expand_lessAPRI WIDGET

I sensi e l’inconscio di Giuseppe Civitarese – Recensione

 

 

Il libro di Civitarese “I sensi e l’inconscio” (2014) pubblicato quest’anno ha –tra i suoi meriti- quello di chiarire cosa potrebbe esserci in Bion che tanto affascina i colleghi psicoanalisti italiani. Civitarese offre una concezione della teoria analitica che consapevolmente si richiama a Bion e alla concezione che Bion aveva dell’inconscio.

Gli psicoanalisti italiani nutrono una passione per Wilfred Bion. Citato spesso nei seminari e nei libri, evocato con trasporto intellettuale ed emotivo. Lo aveva notato già Davide Lopez, quando si trasferì in Italia negli anni ‘60 dopo il suo soggiorno londinese (Lopez, 2011), quasi meravigliandosi del prestigio che Bion godeva tra noi, probabilmente maggiore che nel mondo anglo-sassone. In Italia Bion sembra essere concepito come autore di una vera svolta paradigmatica, di pari peso rispetto alla teoria delle relazioni oggettuali o della teoria delle difese dell’Io.

Perché? Non è facile rispondere, soprattutto per chi è estraneo all’ambiente psicoanalitico, come sono io. Il libro di Civitarese “I sensi e l’inconscio” (2014) pubblicato quest’anno ha –tra i suoi meriti- quello di chiarire cosa potrebbe esserci in Bion che tanto affascina i colleghi psicoanalisti italiani. Civitarese offre una concezione della teoria analitica che consapevolmente si richiama a Bion e alla concezione che Bion aveva dell’inconscio.

Una visione dell’inconscio diversa da quella freudiana e che forse si apparenta con un modo di vedere le cose che fa parte della tradizione di pensiero italiana, della nostra visione della realtà, dell’uomo e quindi della sua mente.

In Bion l’inconscio riceve una nuova centralità. Sembrerebbe un ritorno a Freud, e lo è. Non del tutto, però. In Bion l’inconscio non è solo un calderone di pulsioni cieche da soddisfare. Al contrario, esso è il vero centro di elaborazione della mente, è il luogo dove davvero si pensa un pensiero vivente, al tempo stesso vissuto e anche razionale (ma non razionalistico).

Il pensiero inconscio di Bion si contrappone sia alle elaborazioni astratte e razionalistiche del pensiero puramente consapevole (che sono in realtà difese) sia alle pulsioni istintive non elaborate.

È un’ipotesi che somiglia in parte alla teoria delle difese, ma che se ne discosta laddove pone al centro del processo curativo l’inconscio. La teoria delle difese vedeva la terapia come un progressivo rinunciare alle difese. Più positivamente, Bion vede la terapia come un vero a proprio abbandonarsi all’inconscio senza difese, fiduciosi che proprio in quest’abbandono si crea la condizione che permette all’inconscio di fare il proprio lavoro di elaborazione sentita, vivente e non difensiva e astratta.

Civitarese spiega tutto questo e usa un termine evocativo, “inconsciare”. Anche il sogno ritorna centrale in Bion, come in Freud. E anche in questo caso con una differenza: il sogno non è solo possibilità di decifrare i desideri inconsci, ma di elaborarli. Solo sognando diventiamo in grado di pensare i nostri desideri e di portarli alla luce del sole.

E infine il corpo e la relazione di gruppo ricevono da Bion attenzione. Il corpo e la relazione sono altri luoghi di questo pensiero vivente, emotivo e razionale al tempo stesso e mai astratto e razionalistico, difensivo e morto.

Sebbene le distanze di questo mondo analitico dal mio mondo cognitivista siano grandi, la lettura di Civitarese suscita risonanze evocative e stravaganti nella mia mente. La visione bioniana di un inconscio pensante e non solo bestialmente desiderante non è lontana da una visione cognitiva della mente. L’idea di Bion e di Civitarese che l’elaborazione mentale sia per lo più un processo inconscio si avvicina agli ultimi sviluppi del cognitivismo, con il loro interesse per i processi inconsapevoli.

Il suggerimento di lasciarsi andare all’attività spontanea della mente, fino a considerare ogni buon pensiero come un sogno da svegli e, nelle parole di Civitarese, il considerare la stessa seduta analitica un sogno mi richiama alla mente il modello metacognitivo, in cui la coscienza, piuttosto che sostituire le emozioni, le utilizza per mettersi in contatto con il mondo esterno. E così via.

Ci sono dei parallelismi tra questa visione bioniana dell’inconscio come sede di un pensiero vivente, vero pensiero storicamente incarnato nell’individuo reale e distinto sia dalle formule astratte del razionalismo che dal cieco istinto. Il pensiero filosofico italiano ha sempre concepito l’attività mentale come un misto tra razionalità ed emozioni, in cui l’elaborazione è più frutto di un abbandono emotivo che di uno sforzo consapevole. Secondo il filosofo Roberto Esposito (2010), autore di una descrizione della filosofia italiana che è già un classico tradotto in molte lingue, troviamo questa concezione via via in Machiavelli, Giordano Bruno, Giambattista Vico, Vincenzo Cuoco, Giacomo Leopardi, Croce e Gentile fino a Gianni Vattimo.

La somiglianza tra questa concezione italiana, emotivista ma non istintualista, razionale ma non astratta, e infine profondamente relazionale della mente umana e la concezione di Bion potrebbe anche spiegare la spontanea predilezione degli psicoanalisti italiani per questo psicoanalista.

Per chi si fosse incuriosito per Bion e per la concezione italiana di Bion, raccomando la lettura del libro di Civitarese. Lettura sia consapevole che inconscia. Naturalmente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I sensi e l’inconscio di Giuseppe Civitarese (2014) – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’ossitocina può ingannare le nostre percezioni sociali

FLASH NEWS

 

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science in alcune situazioni sarebbe proprio l’ossitocina ad impedirci di comprendere a fondo le intenzioni non del tutto amichevoli del nostro interlocutore, inibendo la nostra capacità di rilevare le intenzioni nascoste nelle facce degli altri.

L’ossitocina, anche chiamato ormone della fiducia, sembra favorire i rapporti sociali in una varietà di situazioni: basta una stretta di mano o un complimento a darci una carica di ossitocina e una sensazione di connessione.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, però, in alcune situazioni sarebbe proprio l’ossitocina ad impedirci di comprendere a fondo le intenzioni non del tutto amichevoli del nostro interlocutore, inibendo la nostra capacità di rilevare le intenzioni nascoste nelle facce degli altri.

La psicologa ricercatrice Eyal Winter e il suo team hanno chiesto a un campione di 84 individui di guardare il programma “Friend or Foe?” (amico o nemico?) e valutare, dopo dopo essere stati istruiti per farlo, chi era sincero e degno di fiducia e chi no. Prima di guardare lo spettacolo, alcuni partecipanti hanno ricevuto una dose intranasale di ossitocina, mentre altri hanno ricevuto un placebo.

Nel complesso, entrambi i gruppi erano in grado di identificare i volti amichevoli e quali concorrenti sarebbero stati in grado di cooperare. Tuttavia i risultati nei due gruppi si discostavano quando si trattava di identificare i concorrenti più falsi e ingannevoli.

Secondo i ricercatori, infatti, l’ossitocina sopprimerebbe l’attenzione per gli stimoli sociali negativi, con conseguente diminuzione della capacità di identificare l’astuzia nascosta in un volto apparentemente amichevole: “Quando motivazioni miste si nascondono sotto la patina di un volto amico, l’ossitocina può ostacolare la nostra capacità di riconoscere che qualcosa non quadra” concludono.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Monogamia & Ossitocina 

 

BIBLIOGRAFIA:

EABCT 2014 – An empirical test of a metacognitive model of craving

 

hhh

Udire le voci: malattia o malessere? E cos’è la “Recovery”?

 

 

 Secondo l’ approccio della recovery, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali,tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona.

L’approccio dei professionisti della salute mentale all’esperienza dell’udire le voci (con in termine “voci” si intende qualsiasi esperienza o percezione inusuale: voci interiori, compagni invisibili, la voce della coscienza, spiriti, angeli, demoni, la voce di Dio, personalità scisse, allucinazioni visive etc.) è ancora, troppo spesso, stigmatizzante e, di fatto, iatrogeno poiché sentire le voci è considerato ipso facto uno dei sintomi cardinali delle psicosi.

In molti Paesi del mondo occidentale, una persona che ode le voci viene immediatamente vista come qualcuno che ha un problema psichiatrico tipicamente identificato come schizofrenia. Altri aspetti significativi di tale esperienza non vengono quasi mai presi in considerazione poiché la priorità è data al sopprimere il sintomo di malattia prima ancora di comprenderlo.

Tuttavia, nella storia dell’umanità, l’udire le voci è ampiamente riscontrabile sin dalle più antiche civiltà. Il primo famoso uditore di voci è stato Socrate (469-399 aC) che riferiva di udire la voce di un demone al quale tuttavia conferiva una valenza positiva. Altri famosi uditori di voci sono stati Maometto, Gesù, San Paolo, Giovanna d’Arco, William Blake, Virginia Woolf, ed il compositore Robert Schumann. In alcune società orientali l’udire le voci viene ancora tutt’oggi considerato come un’esperienza relativamente normale e spesso apprezzata in senso positivo.

Da circa vent’anni è emersa a livello mondiale una prospettiva nuova, adottata da professionisti della salute mentale e dagli uditori di voci stessi, denominata “Recovery”. Secondo tale approccio, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, i fenomeni inusuali non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona.

Seguendo questa prospettiva si cerca di uscire dalla dicotomia malattia/guarigione ponendosi invece in un’ottica di Recovery, ovvero di percorso di riappropriazione della propria vita.

 

Il termine Recovery non possiede un esatto equivalente nella lingua italiana e non è semplicemente traducibile con il termine guarigione, ma piuttosto con forme verbali riflessive quali ad esempio con il termine “riappropriarsi”. A differenza della parola “guarire”, quest’ultima implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine. Con il termine Recovery non ci si riferisce infatti ad una situazione di ritorno al prima della malattia.

Secondo Anthony (1993) esistono diversi tipi di guarigione:

  •  guarigione clinica che consiste nella remissione sintomatologica;
  • guarigione sociale che consiste in un ritorno al funzionamento sociale e lavorativo dell’individuo;

  • guarigione personale che consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita;

Sebbene il termine Recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.

Anthony descrive il Recovery come:

a deeply personal, unique process of changing one’s attitudes, values, feelings, goals, skills and/or roles. It is a way of living a satisfying, hopeful, and contributing life even with limitations caused by the illness. Recovery involves the development of new meaning and purpose in one’s life as one grows beyond the catastrophic effects of mental illness”.

Tuttavia, questo processo non riguarda solo persone affette da una “malattia” ma tutti. Ognuno può fare i conti con la sua personale “malattia”, ovvero la sua rigidità di pensiero, la tendenza a delegare agli altri la soluzione dei problemi, la difficoltà a credere che i sogni si possano realizzare, etc. Si può quindi asserire che ognuno può fare il proprio percorso di Recovery e che non esiste un percorso uguale all’altro o soluzioni migliori a priori poiché siamo tutti diversi e ugualmente importanti.

 

Per quanto riguarda gli uditori di voci, esistono testimonianze di persone che si sono riprese dalla sofferenza causata dall’udire le voci (Romme et al., 2011). Queste persone hanno superato gli atteggiamenti sociali e psichiatrici invalidanti e hanno combattuto duramente, anche con se stesse, per poter accettare e trovare un senso alle voci e hanno cambiato il loro rapporto con esse per poter finalmente rivendicare il diritto alla propria vita.

Per loro guarire ha significato comprendere che le loro voci non erano un segno di pazzia, bensì una reazione a determinati problemi di vita che prima non si sapeva come affrontare. Tali persone hanno riscontrato il fatto che le voci parlano dei problemi che la persona non ha risolto e che pertanto le voci hanno un senso. Ne deriva che il processo di Recovery per gli uditori di voci riguarda quindi l’accettazione delle voci, il cambiamento del rapporto con esse ed il fronteggiamento dei problemi della propria vita.

Circa il 70% di uditori di voci afferma che le voci si riferiscono a traumi e altre situazioni dove la persona ha esperito un forte senso di impotenza. In accordo con ciò recenti ricerche dimostrano che i sintomi considerati indicativi di psicosi sono correlati agli abusi e alla trascuratezza subiti nell’infanzia almeno quanto molti altri problemi di salute mentale e che questa relazione è di fatto causale, con un effetto dose dipendente (Bloom, 2003).

Da quanto detto finora, emerge chiaramente che guarire per un uditore di voci non significa liberarsi delle voci, tanto meno cancellarle o sopprimerle, come invece troppo spesso imposto dalle tradizionali cure psichiatriche che seguono un modello medico-centrico di malattia mentale. Diversamente, nel processo di recovery di un uditore di voci, viene incoraggiata la possibilità di sperimentarsi e la ricerca di connessioni tra le voci, le emozioni e fatti accaduti nella vita (Read, 2005).

Spesso l’ansia, le sensazioni di impotenza, il senso di colpa che il soggetto esperisce nel suo rapporto con le voci, sono una metafora della relazione di potere esistente nelle situazioni traumatiche e nelle situazioni in cui non era possibile esprimere ciò che la persona sentiva veramente. Il punto di svolta è spesso rappresentato nel cambiamento nel rapporto con le voci laddove la persona è in grado di riappropriarsi delle proprie esperienze ed emozioni e da vero protagonista della sua vita passa dal ruolo passivo di vittima a quello di vincitore del proprio disagio mentale (Coleman and Smith, 2011).

Ron Coleman è un noto uditore di voci che è guarito dal suo disturbo causato dalle voci. Nel suo libro “Guarire dal male mentale” (2007) egli descrive la sua storia ed il suo personale percorso di recovery rilevandone quattro elementi chiave:

  1. Coinvolgere gli altri, perché si ha bisogno di indicazioni, speranza, sostegno e rapporti amicali. Lui è infatti grato tutt’oggi a coloro che hanno sostenuto la speranza per lui quando ancora lui non poteva o meglio non riusciva a farlo.

  2. Lavorare sulle quattro auto: autostima, auto-fiducia, auto-consapevolezza, auto-accettazione.

  3. Fare delle scelte ovvero diventare responsabili di sé e delle proprie decisioni nonché trovare uno scopo nella vita.

  4. Assumere il possesso, ovvero riappropriarsi della propria esperienza di vita e dei propri diritti nei confronti degli altri e delle proprie voci.

Egli asserisce che guarire significa riprendersi la vita in mano e per farlo si devono compiere delle scelte ed imparare a fronteggiare le conseguenze sia sociali che emotive dei problemi originari. Questo implica una presa di responsabilità della persona in questione, per agire e per muoversi verso l’incertezza del cambiamento. Aggiunge anche che il Recovery non è un viaggio che si compie da soli ma che al contrario c’è bisogno di relazioni profonde e di fiducia, contatti caldi e umani per non sentire che si è soli. Spesso il supporto di un gruppo di auto mutuo aiuto, una buona relazione con il medico di riferimento e un sostegno psicoterapico sono di grande aiuto per intraprendere un percorso così profondo ed importante.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Parlare con le voci: esplorare il significato delle voci che le persone sentono

 

BIBLIOGRAFIA:

The Experiment (Das Experiment) (2001) – Cinema & Psicoterapia #28

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #28

The Experiment (Das Experiment) (2001)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

Il film riprende il famoso esperimento condotto alla Stanford University da Zimbardo, conosciuto come “Effetto Lucifero”. L’esperimento ricrea artificialmente le stesse condizioni ambientali di una prigione. Come nel film, nel 1971 si dovette interrompere l’esperimento in quan­to si verificarono le stesse dinamiche violente di un carcere.

Info:

Un film di Oliver Hirschbiegel, con Moritz Bleibtreu, Oliver Stokowski, Christian Berkel, Wotan Wilke Möhring, Justus von Dohnanyi. Thriller. Germania 2001.

Trama:

Una squadra di psicologi assolda alcune persone per un esperimen­to: da una parte chi dovrà recitare il ruolo di detenuto dall’altra i carce­rieri. Tutti inseriti in una finta prigione, isolati dal mondo e controllati attraverso sistemi di videosorveglianza 24 ore su 24. I detenuti rinunce­ranno ai diritti civili e alla privacy, le guardie dovranno mantenere l’or­dine. È vietato qualunque comportamento violento. Non è possibile abbandonare l’esperimento, ma lo stesso può essere interrotto in qual­siasi momento dagli ideatori.

La tensione si rivela ben presto difficile da sostenere e la situazione degenera, in una spirale di violenza che consiglia l’interruzione dell’esperimento. Non sarà, però, così semplice perché anche il team di ricer­catori viene fatto prigioniero. Il bilancio finale sarà di due morti e nume­rosi feriti. L’esperimento rivelerà fino a che punto può spingersi il com­portamento umano e quanto il contesto è influente.

Motivi di interesse:

Il film riprende il famoso esperimento condotto alla Stanford University da Zimbardo, conosciuto come “Effetto Lucifero”. L’esperimento ricrea artificialmente le stesse condizioni ambientali di una prigione. Come nel film, nel 1971 si dovette interrompere l’esperimento in quan­to si verificarono le stesse dinamiche violente di un carcere. Di recente, i famosi avvenimenti di Abu Ghraib, dove sono stati torturati prigionie­ri iracheni da parte dei soldati occupanti americani, ha nuovamente acce­so il dibattito intorno all’esperimento.

Gli attori iniziano a recitare il proprio ruolo per gioco, ma ben presto si calano nella parte e riproducono le dinamiche classiche di un’istituzio­ne totale. Nel film, così come nell’esperimento alla Stanford University, ci troviamo in una prigione, ma potremmo trovarci in un manicomio.

Il regime chiuso, formalmente amministrato ingloba e assimila in un processo di socializzazione che viene continuamente testato sull’obbe­dienza e la trasgressione, facendo seguire premi e punizioni a seconda dei comportamenti dei controllati. Del resto i carcerieri sono chiamati a far rispettare le regole e l’ordine. Le imposizioni spezzano il potere che i dete­nuti hanno sul mondo: autodeterminazione e libertà lasciano il posto a mortificazioni e restringimento del sé. Le due sub culture carcerarie, quel­la degli internati e quella dei custodi, si confrontano in una escalation che conduce ad agire comportamenti violenti disumani e disumanizzanti.

Indicazioni per l’utilizzo:

I contenuti del film mostrano in modo crudo quanto il contesto sia influente in relazione all’interazione sociale e ai ruoli che ognuno è chia­mato a interpretare. I caratteri di stato della personalità possono essere influenzati in maniera da determinare un repentino mutamento del sen­tire e percepire il mondo, se stessi e gli altri in termini regressivi.

Umiliazioni, degradazioni, spersonalizzazione, perdita di identità in contesti simili, segnano il tempo e lo spazio di vita sollecitando uno sforzo incessante per mantenere dignità e improvvisarsi virtuosi della sopravvivenza. L’organizzazione delle strutture sanitarie residenziali e semiresidenziali dedicate ai malati di mente non può prescindere da quanto emerge da queste risultanze per rispettare il principio dell’uma­nizzazione della cura e della riabilitazione.

Trailer:

 

SULLO STESSO TEMA:

Vincere. Un film di Marco Bellocchio, con Filippo Timi, Giovanna Mezzogiorno. Drammatico. Italia-Francia 2009

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Sei sotto stress? Potresti assumere comportamenti ansiosi alla guida!

FLASH NEWS

 

 

Il distress causato da un incidente, collegato a sentimenti di paura, impotenza, pericolo, controllo e alla certezza della morte aumenta la possibilità di sviluppare comportamenti di guida ansiosi nelle persone che attraversano delle situazioni di vita molto stressanti.

Almeno una volta nella nostra vita, quasi ognuno di noi potrebbe essere coinvolto in un incidente d’auto. Le statistiche del settore assicurativo stimano che il guidatore medio americano reclama una collisione circa ogni 18 anni. Nel corso della nostra vita al volante è molto probabile “collezionare” tre o quattro incidenti.

Per molte persone, l’esperienza di un incidente d’auto può scatenare l’ansia di guida. I comportamenti di guida ansiosa alterano la performance, portano a più errori di guida e accrescono la possibilità di provocare nuovi incidenti.

In un recente studio un team di psicologi dell’Università di Wyoming hanno esaminato se eventi di vita stressanti non correlati alla guida possano rendere le persone più vulnerabili nel sviluppare comportamenti di guida ansiosi dopo aver avuto un incidente.

I ricercatori hanno esaminato 317 studenti universitari che erano stati coinvolti in incidenti stradali ma che continuavano a guidare un’ auto. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare la gravità del loro incidente e se l’incidente avesse generato sentimenti angoscianti come paura o impotenza.

Per la valutazione dello stress, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti allo studio di compilare un questionario su eventuali eventi traumatici subiti come ad esempio la morte di un famigliare.

Inoltre, un questionario standardizzato sul comportamento alla guida è stato utilizzato per determinare come i partecipanti reagiscono di fronte a situazioni di guida considerate pericolose.

Contrariamente alle aspettative, la gravità dell’incidente non è stata associata allo sviluppo di comportamenti di guida ansiosi. Per coloro che invece avevano sperimentato alti livelli di stress in altri settori della loro vita è risultato che le risposte emotive collegate ai loro incidenti possono far emergere comportamenti di guida ansiosi.

Il distress causato dall’incidente, collegato a sentimenti di paura, impotenza, pericolo, controllo e alla certezza della morte aumenta la possibilità di sviluppare comportamenti di guida ansiosi nelle persone che attraversano delle situazioni di vita molto stressanti, sostiene Clapp, uno degli autori del presente studio.

Poiché nello studio non era stato controllato se gli incidenti avvenivano prima o dopo l’insorgere di un evento stressante, studi successivi sono necessari per capire meglio l’impatto dello stress sui comportamenti di guida ansiosi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Ansia d’esame e stress cronico: come superarli

 

BIBLIOGRAFIA:

Ricorsività in psicoterapia: riflessioni sulla pratica clinica di Bianciardi e Telfener (2014) – Recensione

 

 

“Ricorsività in psicoterapia: Riflessioni sulla pratica clinica” (Bianciardi e Telfener, 2014) mostra molti dei pregi della tradizione sistemica in psicoterapia: l’attenzione per la complessità e per la visione circolare, anti-riduzionistica e non lineare del mutamento clinico.

Bianciardi e Telfner tentano di aggiornare il modello sistemico aggiungendo alla teoria di Gregory Bateson i successivi sviluppi di von Foerster e Maturana e Varela.

Il contributo specifico di Bianciardi e Telfner è l’applicazione alla psicoterapia di queste idee. I capitoli del libro affrontano varie aree teoriche e cliniche: la diagnosi, la definizione di psicoterapia, la relazione terapeutica in termini circolari e sistemici e le operazioni riflessive di gestione del processo. Quest’ultima parte sembra generare un corrispettivo sistemico degli sviluppi metacognitivi in atto nella terapia cognitiva, e non a caso Dimaggio e i suoi collaboratori (2007) sono citati spesso.

L’idea più originale e stimolante del libro è la riflessione su quattro saperi riflessivi individuati dagli autori: non solo i classici sapere di sapere (ovvero la conoscenza esplicita) e sapere di non sapere (la consapevolezza socratica del limite) ma anche il non sapere di sapere (ovvero il sapere intuitivo e operativo non definibile verbalmente) e perfino il non sapere di non sapere (ovvero le zone più cieche della conoscenza umana).

Il libro naturalmente condivide anche l’inevitabile limite del pensiero sistemico. Si tratta però di un limite voluto e intrinseco a questo modo di pensare e operare: la circolarità e l’anti-riduzionismo impediscono -o meglio volutamente evitano- l’accesso alla verifica empirica dei risultati e alla testabilità del modello stesso. Come scrivono gli stessi autori, la loro posizione costruzionista parte dall’essenziale non-linearità tra problemi presentati e trattamento e implica la rinuncia a protocolli standardizzati e il ricorso a interventi creativi e perturbanti.

Perché la clinica diventi una buona prassi occorre innanzi tutto “prendersi cura del processo di cura”, ossia sottoporla a una costante valutazione ricorsiva o di secondo ordine, che operi sulle proprie operazioni, tra rigore e flessibilità, accettando come un dono l’equilibrio felicemente instabile tra le proprie conoscenze, la propria ignoranza, le zone cieche e la processualità in atto, assumendosi tutti i rischi del caso. Tra questi, è proprio il rigore l’aspetto che mi pare più a rischio, dato il retroterra anti-lineare e anti-causalista di questo modo di ragionare. Confesso che gli interventi creativamente perturbanti mi turbano un po’. D’altro canto il pregio della linea sistemica è l’assenza di scolasticità e meccanicità.

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO

Psicoterapia sistemico-relazionale: intervista ad Alfredo Canevaro

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bianciardi, M., e Telfener, U. (2014). Ricorsività in psicoterapia: Riflessioni sulla pratica clinica. Torino: Bollati Boringhieri.  ACQUISTA ONLINE
  • Dimaggio, G., Semerari, A., Carcione, A., Nicolò, G., Procacci, M. (2007), Psychotherapy of Personality Disorders: Metacognition, States of Mind and Interpersonal Cycles. Routledge, London.  ACQUISTA ONLINE

Bravo nel disegno a 4 anni…più intelligente a 14!

FLASH NEWS

 

Secondo una nuova e interessante ricerca condotta su un ampio campione di bambini le abilità nel disegno a 4 anni correlerebbero con l’intelligenza a 14.

I ricercatori hanno studiato 7.752 coppie di gemelli identici e non (per un totale di 15.504 bambini) partecipanti al Twins precoce Development Study (TEDS), finanziato dal Medical Research Council (MRC) nel Regno Unito, e hanno scoperto un legame tra disegno e intelligenza che sembra essere influenzato dai geni.

I bambini, su invito dei loro genitori, hanno hanno completato il ‘Draw-a-Child’ test, che consiste nel disegnare la figura intera di un bambino. Ad ogni figura è stato assegnato un punteggio tra 0 e 12, a seconda della presenza e della corretta funzionalità delle varie parti del corpo. Per esempio, un disegno con due gambe, due braccia, un corpo e la testa, ma non i tratti del viso, potrebbe avere un punteggio di 4. Ai bambini sono stati somministrati anche dei test di intelligenza verbale e non verbale a 4 e a 14 anni.

 

I risultati indicano che i punteggi più alti al test grafico erano anche moderatamente associati a punteggi di intelligenza più elevati a 4 e a 14 anni.

“Il Draw-a-Child test è stato ideato nel 1920 per valutare l’intelligenza dei bambini, quindi il fatto che il test correlasse con intelligenza all’età di 4 anni era previsto”, spiega la ricercatrice a capo dello studio Rosalind Arden. “Quello che ci ha sorpreso è che correlata con l’intelligenza anche dieci anni dopo.” 

“La correlazione è moderata, quindi i nostri risultati sono interessanti, ma questo non significa che i genitori debbano preoccuparsi se il loro bambino disegna male”, spiega Arden “infatti ci sono innumerevoli fattori, sia genetici che ambientali, che influenzano l’intelligenza nella vita adulta.”

Un altro dato riguarda l’ereditarietà delle abilità grafiche: all’età di 4 anni, i disegni di gemelli identici erano più simili tra loro di quelli di gemelli non identici. Secondo i ricercatori questo starebbe a indicare una forte matrice genetica nella correlazione osservata.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Puzzle che passione… e che vantaggi! – Neuropsicologia 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le persone più belle sono più intelligenti – Psicologia

Da un lavoro di un gruppo di ricercatori della London School of Economics è emerso che esiste un’associazione tra l’intelligenza generale (intesa come Q.I.) e l’attrattività fisica (la bellezza).

Lo stereotipo della classica bella ragazza e del bel ragazzo, fisicamente attraenti ma poco svegli, potrebbe andare incontro ad un ridimensionamento.

Da un lavoro di un gruppo di ricercatori della London School of Economics è emerso che esiste un’associazione tra l’intelligenza generale (intesa come Q.I.) e l’attrattività fisica (la bellezza).

La conclusione che le persone belle sono più intelligente deriva da 4 assunzioni:

– gli uomini più intelligenti hanno una probabilità maggiore di raggiungere uno status sociale più alto degli uomini meno intelligenti.

– gli uomini con uno status sociale alto, hanno maggiori probabilità di avere una bella donna come compagna rispetto a quelli di status sociale più basso.

– l’intelligenza è ereditabile.

– la bellezza è ereditabile.

Se queste quattro assunzioni sono empiricamente vere, allora la conclusione che le persone più belle sono più intelligenti deve essere logicamente vera.

Evidenze empiriche riscontrate in molti studi suggeriscono che queste assunzioni sono vere, ad esempio: è noto nella psicologia che il Q.I. è un predittore del successo accademico e lavorativo, e i genetisti del comportamento stimano che l’ereditabilità dell’intelligenza generale sia tra il 40% e l’80%.

Uno degli studi più recenti ha riscontrato che questa connessione è più forte tra gli uomini piuttosto che tra le donne. Lo studio longitudinale ha preso in considerazione dei bambini (inglesi) a cui è stato somministrato un test di intelligenza a 7, 11 e 16 anni; inoltre è stato chiesto alle persone vicine a questi ragazzi di definirli “attrattivi” o “non attrattivi”.

Innanzitutto, è emerso che l’attrattività a 6 anni è predittiva dell’attrattività a 11, e quest’ultima è predittiva dell’attrattività a 16 anni: questo ci fa notare che la bellezza nell’infanzia è correlata con la bellezza durante l’adolescenza.

I risultati dello studio mostrano che i ragazzi attraenti hanno un punteggio di Q.I. più alto di 13,6 punti rispetto agli altri, mentre le ragazze attraenti mostrano un Q.I. più alto di 11,4 punti. Tuttavia non possiamo escludere che una sorta di “effetto alone”, ovvero un bias cognitivo per cui la percezione e la valutazione di una caratteristica dell’individuo è influenzata da altre sue caratteristiche, ha portato a credere che i ragazzi più intelligenti siano anche più belli di quanto non siano in realtà.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Intelligenza: si vede dalla faccia (solo degli uomini!) – Psicologia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kanazawa, S., Kovar, J. L. (2004). Why beautiful people are more intelligent. Intelligence, 32, 227-243. DOWNLOAD
  • Kanazawa, S. (2011). Intelligence and physical attractiveness. Intelligence, 39, 7-14. DOWNLOAD

Congresso EABCT 2014: Processualisti, Schematerapisti e Mindfullari

 Congresso EABCT 2014 – The Hague

Report:

Processualisti, Schematerapisti e Mindfullari

 

 

TUTTI I REPORTAGE DAI CONGRESSI EABCT

È il passaggio dalla seconda alla terza ondata della teoria cognitiva clinica: dal contenuto dei pensieri ai processi e agli stati mentali.

Un intero congresso cognitivo senza mai sentire o leggere la parola beliefs mi dice l’amico e collega Gabriele Caselli a questo congresso della EABCT (European Association of behavioural and Cognitive Therapies), la società europea di terapia cognitiva e comportamentale. E ha ragione. Per il tutto il congresso sembra che non si parli mai di contenuti cognitivi, di idee distorte, di credenze (beliefs) maladattive. Si parla semmai di processi, ovvero di stati ruminativi, di rimuginio, oppure di traumi e disregolazioni emotive. Altre volte si parla di mindfulness, di mente che osserva e che non giudica, e così via.

È il passaggio dalla seconda alla terza ondata della teoria cognitiva clinica: dal contenuto dei pensieri ai processi e agli stati mentali.

Non è un caso allora che a questo congresso siano assenti Clark, Salkovskis, Fairburn e altri esponenti della seconda ondata. Il fatto curioso è che sono anche assenti quelli che negli anni passati hanno promosso il passaggio alla terza ondata processualista. Non c’è Hayes, non c’è Wells, non c’è Teasdale, non c’è Williams. Alcuni di questi sono stati letteralmente espulsi da questo congresso alcuni anni fa, come per esempio accadde a Hayes. Altri se ne sono andati, stanchi di non essere ascoltati, come Wells.

Naturalmente può essere un’impressione illusoria. Una persona singola può seguire solo una frazione di un congresso. Una frazione che però non è piccola, soprattutto per quanto riguarda le keynote lectures. Anche lì, niente credenze e zero beliefs, mi pare. C’era anche la Judith Beck, che parlava di -indovinate!- relazione. Un’evoluzione che abbiamo già visto nella psicoanalisi: quando i concetti forti di istinto, inconscio e rimozione sono affondati, ci si è buttati nella relazione.

Non vorrei che la relazione, questo concetto così generico, finisca per essere l’ultima spiaggia di tutte le disillusioni in psicoterapia. Quando non si sa più che fare, e le terapie diventano delle routine affidate all’estro e all’arte del singolo operatore invece che alla scienza, allora si finisce per parlare di relazione. Talvolta scadendo nel banale. Ovvero, che occorre accogliere il paziente, farlo sentire a suo agio, cooperare con lui senza però accudirlo in maniera infantilizzante. La relazione spesso non è altro che buon senso, sapere e non scienza.

Torniamo ai processualisti, che propongono un’alternativa alla relazione. Come dicevo, gli iniziatori della terza ondata sono assenti.

E allora chi c’era a rappresentare la corrente processualista, così prevalente? Si tratta di un gruppo di studiosi più giovani, che a loro tempo non entrarono in conflitto con i baroni di seconda ondata (i Clark, i Salkovskis, i Fairburn) e che hanno elaborato modelli processualisti almeno apparentemente meno polemici con i modelli contenutistici. Si tratta spesso di studiosi del fenomeno del rimuginio e della ruminazione, prosecutori del lavoro di Tom Borkovec e Susan Nolen-Hoeksema e spesso allievi diretti. Per qualche misteriosa ragione sono stati percepiti come meno rivoluzionari e più continuisti rispetto alla seconda ondata. I più importanti presenti a L’Aja sono Edward Watkins (Università di Exeter) e Thomas Ehring (Università di Muenster), di cui ha parlato Caselli in un articolo già pubblicato.

Rispetto a Wells, che pure si occupa di rimuginio e ruminazione, concepiscono questi processi in maniera meno metacognitiva. Per Ehring e Watkins ruminare e rimuginare non sono scelte consapevoli dettate da metacognizioni, ovvero dal pensiero che pensare molto sia conveniente. Per questo gruppo di ricercatori il persistere del rimuginio dipende più da una sua qualità intrinseca, una sua vischiosità interna legata alla sua natura astratta e vaga, che ipnotizza la persona che ci casca. La differenza in termini terapeutici è che nel primo caso –quello della terapia metacognitiva di Wells- è possibile accorgersi che pensare troppo sia inutile e che è possibile smettere, sia pure con una dose di allenamento specifico (la cosiddetta detached mindfulness), Nel secondo caso, invece, la scomparsa del rimuginio dipende dall’adozione di uno stile di pensiero differente, più concreto e vivido, più episodico e meno semantico, volendo utilizzare una terminologia più tecnica.

Perché questo gruppo sia stato considerato più in linea con la terapia cognitiva standard e invece la banda metacognitiva sia stata accompagnata al confine non è chiarissimo. Ci sono anche componenti personali che sporcano il quadro. O anche semplicemente il caso: il primo gruppo di rivoltosi è stato scacciato dai vecchi dinasti che si sentivano ancora forti, il secondo è stato adottato –forse a malincuore- dal gruppo dirigente indebolito, ormai alla vigilia della pensione e del meritato riposo (infatti non c’erano; avranno preferito un’isola greca alle nebbie olandesi?)

È un po’ la stessa manovra diplomatica che è riuscita al gruppo di seguaci della mindfulness based cognitive therapy. Anch’essi sono riusciti a farsi accettare come continuatori del modello standard. Ci sono riusciti facendosi adottare da un gruppo di vecchi dinasti della seconda ondata che a loro tempo erano parsi più collaterali e meno vicini alla stanza del potere: Segal, Williams e Teasdale, Anche costoro, però, mi sono parsi meno presenti a questo congresso. Forse erano presenti solo i loro seguaci, di cui ignoro il nome. Non me ne sono reso conto. Mia distrazione o il flirt tra terapia cognitiva standard e mindfulness ha iniziato a declinare? Vedremo.

Un ultimo gruppo di successo tra le nuove proposte è quello della Schema Therapy. Qui la storia è più intrigante. A una prima fase più conflittuale –capitanata da Jeffrey Young, iniziatore di questa terapia- segue ora una seconda fase di maggiore confluenza di questo modello nel mainstream. Questa seconda fase però vede un avvicendamento: il bastone del comando sembra essere passato a Arnoud Arntz, che ha dato un solido basamento scientifico alle intuizioni di Young.

Arntz, come si sa, ha promosso lo studio dei modes accanto agli schemi nella schema therapy. Trasformando così quello che era un modello baroccamente contenutistico (gli schemi sono pensieri, e soprattutto sono tanti) a un modello che oscilla tra processualismo, relazionalità e contenuti (i modes sono costellazioni di credenze che descrivono atteggiamenti interpersonali). Questa manovra ha permesso la costruzione di un modello eclettico, continuista ma anche in grado di fornire un senso di svolta. Da segnarsi però un dato: la schema therapy sembra essere il modello più efficace per i disturbi di personalità. Così come la terapia metacognitiva di Wells presenta i dati più forti per i disturbi di primo asse.

E, per ora, ci fermiamo qui.

 

LEGGI ANCHE:

TUTTI I REPORTAGE DAI CONGRESSI EABCT (2011-2014)

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Le promesse e le trappole di un approccio transdiagnostico: Thomas Ehring – EABCT 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

  • EABCT Congress Magazine 2014.  DOWNLOAD

Martin Kolbe and his Bipolar Roadshow – Interview

 

Martin’s story is dramatically fascinating, full of rises and falls, like the bipolar disorder. In the eighties, Martin was diagnosed with bipolar disorder, which kept him away from the musical scene for twenty years. He is just come out with a new wonderful record titled Songs from inside, which includes songs inspired from his experience as a psychiatric patient.

I knew about the German guitarist and singer Martin Kolbe through the International Bipolar Foundation, a very active American charity which works for sensibilization and psychoeducation on bipolar disorder, and which gathers patients and relatives from all over the world. 

Martin’s story is dramatically fascinating, full of rises and falls, like the bipolar disorder. In the seventies Martin was a famous guitarist in Germany, performing in acoustic duo with Ralf Illenberger, with whom he produced six records and played more than thousand gigs in forty countries. On Youtube there are some original videos of the duo, mostly from TV programmes, where the virtuoso performances, between fingerpicking and new age atmospheres (after the split up of the duo, Illenberger specialized in this musical genre) can be appreciated.

In the eighties, Martin was diagnosed with bipolar disorder, which kept him away from the musical scene for twenty years. He is just come out with a new wonderful record titled Songs from inside, which includes songs inspired from his experience as a psychiatric patient. Martin is presenting his music through the Bipolar Roadshow, a special tour that includes gigs at psychiatric conferences or for patients associations, giving hope to many people who struggle every day with depressive disorders.

The songs of the record have a very minimalist musical arrangement, which highlights Martin’s deep voice and guitar technique. The lyrics are poetical, but also very interesting from a psychiatric perspective.

For example in the song Come water Martin talks about a guy he met in the psychiatric hospital, who suffered from Obsessive Compulsive Disorder, with washing compulsions. Prayer is the suicidal mantra, that echoes in the mind of the depressed hopeless person, who considers how to commit suicide (A needle in my heart/ Poison on my tongue/ Fire on my skin/ Water in my lung). The music of this song, very repetitive and solemn, is well integrated with the lyrics and listening to it you get the effect of falling down and down. Family describes a manic episode in which a person can feel an euphoric sensation of brotherhood with every stranger he meets on the street. Something holding you, written with a friend, represents the depressive experience, the tragic downside (You wait for sunrise and a crystal sky/ That’s just a dream, better say good-bye… You say you’ve changed but it won’t last for long/ Nobody else is gonna make you strong). With such songs, we couldn’t ignore Martin Kolbe any longer!

Your story of ups and down is dramatically fascinating and can be very interesting for many people who struggle every day with mental disorders. Can you tell us more about it: from appreciated professional musician and the seven records with the acoustic duo with Ralf Illenberger, to many years of psychiatric problems and treatment and back to music with this new project, in which in some way you elaborated your experience.

Martin Kolbe I was drawn to music quite early in my life. My parents told me later that as a young kid of five or so I loved to sing in  the large staircase of our house because it sounded really good there with all the natural reverberation. When I was  about 10 years old I discovered an old acoustic guitar which had been played by my mother occasionally in former years. At the time I discovered it the Beatles were the big thing and my brothers and sisters brought this music to our house – I was immediately fascinated by it. So the first song I tried on this guitar was “I Need You” by George Harrison. My sister’s boyfriend showed me some chords. During the following years I explored this instrument more and more, not being tought at all, loving it to discover new chords and techniques myself and experimenting quite freely, e.g. throwing a microphone into the soundhole and playing through my brother’s tape recorder or trying out different tunings. At the age of 13 I started playing drums in various local Rock and Blues bands until I was 18.

When I was 17 a friend of mine recorded my guitar playing and singing and decided to produce a record of these tapes. The local radio station played one of these takes daily (an instrumental adaption of Paul Simon’s “Mrs Robinson”). From that point on things developed rather quickly and kind of naturally. While still attending high school I released two more solo records and played concerts and festivals at the weekends or during the school holidays.

In 1977 I met Ralf Illenberger, a guitar player living in a town next to mine. We discovered an amazing musical congruence and kind of fell musically in love with each other. After this meeting playing alone seemed to be so boring and the two of us felt that there no way round starting a guitar duo. Our first joint record was successful right away and the following 10 years were filled with studio work, extensive live performances (more than 1.000 concerts in about 40 countries on this planet), TV and radio shows.
After the first year of collaboration with Ralf I encountered my first bipolar episode. It started with a depressive phase (nowadays it surely would be called “burnout syndrom”) which was followed by a truly manic time that let led into a psychosis rather quickly – I could not handle at all what was going on with me. In a clinic they brought me back to earth with heavy medication and called this whole strange experience “crisis of adolesence”. Well. After that I had 4 so-called normal years until I faced the next episode in 1983 which was not as heavy and stopped by itself without being hospitalized and medicated. In 1987 the next burst happened and this time it was so heavy that I split from Ralf, almost split from my wife and kids and ruined my musical career for many years. At this point the diagnosis bipolar disorder was given. It was a learning process of 25 years all together from the first symptoms, the diagnosis 8 years later, then first neglecting it, slowly accepting the facts to finally being aware of early symptoms and – the most important thing! – wanting to react quickly in case of instability to prevent all those negative consequences of a mania.

Being a famous musician was in some way an obstacle for the treatment of your bipolar disorder?

Well, I was not really famous, not a household name or a big star. We had our true fans and followers but our music was too special to become hits, so the whole thing was more like a niche. In that respect being a musician did not matter much in the treatment.

Can you tell us something about your treatments? Drug treatment? Admission to psychiatric hospital? Psychological treatments?

My first mania was treated with Haloperidol which was effective but a horrible experience due to extremely painful cramps. During my next stay in a mental hospital it was Benperidol which was even worse. My third and last stay in a psychiatric clinic was in 1993 and at this occasion there was no medication at all because there was no mania (my ex-wife thought I was manic and let me be hospitalized).

After the diagnosis was given I was told to take Lithium which I did for about 6 months. Then I decided to abandon it because my emotional life was reduced to a minimum and – even more important – all my creativity was gone. In the meantime I have learned that Lithium works for a lot of bipolar people and they are not hindered in their creativity. Just in my case it has this effect. All the doctors I encountered after my diagnosis was given did not recommend the steady use of mood stabilizers since in between my bipolar episodes there always were long gaps of minimum 4 years. The plan was to interfere with acute medication in case of instability. This concept only works since 2003 when I encountered my so far last and most extreme mania. After that I seem to have found my personal way to handle my mood and energy swings.

I never had psychotherapy. After my first stay in a mental hospital it was recommended by my doctor in the clinic. I went to two interviews with therapists. The first one was a typical Freudian woman in her late sixties. Her first question was “How was your mother?” – it did not feel that I was in the right place there. Next I went to a rather young psychologist who asked me whether it was my idea or the doctor’s in the clinic to start a therapy. As the latter was true I decided not to go for that any longer.

What is the reaction of public to you Bipolar Roadshow gigs? Where do you usually play?

The reactions of the audiences was even better than we had expected. It seems our concept of spreading informations about bipolar disorders this way works perfectly. In this special case I do not measure success with the strength and length of applause or the number of encores demanded. Success means here how moved and touched the listeners were and the overwhelming and very intense personal reactions after the concerts showed that we had really reached them.

Can you tell us something about your CD Songs from the Inside? Had it in some way a therapeutic or cathartic effect on you? Can you make some comments on the lyrics of the songs and the topics you sing about?

Well, I would not use the audience as a therapist or try to sort out my personal problems by writing songs about them. The lyrics on this CD were written way after the situations they are referring to. My goal was to share my experiences and emotions with others, either to show people with similar backgrounds that they are not alone and you can get over traumatic life events or to tell all the so-called normal others something about psychiatry and its various aspects.

I think the lyrics speak well for themselves as they are realistic and point out things rather directly. For example, “Keys” is about being locked up in the closed section of a mental hospital, “Cage Birds” refers to three people I met there, “Holes” tells a story about a desperate roommate and “Prayer” is nothing else than the ongoing suicidal mantra that spins round and round in your head when you are depressive.

There are few studies about the relationship between creativity and bipolar disorders, mostly in classical composers (Beethoven, Schumann, etc.). In your own experience which is the relationship between your mood and your creativity?

That’s hard to say, really. I guess with this condition you are more sensitive and vulnerable than other people. Maybe this supports creativity. In a manic episode you are over-creative and it can cause real distress when you try to realize all those brilliant ideas that keep coming all the time. However, I discovered later that most of what I had written, composed and performed in such episodes was not very good as it was super-expressive and in a sober state of mind sometimes hard for me to listen to. On the other hand, in a depression nothing at all happens, there is no creativity in any aspect – my life and all kinds of musical sounds are more like a torture than a blessing.

What do you think about the influence of life events on bipolar disorders?

Of course I do not have any proof but I think there is a link between some very personal problems and hindrances in my life and the appearance of the disorder. The main point could be not being able to accept being homosexual and not being courageous enough to live it. A childhood as a son of a vicar in the sixties in a small village in the south of Germany might not have been the best starting point to a free and happy gay life. I am convinced that if you suppress such an essential part of yourself for such a long time it is very likely you develop some kind of disorder, including the possibility of a bipolar disorder.

And about psychotherapy or psychoeducation in bipolar disorder?

I know a lot of people with bipolar disorder who benefit a lot from psychotherapy although I myself never had it. From all I heard I draw the conclusion that behavioral therapy seems to be more helpful and promising than the classical freudian analysis-based therapy. However, I know too little about it to really make a statement here. I strongly believe that psychoeducation is a very important part on the way to cope with bipolar disorders: the more you know about the (early) symptoms and what you can do in case they show up the better can you deal with them and prevent a really bad outcome.

What about your collaboration with International Bipolar Foundation?

Muffy Walker, co-founder of the IBPF, contacted the German Society for Bipolar Disorders (DGBS) a couple of years ago. Since then our collaboration gradually grows. I met Muffy last winter and was impressed by her willpower and dedication. In spring 2014 we had a joint symposium at the ISBD congress in Seoul concerning the trialogical concept of the DGBS and advocacy in general, besides an IBPF webinar on the Bipolar Roadshow will take place on August 20th on the IBPF website.

Can you tell us about the stigma situation in Germany when your bipolar disorder was diagnosed and if it has changed in some way now?

I think – or at least I hope – that stigma very slowly but surely decreases. IF we all pull together! In my case it was more self-stigmatization than being talked down by others. After my first stay in a clinic I did not want anybody to know about it and kept it as secret as possible for the public. Well, of course there were situations and remarks that really hurt. For instance one of my sisters said “He better had a car accident and died than this.” Outch. Nowadays I have changed my attitude dramatically by speaking absolutely open about it to whoever wants to know about. I try to draw the attention of the media and I am glad that quite a lot of journalists take the chance to interview me for the press, TV or radio programmes. I am sure the best way to fight stigma is to talk openly about being a “looney” so that other people can see there is nor reason to be afraid of “us” or to be ashamed for having this condition. We did not choose it! Someday it should be as natural and normal to talk about mental illness as it is now to discuss diabetes or blood pressure problems. It is still a long way to go but we keep working on it.

In which way do you think music can be useful to promote mental health?

I cannot tell yet because my project is just too young. Things look very promising, though. I recently got to know a singer from England, Emily Maguire, who is bipolar herself and has just released a record with songs about her life and struggle. It is a very professionally arranged, performed and produced CD and I wish her all the best with it and a lot of success. I hope she will be part of the Bipolar Roadshow 2015!
The attempt of promoting the issues of mentally ill people via arts and especially music still is very catchy to me as you reach the audience on an emotional level which has a greater and longer lasting effect than listening to another scientific speech.

I get the impression that the bipolar disorder diagnosis is getting very popular on the media in the last years. Many rock-stars, actors and public figures do come out on that (sometimes to justify behavioural problems that are not linked to psychiatric problems). What do you think about that?

Well, most celebrities with bipolar disorder are still outed after their death (see Kurt Cobain or Amy Winehouse) or it is a mishap like in the case of Catherine Zeta-Jones: the information about her illness was sold to the media by a patient in the clinic she stayed. People like Jean-Claude van Damme, Sinead O’Connor or Stephen Fry still are the exceptions. I am waiting for the day when a famous sportsman or even a politician stands up and comes out with a fact that is no reason to be ashamed, confessing he/she is bipolar. This would help enormously to fight stigma and develop understanding. Meanwhile we have to go on on our peaceful crusade towards a more open, more human and brighter future.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Martin Kolbe e il suo Tour Bipolare (Bipolar Roadshow) – Intervista

Martin Kolbe e il suo tour bipolare (Bipolar Roadshow) – Intervista

 

La storia di Martin è drammatica e affascinante allo stesso tempo, fatta di salite e discese, un po’ come il disturbo bipolare. A metà degli anni ottanta Martin deve arrendersi al disturbo bipolare, che lo terrà lontano dal palco per quasi vent’anni, onde poi tornare con un nuovo bellissimo disco dal titolo emblematico Songs from the Inside.

Sono venuto a conoscenza dell’esistenza del chitarrista e cantante tedesco Martin Kolbe attraverso l’International Bipolar Foundation, un’attivissima associazione americana che da anni svolge un’opera di sensibilizzazione e psicoeducazione sul disturbo affettivo bipolare, della quale fanno parte tantissime persone affette da tale disturbo e i loro familiari, provenienti da ogni parte del mondo.

La storia di Martin è drammatica e affascinante allo stesso tempo, fatta di salite e discese, un po’ come il disturbo bipolare. Martin alla fine degli anni Settanta è un chitarrista di successo, in duo acustico con il chitarrista Ralf Illenberger, con il quale in dieci anni ha registrato sei dischi e si è esibito in più di mille concerti in quaranta paesi. Esistono tanti video su Youtube delle performance del duo, tratti da trasmissioni televisive dell’epoca, dove colpisce il virtuosismo chitarristico della coppia, che spazia dal fingerpicking più classico fino alla creazione di atmosfere new age (di cui successivamente Illenberger diventerà interprete e compositore acclamato).

A metà degli anni ottanta Martin deve arrendersi al disturbo bipolare, che lo terrà lontano dal palco per quasi vent’anni, onde poi tornare con un nuovo bellissimo disco dal titolo emblematico, Songs from the Inside, contenente canzoni ispirate alla sua esperienza di paziente e al percorso di cure dalla malattia. Un disco catartico che Martin presenta al pubblico con il tour Bipolar Roadshow, che lo porta ad esibirsi anche a congressi di psichiatria e luoghi di cura, riaccendendo la speranza in tante persone.

Le canzoni del disco sono caratterizzate da arrangiamenti folk abbastanza essenziali ma molto efficaci, che valorizzano la voce profonda di Martin e la sua raffinata tecnica chitarristica. I testi sono poetici, ma anche molto interessanti dal punto di vista psichiatrico.

 Il brano Come water ad esempio parla di un ragazzo affetto da disturbo ossessivo compulsivo che Martin ha incontrato in clinica e che aveva la compulsione al lavaggio, Prayer arriva diretta come un pugno nello stomaco in quanto ritrae una sorta di mantra suicidiario, che risuona nella testa della persona depressa mentre prende in rassegna le diverse modalità per togliersi la vita: A needle in my heart/ Poison on my tongue/ Fire on my skin/ Water in my lungs… (Un agone nel mio cuore, veleno sulla mia lingua, fuoco sulla mia pelle, acqua nei miei polmoni). Il testo si sposa perfettamente a un accompagnamento musicale ripetitivo e solenne, su tonalità minori, che da la sensazione all’ascoltatore di sprofondare sempre più verso il basso. Family descrive un episodio maniacale e quella particolare sensazione di fratellanza universale che può provare la persona in fase di euforia camminando per strada e pensando che tutti gli sconosciuti che incontra siano come fratelli. Something holding you, scritta insieme a un amico, rappresenta invece l’esperienza depressiva, l’altra faccia della medaglia in tutta la sua tragicità: You wait for sunrise and a crystal sky/ That’s just a dream, better say good-bye (Aspetti il tramonto e un cielo cristallino /Quello è solo un sogno, meglio dire addio) e ancora You say you’ve changed but it won’t last for long/ Nobody else is gonna make you strong (Dice di essere cambiato ma non durerà a lungo/ Nessuno altro ti renderà più forte). Con delle canzoni di questo tipo non potevamo non volerne sapere di più.

La tua storia di alti e bassi è drammaticamente affascinante e credo molto interessante per le persone che combattono ogni giorno contro i disturbi psichiatrici. Da musicista professionista in duo con Ralf Illenberger, agli anni della malattia e delle cure e poi il ritorno alla musica con questo nuovo progetto in cui è come se avessi rielaborato questa esperienza dolorosa. Te la senti di raccontarci come sono andate le cose?

Martin Kolbe Sono stato attratto dalla musica molto precocemente. I miei genitori mi hanno raccontato che già a cinque anni  amavo cantare nel sottoscala di casa perché il suono era fantastico e c’era una specie di riverbero naturale. Quando  avevo circa dieci anni ho scoperto una vecchia chitarra acustica che mia madre suonava occasionalmente. Nello stesso periodo ho scoperto la musica fantastica dei Beatles tramite mio fratello e mia sorella e ne sono rimasto affascinato. Così la prima canzone che ho cercato di strimpellare con la chitarra è stata I need you di George Harrison, con l’aiuto del fidanzato di mia sorella che mi mostrò qualche accordo. Negli anni successivi ho esplorato sempre di più lo strumento, amando scoprire nuovi accordi, accordature e tecniche in modo autonomo, liberamente (es. mettendo un microfono dentro la cassa e attaccandolo al registratore di mio fratello). A tredici anni ho iniziato a suonare la batteria in diverse band rock-blues locali fino all’età di diciotto anni.

Quando avevo diciassette anni un mio amico mi registrò mentre suonavo e cantavo e decise di produrmi un disco. La radio locale iniziò a trasmettere uno dei brani del disco quotidianamente (un riadattamento strumentale del brano Mrs Robinson di Paul Simon). Da quel punto in avanti le cose si sono sviluppate in modo abbastanza rapido e naturale. Durante le scuole superiori ho registrato altri due dischi solisti e ho iniziato a suonare in locali e festivals durante i weekend o durante le ferie scolastiche. 

Nel 1977 ho incontrato Ralf Illenberger, un chiatarrista che viveva nella città vicino alla mia. Scoprimmo da subito una grande affinità artistica e ci fu una sorta di innamoramento musicale. Dopo questo incontro il suonare da soli era diventato così noioso e entrambi concordammo sul fatto che non ci restava che dare vita a un duo chitarristico. Il nostro primo disco insieme è stato un successo immediato ed è succeduto a dieci anni di attività live e di studio, comprese diverse esibizioni televisive e radiofoniche.
Dopo il primo anno di collaborazione con Ralf ho avuto il primo episodio bipolare. E’iniziato con una fase depressiva (oggi si chiamerebbe forse Sindrome da bornout), seguita da una vero episodio maniacale, che sfociò rapidamente in una psicosi. Non riuscivo davvero a rendermi conto cosa stesse succedendo dentro di me. Il conseguente ricovero in clinica mi ha riportato sulla
terra con l’aiuto delle medicine e i medici si riferirono all’accaduto come a una crisi adolescenziale.

Dopo quattro anni di benessere ebbi un secondo episodio depressivo nel 1983, non così grave, che si risolse spontaneamente senza la necessità di ricovero o cure farmacologiche. Nel 1987 ebbi un’altra ricaduta molto pesante, che mi portò a separarmi da Ralf, quasi a separarmi anche da mia moglie e i bambini e che ha rovinato la mia carriera musicale per molti anni. A questo punto mi venne fatta la diagnosi di disturbo bipolare. E’ stato un lento processo di presa di coscienza durato venticinque anni, dall’insorgenza dei primi sintomi, la diagnosi fatta otto anni dopo, una prima negazione del problema, fino a una progressiva accettazione che mi ha portato a stare attento all’insorgenza dei sintomi precoci e, la cosa più importante, ad attivarmi subito in caso di instabilità, per prevenire tutte le conseguenze negative della mania.

Essere un musicista famoso è stato per certi versi un ostacolo alle cure del tuo disturbo?

 Beh…in realtà non ero proprio così famoso, non ero una rockstar. Avevamo i nostri fans che ci seguivano, ma la nostra  musica era un po’ di nicchia, troppo particolare per raggiungere la vetta delle classifiche. Per questo motivo l’essere musicista non ha influenzato le cure.

Ci racconti qualcosa di più del tuo percorso di cure?

Il mio primo episodio maniacale è stato trattato con Aloperdolo, che è stato molto efficace, ma che mi ha causato terribili effetti collaterali, come crampi muscolari dolorosissimi. Successivamente, durante un ricovero mi hanno prescritto Benperidolo, che è stato anche peggio. Durante il mio terzo e ultimo ricovero, nel 1993 non mi hanno dato farmaci perché non avevo sintomi maniacali (mi ha fatto ricoverare la mia ex moglie che pensava fossi in fase maniacale). Successivamente alla diagnosi di disturbo bipolare mi è stato prescritto il Litio, che ho continuato per circa sei mesi. Ho deciso di smetterlo perché la mia vita emotiva si era molto appiattita e, cosa ancora peggiore, la mia creatività era svanita. In questi anni ho sentito tante storie di persone in terapia con Litio, a cui questa medicina non ha ostacolato la creatività, ma a me faceva questo effetto. Tutti i medici che ho incontrato dopo la diagnosi di disturbo bipolare non mi hanno consigliato un uso continuativo di stabilizzatori dell’umore in quanto tra gli episodi critici passava un lasso di tempo di almeno quattro anni. L’idea era invece di intervenire a livello farmacologico in fase acuta in caso di instabilità. Questa strategia è stata usata fino al 2003, quando ho avuto l’ultimo e più estremo episodio maniacale. Successivamente mi sembra di aver trovato un modo autonomo per gestire i miei sbalzi di umore ed energia.

Non ho mai provato la psicoterapia. Dopo il primo ricovero era stata consigliata dal medico della clinica. Allora ho avuto un colloquio con due psicoterapeuti. La prima era una sessantenne con atteggiamento tipicamente freudiano. La prima domanda è stata infatti Com’era tua madre? e non mi ha fatto sentire nel posto giusto. Il secondo era uno psicologo più giovane che mi ha chiesto se era mia o del medico l’idea di iniziare una terapia. Visto che l’idea non era mia ho deciso di non andarci più.

Dove ti esibisci di solito con il Bipolar Roadshow? Come reagisce il pubblico?

La reazione del pubblico ha superato le aspettative. Sembra proprio che la nostra modalità di diffondere informazioni sul disturbo bipolare funzioni perfettamente. In questo senso non misuro il successo con la forza e la lunghezza degli applausi o con il numero di bis richiesti. Il successo qui è vedere come gli spettatori siano toccati e commossi e le loro reazioni personali molto intense dopo i concerti ci dimostrano quanto siano stati coinvolti.

Ci racconti qualcosa del tuo disco Songs from Inside? La sua realizzazione ha avuto per te un effetto catartico o terapeutico? Come sono nati i testi?

Mah, non credo di usare il pubblico come terapeuta o di cercare di risolvere i miei problemi personali raccontandoli nelle canzoni. Le canzoni del CD sono state scritte subito dopo che si sono verificate le situazioni di cui trattano. Il mio obiettivo è stato quello di condividere le mie esperienze e le mie emozioni con gli altri, anche per far sentire alle persone con esperienze simili che non sono sole e che si possono superare eventi di vita traumatici. Un altro obiettivo è stato quello di raccontare qualcosa della psichiatria nei suoi vari aspetti ai cosiddetti normali.

Credo che i testi non abbiano bisogno di particolari commenti o spiegazioni in quanto sono piuttosto realistici e diretti. Ad esempio Keys parla del trovarsi nel reparto chiuso di un ospedale psichiatrico, Cage Birds racconta di altri pazienti che ho incontrato là, Holes è la storia di un compagno di stanza disperato e Prayer non è altro che il ripetitivo mantra suicidiario che gira e rigira nella tua testa quando sei molto depresso.

Esistono diversi studi sul rapporto tra la creatività e il disturbo bipolare, soprattutto nei grandi compositori (Beethoven, Schumann, etc.). Nella tua esperienza cosa ci puoi dire della relazione tra umore e creatività?

Non è così facile da dire in realtà. Credo che il disturbo bipolare possa portarti ad essere più sensibile e vulnerabile rispetto alle altre persone. Questo può essere un aiuto rispetto alla creatività. Durante un episodio maniacale diventi iper-creativo e può essere davvero stressante cercare di realizzare tutte le idee brillanti che nascono in continuazione. In ogni caso ho scoperto successivamente che la maggior parte di ciò che ho scritto, composto e suonato durante tali episodi non era così meritorio, in quanto tendeva ad essere super-espressivo e difficile da ascoltare in uno stato mentale equilibrato. Dall’altra parte nella fase depressiva non succede nulla, non c’è creatività in nessun aspetto, la vita stessa e tutti i tipi di suoni musicali diventano più una tortura che un’esperienza piacevole.

Cosa ne pensi dell’influenza degli eventi di vita sul disturbo bipolare?

Chiaramente non ho prove scientifiche a riguardo ma penso che ci sia una relazione tra alcuni miei problemi e impedimenti personali che si sono verificati nella mia vita e la comparsa del disturbo. Il punto potrebbe essere il non essere stato in grado di accettare di essere omosessuale e di non essere stato abbastanza coraggioso per vivere di conseguenza. Un’infanzia vissuta negli anni Sessanta in un piccolo villaggio del Sud della Germania come figlio di un pastore protestante potrebbe non essere stato il punto di partenza ideale per una vita felice e libera da gay. Sono convinto che si reprime una parte così importante di sé per un periodo così lungo sia molto probabile sviluppare un qualche tipo di disturbo, compreso il disturbo bipolare.

E dei percorsi psicoeducativi e psicoterapici per il disturbo bipolare che opinione hai?

Conosco un sacco di persone affette da disturbo bipolare che hanno beneficiato di trattamenti psicoterapici, benchè io non li abbia mai sperimentati. Da tutto quello che ho sentito sono arrivato alla conclusione che la terapia cognitivo comportamentale possa rappresentare un aiuto maggiore della terapia psicanalitica freudiana classica. In ogni caso ne so troppo poco per esprimere una reale opinione in merito. Credo fermamente che la psicoeducazione sia un aspetto molto importante nell’affrontare il disturbo bipolare: più cose sai sui sintomi precoci e su come gestirli, più riesci a prevenire gli esiti peggiori.

Ci racconti qualcosa sulla tua collaborazione con l’International Bipolar Foundation?

Muffy Walker, co-fondatrice dell’International Bipolar Foundation (IBPF) si mise in contatto un paio d’anni fa con la German Society for Bipolar Disorders (DGBS). Da lì è nata la nostra collaborazione. Ho conosciuto Muffy lo scorso inverno e sono rimasto impressionato dalla sua forza di volontà e dedizione. Nella primavera del 2014 abbiamo partecipato a un simposio sulle attività di sostegno ed autoaiuto durante il congresso a Seul dell’International Society for Bipolar Disorder (ISBD). Ho anche tenuto un webinar sul mio Bipolar Roadshow, trasmesso lo scorso agosto.

 Ci dici qualcosa sulla situazione dello stigma nei confronti dei malati psichiatrici in Germania e se l’attitudine è cambiata negli ultimi anni?

Credo, o almeno spero, che lo stigma stia lentamente ma inesorabilmente diminuendo. Se tutti remiamo dalla stessa parte! Nel mio caso ho avuto più un’auto-stigmatizzazione che una critica dall’esterno. Dopo il primo ricovero volevo che nessuno lo sapesse e ho cercato di tenere la cosa segreta al pubblico. C’erano sicuramente delle situazioni e delle osservazioni che facevano male. Per esempio una dele mie sorelle mi disse Sarebbe stato meglio che avessi fatto un incidente in auto e fossi morto, che questo. Oggi ho cambiato completamente la mia attitudine parlando in modo assolutamente aperto del problema a chiunque sia interessato. Cerco di attirare l’attenzione dei media e sono felice che molti giornalisti chiedano di intervistarmi per giornali, programmi televisivi o radiofonici. Sono sicuro che il modo migliore per combattere lo stigma sia parlare apertamente del fatto di essere matto, così che l’altra gente veda che non c’è motivo per avere paura di noi o si vergogni per la propria condizione. Non l’abbiamo scelto! Un giorno forse sarà naturale e normale parlare della malattia mentale come lo è adesso discutere di prolemi di diabete o di pressione. C’è ancora molta strada da fare ma ci stiamo lavorando.

In che modi credi cha la musica possa promuovere la salute mentale?

Non te lo posso ancora dire perchè il mio progetto è ancora troppo giovane. Le cose sembrano promettere bene in ogni caso. Recentemente ho conosciuto una cantante inglese, Emily Maguire, che soffre di disturbo bipolare che ha appena prodotto un disco con canzoni che parlano della sua condizione e delle sue battaglie. E’ un CD molto ben arrangiato, interpretato e prodotto e spero abbia tanto successo. Spero che possa partecipare al Bipolar Roadshow 2015! Il tentativo di promuovere le questioni legate alla malattia mentale attraverso le arti e specialmente la musica è per me molto stuzzicante, con il fatto che puoi colpire il pubblico su un livello emotivo che ha un effetto più forte e duraturo rispetto all’ascolto di un discorso scientifico.

Ho l’impressione che la diagnosi di disturbo bipolare stia diventando sempre più popolare anche sui media negli ultimi anni. Molte rockstar, attori e personaggi pubblici hanno iniziato a fare coming out  su tale disturbo (a volte anche per giustificare comportamenti problematici che non hanno niente a che vedere con la psichiatria). Cosa ne pensi?

Beh per molte celebrità il distubo bipolare viene ancora rivelato dopo la morte (es. Curt Kobain o Amy Winehouse) o si tratta di una sventura come per Catherine Zeta-Jones, per la quale l’informazione riguardante la sua malattia fu venduta ai media da un paziente della clinica dove era ricoverata. Gente come Sinead O’Connor, Jean-Claude van Damme e Stephen Fry sono ancora delle eccezioni.

Sto attendendo il giorno in cui un famoso sportivo o un politico faccia coming out di disturbo bipolare, facendo capire che non c’è niente di cui vergognarsi. Questo aiuterebbe enormemente la lotta allo stigma e aiuterebbe a capire. Nel frattempo noi dobbiamo andare avanti con la nostra pacifica crociata verso un futuro più luminoso, aperto e umano.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 Martin Kolbe and his Bipolar Roadshow – Interview

Self Mirroring Therapy: nuove tecnologie per riconoscere e gestire le emozioni – Congresso APA 2014

Congresso APA 2014 – Washington DC

Using new technologies to recognize and manage emotions 

Piergiuseppe Vinai

Maurizio Speciale

Studi Cognitivi, Cognitive Psychotherapy School

GNOSIS – No profit research group

 

 

LEGGI ANCHE:

APA 2014 – WASHINGTON DC

GUARDA ANCHE: APA 2014 GALLERY

Il bilinguismo nell’infanzia migliora lo sviluppo cognitivo

FLASH NEWS

 

 

Un gruppo di ricercatori di Singapore, in un recente studio pubblicato il 30 Luglio su Child Development sostiene che l’esposizione a un ambiente bilingue nell’infanzia produca dei benefici al livello cognitivo.

Allo studio hanno partecipato bambini di sei mesi di età, bilingue e monolingue, sottoposti ad un compito di abituazione visiva (una tecnica utilizzata spesso nella psicologia dello sviluppo che sfrutta la spontanea tendenza del bambino a “preferire” la novità, ossia a fissare più a lungo uno stimolo nuovo rispetto ad uno familiare).

Ai bambini venivano presentate delle immagini colorate di un orso e di un lupo. Mentre ad una metà del gruppo di partecipanti nella fase dell’abituazione veniva presentata l’immagine dell’ orso (stimolo familiare) e nella fase test l’immagine del lupo (stimolo nuovo), la sequenza opposta veniva presentata all’altra metà.

Dai risultati è emerso che i bambini bilingue si annoiavano più velocemente dello stimolo familiare rispetto ai bambini monolingue.

Gli studi precedenti hanno evidenziato come la velocità con cui un bambino si annoia di fronte ad un’immagine familiare e la conseguente preferenza per la novità è un predittore di esiti migliori in età prescolare nelle aree come l’intelligenza non verbale, il linguaggio espressivo e ricettivo e gli esiti nei test che misurano l’IQ.

Inoltre, dai risultati è emerso che i bambini bilingue preferivano di più lo stimolo nuovo dimostrando una “preferenza per la novità”. Tale preferenza è un predittore di esiti migliori nei test di vocabolario in età scolare.

Il professore Lether Singh, autore del presente articolo sostiene che: “Una delle maggiori sfide nel campo della psicologia dello sviluppo è la raccolta dei dati. L’abituazione visiva funziona meravigliosamente in quanto dura pochi minuti ma riprende il comportamento naturale del bambino e la sua tendenza a preferire la novità. Anche se è un compito semplice, l’abituazione visiva è uno dei pochi compititi che vengono utilizzati nella prima infanzia come predittore dello sviluppo cognitivo”.

Un bambino bilingue è esposto ad una maggiore quantità d’informazione linguistica nuova rispetto ai suoi coetanei monolingue. A sei mesi impara già a distinguere tra due codici linguistici diversi e, dato che imparare due lingue in contemporanea richiede più efficienza nella elaborazione dell’informazione, i bambini sviluppano delle competenze specifiche per affrontare tale compito.

Da adulti, imparare una nuova lingua è un processo lungo, scrupoloso e laborioso. Tante volte proiettiamo che le stesse difficoltà possono riscontrare anche i nostri bambini immaginando uno stato di grande confusione nelle loro teste nel tentativo d’imparare più lingue in contemporanea. Tuttavia, da un grande numero di studi è emerso che i bambini sono bene equipaggiati per affrontare le sfide dell’acquisizione bilingue e di fatto possono beneficiare di tale opportunità.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il bilinguismo ritarda l’età di insorgenza della demenza

 

BIBLIOGRAFIA:

 

EVENTO: BAMBINI E RAGAZZI OGGI: Un corpo per crescere, come si diventa persona

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

 

20 settembre 2014:
BAMBINI E RAGAZZI OGGI
Un corpo per crescere
come si diventa persona

BAMBINI E RAGAZZI OGGI
La psicoanalisi nella loro e nella nostra vita

Sabato 20 settembre 2014
Centro Milanese di Psicoanalisi, h 10.00 – 12.30

coordinato da
Daniela Alessi – Libera Comandini
Un corpo per crescere
Come si diventa persona

Ingresso libero fino ad esaurimento posti

 

 

BAMBINI E RAGAZZI OGGI: Un corpo per crescere, come si diventa personaConsigliato dalla Redazione

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicoogiche - Flash News
Centro Psicoanalitico Cesare Musatti, Milano / 20 Settembre 2014 – Evento Aperto (…)

Tratto da:

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Ultimi articoli pubblicati
Intelligenza artificiale e pensiero critico: come sta cambiando il nostro modo di pensare – Psicologia Digitale
L’intelligenza artificiale è sempre più presente nella vita quotidiana, sollevando interrogativi sul suo impatto sul pensiero critico
Nuove linee guida APA 2025 per il trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD)
Linee guida APA 2025 per il trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico. Cosa cambia nella pratica clinica secondo le nuove raccomandazioni?
ADHD: un disallineamento tra individuo e ambiente?
L’ADHD si manifesta in modi diversi a seconda del contesto in cui una persona vive, combinando aspetti genetici e influenze ambientali
Lo sconosciuto conosciuto: la sindrome di Fregoli
La Sindrome di Fregoli è un raro disturbo psichiatrico che porta a riconoscere nei volti estranei persone familiari sotto mentite spoglie
Il sonnambulismo: quel misterioso caso del “sonno a metà”
Il sonnambulismo è un disturbo del sonno in cui il corpo si muove mentre la coscienza resta sopita. Cosa accade nel cervello?
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Giugno 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
Consulenza e benessere sessuale – Uno spazio sicuro per esplorare sé stessi
Ascoltarsi è il primo passo. Esprimersi con libertà è il più importante - Scopri il nostro servizio di consulenza psico-sessuologica
La Consulta delle Scuole CBT: un Convegno per il Futuro della Psicoterapia in Italia
Il convegno della Consulta delle Scuole Italiane di CBT ha offerto un'occasione per esaminare la formazione attuale e futura, sottolineando l'importanza di adottare pratiche basate sull'evidenza.
Quando un genitore tradisce: comprendere e superare il dolore
L’infedeltà di un genitore non coinvolge solo la coppia, ma può generare nei figli sentimenti di tradimento, delusione e perdita di fiducia
Lab Apprendimento Clinica Eta Evolutiva Milano
Lab-Apprendimento: strategie per un apprendimento autonomo
Un mini-corso estivo promosso dalla Clinica età Evolutiva di Milano per imparare un metodo di studio efficace. Dal 1 al 22 luglio a Milano.
Il potere della chain analysis: comprendere i nostri comportamenti problematici può generare cambiamenti e migliorarci la vita
La chain analysis aiuta a comprendere a fondo i comportamenti problematici, ricostruendo i processi che li precedono e li mantengono nel tempo
Tollerare la noia: un nuovo strumento self-report per una nuova prospettiva sulla “divina indifferenza”
La scala Boredom Intolerance Scale (BIS) misura l’intolleranza alla noia, offrendo una nuova prospettiva clinica
Congresso: L’orizzonte della Psicoterapia – Porta il tuo contributo e proponi il tuo poster
4° Congresso italiano di psicoterapie cognitive-comportamentali di terza generazione. Condividi i risultati del tuo lavoro proponendo un poster da presentare durante la sessione dedicata
I videogiochi d’azione possono migliorare le abilità di lettura
I videogiochi d’azione possono potenziare la consapevolezza fonologica nei bambini in età prescolare, riducendo il rischio di dislessia
I farmaci integrati alla psicoterapia: quali paure e quali resistenze? – Inside Therapy
La rubrica Inside Therapy esplora quando e perché in psicoterapia può servire anche un supporto farmacologico
ChatGPT e psicoterapia: può l’Intelligenza Artificiale sostituire il terapeuta umano?
ChatGPT sta entrando nel mondo della psicoterapia, ma resta aperto il dibattito su quanto possa davvero sostituire l’intervento umano
”Vado a tagliare i capelli”. Dispercezioni sensoriali nell’autismo e trattamenti: lo studio di un caso
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
La coppia narcisistica borderline. Nuovi approcci alla terapia di coppia (2023) di Joan Lachkar – Recensione
La coppia narcisistica borderline (2023) di Joan Lachkar esplora le complesse dinamiche emotive e relazionali tra personalità narcisistiche e borderline
Le conseguenze dei disturbi alimentari in epoca perinatale sullo sviluppo psicofisico del nascituro
I disturbi alimentari in gravidanza rappresentano un fattore di rischio per il benessere psicofisico della madre e lo sviluppo del bambino
Sandra Sassaroli ospite a Tressessanta, il podcast di Virginia Gambardella
Sandra Sassaroli è stata ospite del podcast "Tressessanta" di Virginia Gambardella, un dialogo intenso e ricco di spunti per approcciare al tema della salute mentale
Carica altro

Gennaro Gattuso: il calcio e il Problema Secondario – Psicoterapia

 

Proprio grazie a quella esplorazione, infatti, possiamo accedere ai suoi temi dolorosi, più centrali, con cui probabilmente starà lottando da anni e che cerca in tutti i modi, modi che spesso mantengono lo stato problema, di tenere ben lontano. Si deve ad Ellis la scoperta del problema secondario che concettualizza la patologia come il giudizio, negativo, che diamo ai nostri stati mentali.

Più volte su State of Mind è stato scritto sul problema secondario e sull’importanza che riveste all’interno della terapia cognitiva. Come il soggetto, da una prospettiva metacognitiva, giudica e attribuisce un significato alla propria esperienza interiore è un punto fondamentale per spiegare la sua sofferenza patologica.

Proprio grazie a quella esplorazione, infatti, possiamo accedere ai suoi temi dolorosi, più centrali, con cui probabilmente starà lottando da anni e che cerca in tutti i modi, modi che spesso mantengono lo stato problema, di tenere ben lontano. Si deve ad Ellis la scoperta del problema secondario che concettualizza la patologia come il giudizio, negativo, che diamo ai nostri stati mentali.

Proviamo a fare un esempio per cercare di descriverlo meglio. Pensiamo ad uno studente che vive una forte esperienza d’ansia in prossimità di un esame e che giudica questa sua reazione come segno di fragilità “Ecco, sono sempre il solito!! Solo un debole può farsi prendere dalla paura per un semplice esame. E’ la prova che non riuscirò a fare proprio nulla nella vita!”. Criticandosi per averla provata, il soggetto non la utilizza come informazione importante per esplorare quale tema sente minacciato da quell’esame ma concentra tutte le sue attenzioni verso quello stato mentale ingaggiando una lotta con l’obiettivo di tenerlo ben lontano.

L’importanza del problema secondario si percepisce ancora meglio quando ascoltiamo alcune motivazioni che spingono il soggetto ad andare in terapia. Nel momento in cui chiediamo il perché di una prima visita con lo psicoterapeuta non è raro ascoltare frasi come “il mio problema è l’ansia” o “questa vergogna non mi fa più vivere”, ritorna quindi prepotentemente la lettura metacognitiva del proprio stato mentale che diventa da una parte la molla per chiedere aiuto e dall’altra la motivazione a mettere in atto determinate strategie che nella mente del paziente hanno lo scopo di allontanare l’esperienza emotiva, ma che nei fatti spesso la rinforzano.

Diversi punti in comune col problema secondario li possiamo osservare, ad esempio, con modelli inseriti all’interno della terza ondata della Terapia cognitivo comportamentale come l’Act (Hayes, Strosahl, Wilson, 1999). Questo modello, infatti, concettualizza la sofferenza cognitiva come conseguenza non del dolore esperito in una determinata situazione ma della lotta incessante che il soggetto attua con quello specifico pezzo di sé; e mentre lotta per allontanarlo perde di vista tutte quelle attività che lo potrebbero aiutare a crearsi una vita ricca e significativa.

Questo articolo però non è stato pensato per descrivere un costrutto, quello del problema secondario appunto, più e più volte descritto molto dettagliatamente. L’obiettivo è invece descrivere un episodio visto in televisione diversi anni fa e a cui ripenso spesso quando ascolto storie di pazienti ingaggiati nella loro personale battaglia contro quel pezzo di sé che considerano la fonte della loro sofferenza.

E’ luglio del 2006 e come tutti ricorderete in Germania l’Italia stava affrontando quei Mondiali che poi avrebbe vinto. Durante il telegiornale a pranzo, la sera si sarebbe disputata la finale con la Francia, un servizio mostra una conferenza stampa molto improvvisata in mezzo al campo di allenamento con un capannello di giornalisti che circonda Gattuso, ormai ex giocatore di calcio.

Prima ancora delle domande le telecamere puntano sulla sua espressione, una volta di più la mimica facciale non mente: ha profonde occhiaie, molto contratto, visibilmente agitato. Iniziano le domande e la seconda è la più curiosa. Il giornalista gli chiede al principio come sta e Gattuso risponde che non ha dormito e che ogni 30 minuti si è alzato per andare in bagno, vi risparmio il linguaggio colorito del giocatore. A quel punto il giornalista gli chiede, e qui ipotizzo una sua formazione cognitivista, cosa pensa di quella sua agitazione, se in un certo senso lo preoccupa. Tocca un piano meta o, riprendendo la terminologia precedente, esplora in qualche modo il problema secondario di Gattuso.

Gattuso dà una risposta che descrive meglio di tutto l’essenza dello sport; vado a memoria sempre al netto del suo linguaggio colorito : “è da quando gioco a calcio che aspetto di provare questa agitazione perché significa che sono arrivato ad un metro dal mio sogno”.

In questa frase ci sono tanti pezzi che meriterebbero una riflessione da un punto di vista umano e clinico perché all’interno vi è la consapevolezza del proprio obiettivo più alto e del significato attribuito a quell’ansia che diventa fedele testimone di questo traguardo. Potrebbe litigarci o cercare di scacciarla ed invece si dà il permesso di provarla attribuendogli ,anzi, un preciso significato in base alla sua storia, rendendola così la sua compagna di viaggio.

L’idea di questo articolo nasce dal ripensare a quella testimonianza che a distanza di anni continua a farmi compagnia per la capacità di sottolineare l’importanza di come noi giudichiamo le nostre esperienze interne, delle battaglie che spesso ingaggiamo con esse e al contrario dell’aprirsi ad esse diventando nostre compagne di viaggio nella nostra storia e nei nostri obiettivi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Psicoterapia: L’ABC, Albert Ellis & il problema secondario 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Vincere le abbuffate: come superare il disturbo da binge eating – Recensione

Vincere le abbuffate, traduzione dell’opera di C. G. Fairburn, è un testo destinato alle persone con problemi di binge eating che si divide al suo interno in due parti. La prima parte riassume al lettore le conoscenze più attuali sul disturbo, la seconda comprende un programma di auto aiuto basato sulla CBT-E, trattamento ad oggi più efficace a disposizione.

La prima parte del testo è stata scritta per fornire a coloro che ritengono di avere problemi nel controllo della propria alimentazione un resoconto di facile lettura dei problemi di binge eating e del modo per affrontarli. Si compone di una descrizione di che cosa sono le abbuffate, quali sono le loro caratteristiche, come ci si abbuffa, come hanno inizio e come terminano.

A seguire viene offerta una panoramica su quelli che sono i problemi alimentari e i disturbi alimentari e la loro classificazion: bulimia nervosa, anoressia nervosa, disturbo da binge eating, disturbi alimentari atipici, disturbi alimentari misti, sindrome da alimentazione notturna, prospettiva transdiagnostica. Si affrontano poi temi quali chi si abbuffa, gli aspetti psicologici sociali, i problemi fisici associati al binge eating, che cosa causa le abbuffate ed infine il trattamento.

 Il testo sottolinea che, nella ricerca di un aiuto professionale per un problema di binge eating, ad oggi il trattamento di elezione e quindi più efficace è la CBT-E. Nella maggior parte dei casi le persone ne traggono beneficio e i cambiamenti sono duraturi. I soggetti che non sono sottopeso, non hanno seri problemi di salute, non sono in gravidanza, non hanno compromissioni dovute al binge eating legate alla salute fisica, non sono significativamente depressi o demoralizzati e non hanno problemi di alcol, droghe o gesti autolesivi possono utilizzare per il trattamento degli episodi ricorrenti di binge eating, in una prima fase, l’Autoaiuto (puro o guidato, seguire il programma con il supporto e la guida di un terapeuta) e in un secondo momento la terapia individuale. Se si ritiene invece ricorrere all’aiuto di un professionista è importante muoversi in questa direzione.

Il programma di autoaiuto può avere successo se la persona che ha deciso di intraprenderlo desidera cambiare. In genere, le persone impiegano da 4 a 6 mesi per completare il programma. Non è bene aspettarsi che il successo arrivi in brevissimo tempo, di fare progressi in modo liscio e senza intoppi, che l’impulso ad abbuffarsi scompaia. È importante inoltre fare sessioni di revisione settimanali in cui valutare i progressi compiuti e considerare sempre la possibilità di chiedere aiuto.

Il programma è così composto:

Step 1: iniziare bene

  • Automonitoraggio (diario alimentare giornaliero)
  • Pesarsi settimanalmente (pesarsi sempre in uno stesso giorno, al mattino)

Al termine di ogni step si consiglia di compilare la scheda riepilogativa composta da 6 colonne nelle quali indicare da quante settimane si sta seguendo il programma, quante abbuffate ci sono state nei 7 giorni, l’utilizzo di un controllo sul peso con vomito o lassativi, quante giornate ci sono state in cui si è fatto del proprio meglio per seguire il programma, il peso e infine gli elementi degno di nota, quando si è passati da uno step a quello successivo.

Step 2: mangiare in modo regolare

  • Introdurre un regime alimentare regolare
  • Interrompere il vomito autoindotto e l’abuso di lassativi e diuretici.

Step 3: alternative alle abbuffate

  • Sostituire le abbuffate con attività alternative 
  • Identificare i cambiamenti nel peso

Step 4: risolvere i problemi

  • Fare pratica di problem solving

Step 5: fare il punto della situazione

  • Passare in rassegna i progressi fatti
  • Decidere cos’altro c’è da fare
  • Modulo della dieta
  • Affrontare le diete rigide
  • Modulo dell’immagine corporea
  • Affrontare le preoccupazioni per la forma del corpo, il controllo, l’evitamento e il sentirsi grassi.
  • Finire bene
  • Mantenere i progressi fatti
  • Affrontare le ricadute

Come terapeuti il programma va supportato con sedute regolari. Un aspetto importante del programma di autoaiuto guidato è mantenere la persona motivata, che segua il programma con un ritmo adeguato e che si mantenga focalizzata sull’obiettivo, ovvero liberarsi delle abbuffate. L’obiettivo del programma è che il paziente diventi terapeuta di se stesso.
Il libro viene ulteriormente utilizzato in associazione alla farmacoterapia, alla terapia cognitivo-comportamentale, e ad altre terapie psicologiche disponibili. È spesso utilizzato dai pazienti ricoverati.

Alla realizzazione di questo volume hanno partecipato anche pazienti e volontari che hanno offerto contributi e testato il programma.

Questo volume, di facile consultazione, rappresenta quindi la forma più efficace di autoaiuto del binge eating sia per sé sia in combinazione con un supporto esterno. È la versione rivisitata del programma originale basato sulla CBT-E. Un testo sia per gli operatori che per tutti coloro fossero interessati al problema. Lascio la parola ai clinici e a coloro che ne fossero interessati per offrire il proprio punto di vista confrontandosi sulle possibilità che lo strumento offre.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 TakeControl: arriva la prima app per combattere il disturbo binge eating

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Fairburn, C. G. (2014). Vincere le abbuffate. Come superare il disturbo da binge eating. Milano, Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

Il Modello LIBET in Psicoterapia: presentazione al Congresso APA 2014 – Washington DC

 Congresso APA 2014 – Washington DC

Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (LIBET)

 

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli, Andrea Bassanini, Carolina Redaelli, Giovanni Maria Ruggiero

Studi Cognitivi, Post-graduate cognitive psychotherapy specialization school. Milano – Italia 

 

 

LEGGI ANCHE:

APA 2014 – Washington DCLIBET

GUARDA ANCHE:

APA 2014 GALLERY

cancel