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La relazione terapeutica nella Schema Therapy: una carta vincente

L’assunto centrale della Schema Therapy è che i disturbi emotivi e mentali derivano da un non adeguato soddisfacimento dei bisogni emotivi primari in età infantile.

La Schema Therapy porta con sé la forza di aver saputo integrare, in una cornice di chiaro senso terapeutico, aspetti di terapia cognitivo comportamentale, terapia della gestalt, teoria dell’attaccamento e psicoanalisi, andando ad individuare un approccio psicoterapico efficace per quelle persone che non riuscivano a trarre un reale beneficio dagli approcci terapeutici standard, rimanendo incastrati in relazioni interpersonali disfunzionali e in copioni di vita che portano sofferenza.

L’assunto centrale della Schema Therapy è che i disturbi emotivi e mentali derivano da un non adeguato soddisfacimento dei bisogni emotivi primari in età infantile. Il non soddisfacimento dei bisogni emotivi primari porta alla creazione di Schemi Precoci Maladattivi, che sono da considerarsi patologici quando associati ad emozioni negative ed intense.

I bisogni emotivi primari (quali bisogno di sicurezza, stabilità, cura e accettazione, bisogno di autonomia, bisogno di esprimere le proprie emozioni, bisogno di limiti realistici, bisogno di spontaneità e gioco) vengono espressi nella relazione con le figure di accudimento e attaccamento e, quando non sono soddisfatti, danno luogo ad un’intensa sofferenza che il bambino non è in grado di gestire.

Le esperienze, ad esempio, di deprivazione emotiva, abbandono, trascuratezza verranno mentalizzate dal bambino, dando luogo agli Schemi Maladattivi Precoci, che struttureranno la visione di sé, degli altri e del mondo. Gli Schemi Maladattivi rappresentano, quindi, tutte le emozioni, i ricordi e i pensieri legati al non soddisfacimento dei bisogni emotivi primari, che poi vengono generalizzati alle diverse esperienze di vita del soggetto nel corso dello sviluppo; gli SMP tendono ad auto-mantenersi, attivandosi in situazioni differenti, anche nella vita adulta, quando il soggetto sperimenta quelle stesse emozioni e sensazioni vissute nell’esperienza originaria di trauma. Il ponte tra il passato e il presente avviene grazie all’attivazione emotiva, ed è proprio questo il motivo per cui in terapia è così importante lavorare sulle emozioni.

 

Jeffrey Young individua diciotto schemi suddivisi in cinque domini.

Nel dominio distacco e rifiuto, i bisogni di base non soddisfatti sono quelli di sicurezza, stabilità, cura e accettazione e gli schemi che ne fanno parte sono:

abbandono/instabilità;

sfiducia/abuso;

deprivazione/emotiva;

inadeguatezza/vergogna;

isolamento sociale/alienazione.

Nel dominio mancanza di autonomia e abilità, il bisogno di base non soddisfatto è quello di autonomia e gli schemi di riferimento sono:

dipendenza/incompetenza;

vulnerabilità al pericolo;

invischiamento/sé poco sviluppato;

fallimento.

Nel dominio mancanza di regole, il bisogno non soddisfatto è quello della struttura e fissazione di limiti e gli schemi appartenenti a questo dominio sono:

pretese/grandiosità;

autocontrollo insufficiente.

Il quarto dominio è quello dell’eccessiva attenzione alle esigenze degli altri, il bisogno non soddisfatto è quello dell’espressione delle proprie emozioni ed è caratterizzato dai seguenti schemi:

sottomissione;

auto-sacrificio;

ricerca di approvazione.

Il quinto dominio è definito ipercontrollo e inibizione, il bisogno non soddisfatto è quello di spontaneità e gli schemi associati sono:

negativismo/pessimismo;

inibizione emotiva;

standard severi;

punizione.

La modalità con cui un individuo reagisce all’attivazione di uno schema rappresenta una risposta di coping, e cioè una strategia di fronteggiamento del soggetto di fronte alla sofferenza e al dolore che l’attivazione dello schema stesso comporta. Le modalità di coping che l’individuo può mettere in atto sono:

la resa;

l’evitamento;

l’ipercompensazione.

Quando il soggetto risponde con un atteggiamento di resa, le persone si comportano come se non ci fosse un’alternativa allo schema stesso. Quando si parla di un coping di ipercompensazione le persone si comportano come se il contrario dello schema fosse vero, ad esempio un uomo con schema di abbandono e con la paura che tutti prima o poi lo lasceranno farà in modo di chiudere le relazioni prima che possano diventare significative. Si parla di coping di evitamento quando le persone evitano sia da un punto di vista cognitivo che comportamentale che emotivo di attivare lo schema.

Il compito del terapeuta è proprio arrivare a modificare gli Schemi Maladattivi Precoci, attraverso tecniche cognitive, comportamentali ed emotive/esperienziali, ma soprattutto attraverso la relazione terapeutica, che diventa uno strumento indispensabile per modificare l’esperienza emotiva del paziente e ristrutturare le modalità con cui egli valuta sé, gli altri e il mondo.

La qualità emotiva della relazione terapeutica contribuisce a creare nella terapia una zona sicura e condivisa, in cui i bisogni emotivi della persona che soffre vengono riconosciuti validati e soddisfatti, proprio quando emerge la parte più vulnerabile e sofferente. La relazione terapeutica è orientata quindi al soddisfacimento di quei bisogni primari insoddisfatti, ovviamente nei chiari limiti del setting terapeutico: una relazione di accudimento in cui il terapeuta, come adulto funzionale, si prende cura dei bisogni del bambino, validando e dando valore alle sue emozioni, ai suoi pensieri, per costruire con lui nuovi schemi con cui leggere la realtà. Il nome con cui si definisce questo tipo di rapporto terapeutico è “Limited Reparentig”. All’interno della relazione terapeutica viene a crearsi un luogo sicuro in cui il paziente, spesso per la prima volta, può sentirsi accolto, non giudicato e protetto.

Il “Limited Reparenting” rappresenta uno degli aspetti peculiari della Schema Therapy; con esso si intende una tecnica specifica ideata per dare al paziente la possibilità di soddisfare quei bisogni che sono stati frustrati nell’infanzia. L’immaginazione viene usata come mezzo per accedere alle situazioni dolorose dell’infanzia del paziente, il paziente ritorna bambino e rivive le esperienze che hanno determinato la formazione dei suoi Schemi Maladattivi, questa volta, però, in un contesto buono, sicuro, in cui le emozioni del bambino vengono finalmente riconosciute e validate e i bisogni soddisfatti. Andando a lavorare sull’emozione di quel bambino, dando finalmente una risposta buona ed adeguata a quei bisogni frustrati, andiamo ad indebolire gli Schemi Maladattivi che perdono la struttura emotiva sofferente che li tiene in piedi. Proprio perché l’emozione, come detto prima, fa da ponte tra le esperienze presenti e le esperienze passate andando a “correggere” la percezione emotiva di un evento dell’infanzia, possiamo arrivare a cambiare il modo in cui la persona pensa, sente e agisce nelle situazioni difficili odierne.

Nella relazione terapeutica, il terapeuta funziona da modello di adulto sano, si prende cura in modo amorevole del bambino del paziente, poi, pian piano nel corso della terapia l’adulto del paziente imparerà ad affiancare e poi a sostituire il terapeuta nell’importante compito di prendersi cura di sé.

 

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FLASH NEWS

 

 

Un gruppo di ricercatori della UCLA ha dimostrato come la ridotta interazione faccia-faccia, conseguente all’uso intenso di smartphone e dispositivi elettronici in genere, possa causare una diminuzione delle abilità sociali.

Lo studio ha coinvolto due gruppi di studenti di 11-12 anni, 51 ragazzi hanno vissuto per 5 giorni in un campo-scuola in cui non era permesso usare alcun dispositivo. Altri 54 ragazzi della stessa scuola, invece, non avevano restrizioni di alcun tipo.

Prima e dopo l’esperimento sono state rilevate le abilità di riconoscere le emozioni altrui di ciascun partecipante attraverso la presentazione di 48 immagini di volti che esprimevano felicità, tristezza, rabbia e paura che veniva chiesto di identificare e dei video di cui dovevano descrivere le emozioni degli attori.

I risultati mostrano che i bambini che avevano partecipato al campo avevano migliorato significativamente le loro abilità di lettura delle emozioni facciali e di altri indizi non-verbali, a differenza di quanto invece fatto dai bambini che avevano continuato a usare i suddetti dispositivi.

Senza l’interazione faccia-faccia si perdono, dunque, importanti abilità sociali che non si possono apprendere allo stesso modo attraverso uno schermo.

Dobbiamo, quindi, ricordare che in quanto creature sociali è per noi necessario interagire direttamente con l’altro e non smettere di comunicare senza la mediazione di strumenti elettronici.

 

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Donne e sessualità: tra soddisfazione e legami di attaccamento – Recensione

Ivan Formica  

 

Il libro “Donne e Sessualità. Uno studio casistico tra soddisfazione e legami di attaccamento” guarda all’orizzonte del piacere femminile partendo da un viaggio retrospettivo nella storia della sessualità, dal mondo antico fino ai giorni nostri; per molto tempo piacere e desiderio furono considerati come disgiunti l’uno all’altro ed esclusivamente rilegati alla necessità procreativa.

[blockquote style=”1″]La vita sessuale degli uomini è divenuta accessibile alla ricerca. Quella delle donne è nascosta dietro un’impenetrabile oscurità[/blockquote]

(S. Freud, 1905).

Le parole di Freud riecheggiano come per molto tempo lo studio della sessualità femminile sia stata oggetto di dubbi, pregiudizi e false credenze ma anche di interesse per quella “sfera esperienziale” come la definirebbe Foucault, tanto negata e repressa, quanto vissuta ed ostentata.

Il libro “Donne e Sessualità. Uno studio casistico tra soddisfazione e legami di attaccamento” guarda all’orizzonte del piacere femminile partendo da un viaggio retrospettivo nella storia della sessualità, dal mondo antico fino ai giorni nostri; per molto tempo piacere e desiderio furono considerati come disgiunti l’uno all’altro ed esclusivamente rilegati alla necessità procreativa.

Tale “scissione” era evidente per esempio nell’antica Grecia, si pensi alle parole di Demostene: «Abbiamo le etere per il piacere, le concubine per la cura quotidiana del corpo, le mogli per procreare figli legittimi e per custodire fedelmente la casa»; una massima fiorentina del Trecento sintetizzava bene tale concetto: “buon cavallo e mal cavallo vuole sprone; buona donna e mala donna vuol bastone”. Le donne, come il cavallo, a prescindere dalle loro caratteristiche di bontà o malizia, dovevano essere dominate e punite poiché secondo la scienza medica del tempo, essendo la donna sensibile alle influenze esterne ed a cedervi, occorrevano sorveglianza e repressioni costanti. (L. Stone, 1995).

Nella tarda antichità e primo Cristianesimo, intorno al II sec d.C., si avvertirono le prime avvisaglie di una svolta nell’ambito della sessualità: la superiorità dell’anima sul corpo decantata da Platone e dagli Stoici, esortava alla moderazione e all’autocontrollo, il corpo era considerato come la morte dell’anima dunque l’unica soluzione per permettergli di risorgere era quello di privarlo e martoriarlo (P. Veyne, 1978).

L’avvento del Cristianesimo portò con sé l’imperativo morale della fedeltà coniugale e con esso ancora una serie di divieti e vincoli abbastanza rigidi nei confronti della donna la cui sessualità continuava a essere confinata alla procreazione. Questo spirito sessuofobico culminerà nella caccia alle streghe durante il Medioevo, il Malleus maleficarum offre a tal riguardo assieme ai molti atti processuali dell’epoca, definizioni emblematiche «il sesso non è nulla di naturale, ma viene dal diavolo e la donna è il suo ministro nell’opera di tentazione». (Cfr. A. Cipriani, 2006).

Con la nascita della psichiatria, sociologia ed antropologia, uno dei tanti interrogativi delle nuove scienze fu quello di definire il confine tra normalità ed insanità ed anche in ambito sessuale molti furono i dubbi a riguardo; infine, con l’avvento del XX e XXI secolo, la ruota della morale sessuale ha compiuto un altro giro, quello della tolleranza e della sessualizzazione di tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Senza entrare in merito alle lotte femministe si può asserire che la rivoluzione sessuale, caratterizzante il secolo, ha visto nell’avvento dei mezzi contraccettivi poco costosi e affidabili (come il preservativo e la pillola) e la scoperta degli antibiotici con i quali curare le malattie veneree, due timoni saldi con i quali indirizzare la rotta di una nuova sessualità femminile. Le scoperte mediche e scientifiche concernenti i metodi anticoncezionali e abortivi, posero le premesse per il controllo da parte della donna della sfera sessuale, separandola dalla sola procreazione (M. Boneschi, 1998).

Ma cosa s’intende per soddisfazione sessuale femminile? Nella sua Prefazione al libro, Clemente Cedro Professore di Psichiatria all’Università degli Studi di Messina, scrive: “con una scrittura piacevole e suffragata da dati documentali, l’autrice illustra l’evoluzione del concetto di orgasmo femminile e la sua natura fisiologica, fornendo informazioni, che risultano estremamente interessanti per lettori di entrambi i sessi.

Il testo è quindi un valido manuale per comprendere a fondo la sfera del piacere sessuale femminile, utile per conoscere l’attuale indice di soddisfazione sessuale del campione di donne esaminate, ma forse, e soprattutto, per stimolare riflessioni sull’importanza che riveste la vita di relazione con i propri genitori nella prima infanzia in rapporto alla possibilità concreta per le donne di realizzare una sana e soddisfacente vita sessuale”; nel libro il concetto di soddisfazione non si esaurisce con il raggiungimento dell’orgasmo nonostante nella nostra società vi sia un’attenzione particolare, da parte di entrambi i sessi, al fatto che la donna raggiunga l’orgasmo come sintomo di salute psichica in generale: un capitolo intero è dedicato alle problematiche sessuali femminili alle indicazioni per una corretta diagnosi, all’eziologia ed ai suggerimenti per il trattamento.

Infine, la ricerca condotta in alcuni Consultori Familiari, ha indagato dal punto di vista clinico e scientifico l’universo femminile che si cela dietro alle più comuni problematiche sessuali oggetto di consulenza specialistica, in correlazione con i rapporti con le figure genitoriali ed il contesto socioculturale entro cui questi si esprimono, dimostrando come questi possano avere un impatto notevole nello sviluppo di una sana sessualità o di particolari disfunzioni (vaginismo, anorgasmia ecc.).

L’autrice sottolinea quindi la necessità di ripartire dal basso, dall’ educazione all’affettività come fondamento per la costruzione di legami sani ed appaganti.

I clinici sono ormai consapevoli del fatto che quando una problematica sessuale diventa l’argomento principale in un’intervista iniziale, questo rappresenta solo la punta di un iceberg, infatti i nuovi modelli dinamici di interpretazione e di trattamento delle disfunzioni sessuali considerano la natura eziologica multicomponenziale del disturbo e lo stesso ciclo di risposta sessuale come sinergia tra motivazioni, fattori socio-psicologici e relazionali interagenti inclusi i fattori derivanti da condizioni fisiopatologiche importanti come il diabete (Gabbard, 2007).

Nel libro uno sguardo attento e prospettico è inoltre rivolto all’adolescenza, al disagio giovanile ed al ruolo importante che rivestono la famiglia e la scuola: in riferimento alla stretta correlazione tra accudimento e soddisfazione sessuale in età adulta su citata, emerge come la madre ricopra un ruolo importante nei processi di identificazione e differenziazione che la giovane attraversa durante la formazione della sua identità.

L’importanza di braccia calde e accoglienti, di prontezza e di comunicazione fa sì che il linguaggio non-verbale costituisca quel palcoscenico intersoggettivo attraverso cui sperimentare le proprie emozioni, convalidarle grazie all’aggancio emotivo della madre e riproporle nella formazione e sperimentazione della propria affettività.

La madre diventa così, per la ragazza che si trova a relazionarsi con l’altro sesso, un valido veicolo e un elemento di “modeling” oltre che una base sicura cui fare affidamento. L’abbassamento dell’età dei primi rapporti, l’aumento delle gravidanze tra le giovanissime e delle malattie sessualmente trasmissibili, si accompagnano spesso a una scarsa consapevolezza e ad una carenza di informazione da parte della ragazza.

Per tali motivi è fondamentale la creazione di punti di riferimento esterni alla famiglia che accompagnino e sostengano, questa delicata fase evolutiva. È importante considerare come comportamenti sessuali, considerati a rischio, possano in realtà veicolare altri aspetti, a livello più strettamente individuale, la sessualità può servire a diminuire il senso di solitudine o gli stati d’ansia, soprattutto quando questi sono legati alla difficoltà di comunicare con gli altri od a situazioni problematiche quali disagi familiari.

Il disagio giovanile può essere dunque l’espressione di una crisi più ampia che copre l’intera area esistenziale del soggetto: oggi molti giovani fanno fatica a sviluppare un loro progetto di vita, a dare un senso profondo alla propria esistenza, vivono focalizzati sul presente, nel mondo virtuale del “qui tutto è possibile” passando spesso da un’esperienza frammentaria all’altra. Tali comportamenti se non adeguatamente prevenuti, contenuti e reindirizzati in maniera funzionale possono condurre a disagi psicologici più ampi e preoccupanti, si pensi alla condizione di solitudine ed emarginazione dei cosiddetti “hikikomori”, al fenomeno delle baby squillo, del cyber sex e più in generale alle ormai diffuse dipendenze comportamentali.

Sempre dalla Prefazione si legge: “Parlare oggi di sessualità e di soddisfazione sessuale è più che mai attuale. In primo luogo la psicologia, ma anche la politica e la catechesi, non possono trascurare questa sfera della vita umana, che è generatrice di componenti esistenziali di primaria importanza, come i legami d’amore, la coesione coniugale, la procreazione, la felicità esistenziale (…); Cinquanta anni sono ormai trascorsi dall’inizio della cosiddetta rivoluzione sessuale, iniziata come movimento culturale legato all’esigenza di riconoscere alle donne pari diritti e pari opportunità rispetto al mondo maschile, e che negli anni ’70 portò in Italia alle lotte per il riconoscimento del diritto alla maternità responsabile e alla sessualità sganciata dalla necessità procreativa; L’interessante lavoro scientifico di Maria Laura Falduto apre delle prospettive evolutive meritevoli di sempre nuove indagini e approfondimenti. Lo stile, a tratti tecnico, che l’autrice mantiene in alcune parti del testo, è espressione di una volontà “laica” di esporre i risultati al di là di rappresentazioni ideologiche precostituite”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

AUTORE: 

  • Ivan Formica: Ricercatore universitario presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Messina.

Amato maledetto figlio mio – Centro di Igiene Mentale – CIM n. 11 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE – #11

Amato maledetto figlio mio

 

Il susseguirsi delle urgenze favorì un immediato reinserimento senza troppi convenevoli. Non necessitavano nuove scrivanie e sedie, come tutte le risorse sempre carenti e al centro di dispute e polemiche. Quelli erano operatori di strada o, meglio, di macchia e di riviera, come amava ripetere Biagioli che, per quanto preoccupato per la loro non facile gestione, era orgoglioso di loro e di esserne stato il formatore.

Mario, ventitre anni, era bello come James Dean con i suoi lunghi capelli biondi e l’azzurro degli occhi che annegava chi lo guardava. Condivideva con James Dean un’ aura di fragilità che evocava un destino tragico che lo aveva preceduto e lo accompagnava nel suo faticoso arrancare sui sentieri dell’esistenza. Durante la sua gravidanza, periodo che si immagina protetto tiepido, acquoso, dai rumori ovattati e i colori pastello, fuori da quel sacco era tempo di tragedie.

Margherita la sua unica sorellina che lo aveva preceduto di tredici anni dall’aspetto di una madonnina di Raffaello vedeva contemporaneamente i seni premere sulle camicette a fiori e gli occhioni azzurri come i suoi sporgersi dalle orbite premuti da un emangioblatoma che cresceva al ritmo della pubertà e, forse per rispetto della sua giovinezza, ne stravolse la nascente bellezza solo per tre mesi con un’ orrenda agonia prima di restituirle una immobile compostezza e forse la pace. Adriana, la madre allora venticinquenne aveva odiato quell’esserino che le si annidava in grembo come se la sua vita l’avesse rubata a Margherita. Il giorno, mille volte stramaledetto, che vide la luce intorno c’erano soltanto pianto, urla, bestemmie e processioni di parenti e vicini venuti a salutare Margherita. Come per tutto il resto della sua vita il padre Oreste non c’era. Allora perché mesto accompagnatore della amata figlioletta al camposanto. In seguito perché anestetizzato nei bar della zona. Infine pacificato dalla motosega che incidentalmente (?) sfuggitagli alla presa non più salda lo aveva aggredito alla gola.

L’infanzia di Mario si era fatta strada tra il lutto della sorella e le prese in giro degli amichetti che lo chiamavano Rito per l’evidente somiglianza con la sorellina la cui bellezza era ancora nella mente di tutti. Forse nel suo animo davvero desiderava restituire ai genitori inconsolabili ciò che avevano perduto. Quando lo sbeffeggiavano come frocio reagiva picchiando sodo, aveva imparato i colpi giusti. Però la notte ricordava il corpo del rivale stesso a terra schiacciato dal suo più alto e robusto e quel mischiarsi di umori (sudore, sangue e saliva) gli induriva il pisello e scatenava la fantasia.

Quando il CIM fu chiamato per l’ennesima bravata di Mario la sua carriera in bilico tra follia, tossicodipendenza e devianza era saldamente consolidata. Il primo ricovero in SPDC aveva fatto notizia perché non ancora maggiorenne. La polizia era accorsa chiamata dal parroco di Sant’Eusemio con il naso rotto da una testata nella sua camera da letto dove a sua detta Mario era stato sorpreso a rubare le offerte dei fedeli. Il ragazzino sosteneva la legittima difesa. Arrestarlo avrebbe comportato un processo e tanti pettegolezzi e così per il decoro del paese e poggiandosi sullo stato di grande agitazione in cui Mario fu trovato si scelse l’opzione ricovero. Dopo la dimissione Mario che aveva lasciato l’istituto tecnico per scarso rendimento decise che se il suo corpo era tanto appetibile sarebbe diventato la fonte di sostentamento per lui e la madre ormai vedova. I più maligni sostenevano che spesso Adriana gli desse una mano sul lavoro fornendo un “prendi due paghi uno” assolutamente originale e appetibile.

Certo è invece un particolare che Mario raccontò al dr Cortesi durante gli incontri di psicoterapia che si prolungarono per dieci mesi. La motivazione non era a lui chiara perché la madre ne alternava almeno tre. Da un lato il tentativo di ricondurlo sulla giusta strada. Dall’altro la necessità di mantenere unita la famiglia nell’affetto ora che erano rimasti solo loro due. Infine l’insegnamento delle tecniche più raffinate che avrebbero aumentato il suo valore di mercato. Quale che ne fosse il motivo Adriana e Mario avevano una intensa attività sessuale tradizionale ma con molti aspetti che potremmo definire sperimentali agevolati da l’utilizzo di droghe quali alternativamente cocaina e cannabis e ansiolitici generosamente prescritti dal dr. Lifanti medico di famiglia e soprattutto cliente assiduo della coppia.

Mi rendo conto che la descrizione dei fascinosi personaggi ha fatto trascurare il motivo della chiamata del CIM. Rimedio subito. Mario era un assiduo frequentatore dei bar della zona dove lo chiamavano “ Stino” in onore del padre Oreste, uno dei migliori clienti di tutti i tempi ma anche del camposanto. Al primo incontro con Cortesi esibiva un giubetto jeans con cucita una “M” di bronzo. Adriana che si disperava per la follia e la cattiveria del figlio chiedendo di esserne liberata con un ricovero definitivo con tanto di chiave buttata per sempre ne spiegò la provenienza per certificare la sua follia. Era una lettera della tomba di Margherita che quel pazzo delinquente aveva staccato dalla lapide. Marco Polti attento osservatore che ben conosceva i lavori domestici a motivo di una moglie vetero femminista sottolineò come Mario avesse fatto un ottimo lavoro di cucito. Adriana non potè trattenersi dal prendersene il merito e vezzosa disse di averlo fatto lei perché tanto ormai la lettera era stata divelta. Marco da quel momento si convinse che la follia scorreva come un fiume carsico soprattutto nella testa di Adriana anche se spesso emergeva in superficie nel comportamento di Mario.

Ma torniamo ai fatti. Il CIM era stato chiamato dai carabinieri per un gesto ben più grave e inspiegabile. Mario era stato sorpreso da Raniero il becchino inquadrato come guardia municipale mentre insieme ad altri tre tossici scavava con una vanga ed un piccone sopra una fossa. La cassa profanata era quella della signora Amilda Terrieri di cui era appena stato celebrato il trigesimo in cattedrale essendo la vecchia madre del parroco di Sant’Eusemio. I tre tossici confessarono subito che lo avevano fatto perché Mario aveva raccontato di come la vecchia fosse stata seppellita con tutti gli onori e molti dei gioielli della sua famiglia di latifondisti da cui non voleva mai separarsi. In fondo non avrebbero fatto del male a nessuno ed era un vero peccato che quelle ricchezze si perdessero impastate nei liquami della putrefazione della vecchia. Mario, seduto dinnanzi al commissario sbalordì all’accusa di tentato furto ciondolando la testa in segno di diniego tra le due lunghe gambe in jeans divaricate. Il respiro affannato, le lacrime che salivano. La rabbia di non essere compreso e degradato a ladruncolo. All’arrivo trafelato di Adriana in pantofole e tuta rosa svegliata all’alba da un agente trovò le parole per spiegare. Amilda dal momento della sua morte lo tormentava seguendolo ovunque. Voleva un congiungimento carnale con lui che, per esplicita affermazione del suo figlio prete che l’aveva provato, gli avrebbe restituito la vita.

A Mario non restava dunque che il trattamento riservato ai vampiri. A riprova di quanto diceva mostrò il paletto acuminato di frassino fresco che andava piantato due centimetri sotto il cuore con un mazzuolo di legno. Non fu scomodato dunque il procuratore della repubblica ma il CIM. Luigi Cortesi appena ricostruita sommariamente la storia si appassionò alla vicenda intravedendo elementi simbolici archetipici che avrebbero estasiato i membri junghiani della commissione d’esame e temi espliciti di edipo non risolto e agito con una stabile pratica incestuosa che avrebbero soddisfatto i più tradizionalisti freudiani. Cortesi da anni si stava preparando per l’esame di ammissione alla società unitaria di psicoterapia psicodinamica e un trattamento del genere non se lo sarebbe mai lasciato sfuggire. Per vederlo due volte a settimana era disposto ad andarci domiciliarmente. Marco Polti invece, convinto che la sorgente della follia fosse la madre proponeva un allontanamento in comunità terapeutica. Un rapporto privilegiato si era creato da subito tra Mario e il bel Antonio Nitti. Li univa la scaltrezza, la capacità di arrangiarsi senza troppi scrupoli per le norme etiche e legali e soprattutto la grande bellezza, più maschia quella di Antonio, ambigua e inquietante quella di Mario. Non si può dire che fossero diventati amici perché l’intento di Antonio rimaneva terapeutico riabilitativo. Tuttavia per come intendevano la riabilitazione territoriale gli ex di “Villa Santovino” poco si distanziava da un allenamento alla vita normale in contesti normali se il termine “normale” ancora ritaglia un terreno specifico all’interno del “possibile”.

In particolare Antonio cercava di sviluppare quelle capacità che avrebbero garantito a Mario una vita quotidiana autonoma in assenza della madre. Per la di lei dipartita infatti pregava incessantemente Polti, ben agganciato con il padreterno, dopo che il suo progetto di comunità terapeutica era stato bloccato dalle brame psicoterapiche di Cortesi. Due mattine a settimana Mario andava al corso di informatica, il pomeriggio studiava inglese con Antonio che doveva perfezionarlo per un business di reperti archeologici che aveva avviato con una sua ex che ora viveva a Londra. Aveva fatto in modo che la ASL finanziasse un corso per Mario, di cui lui risultava accompagnatore alla Redford school di Vontano.

Ad aumentare la confusione contribuiva decisamente Giulio Renzi mosso dalla costante preoccupazione di incrementare il suo potere all’interno del CIM e della ASL e in definitiva arrotondare lo stipendio di infermiere inadeguato al tenore di vita atteso. Nella sua stanza al sindacato di cui stava scalando la gerarchia passava i pomeriggi con la mente in ebollizione alla ricerca dell’idea che gli avrebbe permesso la svolta decisiva che attendeva da anni, meritato riscatto di una infanzia di povertà ed umiliazione. Non provava alcun senso di colpa a barare al gioco. Si riprendeva semplicemente quello che gli era stato tolto, anzi comunque restava in credito. Le auto costose e le donne ancora più costose non riequilibravano la bilancia per quegli anni passati in orfanatrofio dopo che la mamma li aveva lasciati per la mamma di un suo compagnuccio delle elementari ed il padre ne era morto di crepacuore o forse di vergogna tre mesi dopo. Sapeva che quello che comprava era sesso e lusso ma non placava la sete d’affetto, era un sentimento finto, simile all’apparenza ma fasullo dentro. Al contrario la ferita dell’umiliazione leniva effettivamente il suo bruciore con l’esercizio sadico del potere. Per lui era chiarissimo che “comandare è meglio che fottere”.

Nella stanza satura del fumo delle sigarette che si consumavano poggiate nel posacenere le idee si accumulavano sulla lavagna prima di essere vagliate rispetto ai criteri di vantaggio personale, fattibilità e rischiosità legale per arrivare ad una scelta. A Mario avrebbe proposto una pensione di invalidità civile per schizofrenia. Era anche certo che oliando adeguatamente l’ingranaggio della commissione medica (con un contributo pari a sei mesi di pensione) si sarebbe potuto ottenere anche l’indennità di accompagnamento. Una volta che ci si mette le mani bisogna pensare in grande e non accontentarsi. In fondo anche Adriana, al contrario di quello che pensava quel comunista di Polti, cos’altro era se non una povera vedova con un figlio gravemente malato, una depressione mai superata per la morte della figlia ed una serie di acciacchi che sicuramente dei medici motivati adeguatamente avrebbero saputo scovare e certificare? Non c’era bisogno di mettere sempre mani al portafoglio, molti medici della ASL erano in debito con lui e con il sindacato e molti altri contavano sulla sua mancanza di memoria per antichi fatti che preferivano dimenticati.

Quando gli venne l’idea che chiudeva il cerchio perfettamente sentì il bisogno di congratularsi con se stesso e uscì per un caffè. Si contemplava nello specchio alle spalle del barista tra una bottiglia di Campari e una piramide di arance. Sobbalzò interrompendo l’estasiata contemplazione di sé vincente quando Biagioli gli bussò sulla spalla. Sentendo arrossirsi all’idea sciocca che il capo potesse leggergli nella mente si cavò d’impaccio ordinando subito per lui un altro caffè mostrando una esagerata confidenza col barista. L’idea prevedeva una doppia pensione per Adriana e Mario e per quest’ultimo anche il sussidio di accompagnamento. Per sfuggire ad eventuali problemi con la legge Mario sarebbe dovuto essere dichiarato “incapace di intendere e di volere” e Giulio stesso si sarebbe offerto di esserne il tutore legale. Avrebbe svolto quel ruolo paterno di garante delle regole che a Mario tanto mancava. Avrebbe amministrato le loro finanze. Mentre ascoltava l’esposizione del progetto Adriana capì dall’ammorbidirsi del ghigno di Giulio in un quasi sorriso che se fosse stato talvolta necessario un suo impegno anche nel ruolo di marito, non si sarebbe tirato indietro. Certo avrebbe preferito che fosse stato l’altro infermiere, Antonio Nitti, a farle questa proposta.

Sospesa l’attività sessuale col figlio, aveva ripreso a toccarsi di recente proprio fantasticando questo giovanottone che girava sempre per casa. Ma forse era troppo giovane, Giulio sarebbe andato benissimo. Sullo sterrato davanti alla casa di Mario la panda con le insegne della Asl era ormai una presenza fissa. Due volte a settimana per la psicoterapia del dottor Cortesi. Altre due volte veniva lasciata lì tutto il giorno da Antonio perchè lui e Mario preferivano andare a Vontano per il corso alla Redford con la moto di Mario per non essere identificati come “pazzi e dintorni”. Marco Polti che era stato esentato dopo esplicita richiesta da qualsiasi contatto con la madre che gli procurava eczemi resistenti al cortisone di chiara origine psicosomatica, era incaricato del recupero di Mario quando si perdeva nei bar della zona rischiando il coma etilico. Per Cortesi si trattava di una affannosa ricerca delle radici paterne di significato terapeutico. Per Polti di semplice alcolismo da dirottare volentieri sul Ser.T.

La vecchia Panda proiettava talvolta la sua ombra sulla bianca ghiaia anche in alcune notti di luna. Se troppo agitato o ubriaco Mario sapeva essere sgradevole e Adriana temeva di restare sola con lui. Lo riempiva di medicine moltiplicando per 6 il doggio consigliato. Poi però si spaventava che la combinazione con l’alcool potesse essere pericolosa e chiamava il CIM. Il compito di passare la notte a sorvegliare il dormiente e rassicurare la madre spettava normalmente a Giulio Renzi. In una di queste notti capitò un buffo incidente per cui tutto l’ospedale rise alle spalle del CIM. Giulio aveva fumato l’ennesima sigaretta sullo sterrato essendo vietato tassativamente da Adriana farlo dentro. Sentendosi ormai di casa, prima di sdraiarsi sul divano in soggiorno su cui sosteneva di passare le notti che venivano pagate come straordinario notturno (era per questo che si offriva) aveva scolata tutta la bottiglia di Fanta che si trovava in frigo. Ignorava che vi fosse stato versato l’intero flacone di Serenase gocce pari a 20 milligrammi di Aloperidolo. Ebbe una crisi neurodislettica gravissima con tutti i sintomi extrapiramidali e una rigidità muscolare che rischiò di bloccargli la respirazione. Fu Mario, svegliato dalla madre, a vegliare premuroso su di lui e a chiamare l’ambulanza che lo portò rigido come un baccalà essiccato al pronto soccorso. In seguito gli fu riconosciuto dall’INAIL come incidente sul lavoro. Per questo intentò una causa di servizio. Avrebbe volentieri rinunciato a questi vantaggi perchè la derisione che lo seguiva dovunque nella ASL si placasse, era come sale sulle sue piaghe pregresse da umiliazione.

Nella sala comunale di Vontano si teneva la cerimonia di consegna dei diplomi di inglese della Redford School perchè Vontano era gemellato con Stratford on Avon e delegazioni comunali si rendevano ogni anno reciprocamente visita a spese dei contribuenti. Antonio e Mario (rispettivamente infermiere e paziente), i più bravi del corso, stavano in prima fila eleganti per l’occasione. Antonio stringeva la mano di Mario percorso da un’ emozione di gioia e ansia. Abbaglianti nella loro bellezza sembravano una coppia gay giunta all’agognato traguardo del matrimonio. I flash dei fotografi erano tutti per loro. Antonio pensò che ora Mario avrebbe potuto prendere il posto di stagista presso la sezione commercio con l’estero della confindustria provinciale. La psicoterapia con Cortesi sarebbe proseguita ma lui aveva portato a termine un ottimo lavoro: Mario andava in giro in moto da solo, si concedeva ai bar ed alla cosiddetta ricerca delle radici paterne solo un sabato al mese, aveva imparato l’inglese e avrebbe iniziato un lavoro a tempo determinato.

Dopo lo sputtanamento dell’esperienza di “Villa Santovino” anche lui si sentiva riabilitato. Si erano aiutati reciprocamente come sempre avviene nei rapporti che davvero funzionano. Quando, col sole già alto la panda del CIM arrivò sullo sterrato davanti casa guidata dal tutore ufficiale Giulio Renzi, dopo l’episodio della Fanta al Serenase soprannominato “il duro”, non c’era posto e dovette mettersi in seconda fila bloccando l’ambulanza, la gazzella dei carabinieri e il furgone del fratello di Adriana. Marco Politi sfidando i suoi eczemi psicosomatici stringeva in un abbraccio professionale Adriana trattenendola dal rientrare nuovamente a straziarsi l’anima sotto il pendolo che trasformava la sua vita in formale sopravvivenza. Per la prima volta al CIM con l’aiuto di un supervisore di Milano fecero quella che gli esperti chiamano “autopsia di un suicidio”.

Vulnerabilità familiare e individuale, fattori predisponenti e protettivi, corretta valutazione del rischio, eventi scatenanti, errori nella gestione del caso. Una attenta relazione firmata da Biagioli fu inviata al settore risk management aziendale. Quando Mario raggiunse Oreste e Margherita nella terra screpolata dal gelo nel camposanto anche la cartella clinica fu seppellita in quella parte profonda degli archivi dove si mettono a dimenticare i fallimenti. Nessuno di loro credeva che le terra avrebbe dovuto aspettare ancora cinque anni per riaprirsi l’ultima volta a ricomporre definitivamente la famiglia. Il ghiaccio in curva, le gomme lisce della golf, un bicchiere di troppo del giovane alla guida o, come pensarono in molti, la mano misericordiosa del padreterno pose fino a quello sgocciolio infinito di dolore.

 

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La relazione tra ossitocina e abilità sociali: quale ruolo nell’autismo?

FLASH NEWS

 

Alti livelli di ossitocina sono legati a elevate abilità sociali, sia in bambini sani che in bambini affetti da autismo, ma l’ipotesi che una carenza di tale ormone sia causa di autismo è riduttiva.

Questo è quanto sostiene un nuovo studio dell’università di Stanford condotto su tre gruppi di bambini: bambini con autismo, bambini sani e bambini sani con fratelli autistici.

Per questa ricerca sono stati analizzati i livelli di ossitocina nel sangue, e non nel midollo spinale, ma anche così in tutti i gruppi le abilità sociali generalmente correlavano con i rispettivi livelli di ossitocina.

Inoltre tutti i bambini affetti da autismo avevano difficoltà sociali ma la gravità del loro deficit era maggiore in coloro con bassi livelli di ossitocina nel sangue.

L’ossitocina si conferma dunque regolatore universale del funzionamento sociale per gli esseri umani, ma i livelli individuali hanno una varianza maggiore di quanto presunto.

Interessante è anche la scoperta che i livelli di ossitocina nel sangue sono ereditabili, almeno tanto quanto lo è l’altezza.

Secondo gli autori, queste scoperte permetterebbero di prendere in considerazione l’ossitocina come trattamento per l’autismo: non sarebbe una cura ma si potrebbe beneficiare dei suoi effetti sulle relazioni sociali.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Marinai, terapeuti e balene: XVII Congresso Nazionale SITCC

XVII CONGRESSO NAZIONALE SITCC

‘Marinai, terapeuti e balene’

Genova: 25-28 Settembre 2014

Cambiamento, Consapevolezza, Relazione

 

Il Convegno Sitcc di Genova 2014 si propone di presentare agli psicoterapeuti italiani gli sviluppi ad ampio raggio del cognitivismo clinico. La radice del nostro approccio si nutre del metodo scientifico, per cui qualunque affermazione va legata a una sua riproducibilità e non può basarsi semplicemente sull’autorità della fonte. Questo permette la formulazione di procedure validate che siano insegnabili e trasmissibili agli altri, garantendo ai pazienti un loro diritto assoluto, quello di ricevere le cure ottimali per il proprio disturbo.

INTERVISTA A RITA ARDITO CO-PRESIDENTE DEL CONGRESSO SITCC

La tensione verso il cambiamento migliorativo del paziente, caratteristica fondamentale del cognitivismo standard e ragione del suo successo internazionale, si è arricchita nel terzo millennio di una dimensione diversa, quella dedicata alla comprensione e all’accettazione del proprio modo di essere prima che alla sua modifica. L’approccio meditativo, che sottolinea l’importanza di una conoscenza emotiva incarnata, sta influenzando in modo significativo la genesi di protocolli terapeutici di provata efficacia basati su una consapevolezza priva di giudizio.

Genova 2014 si offre come un momento di dialogo fra programmi clinici dedicati al superamento della sofferenza e programmi clinici dedicati all’accettazione della stessa, in particolare quando la sofferenza sia radicata nel corpo (le conseguenze psichiche di una malattia fisica) o sia semplicemente non modificabile (le patologie fisiche e psichiche croniche o ingravescenti).

Una importante ambizione dichiarata, oltre all’aggiornamento sulle più recenti metodiche di intervento, è quella di iniziare a fare chiarezza scientifica sulla relazione tra terapeuta e paziente, sottraendo questa fondamentale dimensione clinica alle ombre grigie degli effetti aspecifici. La relazione fra terapeuta e paziente, strumento principe di intervento clinico, può essere compresa e quindi insegnata, non è magia né fortunata dote naturale: ben comprendendo le difficoltà di indagine, consideriamo prioritaria la sua comprensione.

Cambiamento, consapevolezza, relazione: troviamoci insieme per capire meglio, per imparare dai nostri colleghi, per mettere alla prova il nostro operato clinico.

Con l’augurio che Genova sia un luogo di confronto aperto e rispettoso, di discussione viva e gentile, da cui tornare arricchiti culturalmente e umanamente.

 

INTERVISTA A RITA ARDITO CO-PRESIDENTE DEL CONGRESSO SITCC

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Manuale REBT di Psicoterapia Razionale Emotiva Comportamentale (2014) – Recensione

Ciò che rende questo manuale estremamente interessante è la capacità di essere, allo stesso tempo, una “guida” (in grado di esplicare una vasta gamma di strategie cognitive, emotive e comportamentali attraverso l’utilizzo di numerosi esemplificazioni cliniche) e uno spunto di riflessione continuo sulle difficoltà che il terapeuta e il paziente possono incontrare sia nell’apprendimento dei principi fondanti la REBT, sia nella gestione delle dinamiche transferali e controtransferali.

In Italia, nell’ultima decade, si è assistito a un crescente e rinnovato interesse per l’approccio terapeutico basato sui principi della Rational Emotive Behavior Therapy (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale; REBT), ideata e sviluppata da Albert Ellis a partire dagli anni ’50.

Tale interesse (mai sopito in realtà, ma non diffuso in maniera omogenea e capillare nella letteratura scientifica europea e, in particolar modo, in quella italiana) è testimoniato, oltre che dalla pubblicazione di alcuni lavori “italiani” sul Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy (Ruggiero, Ammendola, Caselli e Sassaroli, 2014), dal recente “Primary Practicum in rational emotive behavior therapy” svoltosi recentemente a Milano nella sede della Scuola di Specializzazione “Studi Cognitivi” ad opera dei direttori (Prof. Raymond DiGiuseppe e Dott.ssa Kristene Doyle) nonché di un supervisore (Dott. Ennio Ammendola) dell’Albert Ellis Institute di New York.

La traduzione in lingua italiana (a cura del Dott. Diego Sarracino) del Manuale di terapia razionale emotiva comportamentale (Practitioner’s Guide 
to Rational Emotive Behavior Therapy, giunto alla sua III edizione) si colloca, inoltre, in un periodo storico dove, se da un lato si assiste alla nascita e alla diffusione di molteplici forme di terapia cognitiva di “terza ondata”, dall’altro si avverte la necessità di un’analisi attenta e puntuale dei cardini costitutivi della pratica clinica cognitivista.

In tale ottica, è bene ricordare come la REBT adotti una prospettiva diversa (ma integrabile – come ampiamente descritto dagli autori nel XVII capitolo del manuale – con molteplici approcci) dalla Terapia Cognitiva Standard (TCS) di Aaron Beck e precorra, in alcuni casi, metodologie terapeutiche più “moderne”. Ellis, infatti, riteneva che la sofferenza mentale derivasse da “elaborazioni verbali esplicite, per quanto automatiche, che il soggetto si autoinfligge consapevolmente” (Ruggiero e Sarracino, 2014, p. XI). Il focus terapeutico, dunque, viene incentrato sul fronteggiare il “giudizio finale”(e.g., “non deve/può succedere”, “non posso sopportarlo”, “sarà terribile”) che il cliente dà all’evento temuto piuttosto che, come nella TCS, “sugli elementi che possono sorreggere la visione negativa dell’evento stesso” (ibidem).

Inoltre, l’analisi di tali schemi di pensieri irrazionali – aspetto centrale nella pratica REBT -, insieme all’attenzione focalizzata sulle difficoltà del paziente nel tollerare possibili “scenari negativi”, precorre, sebbene con alcune differenze, la prospettiva dell’”accettazione” degli stati mentali di Steven Hayes.

Il manuale, suddiviso in cinque parti, appare concepito con molteplici scopi. Difatti, oltre a fornire una guida completa ed esaustiva per l’apprendimento delle modalità terapeutiche peculiari della REBT, fornisce diversi spunti di riflessione sulle possibilità di ricerca e sviluppo del modello proposto e sulle caratteristiche distintive di questo approccio rispetto a forme di CBT sviluppate in periodi successivi. La prima parte è dedicata ad Albert Ellis, al suo contributo alla psicoterapia, e offre una panoramica sui principi filosofici alla base della REBT analizzandone il rationale teorico e definendo il modello psicopatologico adottato. Inoltre, viene definita la differenza tra credenze razionali e irrazionali, le diverse tipologie di credenze irrazionali (le “pretese”, la “terribilzzazione”, l’”intolleranza alla frustrazione” e la “valutazione globale del valore delle persone”) e il rapporto che intercorre tra loro.

La seconda parte del manuale è incentrata sulle strategie terapeutiche di base da adottare in tale trattamento. Dopo una prima descrizione del modello “ABC”, gli autori illustrano come creare i presupposti relazionali e strutturali della terapia, elencando le “abilità chiave” che dovrebbero contraddistinguere l’operato di un buon terapeuta REBT, l’identificazione delle problematiche del paziente e, partendo dall’analisi del rapporto esistente tra “credenze” e “disturbo”, gli obiettivi della terapia stessa.

Nella terza parte del manuale gli autori focalizzano la loro attenzione sulla valutazione clinica dell’ABC (l’evento attivante, “A”; le conseguenze emotive e comportamentali, “C”; le credenze, “B”) descrivendo – in maniera dettagliata e puntuale – le modalità di identificazione degli elementi che caratterizzano un evento problematico accaduto nella vita del cliente, le strategie necessarie al fine di una valutazione delle credenze disfunzionali e i principali errori in cui il terapeuta può incorrere.

I capitoli che compongono la quarta parte (la più corposa del manuale, costituita da ben 6 capitoli e circa 150 pagine) sono dedicati a un aspetto peculiare della REBT: modificare le credenze disfunzionali attraverso la disputa cognitiva (D) e la promozione di una risposta maggiormente funzionale/adattiva (E). Attraverso molteplici esempi clinici e numerosi schemi riassuntivi/esplicativi, gli autori forniscono una descrizione completa dei diversi “stili” di disputing (e.g., “socratico” vs. “umoristico”) e delle relative strategie (e.g., “logica” vs. “euristica”) di confutazione delle credenze irrazionali (irrational beliefs; IB) a favore dell’insegnamento, e della relativa acquisizione da parte del cliente, di nuove credenze razionali (rational beliefs; RB). Degna di nota, inoltre, è anche la descrizione della differenza che intercorre tra le RB (caratterizzate da logicità e validità empirica) e quelle che vengono definite “nuove credenze efficaci” (new effective beliefs – EB; generate dalla disputa terapeuta/paziente e caratterizzate da un “valore” intrinseco di contrasto alle IB che hanno generato la problematica riferita).

Seguendo la logica formale tipica della REBT, la quinta e ultima parte del manuale è focalizzata sull’analisi dei “compiti a casa” (sotto forma di esercizi cognitivi, comportamentali, emotivi) che il terapeuta può assegnare al paziente secondo il principio di un cambiamento basato sull’apprendimento cognitivo seguito dall’applicazione “concreta” delle nuove idee generate in terapia. Tali compiti dovrebbero derivare, dunque, dalla necessità condivisa di dover generalizzare i progressi ottenuti in seduta e – in un’ ottica cooperativa – essere costantemente sottoposti a verifica dell’efficacia degli stessi. Nelle 6 appendici conclusive troviamo una scheda relativa all’apprendimento del modello ABCDE, uno schema di seduta, un modulo per la raccolta dei dati personali, una scheda sulle strategie di disputing nel training REBT, uno schema REBT di auto-aiuto per il paziente e, infine, delle informazioni sui compiti a casa.

Ciò che rende questo manuale estremamente interessante è la capacità di essere, allo stesso tempo, una “guida” (in grado di esplicare una vasta gamma di strategie cognitive, emotive e comportamentali attraverso l’utilizzo di numerosi esemplificazioni cliniche) e uno spunto di riflessione continuo sulle difficoltà che il terapeuta e il paziente possono incontrare sia nell’apprendimento dei principi fondanti la REBT, sia nella gestione delle dinamiche transferali e controtransferali. Infatti, in una terapia molto “attiva” (che stimola e talvolta “sfida” il cliente a “sostituire” pensieri disfunzionali con pensieri maggiormente “adattivi”), tali dinamiche possono essere oggetto di continue oscillazioni e ridefinizioni.

Questo punto, che può apparire come un aspetto di “debolezza” (che può caratterizzare anche altre forme “direttive” di terapia come, ad esempio, la Dialectical Behavior Therapy ideata da Marsha Linehan), se adeguatamente gestito attraverso la formazione personale, l’attenzione focalizzata sulle dinamiche interpersonali e le supervisioni da parte di terapeuti esperti con formazione teorica coerente al modello utilizzato, può costituire, al contrario, un punto di forza della terapia stessa. Difatti, la possibilità di affrontare (e declinare attraverso un discernimento condiviso) le inevitabili difficoltà comportamentali ed emotive all’interno di un rapporto terapeutico orientato “fattivamente” al cambiamento, può favorire una progressiva riduzione dell’intensità emotiva attraverso una maggiore comprensione della vulnerabilità personale e lo sviluppo della capacità di tollerare i fallimenti.

In un’ottica evolutiva, tale comprensione – se opportunamente “guidata” – favorisce lo sviluppo di un senso di mastery adeguato che può rinforzare, contestualmente, l’alleanza terapeutica e l’efficacia della terapia stessa.

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La valutazione della personalità con la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP-200)

BIBLIOGRAFIA:

 

Autore: Dott. Walter Sapuppo

Psicologo, AAI Certified Coder, svolge la sua attività clinica tra Napoli e Roma. Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR). È docente presso le Scuole di Psicoterapia “Studi Cognitivi”. E’ stato Professore a Contratto presso il CDL in “Psicologia Clinica”, Docente al Master di II Livello in “Psicodiagnostica clinica dell’individuo e delle istituzioni” presso la Seconda Università degli Studi di Napoli ed è autore di pubblicazioni scientifiche su Disturbi del Comportamento Alimentare, Cicli Cognitivo-Interpersonali, “process” terapeutico e psicopatologia correlata ai traumi. 

Premio 2014 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

III Edizione del Premio State of Mind

per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

PREMIO State of Mind 2014 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche, in collaborazione con l’Istituto di Ricerca Studi Cognitivi, promuove nel 2014 la Terza edizione del Premio Italiano per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia.

La manifestazione ha lo scopo di sostenere:

1. la ricerca scientifica in queste discipline;

2. la divulgazione di risultati scientifici rigorosi;

3. l’opera di giovani ricercatori del settore.

 

SEZIONI:

A − Junior (Laureati Magistrali)

La Sezione Junior è dedicata a estratti di tesi di laurea magistrale che siano sperimentali e concluse entro gli ultimi tre anni (2012-2014) e da laureati di età non superiore ai 30 anni.

Il manoscritto deve riferirsi (o essere direttamente estratto) a tesi di laurea sperimentali condotte negli ultimi tre anni (2012-2014).

Gli articoli potranno essere in lingua italiana o inglese. L’autore partecipante potrà essere italiano o straniero, ma la ricerca dovrà essere stata condotta in Italia. I temi inclusi nel concorso si riferiscono alle seguenti discipline: Psicologia Clinica, Psicoterapia, Psichiatria, Psicologia Sociale, Psicologia della Salute, Psicologia dello Sviluppo e Psicologia Generale. La lunghezza degli articoli dovrà essere compresa tra le 2.000-6.000 parole (abstract e bibliografia escluse) e un massimo di tre allegati (tabelle e/o figure)

Gli articoli devono includere nell’ordine:

1. Titolo, autore/i e relative affiliazioni;

2. Abstract in italiano e inglese;

3. Cinque parole chiave;

4. Manoscritto contenente le seguenti sezioni: Introduzione, Metodo, Risultati e Discussione; 5. Le citazioni e i riferimenti bibliografici che dovranno essere redatti secondo le norme dell’American Psychological Association;

6. Tabelle e figure, nel numero massimo di tre in totale, che dovranno essere allegate al termi- ne dell’articolo e numerate progressivamente con cifre arabe. Le immagini devono essere ad alta risoluzione e di dimensioni tali da consentire una buona leggibilità.

Gli autori dovranno indicare nel form d’iscrizione: nome e cognome, indirizzo mail e numero telefonico dell’autore partecipante per eventuali comunicazioni. Il manoscritto deve riferirsi a ricerche pubblicate negli ultimi 3 anni (2012- 2014) o già accettate e in stampa e dovrà essere allegato nella sua versione definitiva al momento dell’iscrizione.

 

B – Senior (Dottorati)

La Sezione Senior è dedicata a estratti di tesi di laurea di dottorato che siano sperimentali e concluse entro gli ultimi tre anni (2012-2014) e da dottori di ricerca di età non superiore ai 40 anni.

Il manoscritto deve riferirsi (o essere direttamente estratto) a tesi di dottorato condotte negli ultimi tre anni (2012-2014). Gli articoli potranno essere in lingua italiana o inglese. L’autore partecipante potrà essere italiano o straniero, ma la ricerca dovrà essere stata condotta in Italia.

I temi inclusi nel concorso si riferiscono alle seguenti discipline: Psicologia Clinica, Psicoterapia, Psichiatria, Psicologia Sociale, Psicologia della Salute, Psicologia dello Sviluppo e Psicologia Generale. La lunghezza degli articoli dovrà essere compresa tra le 2.000-6.000 parole (abstract e bibliografia escluse) e un massimo di tre allegati (tabelle e/o figure).

Gli articoli devono includere nell’ordine:

1. Titolo, autore/i e relative affiliazioni;

2. Abstract in italiano e inglese;

3. Cinque parole chiave;

4. Manoscritto contenente le seguenti sezioni: Introduzione, Metodo, Risultati e Discussione; 5. Le citazioni e i riferimenti bibliografici che dovranno essere redatti secondo le norme dell’American Psychological Association;

6. Tabelle e figure, nel numero massimo di tre in totale, che dovranno essere allegate al termi- ne dell’articolo e numerate progressivamente con cifre arabe. Le immagini devono essere ad alta risoluzione e di dimensioni tali da consentire una buona leggibilità.

Gli autori dovranno indicare nel form d’iscrizione: nome e cognome, indirizzo mail e numero telefonico dell’autore partecipante per eventuali comunicazioni. Il manoscritto deve riferirsi a ricerche pubblicate negli ultimi 3 anni (2012- 2014) o già accettate e in stampa e dovrà essere allegato nella sua versione definitiva al momento dell’iscrizione.

 

PER PARTECIPARE:

La procedura di registrazione avviene mediante la compilazione di un form online alla seguente pagina:

http://www.studicognitivi.net/premio-state-mind-2014/

Per qualsiasi chiarimento o informazione è possibile contattare la segreteria scrivendo a [email protected] o chiamando il numero +39-347-3354424.

LE ISCRIZIONI DOVRANNO PERVENIRE ENTRO E NON OLTRE IL 15 NOVEMBRE 2014

 

Giuria (o Comitato scientifico)

La giuria che eleggerà il vincitore sarà composta da:

Marco Baldetti – Psicoterapeuta, Codidatta presso Scuola Cognitiva di Firenze. Ricercatore.

Andrea Bassanini – Docente delle scuole di specializzazione in Psicoterapia cognitivo-comportamentali Studi Cognitivi e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Professore a Contratto presso il Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Stefano Blasi – Ph.D, Psicoterapeuta, docente e ricercatore presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”.

Chiara Caruso – Ph.D in Functional Neuroimaging, Psicologa Cognitiva

Valentino Ferro – PhD Student, Psicologo, Cultore della Materia del corso di Psicologia dello sviluppo socio-affettivo presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Simona Giuri, Psicologa Psicoterapeuta. Codidatta presso Studi Cognitivi Modena

Leonor Romero Lauro, Ricercatore – Università degli Studi di Milano-Bicocca

Chiara Manfredi – Psicologa, Ricercatrice presso Studi Cognitivi

Francesca Martino – Ricercatrice presso Istituto di Psichiatria di Bologna

Sara Mori – Ph.D, Psicoterapeuta, Centro Cognitivismo Clinico Firenze

Annalisa Oppo – Psicologa e Ricercatrice. Didatta Scuola di Specializzazione Humanitas

Emanuele Preti – Ricercatore Università degli Studi di Milano – Bicocca

Maria Sansone – Psicoterapeuta, ricercatrice presso centro di Cognitivismo clinico, scuola cognitiva di Firenze

Diego Sarracino – Ricercatore Università degli Studi di Milano – Bicocca

Walter Sapuppo – Docente delle scuole di specializzazione in Psicoterapia cognitivo-comportamentali Studi Cognitivi, Milano

Simona Tripaldi – Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale in formazione, Ricercatore presso Studi Cognitivi

L’operato della giuria è insindacabile. L’applicazione corretta delle procedure di selezione sarà sottoposta alla supervisione del comitato dei garanti, composto da:

Nino Dazzi – Professore Emerito di Psicologia Dinamica, Università La Sapienza, Roma.

Franco Del Corno – Psicologo, psicoterapeuta. Professore a contratto di Psicologia clinica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università della Valle d’Aosta. Presidente di SPR, Society for Psychotherapy Research Italy Area group

Ettore Favaretto – Medico chirurgo, specialista in psichiatria, psicoterapeuta. Didatta nei corsi di Specializzazione presso Studi Cognitivi.

Marcello Gallucci – Professore associato presso Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Vittorio Lingiardi – Professore Ordinario Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma. Direttore Scuola di Specializzazione in Psicologia.

Giovanni M. Ruggiero – Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano e Bolzano; Responsabile Ricerca di “Studi Cognitivi”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano, Modena e San Benedetto del Tronto.

Sandra Sassaroli – Direttore di Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva. Professore al “Corso Post-laurea di Specializzazione in Psicoterapia costruttivista”, Università di Barcellona

 

PREMI

Al vincitore della Sezione A (Junior) sarà assegnato un premio di 600 euro.

Al vincitore della Sezione B (Senior) sarà assegnato un premio di 1.000 euro.

PREMIAZIONE

La premiazione si terrà il 12 Dicembre 2014 a Milano, in occasione della conclusione degli esami di diploma della scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva Studi Cognitivi.

La classifica dei vincitori verrà pubblicata sul sito web di State of Mind (www.stateofmind.it) dalla settimana successiva alla premiazione.

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State of Mind, Il Giornale delle Scienze Psicologiche. ISSN 2280-3653 – Testata giornalistica. Registrazione al Tribunale di Milano n. 587 del 2-12-2011 – Direttore Responsabile: Giovanni Maria Ruggiero.

 

 

 

Sottile come il domani: storie di un mondo ossessivo di Vincenzo Marsili – Recensione

 

 

Si tratta della vita che svolgono, e che decidono di avere, tutte le persone che mostrano un assetto ossessivo, costruendosi così delle compulsioni, di pensieri e di comportamenti, che li tengono lontano dal reale problema che li fa stare male al punto da controllarlo.

Sottile come il domani, cita il titolo del libro scritto da Vincenzo Marsili che mi accingo a presentarvi, esattamente come la linea sottile che lega i pensieri intrusivi, ossessivi, alla realtà. Coloro che restano incastrati nella ripetitività della coazione del pensiero intrusivo è come se non percepissero una via d’uscita dalla loro mente perché è la mente stessa che crea una realtà che non esiste, un mondo circolare e controllato, fatto solo di pensieri. Ma è proprio questa linea sottile che li porta a decidere di rimanere al di qua della linea, senza percepire l’esistenza di una alternativa dall’altra parte.

Si tratta della vita che svolgono, e che decidono di avere, tutte le persone che mostrano un assetto ossessivo, costruendosi così delle compulsioni, di pensieri e di comportamenti, che li tengono lontano dal reale problema che li fa stare male al punto da controllarlo.

La storia di molte persone è incastrata in un meccanismo ripetitivo, che si inceppa, e si ripropone incessantemente, sempre e continuamente, senza avere mai un nuovo inizio ne tantomeno una fine. Per questo non esiste un presente, ma una costante e monotona ripetizione del sintomo che li incastra nel passato.

Questo continuo, ripetuto e persistente sforzo è determinante per stabilire un controllo perfetto che sostituisce e tiene lontano dal caos emotivo, che spaventa perchè è imprevedibile, quindi pericoloso.

Il libro è costituito da racconti di vita, di sintomi, di sofferenza di pazienti divisi in sedute, dove volta per volta si consuma il sintomo e si cerca di individuare la causa scatenante il malessere. Il tutto è letto e raccontato in chiave psicoanalitica dove durante gli incontri il sogno fa da maestro.

Così, interpretazione dopo interpretazione si arriva al tema doloroso da cui stare lontano, perché troppo desolante e dolente.

Grazie a dei casi clinici è possibile sviscerare in modo originale e appassionante tutta la natura del disturbo in questione. Si tratta sempre di storie di vita che per qualche motivo non sono andate come il protagonista si aspettava fossero e nella giovane età adulta si sono trasformate in sintomatiche.

E’ un percorso avvincente nelle menti di chi è alla ricerca di un metodo, un appiglio, una motivazione che possa spingerli a guardare aldilà della linea sottile.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Curare le ossessioni: estasi di un delitto (1955) – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Apprendimento della matematica nei bambini: come avviene?

FLASH NEWS

 

 

Lo studio della matematica è da sempre un terreno che divide: alcuni bambini sembrano esserne naturalmente portati, altri invece sembrano trovarlo difficilissimo. Una ricerca della Stanford University School of Medicine prova a spiegare, attraverso l’utilizzo di immagini cerebrali, il meccanismo di riorganizzazione del cervello dei bambini che imparano dei fatti di matematica.

Obiettivo principale è cercare di capire come i bambini acquisiscono nuove conoscenze e determinare perché alcuni bambini imparano a recuperare fatti dalla memoria meglio di altri, ma anche individuare le differenze tra come il cervello di un bambino e quello di un adulto risolvono problemi di matematica. A differenza degli adulti, infatti, sembrerebbe che i bambini usino aree cerebrali coinvolte nei processi di memoria: sono l’ippocampo e la corteccia prefrontale ad attivarsi per le attività di problem-solving.

Lo studio: 28 bambini (7-9anni) hanno risolto semplici problemi di matematica mentre venivano sottoposti a 2 risonanze magnetiche funzionali a distanza di un anno circa.

I ricercatori hanno esaminato anche 20 adolescenti (14-17anni) e 20 adulti (19-22 anni) in un’unica sessione.

Alla seconda rilevazione i bambini erano diventati più veloci e più accurati nella risoluzione dei problemi di matematica e si affidavano di più alla memoria che al calcolo. Questi cambiamenti di strategia trovavano un riscontro anche a livello fisiologico: dalle immagini si notano una serie di cambiamenti nell’attivazione neurale che, durante la seconda fase di test, vede maggiormente coinvolto il centro della memoria (l’ippocampo) rispetto alle regioni deputate al calcolo.

I ricercatori hanno registrato anche che quanto più forti sono le connessioni tra ippocampo e le cortecce prefrontale, temporale anteriore e parietale, migliori saranno le abilità matematiche del bambino.

Per gli adulti invece l’ippocampo non ha un ruolo centrale, sono la neocorteccia e le informazioni immagazzinate in essa ad essere fondamentali per risolvere i problemi di matematica.

Tuttavia, scoperte di questo tipo sono un ottimo spunto per la ricerca sui disturbi dell’apprendimento. È noto che riuscire a recuperare fatti dalla memoria in maniera fluida e rapida è uno dei problemi di base, poter mettere a confronto bambini con normali abilità e bambini che hanno invece delle difficoltà può far luce sull’efficacia delle strategie messe in atto e su come si costruiscono le rappresentazioni di fatti matematici e in generale le prime tappe dell’apprendimento.

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

Psicologia & neuroscienze: correlati neurali nell’ansia per la matematica

BIBLIOGRAFIA:

Vivere le vite degli altri: una settimana da Psicoterapeuta

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 24 Agosto 2014.

 

Sono psicoterapeuta, vivo le vite degli altri, per curarli divento loro cambiando identità allo scattare dell’ora. Per ricordarmi chi sono pubblico articoli scientifici, leggere la propria firma rassicura, oppure telefono agli amici. I veri amici riconoscono sempre la mia voce.

Lunedì all’una trovo una buona ragione per avere riposto in cantina copie di Caravaggio e Bruegel il vecchio che dipinsi vent’anni fa: erano mediocri. Mi trasformo in una ragazza al balcone, spaventata dall’idea di avere impulsi suicidi. Non ne ho alcuno, ma ne divento consapevole solo dopo trentadue minuti. L’ora dopo torno a essere un uomo, il che è mi è più comodo, annoiato dalla moglie ecologista e angosciato perché l’amante pare non intenda lasciare il marito, il che mi è spiacevole. Sono manager, decido con la mano sinistra perché il lavoro mi fa schifo. Prima o poi scopriranno che sono un bluff, non sopporto la folla nè la gente che mastica chewing-gum. A metà pomeriggio affermo orgogliosa: beve, non vuole figli e mi tradisce, l’ho lasciato! Mi assillano, purtroppo, tre domande: esiste l’uomo giusto? Se esiste, vorrà me? Se esiste e vuole me, cosa farò di male per perderlo?

In segreteria torno me stesso il tempo di un caffè. Luisa mi sorride, fiera. Indovina? Dimmi. Psychotherapy and Psychosomatics ci ha accettato l’articolo. Vai! Ritorno in stanza. Mi strazio al ricordo del funerale di mio padre, 15 anni fa. Protesto col mio psicoterapeuta (sempre io): vengo in terapia per piangere? No! Rispondo di getto, chiaramente giustificandomi. Ci si passa, le lacrime erano lì. Recupero punti, poco dopo discutiamo della differenza tra lager, ale e stout, concordiamo che l’amaro profumato delle Indian Pale Ale è inimitabile, la terapia ora è una cosa buona. Resta l’eco del lutto.

Maledico Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese (Università di Parma). Niente di personale contro di loro, due geni, una gloria nazionale. Il guaio è che hanno scoperto i neuroni-specchio, cellule che ci permettono di capire la mente dell’altro senza ragionare ma simulandone l’azione nel nostro corpo. In termini semplici, se fa caldo e vedete l’amico che si dirige verso il frigo, stappate voi stessi una birra nell’immaginazione e concludete: ha sete. La differenza è che nella vostra mente l’azione pianificata e simulata non attiva i neuroni motori, lui berrà la birra e voi no (io l’ho già bevuta oggi pomeriggio).

Per noi psicoterapeuti questi neuroni specchio sono:

1) la chiave per l’empatia e l’attrezzatura con cui paghiamo i conti;

2) una fregatura indicibile.

L’altro soffre di brutto e le sue sventure circumnavigano le nostre aree cerebrali. È sera, saluto Luisa. I ragazzini sono nelle mani sicure della supertata che li starà mettendo a letto: risate, rimproveri ben dosati, denti lavati (mai negoziare). Vado al locale del mio amico Dario dietro piazza Trilussa a Roma; mi offre – preparato da Fabio – un mojito ineccepibile. Dario ha vissuto mille vite senza ricorrere ai neuroni-specchio: animatore al Valtur ai tempi di Fiorello, copywriter pubblicitario, operatore umanitario in Mozambico. Mi racconta che da quelle parti un pozzo costruito oggi non funzionerà necessariamente domani e di una modalità locale di reagire ai licenziamenti: sparando. Non mi racconta i fatti su cui si basa, non glieli chiedo. In Australia conosce Heath Ledger, prima che diventi il Joker. Me lo descrive come un ragazzo semplice, di curiosità vorace, voleva sapere tanto di Pirandello.

Il giorno dopo ho un disturbo alimentare. Mi abbuffo e faccio ore di esercizio fisico per non ingrassare, litigo con i miei fidanzati, mi arrabbio quando mi trascurano, li lascio, per calmarmi mastico oppio. Non ho le mestruazioni dal 2008 (questo per fortuna lo simulo con una certa facilità). L’ora successiva racconto con orgoglio di avere preso l’autobus dopo cinque anni – calcolo che ci ero salito l’ultima volta pochi mesi dopo l’interruzione del ciclo – , niente attacchi di panico, niente paura di svenire. Alé!

Nel tardo pomeriggio sono di ritorno da una missione diplomatica in Mozambico. Venivo da un periodo sentimentale virato al nero. Ho avuto un’avventura con uno del posto, una sorta di ritorno alla vita. L’ho salutato dicendogli che non ci saremmo più rivisti. Preoccupato domando: “Era armato?” Non si sa mai. Occhi perplessi mi fissano.

Ritorno in me mettendo a letto i figli con “La strada” di Cormac McCarthy. Mia figlia mi aveva chiesto: papi, qual è il romanzo più triste che hai letto? Amore, il più triste è anche il più bello. Di che parla? Non risposi. Presi il libro, iniziai a leggerlo ad entrambi. Oggi si scatena una gara di scommesse tra lei e il fratello. Muore il padre. No, muore il figlio. Muoiono tutti e due, così è più drammatico!

Il giorno dopo, sempre nei panni di me stesso, sono ad Oslo per tenere un seminario all’Istituto per la Mentalizzazione, invitato e ospitato da Sigmund Karterud, dell’Università della città. Ha quella rude gentilezza dei norvegesi, il freddo è secco, mi sento bene. Mi dice che il suo collega Finn voleva conoscermi ma è a New York, a casa di Paul Auster, è amico della moglie Siri Hustvedt, di origine norvegese. Mi sembra naturale. Realizzo quindi di avere formulato un sillogismo la cui conclusione è: tutti i norvegesi sono amici della moglie di Auster. Suona imperfetto, devo rifletterci su. Ceno con Sigmund al Theatercafeen, per aperitivo un Bordeaux nella lobby circondati da stampe di Munch. Domani dopo il seminario visiteremo il Munchmuseet, Finn ha scritto un pezzo di taglio psicoanalitico per uno dei cataloghi. Dopo cena mi mostra il Teatro dell’Opera, affacciato sul fiordo. A volte, mi spiega Sigmund, tengono seminari come il mio all’ultimo piano, grazie all’intermediazione di Finn. Finn comincia a insospettirmi.

Sono riuscito a farmi del male. Avevo chiesto: se un paziente accetta una consulenza con me, portatelo, così vi mostro dal vivo come faccio terapia, è meglio di tanta teoria. Purtroppo qualcuno ha accettato. Mi ritrovo a tenere una seduta con una ragazza maltrattata dalla madre e abusata dal patrigno, timorosa di danneggiare la figlia, colma di vergogna. I miei neuroni-specchio impazziscono. Immedesimarmi in inglese con una donna norvegese è tremendamente difficile, chiedo aiuto agli amici, ai padri fondatori e, in ultimo, a Finn. Nessuno di loro è lì a coprirmi le spalle. Mi batte il cuore. La donna non se ne accorge, credo. Mi riprendo, divento lei, la seduta va alla grande, chiusura commovente. L’anno prossimo torno ad Oslo. A lavori conclusi Sigmund mi porta ad un lago fuori città, picnic in primavera e si pattina quando gela. C’è una sola baita rossa nel raggio di kilometri. “Ero qui con Finn una settimana fa”, mi racconta “e mi ha detto: bella, la voglio comprare. Gli ho risposto: sei pazzo. Lunedì mattina mi ha mandato un’email: l’ho comprata”. Immagino le puntate successive: Finn alle Termopili. Finn contro Godzilla. Finn intervista Salinger in seduta spiritica.

Domenica sera sono me stesso, in italiano, a casa, neuroni-specchio spenti! Ricominciano le scommesse su “La strada”. I miei figli premono: muore qualcuno? Chi muore? Papà, dai! Oppongo strenua resistenza. Si addormentano. Rimasto solo, nel buio, sono colto da due illuminazioni. Non stringere relazioni di alcun genere in Mozambico. Chiedere la cittadinanza norvegese per diventare amico della moglie di Paul Auster.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI: INTERVISTA A GIANCARLO DIMAGGIO

La Psicoterapia Italoamericana e gli Studi sulle emozioni – Congresso APA 2014

Congresso APA 2014:

Studi sulle emozioni

 

Terzo gruppo di presentazioni cui assisto al congresso APA (American Psychological Association) 2014. Scelgo lavori accomunati dall’interesse verso gli stati emotivi: Bernardo Carducci sulla timidezza, Anthony Scioli sulla speranza e Philip Zimbardo su qualcosa di più ampio di un’emozione: il male, come comportamento e come attitudine sociale. È un caso, o forse no, che si tratti di tre italo-americani. Accennerò anche brevemente alla mia presentazione in cui oso proporre che forse c’è un interesse specifico italiano e italo-americano per le emozioni.

Dei tre il più noto è Philip Zimbardo. E lo è dall’inizio degli anni ’70, quando eseguì nel seminterrato della Stanford University che riproduceva perfettamente un carcere un esperimento sociale diventato famoso: una simulazione di reclusione carceraria in cui ventiquattro volontari -accuratamente selezionati per escludere ogni propensione alla sopraffazione violenta o alla sottomissione- erano stati casualmente inseriti in gruppo di “guardie” o di “reclusi”. I “reclusi” indossarono divise, un numero diventò il loro nome, ebbero applicata una catena a una caviglia e ricevettero l’istruzione di attenersi alle regole della disciplina carceraria. Le “guardie” indossarono uniformi militari, occhiali da sole che celavano gli occhi, furono dotati di manganello, fischietto e manette, ed ebbero concessa ampia libertà sui metodi da adottare per mantenere l’ordine.

L’esperimento mostrò che i partecipanti, sebbene sapessero che la loro appartenenza a uno dei due gruppi fosse del tutto arbitraria e artificiale, in pochi giorni iniziarono a sviluppare non solo comportamenti sadici (le guardie, naturalmente) o ribelli e/o sottomessi (i reclusi) e soprattutto idee congruenti. Le “guardie” pensavano che i reclusi andavano giustamente controllati e puniti come se fossero davvero colpevoli e i reclusi pensavano di doversi ribellare oppure di meritare quel che subivano.

Dopo due giorni i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle. Le guardie reagirono intimidendoli e umiliandoli, ad esempio obbligando i “reclusi” a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare e a pulire le latrine a mani nude. Al quindi giorno i “reclusi” erano stati completamente sottomessi e mostravano un comportamento docile e passivo mentre le guardie erano sempre vessatorie e sadiche, facendo temere che il rapporto con la realtà di tutti i partecipanti fosse compromesso.

A questo punto l’esperimento fu interrotto in anticipo per la sua pericolosità e dimostrò in maniera sbalorditiva come l’ambiente e i comportamenti fossero in grado di plasmare le persone e le loro idee in pochi giorni, anzi in poche ore. Fu un esperimento in cui comportamentismo e psicologia sociale s’incontrarono e dimostrarono la forza delle variabili esterne –il comportamento e il contesto- e ridimensionarono di molto quel che si pensava fosse l’impatto delle variabili cognitive interne.

I pensieri delle “guardie” e dei “reclusi”, lungi dal controllare i loro comportamenti, diventarono un effetto collaterale dell’ambiente e dei comportamenti. Su youtube è possibile trovare filmati e documentari dell’esperimento:

 

Da allora Zimbardo è diventato una sorta di studioso del male e dei fattori che lo facilitano, il cosiddetto “effetto Lucifero” che è diventato anche il titolo del suo libro più conosciuto (Zimbardo, 2008). Non basta.

Zimbardo è andato oltre lo studio del male, per tentare di comprendere anche quali sono le condizioni che facilitano il bene. E di questo ha parlato al congresso di Washington, proponendo quello che lui chiama l’eroismo del bene. Ovvero, per incoraggiare le persone al bene occorre renderlo attraente e appetibile, condendolo di eroismo. Questa appetibilità è necessaria per contrastare quella che è l’appetibilità del male, l’eroismo perverso delle gang giovanili violente che affliggono la vita sociale americana e anche, sia pur in misura minore, europea. L’eroismo del bene, naturalmente, è meno immediatamente appagante dell’eroismo del male. È fatto di abnegazione, di disponibilità sociale e di piccoli gesti quotidiani faticosi non immediatamente gratificanti e perversamente “gloriosi” come gli atti di sopraffazione e le soddisfazioni del rango assicurate dalle gang giovanili.

Anthony Scioli studia la speranza da anni, un’emozione trascurata. Anche la speranza, come l’eroismo del bene di Zimbardo, fa parte di una corrente di studi che preferisce lo sviluppo dei fattori di benessere piuttosto che l’esplorazione di ciò che ci fa star male. Scioli definisce la speranza come uno stato mentale più ampio della motivazione. La speranza è meno immediatamente focalizzata sulla realizzazione di un obiettivo, preferendo invece avere uno sguardo più ampio in cui è proprio l’assenza di un preciso obiettivo che rende il soggetto speranzoso meno sensibile all’ansia e alla preoccupazione. La speranza, per Scioli, si articola in 5 assi, che comprendono:

1) relazioni;
2) obiettivi;
3) fronteggiamento;
4) spiritualità o auto-trascendenza;
5) gestione dello stress.

Per la mente europea forse il termine più ostico è spiritualità o auto-trascendenza. Scioli intende con spiritualità la capacità di concepire degli obiettivi che trascendano la propria visione soggettiva e legati invece a una fede o -se si preferisce- una fiducia in un valore successivo a quelli personali. Un valore ultimo o –ancora una volta se si preferisce- almeno penultimo.

Scioli ha sviluppato alcuni strumenti di valutazione della speranza dotati di una buona capacità predittiva della resilienza, ovvero della capacità di non essere soggetti alla sofferenza emotiva (Scioli e Biller, 2009).

Da ultimo, Bernardo Carducci ha parlato di timidezza all’interno di un simposio condiviso con me e dedicato al contributo italiano alla psicologica clinica. Carducci ha esposto il suo modello della timidezza di cui abbiamo già parlato nell’intervista fatta l’anno scorso al congresso APA 2013 a Honolulu (Carducci e Golant, 2000).

Infine, nella mia presentazione ho tentato di delineare una sorta di percorso ideale della psicologia cognitiva italiana, individuando come carattere proprio l’integrazione con il costruttivismo e il particolare interesse per le emozioni e per la relazione per storia personale del cliente. State of Mind pubblica anche le diapositive della mia presentazione:

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La supervisione in Psicoterapia – Congresso APA 2014, Washington DC

Congresso APA 2014: La supervisione in psicoterapia

La supervisione in psicoterapia è stata per anni la cenerentola della psicoterapia: poco studiata e poco teorizzata. La via facile voleva che il buon terapeuta diventasse senza scampo il buon supervisore, e arrivederci a tutti; ma non è così semplice. 

Supervisione psicoterapia - ADDRESSING SUPERVISION PROCESS AND OUTCOMES - APA 2014 WASHINGTON DC -Vado al congresso APA (American Psychological Association) 2014 e scrivo di Rational Emotive Behavior Therapy (REBT). Sono un po’ fissato, lo riconosco, e avete il diritto di esclamare: “Aha, Ruggiero è il solito monomaniaco, per lui esiste solo Albert Ellis!” Beh, dopo essermi sfogato vi parlo anche delle altre cose che ho visto.

Un simposio sulla supervisione in psicoterapia, per iniziare. La supervisione è stata per anni la cenerentola della psicoterapia, poco studiata e poco teorizzata. La via facile voleva che il buon terapeuta diventasse senza scampo il buon supervisore, e arrivederci a tutti. Non è così semplice, come ha detto Ray Digiuseppe al corso che ho fatto per diventare supervisore REBT (eh! Lo so, ci sono ricascato!)

 

I compiti della supervisione in psicoterapia

Nel simposio, a cura di Chun-I Li, Scott Fairhurst e Scott Liu dell’Università dello Iowa, sono stati delineati i compiti del supervisore della psicoterapia e le aspettative del supervisionato (supervisee), che sono dieci:

  1. aiutare l’introspezione (facilitating insight)
  2. riscontro e correzione (feedback and correction)
  3. incanalare l’eaborazione (allowing for debriefing)
  4. delineare le scelte (outlining options)
  5. impartire conoscenze generali (imparting general knowledge)
  6. spiegare che fare (explaining what to do)
  7. impostare differenze di valori (addressing differences in values)
  8. promuovere lo sviluppo professionale (promoting professional development)
  9. essere un modello (modeling)
  10. validare gli stati emotivi del supervisionato (validating supervisee’s feelings)

Queste variabili potrebbero essere a grandi linee raggruppabili in due aree principali: la validazione degli stati emotivi vissuti in seduta e la valutazione e correzione degli aspetti tecnici e strategici. Insomma, la carota e il bastone.

 

Aspettative e valutazioni dell’esperienza di supervisione nella psicoterapia

Il risultato interessante, almeno in base ai dati empirici, è che il supervisionato dichiara maggiore bisogno di correzioni e valutazioni, mentre il supervisore sembra più interessato nel fornire supporto, conferma e validazione emotiva. Questo per quanto riguarda le aspettative.

Il quadro si conferma quando si passava a come supervisori e supervisionati valutavano le loro esperienze. I supervisori, confermando la loro idea di dover dare soprattutto conforto e conferma, valutavano le loro esperienze come emotivamente appaganti e calde. Insomma sentivano di aver offerto quel supporto che pensavano di dover dare. I supervisionati, invece, valutavano più negativamente il colore emotivo delle loro esperienze, forse in parallelo con il loro bisogno di essere guidati e corretti.

L’interesse del simposio, più che nei risultati, risiede nella proposta di strumenti di valutazione della supervisione in psicoterapia. La ricerca empirica potrà aiutare la supervisione a uscire dalla sua condizione di attività trascurata e minore rispetto alla psicoterapia. 

Psicoterapia: Congresso APA 2014 – Report da Washington DC

Congresso APA 2014:

Lo sguardo sulla REBT

APA 2014 WASHINGTON - REPORTAGE 

Mastodontico ma non dispersivo è stato il congresso annuale convocato dall’APA (American Psychological Association) a Washington negli Stati Uniti d’America dal 7 al 10 agosto 2014. Non dispersivo forse soprattutto per l’app gratuita per smartphone offerta dall’organizzazione, app che consentiva di cercare le presentazioni d’interesse, sistemarle su un’agenda e localizzarle all’interno dell’enorme Washington Convention Center, a pochi passi dalla Casa Bianca e Capitol Hill. Grazie a questo strumento ho potuto individuare gli eventi di carattere clinico che più mi interessavano.

Ho privilegiato naturalmente i simposi dedicati alla psicoterapia, dividendomi tra simposi sulla supervisione e simposi sulla Rational Emotive Behavior Therapy (REBT). In questo articolo descrivo due simposi sulla REBT. Nel primo simposio, giovedì mattina 7 agosto, ho potuto assistere a un vero e proprio duello di psicoterapie.

Un duello tra psicoterapie cognitive, la CBT (Cognitive Behavioural Therapy) contro la REBT. Un cliente volontario con problemi di ansia si è sottoposto dal vivo a due minisedute di venti minuti ciascuna, la prima con Arthur Freeman (dell’Università di Chicago) nella parte del terapeuta CBT e la seconda con Kristene Doyle (dell’Albert Ellis Institute di New York) nella parte della terapeuta REBT. Arbitro Ray DiGiuseppe. Il lancio di una moneta ha stabilito che il primo ad agire fosse Freeman, mentre la Doyle si accomodava fuori dalla stanza. Quando è stato il turno della Doyle, Freeman è rimasto ad ascoltare.

Naturalmente il metodo non è perfetto. Nella seconda seduta –la seduta REBT- il cliente aveva potuto già usufruire dell’effetto della seduta CBT. Inoltre il cliente era in verità un collega in formazione, e in formazione REBT. Quindi conosceva i principi cognitivi e quelli specifici REBT. Il cliente è infatti un giovane terapeuta in ansia per il suo futuro professionale, ansia nutrita da insicurezze personali e da dubbi sul suo livello di preparazione. E questo è il problema che ha portato, a somiglianza di tanti giovani colleghi italiani che a lezione portano l’ansia per il proprio futuro professionale come argomento di esercitazione. Ultimo limite, Freeman ha avuto sia una formazione CBT che REBT e caricava intenzionalmente l’aspetto CBT.

Malgrado queste forzature, la differenza di metodo era istruttiva. In breve, la teoria cognitiva generale descrive l’ansia come un eccesso di preoccupazione, una sopravvalutazione dei problemi e dei pericoli e una sottovalutazione della propria capacità di gestirli. All’interno di questa cornice, la CBT alla Beck lavora sugli errori di lettura della realtà, quegli errori che ci fanno credere che gli ostacoli siano più ostici di quel che sembra. Insomma, la tecnica chiave del terapeuta CBT è una valutazione critica delle difficoltà immaginate dal cliente ansioso e la loro normalizzazione, il loro ridimensionamento. Il terapeuta chiede, in maniera accogliente:

“Come fai a dire che gli ostacoli che immagini ci siano, o siano così insormontabili?”

Nel caso specifico del simposio APA, Freeman ha condotto una valutazione critica dei dubbi e dei timori del giovane collega ansioso sulla pochezza delle proprie capacità professionali e sulla rarità degli sbocchi lavorativi, per giungere alla conclusione che questi timori erano eccessivi: nessuno, in realtà, aveva espresso giudizi negativi verso il giovane collega, né i suoi superiori né i suoi primi clienti, e nemmeno i primi passi nel mondo del lavoro erano stati così deludenti e frustranti.

L’impostazione della CBT è dunque ottimista e collaborativa. Terapeuta e cliente insieme esplorano il mondo e scoprono che i mostri temuti nel buio della mente diventano –alla luce della psicoterapia- dei mostriciattoli molto meno penosi.

Può sembrare un’impostazione semplicistica e ingenua. Ed è proprio questa la critica che sempre Ellis aveva rivolto a Beck. Nella REBT la visione filosofica è meno ottimista. Gli scenari peggiori possono avverarsi e l’obiettivo terapeutico non è solo eliminare eventuali valutazioni cognitive errate sull’entità degli ostacoli, ma anche prepararsi emotivamente al peggio. Ovvero, prendere atto che le sconfitte possono avvenire e che non sta scritto da nessuna parte che le cose vadano come si desidera. È una visione stoica della vita. Per questo il terapeuta REBT lavora non tanto su: “vediamo quanto è probabile quel che temi” ma sul “e dove sta scritto che quel che temi non debba avvenire?.

Detto così, sembra un intervento ruvido che potrebbe addirittura indebolire il paziente. Espresso però con la dovuta capacità di costruire e mantenere l’alleanza terapeutica, diventa un attacco alle aspettative del cliente, alle sue pretese che non ci siano difficoltà e ostacoli tra se e i propri scopi personali.

Per la REBT, la rinuncia a queste pretese (“demands”) è il presupposto per poi smettere di immaginare in maniera terribilizzante gli ostacoli (“awfulizing”), di temere di non poter tollerare la frustrazione (“frustration intolerance”) e di formulare queste difficoltà in termini denigrativi di se o degli altri (“self-downing” e “other-downing”). Lo stile diventa più sfidante e meno accogliente.

Doyle e Freeman hanno dato una buona prova dal vivo di queste due opposte tecniche. Quale sia la migliore, è una domanda al tempo stesso interessante e oziosa. Per anni ha prevalso la CBT di Beck, anche grazie a maggiore investimento sulla ricerca mirata su disturbi specifici definiti nei termini medici e psichiatrici più rigorosi. La REBT ha invece preferito un approccio più globale e psicologico e al tempo stesso più mirato sui problemi singoli del cliente nel qui e ora. Negli ultimi anni, a seguito degli sviluppi cosiddetti di terza ondata, l’attenzione della REBT per la resilienza emotiva ai disturbi piuttosto che agli errori cognitivi ha ricevuto un ritorno d’interesse. Anche l’efficacia della REBT è stata finalmente testata, e i risultati sono promettenti, confermando che la REBT ha precorso alcuni passi avanti individuati nelle terapie di terza ondata. Al tempo stesso, la terza ondata ha sottolineato alcune deficienze teoriche della CBT. Questi sviluppi sono stati descritti e valutati criticamente da Raymond DiGiuseppe in un secondo simposio REBT tenutosi domenica 10 agosto, poche ore prima della chiusura finale del congresso.

Un terzo simposio sulla REBT era dedicato ad applicazioni specifiche. Segnalo la presentazione della collega italiana Sara Bernardelli, che ha mostrato dati sull’applicazione della REBT nei bambini.

 

ARTICOLI CONSIGLIATI:

APA 2013 Congresso annuale Honolulu (HAWAII)

DIFENDIAMO I CITTADINI DAL GIOCO D’AZZARDO – FIRMA LA PETIZIONE

RICEVIAMO IN REDAZIONE E DIFFONDIAMO IL COMUNICATO STAMPA DELL’ASSOCIAZIONE PRIMO CONSUMO:

   COMUNICATO STAMPA

PRIMOCONSUMO LANCIA LA PETIZIONE:

DIFENDIAMO I CITTADINI DAL GIOCO D’AZZARDO

Per molte persone il gioco d’azzardo non si limita ad essere un innocuo passatempo ma rischia di diventare sintomo di un disturbo patologico definito ludopatia che causa gravi danni relazionali, economici e familiari.

Il gioco d’azzardo oggi rappresenta una realtà problematica che sta coinvolgendo persone di ogni estrazione sociale, età, sesso e provenienza. A farne le spese sono soprattutto pensionati e giovani. Circa un terzo delle giocate viene effettuato da minorenni, anche se in Italia la legge vieta ai minori il gioco con vincite in denaro.

Si stima infatti che nell’anno 2012 il 12% dei ragazzi abbia giocato on line e il 27% non online, che il 25,2% dei ragazzi abbia sentito l’esigenza di giocare  e che il 46% abbia giocato tutti i soldi a disposizione (Eurispes e Telefono Azzurro, “Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza 2012”).

Alla luce di questi dati allarmanti, Primoconsumo, già in prima linea nella lotta alla ludopatia e nella tutela della salute psicofisica dei giocatori e dei loro familiari attraverso varie iniziative  e con il progetto: “Game over- la dipendenza dal gioco non è un gioco”, promuove una petizione per difendere i cittadini dai rischi del gioco d’azzardo.

INDIRIZZATA  A GOVERNO MATTEO RENZI

CHIEDIAMO ALLE FORZE POLITICHE  DI :

Vietare i messaggi pubblicitari (così come avviene per il tabacco) concernenti il gioco con vincite in denaro

Disporre il divieto di vendite promiscue di gioco (ad es. gratta e vinci) in locali non dedicati esclusivamente al gioco (es. supermercati, autogrill, etc.).

Promuovere campagne di informazione e sensibilizzazione sui rischi e i pericoli derivanti dal gioco d’azzardo a partire dai contesti scolastici e di aggregazione giovanile (centri  culturali, sportivi, etc) con una quota parte del prelievo fiscale già in essere quale tassa di scopo per la sovvenzione della “pubblicità progresso”.

Destinare parte del prelievo fiscale derivante dai  luoghi fisici di gioco (no internet) al finanziamento degli enti locali che oggi subiscono fortemente l’impatto fisico e sociale del gioco.

Sanzionare (manca sanzione nel decreto Balduzzi) chi consente giochi d’azzardo attraverso internet in locali pubblici attraverso l’installazione di pc o apparecchi idonei allo scopo.

Promuovere l’adozione di un unico registro nazionale delle persone che chiedono l’autoesclusione dai siti di gioco uniformando la disciplina per tutti i concessionari

Considerato che i reati di esercizio e agevolazione del gioco d’azzardo sono già disciplinati nel codice penale, inasprire il sistema sanzionatorio prevedendole non come mere ipotesi contravvenzionali bensì come delitti, aumentando le pene edittali previste, integrando le fattispecie tipiche punendo anche coloro che prestano denaro da utilizzare nelle puntate di gioco ovvero coloro che promettono o prestano denaro per far fronte ai debiti di gioco e, infine, affiancando sempre alle pene principali le pene accessorie.

FIRMA LA PETIZIONE:

https://www.change.org/it/petizioni/governo-matteo-renzi-difendiamo-i-cittadini-dal-gioco-d-azzardo

 

ARTICOLI SU: GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Comunicato stampa Petizione Gioco d’azzardo

PRIMI FIRMATARI

Riccardo Nencini   Viceministro alle infrastrutture (PSI)

Enrico Buemi        senat. e capogruppo Aut-Psi-Maie

Fausto Guilherme Longo senatore Psi

Claudio Bucci       respons.Nazionale Psi

 

Roma 28 luglio 2014

  

   Segreteria Primoconsumo

   Tel. 06/39738239

   Fax 06/97271844

Il cervello a fumetti: il progetto Neurocomic di Matteo Farinella & Hana Roš – Recensione

Neurocomic è il nome di un interessante progetto con cui Matteo Farinella (neuroscienziato di origini bolognesi ma londinese di adozione) e Hana Roš (ricercatrice) hanno riproposto la struttura neurale e il suo funzionamento sotto forma di un romanzo grafico.

Attraverso questa storia raccontata a fumetti il lettore viene accompagnato nell’esplorazione in cinque capitoli di altrettanti aspetti del sistema nervoso: morfologia, farmacologia, elettrofisiologia, plasticità e sincronicità. Ad affiancarlo, interessante richiamo dantesco, per ogni girone troviamo una figura di spicco del settore, passata alla storia per le sue scoperte o i suoi studi nell’area neurale.

Il protagonista apre la storia cadendo per caso nella selva oscura dantesca che al posto degli alberi ha i dendriti e gli assoni dei neuroni; lì trova ad accoglierlo Santiago Ramón y Cajal, premio Nobel per i suoi studi pioneristici sulla struttura del cervello, insieme a Camillo Golgi, a sua volta premio Nobel per aver scoperto un metodo per colorare i neuroni pochi per volta e studiarli meglio da vicino.

Dopo aver dato modo al lettore di comprendere la struttura delle componenti neurali, il protagonista entra all’interno del neurone stesso, nella zona della sinapsi.

A questo punto si fa spiegare da Charles Scott Sherrington come funziona la trasmissione tra neuroni, attraverso la liberazione (e l’assorbimento) di neurotrasmettitori nella fessura sinaptica.

Il protagonista, che continua a cercare il modo più veloce per uscire da questa gita all’interno del cervello, si trasforma lui stesso in neurotrasmettitore e riesce a fuoriuscire dal neurone facendosi però pescare da un sottomarino capitanato da Alan Hodgkin e Andrew Huxley che gli consentono di capire meglio l’elettrofisiologia e le caratteristiche elettriche che permettono ai neuroni di comunicare tra loro attraverso il flusso di ioni (particelle cariche elettricamente) da una regione all’altra.

 Nel momento in cui il nostro protagonista riesce a scappare dal sottomarino approda su una spiaggia per esplorare la plasticità neurale dove incontra Eric Kandel (che chi ha per qualche motivo sostenuto un esame di neuroscienze ricorda con stima e tanto dolore) che gli racconta la differenza tra la memoria implicita e la memoria esplicita. Sul termine della lezione, sentiamo un campanello che suona e incontriamo Ivan Pavlov, tra i primi studiosi della memoria e ricordato per i suoi esperimenti sul condizionamento classico, ottimo esempio di come i neuroni possono connettersi e disconnettersi tra loro formando reti preferenziali che sono potenziate con la ripetizione e l’esercizio e al contrario slegate se non coltivate.

Infine, fuggito anche dalla spiaggia alla ricerca di un passaggio che gli consenta di ritornare fuori dal cervello, l’ultima caratteristica che esploriamo in compagnia del protagonista è la sincronicità, con un occhio di riguardo alla relazione tra le diverse aree del cervello e le strutture del sistema nervoso periferico sparse per tutto il nostro corpo (i recettori nervosi). In questo caso, ci aiuta Hans Berger, inventore dell’elettroencefalografo e primo studioso delle onde cerebrali.

Il volume si chiude con una riflessione molto interessante, che esplora meglio la controversa questione della relazione tra mente e cervello: la mente è qualcosa di diverso dal cervello, è il software mentre il cervello è l’hardware, è un suo sottoprodotto?

Come giustamente sottolinea l’autore:

trovare una spiegazione biologica per la mente è davvero la sfida più grande per le neuroscienze.

Alla ricerca dell’artefice di questo scherzo lungo un viaggio, il protagonista si avventura in un castello dove però si trova davanti a uno specchio che gli mostra se stesso: il macchinista dietro a questo strano tour era lui, che attraverso il suo stesso cervello è stato in grado di costruire questa narrazione e vedere una storia comporsi di fronte a una serie di disegni su carta.

Un modo davvero interessante e alternativo di raccontare il mondo neurale che, per tante persone che l’hanno approcciato perché richiesto dal percorso di studi, è stato interessante ma anche molto complicato da assimilare.

Sicuramente, senza la pretesa di essere esaustivo, lo ritengo un valido aiuto per introdurre il mondo delle neuroscienze nei suoi principi di base, come la struttura o il funzionamento sinaptico.

Molto interessante anche il finale, che non si limita a essere un’illustrazione dei risultati finora raccolti dalla scienza, ma apre nuovi e importanti interrogativi sulle connessioni tra mente e cervello, tra morfologia e psicologia, che rispecchiano bene un quesito molto presente nel contesto attuale, che ha portato per esempio Rizolatti alla scoperta dei neuroni specchio, fondamento biologico dell’empatia.

 

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Neuroestetica: Kandinsky tra arte e cervello – Arte & Neuroscienze

BIBLIOGRAFIA: 

  • Farinella, M. & Ros, H. (2014). Neurocomic. Rizzoli Lizard (Credits: © 2014 RCS Libri S.p.A., Rizzoli Lizard – © 2014 Matteo Farinella e Hana Roš).

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Giudizi di valore e gerarchie sociali: impossibile non giudicare! – Psicologia

 

 

FLASH NEWS

Secondo un team di ricercatori della University of Virginia, costruire gerarchie sociali sulla base di giudizi di valore – in altre parole definire la propria e l’altrui superiorità o inferiorità – sembra essere una pratica comune, anche se non esplicita. Le regole di superiorità e inferiorità plasmano sottilmente i nostri giudizi su razza, religione e, sorprendentemente, anche quelli sull’età.

Chi è ok? E chi è meglio di chi? Passiamo gran parte del nostro tempo a dare giudizi di valore sugli altri, anche se ci è stato insegnato fin da piccoli che “non si fa”. L’uguaglianza, infatti, è un principio fondamentale della società occidentale, ed è considerato politicamente scorretto costruire gerarchie sociali.

Secondo un team di ricercatori della University of Virginia, costruire gerarchie sociali sulla base di giudizi di valore – in altre parole definire la propria e l’altrui superiorità o inferiorità – sembra essere una pratica comune, anche se non esplicita. Le regole di superiorità e inferiorità plasmano sottilmente i nostri giudizi su razza, religione e, sorprendentemente, anche quelli sull’età.

I ricercatori hanno usato l’Implicit Association Test per studiare come le persone giudicano, inconsapevolmente, gruppi razziali, religiosi e d’età, compresi i propri: in tre studi separati, è stato intervistato un ampio campione di persone per scoprire la loro posizione rispetto a razza, religione ed età. Poi i partecipanti hanno completato una versione dello IAT per indagare i loro sentimenti inconsci verso gli stessi gruppi. L’idea era di vedere come il favoritismo nei confronti del proprio gruppo, gli ideali espliciti di equità e i pregiudizi interagiscono tra loro nel modellare le dinamiche di gruppo di oggi.

I risultati sono stati interessati. Infatti nonostante la disapprovazione formale della società nei confronti della costruzione di gerarchie di status sociale, le persone, inconsciamente, lo fanno ugualmente. Inoltre queste gerarchie sembrano essere costanti, indipendentemente da chi compie la valutazione.

Rispetto all’etnia, per esempio, tutti i gruppi apprezzano maggiormente la propria, ma poi valutano gli altri gruppi sempre nello stesso ordine di preferenza: bianco, asiatico, nero, ispanico. Lo stesso accade con la religione, la propria è quella preferita, seguita dalle altre sempre secondo quest’ordine: cristiani, ebrei, indù / buddisti, musulmani. Anche gli intervistati che non si identificavano con nessuno di questi gruppi hanno costruito queste stesse gerarchie.

Per quanto riguarda l’età, indipendentemente dall’età degli intervistati, tutti hanno espresso una preferenza per i bambini, poi per i giovani adulti, poi per gli adulti di mezza età, e infine per gli anziani. Quando si tratta di età, insomma, sembra che l’atteggiamento generale sia condizionato dall’idea che giovane è meglio.

I risultati nel loro insieme suggeriscono che le gerarchie sociali sono incorporate stabilmente nella nostra mente sociale, nonostante l’educazione lo scoraggi esplicitamente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La paura del giudizio degli altri: il circolo vizioso dell’ansia sociale.

 

BIBLIOGRAFIA:

Aaron Beck, padre della Psicoterapia Cognitiva compie 93 anni.

Happy Birthday, Dr. Aaron Beck!

 

Aaron Beck, padre insieme ad Albert Ellis, della Psicoterapia Cognitiva ha compiuto venerdì scorso 93 anni.
Ecco alcune foto dei festeggiamenti per il suo compleanno presso l’istituto A.T. Beck. e l’abstract dell’ultimo articolo pubblicato.

Participants of our CBT for PTSD Workshop last week, July 14-16, 2014,
helped Dr. Beck celebrate with cupcakes and singing.
Dr. Aaron Beck with Dr. Judith Beck, as participants sing Happy  Birthday.

 

Advances in Cognitive Theory and Therapy:

The Generic Cognitive Model

 

Abstract:

For over 50 years, Beck’s cognitive model has provided an evidence-based way to conceptualize and treat psychological disorders. The generic cognitive model represents a set of common principles that can be applied across the spectrum of psychological disorders. The updated theoretical model provides a framework for addressing significant questions regarding the phenomenology of disorders not explained in previous iterations of the original model. New additions to the theory include continuity of adaptive and maladaptive function, dual information processing, energizing of schemas, and attentional focus. The model includes a theory of modes, an organization of schemas relevant to expectancies, self-evaluations, rules, and memories. A description of the new theoretical model is followed by a presentation of the corresponding applied model, which provides a template for conceptualizing a specific disorder and formulating a case. The focus on beliefs differentiates disorders and provides a target for treatment. A variety of interventions are described.

 

Beck, A.T., & Haigh, E.A.P. (2014) Advances in Cognitive Theory and Therapy: The Generic Cognitive Model. Annual Review of Clinical Psychology, 10, 1, 1-24.

 

Permission Note: The Annual Review of Clinical Psychology grants its authors the nonexclusive right to distribute and make copies of their own work (electronically or in print) in connection with the author’s teaching, conference presentations, lectures, and publications. See: The Annual Review, Copyright and Permissions, for further details.
 

 

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