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La conclusione della terapia: tre terapeuti aprono la discussione riflettendo sulle proprie trame relazionali – Congresso SITCC 2014

Tre terapeuti espongono le loro riflessioni sulla conclusione della terapia, tralasciando i protocolli e le statistiche ma partendo dal materiale umano.

Di Alessia Offredi

Pubblicato il 01 Ott. 2014

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La conclusione della terapia- tre terapeuti aprono la discussione riflettendo sulle proprie trame relazionaliIl congresso SITCC tenutosi a Genova ha avuto senza dubbio il merito di offrire uno spazio a momenti di riflessione che vanno oltre le linee guida, i protocolli e le analisi statistiche. Il simposio relativo alla fase conclusiva della terapia si colloca proprio in quest’orizzonte, dove non si espongono dati di ricerche condotte, ma si offre materiale per crearne di nuove, per ragionare su tematiche e processi a partire dal materiale umano.

Il dr. Manno presenta un caso clinico in cui la decisione di concludere la terapia viene presa dal paziente, dopo un anno e mezzo di lavoro continuativo e di obiettivi raggiunti. Emerge subito un dubbio, nella testa del terapeuta, condivisibile da chiunque svolga questo lavoro: E’ stato fatto tutto? Gli obiettivi raggiunti sono stabili nel tempo?. I sentimenti avvertiti sono di disagio, e un po’ di dispiacere. Il terapeuta concorda di concludere la terapia da lì a tre mesi: si svolge un bilancio di ciò che è stato fatto e si analizzano possibili scenari futuri.

Il dr. Manno condivide quindi una riflessione relativa a quando incominci la fase conclusiva della terapia e la risposta appare alquanto semplice: con l’inizio della terapia. Il dato che la terapia abbia un inizio e una fine è un elemento intrinseco al percorso stesso, una caratteristica del contratto terapeutico e una regola del setting.

Relativamente alle emozioni del terapeuta, invece, il dr. Manno si sofferma sul tema della perdita, nucleo centrale della conclusione di una terapia, ma non solo per il paziente. Il professionista perde a sua volta un percorso di terapia, e principalmente perde una relazione. I rischi maggiori in questa fase riguardano:

  • Un evitamento di tipo perfezionistico (del terapeuta che vuole assicurarsi che vada tutto bene), o di tipo euforico, che si concretizza nel mantenimento dei contatti con il paziente;
  • Un atteggiamento espulsivo da parte del terapeuta, che conclude troppo velocemente e bruscamente la terapia.

Pertanto risulta necessario che il terapeuta sia profondamente consapevole di tale perdita e delle conseguenze che comporta per entrambi i membri della relazione, al fine di gestire al meglio la parte conclusiva della terapia.

La dr.ssa Gianotti offre invece alla platea la presentazione di due casi clinici in età evolutiva, simili per l’interruzione prematura e non preannunciata della terapia, ma profondamente diversi per quanto riguarda le emozioni provate dalla terapeuta in seguito a tali conclusioni.

Nel primo caso presentato, l’interruzione della terapia avviene in seguito al parziale raggiungimento degli obiettivi e non lascia possibilità di una separazione preparata, come esposto nel contributo del dr. Manno. Le emozioni provate dalla terapeuta in tale situazione sono di rabbia e tristezza, sicuramente comprensibili visto il legame instauratosi con il paziente, per il quale l’ambulatorio della terapeuta era diventato la base sicura in cui potersi sentire accolto e non giudicato. In un secondo momento però, emerge la speranza che l’aver esperito una relazione nuova, diversa dalle altre in termini qualitativi, possa in qualche modo aver lasciato un’impronta positiva nel paziente. La rappresentazione interna del paziente assume quindi una connotazione diversa, in cui permane certo una dose di preoccupazione, ma ridimensionata nell’ottica dei successi terapeutici ottenuti.

Il secondo caso clinico delinea invece la storia di una relazione terapeutica interamente improntata sulla contrattazione, in cui era costantemente attivo il sistema agonistico. In seguito alla conclusione, dopo 18 mesi di incontri settimanali, emergono nella terapeuta sentimenti di ambivalenza, tra senso di colpa e rabbia: interessante notare che lo stile di attaccamento del paziente fosse di tipo ansioso ambivalente. I casi illustrati e le emozioni suscitate risultano molto complessi e difficili da interpretare. Emergono tuttavia alcune domande, che possono suggerire un punto di partenza: l’età del paziente può essere un fattore influente nei sentimenti avvertiti dal terapeuta a fine terapia? Quale potrebbe essere il ruolo dello stile di attaccamento del paziente? Tali domande rimangono per ora aperte, spunto di riflessione e di approfondimento.

L’intervento del dr. Furlani, relatore e chairman del simposio, si focalizza sul parallelismo tra conclusione della terapia e fine di una relazione affettiva.

Salvando senza dubbio l’emozione di soddisfazione che il terapeuta può provare al termine di un percorso terapeutico, si mantiene tuttavia anche il tema della perdita. Viene quindi rinforzata l’idea che tale perdita debba essere metabolizzata, vissuta nel tempo concedendosi gli spazi per accettare un cambiamento personale che, nella prospettiva del dr. Furlani, è inevitabile, in quanto prodotto dalla chiusura di una relazione. Emerge però una differenza rispetto alle relazioni affettive: in una relazione terapeutica è sempre il paziente che sceglie quando concludere la terapia e, di conseguenza, è sempre il terapeuta a essere lasciato, a perdere all’interno della relazione.

L’intervento del dr. Landini, discussant del simposio, rinforza l’idea che sia responsabilità del paziente decidere di intraprendere e di concludere la terapia.

In quest’ottica di libertà il terapeuta può, al momento giusto, permettersi di suggerire al paziente di fare un bilancio e di verificare il raggiungimento degli obiettivi senza per questo creare forzature. Il contributo finale, inoltre, aggiunge alla relazione terapeutica (e non) una connotazione che va oltre l’interazione tra le persone e che comprende anche la rappresentazione delle relazioni passate e la previsione delle relazioni future.

 

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