terapeuta.

In relazione agli studi riportati risulta importante, per fare una buona psicoterapia, sapersi sintonizzare sul paziente oltre a saper riconoscere e gestire i propri stati emotivi.

Il terapeuta può riconoscere e organizzare il proprio materiale conoscitivo implicito relativo a sé, all’altro e alla relazione, operando nella relazione stessa come «perturbatore strategicamente orientato».

Ecco perchè risulta importante il lavoro personale durante il training di formazione della Specializzazione in Psicoterapia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia: intervista con Roberto Lorenzini – I grandi clinici

 

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Roberto Lorenzini

Psichiatra e Psicoterapeuta. Docente SITCC

 

State of Mind intervista Roberto Lorenzini, Psichiatra e Psicoterapeuta. Docente SITCC.
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

VEDI IL PROFILO DI Roberto Lorenzini

Considerazioni sulla relazione di Christian Keysers – Congresso SITCC 2014

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Commento di Francesco Mancini sulla relazione “Il cervello empatico” di Christian Keysers , presentata al Congresso SITCC, Genova, 2014.

SITCC 2014 - Plenaria KeysersNella sua relazione, Kaysers ha passato in rassegna una serie di ricerche su cosa accade nel cervello di una persona quando vede un’altra persona agire, provare sensazioni o emozioni.

La prima considerazione è che i neuroni specchio entrano in gioco non solo durante la percezione di un movimento dell’altro ma anche quando l’altro, ad esempio, è toccato (sensazioni) o, ad esempio, è socialmente escluso (dolore emotivo). Premesso che da sempre è ben noto che gli esseri umani hanno la capacità di essere empatici, l’interesse di questi risultati è, a mio avviso, triplice.

In primo luogo, la scoperta dei neuroni specchio risolve un problema filosofico che era rimasto senza soluzione per centinaia di anni, il problema dei qualia: come è possibile accedere alla esperienza soggettiva, interna e privata di un’altra persona?

In secondo luogo, ci dicono quali aree del cervello, e dunque quali variabili dipendenti, possono essere prese in considerazione per gli studi sull’empatia.

In terzo luogo, è importante sapere che i neuroni specchio non entrano in gioco solo nel caso del movimento ma anche delle sensazioni e emozioni.

La seconda considerazione riguarda un tema di interesse clinico, gli psicopatici.

Le teorie fino a oggi più accreditate, hanno sostenuto che alla base della psicopatia vi sia un deficit di capacità empatiche. Perché gli psicopatici si comportano in un modo che non tiene minimamente in considerazione la sofferenza dell’altro e i suoi diritti? Perché non sono frenati da quel meccanismo inibitorio che entra in gioco normalmente negli esseri umani quando si rendono conto di causare sofferenza ad altri esseri umani?

La risposta tradizionale è che, appunto, la sofferenza dell’altro non risuonerebbe dentro di loro a causa di un deficit di empatia. Le ricerche citate da Keysers dimostrano, però, qualcosa di molto diverso: di fronte alla sofferenza di un’altra persona, a condizione di essere incoraggiati dallo sperimentatore, l’attivazione del cervello degli psicopatici è sovrapponibile a quella di chiunque altro.

Ciò suggerisce con chiarezza che gli psicopatici non hanno un deficit di empatia ma, piuttosto, tendono di solito a non usare l’empatia anche se ne hanno la capacità. Del resto gli autistici hanno gravi difficoltà a essere empatici ma non sono psicopatici e in soggetti normali, soprattutto se maschi, la sofferenza dell’altro non attiva il substrato neurale della empatia, se l’altro è giudicato un mascalzone.

Keysers, non essendo un clinico, non ha affrontato i determinanti della non propensione alla empatia e non ha suggerito alcuna risposta alla domanda: perché gli psicopatici, pur potendo essere empatici, normalmente non lo sono? (per una rassegna, non recentissima, degli studi sulla empatia in psicopatici e anti sociali e su una proposta di soluzione si può vedere in www.apc.it Cognitivismo Clinico, 6, 2, 2009, La moralità nel disturbo antisociale di personalità – F. Mancini, R. Capo, L. Colle SCARICA ARTICOLO).

Un’implicazione, suggerita da questi risultati, è che anche in altri disturbi possa essere opportuno parlare di propensione a non usare determinate abilità piuttosto che di deficit.

La terza considerazione, che mi sembra rilevante per i clinici, riguarda le emozioni dello psicoterapeuta. Una tesi molto diffusa tra gli psicoterapeuti, anche cognitivisti, è che le emozioni che il terapeuta prova in seduta possano essere informative dello stato interno del paziente.

Keysers ci ha mostrato un esperimento interessante: in soggetti normali il movimento del braccio di un’altra persona verso un oggetto attiva i neuroni specchio dell’osservatore, ma cosa succede se il braccio in questione è il braccio non di un’altra persona ma di un robot? Nel cervello dell’osservatore si attivano gli stessi neuroni specchio. Ciò, ha sottolineato Keysers , dimostra che

la nostra intuizione circa gli stati interni dell’altro non dipende da una sorta di “lettura” della mente dell’altro ma è una proiezione, pertanto la sua accuratezza è inaffidabile.

Alla domanda “Come si potrebbe migliorare la capacità empatica di uno psicoterapeuta?”, Keysers ha suggerito la possibilità che lo psicoterapeuta faccia le stesse esperienze del paziente, citando ad esempio la possibilità di toccare un ragno per facilitare la comprensione empatica di ciò che prova un fobico dei ragni. Anche senza voler invocare il principio per il quale l’esperienza è soggettivamente costruita, c’è da chiedersi come ciò sarebbe possibile nel caso, ad esempio, delle esperienze precoci di abuso di un paziente border line.

Una quarta considerazione riguarda la possibile origine ontogenetica dei neuroni specchio. È opportuno ricordare la legge di Hebb la ripetizione di attivazioni contemporanee dei neuroni facilita l’instaurarsi di connessioni fra loro. Nel bambino spesso si attivano contemporaneamente i neuroni che, ad esempio, guidano il movimento della sua mano e quelli con cui percepisce il movimento della sua stessa mano. Ciò faciliterebbe la connessione fra questi due tipi di neuroni, motori e sensoriali e i neuroni specchio nascerebbero da questo processo.

SULLO STESSO SIMPOSIO: IL CERVELLO EMPATICO: LA PLENARIA DI CHRISTIAN KEYSERS AL CONGRESSO SITCC 2014

 

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L’intervento clinico ad orientamento cognitivo costruttivista nel contesto sanitario ospedaliero – Congresso sittc 2014

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 L'intervento clinico ad orientamento cognitivo - sitcc 2014Il presente simposio presieduto dalle Dottoresse Carla Maria Vandoni e Carla Barile si è focalizzato sul ruolo dello psicologo/psicoterapeuta di orientamento cognitivo comportamentale all’interno delle strutture ospedaliere.

Le Dott. sse Silvia Ferrero Merlino, Chiara Marmo, Barbara Nano e Patrizia Valorio hanno esposto le loro esperienze lavorative riportate dall’interno di diverse strutture come: l’Unità Spinale, l’Oncologia, Pediatria Infantile e il Dipartimento per la Salute Mentale rivolto alle persone affette da HIV.

Dagli interventi è emersa l’importanza e la necessità di una figura come lo psicologo all’interno degli ospedali in quanto esso riesce ad accogliere  tutte le paure relative a cosa succede “quando il corpo si ammala”.

In termini più tecnici lo psicologo assume la funzione di base sicura ponendosi come presenza accessibile e di riferimento, in un momento in cui possono prevalere emozioni legate allo shock postraumatico, di perdita di controllo e angoscia, o viceversa d’incredulità, derealizzazione o negazione della situazione. 

Oltre ad occuparsi del paziente, Il ruolo dello psicologo è cardinale in quanto interagisce con altre figure che si trovano all’interno degli ospedali come: medici, infermieri, neuropsicologi e i famigliari dei pazienti.

Come riportato dalla Dott. ssa Barbara Nano i vantaggi della presenza di uno psicologo all’interno di un ospedale si ripercuotono sulla relazione e la collaborazione dello psicologo con  l’equipe medico-infermieristica: gli scambi d’informazione vengono facilitati e, inoltre, il personale infermieristico si affida ai consigli tecnici che riguardano lo stato mentale dei pazienti, forniti dallo psicologo.

Emerge come all’interno delle strutture di cura il lavoro multidisciplinare dell’equipe sia fondamentale e ha come principale scopo il miglioramento della qualità della vita della persona malata. Quindi, le attenzioni dell’intera equipe curante vanno, attraverso il dialogo congiunto tra operatori, paziente e famiglia, alla definizione della condizione del paziente, e all’osservazione del suo livello di consapevolezza e accettazione della sua situazione.

Attività come il colloquio individuale nei luoghi di vita di reparto con la persona, i momenti di consegna integrata o di breafing settimanale aiutano a costruire la relazione che fa da cornice a quella funzione di base sicura che protegge e porta verso l’autonomia il paziente.

In conclusione, il focus dell’intervento psicologico si concentra sul riconoscimento, l’espressione e la modulazione delle emozioni della persona malata.

Inoltre, lo psicologo all’interno delle strutture ospedaliere aiuta tutti gli operatori con cui interagisce a empatizzare non solo con i pazienti ma anche con i loro familiari. 

 

LEGGI ANCHE:

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Huston, T; Gassaway, J; Wilson, C; Gordon, S; Koval, J; Schwebel, A (2011). Psychology treatment time during inpatient spinal cord injury rehabilitation. Journal of Spinal Cord Medicine, Volume 34, Number 2, pp. 196-204.  DOWNLOAD

L’integrazione delle psicoterapie nell’approccio costruttivista – Congresso sittc 2014

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Integrazione Psicoterapie - SITCC 2014 

Sono diversi i livelli a cui si può parlare di integrazione: si può riferire al terapeuta e alla sua formazione e dunque alla possibilità di unire diversi approcci durante il percorso terapeutico; ma integrazione è anche quella tra terapeuta e paziente poiché all’interno della relazione terapeutica si può lavorare per sintonizzarsi con il paziente e aiutarlo a rimettere insieme i pezzi, mettere in fila esperienze, emozioni, sensazioni, pensieri ed eventi diversi per dargli senso e mantenere integrate, appunto, queste diversità dentro di sé.

Percorso terapeutico come processo di integrazione dunque.

La Dott.ssa Laura Fortunati ha introdotto il tema esponendo il caso di una paziente con difficoltà di gestione emotiva con cui si è rivelato particolarmente utile integrare approcci diversi: la tecnica EMDR (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) per rielaborare due eventi particolarmente significativi, l’approccio eft integrato con esercizi di mindfulness, colloqui individuali ma anche colloqui di coppia coinvolgendo il marito e ha proposto anche la partecipazione a un gruppo MBCT (mindfulness based cognitive therapy) per gestire le oscillazioni emotive e il pensiero rimuginativo.

Il Dott. Michele Spada ha parlato, invece, di dipendenza affettiva e di come sia possibile affrontare la problematica non solo da un punto di vista cognitivo ma anche fisico: Cosa dice il corpo in una relazione di dipendenza?

Ha lavorato con due gruppi (7-8 persone) a cadenza mensile; 10 incontri in tutto.

Dipendenza quindi non solo come mentalizzazione ma anche “incarnata”, attraverso l’esperienza del sentire il proprio corpo, ad esempio con esercizi di  lontananza e avvicinamento, di reciprocità.

L’integrazione in questo caso è tra tacito e esplicito, rivolgendosi al corpo per acquisire consapevolezza attraverso l’uso di metafore (emotività come calore, distanza emotiva come distanza fisica) ri-raccontandosi attraverso il corpo.

Se riprendiamo il corporeo possiamo arrivare a una rielaborazione dei vissuti.

Anche l’intervento della Dott.ssa Carla Antoniotti ha affrontato la narrazione del sé attraverso il corporeo. Ad un gruppo di pazienti ha assegnato il compito di redigere uno scritto dal titolo “storia del proprio corpo”.

L’obiettivo è integrare l’approccio narrativo con il lavoro sul corpo così da mettere in luce la stretta interazione tra dimensione immediata (qui e ora, emozioni, sensazioni, relazioni) e dimensione narrata (sè, coerenza interna, costruzione del significato) e dunque l’interrelazione tra attività cognitiva, identità personale e dimensione corporea.

Infine, la Dott.ssa Rita Pezzati ha esposto il caso di J. e della sua fatica ad integrare.

Questo paziente racconta di vivere diviso tra due “spazi”: la mania e quello che lui chiama di amore e libertà.

Inizialmente per lui era difficile persino concepire la possibilità di condividere le esperienze con un altro individuo, cognitivamente riusciva a parlarne ma emotivamente era difficile per lui accettare questa eventualità.

Emergeva il terrore di sbagliare. Il profondo senso di solitudine, la percezione di dover sostenere tutti.

Grazie alla terapia però ha iniziato a vedere delle parti distinte, a scoprire di riuscire a sopportare anche l’idea di condividere un pezzo di vita con qualcun altro e ad accettare di seguire una cura omeopatica per l’ansia.

E grazie a questi ricordi di condivisione vissuti in terapia riesce a riconoscere le situazioni a “rischio” e a gestirle grazie a questa memoria interna.

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Se vuoi sapere come sto, chiedimi cosa penso di te: la mentalizzazione nei disturbi neurodegenerativi – Congresso SITCC 2014

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Dr. Jekyll o Mr. Hyde- Afferrare le intenzioni del movimento - SCREEN - SITCC 2014

I test di mentalizzazione, sostiene il Dott. Adenzato, devono invece essere inclusi nell’assessment standard dei pazienti con disturbi neurodegenerativi (Poletti et al., 2012) perché, a differenza dei test neuropsicologici classici, il funzionamento dei processi di mentalizzazione può essere predittivo della comparsa di una FTD. 

Due anni fa Matthias L. Schroeter scrisse una lettera a Brain (Schroeter, 2012) sottolinenando quanto fosse assurdo che le nuove linee guida per la diagnosi di una possibile demenza frontotemporale (FTD) non prendessero in considerazione criteri quali dati di neuroimaging (es. atrofia frontale o temporale anteriore) e il decadimento della social cognition in particolare nell’abilità di teoria della mente, nonostante le numerose evidenze scientifiche in letteratura (Bertoux et al., 2012; Pardini et al., 2013).

I test di mentalizzazione, sostiene il Dott. Adenzato, devono invece essere inclusi nell’assessment standard dei pazienti con disturbi neurodegenerativi (Poletti et al., 2012) perché, a differenza dei test neuropsicologici classici, il funzionamento dei processi di mentalizzazione può essere predittivo della comparsa di una FTD.

Per esempio, soggetti che ottengono una bassa prestazione al Reading of Mind in the Eye Test (RME), al follow up a 2 anni hanno una maggiore probabilità di presentare un peggioramento ai test neuropsicologici e un’atrofia cerebrale, segni di FTD.

La possibilità di identificare precocemente i soggetti a rischio di sviluppare FTD permette di intervenire in maniera mirata nei primi stadi della malattia, quando gli interventi hanno una maggior possibilità di essere più efficaci (Rascovsky et al., 2011).

  

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BIBLIOGRAFIA:

Il metodo psicosomatico – Plenaria con il Prof. Giovanni Fava – Congresso SITCC 2014

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Fava - Il Metodo Psicosomatico - SITCC 2014

Il professor Fava inizia la sua relazione con un aneddoto. Ci racconta di quando ancora studente della facoltà di medicina, dopo aver fatto una schermografia, pensava di aver contratto la tubercolosi. Quando si recò alla visita di verifica stava male fisicamente… ma nel momento in cui seppe di essere sano come un pesce era felice e fisicamente si sentiva bene. Iniziò a riflettere su questo. Si chiese…

“Eppure io sono arrivato alla verifica che stavo male…quasi in barella! Qual è l’influsso della psiche sul corpo?”

In quel periodo poco c’era sulla psicosomatica e il giovane Fava si imbattè nell’articolo di Engel, l’ideatore del modello bio-psico-sociale. Decise di scrivergli e da lì nacque un’esperienza di affiancamento al lavoro di Engel stesso.

L’originalità di Engel era legata alla critica del concetto di malattia del modello biomedico secondo il quale i processi biologici erano gli unici responsabili della genesi della malattia.

Engel propose così un concetto di malattia più unitario in cui sottolineò la complessità del concetto di salute contestualizzandola all’interno dell’ambiento psicosociale.

Successivamente Tinetti et al. (2004) pubblicarono un articolo su The American Journal of Medicine dove, riprendendo Engel, proposero di abbandonare la malattia come focus primario e di identificare delle variabili (biologiche e non) su cui poter intervenire.

Feinstein Alvan, epidemiologo americano, durante le sue discussioni di casi clinici a Yale, riportava come la medicina clinica tendeva a trascurare quell’informazione detta “soft” che aveva a che fare con le reazioni umane, la sintomatologia e la qualità di vita. Eppure anche questi dati si potevano misurare in modo attendibile! Ecco così che nacque la clinimetria cioè la misurazione di quei dati clinici che non trovano spazio nella tassonomia in generale.

Dopo questo excursus storico vediamo ora cosa si intenda con il termine psicosomatica.

La psicosomatica è:

  • La valutazione del ruolo dei fattori psicosociali nell’influenzare la vulnerabilità individuale, il decorso e l’esito di ogni tipo di malattia.
  • Considerazione olistica della pratica medica
  • Interventi specialistici per integrare le terapie psicologiche nella prevenzione, trattamento e riabilitazione delle malattie

Il metodo psicosomatico è un approccio generale alla considerazione del paziente e della malattia che si applica a qualunque condizione medica. E’ inoltre un approccio specialistico di aggregazione interdisciplinare che supera le distinzioni tradizionali. La valutazione psicosomatica così come la cura viene presentata come una modalità più ampia di gestione del caso.

Secondo questo approccio inoltre non andiamo a considerare da una parte le malattie psicosomatiche e dall’altre quelle non psicosomatiche, ma consideriamo tutte le patologie come aventi una variabile psicosociale.

Fava, Sonino e Wise (Il metodo psicosomatico, Fioriti, 2014) forniscono le basi dell’approccio clinimetrico che utilizza la macro-analisi, cioè una correlazione fra sindromi e/o problemi, e la micro-analisi, intesa come un’analisi dettagliata dei sintomi.

Dopo averci illustrato nella pratica tale metodo grazie a dei casi clinici i Prof. Fava infine ci illustra la WBT (Well Being Therapy), la Terapia del Benessere, dove il monitoraggio avviene sulla variazione del benessere dell’individuo e non del malessere. La WBT è a intervento breve che ha lo scopo appunto di aumentare i livelli di benessere.

Apprezziamo il modello bio psicosociale e le sue evoluzioni che i medici, generalmente più tendenti alla iperspecializzazione anziché alla visione globale, hanno sviluppato.

Ci piace perché il paziente non è più trattato come un “pezzetto” di qualcosa, ma come una persona inserita in un contesto. E a noi psicoterapeuti, si sa, il funzionamento della persona e il suo contesto ci piacciono parecchio.

 

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Dr. Jekyll o Mr. Hyde? Afferrare le intenzioni del movimento – Congresso SITCC 2014

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Dr. Jekyll o Mr. Hyde- Afferrare le intenzioni del movimento - SCREEN - SITCC 2014

E’ possibile comprendere le intenzioni degli altri osservandone i movimenti?

Grazie all’analisi cinematica, che misura le caratteristiche del movimento, è possibile capire come il sistema nervoso organizza il movimento, ma si può anche “misurare” l’intenzione? Il quesito è assolutamente intrigante! Immaginiamo di imbatterci nel Dr. Jekyll/Mr. Hyde mentre, con un bisturi in mano, si avventa contro un uomo a terra. Possiamo discriminare dal solo movimento se ci troviamo di fronte al Dr. Jekyll che sta cercando di salvare l’uomo o a Mr. Hyde che sta cercando di ucciderlo?

La Dott.ssa Becchio e colleghi (2008) hanno condotto un esperimento in cui i soggetti dovevano afferrare un oggetto per poi o passarlo ad un’altra persona (social condition) o metterlo in una base concava (single agent condition). Analizzando attraverso la cinematica la fase iniziale di movimento (componente di prensione nell’azione di afferrare) si è osservato un pattern di movimento differente nelle due condizioni. Quindi intenzioni differenti si traducono in movimenti.

Ma un osservatore esterno è in grado di cogliere queste differenze e quindi capire l’intenzione del soggetto agente dal movimento?

Il Dott. cavallo mostra i risultati di un interessante studio (Manera et al. 2011) in cui i partecipanti guardando un video in cui si vedeva una mano afferrare un oggetto dovevano capire se l’intenzione del soggetto agente era di cooperare (passando l’oggetto ad un altro per costruire una torre), competere (per mettere l’oggetto in un determinato punto prima del concorrente) oppure mettere l’oggetto in una base concava velocemente o lentamente.

I soggetti erano in grado di discriminare tra cooperazione e single agent condition lenta e tra competizione e single agent condition veloce. Quindi osservando il movimento è possibile capire le intenzioni.

Quali sono i meccanismi neurali sottostanti?

La capacità di comprendere le intenzioni durante l’osservazione di un movimento è mediata da due sistemi neurali: mirror e mentalizing. (Becchio et al., 2012)

In conclusione, un bellissimo intervento, che ci mostra come intenzioni differenti si riflettono in movimenti differenti, spingendoci così a riconsiderare le intenzioni non più come stati mentali privati e nascosti, ma come stati accessibili dall’esterno anche in assenza di un contesto grazie alla nostra capacità di sfruttare l’informazione cinematica.

 

Tratto dal simposio CAPIRE, SPIEGARE E CURARE L’INTERAZIONE CON L’ALTRO: CERVELLO E COMUNICAZIONE

Chairman: Bruno G. BARA, Professore ordinario di Psicologia, Centro di Scienza Cognitiva, Università e Politecnico di Torino

Discussant: Christian KEYSERS, University of Groeningen, Groeningen

 

BIBLIOGRAFIA

  • Becchio, C., Sartori, L., Bulgheroni, M., & Castiello, U. (2008). The case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde: A kinematic study on social intention. Consciousness and cognition, 17, 557-564.
  • Manera, V., Becchio, C., Cavallo, A., Sartori, L., & Castiello, U. (2011). Cooperation or competition? Discriminating between social intentions by observing prehensile movements.
  • Experimental Brain Research, 211, 547-556.
  • Becchio C., Cavallo A., Begliomini C., Sartori L., Feltrin G., & Castiello U. (2012). Social grasping: from mirroring to mentalizing. NeuroImage, 61, 240-248.

 

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SITCC 2014 -Rassegna Stampa- La Repubblica: La scuola va in analisi

 

La Redazione di State of Mind segnala questo contenuto:

 

È questo il tema di uno dei seminari in programma al congresso nazionale della Sitcc, Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva, che prosegue fino a domenica ai Magazzini del Cotone di Genova. Una quattro giorni dal programma ricchissimo…

La scuola va in analisiConsigliato dalla Redazione

“Gli alunni sono sempre meno motivati”. Ai Magazzini del Cotone di Genova congresso nazionale della Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva (…)

Tratto da: Repubblica.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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I Neuroni Specchio: dalla ricerca alle applicazioni in Psicoterapia – Congresso SITCC 2014

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I neuroni specchio dalla ricerca alle applicazioni in psicoterapia - SITCC 2014

I neuroni specchio dalla ricerca alle applicazioni in psicoterapia 2 - SITCC 2014

I neuroni specchio sono una delle scoperte più intriganti della ricerca scientifica. Ma quali sono le applicazioni in ambito clinico? Ce le illustra l’interessante simposio presieduto dal Dott. Piegiuseppe Vinai.

Ma prima, un po’ di storia con la Dott.ssa Ambrosecchia.

Più di 20 anni fa nella corteccia premotoria ventrale della scimmia furono scoperti dei neuroni che scaricano durante l’esecuzione di atti motori finalizzati (Rizzolatti et al., 1988). Nel 1996 fu individuato nell’area cerebrale F5 un gruppo di neuroni che scarica anche durante l’osservazione dell’esecuzione di un’azione da parte di altri: i neuroni specchio. (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996).

Il passo successivo fu interrogarsi sull’esistenza di questa tipologia di neuroni nell’uomo: ad oggi più di 800 studi di risonanza magnetica funzionale si sono occupati dell’argomento.

Nel cervello umano esistono sistemi multipli dotati di meccanismi specchio coinvolti nell’integrazione e differenziazione degli aspetti percettivi e motori dell’azione di sé e di altri (Mukamel et al., 2010), e durante l’esecuzione e l’osservazione di movimenti finalizzati si attivano aree premotorie e parietali somatotopicamente organizzate (Buccino, 2001).

Quando osserviamo qualcuno compiere un’azione, i neuroni specchio scaricano come se stessimo compiendo noi quell’azione e, fatto ancor più interessante, il grado di attivazione delle aree coinvolte dipende dall’expertise del soggetto in quella azione: un giocatore di tennis che osserva una persona che gioca a tennis avrà un’attivazione maggiore rispetto ad un osservatore che non ha mai tenuto in mano una racchetta.

 

Cosa accade quindi quando osserviamo qualcuno esprimere un’emozione?

La Dott.ssa Alibrandi presenta uno studio pilota sulla valutazione delle emozioni facciali indotte dalla visione del proprio volto emozionato. L’analisi delle emozioni è stata effettuata attraverso il FACS, il Sistema di Codifica delle Espressioni Facciali che misura e classifica i movimenti muscolari del volto che formano le espressioni. Il FACS permette inoltre di valutare l’intensità delle emozioni su una scala da 0 a 5.

Lo studio era così articolato: i soggetti dell’esperimento venivano filmati mentre si mostrava loro un video in grado di suscitare paura (in alcuni anche sorpresa o disgusto). Successivamente esperti codificatori FACS valutavano le emozioni espresse alla vista del video e la loro intensità. Successivamente veniva mostrato ai soggetti il video in cui erano stati ripresi i loro volti oppure i volti di un altro soggetto dello studio. In entrambi i casi i soggetti venivano nuovamente filmati e anche questo video veniva analizzato dai codificatori FACS. Confrontando i punteggi ottenuti dall’analisi dell’intensità delle emozioni espresse nei tre casi (mentre guardavano il video / mentre guardavano il proprio volto emozionato / mentre guardavano il volto emozionato di un altro).

Lo studio ha evidenziato come osservare il proprio volto emozionato induca maggiore empatia che guardare il volto emozionato di qualcun altro.

A questo punto è lecito domandarsi quali possano essere le applicazioni cliniche dei neuroni specchio.

Uno degli obiettivi più comuni in terapia è portare il paziente a riconoscere le proprie emozioni. Nella terapia cognitiva, in particolare, lo strumento principe è l’ABC (Ellis, 1965) che facilita l’automonitoraggio dei propri stati affettivi.

In seduta, poi, si pongono spesso domande esplicite volte a far riflettere il paziente sui propri stati emotivi (es. “Cosa prova?”), ma – fa notare il Dott. Maurizio Speciale – il 20% della popolazione non clinica ha difficoltà ad etichettare i propri stati emotivi, mentre il 40% della popolazione clinica è alessitimica. Spesso il paziente alla domanda “Cosa prova?” risponde in maniera generica (es. “Sono nervoso”) o etichetta l’esperienza emotiva provata con un’emozione incongruente con la propria espressione facciale. Il paziente, però, trasmette con il proprio comportamento non verbale l’emozione che sta provando, ma non sempre il terapeuta è in grado di sfruttare tale informazione.

La Self Mirroring Therapy permette al paziente stesso di usufruire delle proprie emozioni attraverso la videoregistrazione delle proprie espressioni emotive. In questo modo il riconoscimento dell’emozione non avviene attraverso un accesso diretto autoriflessivo, ma utilizzando uno stimolo esterno, permettendo così al paziente di sfruttare verso di sé quei meccanismi innati che normalmente gli consentono di comprendere lo stato emotivo altrui.

Poiché recenti ricerche di neuroimaging dimostrerebbero che il sistema dei neuroni specchio si attiva in modo più intenso osservando il proprio volto rispetto a quello altrui (Uddin et al., 2006), la Self Mirroring Therapy appare una valida tecnica per far riconoscere le proprie emozioni ai pazienti in psicoterapia sfruttando i meccanismi coinvolti nell’empatia.

Come sottolinea il Dott. Piergiuseppe Vinai, attraverso la Self Mirroring Therapy le emozioni vengono effettivamente condivise in seduta attraverso un protocollo che partendo dal richiamo alla memoria di un episodio emotivo (RECALL) tramite il VIDEOFEEDBACK permette al paziente di osservarsi mentre osserva se stesso raccontare l’episodio (SELF MIRRORING). A questo punto si può intervenire con la RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA.

 

LEGGI ANCHE:

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BIBLIOGRAFIA

  • Rizzolatti G, Camarda R, Fogassi L, Gentilucci M, Luppino G, Matelli M. Functional organization of inferior area 6 in the macaque monkey. II. Area F5 and the control of distal movements. Exp Brain Res 1988; 71:491-507.
  • Rizzolatti, G., L. Fadiga, V. Gallese, and L. Fogassi. 1996. Premotor cortex and the recognition of motor actions. In Cogn. Brain Res. 3:131-141.
  • Gallese, V., L. Fadiga, L. Fogassi, and G. Rizzolatti. 1996. Action recognition in the premotor cortex. In Brain 119:593-609.
  • Mukamel R, Ekstrom A, Kaplan J, Iacoboni M, Fried I. 2010. Single-Neuron Responses in Humans during Execution and Observation of Actions. Current Biology 20: 1-7
  • Buccino G., Binkofski F., Fink G.R., Fadiga L., Fogassi L., Gallese V., Seitz R.J., Zilles K., Rizzolatti G., Freund H.J. Action observation activates premotor and parietal areas in a somatotopic manner: an fMRI study. European Journal of Neuroscience 13:400-404, 2001.

La Ballata del Cognitivismo – La Psicantria al Congresso SITCC 2014

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Psicantria - Ballata del Cognitivismo - Congresso SITCC 2014

Cos’ è psicantria?

E’ un neologismo coniato da Palmieri e Grassilli per cantare dello “psicomondo” perché nessuno mai ha raccontato sia a suon di musica che in modo sistematico la psicopatologia.

E’ così i colleghi ci raccontano di questo creativo progetto che ha le finalità di :

  • Divulgare e trattare il tema della malattia mentale e del disagio psichico attraverso l’uso dello strumento canzone, combattendo lo stigma della malattia mentale stessa
  • Promuovere l’uso della canzone come strumento educativo e di riflessione in diversi contesti
  • Valutare le potenzialità della canzone come strategia all’interno di una terapia

Dopo una breve introduzione su come è nato il progetto e i suoi obiettivi ecco che entriamo nel vivo di Psicantria

Palmieri, Grassilli e Mantovani si alzano dal tavolo, imbracciano gli strumenti… e si parte.

Cantano i loro brani e i partecipanti al congresso vengono travolti dalle loro note, dalla loro simpatica e arguta creatività.

E’ un crescendo…e ecco il “colpo finale” di questi geniali colleghi che rapisce definitivamente i partecipanti al congresso… E’ “La ballata del cognitivismo” sulle note di una nota canzone… in fondo la SITCC quest’anno è pur sempre a Genova!

Ecco qui per voi il testo e il video della performance de “La ballata del cognitivismo

DALLA PSICOPATOLOGIA CANTATA ALLA PSICANTRIA DELLA VITA QUOTIDIANA
Palmieri, Grassilli, Mantovani.

 

La Ballata del Cognitivismo

E lo chiamavano cognitivista, costruttivista, razionalista

Lo chiamavano cognitivista costruttivista post razionalista

 

Fu all’inizio il comportamento

Ad attirare ogni attenzione

Bastava un suono di campanella

Ad aumentare la salivazione

Ma dopo Pavlov con il suo cane

Arrivò Skinner con i rinforsi

Ma c’è chi disse che l’uomo ha pensieri

E non aveva tutti i torti

Arrivò Beck dagli Stati Uniti

Con la sua triade cognitiva

La depressione, gli automatismi

Già brillavano per inventiva

 

Ma la pulsione spesso conduce

Ad origliare dietro le porte

Quella di Bolwby lo psicoanalista

Che all’etologia fece la corte

E fu così che da un giorno all’altro

L’attaccamento si tirò addosso

L’interesse dei cognitivisti

Che lo studiarono a più non posso

Anche in Italia Guidano e Liotti

Due pionieri coi loro approcci

Fecero scuola e istituzione

Meriterebbero una canzone

 

E per avere nuovi consigli

Sulla metacognizione

Venne fondato il Terzo Centro

Che la serviva anche a colazione

Con narrative e nuove moviole

 

Poi arrivarono Lenzi e Lambruschi

Adolescenti, adulti e bambini

Ce ne era per tutti i gusti

E per rileggerere i nostri sogni

Rezzonico Giorgio e Bara Bruno

Sono stati così generosi

Hanno scritto un libro per uno

La Sassaroli e il perfezionismo

E la passione del giornalismo

Con Davide Dettore gli ossessivi

Dei rituali diventan privi

 

Alla stazione successiva

Emdr Mindfulness Schema

Mancava solo l’accettazione

Adesso davvero ho la testa piena

Se di qualcuno ci siam scordati

Certi di essere perdonati

Ringraziando per l’attenzione

Arriviamo alla conclusione

 

E lo chiamavano cognitivista, costruttivista, razionalista

Lo chiamavano cognitivista costruttivista post razionalista.

 

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 Fattori predittivi del senso di vuoto nei pazienti con disturbo borderline di personalità - sitcc 2014

Roberto Framba - Congresso SITCC 2014
Dr. Roberto Framba

In una delle discussioni libere durante il simposio SITCC di venerdì 26, è stata presentata una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori di Studi Cognitivi di Bolzano sui fattori predittivi del senso di vuoto in un campione di pazienti con Disturbo Borderline.

In ambito psicologico, la presenza del senso di vuoto viene spesso associata ai disturbi di personalità come il Borderline .

La perdita del continuum storico in un individuo crea un presente senza profondità, quindi si manifesta una sorta di vuoto narrativo che può essere usato da alcuni pazienti per sottrarsi da un conflitto tra un sé indegno e un sé intollerabile, staccandosi da tutto e da tutti per entrare in una sorta di anestesia emotiva.

La condizione di vuoto ha una forte rilevanza clinica dato che in essa si verificano più frequentemente gesti suicidari e atti autolesivi, che possono rappresentare sia l’effetto di uno stato di distacco assoluto dal mondo, sia un modo per evocare tale distacco.

I pazienti borderline con questi atti cercherebbero di intervenire sul loro stato di disregolazione emotiva.

Con lo scopo di stabilire quali fattori determinano il senso di vuoto, il gruppo di ricerca di Bolzano ha condotto la presente ricerca su un gruppo di 45 pazienti diagnosticati con disturbo Borderline, di cui 27  donne e 18 uomini che venivano seguiti in una struttura psichiatrica del nord Italia.

Ai partecipanti sono stati somministrati i seguenti test psicologici:

– SCID II ( Intervista per la formulazione della diagnosi dei disturbi di personalità riportati sull’Asse II del DSM-IV;

– Emptiness Sense Scale ( Questionario sulla valutazione del senso di vuoto);

– Barrat Impulsivity Scale 11 ( Questionario sulla valutazione della impulsività);

– Aggression Questionnaire; (Questionario sulla valutazione dell’aggressività);

– Difficulties in Emotion Regulation Scale (Questionario sulla difficoltà di regolazione

emotiva);

– Anger Rumination Scale (Questionario sulla Ruminazione rabiosa);

I dati ottenuti sono stati analizzati attraverso diverse statistiche multivariate mettendo in relazione lo stato di vuoto, l’esperienza di disregolazione emotiva e diversi altri fattori come l’impulsività e l’aggressività.

Dai risultati emerge come il senso di vuoto funzioni da fattore mediazionale che determina il sintomo ma solo nella presenza della disregolazione emotiva. I risultati ottenuti potrebbero spiegare da dove deriva il senso di vuoto che, analizzato in questo prospettiva, potrebbe costituire il “sintomo” cardinale della disregolazione emotiva.

Inoltre i risultati suggeriscono come attraverso il concetto del senso di vuoto si possa rappresentare in modo più chiaro e definito l’esperienza emotiva problematica attraverso il riconoscimento degli antecedenti che caratterizzano in termini emotivo/cognitivo le esperienze.

Gli studi futuri si dovrebbero focalizzare sulla costruzione di uno specifico protocollo di intervento clinico sullo stato mentale del vuoto che permetta di verificare se attraverso la terapia possa essere elaborato.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • R., Petet, 2011.   Approaching Emptiness: Subjective, Objective and Existential Dimensions. Journal of Religion and Health, 3, 558-563.

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