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Leader maltrattante? Effetti negativi su tutto il gruppo!

FLASH NEWS

 

Un recente studio condotto tra Cina e Stati Uniti dall’Università del Michigan ha riscontrato che un atteggiamento negativo da parte del leader non influisce negativamente solo su chi lo subisce, ma ha ripercussioni su tutto il gruppo.

Per questa ricerca sono stati studiati 51 gruppi di lavoro in Cina e successivamente lo studio è stato replicato in condizioni controllate in un laboratorio negli Stati Uniti con 300 partecipanti circa.

Oggetto di studio sono stati gli abusi di tipo non-fisico, come ad esempio maltrattamenti verbali o email umilianti, e i risultati dimostrano che la vittima di tali abusi si sente svalutata e contribuisce meno al gruppo, ma anche gli altri membri della squadra ne subiscono effetti indiretti e l’intero gruppo può entrare in conflitto.

Il superiore che scredita un lavoratore o lo mette in ridicolo, infatti, non solo influenza negativamente il lavoro e il comportamento della vittima ma può scatenare simili comportamenti di ostilità reciproca anche tra gli altri componenti del gruppo.

Secondo Crystal Farh, ricercatore, queste scoperte potrebbero essere spiegate dalla teoria dell’apprendimento sociale secondo cui le persone imparano e mettono in atto comportamenti basati sull’osservazione dell’altro, in questo caso il capo.

Studi come questo sono di grande rilevanza per quelle compagnie che si trovano ad affrontare gruppi di lavoro difficili o con leader maltrattanti, mette in luce la necessità di lavorare per migliorare non soltanto la leadership ma anche le relazioni interpersonali che si sono instaurate all’interno del gruppo e soprattutto indirizzare gli sforzi verso la ricostruzione della fiducia reciproca e di un clima armonioso, oltre che a risanare l’autostima della vittima dei maltrattamenti.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Stress lavoro-correlato e l’insegnamento – Psicologia

 

STRESS LAVORO-CORRELATO E RUOLO DOCENTE

Abstract

Quella dell’insegnante e’ considerata una professione di aiuto a pieno titolo e vista dall’opinione pubblica come una condizione privilegiata,della quale medici e psichiatri sottovalutano la conseguente “componente stressogena” (cfr. Lodolo D’Oria, Bulgarini d’Elci, Bonomi , Della Torre, Di Valsassina, Fasano, Giannella, Ferrar, Waldis, Pecori e Giraldi, 2009). Questo articola riporta i più noti studi sull’argomento e ne mette in rilievo i punti nevralgici.

Indice

Capitolo 1 Prima Parte

Introduzione al lavoro di Tesi

1.1. Lo stress come costrutto psicologico: fenomenologia dello stress e processi correlati. pag. 4
1.1.2 Le variabili organizzative connesse allo stress lavoro correlato. pag. 5
1.1.3. Stress lavoro correlato, benessere organizzativo e ruolo docente. pag. 7
1.1.4. Il Modello VARP. pag. 8

Capitolo 2

Introduzione alla seconda parte

2.1.Considerazioni conclusive. pag. 10

Bibliografia. pag. 13

Capitolo Primo

Introduzione

Quella dell’insegnante e’ considerata una professione di aiuto a pieno titolo e vista dall’opinione pubblica come una condizione privilegiata, della quale medici e psichiatri sottovalutano la conseguente “componente stressogena” (cfr. Lodolo D’Oria, Bulgarini d’Elci, Bonomi , Della Torre, Di Valsassina, Fasano, Giannella, Ferrar, Waldis, Pecori e Giraldi, 2009).

In uno studio di Pithers e Fogarty (1995) si sostiene, sia la modalità pervasiva con cui il costrutto lavoro stress-correlato entra a far parte del mondo della scuola, sia il fatto di non avere disponibilità di strumenti investigativi su uno o più pattern psicopatologici in modo tale da essere oggetto di una valutazione standardizzata. Su questa linea gli autori propongono uno strumento denominato Occupational Stress Inventory (l’acronimo corrispondente e’ OSI) che, nello specifico, misura lo stress sul lavoro (nel contesto scolastico) e le strategie di Coping del soggetto.

In una ricerca condotta in Spagna con 724 insegnanti di scuola primaria e secondaria, e’ emerso un dato particolarmente significativo ovvero che gli insegnanti percepiscono come barriere allo svolgimento del proprio lavoro livelli elevati di stress e ansia. Tali disfunzionalità, a livello di funzionamento psichico, creano una maggiore difficoltà nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative (tra cui riunioni, piani di lavoro, organizzazione inter-dipartimentale). Gli insegnanti sono costretti, in mancanza di altre risorse, a basarsi spesso su livelli di auto-efficacia (il più delle volte tuttavia inadeguati al proprio ruolo) e su strategie di Coping sovente inefficaci come discuteremo più avanti.

Dallo studio condotto da Pithers e Soden (2010) viene sottolineato il fatto che il ruolo docente (anche nelle scuole statunitensi) e’ sottoposto a livelli significativi di stress rispetto al tipo di lavoro svolto, ai ritmi e ai tempi impiegati nell’arco della giornata dai singoli insegnanti per affrontare al meglio la propria professione.

  1.1 Lo stress come costrutto psicologico: fenomenologia dello stress e processi correlati

Lo stress, termine che rimanda ai concetti di “stretto”, “chiuso”, “compresso”, e’ stato particolarmente studiato a partire dalla seconda metà del ‘900. Colui che si e’ proposto come pioniere nell’approfondimento scientifico del termine stress, e’ Hans Selye. Egli (1973) ha definito lo stress come risposta aspecifica dell’organismo per ogni richiesta effettuata su di esso dall’ambiente esterno.

Selye parla di Sindrome generale di adattamento ovvero General Adapatation Syndrome e utilizza l’acronimo GAS (1950). Tale quadro sindromico risulta suddiviso in tre categorie: vi e’ una prima fase definita di “allarme”, un secondo step definito “fase di resistenza” ed un’ultima fase denominata “esaurimento funzionale”. Selye attraverso i suoi numerosi esperimenti associò ognuna delle tre fasi ad un rilascio di ormoni corticali specifici e disponibili in quel dato momento. Riconobbe anche il ruolo determinante dell’ipofisi nella risposta dell’organismo allo stress.

La letteratura indica che il concetto di stress raccoglie in sé due aree, una definita eustress (reazione positiva), ed una definita distress (reazione negativa). Il soggetto stressato, quindi, avverte la necessità di impiegare risorse ed energie superiori a quelle che utilizza normalmente.

Lo studioso Lazarus (1966) ha introdotto il termine coping per delineare un tipo di risposta finalizzata a mantenere uno stato di equilibrio. Il soggetto, quindi, agisce in modo tale da fornire risposte adeguate che si focalizzano sui compiti e sulle emozioni provate.
Lazarus sostiene (1996) che il ruolo giocato dal fattore “sostegno sociale” e’ di primaria importanza e rappresenta una dimensione trasversale a molte strategie di coping.

E’ dunque probabile che il legame tra coping e benessere assuma una circolarità, in quanto entrambi si influenzano reciprocamente.
All’interno di una qualsiasi organizzazione, compresa quella scolastica, l’individuo necessita di potenziare al massimo le proprie ‘capacita’ di adattamento’ in modo da potersi allineare alle continue trasformazioni del mondo del lavoro.

Burke (2002) propone un modello che ingloba il coping nei paradigmi più generali dello stress e prende in considerazione diversi aspetti: l’ambiente lavorativo, la valutazione cognitiva dell’evento, le reazioni individuali agli stressors, il benessere e l’assenza di tensione individuale, lo stato di salute/malattia, altre caratteristiche individuali. Lazarus (1996) ha posto l’accento sulla valutazione cognitiva come componente fondamentale del processo ermeneutico di comprensione del binomio stress-coping ed ha rilevato tre ambiti fondamentali: – una valutazione primaria della situazione; – una valutazione cognitiva o secondaria; – una valutazione terziaria.

1.1.2. Le variabili organizzative connesse allo stress

Come sostiene Avallone (2011) l’asse teorico-concettuale che determina e definisce lo stress lavoro-correlato trova ampio consenso nella correlazione tra ambiente e individuo, ovvero la relazione che si crea tra queste due costanti e’ inscindibile nel senso che lo stress prende forma nella relazione che si crea tra ambiente e individuo e non e’ insita ne’ nell’uno, ne’ nell’altro.

Come sottolineato da Lazarus e Folkman (1984) esistono in letteratura due differenti stressor, quello di ‘sfida’ o challenge stressor e quello di ‘ostacolo’ o hidrance stressor. Mentre uno stressor di sfida pone l’individuo nella condizione di attivare tutte le risorse e le competenze per affrontare la situazione, nello stressor ostacolo la sfida posta all’individuo viene avvertita essenzialmente come una minaccia.

Si e’ visto che ‘la quantità di lavoro e’ una delle variabili che determina elevati livelli di stress tra i lavoratori (Stewart, 1976); tuttavia, sia il sovraccarico che il sottocarico possono generare disequilibrio psico-fisiologico nell’individuo.

Per quanto riguarda il disengagement lavorativo (tradotto come disimpegno lavorativo) e’ utile rilevare come la conseguenza primaria di questo costrutto possa essere la disaffezione verso il proprio lavoro. A questo riguardo O’Neill (1994) sottolinea l’importanza, per esempio, della personalizzazione del proprio spazio lavorativo, in modo tale da permettere al lavoratore di aumentare la percezione del controllo sul proprio ambiente di lavoro. In questo senso, gli insegnanti non hanno l’opportunità, nello svolgere il proprio lavoro, di personalizzare il proprio spazio lavorativo. Molti studi hanno trovato delle correlazioni significative tra un numero di ore complessivo trascorse sul luogo di lavoro e determinati indicatori riguardanti benessere fisico e psicologico. Ne consegue che, laddove vi e’ l’opportunità di essere autonomi nella pianificazione del proprio orario di lavoro, in quei casi la prevenzione dello stress risulta maggiore.

Dal punto di vista relazionale, l’impatto che ha la comunicazione all’interno della propria organizzazione lavorativa, non e’ da sottovalutare. Ad esempio Aberg (1997) rintraccia quattro funzioni all’interno della comunicazione organizzativa: a) sostenere le operazioni legate ai diversi processi produttivi; b) rappresentare, ovvero definire profilo, identità, immagine finalizzate al mantenimento di un equilibrio interno alla propria organizzazione lavorativa; c) informare l’impresa nella sua interezza al fine di promuovere un maggior benessere sul piano comunicativo; d) socializzare e promuovere una maggior circolazione di informazioni. Inoltre risulta di fondamentale importanza monitorare in modo fluido le relazioni, sia inter-gruppo, sia intra gruppo all’interno del settore professionale di appartenenza del soggetto.

Al contempo Greenberg (1990) definisce “equità all’interno dell’ambiente di lavoro” un sistema caratterizzato da tre elementi fondamentali: a) fiducia; b) lealtà; c) rispetto. Anche lo sviluppo di carriera e’ un altro baricentro da considerare. Vi e’ dunque uno stretto legame tra competenze, sviluppo di carriera e giustizia organizzativa. Seconda la Career motivation theory (London e Mone, 2006) una progressione di carriera inferiore rispetto alle proprie attese si potrebbe configurare come una potenziale fonte di stress su cui porre l’attenzione.

1.1.3. Stress e ruolo docente

In uno studio pubblicato da Bogaert, Deforche, Clarys, Zinzen (2014), si mette in risalto la condizione della professione docente prevalentemente caratterizzata da alti livelli di stress fisici e psicologici, che possono essere alleviati attraverso la partecipazione regolare per esempio ad una attività fisica (physical activity.che utilizza l’acronimo di PA). Tuttavia, l’effetto di quest’ultima sulla salute mentale e fisica non è sempre costante e dipende anche dal tipo di attività fisica eseguita.

Lo scopo di questo studio è stato quello di esaminare la salute mentale, fisica collegandola al lavoro degli insegnanti della scuola secondaria (appartenenti allo specifico gruppo intra-nazionale studiato dei fiamminghi) e identificare l’impatto su tali variabili medico/sanitarie e sui fattori demografici, in relazione al tipo di attività fisica svolta.

Questa ricerca si e’ basata su un sondaggio online condotto su un campione rappresentativo di insegnanti della scuola secondaria (N= 1066, di età media 40 anni; 68 per cento di sesso femminile).

I livelli di attività fisica e il tempo in cui l’individuo rimaneva seduto sono stati stimati usando il Questionario Internazionale sull’ attività fisica e sulla salute percepita (come salute mentale e fisica). Si e’ utilizzato in particolare la Short Form a 36 voci di tale strumento. I fattori di stress lavoro-correlati, come l’insoddisfazione sul lavoro, lo stress occupazionale e l’assenteismo sono stati esaminati tramite il T-test, ANOVA e analisi di regressione lineare. Laddove la partecipazione alla PA e’ risultata di ampio impiego questo fattore e’ stato associato a una percezione di salute più positiva. Al contrario, i livelli più elevati di PA e “tempo seduto” occupazionale hanno fatto riscontrare un impatto negativo sulla percezione del concetto di salute.

Poiché i livelli di salute percepita negli insegnanti delle scuole secondarie ‘sono tendenzialmente bassi’ (cfr. Aiello et al, 2014), ciò permette sul piano della ricerca di utilizzare i risultati conseguiti su questo campione come gruppo di riferimento per interventi volti a migliorare la salute. Solo il tempo libero PA è stato associato con un più positivo modello di salute percepito. Questa evidenza potrebbe indicare che gli insegnanti che svolgono più attività fisica durante il tempo libero, o in maniera più autonoma, possono essere più resistenti (strategie di coping) ai problemi di salute fisica e mentale.

In tal direzione la ricerca futura potrebbe, ad esempio, verificare se la promozione del tempo libero PA tra gli insegnanti possa avere uno specifico potere di migliorare anche la loro salute mentale, e contrastare le associazioni negative tra salute degli insegnanti e la loro PA occupazionale.

1.1.4. Il modello VARP

Il Modello VARP (Aiello, Deitinger, Nardella 2012) e’ costruito come un sistema integrato e multidimensionale per la valutazione dei rischi psicosociali in contesti lavorativi. All’interno del Modello VARP sono stati delineati i modelli VARP-G, VARP-M, CSL e VAL-MOB. Il modello valuta dimensioni organizzative, lavorative e individuali e permette al ricercatore di avere dati validi e attendibili sulle ricadute che le suddette dimensioni hanno sulla salute e il benessere psico-fisico del lavoratore.

Nella prima versione il Modello VARP ha delineato uno strumento composto di 600 item, poi ridotti nella versione di validazione. Si tratta di una scala Likert nella quale il soggetto esprime il proprio grado di accordo/disaccordo su sette alternative di risposta.
Il Modello raccoglie al suo interno 5 fasi: 1) Identificazione dei rischi/pericoli psicosociali; 2) Valutazione dei rischi psicosociali; 3) Attuazione di strategie di controllo del rischio e quindi studio approfondito dei rischi potenziali; 4) Monitoraggio dell’efficacia delle strategie intraprese; 5) Rivalutazione del rischio.

La VARP-G e’ utilizzabile all’interno di aziende con un numero di dipendenti superiore ai 250, la VARP-M invece e’ contestualizzabile all’interno di aziende con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 250, dunque ottimale per una istituzione scolastica. Per le piccole aziende e’ stata approntata la CSL, ovvero la Check List stress lavoro correlato. Abbiamo poi la VARP-Mob per la valutazione di situazioni conflittuali estese anche a situazioni di vero e proprio Mobbing all’interno di aziende, comprese anche le Istituzioni scolastiche.
Gli insegnanti sperimentano ogni giorno intensi carichi emotivi. La cronicità dello stress avvertito dal docente può determinare la comparsa di sintomi inerenti la sindrome del Burnout, l’esaurimento emotivo, atteggiamenti di distruttività e cinismo verso l’insegnamento, problemi relazionali e sensazioni di ridotta realizzazione personale (Brackett et al., 2010; Guglielmini & Tatrow, 1998; Vanderberghe & Huberman, 1999).

In una recente ricerca di Churchod-Ruedi, Doudin and Moreau (2010) sulle competenze emotive degli insegnanti, gli autori considerano che l’abilita’ di regolazione delle emozioni derivi dal rapporto tra emozioni vissute e emozioni manifestate. Nella Figura n.1(*) e’ rappresentato uno schema attinente alla citazione di cui sopra.

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(*)Figura 1 (Tratta e riadattata (Brackett et al , 2010; . Guglielmi & Tatrow , 1998; Vandenberghe & Huberman , 1999)

L’insegnamento rappresenta comunque, non solo un veicolo di conoscenze e punti salienti all’interno del “caleidoscopio disciplinare”, ma anche una esperienza di auto ed etero conoscenza di sé e dell’altro. L’altro e’ altro da sé, e proprio per questo rappresenta una fonte inestimabile di punti di forza (spesso anche di debolezza) che permeano la vita professionale di ogni docente a qualsiasi livello di insegnamento, dalla scuola dell’infanzia, all’università ed oltre.

  2.1. Considerazioni conclusive

Gli insegnanti hanno bisogno, per salvaguardare la relazione educativa, di acquisire capacità di gestione delle proprie emozioni in relazione agli eventi scolastici con un forte impatto emotivo, ad esempio fallimenti educativi, conflitti con i colleghi (Albanese, Doudin, Farina, Forilli e Streppareva, 2007).

La relazione educativa con lo studente, proprio perché particolarmente esposta a incomprensioni e conflitti, necessita da parte del docente di un investimento cognitivo ed emotivo che lo aiuti a gestire le proprie emozioni.

Come sostenuto anche da Gross (2002), essere in possesso di buone strategie di regolazione delle emozioni facilita l’interazione positiva verso gli altri. La capacità di regolare le proprie emozioni e’ una componente fondamentale dell’intelligenza emotiva in riferimento alla capacità’ di regolare i propri stati emotivi e quelli altrui (Mayer e Salovey, 1997).

La capacità dell’insegnante di gestire le emozioni in risposta ad eventi stressanti indubbiamente aiuta nella prevenzione di quadri psicopatologici, tuttavia la ricerca non ha ancora chiarito in che modo tale capacità di controllare le proprie emozioni “renda immune” il docente dal rischio di Burnout.

Alcuni strumenti permettono di indagare più a fondo gli aspetti critici del Burnout, per esempio il Maslach Burnout Inventory, 1981 il cui acronimo e’ MBI. Il MBI è un questionario multidimensionale che affronta tre diversi campi della professionalità:
• esaurimento emotivo,
• depersonalizzazione,
• realizzazione personale.

Il Copenaghen Burnout Inventory (Kristensen et al., 2005), il cui acronimo e’ CBI, attualmente dispone di quattro diverse versioni finalizzate alla popolazione generale (MBI-GS), a professionisti con grande coinvolgimento umano (MBI -HSS), agli insegnanti (MBI-ES), e agli studenti (MBI-SS; Schaufeli, Leiter, e Maslach, 2009).

Maslach (1976, 1996, 2001) definisce il Burnout come sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotto senso di soddisfazione che si presenta tra individui che lavorano a contatto con altri individui. Aggiunge che si tratta di una condizione di esaurimento in cui un individuo manifesta cinismo circa il significato della propria professione e dubbi sulle proprie capacità’ di sostenere gli impegni lavorativi (Maslach et al., 1996).

Utilizzando tali strumenti e’ possibile sviluppare quadri di ricerca più approfonditi e affidabili che tengono conto di numerose variabili.

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Il progetto CARE per ridurre lo stress degli insegnanti 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Aiello A., Deitinger P., Nardella C. (2012). Il modello “Valutazione dei Rischi Psicosociali” (VARP). Metodologia e strumenti per una gestione sostenibile nelle micro e grandi aziende: dallo stress lavoro-correlato al mobbing, Franco Angeli, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Brackett, M.A., & Rivers, S.E.,(2014.) Transforming students’ lives with social and emotional learning. In R. Pekrun & L. Linnenbrink, Garcia (eds.) Internation Handbook of emotions in education (pp. 368-388) New York, Taylor&Francis.
  • Doménech Betoret F, Gómez Artiga A. (2010). Barriers perceived by teachers at work coping strategies self efficacy and burn-out, Span J Psychol. Nov;13(2):637-54).
  • Lazarus, R. S. & Folkman, S. (1984). Stress, appraisal and coping. New York: Springer.
  • Lazarus, R. S. (1991). Emotion and adaptation. London: Pxfford University Press.
  • Lazarus, R. S. (1993). Coping theory and research: Past, present and future. Psychosomatic medicine, 55, 237-247.
  • Lazarus, R. S. (1998). Fifty years of the research and theory of R. S. Lazarus. An analysis of historical and perennial issues. Mahwah, New Jersey: Lawrencw Erlbaum Associates.
  • Leiter M.P., Maslach C., (2000). Preventing burnout and building engagement. Jossey-Bass, San Francisco (tr. it.: OCS Organizational Checkup System. Come prevenire il burnout e costruire l’impegno. O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze, 2005).
  • Lodolo D’Oria,V., Bulgarini d’Elci, G., Bonomi, P., Della Torre Di Valsassina, M., Fasano, A. I., Giannella, V., Ferrari, M., Waldis, F., Pecori Giraldi, F. (2009). Are teachers at risk for psychiatric disorders? Stereotypes, physiology and perspectives of a job prevalently done by women. Med Lav, 100(3):211-27.
  • Maslach C., Jackson S.E., (1981) MBI: Maslach Burnout Inventory. Consulting Psychologists Press, Palo Alto, CA (tr. it. a cura di Sirigatti S., Stefanile S., (1993) MBI Maslach Burnout Inventory. Adattamento italiano. O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze).
  • Palmonari A. (a cura di ). Psicologia dell’Adolescenza. Il Mulino, Bologna 1993
  • Pithers RT, Fogarty GJ (1995) Symposium on teacher stress. Occupational stress among vocational teachers. Mar; 65 ( Pt 1):3-14.
  • Selye H., Fortier C. (1950). Adaptive reaction to stress; Psychosom Med, 12: 149—157
  • Selye H. (1950). Stress and the general adaptation syndrome; Br Med J.,1
  • Selye, H. (1936). A syndrome produced by diverse nocuous agents; Nature.
  • Sherman, G. D., J. J. Lee, A.J.C. Cuddy, Renshon, J., Oveis, C., Gross, J.J. & S. Lerner., J. Leadership Is Associated with Lower Levels of Stress. (2012). Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America 109: 17903–17907.

Il fascino di una donna deve fare i conti con le stagioni!

 

 

I risultati hanno dimostrato che i punteggi attribuiti alla categoria “viso” rimangono pressoché stabili nel tempo, mentre per la categoria “forma del corpo” si evidenzia una variazione caratterizzata da punteggi più bassi in estate e più alti in inverno, ossia una minor capacità di attrazione nella stagione estiva contrapposta ad una maggiore capacità in inverno.

Ogni anno ai telegiornali, su riviste o on-line viene redatta almeno una classifica relativa alle donne più sexy del mondo, creando in molti casi vere e proprie “icone sexy” cui molte donne aspirano di somigliare e che molti uomini sognano di incontrare. I criteri di formulazione di queste classifiche sono molteplici, ad esempio i lineamenti del viso o il colore dei capelli, e considerati universalmente condivisibili.

Ebbene, per anni ci siamo sbagliati. Infatti secondo una ricerca dell’Università di Breslavia, in Polonia, condotta da Pawlowski e Sorokowski (2008) risulta che il criterio che determina quanto una donna sia attraente è la stagione: infatti agli occhi degli uomini le donne sono più attraenti in inverno.

Nelle diverse stagioni le persone mostrano variazioni nei livelli ormonali, nel carattere e nella percezione. Pawlowski e Sorokowski ritengono che queste fluttuazioni stagionali potrebbero causare variazioni anche nella percezione delle capacità di attrazione sia di se stessi che degli altri.

Lo studio è stato condotto nell’arco di cinque stagioni (da inverno 2004 ad inverno 2005) su 114 uomini di Breslavia e dintorni e di età compresa tra i 16 e i 53 anni, cui è stato chiesto di valutare la piacevolezza di immagini femminili presentate in modo casuale e suddivise in 3 categorie differenti, tra cui anche forma del corpo (attraverso foto di donne in costume da bagno) e viso.

Per ogni stimolo era possibile dare un punteggio che andava da un minimo di 1 (poco attraente) ad un massimo di 9 (molto attraente). Per ogni stagione sono stati poi combinati i punteggi assegnati agli stimoli della stessa categoria.

Gli sperimentatori, ad ogni sessione di valutazione, hanno anche chiesto ai partecipanti se avessero in corso una relazione sentimentale e la relativa durata e raccolto il punteggio di attrazione della partner, con lo stesso metodo utilizzato per gli stimoli.

Quello che è merso dai risultati è che i punteggi attribuiti alla categoria “viso” rimangono pressoché stabili nel tempo; mentre per la categoria “forma del corpo” si evidenzia una variazione caratterizzata da punteggi più bassi in estate e più alti in inverno, ossia una minor capacità di attrazione nella stagione estiva contrapposta ad una maggiore capacità in inverno.

Per quanto riguarda i punteggi relativi alla capacità di attrazione delle partner non sono risultate alterazioni significative, anche se si è riscontrato un leggero calo in estate.

Secondo gli autori la stagionalità osservata potrebbe essere legata all’effetto “contrasto”: in estate gli uomini sarebbero maggiormente esposti a corpi femminili, piuttosto che in inverno, aumentando anche la probabilità di vedere donne molto attraenti, tendono di conseguenza a valutare meno attraenti un numero maggiore di donne.

Mentre per quanto riguarda la categoria “viso” non emergerebbe lo stesso effetto, dal momento che nella vita reale non esiste una variabilità stagionale legata all’esposizione a tali stimoli: il viso è scoperto per la maggior parte dell’anno.

Quindi, secondo questo studio, è più facile che un uomo consideri una donna più attraente in inverno perché non è abituato a vederla in costume da bagno…allora forse per essere sempre attraenti le donne dovrebbero usare il cappotto d’estate e il bikini in inverno?

In attesa di una risposta, per il futuro sarebbe interessante verificare e chiarire con ulteriori studi se queste differenze di valutazione rispetto alle capacità attrattive degli altri potrebbero essere effettivamente correlate alle fluttuazioni stagionali di livelli ormonali, carattere e percezione; e indagare anche se la variabile “genere” può avere un ruolo significativo, assegnando questa volta alle donne il compito di dare i punteggi ad immagini maschili.

 

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FLASH NEWS

Alcuni ricercatori della Concordia University si sono interessati proprio alle dinamiche di apprendimento attraverso il gioco, più precisamente il momento di gioco tra fratelli.

Il gioco è uno degli elementi fondamentali per la crescita del bambino, si sa, ed è altrettanto noto che imparare giocando è molto più efficace.

Tuttavia sempre più spesso i pomeriggi dei bambini vengono occupati da attività strutturate, sport, passatempi; anche ai più piccoli si riempiono le giornate di impegni lasciando così poco spazio ai momenti più ludici e liberi.

Alcuni ricercatori della Concordia University si sono interessati proprio alle dinamiche di apprendimento attraverso il gioco, più precisamente il momento di gioco tra fratelli.

Come raccontato nello studio pubblicato sul Journal of Cognition and Development, hanno osservato e registrato 6 sessioni di 90 minuti di gioco spontaneo tra due fratelli nelle case di 39 famiglie di ceto medio, in Canada.

Dalle osservazioni è emerso che i bambini danno vita a diversi momenti di reciproco insegnamento in maniera del tutto spontanea: imparare a contare, imparare a usare una lavagna, usare il gessetto, sono tutte azioni che si insegnano a vicenda mentre giocano. Spesso il fratello più grande assume il ruolo di insegnante anche senza una esplicita richiesta, altre volte invece è il più piccolo a chiedere espressamente aiuto.

In ogni caso queste occasioni di apprendimento si sono dimostrate molto più frequenti di quanto i ricercatori si aspettassero.

La Dottoressa Nina Howe, ricercatrice, consiglia dunque a tutti i genitori non soltanto di permettere che questi momenti accadano ma anche di sollecitarli e di lasciare che i figli giochino insieme più tempo possibile.

É importante dare loro il tempo e lo spazio per interagire e promuovere l’insegnamento e l’apprendimento fornendo loro strumenti, sia in termini di giochi che di opportunità, per stare insieme.

 

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Leader si nasce o si diventa?

 

 

La genetica, le reti neurali, l’intelligenza emotiva e la flessibilità sono caratteristiche che racchiudono in loro la chiave del successo di un leader. Si tratta di alcune caratteristiche innate altre apprese, ma l’ingrediente essenziale è saperle condire incanalandole, ottenendo così quanto di più ambito ci possa essere: diventare un leader.

Una domanda che da sempre arrovella la mente è: Leader si nasce o si diventa? Interrogativo arduo al quale è difficile attribuire una risposta!

Da sempre gli psicologi sociali hanno cercato risposte postulando teorie, modelli, ma esattamente una opinione univoca fatica ad arrivare. Allora, nell’era delle neuroscienze, si procede studiando il cervello per comprendere il funzionamento cognitivo di un leader. Ed ecco che alcuni dati cominciano a emergere.

Qualche anno fa, esattamente nel 2012, è stato pubblicato un libro dal titolo Neuroleadership in cui si assumono modelli di funzionamento neurale da cui si possono trarre diverse tecniche per apprendere come poter diventare un leader. In realtà si tratta per lo più di metafore di funzionamento, nulla a che vedere con il vero meccanismo neurale che sottende il processo di pensiero di un leader.

Per scoprire qualcosa in più sulla neurobiologia del leader siamo andati a spulciare in letteratura e abbiamo individuato una ricerca, effettuata su gemelli, in cui si parla di una certa quota di ereditabilità all’essere leader. Pare che i leader presentino una variante del gene per il recettore dell’acetilcolina, neurotrasmettitore associato a caratteristiche di personalità quali la persistenza nel perseguire un determinato obiettivo. Quindi, tutti coloro che mostrano questa particolare variazione genetica, tendenzialmente, potrebbero ambire a diventare dei leader.

Ma non basta! Determinante per il futuro di ognuno è avere una storia di vita che incanali questa capacità fino ad portarlo alla vetta. Insomma, avere questo gene non è la sola cosa necessaria , ma bisogna trovare terreno favorevole, ambientale e culturale, che possa indurre e condurre fino alla tanto ambita leadership.

E non è finita qui! In una recente ricerca realizzata dalla Case Western Reserve University di Cleveland sono state individuate due reti neurali interconnesse che si riferiscono a due stili di pensiero: un sistema chiamato Task Positive Network, coinvolto nella risoluzione dei problemi, nella focalizzazione dell’attenzione, nella capacità di prendere le decisioni e di controllare le azioni, e un altro, il Default Mode Network, che ha a che fare con i comportamenti etici e sociali, con la consapevolezza di sé, con le cognizioni sociali, con la creatività e con la morale.

Si tratta di reti neurali specifiche, di cui una più centrata sulla risoluzione dei problemi e l’altra più attenta alla dimensione emozionale e relazionale. Sono presenti in ognuno di noi e funzionano in maniera alternata. La peculiarità del leader, dunque, è saperle usare entrambi, ma soprattutto passare velocemente da una rete all’altra a seconda delle situazioni. Infatti, i primi risultati di questa ricerca mostrano che la flessibilità del pensiero gioca un ruolo primario per l’efficacia della leadership. In sostanza, secondo questo gruppo di ricerca, l’essere repentinamente flessibili pare sia la caratteristica fondamentale che dovrebbero avere i leader.

Ma, come dice il professor Richard E. Boyatzis, il tutto deve essere condito con capacità di saper usare la propria intelligenza sociale ed emozionale per gestire le proprie emozioni e quelle degli altri, creando in questo modo relazioni migliori. Se si riuscisse a fare tutto questo in maniera adeguata il successo della leadership è garantito.

Il leader, dunque, è colui che è in grado di comprendere e gestire la propria emotività, che è capace di capire la visione del mondo dell’altro e le sue emozioni. L’empatia, cognitiva ed emotiva, è infatti una caratteristica fondamentale per il buon funzionamento di un gruppo di lavoro, essenziale per creare relazioni efficienti e funzionali e per motivare e ispirare il proprio team. La discussione e il confronto, così come la condivisione di una visione possono aiutare a stimolare lo sviluppo e l’innovazione creativa.

Per concludere, la genetica, le reti neurali, l’intelligenza emotiva e la flessibilità sono tutte caratteristiche che racchiudono in loro la chiave del successo di un leader. Si tratta, dunque, di alcune caratteristiche innate altre apprese, ma l’ingrediente essenziale è saperle condire incanalandole, ottenendo così quanto di più ambito ci possa essere: diventare un leader.

 

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Mentire non sapendo di mentire: testimonianza Inconsapevole

 

Quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, più che la verità, presenta una sua personale rappresentazione della stessa.

 

Tra il mentire – cioè dire consapevolmente cose false – e dire la verità cioè riferire i fatti in modo conforme al loro effettivo svolgimento – esiste una terza possibilità. […] Quella del teste che riferisce una certa versione dei fatti nella erronea convinzione che essa sia vera. Si tratta di quella che potremmo definire la falsa testimonianza inconsapevole. […] Non ci vuole la malafede. Basta avere una teoria da confermare, il nostro cervello fa tutto da solo, percependo, rielaborando, verbalizzando in modo da adattare i fatti alla teoria. Creando, anzi direi: assemblando il falso ricordo.

La voce di Guido Guerrieri, magistralmente diretta dalla penna di Gianrico Carofiglio, ben ci introduce nella tela in cui si intrecciano testimonianza e memoria, verosimiglianza e verità, probabilità o certezza, e lo fa con la ricercatezza dello scrittore e l’accuratezza del magistrato, che sposandosi hanno dato vita al ciclo di legal thriller, di cui “Testimone inconsapevole” rappresenta il punto d’inizio.

In ambito penale, la testimonianza è un mezzo di prova, raccolta oralmente (art. 526 c.p.p.) durante il contraddittorio (art. 111 Cost.), che verte ad esaminare il teste circa i fatti determinati che costituiscono oggetto di prova (art. 194 c.p.p.).

Una testimonianza è considerata attendibile quando c’è corrispondenza tra ciò che viene raccontato e ciò che è accaduto. La testimonianza dipende in primo luogo dalla memoria, il cui elemento cruciale è l’accuratezza, ossia la corrispondenza tra il contenuto dell’evento e il contenuto della memoria (Mazzoni, 2003).

È bene precisare che quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, presenta più che la verità, una sua personale rappresentazione della stessa (Gulotta, 2008a). Infatti, nel momento in cui si è chiamati a riferire di quanto si è stati testimoni, si innesca un meccanismo di recupero delle informazioni relative all’evento, immagazzinate in memoria, e una rielaborazione delle stesse. È lo stesso meccanismo che governa le funzioni mnestiche.

La memoria è un processo psichico complesso che consente all’individuo di codificare, immagazzinare e recuperare le informazioni attraverso un’attiva rielaborazione dei contenuti. Questo implica che il contenuto rievocato (recuperato) sia una ricostruzione dell’informazione originaria.

 

Dalla codifica fino alla rievocazione, ciascuno di noi è influenzato dalle conoscenze che già possiede sul mondo e sullo stato delle cose e dagli schemi e gli script che utilizza per organizzare tali conoscenze: essi plasmano il modo in cui un oggetto, un evento o una situazione verranno poi percepiti, codificati e rappresentati nella memoria a lungo termine (MLT) e vanno ad innescare quel ragionamento deduttivo che, tramite inferenze, consente di colmare i vuoti del ricordo, consentendo alla persona di ricostruire il puzzle del ricordo per intero.

La stessa cosa vale per la testimonianza: per poter definire attendibile una testimonianza e accurato un ricordo bisogna considerare alcuni fattori, quali l’intenzionalità a ricordare nel momento in cui si assiste all’evento, l’interpretazione che è stata data all’evento al momento della codifica, il tempo trascorso e le inferenze che il testimone subisce tra il momento in cui assiste all’episodio e il momento in cui è chiamato a testimoniare.

L’interpretazione si attiva immediatamente e in maniera automatica, e poggia saldamente sulla nostra personale modalità di organizzare e dare significato alla realtà esperita; le inferenze si nutrono delle nostre conoscenze, dei nostri schemi cognitivi, dei nostri stereotipi; in più, distorsioni e informazioni fuorvianti (post-event misinformation effect) possono insinuarsi, anche tramite elementi introdotti da domande suggestive, nella tela del ricordo, rimanendone impigliate, cristallizzandosi in esso e divenendo parte integrante dello stesso: nasce così quello che si può definire un falso ricordo.

È opportuno precisare che creare un falso ricordo non significa mentire (Gulotta, 2008b, p. 5):

Tra mentire e dire il falso ed essere sincero e dire la verità c’è una bella differenza. Io posso mentire e dire la verità o essere sincero e dire il falso. […] La verità è quello che noi riteniamo di credere essere vero. 

Può sembrare paradossale, ed infatti lo è: la conoscenza sulla quale possiamo contare non riguarda una realtà oggettiva, ontologica, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione che diamo alle nostre esperienze, siano esse anche eventi e situazioni di cui siamo testimoni, ossia la realtà che attivamente costruiamo per dare ad essa un senso e un significato, che è solo nostro.

È quello che succede al testimone chiave del processo del romanzo di Carofiglio: una testimonianza inconsapevolmente confusa, guidata dal pregiudizio, deviata da indagini inquinate e domande fuorvianti, volte a confermare impropriamente la teoria iniziale, che però diventa lente con cui osservare i fatti e leggere gli indizi, per trovare a tutti i costi non il colpevole, ma un colpevole per il più orribile e innaturale dei crimini: la morta violente di un bambino.

È il rischio che si corre in processi di questo tipo, dove il fine non può e non deve giustificare la modalità di condurre le indagini e appurare l’effettiva natura dei fatti: bias cognitivi, domande suggestive e un’epistemologia verificazionista non possono trovare posto in questo ambito.

Ci si auspica che la scienza psicologica possa sedere legittimamente al fianco della giurisprudenza, in nome di quel giusto processo (art. 111 Cost.), a cui la Costituzione anela.

L’arringa dell’avvocato Guerrieri docet. La competenza romanzata di Carofiglio illumina.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Carofiglio, G. (2002). Testimone inconsapevole. Palermo: Sellerio Editore. ACQUISTA
  • Gulotta, G. (2008a). Breviario di psicologia investigativa. Milano: Giuffè Editore. ACQUISTA
  • Gulotta, G. (2008b). Trattato della menzogna e dell’inganno. Milano: Giuffè Editore. ACQUISTA
  • Mazzoni, G. (2003). Si può credere ad un testimone? Bologna: Il Mulino. ACQUISTA

 

 

Aggressività nella vita quotidiana: le sue diverse forme

 

 

FLASH NEWS

Quando pensiamo al termine aggressione, probabilmente ci viene in mente una rissa da bar o situazioni in cui le persone sono violente con degli sconosciuti. Ma una ricerca della Georgia Regents University suggerisce che in realtà l’aggressività è il più delle volte espressa nei confronti delle persone che ci circondano nella vita di tutti i giorni: partner, amici, familiari e colleghi.

L’aggressione non deve essere confusa con assertività, ambizione, ostilità o rabbia, che implicano l’espressione di un’ emozione, ma non sono comportamenti necessariamente diretti ad altri esseri viventi. L’aggressione infatti è sempre diretta verso qualcuno.

I ricercatori hanno costruito un questionario in grado di distinguere tra diverse manifestazioni di aggressività. L’aggressività diretta, per esempio, comporta l’affrontare un’altra persona con parole o azioni offensive, come l’urlare o il colpire. L’aggressione indiretta, invece, comprende sia i comportamenti indiretti come “l’agire attraverso un’altra persona o un oggetto,” (ad esempio il danneggiamento di proprietà o lo spettegolare), che i comportamenti passivi, come ad esempio il silenzio.

I dati del questionario hanno anche fornito alcuni spunti interessanti che sembrano andare contro le comuni concezioni di aggressione.

Mentre l’aggressione è generalmente associata a un comportamento conflittuale, i partecipanti al questionario in realtà segnalano una preferenza per l’utilizzo di comportamenti passivi piuttosto che direttamente aggressivi o di aggressività indiretta.

E, mentre gli stereotipi di genere suggeriscono che gli uomini siano più aggressivi delle donne, i dati dei questionari rivelano che gli uomini sono solo più propensi a utilizzare forme dirette di aggressione; uomini e donne infatti sono ugualmente propensi a utilizzare forme di aggressione indiretta.

Il tipo di aggressione sembra dipendere, almeno in parte, dalle nostre reti sociali. In uno studio con studenti universitari di sesso maschile, i giovani con una rete sociale stretta (cioè le 10 persone con cui più spesso interagivano si conoscevano tra loro), erano meno propensi all’espressione di aggressività diretta e più propensi a quella indiretta, di uomini le cui reti sociali non erano così interconnesse.

I risultati della ricerca suggeriscono, inoltre, che complessivamente sono i partner e gli amici a sopportare il peso dell’aggressività, ma sono i fratelli ad avere maggiore probabilità di subire forme di aggressione diretta. Le persone infatti tendono a confrontarsi con fratelli (e partner) faccia a faccia; quando si tratta di amici, invece, l’aggressività indiretta, come il pettegolezzo maligno, è la forma più comune.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Intervista a Dolores Mosquera: Elogio alla lentezza nel dialogo clinico

 

Dolores Mosquera è una psicologa e psicoterapeuta e nel panorama europeo è delle principali esperte e formatrici sul tema del trauma complesso e della dissociazione in pazienti con disturbi di personalità e disturbi dissociativi.

Vive e lavora in Spagna in numerosi centri clinici ed è autrice di importanti volumi sul tema del trauma complesso e dei trattamenti più efficaci presenti nel panorama scientifico attuale. Il suo lavoro terapeutico è il risultato dell’integrazione tra diversi approcci e tecniche, quali l’EMDR e la terapia sensomotoria, con importanti risultati di efficacia nel trattamento di patologie anche molto complesse come il Disturbo Dissociativo dell’Identità.

La cornice di riferimento è quella della teoria della Dissociazione Strutturale di Van der Hart, già discussa in precedenti contributi sull’argomento, in cui il funzionamento della personalità viene compreso individuando diverse parti del sé, in grado di rispondere a differenti situazioni e stimoli ambientali. Nell’approfondimento del funzionamento generale del paziente, questa cornice prevede l’individuazione di parti del sé più adulte e sviluppate sul profilo cognitivo, emotivo e comportamentale, che permettono cioè alla persona di portare avanti la propria vita in modo abbastanza efficace e soddisfacente, e di parti bambine e meno sviluppate dal punto di vista cognitivo, che portano cioè la persona a sentire le proprie emozioni in modo dirompente e a manifestarle con comportamenti spesso dannosi, per sé o per gli altri, o comunque poco efficaci nel soddisfare i bisogni affettivi che le generano.

In questo quadro generale, l’aspetto innovativo del lavoro di Dolores Mosquera, e della sua collega Annabel Gonzalez, è l’utilizzo del dialogo tra le parti accedendo al funzionamento del paziente attraverso la/e parti adulte e promuovendo il dialogo tra queste e le parti più piccole ed emotive; il terapeuta ha dunque innanzitutto il ruolo di moderatore tra le istanze di tutte le parti – in un lavoro terapeutico paragonabile a quello di una terapia di gruppo – e soprattutto di osservatore attento, in grado di cogliere l’ingresso di una o più parti all’interno del dialogo in corso. Questo secondo aspetto può essere di più facile interpretazione quando nel dialogo clinico emergono parti più attive e reattive, legate cioè ad un intenso iper-arousal (es: parti arrabbiate, parti spaventate, parti ansiose,..), mentre può diventare più difficile individuare l’ingresso di parti meno reattive (ipo-arousal), ma altrettanto profondamente sofferenti (es: parti bloccate nel trauma, parti sole, parti abbandonate, parti distaccate, parti che non sentono il corpo,..).

Il lavoro clinico presentato in occasione del Corso Internazionale Nuove Frontiere nella cura del Trauma tenutosi a Venezia lo scorso Giugno, si è concentrato proprio su tecniche specifiche da utilizzare nel portare avanti questo dialogo, ponendo molta attenzione soprattutto ai messaggi che arrivano dalle parti meno riconoscibili, ma che lavorano dietro le quinte, generando situazioni di conflitto talora intensissime e spesso non riconosciute, né esplicitate dal paziente.

In particolare ci si è concentrati sul riconoscimento dei segnali più subdoli e meno evidenti, osservando con estremo dettaglio le reazioni legate a reazioni di ipo-arousal di origine dissociativa: reazioni di blocco, di assorbimento, di assenza, di riduzione dello stato di coscienza o di alterata percezione del corpo. Questi segnali possono allarmarci meno, come terapeuti, rispetto a comportamenti più esplosivi o semplicemente risultare meno visibili, ma sono in ogni caso il sintomo di un grave fallimento integrativo, in genere scatenato dal dialogo in corso e dunque fondamentale da cogliere nel nostro lavoro.

I principali accorgimenti da seguire, secondo la Dott.ssa Mosquera, per lavorare in sicurezza con pazienti gravemente traumatizzati sono:

  • riconoscere il ruolo di ogni parte e validare la sua importanza,
  • capire i motivi del perché ogni parte ha bisogno di restare separata,
  • parlare attraverso la parte più adulta e con più risorse,
  • parlare a tutto il sistema includendo sempre tutte le parti,
  • le parti non sono persone diverse, ma parti diverse della stessa persona e nessuna va ignorata,
  • accettare l’esperienza del paziente, anche se non si è d’accordo,
  • enfatizzare sentimenti di empatia interna tra le parti, di negoziazione e di cooperazione,
  • partire sempre dalle risorse disponibili, anche se poche e molto primitive
  • proporre soluzioni di gestione dei conflitti interni, che siano accettate da tutte le parti coinvolte,
  • guadagnare, prima di ogni intervento, la fiducia di ogni singola parte.

E infine, raccomandazione importantissima, la velocità del lavoro terapeutico è sempre dettata dalla parte che procede più lentamente, senza la quale non si può e non si deve andare avanti!

Il lavoro presentato a Venezia ha dato l’occasione di acquisire strumenti utili per osservare e riconoscere tutte le parti presenti nella personalità dei pazienti, per raccogliere le più importanti situazioni trigger che generano conflitto tra le parti e per promuovere il dialogo tra esse in cerca di una soluzione più integrata, alla quale tutte devono necessariamente contribuire, dalla più piccola a quella più adulta.

Nell’intervista che segue la Dott.ssa Mosquera ci offre spunti clinici importanti e tecniche di emergenza da utilizzare in momenti particolari della terapia, in attesa della pubblicazione del suo nuovo libro su Trastorno Límite de la Personalidad y EMDR di prossima traduzione in inglese ed in italiano.

 

Quali sono le funzioni principali svolte dalle parti ostili, che di fatto ostacolano il processo terapeutico?

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Tutte le parti, collaborative o distruttive, hanno avuto e hanno tutt’ora un ruolo adattivo fondamentale per la vita del  paziente e questo ruolo va capito e condiviso con lui/lei, prima di qualunque intervento di modifica. Le funzioni  principale che l’individuo delega alle parti ostili sono in genere:

  • mantenere le difese dissociative utilizzate per isolare e contenere ricordi traumatici o per proteggere la personalità principale dalla rivelazione di segreti non condivisibili all’esterno;
  • contenere sentimenti come la rabbia che il paziente non può tollerare o che non ha potuto esprimere, as es., per timore delle rappressaglie dell’abusatore;
  • controllare il dolore infliggendolo alla personalità principale adulta, al posto di subirlo senza alcun controllo. Questo favorisce l’identificazione con l’aggressore e così la persona smette di sentirsi vulnerabile e vittima;
  • proteggere la personalità principale generando sospetti verso persone che potrebbero abusare di loro oppure punendola per controllare una condotta che potrebbe esporla al rischio di un abuso;
  • fornire la possibilità di mantenere un attaccamento con un caregiver che a volte è abusatore e a volte è affettuoso. Dissociando in parti distinte e separate gli aspetti buoni e cattivi del caregiver, il bambino può preservare il vincolo con il caregiver buono.

Tutte sono funzioni importantissime per la sopravvivenza fisica ed emotiva della persona e non possiamo pensare di modificare una parte ostile, di attaccarla o di ignorarla senza generare un conflitto intensissimo. Con tutte abbiamo bisogno di stabilire un contatto e una relazione di fiducia e collaborazione.

 

Come riconoscere, nel dialogo clinico, quando le parti ostili lavorano “dietro le quinte”?

Generalmente dò molta attenzione soprattutto al linguaggio del corpo. Il linguaggio dissociativo ci dice molto di più di quello che il paziente riesce a comunicare attraverso le parole. Qualche volta è possibile notare come alcune parti stiano comunicando internamente proprio davanti a noi e lo si può osservare ad esempio, attraverso cambi di postura, cambiamenti nello sguardo, atteggiamenti di ascolto interno. Ognuno di questi cambiamenti può indicarci che il paziente è bloccato. A volte questi segnali possono essere molto subdoli e perciò di solito cerco di comunicare con il paziente in modo tale che l’intero sistema ne sia informato e che non si senta minacciato. Ad esempio mi capita di dire E’ importante che tutte le parti della mente ora ascoltino ciò che diremo riguardo il trattamento, C’è qualcosa che possiamo dire a questa parte spaventata per rassicurarla?, Chiedile se possiamo fare qualcosa perché non si senta minacciata in questo momento.., Se comunichiamo solo alla parte adulta più funzionale o ci alleiamo con lei, il conflitto è garantito!

 

Quali sono i segnali di ipo-arousal dissociativo più frequenti?

I segnali di ipo-arousal sono molto importanti, ma tuttavia più difficili da identificare rispetto a quelli di iper-arousal. Ci dicono in generale che in quel momento per il paziente il nostro lavoro è troppo intenso. Quando i nostri pazienti non riescono a dire stop, il corpo e la mente lo fanno al loro posto. In uno stato di ipo-arousal possiamo notare ad esempio che il paziente non è più lì presente con noi o che non è connesso emotivamente a quello che racconta. Alcuni segnali tipici che precedono l’ipo-arousal possono essere il mal di testa, le vertigini, un senso di ottundimento, confusione, il paziente inizia a parlare molto più lentamente o a sentire una crescente sensazione di stanchezza.
Un ipo-arousal positivo, legato ad esempio ad uno stato di profondo rilassamento, permette alla persona di essere presente e consapevole nella situazione in cui è, di essere connessa con il proprio corpo e con le proprie emozioni. Di restare in contatto con la realtà.

 

Quali sono gli interventi principali da utilizzare in questi casi?

E’ fondamentale innanzitutto identificare l’ipo-arousal come stato emotivo, proprio perché il paziente tende a disconnettersi abbiamo bisogno di insegnargli a riconoscerlo in tempo. Altra cosa importante è individuare le situazioni trigger che lo causano, perché ci danno informazioni utili rispetto a quali aree della sua storia sono ancora inaccessibili per lui/lei e dunque per noi. L’idea generale che guida il mio lavoro è di tenere il paziente sempre consapevole e presente in ogni momento per evitare questo tipo di reazioni. Quando tuttavia succede, gli esercizi da fare per uscire dall’ipo-arousal possono essere: ricercare attivamente il contatto oculare con noi (sistema di coinvolgimento sociale), modificare la distanza in cui siamo seduti chiedendo feedback su questo (si sente meglio se mi siedo qui? Dove posso mettermi perché si senta più a suo agio?); in genere è utile aiutare il paziente ad orientarsi nel presente (ora è qui con me, siamo nel 2014, non si trova più lì, è riuscito a scappare e ora è al sicuro), si può chiedere di portare l’attenzione ad alcuni oggetti nella stanza e di provare a descriverli. In questa fase sono molto utili anche esercizi di grounding per recuperare il contatto con il proprio corpo e con sensazioni più piacevoli.

 

Quali esperimenti tipici della terapia sensomotoria risultano di solito efficaci in questi casi?

Alcuni esperimenti corporei della terapia sensomotoria, come ci insegna Pat Ogden, principale referente internazionale per questo metodo, possono essere molto efficaci. Un esempio è il mirroring , in cui il terapeuta può mettere in atto un comportamento che richiami sensazioni di calma e sicurezza di fronte al paziente, invitandolo a fare lo stesso (es: prendere un cuscino e tenerlo tra le braccia), oppure risulta molto utile talora invitare il paziente a notare la propria postura e proporre piccoli cambiamenti (es: se notiamo che la spina dorsale tende ad assumere una posizione accasciata, si può proporre di sedersi più dritti e notare la differenza); permettere sempre al paziente di scegliere cosa fare può essere di per sé un’esperienza ripartiva importantissima, poiché il vissuto di impotenza nel trauma può essere così intenso da diventare pervasivo (es: dare la possibilità al paziente di cambiare la sua posizione nella stanza o sulla sedia e invitarlo ad osservare come si sente). Invitare il paziente a completare alcuni gesti solo accennati durante il racconto di un evento significativo e fargli notare come si sente mentre lo compie (es: stringere un pugno se c’è un’emozione di rabbia, stendere le mani in avanti per ‘mettere distanza’ dall’aggressore). In generale gli esercizi di automonitoraggio in terapia sensomotoria insegnano ad osservare l’esperienza interna rintracciandone emozioni e sensazioni corporee, mentre gli esperimenti possono aiutare a sviluppare nuovi pattern di comportamenti utili ad incrementare, ad esempio, il proprio senso di sicurezza o anche solo la possibilità di ottenere sensazioni più confortevoli dal proprio corpo, esperienza spesso gravemente compromessa nei pazienti traumatizzati.

 

Quali segnali ci dicono invece che possiamo andare avanti nel processo terapeutico?

In generale sappiamo che l’integrazione sta procedendo bene se notiamo la comparsa di sentimenti di empatia tra le parti in conflitto, se c’è consapevolezza di quello che è accaduto di traumatico nel passato e di quello che le parti hanno dovuto fare per superarlo, se cambiano le credenze nucleari per la persona (Sono stata fragile e impotente nel passato, ma ora sono diversa, posso scegliere!), se le parti dissociate vengono riconosciute come parti di sé (Quella bambina sono io!), se la rabbia viene sentita e riconosciuta dal paziente e non più dissociata, se viene mantenuta la consapevolezza di essere nel presente e di avere risorse e possibilità nuove (il passato è passato, posso evitare che influenzi il mio presente!).

 

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Elettroshock. Sono ancora vivo. E la chiamano depressione (2014) – Recensione

 

Il libro  è scritto da Ignazio Cucci, che racconta la sua lotta con una grave forma di depressione con aspetti psicotici. E’ un racconto senza filtro, drammatico e variegato, con uno stile narrativo pieno di libere associazioni che ti investe come un ciclone.

Chi in Italia si interessa, anche minimamente, di sport è molto probabile che conosca il giornalista sportivo Italo Cucci, ospite di tante trasmissioni televisive e già direttore di Guerin Sportivo e del Corriere dello Sport-Stadio. Cucci ha fatto la storia del giornalismo sportivo italiano, distinguendosi, a mio avviso, per una particolare simpatia romagnola, insieme a una sorta di saggezza da vecchio tifoso. Vedere il suo nome scritto su un libro che ha come titolo la parola “elettroshock” scritta in rosso a caratteri cubitali, lo confesso, mi ha stupito non poco.

Il libro in realtà ha la prefazione di Italo Cucci, mentre il resto del volume è scritto dal figlio Ignazio, che racconta la sua lotta con una grave forma di depressione (bipolare?) con aspetti psicotici. E’ un racconto senza filtro, drammatico e variegato, con uno stile narrativo pieno di libere associazioni che ti investe come un ciclone e si arricchisce con una sezione di poesie e addirittura con uno stralcio della tesi di laurea dell’autore sulla Roma dei gladiatori.

Nella storia troviamo il classico confronto con una figura paterna ingombrante (sindrome da figlio d’arte?) e con una famiglia piena di personaggi bizzarri e avventurosi, che potrebbero avere avuto un’influenza sui deliri grandiosi di Ignazio, che arriva, nei momenti più acuti della malattia, a identificarsi e a sentire la voce di personaggini del calibro di Alessandro Magno, Napoleone Bonaparte, Giulio Cesare, Silvio Berlusconi (ebbene sì…), ma soprattutto Frank Sinatra.

L’effetto sul lettore è un po’ tragicomico, con bonarie prese in giro al mondo psi in frasi del tipo

Vorrei segnalare che questo libro è scritto con potenti brainstorming, Serendipity e metodo A-HA (soluzione psicologica non preventivata ad un problema dopo un lungo percorso ragionativi) e infine con ipnosi suggestiva e training autogeno alla Schultz.

Ignazio racconta il lungo e difficile percorso di cure che l’ha portato da diversi psichiatri e psicologi senza ottenere sostanziali miglioramenti, fino all’incontro con il luminare italiano della psicofarmacologia Gian Battista Cassano, che con una buona dose di neurolettici e con l’elettroshock (o meglio terapia elettroconvulsiva- TEC), riesce a far ritrovare un certo equilibrio nella mente dell’autore, che oggi lavora come bibliotecario nell’Isola di Pantelleria.

Il trattamento elettroconvulsivo ricevuto da Ignazio non ha niente a che vedere con gli elettroshock modello Qualcuno volò sul nido del cuculo, ben impressi nel nostro immaginario collettivo. E’ sicuramente più paragonabile a un piccolo intervento chirurgico fatto in anestesia generale. 

Non mi sono ribellato perché l’anestesista e Gabriella mi infondevano fiducia, sentivo amore intorno a me, non minacce

scrive l’autore, evidenziando come l’elemento di umanità risulta fondamentale per accettare anche i trattamenti più invasivi e potenzialmente traumatizzanti.

L’elogio della TEC (inventata, ricordiamocelo, dai nostri connazionali Cerletti e Bini negli anni venti) è sicuramente una presa di posizione coraggiosa, soprattutto in Italia, dove, a differenza dei paesi anglosassoni, viene ancora molto demonizzata anche per ragioni ideologiche.

È vero, l’elettroshock funziona. È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci la radio riprende a funzionare diceva infatti Franco Basaglia, anche se la letteratura scientifica internazionale considera la TEC come un trattamento importante e di comprovata efficacia per la depressione resistente ai farmaci, soprattutto quando sono presenti anche sintomi psicotici (Kellner et al., 2012).

Secondo altri studi avrebbe anche un’efficacia nella schizofrenia, soprattutto quando si cerca un effetto rapido sulla sintomatologia produttiva, anche se i risultati sono meno evidenti (Tharyan, 2005). In Italia le strutture attrezzate a somministrare tale cura sono nove, e nel triennio 2008-2010 sono stati eseguiti poco più di 1400 trattamenti, soprattutto a pazienti con gravi forme depressive resistenti alle terapie farmacologiche.

Navigando sul web si possono trovare diverse testimonianze di persone come Ignazio che hanno tratto beneficio dalla TEC, come quelle di molte altre persone che non l’hanno trovato e che lamentano solo gli effetti collaterali soprattutto di tipo cognitivo (amnesie retrograde).

L’impressione è che di fronte ai disturbi psichiatrici gravi come le depressioni con aspetti psicotici (che alcuni fanno rientrare nella diagnosi controversa di disturbo schizoaffettivo) siamo ancora molto lontani da trattamenti standardizzabili e che la variabilità individuale abbia ancora un peso troppo forte. Anche nell’uso degli psicofarmaci ci si trova spesso a dare dei calci a delle radio rotte. Le storie come quella di Ignazio fanno comunque ben sperare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Cucci, I., Cucci, I. (2014). Elettroshock. Sono ancora vivo. E la chiamano depressione. Minerva Edizioni ACQUISTA

La cecità attenzionale: perchè i bambini non sanno attraversare la strada

FLASH NEWS

 

I ricercatori di Londra hanno scoperto che le capacità percettive e l’attenzione dei ragazzi si sviluppano lentamente, e che questo li rende meno capaci di notare una macchina in arrivo, per non parlare della prossimità e velocità del veicolo.

Essere colpiti da una macchina è tra le principali cause di morte tra i bambini da 5 a 9 anni di età. Non è difficile capire perché. I bambini sono facilmente distratti, e perché sono più piccoli, sono più a rischio di morire a causa delle ferite.

Uno studio recente suggerisce che la ragione non sta solo nella facilità con cui i più piccoli si distraggono o nella loro vulnerabilità fisica, ma nel fatto che i bambini semplicemente non vedono le auto che vanno verso di loro.

I ricercatori di Londra hanno scoperto che le capacità percettive e l’attenzione dei ragazzi si sviluppano lentamente, e che questo li rende meno capaci di notare una macchina in arrivo, per non parlare della prossimità e velocità del veicolo.

Per testare la percezione periferica nei diversi gruppi di età, lo psicologo ricercatore Nilli Lavie e il suo team hanno reclutato più di 200 visitatori al Museo della Scienza di Londra per un esperimento.

I partecipanti, in 7 diverse prove, sono stati invitati a giudicare quale percorso in un incrocio fosse il più lungo. Nella settima prova, un quadrato lampeggiava sullo schermo e ai partecipanti è stato chiesto se lo avevano notato o no. La difficoltà del compito è stata regolata cambiando la differenza nella lunghezza del percorso: meno differenza, maggiore difficoltà.

Gli adulti erano in grado di individuare il quadrato lampeggiante in più del 90% dei casi nelle prove di difficoltà moderata e bassa. I bambini più piccoli hanno avuto una capacità significativamente inferiore di avvistare il quadrato lampeggiante: solo il 10% dei bambini tra i 7 e i 10 anni lo identificava durante il compito moderato e il 50% nel compito facile.

Questo semplice test dimostra quanto i bambini siano particolarmente soggetti alla cecità attenzionale.

In uno studio del 2010, un team di ricercatori dell’Università di Londra simulò in laboratorio una situazione di attraversamento di strada, per confrontare le capacità percettive degli adulti con quelle di bambini di varie età. In questa simulazione, una macchina si avvicinava su una strada, variando in dimensioni, velocità e posizione. Gli scienziati hanno anche calcolato la velocità dei pedoni.

I risultati indicano un chiaro modello di sviluppo nella percezione dei veicoli incombenti: i bambini diventavano più acuti all’aumentare dell’età, ma neanche quelli più grandi mostravano capacità paragonabili a quelle degli adulti.

Questo suggerisce che i meccanismi neurali che sottendono questa abilità sono sottosviluppati nei bambini. Paradossalmente, le auto più veloci sembravano meno incombenti di quelle lente, creando l’illusione che non si stanno avvicinando. Infatti secondo le rilevazioni dei ricercatori i bambini non erano in grado rilevare in modo affidabile una macchina che si avvicina a velocità superiori a 20 miglia all’ora (circa 30km/h).

Inoltre la percezione dei bambini dell’approssimarsi di una macchina era peggiore se la macchina era leggermente di lato o se loro si stavano muovendo, entrambe condizioni comuni nelle reali situazioni di attraversamento della strada.

 

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 La Mindfulness migliora l’attenzione anche nei bambini – Psicologia & Meditazione

 

BIBLIOGRAFIA:

Congresso SITCC 2014: Intervista a Rita Ardito

 

State of Mind intervista Rita Ardito

Co-Presidente del XVII congresso SITCC

 

 

State of Mind: A settembre si terrà il XVII Congresso Nazionale SITCC. I temi principali trattati saranno CAMBIAMENTO, CONSAPEVOLEZZA e RELAZIONE. Come mai la decisione di concentrarsi proprio su questi temi?

Rita Ardito: Questi temi sono quelli che guidano l’agire terapeutico e sui quali si concentra la ricerca degli ultimi anni. Il cambiamento è l’obiettivo della psicoterapia e lo strumento prezioso della psicoterapeuta è la relazione. La tradizione cognitivista italiana ha sempre avuto nella costruzione della relazione fra terapeuta e paziente uno dei suoi punti di forza, declinandola nei vari ambiti clinici. Un costante monitoraggio e una consapevolezza di sé da parte del terapeuta è ciò che ai nostri allievi insegniamo come via fondamentale. Incontrarsi su questi, ma anche altri, temi caldi del dibattito psicoterapeutico è un’occasione per confrontarsi e crescere nella riflessione teorica e nella pratica clinica. Al congresso infatti saranno presenti tutti i teorici del settore con i loro contributi più recenti.

 

 

SOM: Qual è lo stato della ricerca italiana su questi argomenti? Quali correnti ritiene stiano dando i contributi più interessanti a riguardo?

RA: Beh a questa domanda risponderei alla fine dei lavori: Bruno Bara e io abbiamo organizzato questo congresso proprio per poterlo scoprire insieme.

 

 

SOM: Al di là dei temi trattati, in che cosa questo congresso vuole essere diverso dai precedenti?

RA: Personalmente non ho mai pensato di voler fare un congresso diverso dai precedenti, spero che questo congresso, anzi, riesca ad ereditare il meglio che ciascun congresso SITCC ha offerto ai suoi soci. Mi piace dunque più parlare dei punti di forza dell’evento di Genova, senza volere per questo fare un paragone con quelli che lo hanno preceduto. Sicuramente l’attenzione ai temi che possano vedere l’integrazione felice di riflessione teorica messa al banco di prova della ricerca a favore di una pratica clinica aggiornata e informata. Inoltre, una grande attenzione ai giovani clinici e ricercatori: non solo simposi ma spazio grande ai poster che, arrivati numerosissimi (questo è un grande orgoglio di Bruno Bara e mio) vedono la partecipazione di giovanissimi colleghi e allievi che fanno ricerca di eccellenza. A questi giovani la vetrina prestigiosa del congresso SITCC e la possibilità di vedere premiati i migliori 3 lavori oltreché di averne pubblicati una selezione in un numero monografico della rivista della società “Quaderni di psicoterapia” .

 

 

SOM: Che cosa ama di più dei congressi SITCC ?

 
RA:
Gli incontri. È molto bello riveder colleghi che sono anche amici ed è molto bello poterlo fare ascoltando le loro relazioni piuttosto che bevendo un caffè insieme nelle pause o sorseggiando buon vino a cena. La dimensione sociale la valorizziamo coi nostri pazienti e ne insegniamo l’importanza ai nostri allievi riconoscendone la forza preziosa: i congressi SITCC sono anche questo.

 

 

SOM: Indubbiamente i congressi sono un’occasione per conoscere persone nuove, i giovani che presentano i propri lavori, rivedere colleghi; ma al di là dell’essere un’occasione per fare networking, questi congressi hanno poi un’utilità concreta, pratica? In altre parole, se ne riscontra successivamente l’influenza sia in campo clinico che nella ricerca?

RA: A mio parere sì. Non sono mai uscita da un congresso SITCC senza pensare di non avere imparato qualcosa di nuovo. E questo mi è capitato tanto nelle sessioni plenarie, quelle degli ospiti di chiara fama, quanto nei simposi di giovani colleghi.

 

 

SOM: Stiamo attraversando un periodo di crisi economica e partecipare ad un congresso di questa portata è un investimento economico importante (iscrizione, trasferimenti, pernottamento…). Quali sono le motivazioni per le quali vale la pena fare questo investimento e partecipare al XVII Congresso Nazionale SITCC?

RA: Spero che ciò che motiva le persone a venire sia la voglia di condividere il proprio lavoro e la curiosità di ascoltare quello altrui. Inoltre sono convinta che il senso di appartenenza alla società sia un motore importante. La SITCC è un porto a cui ogni suo buon marinaio ritorna, speriamo che più che mai a Genova tanti terapeuti possano ritornare per la voglia di portare esperienza dei mari esplorati.

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Mr Jones – Cinema & Psicoterapia nr. 27

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #27

Mr Jones (1993)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

Mr-JonesI modelli e gli approcci al Disturbo Bipolare sottolineano l’importan­za di una prospettiva multifattoriale, che consideri il ruolo delle variabili sociali, biologiche e psicologiche. Nel generare e mantenere il disturbo predominano le variabili biologiche.

Un film di Mike Figgis. Interpretato da Richard Gere, Lena Olin, Anne Bancroft, Tom Irwin, Delroy Lindo. USA 1993. Romantico/Drammatico.

Trama

Mr. Jones è un uomo affetto da disturbo bipolare con fasi maniaca­li e depressive. Dall’interruzione dell’“Inno alla Gioia” di Beethoven all’interno di un auditorium gremito fino all’inverosimile, all’arrampi­carsi sui tetti di un edificio in costruzione preso dalla voglia di volare fino a cadere in uno stato di depressione con idee suicidarie, il film è un susseguirsi di rappresentazioni che mostrano la sintomatologia dei maniaco-depressivi.

La dottoressa Libbie Bowen dell’ospedale psichiatrico dove viene ricoverato Mr Jones prende in carico il paziente e intreccia una dram­matica storia d’amore violando la deontologia professionale, nonostan­te i consigli del suo supervisore e direttrice della clinica.

La scena finale mostra la dottoressa che salva il paziente arrampi­candosi sul tetto di una casa in costruzione con tanto di bacio finale.

Come sottolinea Kezich in una recensione del film “siamo tra una ver­sione ripulita in stile anni ’90 di “La fossa dei serpenti”, con le tipizzazioni fret­tolose di matti e maniaci, e la versione modernizzata di “Io ti salvero’” di Hitchcock, dove la dottoressa Ingrid Bergman soccorreva amorosamente il paziente Gregory Peck”.

Motivi d’interesse

Il film mostra il susseguirsi imprevedibile di episodi di alterazione dell’umore con comportamenti caratteristici che compromettono il fun­zionamento sociale e lavorativo.

 

Dal passo danzante, braccia a mulinel­lo, alle chiacchiere inarrestabili, per continuare con scrosci improvvisi di riso e crisi di pianto, Mr. Jones butta via i soldi in mance e regali, si muove nell’immenso salone di vendita di un negozio di musica e infine si siede ispirato al pianoforte, incanta uomini e donne trascinato da un ingannevole desiderio di onnipotenza. Coltiva intenzioni irrazionali e iperboliche come quella di volare, unite a quelle di interrompere questa altalena con la morte.

I modelli e gli approcci al Disturbo Bipolare sottolineano l’importan­za di una prospettiva multifattoriale, che consideri il ruolo delle variabili sociali, biologiche e psicologiche. Nel generare e mantenere il disturbo predominano le variabili biologiche.

Il film naturalmente trascura queste notazioni tecniche, ma le manifestazioni primarie della malattia che riguardano il comportamento e la psiche, con mutamenti profondi nella cognizione, negli umori, negli atteggiamenti e nei comportamenti ven­gono rappresentate discretamente.

La disregolazione dei ritmi circadiani, l’instabilità dei ritmi sociali, i cambiamenti positivi o negativi di vita, l’assenza di supporto sociale, le cognizioni intrattenute, il raggiungimento o il mancato raggiungimento di scopi nell’interpretazione di Gere sembrano abbastanza credibili.

Meno credibile è l’apporto tecnico che fornisce la dottoressa Bowen che mostra una classica violazione del setting, intrecciando una relazione affettiva con il paziente i cui sviluppi la narrazione evita di descrivere.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può essere molto utile per discutere con il paziente i segnali che indicano l’affacciarsi dello scompenso sia maniacale che depressivo e le conseguenze che i comportamenti agiti possono produrre in un periodo di lungo termine nella sua vita e in quella delle persone più vici­ne e significative.

Può rappresentare un’ottima base di discussione sulla relazione terapeutica e su possibili violazioni del setting. Rappresenta un utile supporto in fase di restituzione dell’assessment.

Trailer:

 

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La ricerca delle basi genetiche nel disturbo bipolare – Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma.   BOOKTRAILER  RECENSIONE 

Scoperta l’area cerebrale che spinge ad essere attivi!

FLASH NEWS

 

 

Un recente studio dell’istituto di ricerca di Seattle ha individuato l’area del cervello che potrebbe essere deputata al controllo della motivazione all’esercizio e alla partecipazione ad attività gratificanti, e potrebbe rivelarsi utile anche per migliorare i trattamenti per la depressione.

L’esercizio fisico è uno dei più efficaci anti-depressivi non farmacologici ed è noto che l’incapacità di provare piacere per le gratificazioni o in generale per esperienze piacevoli, sono segni caratteristici della depressione maggiore. Da qui l’importanza di una simile scoperta.

La ricerca è stata condotta su topi e i risultati indicano la abenula dorso mediale come responsabile del controllo del desiderio di fare esercizio; i topi, a cui venivano geneticamente bloccati i segnali provenienti da questa zona, infatti, erano letargici e correvano molto meno. Erano fisicamente capaci di correre ma apparivano immotivati a farlo. Dato che questa piccola regione cerebrale è molto simile negli umani e noi roditori, ci si aspetta che svolga la stessa funzione in entrambe le specie.

Oltre a far luce su regioni cerebrali poco studiate, ricerche come questa sono uno spunto interessante per future indagini sui trattamenti per la depressione e sulla possibilità di intervenire in maniera mirata per migliorare l’efficacia di alcuni di essi.

 

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La motivazione a essere attivi ed i comportamenti impulsivi

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Superare la depressione, un programma di terapia cognitivo-comportamentale- Recensione del libro di Levini, Michelin e Piacentini

 

Superare la depressione di Leveni, Michielin e Piacentini rappresenta proprio un manuale di auto-aiuto a orientamento cognitivo-comportamentale teso alla risoluzione dei sintomi depressivi in pazienti che ne soffrono.

Mi sento triste, non riesco a fare nulla, ho perso interesse in qualsiasi attività, sono un incapace!

Se un paziente riporta pensieri ed emozioni di questo genere, è molto probabile che si tratti di depressione e alcuni di loro potranno provare vergogna perché la considerano una debolezza o un castigo divino, altri si attribuiranno colpe personali per quanto succede loro, alcuni invece si sentiranno incompresi dagli altri.

In realtà, la depressione è un disturbo che causa molta sofferenza, ma che può essere superato con l’aiuto di uno psicoterapeuta o, in alcuni casi, anche con un buon manuale di auto-aiuto.

Superare la depressione di Leveni, Michielin e Piacentini rappresenta proprio un manuale di auto-aiuto a orientamento cognitivo-comportamentale teso alla risoluzione dei sintomi depressivi in pazienti che ne soffrono e questa edizione ne costituisce la revisione di una precedente del 2004.

La lunga esperienza degli autori con pazienti depressi ha fornito lo spunto per offrire ai lettori un modello di trattamento efficace nella maggior parte dei casi. La letteratura ha, infatti, dimostrato che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha la stessa efficacia degli psico-farmaci ed è preferibile a questi ultimi, in quanto non ha effetti collaterali e i miglioramenti sono più duraturi; tuttavia, nelle forme più gravi di depressione è possibile combinare la psicoterapia con gli psicofarmaci.

Il manuale è suddiviso in tre parti:

  • Nei primi 3 capitoli vengono fornite informazioni generali sulla depressione, la sintomatologia, le cause e le conseguenze, le principali terapie e viene esposto il modello comportamentale della depressione relativo alla riduzione delle attività e dei rinforzi e il modello cognitivo relativo alle principali convinzioni di base e pretese disfunzionali dei pazienti depressi;
  • La seconda parte del manuale è costituita dai capitoli 4 e 5; nel capitolo 4 si sottolinea l’importanza di riprendere a svolgere attività piacevoli, in quanto un circolo vizioso alla base della depressione è proprio quello relativo alla riduzione delle attività e dei rinforzi e, nel contempo, è fondamentale ridurre gli evitamenti e possibili comportamenti dannosi o controproducenti, come l’assunzione di alcol o sostanze o le abbuffate, ecc.; nel capitolo 5, invece, viene presentato un metodo strutturato di problem solving e di raggiungimento degli obiettivi;
  • La terza parte del manuale si sofferma sul modello cognitivo di trattamento della depressione; il capitolo 6 espone la tecnica degli ABC per individuare il legame tra eventi, pensieri ed emozioni e riporta i principali pensieri negativi su di sé, sugli altri e sul mondo che il paziente depresso generalmente sviluppa (la triade di Beck); il capitolo 7 riguarda la ristrutturazione cognitiva e, dunque, la messa in discussione dei pensieri disfunzionali e la sostituzione con pensieri alternativi più funzionali; il successivo capitolo si sofferma ulteriormente sulle convinzioni di base e le pretese disfunzionali, mentre il capitolo 9 descrive il meccanismo della ruminazione e come interromperlo; gli ultimi capitoli concernono la riduzione del senso di colpa che spesso attanaglia i pazienti depressi, il potenziamento delle abilità assertive e l’importanza del sostegno sociale per il superamento della depressione.

Nonostante l’apparente complessità del modello proposto, il manuale risulta di facile comprensione e si rivolge sia a pazienti che soffrono di depressione e che intendano seguire un trattamento cognitivo-comportamentale, sia ai familiari di pazienti depressi sia agli psicoterapeuti che vogliono applicare un protocollo di intervento cognitivo-comportamentale in modo strutturato.

Il testo risulta, inoltre, altamente motivante e validante della sofferenza realmente esperita dai pazienti depressi e fornisce continuamente incentivi per continuare a lottare per il superamento della depressione nonostante possibili momenti di sconforto e debolezza.

Termino questo commento sul manuale con una citazione di Albert Camus posta al termine del libro e che mi sembra assolutamente esplicativa delle intenzioni degli autori:

Nel profondo dell’inverno, finalmente scoprii che dentro di me c’era una invincibile estate. 

 

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Psicoterapia Metacognitiva: efficace per ansia e depressione – Meta-analisi

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Leveni, D., Michielin, P., Piacientini, D. (2014). Superare la Depressione, un Programma di Terapia Cognitivo- Comportamentale. Eclipsi, Firenze.  ACQUISTA

Mondovisione di Ligabue: recensione – Psicologia & Musica

Un viaggio doloroso, ma positivo: nell’ultima di copertina Ligabue osserva il cielo e le sue stelle, dalla prospettiva di un mondo non più sgualcito e spiegazzato perché Sono sempre i sogni a dare forma al mondo

 

Un mondo accartocciato, come un foglio pronto a finire in un cestino. Un mondo distratto, ma non distrutto. Un mondo che ha ancora qualcosa da dire, che reclama attenzione, abbracciato da ringhiere in cui il titolo del disco è impresso in lettere di un Carosello d’annata.Un mondo pronto a (ri) partire dal metallico tunnel di un aeroporto (seconda e terza di copertina), per attraversare luoghi, vivere guerre, terremoti, lutti, in un viaggio di istantanee dirette e senza sconti incastonate tra i testi.

Un viaggio doloroso, ma positivo: nell’ultima di copertina l’artista osserva il cielo e le sue stelle, dalla prospettiva di un mondo non più sgualcito e spiegazzato perché – e così chiude l’album

Sono sempre i sogni a dare forma al mondo.

Questa, la visione del mondo che Luciano Ligabue consegna al suo pubblico, con Mondovisione (Zoo Aperto srl, distribuzione Warner Music). Il lavoro, giunto a più di tre anni di distanza da Arrivederci Mostro, racconta in 14 tracce, di cui 2 strumentali, il percorso dell’artista, i suoi cambiamenti (non solo nel look), le sue esperienze e quelle di un’intera umanità ormai disabituata a
comunicare.

Un’evoluzione che si specchia anche nei suoni, sulla cui ricerca – afferma il cantautore in conferenza stampa – è confluito l’impegno maggiore. L’intento, sostiene, è quello di creare un prodotto il più possibile omogeneo all’ascolto, dove live e registrato riescono quasi a confondersi nelle stesse sonorità.

Più leggeri, anche alcuni arrangiamenti ed inserite – per dare respiro all’ascolto – le brevissime pause strumentali Capo Spartivento e Il Suono, Il Brutto e Il Cattivo. Il desiderio, sostiene, era quello di fare un disco in cui fossi presente e che rispecchiasse il suono del gruppo attuale e che schivasse il metodo di lavoro dei dischi moderni.

In fondo, per l’artista (Conferenza stampa, Milano, 22.11.13), il rock è il modo migliore per urlare i propri sentimenti in faccia alla gente .

Ad aprire il lavoro, è Il muro del suono. Un suono, senza compromessi e dal sapore live, quello delle chitarre che accompagnano l’urlo di rabbia che l’artista lancia contro chi riesce a dormire/comunque sia andata. Sotto accusa, gli occhi da sempre/distratti del mondo, dove ogni storia è riscritta in economia, dove i tempi della giustizia lacerano vite, dove il vampiro – nella scalata al successo – non chiede scusa e non paga per tutto quel sangue.

Ma quella gridata dal cantautore non è solo indignazione. È impulso ad abbattere il muro, a reagire, a trasformare la difficoltà in opportunità. Si, perché ognuno di noi può far molto. Si, perché un cerino sfregato nel buio/fa più luce di quanto crediamo.

Venature soul e sound più dolce, per Siamo chi siamo, seconda traccia in cui Ligabue si abbandona, nel cantato e nel recitato di chiusura, a riflessioni più introspettive, in cui l’ascoltatore può ritrovarsi mentre si osserva allo specchio e comprende che da certe certezze non si scappa. E se la vita non da indicazioni, ti mette lì a sbagliare, a scegliere percorsi tra mille incroci, sono le rughe a parlar chiaro dei tentativi che non ho mai fatto.

 

Tornano a vestirsi di rock, le note di Il volume delle tue bugie, quadro del disincanto femminile di chi scopre che la fiaba è ben diversa dalla realtà e si tatua un’anima dura dentro/molto più di quel che basta. Un brano che si fa apprezzare per la penna capace di delineare con estremo realismo il vissuto di una donna ferita, che ormai arrotonda per difetto e che mente – tradendosi – quando, di fronte al mare gira in fretta gli occhi e il cuore.

E non credo sia un caso, che il terzo brano lasci il posto alla favola, questa volta a lieto fine, il cui narrato è accompagnato dalla seducente atmosfera melodica di La neve se ne frega (già titolo di un romanzo di Ligabue). La ballata si muove sul suono fiabesco di una chitarra che trova il suo dialogo, nelle ultime note, in un pianoforte che non stupisce ma rassicura. Un brano che si ascolta
a sensi aperti, immaginandosi sfiorati dalle piume di una neve che cade e che costringe ad un tempo diverso. Molto intima, l’istantanea in cui il parlami davvero/dentro questo gelo ed il baciami davvero/che non casca mica tutto il cielo/che ci stiamo ancora sotto insieme evocano la magia di due ciglia bagnate che si promettono di tutto.

Torna il sociale con il singolo di lancio “Il sale della terra”, denuncia a chi, Montblanc tra le dita, può farti fuori. Nessuna impronta politica, però, perché anche le canzoni d’incazzatura sono canzoni sentimentali (dall’intervista concessa a Fabio Fazio).

Ancora amore in Tu sei lei, dichiarazione d’eterno che riflette il sogno di ogni donna: essere scelta, nonostante i difetti come il domani, il futuro, il progetto del proprio uomo. Un uomo che i tuoi occhi li conosce davvero (io li ho visti spesso nudi/ma non si vedeva mai la fine”).

Inietta energia pura, il rock della traccia Nati per vivere, in cui la rabbia diventa motivo per ricordarci che siamo sulla terra per vivere adesso e qui.

Una vita messa a dura prova in La terra trema, amore mio, pezzo dedicato al sisma che ha colpito l’Emilia e al bisogno vitale di una profonda ricostruzione – non solo architettonica – ma esistenziale (sottolinea il cantautore), tesa a riconquistare punti di riferimento, affetti e certezze. Amore, distruzione e morte, dunque, ma anche rinascita. Queste le chiavi del domani. Del resto, una catastrofe che cristallizza gli animi di fronte a L’urlo delle viscere – sia consentito citare un mio componimento poetico, scritto nella notte del sisma che ha distrutto la mia città nel 2009 – cambia prospettive e aspettative, perché ti pone di fronte ad un quadro in cui, paralizzato, vedi solo anziani fermi al muro/bambini già fantasmi/e intorno solo vuoto.

Si torna ai primi amori, all’infanzia, alla famiglia, con Per sempre, nostalgica ballata che libera nell’aria toccanti flashback, fotografie di attimi vissuti con i propri genitori, ai quali canta per sempre/solo per sempre/cosa sarà mai portarvi dentro solo tutto il tempo. Un eterno racchiuso in pochi istanti, tra un parlato e un assolo di chitarra. Un brano che arriva.

Il contrasto tra la poesia del Natale ed il dolore intenso di un lutto che svuota di senso ogni pensiero, che ti fa riflettere su cosa c’è e cosa no, è ben narrato in Ciò che rimane di noi, a mio parere uno dei brani più intensi del lavoro. E la melodia, con la sua alternanza di suoni, a volte morbidi ed altre graffianti, si armonizza alla sofferenza e alla voglia di comprendere come non è andata/e cosa non è stato. L’invito, è a cogliere l’essenza di ciò che rimane al di là di un’emozione effimera, che (e prendo in prestito le parole dell’autore) dura cinque minuti e poi passa.

Non poteva mancare, poi, sulla scia dei Sogni di rock’n’roll e di In pieno rock’n’roll, un richiamo diretto allo stile amato dall’artista, che Con la scusa del rock’n’roll (track n. 13) sostiene di aver detto cose che potevo non dire e fatto cose che potevo non fare.

Ligabue ci saluta con Sono sempre i sogni a dare forma al mondo. Sonorità che vogliono adagiarsi, senza soffocarle, sulle sensazioni regalate all’ascoltatore. L’idea è quella di trasmettere la forza di credere ancora al potere dei sogni, perché – afferma il cantautore – qualsiasi cosa abbia plasmato il mondo, è passata attraverso il sogno di qualcuno che poi l’ha realizzato.

Ecco che anche il sogno diviene realtà, strumento e mezzo per restituire al mondo quella dignità e quella forma di cui la società
ha saputo privarlo.

E se noi siamo fatti anche di canzoni – perché noi siamo storia e perché la citazione è il sintomo d’amore al quale non sappiamo rinunciare (dalla sinossi all’opera di G. Antonelli: Ma cosa vuoi che sia una canzone) – Ligabue ci ha consegnato molto di se (confessa: ho raccontato tutto nelle mie canzoni. Mi sono spolpato).

Non resterà, allora, che indagarci dentro per comprendere se davvero vogliamo che la nostra terra continui a ruotare attorno ad un format, trasmesso in Mondovisione, figlio di presunzione, aridità e superficialità. E se non è questo che vogliamo, allora restituiamo sale a questa terra e forma al mondo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Ligabue, L. (2013). Mondovisione. Zoo aperto. Warner Music distribuzione ACQUISTA
  • Antonelli, G. (2010) Ma cosa vuoi che sia una canzone. Il Mulino ACQUISTA
  • Ligabue, L. (2013) La vita non è in rima (per quello che ne so). Intervista sulle parole e i testi a cura di G. Antonelli, Laterza  ACQUISTA
  • Pascasi, S. (2013). L’urlo delle viscere (tratto da Con tre quarti di cuore). Edizioni Galassia Arte ACQUISTA

 

 

24 ore senza dormire: attento ai sintomi!

 

FLASH NEWS

 

Un recente studio dell’Università di Bonn ha scoperto che restare svegli 24 ore consecutive, senza mai dormire, può provocare sintomi simili a quelli della schizofrenia.

24 partecipanti, sia uomini che donne, di età compresa tra i 18 e i 40 anni sono stati accolti nel laboratorio del sonno dell’Università di Bonn. Per una settimana i volontari hanno dormito regolarmente, la settima notte sono stati tenuti svegli con film, conversazioni, giochi e brevi passeggiate. La mattina successiva sono state poste loro domande riguardanti pensieri e sensazioni e somministrato un test per valutare la capacità di filtrare le informazioni (“prepulse inhibition test”).

Dai risultati sono emersi:

• pronunciati deficit dell’attenzione;

• una drastica riduzione della funzione filtrante del cervello;

• maggiore sensibilità alla luce, ai colori e alla luminosità;

• alterazione del senso del tempo e del senso dell’olfatto;

• e molti di loro avevano anche un’alterata percezione corporea.

I ricercatori si aspettavano un indebolimento della capacità di concentrazione ma non i sintomi tipici della psicosi o della schizofrenia o quanto meno non si aspettavano che i sintomi fossero così pronunciati dopo una sola notte di veglia.

Il Dr. Ulrich Ettinger afferma che questa scoperta può avere importanti implicazioni anche nella ricerca farmaceutica.

Nello sviluppo di medicinali, infatti, i sintomi di diversi disturbi mentali vengono solitamente simulati attraverso alcune sostanze, le evidenze dimostrate da questo studio aprono invece nuove prospettive di ricerca.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ice Bucket Challenge: da moda virale a piccolo miracolo della beneficenza

 

 

ICE BUCKET CHALLENGE AISLADa moda virale come tante l’Ice Bucket Challenge, la sfida a rovesciarsi sulla testa un secchio di acqua ghiacciata e a diffondere il video dell’impresa via web, è diventata in breve tempo un fenomeno mediatico benefico.

L’idea nasce negli USA da Pete Frates, un uomo di Boston che, saputo della catena che girava da qualche settimana in rete, ha deciso di provare a legarla alla malattia di cui soffre, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), per sensibilizzare le persone e convincerle a fare donazioni per la ricerca.

Il gesto intende far provare, almeno per un momento, la sgradevole sensazione di intorpidimento muscolare, di irrigidimento, di perdita di contatto con il proprio corpo. La sensazione che prova chi è affetto da SLA nelle prime fasi della malattia.

Analizzando il fenomeno dal punto di vista psico-sociale possiamo individuare le componenti di sfida ed emulazione: chi si “congela” con la doccia sfida altri a ripetere il gesto, compresa la donazione per la ricerca sulla SLA.

Se si è stati nominati la pressione sociale è ad agire questo gesto, anche perché è molto potente il canale web: Youtube, Facebook. La condivisione sui social network dei video delle secchiate è un’altra fetta del fenomeno. Politici, personaggi dello spettacolo, sportivi, big del mondo della tecnologia non si sono sottratti alla sfida e sono diventati testimonial della campagna, soggetti in cui identificarsi ed emulare.

Il messaggio della raccolta fondi è semplice ed è veicolato attraverso il canale visivo, molto efficace nel farlo penetrare.

L’obiettivo condiviso della causa benefica attiva una cooperazione trasversale al fine comune.

La riprovazione sociale, direi la moderna gogna mediatica, è non tanto per coloro che si sottraggono alla sfida della doccia gelata, fatta da alcuni forse per narcisismo o esibizionismo, uno spot pubblicitario a costo zero, quanto per quei personaggi pubblici che sono poco generosi nelle donazioni. Questi sono i rischi professionali dell’esposizione ai mezzi di informazione e comunicazione.

PER DONARE CON CARTA DI CREDITO >> LINK
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Il bordo vertiginoso delle cose di Gianrico Carofiglio – Recensione

Gianrico Carofiglio ha più volte dimostrato di essere un attento indagatore e conoscitore dell’animo umano; i suoi non sono semplici romanzi, ma quella che è la narrazione vera e propria si intreccia sapientemente con l’indagine introspettiva del protagonista e con le dinamiche relazionali che lo coinvolgono.

Non di meno compaiono interessanti citazioni circa la conoscenza della psicopatologia e della materia psichiatrica. Ne “Il silenzio dell’onda” è portatore di conoscenza in materia, uno psicoterapeuta (ne consiglio la lettura a prescindere dall’interesse professionale).

Uno dei suoi ultimi lavori, “Il bordo vertiginoso delle cose”, presenta già un titolo che apre a diverse interpretazioni. A cosa fa riferimento questo bordo? Ha una collocazione precisa? Cosa c’è oltre? L’immagine del confine richiama quella di una divisione tra due luoghi, due persone, due tempi e la presenza inequivocabile di un “oltre”. La parola vertiginoso richiama, invece, la sensazione di un possibile pericolo legato proprio all’oltrepassare quel confine. Pare che nella scelta del titolo Carofiglio abbia attinto al mondo della poesia, nello specifico a una di Robert Browning; ma proprio perché siamo nel mondo della letteratura e della poesia non possiamo chiedere “a un poeta di spiegare cosa voleva dire con un verso o anche con una singola parola” perché in questo modo uccideremmo la poesia.

 

La storia si snoda in due tempi: il presente di Enrico, scrittore in crisi dopo il successo del suo primo e unico romanzo, ora editor a Firenze, e il suo passato, nello specifico l’anno del suo primo liceo classico, all’Orazio Flacco di Bari, costellato di incontri e avvenimenti determinanti per il succedersi degli avvenimenti.

Enrico torna indietro, sia fisicamente che con la memoria: ritorna a Bari dopo aver letto, per caso, una notizia sul giornale, e torna indietro alla sua adolescenza. La cosa interessante è che mentre il suo presente viene raccontato alla seconda persona singolare, è il passato che viene raccontato in prima persona, come se quello fosse ora il vero presente, come se ritornare in quei luoghi riportasse in vita quel ragazzo che suonava la chitarra e aveva la passione per la scrittura. Parlare di sé in seconda persona sembra da un lato indicare una scissione tra alcune parti di Sé, come se Enrico non si riconoscesse in quello che è ora; dall’altro lato è come se Enrico si decentrasse per osservarsi davvero, per soffermarsi su se stesso. Enrico ha bisogno di comprendere, di capire, e per farlo ha bisogno di tornare indietro, di ri-scoprire alcune parti del Sé che aveva dimenticato, rimosso, o forse non elaborato. Lui stesso però esprime a se stesso la paura di fare tutto questo quando dice a una ragazza conosciuta sul treno che, per caso, legge uno dei suoi racconti preferiti: “Spesso non è una buona idea tornare sui propri passi”. Ma parte lo stesso, si sente pronto a raccontarsi la storia della propria vita. Di quella professoressa di filosofia che lo incantava.

Di quel padre e di quel fratello troppo simili tra loro per poterlo capire.

Di quella madre troppo distante.

Dell’unica vera amica mai avuta.

Di una passione “vertiginosa” per qualcosa che finalmente lo faceva sentire su quel bordo oltre il quale sarebbe potuto cambiare tutto.

Di quell’audacia che fa sentire più forti e di quell’inconfessabile dolore provocato da un cuore quando si frantuma in mille pezzi.

Enrico, fermandosi, prova emozioni per troppo tempo soppresse, forse perché facevano davvero tanta paura, forse perché non aveva ancora gli strumenti adatti per fronteggiarle. Ma sembra riprendere le redini di se stesso. La paura di tornare è stata affrontata. Quei ricordi provocano ancora forti sensazioni, fortissime. Ma ora può gestirle, comprenderle alla luce di una nuova maturità, è pronto a raccontare la storia della propria vita integrando fatti e correlati emotivi nuovi. Ed è pronto a farlo non solo con agli altri, ma soprattutto con se stesso.

Che quel bordo vertiginoso delle cose sia proprio quella che ci separa dai nostri ricordi?

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

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BIBLIOGRAFIA:

  • Carofiglio, G. (2013). Il bordo vertiginoso delle cose. Editore Rizzoli: Milano. ACQUISTA ONLINE
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