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Processi psicopatologici ed interventi di distanza critica nelle prospettive ACT, REBT, MCT e MTI – Congresso SITCC 2014

Il simposio che ha visto confrontarsi i modelli di terza ondata ACT, REBT, MCT e TMI è stato probabilmente uno dei più attesi del congresso SITCC 2014

Di Valentina Davi

Pubblicato il 14 Ott. 2014

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Il simposio che ha visto confrontarsi i modelli ACT (Hayes, 2004), REBT (Albert Ellis, 1962; 2005), MCT (Adrian Wells, 2010) e TMI (Dimaggio, Popolo e Salvatore, 2012) è stato probabilmente uno dei più attesi del congresso SITCC 2014.

Già due anni fa Gabriele Caselli e Giancarlo Dimaggio si erano “sfidati” in un appassionante dibattito sulla Metacognizione e chi fu presente allora attendeva da tempo con grande curiosità il secondo round.

L’attesa non è stata vana, la SITCC 2014 ci ha regalato un altro vivace incontro a cui hanno dato il loro contributo anche Luca Calzolari e Giovanni Ruggiero, alimentando un dibattito attorno ai 4 modelli che già in passato sulle pagine di State of Mind ha infiammato più di una discussione. Vi riportiamo qui di seguito il simposio per intero, una interessante ed utile lezione che confronta tra di loro alcuni dei modelli più significativi all’interno del panorama cognitivista.

Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

Luca Calzolari apre il simposio con un intervento sull’ACT che ha l’obiettivo di individuare, attraverso una lettura critica, quelli che sono i punti di incontro tra i vari modelli; nello specifico si propone di discutere il processo di fusione e quello di evitamento esperenziale nelle sue somiglianze e differenze con gli altri modelli.

L’ACT viene collocata all’interno della Terza Ondata del Cognitivismo ed è caratterizzata da:

– Focus sui processi con interventi terapeutici più esperienziali

– Decentramento cognitivo, cioè promozione di un punto di osservazione rispetto ai propri stati mentali (quindi promuovere un aspetto più metacognitivo)

– Flessibilità, cioè aumento del repertorio comportamentale

– Regolazione degli stati mentali

Per comprendere l’ACT è opportuno partire dalla concettualizzazione che questo modello fa della psicopatologia, distinguendo tra dolore pulito (che non può non essere esperito in relazione ad una data esperienza) e dolore sporco (quello prodotto dalla mente che tenta di combattere ed eliminare una normale reazione emotiva di sofferenza); quest’ultimo è ciò che si intende per psicopatologia.

Diventano pertanto centrali nell’ACT le strategie che il soggetto mette in atto per eliminare, controllare o combattere la propria sofferenza, perdendo di vista in questo modo i propri obiettivi fondamentali di vita. L’ACT riprende aspetti della seconda ondata del cognitivismo, ma li concettualizza e ci lavora sopra con tematiche differenti.

Per capire in che modo, è necessario comprendere il contesto in cui nasce: l’ACT si rifa alla Relational Frame Theory, prospettiva secondo cui il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di cornici, frame, relazionali e non per esperienza diretta). Proprio in base a tale paradigma teorico l’obiettivo che l’ACT si pone è indebolire la tendenza alla concettualizzazione verbale costruendo col soggetto accessi diretti all’esperienza. Ecco quindi che acquisiscono importanza e senso le tecniche focalizzate sull’accettazione e la defusione, mentre la messa in discussione delle credenze (Disputing) non porterebbe altro se non ad un mantenimento della stessa cornice relazionale, dello stesso circuito psicopatologico.

Il modello Hexaflex (Hayes et Al., 2006) concettualizza la psicopatologia secondo l’ACT. 

 ACT-Hexaflex Come si può notare dallo schema riportato, i processi sono tra loro interconnessi e si dividono in due macroaree: un’area riguarda modifiche più comportamentali, l’altra riguarda i processi di accettazione e defusione (es. contatto con il momento presente) che, qualora fossero deficitari, vengono approcciati con tecniche di tipo esperienziale (es. Mindfulness).

 

Sebbene venga concettualizzata in maniera differente – afferma Calzolari – l’ACT ha dei punti di contatto con la TMI proprio nei concetti di valori (promozione delle parti sane di sé) e defusione, che nel modello TMI vengono concettualizzati rispettivamente come agency e differenziazione e che ne rappresentano due pilastri.

Più nello specifico, da una parte nell’ACT è centrale la promozione della flessibilità psicologica, cioè della capacità di stare in contatto con il momento presente, di generare varie risposte ad un problema, desistendo se inefficace, ma anche di persistere in comportamenti orientati dai propri valori (Hayes et Al., 2006); lo scopo è disincastrare il soggetto dai comportamenti che lo bloccano dal mettere in atto comportamenti funzionali ad arricchire la sua vita (i suoi valori), ponendo l’attenzione sull’agire.

Dall’altra parte gioca un ruolo importante la defusione, esatto opposto di una strategia di controllo, che anziché cercare di modificare o eliminare i pensieri spinge ad accettarli per quello che sono, cioè “Frasi che ti passano per la mente” (Harris, 2010); il focus è sulla presa di distanza dai propri contenuti mentali, in altre parole stimolare il decentramento cognitivo attraverso una domanda che richiama molto il disputing di Ellis: “Se tu permetti a questo tuo pensiero di guidare il tuo comportamento, da un punto di vista meramente pragmatico questo ti aiuterà a creare una vita ricca e significativa?”

Calzolari conclude il suo intervento ponendo le seguenti domande:

1. In riferimento alla REBT, come si può integrare il disputing con l’ACT? La REBT può essere vista come un precursore dell’ACT?

2. In riferimento alla MCT, gli interventi di processo di Wells in cosa differiscono dalla defusione?

3. In riferimento alla TMI, quali sono le differenze tra defusione e differenziazione?

Rational Emotive Behavioral Therapy (REBT)

Il secondo intervento vede protagonista Giovanni Maria Ruggiero. All’interno della Seconda Ondata del Cognitivismo la REBT è sempre stata accomunata alla CBT di Beck, ma in realtà i due modelli presentano grandi differenze. Di fronte ad un pensiero negativo il terapeuta CBT lavora sulla catena di inferenze che giustificano quel pensiero al fine di arrivare a concludere che la catena è logicamente debole e il pensiero non corrisponde alla realtà.

Nella REBT invece la patologia non dipende da catene di inferenze, così come la terapia non dipende dalla loro confutazione a colpi di contro-inferenze alla Beck, ma da singoli atti mentali valutativi di cui siamo sempre potenzialmente padroni. Consideriamo lo strumento principe della terapia cognitiva, l’ABC.

Nel modello REBT l’evento attivante (A) è già e sempre il pensiero anche nell’ABC primario ed è rappresentato dalla catena di pensieri (inferenze) che pensiamo nella situazione e che non hanno una funzione patologica. Tale catena culmina con valutazioni finali patologizzanti (evaluation) che costituiscono i B patologici: la terribilizzazione (“…e tutto questo è terribile!”), la doverizzazione (“…e questo non deve / deve essere così”), l’intolleranza alla frustrazione (“…e questo non lo tollero”) e l’autodenigrazione (“…e sono una merda”); essendo pensieri di pensieri le evaluation possono essere considerate metacognizione.

Se quindi la patologia dipende dalla valutazione patologica delle inferenze, e in quanto atto mentale valutativo non ha valore assoluto ma è una discutibile inferenza, appare chiaro come ad ogni inferenza che il paziente produce allo scopo di sostenere e giustificare le proprie inferenze la concezione più pura del Disputing preveda un semplice e continuo “E chi l’ha detto che è così?”, seguita da un significativo silenzio che nel migliore dei casi – sottolinea Ruggiero – esprime esperienzialmente tutta la futilità delle catene di inferenze e la possibilità reale di semplicemente mollare quelle valutazioni in quel momento (Doyle, Digiuseppe, Dryden, Beck 2014. p. 272).

In base alle considerazioni effettuate, i principi pratici che guidano la pratica clinica REBT sono quindi maggiormente spiegabili in termini metacognitivi più che cognitivi, ponendo la REBT tra i precursori della Terza Ondata Cognitivista.

Metacognitive Therapy (MCT)

Gabriele Caselli esordisce riprendendo la concettualizzazione della distanza critica nei modelli ACT e TMI. L’ACT promuove l’idea di accettazione: “Di fronte al pensiero, permettigli di essere lì. Apriti e dagli spazio, dagli il permesso di essere dov’è, smetti di combatterci, dagli un po’ di spazio e respiraci dentro.”. Lasciare che il pensiero scorra e anzi, assumere un atteggiamento di fronte a questo pensiero in qualche misura accogliente. Ma non vi è forse il rischio – si interroga Caselli – che in questo modo si mantenga l’attenzione sul pensiero negativo? 

La TMI invece promuove una buona mastery mentalistica e sembra cercare di raggiungere l’obiettivo di distanza critica attraverso uno sforzo di corretta comprensione e previsione. L’idea sembra essere quella di diventare un corretto conoscitore, revisore, di quello che è il proprio stato mentale e delle sue origini, e conseguentemente della mente altrui, inserendo sia elementi di autoriflessività e di comprensione della mente sia di mastery.

La MCT taglia l’aspetto contenutistico: “Ho un pensiero (e i pensieri non sono fatti -> conoscenza metacognitiva), lo lascio lì e passo ad altro”.

 

Se i tre modelli condividono il tentativo di defusione, l’MCT ha lo scopo di arrivarci nel modo più diretto possibile e “crudo” nel ridurre qualsiasi forma di concettualizzazione. E questo è forse l’aspetto che la distanzia più di tutti dalla TMI.

Ma attenzione, ciò non significa che la MCT spinga a cercare di sopprimere oppure eliminare il pensiero o la sensazione negativa, bensì spinge affinché venga lasciato da parte: sento una serie di stimoli nell’ambiente, porto la mia attenzione sul mondo esterno e non su di me, bensì su ciò che è conforme ai miei obiettivi, su ciò che sto cercando, e non su ciò che mi minaccia o da cui sto fuggendo o che miro a controllare.

Come raggiungere questo obiettivo? La MCT è caratterizzata da una sequenzialità circolare continua e molto insistente di intervento verbale dialettico e intervento esperienziale; all’interno di una seduta vengono fatti diversi interventi di Detachment Mindfulness della lunghezza non superiore ai 3-4 minuti accompagnati da momenti di debriefing. Gli interventi verbali servono per rafforzare le conoscenze, gli interventi esperienziali per trasformare la teoria in qualche cosa che sia vicino alla vita del paziente. 

Gabrielle Caselli chiude l’intervento con un esempio che secondo lui indica perfettamente cosa sia il tipo di approccio e di modalità metacognitiva alla Wells. “Per recuperare questo esempio – sottolinea Caselli sorridendo – mi sono rifatto ad uno dei più grandi psicoterapeuti che abbiamo oggi in Italia… che è Giancarlo Dimaggio”. [Risate divertite tra il pubblico in attesa della prima stoccata tra i due storici duellanti]. In un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera – continua Caselli – Dimaggio racconta di essere stato ad un congresso in cui gli hanno presentato un caso on line:

[blockquote style=”1″]I miei neuroni-specchio impazziscono. Immedesimarmi in inglese con una donna norvegese è tremendamente difficile, chiedo aiuto agli amici, ai padri fondatori e, in ultimo, a Finn. Nessuno di loro è lì a coprirmi le spalle. Mi batte il cuore. La donna non se ne accorge, credo. [/blockquote]

Fino a qui, commenta Caselli, siamo in modalità ansiosa: parte una preoccupazione, l’attenzione è focalizzata sull’ansia, sull’agitazione. Il soggetto cerca rassicurazione nelle persone vicino. Ad un certo punto, però, semplicemente smette, non fa alcuna forma di autoriflessione, ma:

[blockquote style=”1″]Mi riprendo, divento lei, la seduta va alla grande, chiusura commovente.[/blockquote]

Giancarlo Dimaggio, Socio fondatore del centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, ha servito su un piatto d’argento a Gabriele Caselli un perfetto esempio di MCT: ho una preoccupazione, la lascio lì, guardo altro (Wells, 2008). Touché?

Terapia Metacogntiva Interpersonale (TMI)

Il simposio si chiude con l’intervento di Giancarlo Dimaggio che raccoglie divertito il testimone passatogli da Caselli. La Terapia Metacognitiva Interpersonale vede principalmente come target i pazienti con Disturbi di Personalità. Uno dei momenti centrali della terapia cognitiva è quando il paziente smette di trattare i suoi pensieri come un fatto di realtà. Le due colonne portanti del cambiamento terapeutico in TMI sono la ricostruzione assieme al paziente dello schema interpersonale disfunzionale e la promozione dell’accesso alle altri parti sane del sé (cioè il rinvigorirsi dell’agency).

In che modo i pazienti con Disturbo di Personalità dovrebbero differenziare?

– Assumendo vera e propria distanza critica, confutando un’idea creduta vera. (Questo punto si avvicina molto al modello di Beck.)

– Prendendo consapevolezza che oltre agli schemi negativi esistono immagini Sé-Altro più benevole a cui non si presta attenzione

– Prendendo consapevolezza che un’idea sulle relazioni è un dato appreso durante lo sviluppo e non una verità universale

– Non discutendo con il valore di realtà dell’idea, ma riconoscendo che la propria reazione alle azioni degli altri ha valenza soggettiva. (Questo punto ricorda molto Ellis e la REBT)

– Notando la fluttuazione nel grado di certezza delle proprie convinzioni. Se un’idea è vera una volta al 100% e una volta all’80% vuol dire che ha una componente soggettiva.

Come opera la TMI per promuovere la differenziazione?

– Il terapeuta nella relazione terapeutica invita il paziente a esplorare liberamente la propria mente

– Mostrando la ricorrenza delle evidenze attivando nel paziente la memoria autobiografica associativa attraverso la narrazione di episodi.

– Promuovendo l’agency sugli stati mentali (e non la differenziazione sugli schemi) tramite l’individuazione degli elementi di sofferenza soggettiva

– Usando come punto di osservazione aspetti sani del Sé che emergono in seduta e che sono schema-discrepanti, ponendo il paziente nelle condizioni di mettere in discussione le proprie convinzioni disfunzionali sulle relazioni interpersonali; non è il terapeuta a fare il Disputing con il paziente, ma è il paziente a farsi il Disputing da solo.

– Attraverso esperimenti comportamentali utilizzati non per promuovere inizialmente il cambiamento, ma per esplorare nuove aree con l’obiettivo di raccogliere il flusso dell’esperienza soggettiva prima, durante e dopo l’esperimento comportamentale.

– Attraverso il Disputing, che però con i pazienti con Disturbo di Personalità è bene fare a fine terapia quando sono guariti dal disturbo – sostiene Dimaggio – in quanto le tecniche della CBT classica funzionano molto bene con pazienti di Asse I, ma non con pazienti di Asse II.

Al termine del simposio Ruggiero commenta i modelli presentati. Secondo il Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” il problema delle terapie di Terza Ondata è riuscire ad usare il pensiero per pensare di meno… il che non è facilissimo!

La TMI sembra integrare varie tradizioni, dagli interventi di Sassaroli a quelli di Liotti a Semerari, però inseriti all’interno di una nuova cornice teorica, più ampia. Indubbiamente il confronto più approfondito – prosegue Ruggiero – andrebbe fatto tra il modello MCT e il modello TMI, ma non è sufficiente studiare sui libri per poter comprendere a fondo i modelli e discuterne, è necessario seguirne i corsi di formazione.

Detto questo, pare che la differenza tra il modello di Wells e il modello di Dimaggio risieda nel fatto che la MCT implica un addestramento diretto sull’attenzione che non può però esimersi dall’utilizzo della riattribuzione verbale delle metacognizioni e di un po’ di disputing, anche se lo fa in maniera estremamente economica; la TMI invece tende a farlo in maniera più ricca e differenziata, andando in maniera più dettagliata nella storia di vita del paziente (Sassaroli), nelle sue capacità metacognitive (Semerari), nelle sue storie relazionali (Liotti).

Restiamo in attesa, conclude Ruggiero, che il modello TMI venga testato empiricamente per avere una risposta sulla sua efficacia.

Il simposio è stato indubbiamente l’occasione per approfondire alcuni aspetti di modelli che uno psicoterapeuta cognitivo dovrebbe conoscere per poter arricchire il proprio bagaglio di formazione. Noi speriamo che venga mantenuta la promessa di organizzare nei prossimi anni ulteriori incontri sempre più strutturati dove Caselli e Dimaggio – e chiunque altro vorrà gettarsi nella mischia – potranno nuovamente “sfidarsi” in un nuovo stimolante incontro-scontro tra modelli.

 

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Valentina Davi
Valentina Davi

Coordinatrice di redazione di State of Mind

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