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Il servizio perinatale: esperienza di cura per la mamma e di prevenzione per il bambino – SITCC 2014

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Benessere Malessere - SITCC 2014Durante il simposio presieduto da Lavinia Barone e Bruno Intreccialagli si è discusso sul ruolo e sull’importanza dei Servizi Psichiatrici Perinatali durante la gravidanza.

Il periodo della gravidanza e del puerperio è un momento della vita in cui viene richiesto alla neo-mamma di adattarsi ad un contesto mai provato prima. Dal punto di vista psicologico, la neo mamma si prepara all’incontro con il proprio bambino, costruendo nella sua mente una propria rappresentazione di esso, riconosciuta nella letteratura con il termine del “bambino fantasmatico” che inevitabilmente si confronterà con quella del bambino reale, dopo il parto.

Anche se dal punto di vista biologico Il corpo, con la produzione neuro-endocrina, facilita questo difficile processo possono comparire dei disturbi dell’umore post parto che fanno parte di un continuum tra fisiologia e patologia di questo particolare momento di vita.

Quindi, durante la gravidanza la futura mamma ha bisogno di essere sostenuta: ha bisogno di forti reti sociali e di servizi pronti e preparati ad accoglierla e a risponderle alle domande e alle paure collegate al parto. La futura mamma, come sottolineato più volte dal professore Bruno Interccialagli durante il simposio, dovrebbe essere aiutata ad elaborare questo importante evento della vita.

Cosa succede però quando le neo mamme non riescono o non sono in grado di elaborare questo evento per una serie di diversi fattori?

Come sottolineato dalle dottoresse Donata Caira e Katia Aringolo le neo mamme possono sviluppare diversi disturbi psichiatrici del puerperio come:

Maternity blues

Un disturbo che esordisce qualche ora o giorno dopo il parto e si esaurisce nel giro di qualche settimana senza necessità di intervento medico. È caratterizzato da sbalzi d’umore, labilità emotiva, pensieri tristi, in alcune occasioni anche drammatici, irritabilità, difficoltà di concentrazione, tristezza, disturbi del sonno e dell’appetito. Anche se con qualche difficoltà, la mamma riesce a prendersi cura di sé e del suo bambino.

La Depressione Post Partum

ė un disturbo che interessa il 10/15% delle puerpere. Comincia entro sei mesi dal parto e la sintomatologia è talmente evidente che molto spesso le pazienti che arrivano all’attenzione del clinico necessitano dell’introduzione di un trattamento psicofarmacologico. Segnali iniziali importanti sono l’esclusione del partner dall’accudimento del bambino e la presenza di ruminazioni mentali sulla salute del bambino.

La Psicosi Puerperale

Un disturbo molto raro nella popolazione generale (stimato intorno allo 0,1-0,2% ) a cui incidenza può aumentare notevolmente (fino al 25%) in pazienti affette da disturbi psichiatrici, in particolare disturbo bipolare e disturbo schizoaffettivo e in pazienti con storia pregressa di psicosi puerperale. Richiede il ricovero nel reparto psichiatrico e il trattamento farmacologico. Trai i principali sintomi vengono elencati: deliri, disturbi del pensiero legati alla salute del proprio bambino (si crede sia posseduto da forze demoniache o avvelenato) ed in casi gravi allucinazioni.

Tutti questi disturbi non incidono soltanto sullo stato di salute della mamma ma sopratutto comportano dei scompensi sullo sviluppo bio psico sociale dei bambini.

Gli studi della letteratura, come sottolineato dalla Professoresa Donata Caira, suggeriscono come i bambini di madri depresse mostrino minori segnali di protesta nel tentativo di ristabilire il contatto interpersonale perso, si mostrano evitanti nella relazione (evitando lo sguardo della mamma) e presentano una bassa reattività allo stress.

Per affrontare tale problematiche legate alla salute della mamma e del feto vengono instaurati i Servizi Psichiatrici Perinatali.

Durante il simposio, la dottoressa Cecilia Fusco presenta la propria esperienza lavorativa svolta nel Regno Unito in una struttura Psichiatrica Perinatale. Come lei racconta, I servizi psichiatrici perinatali britannici si basano sul principio della prevenzione dei Disturbi psichiatrici gravi nella madre e sulla valutazione dell’attaccamento nei bambini.

Il punto forte di questi servizi e La MULTIDISCIPLINARIETA` in quanto si collabora con diversi specialisti come: psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, puericoltrici, ostetriche e diversi dottori.

Servizio perinatale -  foto simposio - sitcc 2014
Lavinia Barone, Bruno Interccialagli, Katia Aringolo, Cecilia Fusco, Donata Caira

Per quanto riguarda i servizi autoctoni la Dottoressa Donata Caira sottolinea che nel contesto italiano i Servizi Psichiatrici Perinatali sono molto eterogenei per la distribuzione sul territorio, l’organizzazione e le sovvenzioni.

Peraltro, l’esistenza di questi centri non è conosciuta dalla popolazione.

La Dottoressa ha sottolineato come nella realtà italiana manchi l’aspetto della prevenzione, la multidisciplinarietà e in primis l’esperienza del ricovero condiviso madre-bambino.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • “Why the maternal brain?”, C.H., Kinsley, E., Amony-Meyer. Journal of Neuroendocrinology, 2011.
  • “The course of Postpartum Depression: A review of Longitudinal Studies”, N., Vliegen, S., Casalin, P., Leyten. Harv. Rev. Psychiatry, 2014

La ruminazione rabbiosa nel disturbo borderline di personalita’ – SITCC 2014

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ruminazione rabbiosa - sitcc 2014 La ricerca che oggi la Dr.ssa Martino ci presenta all’interno del simposio “Gestione delle emozioni in soggetti clinici e di controllo” è un interessante studio multicentrico.

Vediamo però prima alcune informazioni preliminari che ci permettono di comprendere meglio questa ricerca.

Secondo la teoria bio-psicologica di M. Linehan (1991) Il cuore del Disturbo Borderline di Personalità è la disregolazione emotiva che è causata dall’interazione tra la vulnerabilità emotiva da una parte e dall’altra da un ambiente invalidante.

La conseguenza di questa disregolazione emotiva sono i comportamenti disregolati che i pazienti mettono in atto proprio come tentativo di autoregolazione emotiva. Questo modello noto e forte in letteratura non considera tuttavia i meccanismi cognitivi specifici che portano dalla disregolazione emotiva al discontrollo comportamentale.

Nello studio e nella conoscenza di questi processi cognitivi disfunzionali interviene il Modello della Cascata Emotiva (MCE) di Selby, Anestis et al. (2008, 2009)

Questo modello mostra come il passaggio dalla disregolazione emotiva al comportamento disregolato sia causato dalla “Cascata Emotiva”, caratterizzata da processi disfunzionali (ruminazione) attivati di fronte a stimoli emotivi.

Focalizziamoci ora sul processo disfunzionale ruminativo nello specifico sulla ruminazione rabbiosa.

La ruminazione rabbiosa è uno stile maladattivo di pensiero che si attiva in presenza di emozioni di rabbia, focalizzando l’attenzione su questa, sulle sue cause e sulle sue conseguenze, alimentando l’attivazione emotiva negativa e aumentando la tendenza a rispondere con comportamenti aggressivi (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012, Pedersen et al., 2011, Anestis et al 2009)

In letteratura sono presenti studi condotti su studenti con tratti borderline e ruminazione rabbiosa. Tali risultati mostrano come la ruminazione rabbiosa incrementi le emozioni di rabbia e predica la tendenza all’aggressività (Anestis et al 2008, Selby et al 2009), come i tratti borderline siano correlati a forme di ruminazione depressiva e soprattutto rabbiosa (Abela et al. 2003, Smith et al. 2006, Baer et al 2011) e come la ruminazione medi la relazione tra il distress psicologico e il controllo del comportamento (Selby et al. 2008).

Tali studi non prendono tuttavia in considerazione un campione clinico. Cosa succede quindi per chi ha un Disturbo Borderline di Personalità e non solo dei tratti?

Ecco la novità di questo studio. Il campione è composto da 151 pazienti con diagnosi di Disturbo di Personalità, età maggiore dei 18 anni e assenza di Deficit Cognitivi e/o Disturbi Psicotici.

Gli strumenti utilizzati sono Structured Clinical Interview per DSM-IV – Asse II (SCID-II), Anger Rumination Scale (ARS), Aggression Questionnaire (AQ), Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS).

I risultati di questo studio possono così riassumersi:

  • Nel Disturbo Borderline di Personalità è presente la Ruminazione rabbiosa.
  • La disregolazione emotiva predice la tendenza all’aggressività del campione
  • La ruminazione rabbiosa media totalmente la relazione tra disregolazione emotiva e tendenza all’aggressività, sottolineando la responsabilità centrale di processi cognitivi disfunzionali nella messa in atto di comportamenti problematici
  • La diagnosi di DBP predice insieme alla ruminazione la tendenza a mettere in atto i comportamenti aggressivi. Tale dato testimonia l’importanza della ruminazione sul comportamento in maniera specifica per la diagnosi di DBP.

Proviamo ora a capire cosa però questo significhi nella pratica, cosa significhi per noi terapeuti quando nella nostra stanza si siede davanti a uno una persona con questo tipo di sofferenza. Quali sono quindi le implicazioni cliniche di tutto questo?

Significa che i trattamenti evidence based attualmente più diffusi per il trattamento del DBP (DBT, MBT) quelli che quindi maggiormente utilizziamo, potrebbero implicitamente bersagliare la ruminazione mediante tecniche indirette (Selby et al 2009). Allo stesso tempo significa anche che delle tecniche più esplicite e mirate alla ruminazione potrebbero favorire l’acquisizione di strategie di pensiero più funzionale e di conseguenza una maggiore capacità di regolazione emotiva e comportamentale.

 

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Malessere e benessere: perché e come – Congresso SITCC 2014

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Benessere Malessere - SITCC 2014 Il simposio “Malessere e benessere: perché e come” si è svolto nel primo pomeriggio con la Dr.ssa Mezzaluna nel ruolo di chairwoman e la Dr.ssa Piccioni nel ruolo di Discussant.

Aprono il simposio il Dr. Lorenzini e il Dr. Scarinci, psicoterapeuti didatti SITCC che lavorano sul tema del benessere. Il simposio è sperimentale e ha richiesto la partecipazione attiva ai partecipanti partendo dalla compilazione della Scala di Valutazione del Benessere.

Il Dr. Lorenzini ci racconta che secondo la sua esperienza clinica, scorrendo i suoi pazienti emerge che il 50% ha una diagnosi riconosciuta e conclamata, il 20% ha una diagnosi “tirata per i capelli”, mentre il 30% è “DSM free”, ma insoddisfatto della propria vita. Questi ultimi portano in terapia una richiesta rispetto a un malessere diffuso e poco chiaro su cui però è necessario un intervento; sono quel malesseri che forse tempo fa si risolvevano con le relazioni sociali, e a cui oggi bisogna essere pronti a rispondere.

Il malessere è quello che gli autori chiamano “Tribolazioni”, cioè “modi in cui la gente riesce a darsi sofferenza”. Dall’opinione degli autori, la gente “tribola” in questo senso perché cade in alcune trappole che si auto-infligge. Un esempio di queste situazioni è la trappola della scelta, generata da credenze secondo cui esiste una soluzione perfetta senza difetti che ci porta a essere sempre insoddisfatti; inoltre, le persone non considerano che c’è un cambio di criteri prima e dopo la scelta dato dal fatto che i precedenti bisogni sono ora soddisfatti. Un’ulteriore trappola è data dal fatto di giudicare noi stessi come decisori sulla base del risultato della scelta, che invece può portare a conseguenze dannose ma essere comunque corretta se valutata sulla base dei dati che avevamo a disposizione al momento di scegliere. Come dice Lorenzini, “la schedina si gioca al sabato, non la domenica mattina a risultati ottenuti”.

Per quanto riguarda l’accettazione, altro tema importante valutando il benessere, si sottolinea come

accettare non voglia dire essere felici per una cosa triste, ma significa smettere di investire su un risultato non raggiungibile, anche se questo non vuol dire che le emozioni associate al danno debbano essere positive.

In seguito, il Dr. Scarinci espone la tematica del benessere, come costituita da diversi pilastri:

–           Il senso della vita, che possiamo individuare trovando degli scopi/valori, dando loro un punteggio di importanza e pianificando azioni al fine di conseguirli (cosa vuoi, quanto lo vuoi e cosa vuoi fare per perseguirlo)

–           La consapevolezza: un esercizio che possiamo fare per aumentare il nostro benessere è incrementare la consapevolezza dell’importanza di quello che abbiamo (come accade con la salute, che non viene considerata finché stiamo bene e di cui si capisce l’importanza solo quando si sta male)

–           Relazionalità, che approfondiamo con un esercizio da svolgere in coppia. La relazionalità presuppone apertura e sintonizzazione nei confronti degli altri e gli esercizi che ci fanno svolgere in coppia aumentano questo atteggiamento

–           Accettazione, rispetto alla quale viene proposta la metafora dell’autobus di Hayes e colleghi: immaginando di essere un autista che guida il suo autobus verso una meta per lui importante, eventuali passeggeri fastidiosi (come pensieri o emozioni dolorose) possono essere ignorati tenendo in mente la meta del viaggio, per lui così importante. Pensieri fastidiosi e disturbi fisici possono essere allo stesso modo ignorati alla luce della destinazione a cui vogliamo arrivare (non ti curar di loro ma guarda e passa)

–           Trascendenza

In chiusura al simposio, la Dr.ssa Paparusso ha presentato i dati della ricerca che ha portato alla validazione della Scala di Valutazione del Benessere, individuando quattro fattori: senso della vita e consapevolezza, relazionalità, accettazione e trascendenza.

È possibile approfondire l’argomento presentato nel simposio, in tutte le sue componenti, nel libro “Dal malessere al benessere. Attraverso e oltre la psicoterapia” di Lorenzini e Scarinci (2013).

 

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Lo psicologo nella pancia: esperienze in chirurgia bariatrica – Congresso SITCC 2014

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Chirurgia bariatrica - Congresso SITCC 2014

Primo giorno di lavori alla SITCC e tra i molteplici simposi scegliamo quello dei colleghi Pastorini, Mian, Rancati, Celotti che da tempo collaborano e si occupano della gestione del paziente obeso.

Cos’è prima di tutto l’obesità?

E’ una malattia multifattoriale costituita da un danno organico, da una sofferenza psicologica e da difficoltà nelle relazioni sociali. Questa malattia è quindi una condizione eterogenea e complessa. Per farci un’idea dell’impatto dell’obesità pensiamo che in Italia 1 soggetto su 10 è in sovrappeso e 1 su 10 è obeso. Inoltre riflettiamo anche sui costi elevati che l’obesità comporta anche a causa della sua comorbilità con altre patologie ad esempio di tipo endocrinologico e cardiaco. Ci ritroviamo quindi spesso a sentire parlare di obesità ma a noi che piace guardare alla persona rimane la domanda: chi è il paziente obeso?

Ci aiuta a rispondere Pastorini presentando le caratteristiche del paziente obeso tramite uno studio effettuato su un campione di 50 soggetti usando come strumenti SCL-90, BDI, EDI II.

Da questo studio emerge che è un soggetto depresso, insoddisfatto del proprio corpo, preoccupato per la salute, con alterazioni nel ritmo sonno veglia e/o nella sessualità, deluso, con aspettative elevate e resistenza al cambiamento.

Questo tipo di paziente prima di venire da noi ha effettuato uno “shopping terapeutico”, tentando numerose strade senza però avere successo. Ho tentato diete “selvagge”, centri estetici, naturopata, medico specialista, farmaci da banco…e nulla è cambiato.

Questa risulta un’ informazione rilevante da tenere in considerazione nel trattamento di tali soggetti. Cosa fare dunque?

Mian e Rancati/Celotti ci propongono diverse tipologie di trattamento in base alla propria esperienza clinica.

Mian ci racconta la chiurgia bariatrica per i pazienti obesi. I criteri di accesso per questi interventi sono un’età compresa tra i 18-60 anni, obesità di II e III grado, presenza di comorbilità e precedenti tentativi di trattamento falliti. Vengo invece esclusi quei pazienti con Bulimia Nervosa, Binge Eating Disorder, Night Eating Syndrome, Depressione Maggiore , Disturbo di personalità, Abuso di sostanze e di alcolici, Disturbi psicotici.

(CONTINUA DOPO LE DIAPOSITIVE)

E’ importante la valutazione della presa in carico di questi pazienti: le tappe del processo devono essere tra loro strettamente correlate e interdipendenti, con una codificazione delle procedure.

L’assessment psicologico si focalizza su: storia del peso corporeo e indagine sui possibili disturbi alimentari, psicopatologie e farmacoterapie pregresse, storia dei trattamenti dietoterapici precedenti, valutazione delle difficoltà in ognuno di essi e analisi dell’eventuale deresponsabilizzazione, monitoraggio del comportamento alimentare attuale e dei comportamenti disfunzionali, motivazione e resistenza al cambiamento, intolleranza alle frustrazione, strategie di coping, valutazione delle aspettative del paziente, informazione e monitoraggio dell’ immagine corporea e la sua futura integrazione con “il nuovo corpo” e soprattutto il nuovo “stile di vita”.

Perché appare importante lo psicologo non solo nella valutazione? Il circolo vizioso del paziente obeso è caratterizzato da il caos nutrizionale, la fame emotiva, le diete ed il loro fallimento, l’aumento del peso, i sentimenti depressivi conseguenti e l’intolleranza alle emozioni.

Nel momento in cui quindi questi interventi hanno successo ed il caos alimentare, con le sue conseguenze, non è più predominante ecco che si potrà focalizzare in modo più efficace l’intervento sull’intolleranza delle emozioni.

Celotti e Rancanti ci presentano infine un modello residenziale dove il cuore è costituito dall’ empowerment del paziente obeso basato sia su un percorso di gruppo sia individuale. Perché l’empowerment? Perché si vuole “far fare” un processo di cambiamento e non raccontarlo, perché si vuole insegnare al paziente a valorizzarsi e a responsabilizzarsi con quello che è un problem solving comune.

Ecco che il paziente ha un ruolo attivo in cui vive una sperimentazione guidata. Un ruolo che forse in precedenza mai aveva sperimentato con tutte quelle diete solo prescritte e mai fatte proprie. In fondo come diceva Pascal

“Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui”.

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Il Cervello Empatico: la plenaria di Christian Keysers al Congresso SITCC 2014

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SITCC 2014 - Plenaria Keysers

Prof. Christian Keysers - Neuroscientist
Prof. Christian Keysers – Neuroscientist

Dopo il benvenuto del comitato organizzativo, la SITCC 2014 di Genova si apre con una plenaria del Prof. Keysers sull’empatia. Dopo un post-doc a Parma con il team del Prof. Rizzolatti, Keysers si è interessato delle basi neurali dell’empatia, con particolare interesse per quello che succede negli psicopatici e nelle persone affette da autismo.

Il relatore inizia la sua presentazione con un frammento di James Bond, evidenziando come vedere il protagonista terrorizzato da un ragno porti il pubblico a comprendere il suo vissuto emotivo: “noi in realtà vediamo solo i pixel che lampeggiano, ma riusciamo a percepire che lui è terrorizzato, anche se il terrore rimane dentro alla sua testa”.

E se abbiamo tutti chiaro ormai come gli studi con a capo proprio il Prof. Rizzolatti ci illustrino come vedere svolgere un’azione attivi in noi gli stessi neuroni che si attivano quando questa azione la eseguiamo noi, che ruolo può avere in questo sistema a specchio la componente sonora? Il sistema motorio si attiva solo se vediamo l’azione degli altri o anche se la sentiamo? Osservando le immagini fRMI sembra che anche solo ascoltare un’azione senza vederla (per esempio ascoltare qualcuno che fa gargarismi o che apre una lattina) porti a un’attivazione del sistema motorio corrispondente, anche se a un minor livello rispetto alla stimolazione visiva.

Quindi, da un punto di vista neurologico cosa succede? Quando vediamo l’azione degli altri attiviamo aree visive e uditive, poi regioni parietali e premotorie che ci permettono di replicare l’azione nel caso in cui volessimo farlo. Se una persona si immedesima molto, l’attivazione premotoria diventa così forte che passa nel corpo, arrivando anche a muovere le stesse parti che vediamo muoversi. Questo lo vediamo bene osservando per esempio tifosi sfegatati che guardano la finale di campionato della loro squadra, e che non riescono a trattenere il calcio di rigore che stanno osservando in TV.

In seguito, Keysers ha spiegato come non solo attiviamo la nostra azione guardando quelle degli altri, ma attiviamo anche le nostre sensazioni osservando le sensazioni degli altri. Per esempio, se vediamo qualcuno sollevare un oggetto riusciamo a capire più o meno quanto questo oggetto sia pesante valutando la fatica che questa persona sta facendo.

Ma l’empatia non è una cosa che c’è o non c’è.

È una caratteristica modulabile e modulata nelle diverse situazioni. A sostegno di ciò, Keysers e collaboratori hanno valutato l’attivazione neurale in un esperimento in cui prima di andare nella fRMI i partecipanti venivano sfidati da un’altra persona giocando soldi con un avversario sleale e con un avversario leale. In seguito, i partecipanti osservano dare un elettroshock all’avversario, e le immagini fRMI mostrano come mentre le femmine empatizzano di più se osservano soffrire il compagno leale ma attivano il sistema a specchio anche se osservano soffrire il compagno sleale (seppur in misura minore), i maschi che osservano il compagno sleale non attivano minimamente il sistema a specchio, e anzi attivano un poco la zona del piacere.

E per quanto riguarda la psicopatia?

Una delle teorie sulla psicopatia dice che gli psicopatici non hanno emozioni, e per questo non attivano regioni a specchio se vedono altri provare dolore. In realtà, dagli esperimenti di Keysers si osserva come gli psicopatici senza istruzioni non hanno alcuna attivazione delle regioni a specchio vedendo altri soffrire, mentre se vengono istruiti all’empatia hanno la stessa attivazione dei soggetti sani: non è vero che gli psicopatici non sanno provare empatia, è vero che non sono abituati a farlo.

Ovviamente questo ha importanti ricadute soprattutto nel recupero delle persone criminali, che a questo punto non sembrano avere un deficit di empatia, quanto piuttosto una minore propensione a essere empatici di default.

 

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L’intelligenza è innata o appresa? Non importa, se si ha il giusto incoraggiamento

FLASH NEWS

 

Un recente studio dell’Università Statale del Michigan offre una nuova prospettiva che sposta l’attenzione sui risultati della performance più che sulla natura di chi la compie e sostiene che, in certi casi, un buon incoraggiamento può essere una spinta sufficiente al successo.

“Essere o non essere (intelligenti)? Questo è il problema.” Parafrasando Shakespeare, che per parlare di intelligenza è sempre appropriato, ci si potrebbe chiedere se una mente brillante sia solo frutto di un genio innato, una capacità che c’è o non c’è.

Il talento è indubbiamente un’invidiabile dote di pochi, ma è determinata? O si può sviluppare grazie all’esercizio e all’impegno?

Il dilemma sulla questione “innato/appreso” è uno dei dibattiti sempre aperti e sempre affascinanti ma di difficile soluzione. Un recente studio dell’Università Statale del Michigan offre una nuova prospettiva che sposta l’attenzione sui risultati della performance più che sulla natura di chi la compie e sostiene che, in certi casi, un buon incoraggiamento può essere una spinta sufficiente al successo.

Lo studio: due gruppi di partecipanti hanno letto due diversi articoli, il primo riportava che l’intelligenza è in gran parte determinata geneticamente, l’altro sosteneva che la struttura genetica influisce poco sui risultati perché l’intelligenza si sviluppa in un ambiente sfidante e quindi ciò che conta è l’impegno con cui si affronta. Dopo aver letto il rispettivo articolo ogni gruppo doveva eseguire un semplice compito al computer mentre ne veniva registrata l’attività cerebrale.

I risultati: i soggetti che avevano letto l’articolo a favore della tesi genetica hanno affrontato i compiti focalizzandosi su di sé, sulla propria performance; mentre gli appartenenti al gruppo a cui era stato assegnato l’articolo pro-impegno hanno prestato attenzione agli errori commessi per decidere dove concentrarsi maggiormente di volta in volta.

Questo ha provocato una risposta cerebrale molto più efficiente per il secondo gruppo: miglioravano ogni volta che eseguivano un compito dopo aver commesso un errore e più attenzione ponevano agli errori, più veloci erano le risposte al compito successivo.

Questo dimostra che al di là delle effettive differenze personali, l’atteggiamento è fondamentale. Dire ad un individuo che il duro lavoro conta più della bravura può provocare cambiamenti reali nel suo comportamento. La giusta sollecitazione può quindi spingere le persone a impegnarsi di più e di conseguenza ad ottenere risultati migliori.

L’importanza di uno studio simile raggiunge trasversalmente diversi ambiti, dagli adulti ai bambini, dal lavoro all’istruzione: promuovere l’impegno, stimolare l’apprendimento e la motivazione può effettivamente favorire performance più efficienti.

 

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Intelligenza? Una questione di ormoni

 

BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness & Sensorimotor su Attaccamento e Trauma: III giornata – Report dal congresso, 19-21 Settembre 2014

Report dal congresso

Attaccamento e Trauma 

Roma, 19-21 Settembre 2014

III Giornata

 

 

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Tutta al femminile questa terza e ultima giornata di lavori. L’intervento di Pat Ogden ci fa riemergere dal torpore mattutino e dalla stanchezza di questi giorni intensi: con la sua presenza fisica piena di energia e tranquillità insieme ci accompagna nell’esplorazione della Terapia Sensomotoria e della Mindfulness relazionale integrata con pazienti traumatizzati.

Il trauma resta attivo non solo sotto forma di ricordi, ma sotto forma di aspettative inconsce, schemi d’azione, sensazioni e movimenti. Una terapia che si occupi solo di ciò che il paziente ricorda esplicitamente e basata solo sulla parola potrebbe trascurare tanta parte degli esiti dell’esperienza traumatica e risultare inefficace. Ciò che la Ogden propone è di privilegiare una consapevolezza “mindful” dell’esperienza nel qui e ora, che include l’esperienza interna, fatta anche di sensazioni e movimenti, e il mondo esterno. Nella psicoterapia sensomotoria la mindfulness è integrata e incorporata in ciò che emerge momento per momento tra terapeuta e paziente.

Mostrandoci alcune videoregistrazioni di sedute con i suoi pazienti, Pat Ogden ci mostra come avviene questo processo: ciò che il terapeuta fa è riconoscere innanzi tutto quello che il paziente porta, innanzi tutto nel suo corpo. Proprio il riconoscimento dei loro bisogni è ciò che è mancato nell’esperienza di questi pazienti con le loro figure di attaccamento. E’ dunque importante farli parlare con quelle parti di sé che emergono, riconoscendole insieme e ponendo domande che li aiutino a focalizzarsi sull’esperienza presente interna.

Lavorando ai margini della finestra di tolleranza (“safe but not too safe”, come insegna Bromberg), si propongono ai pazienti piccoli esperimenti verbali e somatici, sempre in consapevolezza mindful e da una posizione cooperativa. Il terapeuta in questo modo aiuta il paziente a riconoscere parti di sé che le figure di attaccamento non avevano riconosciuto o avevano confutato e che per questo avevano trasformato in parti “non-me”, come per esempio la capacità di dire di no, di mettere dei confini, o, al contrario, di cercare la vicinanza degli altri.

Questo lavoro attraverso il corpo su ferite passate e al contempo orientato a stimolare l’impegno sociale tra terapeuta e paziente crea un’intensa intersoggettività, che veicola un’azione riparatoria nei confronti del trauma e del fallimento dell’attaccamento.

Isabel Fernandez ci illustra il contributo dell’EMDR nel trattamento dei traumi. La sua relazione parte da un dato molto importante: è ormai sempre più evidente e sostenuto da solidi dati di ricerca come le esperienze traumatiche, dagli eventi catastrofici ai traumi dell’attaccamento, abbiano un forte e duraturo impatto sulla salute mentale e fisica. Questo, i clinici e i professionisti della salute mentale lo sanno da tempo. Quello che sta cambiando è il riconoscimento “ufficiale” di questa scoperta dell’acqua calda.

 

Non solo l’Organizzazione Mondiale della Sanità promulga politiche sociali volte a far fronte alle implicazioni di questa consapevolezza, ma anche il DSM-V si muove nella stessa direzione. In questa nuova edizione del manuale, infatti, vengono finalmente messe in relazione le diagnosi e le esperienze di vita: da molti disturbi è stata tolta la familiarità come fattore di rischio ed è stata data, invece, molta rilevanza alle esperienze traumatiche.

Non solo disturbi direttamente collegati ad un’esperienza avversa, come il PTSD e il disturbo dell’adattamento, ma anche molti altri disturbi vengono associati a fattori stressanti e/o a esperienze sfavorevoli di attaccamento. Questo è un passo molto importante. Anche perché riconosce finalmente che la traumatizzazione va al di là del PTSD: molti bambini esposti ad esperienze traumatiche non presentano sintomi di PTSD, ma quasi tutti mostrano problemi di regolazione emotiva, controllo degli impulsi e immagine di sé, dissociazione, attenzione e concentrazione, comportamenti a rischio, aggressività.

Ma l’impatto non è solo sulla salute mentale: anche sul piano fisico sono tante le ricadute del trauma, soprattutto se precoce. Il maltrattamento e la trascuratezza nell’infanzia, inoltre, sono associati ad anomalie strutturali e funzionali in diverse aree cerebrali.

In questo panorama l’EMDR è riconosciuto come uno dei più efficaci trattamenti del trauma, poiché consente di elaborare i ricordi, sbloccando le connessioni neurali che li contengono. La ricerca neurobiologica supporta questa efficacia, mostrando come in seguito al trattamento EMDR ci sia un cambiamento nell’attivazione delle aree cerebrali che si sposta dalle regioni limbiche e prefrontali a quelle corticali con valenza associativa. Aumenta l’elaborazione cognitiva e diminuiscono le emozioni negative collegate al ricordo. L’EMDR sembrerebbe permettere anche un cambiamento dei modelli operativi interni, favorendo lo spostamento verso uno stato mentale più sicuro, come misurato dall’AAI.

E’ l’interessantissimo intervento di Kathy Steele a chiudere i contributi di questi densi giorni di lavori. Ancora una volta è la relazione terapeutica al centro dell’attenzione, con il dilemma vissuto dai terapeuti che si occupano di persone traumatizzate: a fare da punto di riferimento, infatti, è sempre stato il paradigma dell’attaccamento sicuro, con il modello di madre-terapeuta “sufficientemente buono” per dirla alla Winnicott che crea per il paziente l’opportunità di guadagnare sicurezza.

Ma questi pazienti, con i loro traumi e loro modelli operativi interni insicuri, quanto riescono davvero ad affidarsi tranquillamente all’attaccamento sicuro del terapeuta? Oltretutto un paradigma infantile sembra poco adatto per un modello terapeutico adulto. Occorre allora ripensare alla relazione terapeutica come finalizzata a supportare competenza e interdipendenza nell’adulto, consentendo la comparsa regolata di sentimenti di dipendenza senza travolgere né il paziente né il terapeuta, promuovendo comprensione oltre che sicurezza.

Come fa notare la Steele, ci sentiamo più amati quando ci sentiamo del tutto compresi. La terapia è un incontro di menti, che non riguarda solo la comprensione e condivisione della mente del paziente, ma anche del terapeuta e di altre persone, è impegno sociale. Non abbiamo solo bisogno di sicurezza, ma anche di far parte integrante del gruppo sociale, comunicando e collaborando per un impegno sociale continuo.

 

Gli stati mentali di terapeuta e paziente devono essere sintonizzati e reciprocamente influenti, sia a livello esplicito sia a livello implicito. Le comunicazioni momento per momento tra terapeuta e paziente sono di cardinale importanza per la regolazione dell’arousal. Certamente essere presenti con pazienti che hanno vissuto esperienze tanto dolorose e difficili è molto impegnativo, tuttavia, è solo attraverso una condivisione collaborativa che è possibile accedere a una co-regolazione adeguata, alla costruzione di competenze e ad esperienze ed emozioni positive.

Un rapporto basato unicamente sulla dipendenza non fa crescere il paziente, anzi implica impotenza e comporta spesso emozioni di vergogna e inadeguatezza. Occorre distinguere tra una dipendenza adattiva, che sostiene e accompagna il paziente verso una crescente competenza, autonomia a cura di sé, e una dipendenza maladattiva, in cui i pazienti si aggrappano al terapeuta, incapaci di regolare le emozioni e di affrontare le difficoltà.

La terapia è dunque collaborazione, intersoggettività e impegno sociale, in cui l’obiettivo non è solo offrire opportunità di sviluppo, ma anche di comunicazione collaborativa nelle interazioni momento per momento tra paziente e terapeuta. Il terapeuta non deve essere concentrato su cosa “fare” per alleviare la sofferenza del paziente, ma piuttosto sull’aiutare il paziente a notare e tollerare la sua esperienza di sofferenza e di connessione.

Questo è tanto più importante con pazienti dissociati, comunicando e sintonizzandosi con tutte le parti nel loro insieme. In questo assetto collaborativo la riparazione interattiva conseguente alla rottura dell’alleanza terapeutica sembra essere ancora più importante del contatto iniziale.

La tavola rotonda che chiude ufficialmente il congresso è guidata da Fabio Veglia che sostituisce Liotti come chairman. Dopo averci coinvolti nel divertente racconto dell’emersione, durante le relazioni di oggi, di sue memorie traumatiche legate alla lingua inglese, propone una riflessione sull’evoluzione del lavoro sul trauma, su quanto il trauma relazionale sia diventato centrale nei pensieri di moltissimi clinici e su quali confini sia eventualmente necessario mettere per non leggere tutto come trauma relazionale.

Ciò che emerge dalle considerazioni dei vari relatori è la necessità di un generale cambio di direzione, spostando l’attenzione verso i processi e l’elaborazione. Occorre guardare non solo agli eventi ma al sistema interno del paziente, al suo modo di funzionare. Molte diagnosi diverse hanno a che fare con processi simili. I disturbi che i pazienti portano sono davvero specifici disturbi o sono gli effetti di un disturbo sottostante più ampio? Le diagnosi sono importanti perché aiutano ad orientarsi, ma occorrono strumenti per misurare meglio i processi.

La ricerca deve inoltre misurare la mente di paziente e terapeuta nello stesso momento, occorre un modello psicologico interattivo, poiché i significati si creano nella diade. E’ necessaria anche una valutazione diagnostica precoce, verso la prevenzione, per realizzare interventi quando il cervello è ancora plastico e sulla diade madre-bambino.

Nell’ambito del trauma un importante cambiamento di paradigma è già in atto, come è emerso in tanti momenti di queste giornate e come evidenzia Porges in chiusura, rivoluzionando l’ottica cartesiana: non più “penso, dunque sono” , ma “sento, dunque sono”.

 

 

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Attaccamento e Trauma: II giornata – Report dal congresso

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

II Giornata – A. Shore, D. Siegel, G. Liotti, Tavola rotonda (Onofri, Siegel, Shore, Liotti, Ogden)

 

VEDI EVENTO 

 

Dopo una prima giornata finalizzata a circoscrivere gli oggetti di studio in esame, l’attaccamento ed il trauma, il secondo giorno di lavori comincia ad entrare nel merito di come andare ad intervenire sulle dinamiche intrapersonali ed interpersonali della persona traumatizzata.

L’intervento di apertura è affidato ad Allan Shore, il quale, avvalendosi di un’ampia gamma di studi al riguardo, si focalizza sul concetto di enactment (messa in atto); la ragione di tale scelta risiede nel fatto che, dato che il trauma, come messo in luce dalle relazioni del giorno precedente, ha una radice relazionale anche il processo terapeutico deve sfruttare, per essere efficace, le dinamiche relazionali ed interpersonali.

In questo quadro l’ enactment rappresenta un meccanismo relazionale molto potente: esso costituisce una forte esplosione affettiva, che si verifica a livello inconscio nell’ambito della relazione terapeutica, attraverso la quale è possibile accedere alle aree traumatizzate ed inconsapevoli della mente.

Stiamo quindi parlando di traumi molto precoci che si collocano ad uno stadio preverbale dello sviluppo dell’individuo; ciò determina un accesso estremamente difficoltoso alla verbalizzazione e conseguente consapevolizzazione di tali traumi.  Gli enactment che avvengono nella relazione terapeutica rappresentano un modo per prendere coscienza di tali vissuti dolorosi inconsci, che sono stati fatti oggetto di un processo di dissociazione da parte dell’individuo. In una prospettiva neurobiologica interpersonale gli enactment ricreano la disregolazione dell’emisfero destro legata ai traumi relazionali dell’attaccamento precoce, processo che coinvolge in modo rispecchiante, come sottolineato più volte da Shore, non solo l’emisfero destro del cliente ma anche quello del terapeuta (da qui la caratteristica di reciprocità del fenomeno di enactment).

Alla luce di questa premessa Shore afferma, citando Russel, che

la principale forma di resistenza nel processo di trattamento è la resistenza del terapeuta a quello che il paziente sente

non è affatto semplice entrare in risonanza empatica, a livello sia verbale che non verbale, con tali vissuti.

Nonostante l’enactment reciproco sia una delle dimensioni intersoggettive più stressanti del trattamento terapeutico è enorme il suo valore, perché esso rappresenta un’esperienza emozionale correttiva, con ricadute direttamente a livello di funzionamento cerebrale: promuove l’integrazione top-down e bottom-up del sistema corticale e sottocorticale dell’emisfero destro del cliente, permettendo l’espansione del cervello emotivo lateralizzato a destra (il substrato biologico dell’inconscio umano).

Il successivo intervento di Siegel torna anch’esso sul tema dell’integrazione contestualizzandola nell’ambito del trattamento psicoterapeutico dei vissuti traumatici; si parte dalla premessa che il trauma determini la compromissione dell’integrazione necessaria per una regolazione efficace.

L’impossibilità, da parte del soggetto di operare un’adeguata integrazione conduce all’estremizzazione degli opposti e alla conseguente creazione di profili di caos o rigidità (ad esempio, uno stato maniacale rappresenta un profilo di caos, uno stato depressivo un profilo di rigidità) lungo una varietà di domini interni e interpersonali.  L’assessment clinico deve, quindi, includere una valutazione di tali estremi e la conseguente pianificazione terapeutica si concentra sui domini di integrazione compromessi in seguito a un trauma, che sono i seguenti: l’integrazione della coscienza, bilaterale, verticale, della memoria, narrativa, di stato, interpersonale e temporale; in questo quadro gli interventi terapeutici sono finalizzati a stimolare attivazione e crescita neurale (SNAG, stimulate neuronal activation and growth) verso l’integrazione.

La relazione pomeridiana è affidata a Liotti il quale, per quanto sacrifichi la sua verve oratoria in favore dell’ospitalità, decidendo di fare il suo intervento in inglese, ben sintetizza il suo decennale lavoro nel campo dell’attaccamento e del trauma mostrando come l’attaccamento disorganizzato sembri avere un ruolo di fondamentale importanza nella genesi dei disturbi dissociativi.

Partendo dai dati di ricerca solidi, infatti, Liotti evidenzia come l’attaccamento disorganizzato nel primo anno di vita sia un potente predittore della dissociazione, più di quanto lo siano traumi successivi, avanzando l’ipotesi che l’interazione fra ricordi traumatici e attaccamento disorganizzato possa essere il necessario antecedente della dissociazione patologica.

Il possibile meccanismo alla base di ciò sembrerebbe risiedere nella particolare interazione tra due sistemi motivazionali innati frutto dell’evoluzione: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento. Mentre in condizioni ottimali questi due sistemi funzionano in perfetta armonia (il bambino scappa dal pericolo rifugiandosi dalla mamma, ed essendone confortato disinnesca il sistema di difesa), nell’attaccamento disorganizzato la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di pericolo e di conforto, generando nel bambino un terrore senza sbocco.

La teoria polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.

Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento. Queste strategie controllanti funzionano bene finché una sollecitazione troppo intensa del sistema di attaccamento non le faccia collassare, facendo emergere il MOI disorganizzato. 

Questa teorizzazione, il cui sostegno da parte della ricerca sembra incoraggiante, ha una ricaduta di primaria importanza nella relazione terapeutica con pazienti traumatizzati: un terapeuta troppo accudente potrebbe far emergere i modelli operativi interni disorganizzati, con la fobia dell’attaccamento e la fobia della perdita di attaccamento, favorendo processi dissociativi. Un migliore assetto relazionale è invece garantito da una posizione collaborativa, paritetica, fra terapeuta e paziente. La costruzione e la riparazione dell’alleanza terapeutica ancora una volta, sembra essere uno dei principali strumenti del trattamento, soprattutto per pazienti pesantemente traumatizzati.

La giornata si conclude con una tavola rotonda in cui Antonio Onofri coinvolge i relatori della giornata e Pat Ogden in una preziosa riflessione proprio sul ruolo della relazione terapeutica.

Ciascuno, sottolineando quanto il lavoro degli altri abbia influenzato il proprio, riconosce come la relazione terapeutica sia lo strumento di guarigione, la base da cui partire per affrontare il lavoro con i pazienti. A fianco al dialogo esplicito è di fondamentale rilevanza il dialogo implicito, fra le parti inconsce del terapeuta e del paziente, in un viaggio in cui rotture e riparazioni dell’alleanza sono straordinarie occasioni di cambiamento. Ciò è possibile se si rinuncia a portare il paziente dove vogliamo noi e siamo disposti a chiedergli i suoi obiettivi, se si è pronti a essere curiosi, a essere insieme, a combattere insieme, anche a perdere insieme al paziente. La chiave non è cosa fare, ma stare col paziente, al suo fianco: diversi e collegati, per una piena integrazione.

Queste riflessioni diventano occasione per mostrare anche il merito principale di questo congresso e di questi grandi clinici e scienziati: la reciprocità, l’intersoggettività e l’integrazione non sono solo parole in questi giorni. E’ l’aria che si respira.  Tutti i relatori riconoscono quanto i contributi degli altri presenti siano stati negli anni apporti fondamentali al loro lavoro. Ognuno dalla propria prospettiva, ognuno a partire dalla propria disciplina, ha aggiunto un pezzo al grande e ambizioso puzzle: comprendere la mente umana e creare un modello di terapia integrato. E’ proprio questo secondo Siegel l’integrazione: differenza e collegamento.

Nell’ambito del trauma forse si riuscirà a fare quanto finora è stato possibile fare: andare oltre le singole fazioni, rinunciare alla competizione in favore di una più ampia collaborazione e creare un modello integrato, supportato dalla neurobiologia e dalla clinica, che possa davvero essere di aiuto a questi pazienti.

Dobbiamo imparare a usare il nostro cervello, il cervello sociale, come ricorda Liotti: il lavoro di ciascuno è influenzato dal lavoro di tanti colleghi, i nostri cervelli devono diventare molteplici, estendere i loro limiti, ricordando che tutti facciamo parte di qualcosa di più grande.

 

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Attaccamento e Trauma: I giornata – Report dal congresso, 19-21 Settembre 2014

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La Teoria Polivagale su Attaccamento e Trauma (2014) – Report dal Congresso

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

I Giornata, II parte

S. Porges, Tavola rotonda (Liotti, Siegel, Gallese, Porges)

 

 

VEDI EVENTO

Il pomeriggio della prima giornata del congresso inizia con l’intervento di Stephen Porges, il quale, nell’esporre i capisaldi della teoria polivagale, da lui elaborata, cerca di rispondere alle seguenti domande:

  • in che modo le esperienze traumatiche e/o di abuso cronico alterano i processi omeostatici fisiologici e il comportamento sociale?
  • in modo il trauma distorce i processi percettivi e sostituisce i comportamenti sociali spontanei con reazioni di difesa?
  • quali trattamenti clinici consentono di intervenire su queste problematiche?

Si parte dalla premessa che gli esseri umani sono collegati gli uni agli altri (si tratta di una forma di adattamento funzionale alla sopravvivenza) e sono in grado di co-regolarsi. In questo quadro il comportamento rappresenta una qualità emergente che ha un substrato biologico: quando gli esseri umani non riescono ad entrare in relazione si verificano delle ricadute anche a livello corporeo; parimenti, lo stato fisiologico e psicologico influenza il comportamento.

La corteccia temporale è in grado di decodificare l’intenzionalità dei movimenti nei mammiferi; un ruolo molto importante viene rivestito dal muscolo ubicolare dell’occhio, dotato di una doppia innervazione, il quale entra in gioco nei contatti oculari (il contatto oculare è essenziale nel creare un senso connessione tra esseri umani, diventa meno importante solo quando c’è una connessione a livello fisico).

Nei processi comunicativi tra esseri umani non sono le parole e i contenuti verbali, bensì le caratteristiche melodiche, la prosodia, l’intonazione, i contenuti emotivi che agiscono sul nervo vago mielinizzato, il quale controlla anche l’attivazione del sistema di difesa.

Nelle esperienze traumatiche (nell’ambito della relazione di attaccamento) l’interazione sociale non è più fonte di sicurezza, cosa che può determinare uno stato dissociativo nella persona, la quale cerca, in questo modo, di distanziarsi da contenuti emotivi dolorosi; si verifica, a livello cerebrale, la violazione di “un’aspettativa neurale”, determinata dalla mancanza di reciprocità nella relazione e dall’assenza di sintonizzazione.

Ciò pone le premesse per un atteggiamento conservativo, osservabile nelle persone che hanno subito dei traumi, le quali sono portate ad interpretare le situazioni neutre come situazioni potenzialmente pericolose da cui bisogna difendersi.

La teoria polivagale, inoltre, mette in evidenza come sia necessario includere, nella gamma delle reazioni istintive di fronte ad una situazione di pericolo, non solo la reazione di attacco/fuga (fight/flight), ma anche la reazione dissociativa di paralisi e immobilità, congelamento con paura (shutdown), una stato di “finta morte” (aspetto sul quale tornerà poi Liotti nel suo intervento), antitetico all’immobilità senza paura, della persona che si sente al sicuro e si abbandona fiduciosamente alla relazione.

L’espressione facciale riflette in modo diretto lo stato polivagale della persona; attraverso un processo di “neurocezione” (si tratta di un processo neurofisiologico) il sistema nervoso valuta il rischio presente nell’ambiente circostante senza consapevolezza e, spesso, indipendentemente da una narrazione cognitiva. In questo quadro, è possibile che la neurocezione del pericolo, in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche, si attivi in modo automatico anche quando non esiste un pericolo “reale”.

Come possiamo, in qualità di terapeuti, andare ad intervenire? Avvalendoci del potere riparativo della comprensione della funzione adattiva delle reazioni allo stress, quale importante complemento al trattamento.

Gli interventi terapeutici efficaci devono promuovere una neurocezione della sicurezza, con i conseguenti miglioramenti nella salute mentale e fisica, permettendo a mobilizzazione e immobilità di aver luogo in uno stato di sicurezza, di assenza di percezione del pericolo.

A tirare le somme della prima giornata di lavori una tavola rotonda, moderata da Liotti, cui prendono parte Siegel, Gallese e Porges. Il moderatore chiede ai tre relatori di individuare i punti di interconnessione, tra i loro tre approcci, nel comprendere l’esperienza intersoggettiva.

Emergono punti di contatto legati all’importanza di valorizzare i vissuti corporei (Porges afferma che “Solo sentirci all’interno del corpo ci permette di sperimentare cosa sia davvero l’empatia”) e di sottolineare l’importanza dei neuroni specchio anche nella comprensione del trauma (i neuroni specchio delle persone traumatizzate sono ipereattivi e vigilanti).

In ambito terapeutico, ricorda Porges, è necessario individuare la stato fisiologico del cliente e capire come ne condiziona il comportamento. Inoltre, è estremamente importante prestare attenzione al linguaggio non verbale e alla prosodia della voce, tenendo presente che un paziente che ha subito un trauma può essere molto sensibile a stimoli acustici a bassa frequenza che ispirano un senso di pericolo; si tratta di una forma di vulnerabilità del sistema nervoso del cliente.

In conclusione, viene sottolineato da Gallese come la segregazione rigida tra azione, percezione e cognizione non ha ragion d’essere, dato che si tratta di funzioni che a livello cerebrale sono fortemente integrate.

 

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REPORT 1/4

Daniel Siegel & Vittorio Gallese su Attaccamento e Trauma (2014) Report

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

I Giornata, I parte – D. Siegel, V. Gallese

 

 

VEDI EVENTO

Il primo relatore a dare il via al confronto è Daniel Siegel, il quale, nell’ottica di analizzare quale sia l’impatto del trauma sull’integrazione neurale, esordisce con il porre, ad un uditorio composto in larga parte da psicologi e psicoterapeuti, la seguente domanda: “Perché ci definiamo professionisti della salute mentale, mind health, piuttosto che della salute del cervello?”.

I lavori di questi intensi tre giorni di full immersion sui temi dell’attaccamento e del trauma si aprono con un toccante ricordo della figura umana e professionale di Michele Giannantonio, prematuramente scomparso lo scorso Aprile; al suo costante impegno e lavoro di approfondimento e divulgazione proprio in merito a tali temi tanto dobbiamo, come sottolineato a nome di tutti da Pat Ogden.

Il primo relatore a dare il via al confronto è Daniel Siegel, il quale, nell’ottica di analizzare quale sia l’impatto del trauma sull’integrazione neurale, esordisce con il porre, ad un uditorio composto in larga parte da psicologi e psicoterapeuti, la seguente domanda: “Perché ci definiamo professionisti della salute mentale, mind health, piuttosto che della salute del cervello?”.

In altre parole, cosa differenzia il concetto di cervello da quello di mente, facendo sì che non siano due entità sovrapponibili? Siegel prova a rispondere elencando tre differenze fondamentali:

• l’esperienza soggettiva ed intersoggettiva – non c’è modo di evidenziare come l’esperienza che il soggetto ha di se stesso e del proprio sé in relazione con le soggettività altrui si correli con gli aspetti fisici e biologici del funzionamento cerebrale;

• la coscienza – non è possibile circoscrivere i meccanismi di funzionamento alla base della coscienza; se viviamo un’esperienza soggettiva senza esserne coscienti si tratta sempre di un’esperienza soggettiva o, invece, di un’esperienza puramente fisiologica?

• Il rapporto (relationship) tra le menti come condivisione e trasferimento di informazioni – le informazioni possono essere considerate in termini di energia, energia dotata di un significato.

Le nostre esperienze mentali si collocano sempre in un contesto relazionale e le relazioni danno forma alla nostra esperienza interiore; alla luce di questo appare riduttivo ritenere che la mente umana sia limitata al cranio, al corpo o al cervello, intendendo per mente unicamente il risultato delle attività cerebrali. La mente è, quindi costituita dal cervello e dalla rete di relazioni che esso intrattiene con la realtà circostante; i processi relazionali possono essere definiti, come detto in precedenza, in termini di scambi di informazioni.

Alla luce di queste premesse, quando andiamo ad analizzare i processi di attaccamento studiamo come la mente del bambino si sviluppa sotto l’influenza del contesto relazionale in cui egli è immerso. Allo stesso modo, nell’attività clinica noi ci serviamo della relazione terapeutica per apportare delle modifiche al cervello del nostro cliente.

 

La mente può, quindi, essere definita come un sistema, un sistema caratterizzato da un processo di funzionamento ricorsivo: la mente crea se stessa nel rapporto con se stessa e con gli altri; si tratta di un sistema complesso in quanto sistema aperto, caotico (disposto in modo casuale) e non lineare (input piccoli determinano risultati ampi e non prevedibili).

In qualità di professionisti della salute mentale dobbiamo favorire, nei nostri clienti, il funzionamento sano della mente. Ma cosa si intende per mente sana? Per Siegel la risposta sta nella parola integrazione: una mente sana è una mente integrata.

Affinché il sistema-mente sia integrato è necessario che esso sia flessibile, adattivo, coerente ed energizzato, collegando in modo armonico l’una all’altra le parti differenziate che lo compongono. Nell’esplicitare questo concetto Siegel si avvale della metafora del coro: una mente sana ed integrata funziona armonicamente come le singole voci di un unico coro che, pur mantenendo la loro differenziazione si armonizzano l’una con l’altra producendo un suono comune, prodotto dal contributo di ogni voce componente.

Anche alla base del processo di attaccamento c’è un processo di sintonizzazione, quello tra bambino e caregiver: una relazione di attaccamento sana è una relazione che oscilla in modo armonico tra i poli della differenziazione e della integrazione.

La comunicazione integrata all’interno di una relazione di attaccamento sicuro stimola nel bambino integrazione a livello di sviluppo cerebrale, mentre esperienze traumatiche e/o di abuso, sempre nell’ambito della relazione con le figure di attaccamento, influiscono negativamente sullo sviluppo delle seguenti aree cerebrali:

• corpo calloso (la connessione tra emisfero destro e sinistro);

• ippocampo (area medio-temporale);

• corteccia pre-frontale (zona ricca di neuroni specchio che gioca un ruolo molto importante nei processi di connessione e di relazione con le soggettività altrui).

L’aver subito, durante l’infanzia, esperienze traumatiche nell’ambito della relazione di attaccamento (esperienze di abuso e/o di trascuratezza, la quale può determinare, nelle fibre nervose, un livello di disorganizzazione persino maggiore rispetto all’abuso) incide in modo diretto sulla formazione dei neuroni specchio; ciò significa che l’attaccamento compromesso da un trauma rappresenta un attacco massivo all’integrazione interpersonale. In altre parole, anche a livello neuronale è possibile constatare come le esperienze traumatiche condizionino negativamente le abilità introspettive e le capacità relazionali del soggetto.

In questo quadro il soggetto va aiutato a recuperare l’integrazione sia a livello interiore, promuovendo l’enterocezione (capacità di percepire le sensazioni interne) e la mind-sight (capacità di percepire i processi mentali interiori), che a livello relazionale, acquisendo la capacità di imparare a gestire la soggettività e di monitorare le relazioni.

Una delle principali finalità della mindfulness, di cui oggi tanto si parla, è proprio quella di aumentare l’integrazione nelle aree non integrate del cervello, aiutando il paziente a “sentirsi sentito”; l’integrazione si estrinseca anche nella relazione terapeutica attraverso l’empatia, la presenza, la sintonizzazione, la fiducia e la capacità di “onorare le differenze”, per usare le parole dello stesso Siegel.

 

L’intervento successivo di Vittorio Gallese si colloca sulla stessa lunghezza d’onda concentrandosi sul tema dell’intersoggettività; vengono analizzati i seguenti aspetti:

• il ruolo dei neuroni specchio

• la simulazione incarnata

• l’approccio relazionale in seconda persona alla cognizione sociale.

Partendo dalla premessa che i fenomeni mentali e fenomeni fisiologici non sono altro che le due facce della stessa medaglia, Gallese mette l’accento sulla necessità che gli esseri umani hanno, nel relazionarsi agli altri, di interpretare e di ricondurre alla categoria di “fenomeni mentale” i comportamenti osservati, i quali vengono percepiti in termine di “mera azione biologica”.

Questo processo di riconversione attiene alla Teoria della Mente, la quale cerca di spiegare come noi attribuiamo agli altri, sulla base delle azioni che vediamo loro compiere, degli stati mentali; ciò implica la necessità di superare il gap che separa gli esseri umani, intesi come monadi ognuna dotata della propria mente, attraverso la capacità di attribuzione di significato e di “mentalizzazione” dei comportamenti osservati.

In questo quadro, è un obiettivo ancora difficile da raggiungere, da parte dei neuroscienziati, l’elaborazione di un modello che spieghi in modo esaustivo come, a livello di funzionamento cerebrale e di circuiti neuronali, gli esseri umani sono in grado di comprendere gli stati mentali altrui.

Piuttosto che lasciarsi sedurre da prospettive riduzionistiche, che non rendono conto della complessità dell’oggetto di studio, conviene optare per un differente approccio epistemologico.

La scoperta dei neuroni specchio ha modificato in modo in cui concettualizziamo l’intersoggettività: abbiamo capito che, nel relazionarci agli altri, non ci limitiamo semplicemente ad osservare i loro comportamenti per poi provare a capirli (ossia ad attribuire loro un corrispondente stato mentale) attraverso un processo di inferenza per analogia (rapportandoli ai nostri comportamenti e stati mentali); noi siamo in grado, attraverso processi di simulazione, di mappare le azioni degli altri utilizzando le nostre rappresentazioni motorie e somato-sensoriali.

Di conseguenza, noi abbiamo accesso alla conoscenza degli altri attraverso l’intercorporeità, che rappresenta un modo di innovativo di ripensare l’intersoggettività; si tratta di un assunto dimostrato sul piano sperimentale, utile anche per spiegare l’impatto dei traumi sulla personalità degli individui (in tal senso viene proposto uno studio che dimostra come esperienze traumatiche precoci contribuiscono a costruire un “muro difensivo” rispetto alle emozioni altrui) per ripensare da una prospettiva differente le dinamiche del setting terapeutico.

 

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ATTACCAMENTO TRAUMA

Come rendere efficace un annuncio di lavoro

FLASH NEWS

 

Gli annunci che hanno fatto leva sulle esigenze, desideri e preferenze dei candidati hanno ricevuto più visite, rispetto a quelli che sottolineavano le esigenze della società.

Nel mondo del lavoro e della ricerca del personale dover scegliere tra una rosa di candidati con curricula scadenti, competenze e qualifiche basse, è quanto di peggio possa capitare a un responsabile delle risorse umane. Un insieme di curricula mediocri, però, non riflette necessariamente una carenza di talenti disponibili sul mercato del lavoro, ma può essere, più semplicemente, il risultato del linguaggio usato negli annunci di reclutamento.

Secondo una ricerca dell’Università di Saskatchewan, sembra infatti, che gli annunci abbiano una migliore possibilità di attrarre buoni candidati quando sottolineano ciò che il lavoro offre, piuttosto che ciò che richiede ai candidati.

La ricerca si basa sulla premessa che chi cerca lavoro è attratto da posizioni che non si adattano solo alla necessità di uno stipendio, ma anche al bisogno psicologico di realizzazione e di raggiungere dei risultati.

Il team di ricercatori ha ipotizzato che sia possibile creare annunci di lavoro che siano universalmente attraenti e questo anche specificando quanto soddisfacente e significativo potrà essere svolgere quel lavoro.

Schmidt e il suo team hanno lavorato con una grande società di ingegneria e di consulenza multinazionale, manipolando il testo degli annunci di lavoro online che la società aveva predisposto per le posizioni di ingegnere, progettazione tecnica e gestione del progetto. Alcuni annunci mettevano in risalto l’autonomia e le opportunità di avanzamento offerte dal lavoro. Altri sottolineavano principalmente i requisiti richiesti dall’azienda per la posizione da occupare.

I ricercatori hanno monitorato il numero di visualizzazioni on-line di ciascun annuncio e il livello di formazione, esperienza e competenza delle persone che li hanno visualizzati. Successivamente tra quelli che hanno inoltrato domanda per le posizione offerte i ricercatori hanno indagato le loro percezioni sull’annuncio di reclutamento.

Come atteso, gli annunci che hanno fatto leva sulle esigenze, desideri e preferenze dei candidati hanno ricevuto più visite, rispetto a quelli che sottolineavano le esigenze della società. Inoltre, gli annunci che sottolineavano la realizzazione personale e opportunità di carriera hanno attratto candidati con profli professionali più elevati.

Un altro dato interessante riguarda le differenze nel tipo si posizioni offerte. La domanda per professioni tecniche, quali ingegneri e designer è particolarmente elevato rispetto a quella del personale amministrativo, e lo studio ha dimostrato che il livello dei candidati tecnici era superiore quando l’annuncio faceva appello ai bisogni psicologici dei candidati. Al contrario, la formulazione degli annunci non ha avuto alcun effetto sul livello dei candidati che cercavano le posizioni amministrative.

Questo risultato indica che persone di talento, soprattutto in settori ad alta richiesta, sono significativamente più concentrate su come trovare le posizioni che soddisfano le loro esigenze, rispetto a di chi cerca posizioni amministrative meno negoziabili.

 

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Se vuoi una promozione sul lavoro… Trovati un hobby!

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La costruzione dei ricordi: Il senso di una fine di Julian Barnes (Recensione)

Il libro spazia tra passato e presente, tra l’attuale vita di Tony (in pensione e separato) e il suo passato da adolescente e da ragazzo. Colpisce, a volte, come in un romanzo si trovi tanta psicologia quanta se ne possa trovare in un manuale universitario.

Colpisce, a volte, come in un romanzo si trovi tanta psicologia quanta se ne possa trovare in un manuale universitario. Leggendo anche i trascorsi e le vicende degli autori, si riesce a fare una serie di collegamenti e associazioni che fanno capire quanto i temi che emergono nel corso della lettura siano in realtà strettamente legati alle vite personali di chi quel libro l’ha scritto. 

Julian Barnes è uno scrittore inglese, vincitore con il libro Il senso di una fine del Booker Prize del 2011. Nel suo ultimo libro, Livelli di vita, parla della tragica esperienza della morte della moglie avvenuta nel 2008. In una recente intervista (Il dolore non serve a niente– Repubblica delle idee) dichiara quanto sia stato terapeutico per lui tenere un diario dal momento in cui ha saputo della malattia della moglie. …temevo di dimenticare, confida.

E sono proprio i temi della memoria e del ricordo che emergono prepotentemente dalle pagine che raccontano la vita relativamente tranquilla di Tony Webster.

Il libro spazia tra passato e presente, tra l’attuale vita di Tony (in pensione e separato) e il suo passato da adolescente e da ragazzo. Un gruppo di quattro amici separati dalle vicende della vita, una ragazza un po’ particolare che, dopo aver preferito il suo amico Adrian a lui, ritorna dopo anni come portatrice di elementi di cambiamento, fanno da sfondo ai ricordi di Tony. Fino ad arrivare alla morte per suicidio dell’amico Adrian e all’arrivo in eredità del suo diario.

Ciò che emerge dal racconto di Barnes è il concetto di memoria, non come copia fedele degli eventi trascorsi bensì come meccanismo attivo di costruzione e trasformazione. Tale concezione può essere ricondotta, in ambito psicologico, alle prime teorie di Bartlett che assimilava la memoria a uno schema, cioè a una struttura organizzata che guida il nostro comportamento, un modello che può essere modificato per adattarsi a circostanze diverse. Bartlett si oppose alle concezioni cognitiviste precedenti, come quella di Neisser, che propendevano più per un’ipotesi di riapparizione dei ricordi. Ovvero, i ricordi potevano ritornare alla memoria così come erano stati immagazzinati.

Ciò che Bartlett rivoluzionò fu la possibilità di integrare i processi mnestici ad altri processi cognitivi come quelli legati alle emozioni, alle motivazioni e all’immaginazione. Il legame tra memoria ed emozioni è ben esplicato dall’Associative Network Model che spiega, in un modello generale, come sono connessi affettività e cognizione (Mecacci, 2001).

La memoria opererebbe quindi una ricostruzione adattiva, integrando passato e presente. Non è quindi una mera riproduzione del passato. Lo stesso Barnes ci dice che molte volte, raccontando la storia della nostra vita la aggiustiamo, la miglioriamo, applicandovi tagli strategici. Tale meccanismo potrebbe servire per molteplici scopi come per esempio salvaguardare la propria identità escludendo tutto ciò che risulta essere dissonante, mirando quindi a una coerenza.

E alla coerenza mira anche la narrazione. Ricordare qualcosa, infatti, somiglia molto al raccontare una storia. Per questo motivo la memoria potrebbe seguire gli stessi principi della struttura narrativa. Tony, rivedendo i suoi ricordi alla luce di nuovi elementi emersi anni dopo, afferma come

la nostra vita non è la nostra vita ma solo la storia che ne abbiamo raccontato. Agli altri ma soprattutto a noi stessi.

Infatti, la teoria dei flashback di memoria (New Print Theory) prevede proprio l’importanza, per la maggior vividezza del ricordo, della reiterazione verbale e dei resoconti forniti ad altre persone (Brown & Kulik, 1977).

I personaggi di questo libro, avvolti a tratti da un’atmosfera che sembra fredda e lugubre, vanno alla disperata ricerca di un senso. Quindi non solo il senso di una fine, ma probabilmente anche di una vita.

Ognuno di loro sembra interrogarsi sul senso del mondo e dello stare al mondo: c’è chi non sceglie e chi invece vuole poter scegliere se andare avanti oppure no, prendendo in mano le redini della vita e della sua fine. Questa ricerca dura tutta la vita. Ma alla fine la risposta non arriva. Anzi,quando crediamo di aver compreso qualcosa, di aver messo insieme i tanti pezzettini del puzzle, in realtà ci accorgiamo di non aver capito nulla.

Tra diario e narrazione autobiografica, concezione costruttivista della memoria e creazione dell’identità mediante narrativa, molti sono i temi legati agli studi psicologici che rendono questo libro piacevole da leggere e anche molto istruttivo.

 

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Il bordo vertiginoso delle cose di Gianrico Carofiglio – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Relazioni infelici: perchè la coppia non scoppia?

Quel feeling che lega e mantiene salda la coppia dovrebbe essere alla base della solidità. Allora nasce la questione: come è possibile portare avanti relazioni che non funzionano?

Persone sposate, o in relazione da molto tempo, pare siano apparentemente compatibili su molte cose, ma non riescono a diventare veramente intimi. In sostanza, condividono la quotidianità, ma nulla di realmente privato che possa portarli alla vera conoscenza e confidenza con il partner. Eppure tante coppie, costituite da partner non totalmente simili, portano avanti la relazione per anni, ma ad un certo punto scoppiano e divorziano.

E’ logico che col tempo, attraverso la conoscenza si scoprano molte cose dell’altro, ma quel feeling che lega e mantiene salda la coppia dovrebbe essere alla base della solidità. Allora nasce la questione: come è possibile portare avanti relazioni che non funzionano?

Gli psicologici sono molto interessati all’argomento, ma spesse volte si concentrano su cosa determini la scelta di una persona, senza andare ad identificare quali siano le variabili che portano ad avere una buona relazione duratura. Avere partner ricchi, belli, forti, eleganti, etc., tutte caratteristiche che nel tempo possono sparire o mutare e per questo se si costruisse una relazione sulla base di queste qualità è possibile possa non resistere a lungo.

Allora, perché avvengono queste scelte? Un team di ricercatori dell’Università di Toronto offre una nuova chiave di lettura su cosa determini le scelte nelle relazioni affettive. Secondo la ricercatrice Samantha Joel e i suoi colleghi, la mente umana ha tendenze prosociali e automatiche forti determinate dalla credenza che non è piacevole infliggere dolore sociale. Per questo si tende ad essere gentili con l’altro per non causargli dolore e sofferenza, e questa cosa porta a mantenere le relazioni anche con partner non compatibili. Di conseguenza rifiutare qualcuno diventa più facile a dirsi che a farsi, almeno questa è la teoria cui sono giunti gli scienziati di Toronto.

Vediamo da dove sono partiti. I ricercatori del gruppo di Joel hanno reclutato giovani uomini e donne soli ma interessati a conoscere e uscire con qualcuno. Così è stato creato un sito per appuntamenti con foto di gente non molto attraente. Dopo aver effettuato la loro scelta, i partecipanti, hanno fissato un appuntamento con la persona designata. Ma qui arriva la parte più importante dell’esperimento: ad alcuni dei partecipanti era detto che la persona scelta era nello stesso posto nel quale si trovavano loro ed era disponibile immediatamente ad un incontro, ad altri invece che dovevano solo immaginare cose poteva accadere con questa persona. E cosa è successo?

Quando si trattava di una persona più prossima fisicamente tendevano a considerarla più attraente di quanto non lo fosse, e quando veniva loro chiesto come mai avveniva questa cosa rispondevano di essere preoccupati della reazione emotiva avuta dall’altro nel caso avessero deciso di non incontrarlo. Tendevano, insomma, ad essere più gentili e disponibili!

Beh, è incoraggiante che le persone siano mosse da una così forte empatia e disponibilità, ma cosa succede se sulla scia di queste emozioni si costruiscono relazioni infelici? Non è chiaro da questi studi fino a che punto la gente sarebbe disposta ad accondiscendere l’altro. E’ plausibile che col crescere dell’empatia si investa di più in un rapporto, tanto meno si vuole danneggiare il partner e per questo aumentino le probabilità di rimanere insieme. E poi, cosa potrebbe accadere?

Ai posteri l’ardua sentenza, ma una cosa è certa: la gentilezza non paga nelle relazioni d’amore! O meglio, potrebbe portare a pagare l’avvocato divorzista!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Joel, S., Tepper, R., & MacDonald, G. (in press). People overestimate their willingness to reject potential romantic partners by overlooking their concern for others. Psychological Science

Scoperto un gene che influenza l’apprendimento delle norme culturali

 FLASH NEWS

 

 

La loro tesi è che i geni potrebbero rendere le persone più o meno sensibili alle norme culturali. In particolare un gene, il DRD4, potrebbe contribuire all’apprendimento di valori individualistici o comunali.

Individualista o cooperativo? Al di là degli stereotipi che vedono alcuni gruppi culturali o etnici più assimilabili all’uno o all’altro orientamento sociale, cosa influenza l’orientamento sociale individuale?

Una possibilità è la genetica. Non ci sono geni per l’individualismo o per la socialità, ma forse c’è un altro modo in cui i geni interagiscono con la cultura per generare la variabilità individuale. Questa è l’idea che Shinobu Kitayama e i suoi colleghi dell’Università del Michigan hanno cercato di verificare.

La loro tesi è che i geni potrebbero rendere le persone più o meno sensibili alle norme culturali. In particolare un gene, il DRD4, potrebbe contribuire all’apprendimento di valori individualistici o comunali.

È’ noto che le variazioni di questo gene influenzano l’efficienza del neurotrasmettitore dopamina, e che la trasmissione della dopamina a sua volta stimola alcune regioni cerebrali legate all’elaborazione della ricompensa. Questa sensibilità alla ricompensa influenza l’apprendimento, incluso, in teoria, l’apprendimento di norme culturali. Il team ha testato quest’idea in laboratorio.

Ha reclutato un folto gruppo di studenti universitari, circa la metà di origine americana e europea e l’altra metà asiatica. L’orientamento sociale dei volontari è stato valutato approfonditamente. Gli scienziati hanno poi prelevato campioni di saliva per l’analisi del DNA e suddiviso i volontari sulla base della variabilità del gene DRD4.

Incrociando i dati genetici con quelli sull’orientamento sociale hanno scoperto che:  i volontari americani ed europei erano significativamente più indipendenti mentalmente, e gli asiatici molto più interdipendenti

Nessuna sorpresa dunque, fino alla scoperta di un altro dato ben più intrigante: questa differenza culturale era molto più pronunciata sia negli asiatici che negli americani e europei che possedevano la variante del gene della dopamina. Mentre non c’era assolutamente nessuna differenza tra americani/europei e asiatici che non possedevano la variante del gene. 

Questo studio, che solleva un sacco di interrogativi sulla co-evoluzione di geni e cultura, è il primo a dimostrare che il gene DRD4 svolge un ruolo importante nel modulare influenze culturali.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione di cibo – Definizione Psicopedia

Si caratterizza per il disinteresse per il cibo, la selezione di alcuni alimenti basato sugli aspetti sensoriali (sensibilità estrema, con un quadro ben diverso dai bambini “schizzinosi”) o anche su alcune marche, la preoccupazione per le conseguenze negative del mangiare, quali eventuali vomito o soffocamento.

Rientra tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 (uscito nel maggio 2013), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria. Nella versione precedente era denominato Disturbo della nutrizione dell’infanzia o della prima fanciullezza: inoltre sono stati ampliati i criteri diagnostici.

Si caratterizza per il disinteresse per il cibo, la selezione di alcuni alimenti basato sugli aspetti sensoriali (sensibilità estrema, con un quadro ben diverso dai bambini “schizzinosi”) o anche su alcune marche, la preoccupazione per le conseguenze negative del mangiare, quali eventuali vomito o soffocamento.

 

Come conseguenza negli adulti c’è una significativa perdita ponderale e nei bambini l’incapacità di raggiungere gli aumenti di peso previsti, la malnutrizione, la dipendenza dall’alimentazione parenterale (sondino nasogastrico) o da integratori nutrizionali orali, e ovviamente è compromesso il funzionamento psicosociale, come il mangiare in pubblico e le relazioni.

Vanno escluse la mancanza di disponibilità di cibo, le pratiche di digiuno all’interno di contesti culturali e sociali particolari, quali i digiuni religiosi, l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa.

In caso di presenza di condizioni mediche particolari (disturbi gastrointestinali, allergie e intolleranze alimentari) o altri disturbi mentali, viene apposta la diagnosi di disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo solamente in presenza di un quadro clinico importante, non spiegato dalla stessa patologia.

L’esordio dell’evitamento o della restrizione legati alla mancanza di interesse per il cibo è più frequente in età infantile, ma può continuare nell’età adulta. L’evitamento o restrizione basato su aspetti sensoriali insorge solitamente entro i dieci anni e diventa relativamente stabile, non intaccando in modo particolare il funzionamento sociale, anche da adulto. L’evitamento associato a conseguenze avverse può insorgere a qualunque età.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association. (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM-5). Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE 

Procrastinazione: dipende dalla nostra percezione del tempo

FLASH NEWS

 

Secondo uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Consumer Research abbiamo maggiori probabilità di iniziare un lavoro quando questo ci sembra parte del presente; se invece un compito ci appare come parte del futuro facilmente lo rimanderemo. 

Perchè riusciamo a svolgere prontamente alcune incombenze o lavori mentre ne rimandiamo altri all’infinito? La risposta sembra essere nella nostra percezione del tempo.

Secondo uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Consumer Research, infatti, abbiamo maggiori probabilità di iniziare un lavoro quando questo ci sembra parte del presente; se invece un compito ci appare come parte del futuro facilmente lo rimanderemo. 

Yanping Tu della University of Chicago’s Booth School of Business e Dilip Soman dell’Università di Rotman School of Management di Toronto, hanno condotto una serie di studi per mettere alla prova la loro teoria.

In uno di questi, 100 studenti avevano cinque giorni di tempo per completare un compito di immissione dei dati di quattro ore; l’assegnazione è stata fatta alla fine di aprile.

Gli studenti a cui è stato assegnato il compito il 24 o il 25 aprile dovevano terminarlo entro il 29 o il 30 e avevano, secondo la teoria in esame, maggiori probabilità di iniziare i lavori di quelli a cui il compito è stato assegnato il 28 e che dovevano terminarlo nei primi giorni di maggio.

Il cambiamento di mese, come previsto, ha agito sugli studenti come una barriera temporale virtuale, che ha reso il compito parte di un futuro non imminente e quindi maggiormente procrastinabile.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Uso di cannabis e insorgenza di disturbi psichiatrici: quale relazione?

Alcuni studi che hanno esaminato gli effetti del consumo di cannabis negli adolescenti hanno rilevato una forte correlazione tra uso di cannabis e l‘insorgenza di molti disturbi psichiatrici, come la psicosi da cannabis, la depressione e gli attacchi di panico.

Questi disturbi possono insorgere a causa di uno specifico effetto farmacologico della cannabis, o come risultato delle esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione da cannabis. Si è rilevato, inoltre, che tra i consumatori di cannabis vi è un alto rischio di insorgenza di ideazione suicidaria e di tentativi di suicido. 

Secondo dati provenienti da indagini condotte sulla popolazione, in media il 31,6% dei giovani adulti europei (15-34 anni) ha utilizzato la cannabis almeno una volta nella vita, mentre il 12,6% ne ha fatto uso nell’ultimo anno e il 6,9% nell’ultimo mese. Una percentuale ancora più alta di europei appartenenti alla fascia dei 15–24 anni ha utilizzato la cannabis nell’ultimo anno (15,9%) o nell’ultimo mese (8,4%) (Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, 2010).

Il consumo di cannabis è stato associato ad un aumento del rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici. In uno studio longitudinale condotto in Svezia su 50.465 maschi svedesi, ad un follow up condotto dopo 15 anni, si è rilevato che coloro che avevano cominciato a consumare cannabis
a 18 anni avevano una probabilità due volte e mezzo maggiore, rispetto ai non consumatori, di essere diagnosticati schizofrenici (Andreasson et al., 1987).

Secondo i risultati di uno studio condotto in Bosnia-Erzegovina (Licanin et al., 2002) l’ abuso di sostanze è risultato molto più alto tra gli adolescenti delle aree urbane (con tassi del 62,4% per l’abuso di alcool e del 70,0% per abuso di cannabis) rispetto a quelli che vivono nelle aree rurali (dove si registra un tasso del 37,6% per abuso di alcool e del 30% per abuso di cannabis). Per quanto riguarda l’età, l’abuso di cannabis è risultato più frequente tra gli adolescenti di età compresa tra i 15 ed i 17 anni. Gli adolescenti consumatori di cannabis sono a rischio sia di
abbandono che di ridotto rendimento scolastico.

L’ uso occasionale o continuativo di cannabis può indurre molti disturbi psichiatrici come psicosi da cannabis, attacchi di panico, depressione che può sfociare in tentativi di suicido. Wayne Hall e Louisa Dagenhardt (2009) hanno individuato degli effetti collaterali legati all’assunzione sia occasionale che continuativa di cannabis.

Per gli autori, gli effetti collaterali legati all’uso occasionale di cannabis possono essere di tre tipi:

  • attacchi di ansia e di panico, in particolare nei nuovi consumatori;
  • sintomi psicotici (nel caso di consumo di dosi elevate di cannabis);
  • incidenti stradali legati alla guida in stato di intossicazione da cannabis.

Gli effetti avversi legati all’uso continuativo di cannabis sono invece:

  •  sindrome di dipendenza da cannabis (osservata in circa il 10% dei consumatori);
  • bronchite cronica e funzione respiratoria compromessa nei fumatori abituali di cannabis;
  • sintomi psicotici e disturbi psichiatrici nei consumatori che fanno uso massiccio di cannabis, in particolare nei soggetti con una storia pregressa di sintomi psicotici o con una storia familiare di questi disturbi;
  • ridotto livello di istruzione negli adolescenti che sono consumatori regolari;
  • deterioramento cognitivo per i consumatori abitudinari giornalieri da più di 10 anni.

Altri possibili effetti collaterali, individuati dagli autori, legati al regolare consumo di cannabis con relazione causale sconosciuta sono:

  • tumori delle vie respiratorie;
  • disturbi comportamentali in bambini le cui madri hanno fatto uso di cannabis durante la
    gravidanza;
  • disturbi depressivi, mania, e suicidio;
  • uso di altre droghe illecite da parte degli adolescenti.

Cannabis nel DSM IV-TR

Secondo il DSM IV-TR le problematiche derivanti dall’uso di Cannabis sono dipendenza da cannabis e abuso di cannabis.

I disturbi psichici indotti dal abuso di cannabis sono:

  •  Intossicazione da cannabis;
  •  Delirium da Intossicazione;
  •  Disturbo Psicotico Indotto da Cannabis (con manie o con allucinazioni);
  •  Disturbo d’Ansia indotto da Cannabis
  •  Disturbo cannabis-correlati non altrimenti specificati: come il Disturbo Delirante indotto da cannabis che è una sindrome (di solito con deliri di persecuzione) che si sviluppa subito dopo l’uso di cannabis. Essa può essere associata a marcata ansia, depersonalizzazione,
    e labilità emotiva e può essere erroneamente diagnosticata come schizofrenia. Successivamente all’episodio può subentrare amnesia .

L’uso occasionale di cannabis può generare sintomatologie che potrebbero essere diagnosticate erroneamente come crisi di panico, disturbo depressivo maggiore, disturbo delirante, disturbo bipolare, o schizofrenia paranoide.

Ipotesi sul rapporto tra uso di cannabis e psicosi

Ci sono due ipotesi che possono spiegare l’insorgenza di psicosi legato al consumo di cannabis. Lo stato psicotico può verificarsi sia come risultato di uno specifico effetto farmacologico della cannabis, che come il risultato di esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione di
cannabis. L’effetto psicotico sembrerebbe derivare dall’azione del delta-9-tetraidrocannabinolo (delta-9-THC), uno dei maggiori e più noti principi della cannabis. La seconda ipotesi è che l’uso di cannabis possa generare schizofrenia, o aggravarne i sintomi, in un
individuo vulnerabile o predisposto. In particolare l’uso regolare e continuativo di cannabis sembrerebbe quadruplicare il rischio di sviluppare un disturbo schizofrenico (Hautecouverture et al., 2006).

Cannabis e ideazione suicidaria

Licanin et al. (2003) hanno osservato una maggior prevalenza di ideazione suicidaria nei consumatori che abusano di cannabis (50,0%) e di alcol (36,6%) rispetto ai non-consumatori, indipendentemente dal sesso del consumatore e/o da cause ambientali. L’aumento dell’ideazione
suicidaria, non è stato osservato nei fumatori di tabacco. In uno di studio condotto in Bosnia-Erzegovina relativo al rapporto tra pensieri suicidari e l’abuso di droghe psicoattive, si è constatato che il 28,7% degli adolescenti che abusavano di droghe psicoattive e il 20,2% che, in particolare, abusava di cannabis, in seguito aveva sviluppato pensieri suicidari (Spremo & Loga, 2005).

Per molto tempo la cannabis è stata la droga illecita più usata dai giovani, soprattutto gli adolescenti. Il consumo di cannabis si è dimostrato essere associato ad un aumentato rischio di disturbi mentali. Gli effetti collaterali del consumo di cannabis dipendono dalla modalità di
somministrazione, dalla dose ricevuta, dal tempo di utilizzo, dalle aspettative del consumatore e dalla sua personalità. Il rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici è molto alta nei soggetti vulnerabili, comprese le persone che hanno usato cannabis durante adolescenza, quelli che in
precedenza avevano sperimentato sintomi psicotici, e quelli ad alto rischio genetico di disturbi psichiatrici.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Andreasson, S., Engstrom, A., Allebeck, P. & Rydberg, U. (1987). Cannabis and schizophrenia: a longitudinal study of Swedish conscripts,.Lancet, 2,1483-86.
  • American Psychiatric Association (2001). DSM-IV-TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Text Revision, Masson: Milano.
  • Hall, W., & Degenhardt, L. (2009). Adverse health effects of nonmedical cannabis use, Lancet, 374, 1383-92.
  • Hautecouverture, S., Limosin, F., & Roullon, F. (2006). Epidemiology of schizophrenic disorders, Presse Med, 35, 452-3.
  • Ličanin, I., Loga, S., & Cerić, I., et al.( 2002). Zloupotreba psihoaktivnih supstanci kod adolescenata u ruralnoj i urbanoj sredini, Med. Arh, 56 (5-6) 285-288.
  • Ličanin, I., Cerić, I., & Loga, S., et al. (2003). Socio-ekonomski parametri zloupotrebe supstanci kod adolescenata u BiH, Zbornik radova Prvog kongresa psihijatara Bosne i Hercegovine, Sarajevo, 212-213.
  • Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Evoluzione del fenomeno della droga in Europa Relazione annuale 2010.
  • Spremo, M., Loga, S., Burgić-Radmanović, M. & Ličanin, I. (2006). Psychoactive supstances and risk behavior among adolescents, Neurologia Croatica, vol. l55, suppl. 2, 161-162.
  • Slobodan, L., Svjetlana, L., & Mira, S. (2010). Cannabis and psychiatric disorders, Psychiatria Danubina, Vol. 22, No. 2, 296–297

Vuoi sapere se sono felice? Chiedimi se dormo!

Elena Sirotti & Valentina Di Dodo OPEN SCHOOL

 

Recenti ricerche hanno dimostrano che i disturbi del sonno contribuirebbero in prima linea all’evoluzione della sintomatologia depressiva. In questo senso si può dire che i disturbi del sonno possono precedere e prevedere la depressione.

Com’ è ormai noto i disturbi del sonno sono una caratteristica comune nella depressione, infatti rappresentano uno dei nove sintomi riscontrabili in un episodio depressivo maggiore. Alcuni dati indicano che fino al 90% delle persone con diagnosi di Depressione Maggiore hanno anche una diagnosi d’insonnia, inoltre ci sono prove empiriche che la depressione sia associata a problematiche legate al sonno anche in casi di insonnia sub-clinica.

Recenti ricerche (Chen et all.) hanno dimostrano che i disturbi del sonno contribuirebbero in prima linea all’evoluzione della sintomatologia depressiva. In questo senso si può dire che i disturbi del sonno possono precedere e prevedere la depressione.

Un recente studio americano di W. Michael Vanderlind e collaboratori, ha cercato di identificare i meccanismi di fondo che generano una correlazione tra disturbi del sonno e depressione.

Gli autori ipotizzano che i disturbi del sonno influenzino i sintomi depressivi attraverso il loro impatto sulle abilità cognitive, in particolare quelle abilità che riguardano il controllo cognitivo. Infatti, in altre ricerche che studiavano separatamente le problematiche relative al sonno e al disturbo depressivo, è stato trovato un collegamento, in entrambi i casi, proprio con un deficit nel controllo cognitivo.

Alla luce di questi risultati, Vanderlind ha esaminato se le difficoltà del sonno possano essere associate ad un ridotto controllo cognitivo su stimoli emotivi e se queste riduzioni possano essere legate o meno ad un aumento dei sintomi depressivi.

Questo studio utilizza sia questionari self-report per la misurazione della sintomatologia depressiva, che misure oggettive per valutare la qualità del sonno. In particolare i ricercatori hanno utilizzato un Actigraph, un dispositivo dotato di un accelerometro che permette di valutare la qualità e la quantità del sonno in modo oggettivo. L’Actigraph permette ai ricercatori di valutare i periodi di sonno e di veglia attraverso la misurazione dei movimenti della persona, inoltre questa tecnica permette di ottenere una misurazione anche dei ritmi circadiani, tutto in un ambiente naturale al di fuori del laboratorio.

Il campione era composto da 58 studenti universitari, i quali sono stati sottoposti a due sessioni a distanza di 3 settimane una dall’altra, durante le quali venivano somministrati i questionari e raccolti i dati. Nel periodo che intercorreva tra una sessione e l’altra veniva utilizzato l’Actigraph per raccogliere i dati oggettivi che servivano per rilevare i disturbi del sonno. L’ipotesi della ricerca era che una minore qualità e quantità di sonno avrebbe dato luogo ad un incremento dei sintomi depressivi.

In linea con l’ipotesi di partenza i dati hanno mostrato che la qualità del sonno riferita dagli studenti attraverso i questionari self-report è associata ad un aumento nei sintomi depressivi, pertanto sarebbe possibile prevedere un aumento della sintomatologia se è presente una diminuzione della qualità del sonno.

Questa scoperta supporta quelle di Chen e collaboratori, i quali suggeriscono che i disturbi del sonno non sono solamente un sottoprodotto della depressione, ma possono precedere il disturbo e i suoi sintomi. Anche se la carenza di sonno clinicamente rilevante (ad esempio insonnia) è predittiva della depressione, non è però stato possibile osservare una relazione tra la durata del sonno e il cambiamento nella gravità della sintomatologia depressiva.

 

Vuoi sapere se sono felice-chiedimi se dormo_grafico

Fig. 1. Path analysis predicting change in depressive symptoms.

 

Infine, i ricercatori hanno testato un loro modello teorico ipotizzando che, dato il collegamento tra i disturbi del sonno e il deficit di controllo cognitivo, e i sintomi depressivi e lo stesso deficit di controllo cognitivo, allora il controllo cognitivo sugli stimoli negativi medierebbe la relazione tra la qualità del sonno e i cambiamenti dei sintomi depressivi.

La scarsa qualità del sonno è stata associata con una maggiore difficoltà di attenzione e maggiore difficoltà a distrarsi da stimoli emotivamente negativi, che a loro volta portano a prevedibili aumenti di sintomi depressivi. Inoltre è stato osservato un rapporto indiretto tra stabilità del ciclo sonno-veglia e sintomi depressivi. In sintesi, le alterazioni del sonno possono contribuire allo sviluppo di depressione alterando il controllo cognitivo.

Come ultima analisi, i ricercatori hanno esplorato la relazione di un gene detto clock con le variabili della ricerca. Questo studio presenta dei risultati preliminari, che suggeriscono che la qualità del sonno potrebbe essere influenzata dal gene clock, anche se questo gene non sembra influenzare né la durata del sonno né il controllo cognitivo.

Questo studio innovativo ha dato risultati molto interessanti e utili nella prevenzione della depressione e delle sue ricadute.

Tuttavia questi dati sono ancora parziali e la ricerca ha più di un limite: ad esempio l’esiguo numero di soggetti studiati, un modello teorico ancora non ben strutturato, l’utilizzo di questionari self-report che hanno limiti legati alla soggettività delle risposte e l’uso dell’Actigraph che basandasi sul movimento dei soggetti potrebbe aver sovrastimato o sottostimanto le ore di sonno.

In futuro la ricerca dovrebbe continuare a esplorare il rapporto tra queste variabili all’interno di un unico modello per sviluppare una sempre più completa comprensione della depressione e del suo rapporto con i disturbi del sonno e il controllo cognitivo di stimoli emotivi.

 

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