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Non ci sono più le mamme di una volta di Roberta Galloni (2014) – Recensione

 

 

Questo libro racconta di una normalissima mamma dei nostri giorni, di una mamma che utilizza la scrittura per cercare (e ritrovare) se stessa in una nuova dimensione di ruolo, quello di mamma, che sceglie di esserlo a tempo pieno.

E’ anche il racconto autobiografico di una donna che nel diventare per la seconda volta mamma ha scoperto dolorosamente quello che definisce “demonio” e che le cambia il modo di guardare al mondo, quel mondo che in realtà pare avere tutto per essere perfetto, ma che i suoi occhi hanno smesso di guardare, quasi avesse un paio di occhiali scuri che rendono grigio tutto.

Il racconto inizia con un dolce ricordo, quello della nonna, in una scena in cui pettina i capelli alla sua piccola nipotina e, quasi si chiude, con un dramma non detto, con un saluto ad un fiore, che dice tutto e nulla, che lascia intravedere un boccone amaro difficile da mandare giù, forse non a caso, preludio triste di un tema delicatissimo, quello della violenza sulle donne.

E così questo racconto, tratta temi leggeri e semplici, ma anche temi delicati, di cui non è semplice parlare, soprattutto per chi probabilmente lo fa per la prima volta e ci mette il cuore, ciò che traspare chiaramente.

Spesso i ricordi emergono e diventano protagonisti, come molte volte accade quando ci si ritrova a pensare al tempo che passa e a quando, come in questo caso specifico, l’autrice ricorda quando era bambina, adesso che delle sue bambine si prende cura.

Le vicende della vita, del ciclo di vita di una donna, belle e meno belle, vengono raccontate e attraverso i ricordi di momenti significativi compongono il puzzle che porta l’autrice a una riflessione che probabilmente dà il titolo al libro: come erano le mamme prima e come sono ora, ma anche i papà, e tutto ciò che ruota intorno all’essere genitori oggi.

Il tempo che passa e i significati, i valori che cambiano, così ben rappresentati dall’immagine delle piscine delle ville inesorabilmente vuote oggi, paragonate a quei pozzi di un po’ di anni fa animati da comitive di ragazzi ai quali bastava davvero poco per divertirsi.

Il periodo post-natale è un momento delicatissimo per la donna e circa il 10 – 20% delle neo-mamme ha un esordio di depressione post partum in genere dopo 3 – 4 settimane dal parto; i primi segnali sono rappresentati da stanchezza, fatica e mancanza di energie e spesso non vengono correttamente interpretati. Di conseguenza, il 50% delle donne che ha una depressione post partum non chiede aiuto o lo rifiuta o ricerca assistenza solo per la gestione del bambino e comunque non subito: è una condizione poco riconosciuta come disturbo clinico a tutti gli effetti e quindi poco trattata.

Solitamente chi comincia a soffrirne tende a vivere in modo ritirato e non ammette il proprio disagio, lo nasconde; come pare raccontare in alcuni tratti anche l’autrice, tende a colpevolizzarsi per aver fatto “cattivi pensieri”, tende a passare molto tempo a chiedersi il “perché” di tutto questo, a non capire come mai ciò che “dovrebbe essere perfetto”, semplicemente non lo è.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato in tal senso delle Linee guida “Postnatal care of the mother and newborn“ , dodici raccomandazioni su tempi e modi della cura postnatale, sia del bambino che della madre per tutto il periodo del puerperio, le sei settimane successive al parto.

Diversi studi hanno dimostrato l’importanza di un intervento di aiuto in questo periodo; per esempio, uno studio del 2000, partendo dai dati statistici di incidenza del disturbo, ha dimostrato la riduzione del rischio di depressione post partum in seguito ad un intervento di tipo psicosociale, con l’obiettivo di insegnare alle donne ad organizzare in modo efficace i propri impegni, al fine di ridurre lo stress, avere prospettive realistiche sulla propria vita da madri, interpretare in modo costruttivo le esperienze vissute quotidianamente, dare significati corretti alle emozioni negative provate e adottare un adeguato stile di fronteggiamento delle situazioni difficili, attivare una rete di supporti sociali e aiuti esterni sui quali fare affidamento per la cura del neonato.

Interessanti sono gli spunti che il libro offre a tal proposito, sull’importanza del supporto, della possibilità di trovare spazi propri, del confronto con altre mamme, per comprendere che ciò che accade, ciò che si pensa quando si è molto stanchi, come ci si sente a fine giornata, non è un’esclusiva di alcune, ma di tutte le mamme.

Dire se è vero che non esistono più le mamme di una volta, non saprei, certo è che il momento storico che viviamo è diverso, così come le conquiste che le donne hanno ottenuto negli anni sono molte e diverse… probabilmente al di là di questo credo che il diventare, sentirsi madre, sia qualcosa di unico e immensamente bello (comprese le fatiche) in qualsiasi generazione lo si collochi. Questo permette di affrontare tutto, magari cercando una personale via di mezzo tra quelle donne che hanno dedicato completamente la loro vita ai figli, “rassegnandosi” su tutto il resto e chi, oggi ha bisogno di fare un selfie con il proprio figlio sul social network di turno tornata da lavoro, per sentirsi completamente donna e mamma, allo stesso tempo.

 

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L’attesa. Il percorso emotivo della gravidanza. Di A. Pellai (2013). Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Shutter Island (2010) – Cinema & Psicoterapia nr.26

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #26

Shutter Island (2010)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

Andrew preferisce farsi lobotomizzare pur di sfuggire alla realtà così traumatica. Il vissuto è incompatibile con gli schemi centrali riguardanti la sua identità. L’unica via d’uscita possibile per proteggersi è la fuga nel delirio.

Info: 

Diretto da Martin Scorsese, con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Michelle Williams, Emily Mortimer e Max Von Sydow. Drammatico. USA 2010. Basato sul romanzo di Dennis Lehane.

Trama:

Nel 1954 due agenti federali, Teddy Daniels e Chuck Aule, vengono inviati a Shutter Island per investigare sulla scomparsa di un’infanticida, Rachel Solando, residente presso l’istituto mentale Ashecliffe. Il direttore dell’istituto, Cawley, e gli infermieri affermano che la madre assassina è svanita nel nulla senza lasciare alcuna traccia. L’agente Daniels nutre forti sospetti sulla versione fornita e sul modo di condurre l’ospedale.

Le indagini sembrano arrivate alla conclusione, ma un uragano impedisce ai due agenti di lasciare l’isola. Nel prosieguo dell’investigazione emergono particolari sempre più inquietanti, mentre Daniels continua ad avere delle visioni relative alle sue esperienze di guerra contro gli ufficiali nazisti e alla moglie defunta. Il finale rivela che Teddy è, in realtà, Andrew Laeddis in cura da due anni con il dottor Sheehan, l’uomo che egli pensava fosse il suo collega Chuck, per aver ucciso sua moglie, affetta da psicosi maniaco depressiva dopo che lei aveva affogato i loro tre figli. Il dolore per l’accaduto ha portato Andrew a costruire un mondo parallelo.

Il dottor Sheehan e il dottor Cawley, hanno deciso di simulare la situazione per riportare il paziente alla realtà. Quando Andrew si ricorda del passato sembra ormai guarito, ma poco dopo si rivolge al dottor Sheehan chiamandolo Chuck. Cawley decide di lobotomizzarlo e Laeddis prima dell’intervento chiede al dottor Sheehan: «Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da persona perbene?».

Motivi d’interesse:

Andrew preferisce farsi lobotomizzare pur di sfuggire alla realtà così traumatica. Il vissuto è incompatibile con gli schemi centrali riguardanti la sua identità. L’unica via d’uscita possibile per proteggersi è la fuga nel delirio.

In buona parte del film non è possibile comprendere se Laeddis è un falso agente, come del resto spesso capita con i pazienti deliranti, soprattutto i paranoici, che strutturano un pensiero lucido, logico, coerente, capace di previsioni che si autoconfermano. Riescono ad ingannare non solo se stessi, ma anche persone che interagiscono con loro, avvocati, terapeuti, amici e parenti.

Nella narrazione cinematografica si sovrappongono i temi dell’esperienza del paziente con quelli della simulazione. La donna scomparsa è stata ricoverata per aver ammazzato i suoi tre figli, proprio come la moglie di Andrew. Sull’isola viene a sapere che si compiono esperimenti umani ciò che in effetti stanno facendo i medici nei suoi confronti, nell’ospedale vengono utilizzati psicofarmaci per cercare di ottenere e gestire il controllo mentale e Andrew è trattato farmacologicamente, l’ostilità dei medici e degli infermieri si innesta in questa cornice e completa il quadro. 

La realtà è stata effettivamente crudele con Laeddis, l’episodio originario è drammatico e ne deriva la discesa inarrestabile verso la psicosi. Il modello stress-vulnerabilità spiega la devastazione dell’equilibrio premorboso del paziente che non è in grado di ricostruire se stesso a seguito dell’evento che vive.

Quando torna a casa e vede i suoi tre figli galleggiare ormai esanimi sul laghetto che fiancheggia la sua abitazione, sperimenta un senso di sbigottimento, di stupore, si affanna per cercare di salvarli, ma ormai è troppo tardi, guarda la moglie in preda al delirio, non sa spiegarsi cosa stia succedendo o perché sia successo. L’accaduto è strano, confonde, tutto è fortemente minaccioso e la difesa è l’uccisione della moglie.

Poi dà senso a ciò che sembrava averlo perduto, va alla ricerca di una donna che ha ucciso i suoi tre figli, è un agente che deve riportare la situazione alla normalità nell’ospedale dove succedono cose strane, dove vengono compiuti esperimenti umani, così come ha fatto la moglie, nel suo delirio, con i figli. L’interrogativo di Andrew con il quale si conclude il film sembra riproporre l’impossibilità di accomodare e assimilare ciò che è accaduto: «Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da persona perbene?».

Indicazioni per l’utilizzo:

Buono per comprendere la genesi del delirio. Da non prescrivere a pazienti psicotici.

 

Trailer:

 

 LEGGI RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A. (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Faremmo qualunque cosa pur di non stare soli con i nostri pensieri…

FLASH NEWS

 

Secondo una nuova ricerca dell’Università della Virginia e Harvard, molte persone farebbero qualunque cosa pur di non rimanere sole con i propri pensieri. E se il termine “qualunque cosa” vi sembra esagerato sappiate che c’è chi è arrivato a preferire di auto-somministrarsi scosse elettriche piuttosto che fare i conti con sé stesso.

I ricercatori hanno condotto una serie di studi che hanno coinvolto quasi 300 uomini e donne, di età compresa 18 e 77 anni. I partecipanti sono stati invitati a sedersi da soli in una stanza per 6, 15 minuti, lontano da telefoni cellulari e altre distrazioni, con la sola compagnia dei propri pensieri.

Come hanno reagito al tu per tu con sé stessi? In media, la maggior parte dei soggetti ha dichiarato di non amare affatto non avere nulla da fare. E questo effetto è stato trovato in tutte le età.

Ma fino a che punto la gente desidera evitare di passare del tempo senza occuparsi di qualcosa? Per scoprirlo, i ricercatori hanno dato la possibilità a 42 uomini e donne di “intrattenersi” per 15 minuti auto-somministrandosi delle scosse elettriche: abbastanza sorprendentemente, il 67 per cento degli uomini e il 25 per cento delle donne ha deciso di farlo!

Cosa spiega questa decisione?  L’ipotesi dei ricercatori è che la mente umana si è evoluta nella relazione con il mondo esterno, nella necessità di essere vigile per affrontare i pericoli esterni e cogliere opportunità; questo impegno nei confronti dell’esterno è prioritario, anche a prezzo del dolore fisico.

Inoltre la nostra crescente dipendenza dalla tecnologia allontana la noia, ma potrebbe esacerbare l’effetto del nostro impegno nei confronti dell’esterno. “Cerchiamo la tecnologia perché intrattenerci solo con i nostri pensieri ci è difficile, e la tecnologia è un’alternativa facilmente disponibile”, sostengono i ricercatori.

Questo però causa l’instaurarsi di un circolo vizioso per il quale, sempre meno abituati a stare soli con i nostri pensieri, finiamo per trovarlo sempre più difficile e meno piacevole rispetto alla stimolazione proveniente dall’esterno e quindi ad evitarlo con ogni mezzo a disposizione.

In futuro i ricercatori vogliono scoprire se aiutare le persone a familiarizzare con i propri pensieri, per esempio con un vero e proprio training di formazione, possa essere utile affinchè imparino ad usarlo come meccanismo di coping, o se possa loro servire ad aumentare il benessere a lungo termine e la produttività.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Parlare di sesso con i propri figli: una guida pratica – Recensione

 

 

Cos’è che impedisce ai genitori di “fare il discorso” con i propri figli? La dott.ssa Amber Madison spiega che le ragioni sono principalmente due: la difficoltà ad accettare che i propri figli siano sessualmente attivi e l’imbarazzo di toccare certi argomenti “scottanti”.

Se siete genitori probabilmente saprete che due sono le domande che fanno scattare l’allarme rosso: “Mamma papà come nascono i bambini?” e “Mamma papà sta sera posso uscire con il mio ragazzo?”.

Da sempre uno degli argomenti più difficili da affrontare con i propri figli adolescenti è la sessualità in tutti i suoi aspetti, di conseguenza, spesso per evitare l’imbarazzo, si tende a evitare accuratamente l’argomento dribblando con maestria le domande dei giovani adolescenti, o peggio demonizzandoli arrabbiandosi con loro. In entrambi i casi il risultato sarà “genitori preoccupati, figli preoccupati e nessuna informazione sulla sessualità”.

Recentemente Eurispes e Telefono Azzurro hanno condotto un’indagine su un campione rappresentativo di 2.470 adolescenti italiani tra i 12 e i 19 anni, che ha rilevato come oltre la metà degli intervistati aveva avuto il primo rapporto sessuale completo prima dei 16 anni. In particolare, il 38,4% ha avuto il primo rapporto sessuale tra i 14 e i 15 anni, mentre l’11,7% ancora prima, tra gli 11 e i 13 anni. Poco meno del 30% lo ha avuto tra i 16 e i 17 anni, mentre appena il 4,9% ha “aspettato” di diventare maggiorenne (8° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza).

Non disperiamo, per una volta l’Italia è in buona compagnia, infatti, tale tendenza si rileva anche nel resto dell’Europa, come emerso da diversi studi condotti che evidenziano come nell’ultimo decennio l’età media del primo rapporto sessuale si sia abbassata in media di 4 anni per le donne (22.0 nel 1930 contro 17.6 nel 2000) e di uno per i maschi (18.1 contro 17.2) (Bozon e Leridon, 1996; Bajos et al 2010; Bajos et al 2014).

Tuttavia a preoccupare genitori e psicologi non è solo la precocità del primo rapporto sessuale, ma sono soprattutto le abitudini sessuali degli adolescenti che, come emerso anche dall’articolo inchiesta pubblicato su Il fatto quotidiano da Beatrice Borromeo, sempre più spesso considerano la verginità come una macchia della quale “doversi sbarazzare per non essere emarginati”, i rapporti sessuali una piccola trasgressione simile fumare di nascosto dai genitori e la sessualità come una “pratica” slegata dai sentimenti, ma strettamente connessa ad “una questione di immagine”.

Le forti dichiarazioni rilasciate dagli adolescenti hanno scatenato numerose critiche da parte dei lettori che si sono uniti per scagliarsi contro il grande nemico dei giovani, I Media, accusandolo di aver causato, a partire dagli anni ’90, un’ipersessualizzazione della società.

Tuttavia, sebbene sia innegabile la forte responsabilità della società moderna sulle abitudini sessuali degli adolescenti, non è possibile dimenticare che, sebbene la parola “sesso” sia sulla bocca di tutti, solo raramente i genitori affrontano quest’argomento seriamente e in modo efficace con i propri figli esponendoli così al pericolo di adottare abitudini sessuali non salutari e pericolose.

Cos’è che impedisce ai genitori di “fare il discorso” con i propri figli? La dott.ssa Amber Madison spiega che le ragioni sono principalmente due: la difficoltà ad accettare che i propri figli siano sessualmente attivi e l’imbarazzo di toccare certi argomenti “scottanti”.

Se per la prima condizione l’unica strada da intraprendere è l’accettazione, per l’imbarazzo molto si può fare ed è proprio con l’obiettivo di aiutare i genitori a superarlo che la dottoressa ha scritto l’interessante e al tempo stesso divertente libro “Parlare di sesso con i propri figli”. Più che un libro, lo si potrebbe considerare un vero e proprio “manuale pratico per genitori poco pratici e imbarazzati” che aiuta passo passo ad affrontare le diverse tematiche legate alla sessualità, con tanto di schema riassuntivo a fine capitolo con punti centrali e delle parole da utilizzare. Quindi piuttosto che leggerlo potremmo dire che è da usare per trovare risposte alle proprie domande.

Proviamo ad usarlo un po’ insieme. Per esempio se ci domandassimo: “Come posso superare l’imbarazzo di dover parlare ai figli di sesso?” Iniziando a prendere confidenza con quelle parole che recano tanto imbarazzo come pene, vagina, sesso orale, e tutte le altre dicendole ad alta voce per casa. Non vi preoccupate se il vicino vi sente, potrete sempre condividere con lui il libro. Sicuramente vi ringrazierà.

Una volta presa la dovuta confidenza iniziate a preoccuparvi del clima della conversazione, qui non servono le candele, ma calma, autocontrollo e la consapevolezza che l’obiettivo è quello di far passare il messaggio che per voi è un piacere poter parlare dei problemi e dei dubbi dei ragazzi.

“Quand’è che comincia tutto? Quando devo iniziare a parlare di sesso vero con i miei figli?” Tutto ha inizio alla scuola media, quando iniziano le prime esplorazioni in questo mondo. Tranquilli, parlare precocemente di buone abitudini sessuali, come l’importanza di saper rispettare i propri tempi e soprattutto se stessi, non accelera il processo di sessualizzazione, ma al contrario permettere evitare di dover “correre ai ripari” quando è troppo tardi. Per questo è molto importante spiegare fin da subito ai vostri figli quali sono le dinamiche che regolano i rapporti sessuali sani, usando anche come esempio le loro amicizie.

Di capitolo in capitolo la dott.ssa Madison affronta così le tematiche più importanti relative al sesso come le malattie sessualmente trasmissibili, delle quali descrive in modo accurato e chiaro le possibili complicazioni causate dall’assenza di una sintomatologia franca sottolineando quindi l’importanza della prevenzione, la contraccezione, l’uso corretto del preservativo, le emergenze sessuali e i principali miti e leggende sul sesso, dando molti consigli utili e pratici ai genitori, e perché no anche agli psicologi più imbarazzati.

La bravura dell’autrice è stata quella di riuscire a trattare un argomento tanto delicato e complesso con una serenità e leggerezza che trasmettono al lettore veramente il coraggio di poter parlare con i propri figli anche degli argomenti più delicati.

Una piccola nota a piè di pagina… come molti pendolari, mi sono trovata a leggere molto spesso il libro in treno e non ho potuto non notare inizialmente gli sguardi a volte imbarazzati, a volte di disappunto, dei miei compagni di viaggio che nel giro di poco tempo hanno iniziato a farmi le domande più disparate sull’argomento elargendo anche i più disparati consigli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La fobia sociale. Clinica ed epidemiologia del disturbo. Di Mauro Bruni (2009) – Recensione

 

 

fobia sociale di Mauro BruniProvare ansia in una situazione sociale è da sempre considerata una condizione normale. Chi non è mai stato chiamato timido da parte di qualcuno? Anche se timidezza e fobia sociale hanno in comune diversi aspetti, si tratta invece di condizioni diverse.

Credo sia capitato a tutti di arrossire, di avere secchezza delle fauci, palpitazione e ipersudorazione nel momenti in cui si è di fronte ad una platea famelica di informazioni, ricordo dettagliatamente il giorno della discussione della tesi di laurea …

Fino a qualche tempo fa questo status quo era considerato comune, vista la manifestazione transitoria del sintomo che è spesso legato a un evento esterno isolato. Esistono però casi in cui questa paura diventa invalidante al punto da compromettere il raggiungimento dello scopo e solo a questo punto è possibile parlare di patologia. La Fobia Sociale è tale solo quando l’ansia diventa invalidante e rimane intensa. Per questo è stata riconosciuta ufficialmente come problematica legata alla sfera ansiosa, ma solo nel 1980, con la pubblicazione della terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III). La ricerca dimostra che si tratta di una vera e propria patologia abbastanza diffusa nella popolazione generale. Infatti, coloro che sono affetti da tale sintomatologia mostrano anche una notevole difficoltà di gestione delle emozioni che ne derivano, portando il più delle volte ad isolamento sociale, professionale e anche relazionale. Quindi, il fobico sociale per ovviare al problema attua dei comportamenti che potrebbero essere, a sua detta, risolutivi come ad esempio usare sostanze o ritirarsi fino a negarsi la vita stessa (casi molto estremi).

Gli studi dimostrano che fattori genetici e biologici sono degli adiuvanti alla genesi della malattia e, come al solito, anche lo stile temperamentale e l’ambiente fanno del loro meglio per determinare il disturbo.

Questa patologia si manifesta fin da quando si è piccoli, ma spesse volte non si riesce ad effettuare una diagnosi precoce perché confusa con la timidezza che il bambino spesso mostra, ma tante volte rappresenta qualcosa di più.

Una fase di fondamentale importanza che precede la terapia è quella dell’assessment del disturbo. Esistono diversi reattivi psicometrici in grado di farlo, sia interviste semi-strutturate sia self report, che garantiscono di individuare il tipo di intervento più appropriato per ogni paziente. Da un punto di vista del trattamento, ci sono percorsi molto validi che portano alla gestione dei sintomi ansiosi. La parte più importante, però, consiste nell’individuare il “nucleo della paura”, cioè l’aspetto essenziale che determina il manifestarsi dell’ansia nel fobico sociale.

Gli interventi terapeutici più efficaci in assoluto sono quelli di orientamento cognitivo-comportamentale e cognitivo che si avvalgono in primis della ristrutturazione cognitiva previa messa in discussione del pensiero disfunzionale nucleare o centrale, ma anche della tecnica dell’esposizione e del riapprendimento delle abilità sociali. E’ largamente dimostrato che già dopo poche sedute molti pazienti mostrano dei miglioramenti, che si mantengono nel tempo.

Ulteriori approfondimenti e dettagli, importanti per entrare nel vivo della patologia, sono inseriti nel libro scritto da Mauro Bruni intitolato La fobia Sociale. Clinica ed epistemologia del disturbo, edito da Armando Editore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Bruni, M. (2014). La fobia sociale. Clinica ed epistemologia del disturbo. Armando Editore.  ACQUISTA ONLINE

 

Per stare meglio al lavoro… Basta una piccola pausa smartphone!

 

FLASH NEWS

 

Vorreste essere più produttivi al lavoro e più felici durante la giornata lavorativa? Se la risposta è affermativa… basta prendere una piccola pausa per scrivere un sms ad un amico, controllare velocemente la pagina Facebook o giocare ad “Angry Birds”, secondo una ricerca condotta dall’Università del Kansas.

Sooyeol Kim dottorando in Scienze Psicologiche, sostiene che consentire ai dipendenti di prendere piccole pause smartphone sarebbe un beneficio piuttosto che uno svantaggio per le aziende medesime.

Al presente studio hanno partecipato 72 dipendenti full time appartenenti a vari settori lavorativi. Ai partecipanti allo studio è stato chiesto di scaricare un’applicazione che misurava, complessivamente il tempo totale speso davanti allo smartphone nell’arco di una giornata lavorativa.

L’applicazione suddivideva l’uso dello smartphone in categorie quali intrattenimento, che include giochi come “Angry Birds” o “Candy Crush” e i social networks come Facebook e Twitter. Alla fine della giornata lavorativa i partecipanti allo studio compilavano un questionario sullo stato di benessere percepito.

Dai risultati è emerso che i dipendenti spendono complessivamente 22 minuti su otto ore lavorative per giocare/controllare lo smartphone e che le pause smartphone durante il lavoro rendono i dipendenti più sereni al termine della giornata lavorativa.

“Comunicare con gli amici e con i membri della famiglia o giocare con lo smartphone– sono tutte attività che aiutano i dipendenti a recuperare dallo stress accumulato e nello stesso tempo a rinfrescare la mente ancorata ai compiti lavorativi quotidiani”, sostiene Sooyeol Kim autore del presente studio.

Prendere una pausa durante il lavoro è importante perchè per un dipendente è difficile se non quasi impossibile concentrarsi per otto ore di fila al giorno senza una pausa. Le pause smartphone sono simili ad altre categorie di pause quali: chiacchierare con i colleghi, passeggiare nei corridoi dell’ufficio o prendere un caffè. Tali pause sono importanti perché aiutano i dipendenti a meglio affrontare il lavoro.

Quotidianamente, le persone si confrontano con vari e innumerevoli fattori di stress come i compiti lavorativi, la programmazione delle diverse attività, i problemi familiari o altri problemi di vita. E’ necessario capire come possiamo aiutare le persone ad affrontare le situazioni stressanti offrendo delle strategie di coping benefiche ed efficaci.

L’uso moderato dello smartphone durante le piccole pause può essere utile per le aziende e per i dipendenti in quanto contribuisce a mantenere alla fine giornata un livello ottimale del benessere percepito. Inoltre, le piccole pause smartphone, sempre se utilizzate con moderazione, portano dei benefici in quanto fungono da “ristoro mentale.”

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dai due ai tre secondi per la costruzione del presente istantaneo – Neuroscienze

COMUNICATO STAMPA – Università di Trento

Lo studio pubblicato sulla rivista PLoS ONE

Dai due ai tre secondi per la costruzione del presente istantaneo

 

ROVERETO – La nostra esperienza del tempo è divisa tra presente, passato e futuro. Ma cosa rende il presente diverso da passato e futuro? E quanto “dura” il presente? Da sempre gli psicologi sperimentali hanno tentato di scoprire come percepiamo la successione di eventi che scandiscono la nostra giornata, come costruiamo il senso del tempo.

Il nostro sistema percettivo non registra, ma integra gli stimoli all’interno di finestre temporali. Sappiamo che all’interno di un intervallo di qualche centinaio di millisecondi le diverse informazioni in arrivo dall’esterno vengono integrate dal nostro cervello in un unico percetto, alla base di quello che chiamiamo il nostro “presente soggettivo”, la sensazione di presente istantaneo cui ci riferiamo con hic et nunc. E le neuroscienze e la psicologia sperimentale ci vengono in aiuto per comprendere in che modo costruiamo tale esperienza soggettiva del presente.

La finestra temporale necessaria per la ricostruzione dell’unitarietà non solo delle immagini statiche ma anche delle esperienze più simili al mondo reale, dove la scena è in continuo cambiamento, va dai due ai tre secondi. A dirlo è uno studio appena pubblicato sulla rivista PLoS ONE e condotto da un gruppo di ricercatori del Centro Mente Cervello dell’Università di Trento guidati dal professor David Melcher.

La ricostruzione visiva di immagini decomposte è un fenomeno relativamente noto e studiato in laboratorio. Ma il mondo esterno, lungi dall’essere statico come può esserlo uno stimolo visivo artificiale, è invece in continua evoluzione e ci bombarda di stimoli di natura diversa, in particolare visivi, uditivi e tattili, in continuo cambiamento non solo spaziale ma anche quanto ad importanza e salienza per l’individuo.

Questa complessità del reale e del suo fluire è ricreabile in laboratorio attraverso un’esperienza che noi tutti conosciamo: la visione di un film. In questa situazione, i soggetti, pur non muovendosi in prima persona, assistono a narrazioni che evolvono.

Cos’è l’adesso di qualcosa che si sta sviluppando nel tempo?

Per scoprirlo, i ricercatori si sono chiesti se anche in questo caso è valido il vincolo temporale dei 2-3 secondi necessario alla ricostruzione unitaria della scena. In caso di risposta affermativa, tale intervallo non sarebbe una caratteristica di certi processi ma rifletterebbe un principio organizzativo generale, come già altri studi sembrerebbero suggerire, in particolare quelli condotti sul linguaggio in cui la percezione della segmentazione dell’eloquio che fluisce nel tempo influenza la nostra capacità di comprensione del messaggio, per la quale è necessaria l’integrazione di informazioni di natura diversa (semantiche, sintattiche e pragmatiche – VEDI ARTICOLI SU: LINGUISTICA ).

[blockquote style=”1″]«Una delle più evidenti, quanto misteriose, caratteristiche del flusso di coscienza è l’esistenza di un presente soggettivo integrato, che si stima duri all’incirca dai due ai tre secondi e che corrisponde all’impressione che abbiamo dell’istante presente, dell’ora. Il nostro studio dimostra per la prima volta che un intervallo di integrazione di 2-3 secondi, già trovato in compiti più semplici, è ugualmente valido anche quando consideriamo complesse sequenze visive, come i film, più consistenti con la nostra esperienza del presente soggettivo» [/blockquote] 

ha spiegato il leader del gruppo, David Melcher alla guida dell’Active Perception Lab.

I ricercatori hanno mostrato in modo casuale ai soggetti delle sequenze di video privati di audio e decomposti in intervalli di durata diversa, da poche centinaia di millisecondi fino a molti secondi, per osservare fino a che punto l’integrazione dei video era possibile.

 

[blockquote style=”1″]«I film sono costituiti da singole inquadrature, tratti di pellicola montati in successione tra loro e separati da dei tagli. E’ interessante notare che la loro durata nei film di Hollywood, compresi i trailers e le sequenze di azione, tende ad essere in media proprio di 2-3 secondi. Dato che in genere le persone muovono gli occhi molte volte al secondo, anche la più breve delle inquadrature è molto più lunga del tempo di fissazione degli occhi mentre ad esempio leggiamo. Una possibilità, in linea con i nostri risultati, è che l’informazione dell’evento corrispondente alla nostra percezione di quello che sta accadendo “ora” sia accumulata su un periodo di qualche secondo, rendendo così la durata di 2-3 secondi delle clip nei film un compromesso ideale tra l’efficienza (mostrare quanti più riprese possibili in un breve periodo di tempo) e la facilità di visione».[/blockquote]

 

La ricerca è stata condotta all’interno del progetto “Costruzione dello spazio-tempo percettivo” (Construction of perceptual space-time), della durata di 5 anni e premiato dal Consiglio Europeo della Ricerca con circa 1 milione di euro, per lo studio della nostra rappresentazione stabile e continua del mondo esterno. Il modo in cui il nostro cervello costruisce, a partire dalle informazioni sensoriali in entrata, l’esperienza dello spazio e del tempo rimane, infatti, uno dei grandi misteri delle scienze cognitive.

 

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David Melcher

David Melcher è professore associato del Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento. Ha conseguito il dottorato di ricerca alla Rutgers University nel New Jersey (USA) nel 2001. Ha poi lavorato come assegnista di ricerca presso l’università San Raffaele (Milano) e in seguito come professore associato presso Oxford Brookes University. Ha tenuto corsi per l’Università di Oxford, l’Università Bocconi, l’Università San Raffaele, la New York University e l’Università di Harvard. Nel 2011, l’associazione Americana di Psicologia (APA) gli ha assegnato il premio “Distinguished Scientific Award for Early Career Contribution to Psychology”.

Oltre all’ERC Starting Grant sullo spazio-tempo, David Melcher è il responsabile di ATTEND – Characterizing and improving brain mechanisms of attention, un progetto di ricerca in collaborazione con il Center for Neuroscience and Cognitive Systems dell’Istituto Italiano di tecnologia (IIT), la Fondazione Bruno Kessler e il Massachusetts General Hospital. ATTEND si è aggiudicato un finanziamento “Grande Progetto PAT” di 2 milioni di euro. Ha pubblicato su numerose riviste internazionali tra le quali Nature, Nature Neuroscience, Current Biology, Neuron.

 

BIBLIOGRAFIA:

Link al sito del gruppo di David Melcher:

https://sites.google.com/site/melcheractiveperceptionlab/home

 Fairhall SL, Albi A, Melcher D (2014) Temporal Integration Windows for Naturalistic Visual Sequences. PLoS ONE 9(7): e102248.

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0102248

I Disturbi Sessuali Femminili – Definizione Psicopedia

 

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2014 State of Mind. Riproduzione riservataI disturbi sessuali possono avere causa organica, psicologica o mista; essere primari, ossia presenti da tempo nella vita della persona, secondari cioè acquisiti dopo una spiacevole esperienza; situazionali, ossia presenti solo in particolari situazioni o condizioni sessuali, generali, presenti sempre ogni qual volta si tenta o si ha un rapporto sessuale.

I Disturbi Sessuali Femminili possono essere di diversa natura. Innanzitutto per definirli tali bisogna escludere che essi possano essere attribuiti ad un altro disturbo psicologico in corso, esempio alla Depressione, a malattie fisiche in corso, interventi chirurgici, o all’assunzione di determinati farmaci o sostanze. Eliminate queste possibilità, possiamo considerare la gran parte dei disturbi sessuali femminili come riguardanti una delle fasi del ciclo della risposta sessuale.

E’ importante tener presente che, un problema sessuale può essere secondario ad un disturbo sessuale principale, esempio: un calo del desiderio può essere la conseguenza di un disturbo orgasmico, oppure il vaginismo può essere secondario alla dispareunia, ancora, un disturbo di avversione sessuale la conseguenza del vaginismo.

I disturbi sessuali possono avere causa organica, psicologica o mista; essere primari, ossia presenti da tempo nella vita della persona, secondari cioè acquisiti dopo una spiacevole esperienza; situazionali, ossia presenti solo in particolari situazioni o condizioni sessuali, generali, presenti sempre ogni qual volta si tenta o si ha un rapporto sessuale.

 

Fasi del ciclo della risposta sessuale femminile:

Desiderio > eccitazione > plateau > orgasmo > risoluzione

Ogni fase è legata alla successiva, generando di volta in volta un effetto di potenziamento o di inibizione. Al centro di tutto il processo si pone il piacere, che tipicamente accompagna, mantiene in essere, amplifica e colora in senso erotico ogni fase del ciclo della risposta sessuale.

In ogni fase del ciclo della risposta sessuale si possono evidenziare ostacoli che interferiscono o interrompono la naturalezza del processo. Difficoltà importanti nelle prime fasi del ciclo di risposta sessuale possono persino interromperlo completamente.

Fase del desiderio

Il desiderio ha a che fare con la mancanza, il bisogno. Può inizialmente essere percepito come una sorta di nervosismo, di irrequietezza, che solo gradualmente assume le sembianze di un vero e proprio desiderio erotico. In altri casi, invece, il punto di partenza del desiderio sembra essere più mentale, associato ad una serie di fantasie, pensieri, o all’attività del guardare o del percepire, attraverso l’udito o l’olfatto, qualcosa che innescherà poi il desiderio anche sul piano fisico.

Il desiderio sessuale genera normalmente piacere e dall’interazione tra desiderio sessuale (fisico e mentale) e piacere, si mette in moto il ciclo della risposta sessuale, che può essere agevolato o inibito in vari modi e a differenti stadi del suo sviluppo.

Fase di eccitazione

Il desiderio sessuale, se non ostacolato, tende a dare origine al fenomeno dell’eccitazione. In realtà, la distinzione netta tra desiderio ed eccitazione è più accademica che reale. Può succedere, infatti, che compaia, in modo essenzialmente somatico, un’eccitazione in assenza di desiderio, uno stato fisico che aspetta di essere veicolato e interpretato attraverso un desiderio, che però arriva in un secondo momento. In questi casi sarebbe corretto dire che è l’eccitazione fisica a innescare il desiderio, e non viceversa.

La fase dell’eccitazione è caratterizzata dal sorgere di sensazioni erotiche con conseguente lubrificazione vaginale, vasocongestione (irrorazione sanguigna) della pelle sia in corrispondenza dei genitali che in generale e da miotonia. La reazione cutanea delle donne è spesso più marcata; inoltre, l’eccitazione si associa normalmente all’inturgidimento dei seni e all’erezione dei capezzoli. Si verifica anche una vaso congestione di minore entità nel clitoride, che in alcune donne raggiunge uno stato di erezione e in altre no. Durante l’eccitazione l’utero si allarga a causa della congestione vascolare e inizia a sollevarsi dalla sua posizione di riposo sul fondo del bacino.

Fase di plateau

E’ uno stato di eccitamento più avanzato, che si verifica immediatamente prima dell’orgasmo. Durante questa fase, la reazione vaso congestizia locale dell’organo sessuale primario raggiunge il suo culmine. I mutamenti fisiologici che hanno luogo durante la fase di plateau nel ciclo sessuale reattivo femminile si possono a loro volta attribuire in larga misura alla vaso congestione.

Tra le reazioni extragenitali , risulta evidente la scomparsa di colorito cutaneo a chiazze dovuta a una vaso congestione generalizzata. Allo stesso modo, la vaso congestione localizzata nell’area genitale raggiunge in questa fase i sui limiti estremi a causa di mutamenti come la dilatazione e la colorazione delle piccole labbra e la formazione di una zona ispessita di tessuto congestionato, un fenomeno definito “piattaforma orgasmica” che circonda l’accesso e la porzione inferiore della vagina; il clitoride si ritrae in una posizione piatta.

Orgasmo

L’orgasmo è la più intensa e piacevole delle sensazioni sessuali; consiste di contrazioni ritmiche riflesse che coinvolgono i muscoli intorno alla vagina e del perineo (la zona tra la vagina e l’ano)e i tessuti inturgiditi della “piattaforma orgasmica”. Le caratteristiche dell’orgasmo sono identiche in tutte le femmine, nel senso che, il clitoride è la zona da cui partono le sensazioni che innescano le contrazioni vaginali.

Diversamente dal maschio, la femmina non è mai refrattaria all’orgasmo: una donna non soggetta ad inibizioni, dopo pochi secondi da quando ha raggiunto un orgasmo e mentre si trova ancora nella fase di eccitazione massima, può essere stimolata fino al raggiungimento di un secondo orgasmo e via di seguito, fino a quando sarà fisicamente spossata e rifiuterà nuove stimolazioni.

Fase di risoluzione

Durante la risoluzione, fase finale del ciclo sessuale, si verifica la cessazione delle reazioni fisiologiche locali specificamente sessuali e tutto il corpo ritorna al suo stato base di rilassamento.

Considerando il ciclo di risposta sessuale, i problemi sessuali che possono presentarsi sono:

– Disturbi del desiderio sessuale: si manifesta con: desiderio sessuale ipoattivo caratterizzato da scarse o assenza di fantasie sessuali e calo dell’interesse per l’attività sessuale; Disturbo da avversione sessuale caratterizzato da fobia rispetto al sesso, per cui si prova panico e repulsione in conseguenza di pensieri, sensazioni, sentimenti o situazioni di natura sessuale o erotica.

– Disturbi dell’eccitazione: si presenta con carenza di lubrificazione vaginale e vaso congestione genitale, ma può esservi eccitazione mentale dovuta a percezione piacevole della situazione; oppure diminuzione delle sensazioni mentali di eccitazione sessuale derivanti da qualsiasi tipo di stimolazione sessuale, può comunque essere presente lubrificazione vaginale e altri segni di eccitazione. La mancanza di lubrificazione può essere dovuta anche a fattori non psicologici quali: menopausa, assunzione di farmaci, malattie, interventi chirurgici.

–  Disturbi dell’orgasmo: si è in presenza di un disturbo dell’orgasmo quando è assente il soddisfacimento mentale e fisico ultimo dell’attività sessuale; quando l’intenso piacere fisico e mentale mancano insieme alle contrazioni vaginali o, richiede tempi eccessivamente lunghi. L’anorgasmia si manifesta nonostante sia presente un’adeguata eccitazione, e se ci si trova in assenza di cause mediche che possono giustificare queste difficoltà.

Esistono poi i disturbi sessuali che si verificano durante il coito e non, ossia i disturbi da dolore sessuale: vaginismo, dispareunia, vulvodinia o vestibolite vulvare.

I disturbi presenti nella sessualità femminile non si esauriscono completamente e facilmente in queste classificazioni. Esistono infatti, problemi più sottili da identificare, anche da parte delle donne stesse, ma che non di meno sono piuttosto diffusi e compromettono una piena serenità ed espressività della vita sessuale e affettiva femminile.

Alcuni tra i più rilevanti e frequenti possono essere:

– sentimenti di inadeguatezza rispetto ala femminilità e all’aspetto fisico;

– difficoltà di abbandono e nel prendere l’iniziativa

– repressione o scarsa consapevolezza dei propri desideri

– presenza di sensi di colpa inopportuni

– Disturbi della dimensione del piacere, quindi non specificamente sessuali

Molto importanti sono anche le seguenti aree problematiche:
 

– difficoltà sessuali del partner che si riflettono sulla donna e nell’armonia della coppia;

 – problemi relazionali della coppia, che si riflettono sulla vita sessuale di uno o di entrambi i membri della coppia

Conclusioni

Le problematiche sessuali femminili vanno considerate secondo una prospettiva integrata. La teoria, la ricerca e l’attività sessuale, dovrebbero essere centrarti sul significato e sulla funzione, prendendo in considerazione tanto l’aspetto biologico quanto quello psicologico. Un modello integrato si basa, sulla collaborazione tra diverse figure professionali, dove il problema fondamentale è legato alla comprensione di cosa definisca una disfunzione sessuale.

Il trattamento dei DSF non può prescindere da queste definizioni: nella valutazione clinica vanno quindi analizzate le diverse aree della vita della donna, che permettono di identificare il significato, oltre il comportamento, della difficoltà che viene presentata.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Giannantonio, M. (2014). Il piacere delle donne. Come affrontare e risolvere le problematiche sessuali ed affettive. Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. ACQUISTA ONLINE
  • Fenelli, A., Lorenzini, R.(2012). Clinica delle disfunzioni sessuali. Carocci Editore

La mia autostima: come svilupparla nei bambini? – Recensione

Francesca Soresi

 

La mia autostima di Deborah Plummer_RecensioneLa Plummer ci spiega che l’autostima è l’elemento di fondamentale importanza nella costruzione e nel mantenimento del benessere personale e non dipende dalla riuscita in sé o dall’ottenere buoni risultati, ma scaturisce dalla presenza di valore personale che consente di affrontare sia i fallimenti che i successi.

Deborah Plummer, terapista del linguaggio, nel suo libro “La mia autostima” (2002) propone un concetto di autostima formato da sette componenti.

La Plummer ci spiega che l’autostima è l’elemento di fondamentale importanza nella costruzione e nel mantenimento del benessere personale e non dipende dalla riuscita in sé o dall’ottenere buoni risultati, ma scaturisce dalla presenza di valore personale che consente di affrontare sia i fallimenti che i successi. È legata al sentirsi degni d’amore e al sentirsi capaci a prescindere dalla qualità dei risultati.

 

L’autostima si sviluppa all’inizio attraverso criteri esterni: da bambini sono le persone per noi significative (genitori, insegnanti, nonni, zii) che confermano il nostro valore personale e la nostra competenza attraverso amore e approvazione, infatti esperienze positive precoci favoriscono l’interiorizzazione di sentimenti di valore personale diminuendo via via la dipendenza da fonti esterne per il mantenimento di tale valore.

Le componenti che individua Deborah Plummer sono:

1) Conoscenza di sé: la comprensione di chi sono attraverso le differenze e le somiglianze con gli altri

2) Il sé e gli altri: si riferisce allo sviluppo dell’empatia e alla conoscenza delle relazione interpersonali

3) Accettazione di sé: essere consapevoli dei propri punti di forza e di debolezza

4) Autonomia: sapersi prendere cura di sé

5) Espressione di sé: comprendere come ciascuno di noi comunica con gli altri

6) Fiducia in se stessi: consapevolezza che ognuno di noi ha un proprio valore

7) Consapevolezza di sé: consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni

All’interno del manuale vengono proposte schede operative suddivise in otto sezioni che affrontano, con l’obiettivo di potenziarle, le sette componenti appena descritte.

Le sezioni sono legate tra loro in un percorso simbolico di ricerca di un prezioso tesoro per riempire lo scrigno di un mago, rendendo il lavoro più divertente per il bambino.

Le schede sono un ottimo punto di partenza, ma l’autrice suggerisce di aggiungere di volta in volta attività di approfondimento (ad esempio favole, disegni, giochi), inventandone anche insieme ai ragazzi, per favorire maggiormente il cambiamento.

Il manuale è rivolto a psicologi, insegnanti e genitori; inoltre recentemente è stata pubblicata anche una versione CD-ROM del manuale utilizzabile su computer Windows, con schede stampabili e animazioni.

Indicazioni per l’uso

E’ possibile lavorare in gruppo o individualmente e personalizzare la ricerca del tesoro utilizzando anche solo una parte del percorso o invertendo l’ordine delle sezioni a seconda di quello che si ritiene più utile.

Pur essendo un manuale rivolto anche ad insegnanti e genitori, ritengo che l’intervento di uno psicologo costituisca un supporto importante e indispensabile, sia nel contesto familiare che scolastico, per comprendere le difficoltà del bambino e/o della classe e di conseguenza per scegliere le schede e creare le attività di approfondimento più utili per il percorso migliore da attuare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Plummer D. (2002). La mia autostima. Attività di sviluppo personale per una buona immagine di sè. Trento, Erickson. ACQUISTA ONLINE

Cannella: può arrestare la progressione del morbo di Parkinson?

FLASH NEWS

 

 

I ricercatori della Rush University Medical Center di Chicago hanno scoperto come l’utilizzo della cannella, una spezia usata comunemente in cucina, possa invertire i cambiamenti biochimici, cellulari ed anatomici che avvengono nel cervello di topi con morbo di Parkinson (PD).

I risultati dello studio in questione sono stati recentemente pubblicati sulla rivista Journal of Neuroimmune Pharmacology.

Cos’è esattamente il morbo di Parkinson?

Parliamo di una malattia degenerativa che colpisce un’area del cervello nota come Substantia Nigra. Il nome “sostanza nera” è dovuto alla presenza, nei neuroni che compongono questa struttura, di elevate quantità di pigmento melanico, che conferisce ad essi un particolare colore scuro. La graduale degenerazione di queste cellule determina una riduzione del neurotrasmettitore Dopamina, che a sua volta, esita nei classici segni e sintomi del PD: tremori a riposo in un lato del corpo, generalizzata lentezza nei movimenti, rigidità degli arti e deficit del cammino e dell’equilibrio. La causa della malattia non è nota, sebbene siano state ipotizzate sia basi di natura ambientale che genetica.

Ma veniamo allo studio effettuato dai ricercatori della Rush University e alle parole di Kalipada Pahan, PhD e professore di neurologia alla Rush: “La cannella è usata come spezia in tutto il mondo da centinaia di anni, ma potrebbe essere uno degli approcci utilizzati nel trattamento della progressione della malattia nei pazienti affetti da Parkinson”. Continua: “La cannella è metabolizzata nel fegato in sodio benzoato, che è una sostanza usata nel trattamento dei difetti metabolici epatici associati a iperammoniemia”. La cannella cinese (Cinnamonum cassia) e quella originale di Ceylon (Cinnamonum verum) sono i due tipi maggiormente reperibili negli Stati Uniti. “Sebbene entrambi i tipi siano metabolizzati in sodio benzoato, tramite la spettrometria di massa, abbiamo osservato come la cannella di Ceylon sia più pura di quella cinese, la quale conterrebbe cumarina, una molecola epatotossica”.

Ma qual è l’effetto di questa spezia a livello cerebrale? Nei pazienti affetti da PD avviene un calo significativo di alcune proteine, quali Parkin e DJ-1. Lo studio ha dimostrato che, dopo essere stata assunta a livello orale, la cannella viene degradata in sodio benzoato, il quale entra nel cervello e blocca la perdita di Parkin e DJ-1, protegge i neuroni, normalizza i livelli di neurotrasmettitore e migliora le funzioni motorie nei topi con PD.

“Ora dobbiamo replicare tali risultati tramite test su pazienti con PD, se questo avverrà, saremo in grado di fare un grande passo avanti nel trattamento di questa devastante malattia neurodegenerativa”, afferma il Dr. Pahan.

Possiamo comprendere l’impatto di tale scoperta se pensiamo alla prevalenza di tale malattia che, solo negli Stati Uniti e nel Canada, colpisce circa 1,2 milioni di pazienti e se pensiamo che, sebbene venga considerata una malattia dell’anziano, un 15% dei pazienti riceve tale diagnosi prima dei 50 anni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Seppellitemi in cielo: suicidio, cosa ci svelano i biglietti d’addio? – Recensione

 

 

Ma che cos’è un messaggio d’addio se non, a volte, proprio il punto di partenza per cercare di dare una risposta all’interrogativo perché? Che cosa possiamo scoprire analizzando i messaggi d’addio?

C’è chi decide di andarsene in punta di piedi, tentando di non dare troppo disturbo, e chi invece con il suo gesto paralizza per ore la circolazione in città, spesso attirandosi gli insulti e i commenti cinici dei pendolari che, per colpa di quel gesto, arriveranno tardi al lavoro. Ma indipendentemente dal modo con cui si decide di porre fine alla propria vita, l’interrogativo che ci si lascia dietro è sempre lo stesso: perché? Tocca a chi rimane dare una risposta.

Quando Patrizia Mondelli, ragazza di buona famiglia, ricca e bella, viene ritrovata all’interno della sua auto morta asfissiata dal monossido di carbonio, l’ispettore Bonomi non riesce a credere che si tratti di suicidio. Perché mai una ragazza che ha avuto tutto dalla vita dovrebbe decidere di farla finita?!

Quante volte abbiamo sentito questo commento di fronte, per esempio, al suicidio di divi dello star system? Quasi che ricchezza, bellezza, fama debbano per forza rendere immuni al dolore della vita. Quante volte i nostri pazienti si sono sentiti dire da chi li circonda: “Hai avuto tutto dalla vita: salute, lavoro, famiglia… che motivo hai di essere triste?”

E proprio di fronte a questi casi “incomprensibili” – ridotti al luogo comune di “chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane” – dare una risposta al perché? diventa una necessità.

Il bel libro di Stefano Ferri, Seppellitemi in cielo, scorrevole e di veloce lettura, è un intrigante giallo anomalo, dove non è la solita caccia all’assassino a tenere inchiodato il lettore, bensì la caccia al movente, con un enigmatico biglietto d’addio come unico indizio, che riporta la frase seppellitemi in cielo. Un addio misterioso, inusuale, un rompicapo da risolvere.

Ma che cos’è un messaggio d’addio se non, a volte, proprio il punto di partenza per cercare di dare una risposta all’interrogativo perché? Che cosa possiamo scoprire analizzando i messaggi d’addio?

Nel 2011 la i2b2 ha dato vita ad un interessante progetto nel campo della elaborazione del linguaggio naturale (NLP ) a cui hanno preso parte 106 scienziati per un totale di 24 team, i cui risultati sono stati presentati a Washington DC al quinto i2b2/VA/Cincinnati Shared-Task and Workshop: Challenges in Natural Language Processing for Clinical Data (Pestian et Al., 2012a).

Il progetto consisteva nel classificare le emozioni rilevate all’interno di più di 1300 biglietti di addio raccolti tra il 1950 e il 2011 attraverso l’utilizzo e il confronto di diversi sistemi computazionali. L’importanza di questa ricerca è notevole.

Innanzitutto è stato creato un imponente database di messaggi di addio, disponibile anche per future ricerche (Pestian et Al., 2012b). Ai messaggi è stata applicata la sentiment analysis (o opinion mining), un metodo di analisi del testo che ha lo scopo di determinare l’atteggiamento, l’opinione o lo stato emotivo dello scrivente rispetto al topic contenuto; nel caso dei biglietti di addio, istruzioni (es. gestione dell’assicurazione, del funerale, del testamento), disperazione (es. insostenibilità della situazione attuale), amore, informazioni (es. sulla situazione economica o dove si trovano degli oggetti), senso di colpa (es. richiesta di perdono), accuse, gratitudine, rabbia, afflizione, speranza (es. di trovare la pace nella morte o nell’aldilà) sono le principali categorie rilevate, oltre a sentimenti di paura, orgoglio, felicità/pace e perdono.

La possibilità di identificare in maniera automatica le categorie sopra citate partendo dall’analisi strutturale e contenutistica di un messaggio ha importanti ripercussioni sia in ambito medico che in ambito legale.

In ambito medico, nei casi in cui il gesto suicidario non sia andato a buon fine e sia necessario discriminare tra mancato suicidio o tentato suicidio, la presenza di un biglietto di addio non solo può dare indicazioni sulle reali intenzioni del paziente, ma è anche fattore di rischio per un successivo tentativo di portare a termine il suicidio.

In un’ottica di prevenzione del gesto suicidario una corretta analisi dello stato emotivo del paziente è estremamente rilevante – soprattutto nei casi in cui le informazioni a disposizione del medico siano molto scarse (il paziente nega, è reticente o ambivalente) – in quanto, per esempio, stati depressivi o altri disturbi a livello emotivo possono aumentare il rischio suicidario; ecco quindi che qualsiasi strumento in grado di individuare automaticamente gli stati emotivi a partire anche da una risorsa testuale (es. un diario, un blog, etc.) ha un valore inestimabile per poter intercettare questi stati (Liakata et Al., 2012).

In ambito legale invece la possibilità di identificare caratteristiche specifiche di biglietti di addio veri che permettano di distinguerli da messaggi falsi gioca un ruolo importante nei casi in cui si debba discriminare tra un suicidio reale o un caso di omicidio in cui sia stato simulato un suicidio.

Interessante il fatto che nei compiti di discriminazione in alcuni casi gli approcci di analisi computazionale abbiano dato risultati migliori rispetto agli essere umani (Pestian et Al., 2010). Pare infatti che nella differenza tra un biglietto di addio vero e uno falso giochi un ruolo importante non tanto il contenuto, quanto la struttura del messaggio e l’analisi “umana”, a differenza dell’analisi automatizzata, tende a focalizzarsi più sul contenuto.

Nel messaggio lasciato da Patrizia Mondelli più che la struttura del messaggio (una sola proposizione con un verbo coniugato all’imperativo: un ordine o una preghiera?) colpisce il bizzarro contenuto: “seppellitemi in cielo” sembrano le assurde istruzioni da seguire come ultima volontà di una ragazza priva di senno. Le indagini dell’Ispettore Bonomi dimostreranno invece un’altra verità.

Leggendo “seppellitemi in cielo” non si può fare a meno di riflettere sulle ragioni che spingono alcune persone a compiere un gesto tanto estremo, sulle conseguenze che il suicidio ha su chi rimane e sul significato di tale gesto. L’ispettore Bonomi sostiene che “gli individui sono soliti scaricare sugli altri le responsabilità dei propri fallimenti, il suicidio è in genere un mezzo per castigare indirettamente una o più persone – genitori, parenti, amici – e costringerle a vivere il resto dei loro giorni in preda ai sensi di colpa peggiori del mondo”. Se Patrizia Mondelli sia l’eccezione alla regola dell’odio, lo scoprirete solo al termine delle indagini.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le ossessioni di Patrizia – Centro di Igiene Mentale – CIM nr.12 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #07

Le ossessioni di Patrizia

 

 

– Leggi l’introduzione –

Si soffre per qualcosa e si soffre perché ci si ritiene folli e folle il motivo per cui si soffre. Di questa categoria il miglior esempio sono gli ossessivi che, non a caso nei vangeli sono descritti come indemoniati. Non fanno clamore, non accorrono carabinieri e ambulanze, non spaventano i vicini. Se tuttavia ci si sporge al parapetto che dà sul loro animo si distingue nettamente il profilo del baratro infernale che da la vertigine alle menti più sofisticate.

Una volta era semplice. Gli psicotici sono gravi, gravissimi e praticamente incurabili, i nevrotici invece si curano. La differenza sta nell’esame di realtà e consapevolezza di malattia. Per uno psicotico due più due può fare tre o cinque o nove. Per un nevrotico invece fa quattro ma gli dà molto fastidio: così si insegnava nelle scuole di psichiatria.

La realtà, come al solito, è molto più complessa. La gravità  è concetto multiforme. E’ grave ( dal latino “pesante”) il paziente che assorbe molte risorse, fa continue richieste, mobilità continuamente il CIM ed altre istituzioni: insomma quel tipo di pazienti che si scaricano volentieri agli altri. E’ grave il paziente che ha una diagnosi  a prognosi cronica o negativa. La gravità è moltiplicata dalla carenza di risorse relazionali, culturali e, si purtroppo, anche economiche e infine dalla mancata consapevolezza di malattia che ostacola la richiesta di aiuto e la collaborazione alla terapia.

Poi c’è una gravità esprimibile in termini di sofferenza soggettiva in cui, paradossalmente, la coscienza di malattia può fare da moltiplicatore. Si soffre per qualcosa e si soffre perché ci si ritiene folli e folle il motivo per cui si soffre. Di questa categoria il miglior esempio sono gli ossessivi che, non a caso nei vangeli sono descritti come indemoniati. Non fanno clamore, non accorrono carabinieri e ambulanze, non spaventano i vicini. Se tuttavia ci si sporge al parapetto che dà sul loro animo si distingue nettamente il profilo del baratro infernale che da la vertigine alle menti più sofisticate.

Il dubbio sta lì invitante a chiamare a risolverlo. Fatto il primo passo con la bussola rivolta alla certezza assoluta la trappola scatta. Il terreno sprofonda. Il dubbio dilaga sullo stesso ragionare. Ogni sicurezza partorisce cucciolate di possibilità sconosciute. Ogni bivio si ramifica in decine di altri e la strada è perduta.

Patrizia Rufolo aveva 32 anni quando Silvia Ciari aveva bussato alla porta della sua camera e da circa due anni non usciva più di casa. La madre Maddalena aveva chiesto aiuto al CIM contro il parere del padre Rodolfo che non amava mettere in piazza gli affari della famiglia. Doveva essere stata una bella ragazza  quando tredici anni prima aveva lasciato il paese per andare a Roma all’università.

Ora l’inquietudine degli occhi catturava lo sguardo dell’interlocutore trasmettendo angoscia, smarrimento. I capelli una volta biondi e ricci circondavano ampie zone di alopecia. Un panno di adipe sotto la cute giallastra nascondeva un corpo originariamente longilineo che era stato oggetto di desideri per molti compagni del liceo scientifico di Vontano. Diplomatasi con 60/60 quando era il massimo dei voti si avventurò alla Sapienza per conquistare la laurea più prestigiosa. Sarebbe diventata dottoressa, forse pediatra, altrimenti endocrinologa. Era l’orgoglio dei genitori con il compito di riscattare una famiglia colpita dalla sorte. Il nonno paterno carcerato per contrabbando aveva spinto il padre a emigrare a Monticelli dove aveva sposato Maddalena ragazza bella ma con poco mercato perché molto chiacchierata come l’omonima del vangelo. Dopo un anno di matrimonio era nata Olimpia, una bambina down affidata a cinque anni ad un istituto di Varese. Ormai trentacinquenne era venuta a casa soltanto tre volte e costituiva un altro vergognoso segreto della famiglia.

Rodolfo lavorava all’ufficio postale, Maddalena era casalinga ed avevano il sogno di una figlia dottoressa col camice bianco all’ambulatorio sulla piazza del comune. Ora quella figlia promessa di riscatto era il loro più grande cruccio e quasi ne nascondevano l’esistenza. Il ritiro era stato progressivo, un indisposizione, troppe ore sui libri, le vecchie amicizie giudicate superficiali, il tempo trascorso in bagno per prepararsi sempre più lungo. Tre ore prima di uscire e due ore al ritorno. Ormai Patrizia usciva soltanto una volta a settimana per accompagnare la madre a portare le buste pesanti della spesa. Sulla scrivania della sua stanza il “Sobotta” di Anatomia aperto a pagina 783 da sette mesi.

Ai genitori diceva che non poteva distrarsi perché era un esame molto difficile. Quando non era in bagno impegnata in misteriose pratiche o china inconcludentemente sul Sobotta fissava il piccolo televisore Brionwega in bianco e nero regalo dei diciotto anni. Non badava a quale fosse il programma, restava incantata dalle immagini in movimento.

Alla dottoressa Filata con cui iniziò una psicoterapia confessò che il programma migliore era quello dopo l’una di notte in cui un suono costante monotono e rassicurante accompagnava uno scorrere sullo schermo di antenne e reti fin quando tutto si oscurava e quello era il segnale che poteva dormire. Non voleva che si entrasse in camera sua e la madre lo faceva di nascosto mentre lei era in bagno. Controllava il Sobotta e quel 783 ormai immobile da sette mesi era il segno della gravità che non si poteva ignorare oltre.

L’avventura romana era iniziata trionfalmente. Fisica 29, Chimica 28, Biologia 30 e statistica medica 29. Ansiosa lo era sempre stata e per timore di far tardi la mattina arrivava alla fermata dell’autobus mezz’ora prima del necessario. Non voleva perdere una lezione e raccontava affascinata di Roma e della Sapienza come una continua allegra confusione simile al giorno di carnevale a Monticelli. Per la famiglia non c’era dubbio doveva aver incontrato delle cattive compagnie. Infatti Maddalena che ogni sera passava in rassegna il contenuto della borsa di Patrizia mentre lei dormiva, aveva trovato un pacchetto di sigarette ed un accendino. Per Rodolfo era stato come trovare la figlia a prostituirsi lungo la salaria. Aveva sbriciolato tutte le sigarette nel letto di lei. L’aveva insultato definendola una ragazza facile e per una settimana gli aveva vietato di uscire e di andare all’università. Poi la mediazione di Maddalena aveva avuto successo e Patrizia era potuta tornare all’università ma non poteva fermarsi in biblioteca a studiare. I suoi orari di lezione e quelli degli autobus erano rigidamente controllati.

La ricostruzione del vissuto interiore di Patrizia di quel periodo fu  possibile solo grazie alla collaborazione tra la dottoressa Mattiacci che seguiva l’aspetto farmacologico con incontri quindicinali e la dottoressa Filata che la incontrava settimanalmente per un ora di colloquio. Fu scelto di proporre due figure di riferimento per la difficoltà di Patrizia di affidarsi ad una sola persona per il timore dell’abbandono.

Anche le ipotesi diagnostiche erano due. La Mattiacci propendeva di più per uno sviluppo paranoideo, la Filata per un grave disturbo ossessivo. Ad entrambe aveva parlato dell’evento che lei considerava scompensante ma sul significato che vi aveva attribuito le due divergevano probabilmente ognuna mettendoci del suo.

Sull’importanza di indagare non i semplici fatti ma il senso soggettivo attribuitogli Biagioli aveva ricordato alle due una sua lontana esperienza. Un signore cinquantenne aveva presentato improvvisamente un disturbo da attacchi di panico dopo la notizia che la amatissima moglie era affetta da un carcinoma intrattabile e sarebbe morta nel giro di otto mesi. Per Biagioli non c’erano dubbi, l’evento scatenante era la previsione di un distacco, una perdita. Siccome però la terapia non portava risultati Carlo tornò a ricostruire esattamente cosa avesse pensato al momento della notizia. Ebbene il candidato vedovo aveva pensato “adesso non posso più lasciarla”. Non che avesse intenzione di farlo, si amavano e non l’aveva mai tradita ma nella sua mente la porta era sempre aperta. In quel momento invece la porta si era chiusa e lui si era sentito soffocare.

L’evento riguardante Patrizia era in sé ben poca cosa. Era una mattina di pioggia ed aveva escluso l’idea di farsela a piedi come talvolta accadeva. Per riuscire a penetrare sul tram stracolmo che l’avrebbe portata al policlinico si era attaccata con la destra ad una delle colonne verticali metallica e con la sinistra aveva accolto il sostegno offertole da un giovane di colore che con muscolose braccia le aveva fatto spazio nella calca. Le era rimasto accanto quasi a proteggerla dalla massa circostante. Ad un certo punto del viaggio Patrizia aveva sentito il sesso indurito del giovane premere insistentemente sulle sue natiche e poi improvvisamente sgonfiarsi. Per la Mattiacci la descrizione era così precisa e viva che doveva già trattarsi di percezione delirante attivata dal desiderio  rimosso (si noti che Patrizia, ancora vergine, aveva un immaginazione ed una attività autoerotica floridissime).

Patrizia disgustata scese alla prima fermata e prosegui a piedi. Ricordava perfettamente i pensieri che l’avevano accompagnata fino all’istituto di Anatomia di via Borrelli dove proprio in quei giorni stava familiarizzando con i cadaveri. Pensò che poteva rimanere incinta, il padre l’avrebbe cacciata di casa e si sarebbe ucciso per la vergogna. Considerando l’ipotesi dell’aborto si fermò in una farmacia per acquistare la pillola del giorno dopo che non le diedero senza prescrizione. Il solo averlo pensato però, per l’educazione cattolica ricevuta, la collocava tra gli assassini di innocenti a braccetto con Erode.

Certamente il figlio sarebbe stato Down come la sorella per punirla. La madre non avrebbe retto a questa nuova disgrazia e sarebbe morta di crepacuore. Lei che voleva diventare medico per curare era diventata un’assassina. Anche il ragazzo di colore  sarebbe stato condannato all’inferno, quale che fosse la sua religione per aver fecondato una donna senza sposarla ed aver abbandonato il figlio. Tutto per la sua leggerezza di porgergli la mano.

La notte si interrogava se quel suo gesto fosse stato mosso dal suo costante desiderio di copula e trovava mille prove a favore ed altrettante contrarie.  Ripassava alla moviola interiore gli attimi di quella disgraziata mattina. Cosa aveva pensato quando quel ragazzo le aveva teso la mano? Il suo odore avvolgente l’aveva eccitata oppure no? Aveva fatto dei movimenti e quanto volontari che avevano provocato lo sgonfiamento improvviso di quel sesso duro puntato su di lei? Più passava il tempo e più il dubbio dilagava. Forse aveva toccata la sua gonna nel posto incriminato e, così inumidita, si era poi massaggiata la vulva nei bagni di via Borrelli? In quella mattina di temporale come distinguere con certezza assoluta la pioggia dai fluidi corporei. La prova che fosse consenziente e responsabile dell’accaduto la ritrovava ogni sera. Il rimuginio popolato di mostri che precedeva il suo addormentamento cessava solo quando si dedicava ai suoi toccamenti fino ad esplodere in un orgasmo ogni sera più totale.

Dunque mentre la dottoressa Mattiacci sosteneva che l’episodio, catalogabile come molestia o abuso aveva convinto Patrizia della pericolosità del mondo favorendo dunque un paranoico ritiro precauzionale per Maria Filata era esattamente il contrario. Patrizia si era convinta di essere spregevole, colpevole e portatrice di morte. Il suo ritiro proteggeva gli altri dal danno e lei dalla colpa. I suoi stessi massacranti rituali di lavaggio acquistavano un significato di purificazione e andavano in direzione di un grave disturbo ossessivo compulsivo. Aggiungeva inoltre che il tema dell’indegnità morale per motivi sessuali aveva riguardato come si ricorderà anche la tanto chiacchierata Maddalena. Dopo il matrimonio con Rodolfo aveva avuto anch’ella un periodo di ossessioni di pulizia e lavaggio poi scomparse con la nascita della figlia Down che aveva espiato ogni possibile precedente colpa.

A suo merito  va ricordato che la connessione tra la sintomatologia di Patrizia e tematiche sessuali fu evidenziata per prima da Silvia Ciari. Aveva notato che ogni volta che lei veniva accompagnata in auto  da Antonio Nitti (l’infermiere più bello del mondo) i tempi del bagno si dilatavano considerevolmente. Silvia Ciari non sapeva invece e non avrebbe voluto essere per Patrizia la conferma della sua dannosità per gli altri. Era stata la prima del CIM a varcare la porta della sua stanza. Sapeva che probabilmente sarebbe stato il suo ultimo caso perché entro sei mesi sarebbe andata in pensione compiendo sessanta anni con 35 di servizio sulle spalle. Avendo vissuto come una suora laica senza famiglia e dedita solo al CIM ed al partito aveva già in mente di proseguire come servizio volontario ma non sarebbe stata la stessa cosa. La luce che penetrava dalle altissime finestre gotiche della cattedrale proiettava ombre corte ai piedi dei numerosissimi presenti. Come già detto da Fabrizio De Andrè maggio con la primavera che apre alla vita non è un mese adatto alla morte ma lei sembra non curarsene. I colleghi avevano già raccolto i soldi per i regali di fine lavoro.

Non era facile però trovare qualcosa di adatto per quella donna che sembrava non avere bisogni se non quelli degli altri, che non aveva una vita propria sempre immersa nella vita degli altri. Li aveva tolti dall’imbarazzo ne avrebbero fatto una borsa di lavoro per un paziente del CIM, così avrebbe voluto Silvia. Mancavano esattamente trenta giorni alla pensione. Una gazzella dei carabinieri inseguiva una macchina rubata guidata da un rumeno che Silvia aveva aiutato ad ottenere un lavoro da garzone di macellaio. Lei andava a piedi a fare una visita domiciliare e camminava sul bordo. Pioveva forte e c’era la nebbiolina mattutina. Lui era riuscito ad evitarla per un pelo. Loro no. In cattedrale c’erano tutte le autorità del comune e della ASL  con Torre e Altamura in prima fila uniti dalle lacrime sincere per quella che era stata forse la vera fondatrice del CIM e li aveva trascinati in questa avventura. Tutti gli altri certi che Silvia non avrebbe gradito la cattedrale disertarono. 

La cerimonia laica si tenne il giorno dopo nel pomeriggio alla sezione del partito intitolata a Berlinguer. C’erano tutti. Irati in un impeccabile doppiopetto spigato da mafioso. Maria Filata, Daniela Ficca e Lina Mattiacci arrivate di corsa strette sotto lo stesso ombrello. Antonio, Marco, Giulio e Luigi, quelli di “Villa Santovino”, incapaci di soffermarsi sull’emozione si affaccendavano per la sistemazione logistica della sala. Biagioli mostrava dieci anni di più, piangeva e per la prima volta in pubblico si stringeva sottobraccio a Luisa Tigli. Era lui a dover parlare ma non ce la faceva  e lasciò il compito a Giovanni Brugnoli in quanto collega di Silvia. Non fu un elogio, non ce n’era bisogno, ma una serie di aneddoti e ricordi di vent’anni di lavoro insieme. Molti si sganasciarono dalle risate. Giò sapeva sempre trovare il lato comico delle situazioni per questo Silvia lavorava volentieri con lui e gli diceva che non sarebbe mai morto. Concluse imitando la voce gracchiante di Silvia quando diceva “ tutti boni a  parla ma a lavora chi ce mannamo? Forza ‘mpo”. Pianto e riso si mischiarono mentre i motori delle auto si accendevano e tutti tornavano ai pazienti come Silvia avrebbe voluto. 

La morte di Silvia portò un effetto positivo nella vicenda di Patrizia. La colpa che pervadeva la sua esistenza  si estese anche a questo evento. Decise di andarsi a confessare dopo mesi di assenza da ogni sacramento a motivo della sua indegnità. Il parroco conosceva un po’ la situazione perché amico della dottoressa Filata. Ascoltò tutta la sua confessione e le diede come penitenza dei comportamenti attivi a promuovere il bene piuttosto che il ritiro per prevenire altri mali. Lei ne parlò in psicoterapia. In una riunione familiare presenti Filata , Mattiacci e Giovanni che era subentrato a Silvia come assistente sociale fu proposto che Patrizia si impegnasse come volontaria nella sezione della croce rossa locale dove poteva mantenere vivi i suoi interessi per la medicina e l’aiuto degli altri in attesa di riprendere gli studi più sistematicamente.

Il lavoro psicoterapeutico si concentrò sul senso di indegnità e di colpa. Decisivo fu la normalizzazione della sessualità. Contemporaneamente anche nei colloqui psichiatrici con la dottoressa Mattiacci si puntò molto sull’emancipazione dalla famiglia , liberandosi dal senso di colpa del sopravvissuto per la malattia della sorella e dal compito di riscatto sociale della famiglia che le era stato attribuito. 

Facendo un salto in avanti nel tempo che solo le storie consentono vediamo Patrizia che abbandonata medicina si è laureata in scienze infermieristiche, lavora alla clinica privata “Misericordia Dei”, è presidente della sezione locale dell’Unitalsi ed ha una relazione lesbica stabile ma senza convivenza.

 

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIA DI ROBERTO LORENZINI

Fobie e disturbi correlati a Stress: curarli attraverso l’assunzione di L-dopa

FLASH NEWS

 

Gli studiosi del Translational Neurosciences Research Center della Johannes Gutenberg University di Mainz, Germania, hanno scoperto che un farmaco utilizzato nel trattamento del morbo di Parkinson può essere di aiuto per le persone con fobie o Disturbo Post-Traumatico da stress (PTSD).

In particolare hanno esplorato l’effetto svolto dalla psicoterapia nell’estinzione di sensazioni di paura in combinazione con l’assunzione di levodopa, o L-dopa. Questo farmaco, utilizzato come terapia d’elezione in pazienti affetti da morbo di Parkinson, non avrebbe soltanto un impatto positivo sui disordini del movimento, ma aiuterebbe anche ad ignorare i ricordi negativi.

Il Professor Raffael Kalisch, insieme a dei collaboratori dell’Università di Innsbruck, ha condotto la ricerca su topi e persone, analizzando i meccanismi psicologici e neurobiologici sottostanti ad ansia e paura. “Le reazioni di paura sono essenziali per la salute e la sopravvivenza degli individui, ma i ricordi di situazioni pericolose possono condurre ad ansia a lungo termine o a fobie”, spiega Kalisch.

In psicoterapia, in particolare nella terapia di tipo cognitivo-comportamentale, fobie e disturbi d’ansia sono trattati attraverso il metodo “dell’estinzione della paura”, una tecnica comportamentale che consiste nell’esposizione a situazione minacciose, in assenza delle conseguenze avverse prevedibili.

Tale meccanismo promuove il benessere dopo un trauma e costituisce, quindi, un importante fattore di resilienza, ovvero della capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici.

Ma in cosa consiste esattamente il metodo dell’estinzione della paura? Essa è attuata mediante la presentazione di uno stimolo neutrale, come un cerchio su di uno schermo, associato ad una sensazione di dolore. Presto il soggetto predirrà il dolore in risposta al cerchio e la paura sarà così condizionata. Poi, il cerchio verrà di nuovo presentato, questa volta senza che venga percepita la sensazione dolorosa, in modo che la persona possa dissociare i due fattori, distruggendo quindi l’associazione cerchio = dolore.

Una persona spaventata dai ragni, ad esempio, durante la psicoterapia verrà messa a confronto con la fonte della sua paura, in un modo che le permetterà di rassicurarsi sul fatto che i ragni sono in realtà innocui. Quando, invece, il meccanismo di estinzione non è in atto, le vecchie associazioni negative ritornano ogniqualvolta ci troviamo di fronte a delle circostanze stressanti. Questo accade quando sviluppiamo un PTSD, o nelle ricadute dopo una psicoterapia.

Kalisch ha scoperto come tali processi di cambiamento delle associazioni negative possano coinvolgere i sistemi cerebrali deputati alla ricompensa e al piacere, controllati dal neurotrasmettitore dopamina. In particolare, ha scoperto come L-dopa, il farmaco d’elezione nel trattamento del morbo di Parkinson, possa prevenire tale effetto e possa quindi essere utilizzato per la prevenzione delle ricadute nel trattamento di pazienti fobici o affetti da PTSD.

L-dopa è un precursore della dopamina, che una volta assunto, viene trasformato nel neurotrasmettitore, aumentandone la disponibilità a livello cerebrale e controllando non solo i centri deputati alla ricompensa e al piacere e al controllo del movimento, ma anche interessando la formazione dei ricordi.

Le persone che assumono L-dopa dopo essere state sottoposte ad estinzione, possono creare una seconda traccia mnestica positiva, relativa all’esperienza dell’estinzione, più forte della precedente, andando a rimpiazzare i ricordi negativi.

“Siamo in grado di potenziare a lungo termine gli effetti della psicoterapia combinandola con L-dopa”, afferma il Professor Kalisch. “Manipolare il sistema dopaminergico cerebrale è una strada promettente nell’incrementare strategie primarie e secondarie di prevenzione basate sulla procedura dell’estinzione”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

I Brutti Pensieri – State of Mind

Brutti Pensieri - States of Mind -  Costanza Prinetti 2014

 

 

Psicoterapia Psicodinamica: intervista con Margherita Lang – I Grandi Clinici Italiani

 

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Margherita Lang

 

 

State of Mind intervista Margherita Lang: Psicologa e Psicoterapeuta, Psicoanalista SPI e IPA. Professore Ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università di Milano-Bicocca. Socio-Fondatore di ARP (Associazione per la Ricerca in Psicologia clinica).
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Twitta che ti passa (la relazione) – Psicologia dei Social Network

 

 

Sia coppie ancora in fase di rodaggio che coppie più navigate sono suscettibili di difficoltà e problemi a causa sia delle risorse che i partner (o anche un solo partner) spendono su Twitter che dei conflitti a questo collegati. 

L’impatto che i social network hanno avuto sulla nostra vita negli ultimi anni è senza dubbio degno di nota. Sicuramente si tratta di un modo nuovo di comunicare, che ha saputo modificare il precedente e introdurre nuove modalità di scambio e nuove possibilità di tenersi in contatto nonostante la geografia e il tempo a disposizione.

Da qualche tempo la ricerca in psicologia si è interessata a questo tema, cercando di approfondire come il benessere psicologico sia influenzato dal tipo di utilizzo che si fa dei social network, fino ad arrivare a un uso estremo e patologico, caratterizzato da dipendenza (non posso più farne a meno), esclusività (tutti i miei rapporti si sviluppano in rete) e impatto negativo sul funzionamento sociale e lavorativo (non faccio più altro, o lo faccio male). Oltre a parlare di dipendenza da social network e di ricadute che questi hanno sulla produttività, si è dato ampio spazio all’influenza che i vari Twitter e Facebook hanno sulle relazioni intime.

Una recente ricerca pubblicata su Cyberpsychology, Behavior, & Social Network ha indagato quale fosse l’impatto del tempo speso su Twitter sulle relazioni intime e come questo tempo potesse in qualche modo predirne le difficoltà (rottura, infedeltà o divorzio).

Dalla sua creazione che risale al 2006, Twitter annovera oggi più di 554 milioni di utenti, con una media di 58 milioni di Tweet al giorno. Diversamente da facebook, il presupposto di Twitter sta in una minore possibilità di scambio (niente “mi piace” e possibilità ridotta di commentare), e si caratterizza per la necessità di racchiudere il “messaggio” che si vuole passare in 140 caratteri.

 

In qualche modo, Twitter si configura quindi come un social network meno interattivo, non offrendo la possibilità di interagire attraverso le chat con gli altri utenti, e richiedendo di limitare i propri post. La fruizione di Twitter, una volta creato un account, può avvenire tramite PC o in versione mobile su smartphone e similari.

Va da sé che, come accade con gli altri social network, è possibile spendere una grande quantità di tempo sia a leggere quello che altre persone condividono nella rete, che a produrre a nostra volta materiale che si vuole rendere pubblico, in tutti i luoghi e in tutte le situazioni.

Russell Clayton della Università del Missouri-Columbia ha indagato come l’utilizzo di Twitter può influenzare l’andamento delle relazioni intime. Lo studio è stato condotto su 514 utenti Twitter (per il 63% di sesso femminile) e evidenzia come il tempo di utilizzo di Twitter (valutato in numero di login al giorno e tempo medio speso per ogni sessione) e i conflitti di coppia (litigi, gelosie, malumori) che emergono a seguito del social network possono predire gli esiti infausti della relazione (rotture, divorzi o tradimenti) e che questa relazione non è influenzata dalla durata della storia.

In altre parole, sia coppie ancora in fase di rodaggio che coppie più navigate sono suscettibili di difficoltà e problemi a causa sia delle risorse che i partner (o anche un solo partner) spendono su Twitter che dei conflitti a questo collegati.

Risultato interessante, anche alla luce di precedenti studi dello stesso autore (Clayton et al., 2013) che hanno invece dimostrato come, analizzando le stesse variabili rispetto all’uso di facebook, le relazioni meno consolidate (di 3 anni o meno) fossero più a rischio rispetto a quelle consolidate. In questo caso, invece, il tempo di “resistenza” della coppia non riesce a tutelare i partner dall’effetto nocivo che può avere l’utilizzo di Twitter.

Quindi amici stiamo attenti al fascino misterioso dei social network, e ricordiamoci che le relazioni sociali più importanti rimangono quelle spese faccia a faccia, in cui il non verbale viene espresso al di là del contributo delle faccette.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Feedback facciale: muovere i muscoli coinvolti nel sorriso ci rende più felici

FLASH NEWS

 

Recenti studi hanno ripreso le teorie del feedback facciale e hanno dimostrato che il semplice fatto di muovere i muscoli solitamente coinvolti nel sorriso in qualche misura manderebbe al cervello segnali tali per cui ci si sentirebbe poi lievemente più felici e meno stressati.

Dalle fila dell’embodied cognition si è sempre più sottolineato l’aspetto dello stretto legame tra mente-corpo, tra corpo-cognizione e il ruolo dei feedback che dal corpo ritornano alla mente in un intreccio di influenze e interdipendenze reciproche (Barsalou, 2008).

Recenti studi hanno ripreso la più datata via delle teorie del feedback facciale e hanno dimostrato che il semplice fatto di muovere i muscoli solitamente coinvolti nel sorriso (in particolare il sorriso non-Duchenne, cioè quelli legati alla bocca e alle guance) in qualche misura manderebbe al cervello segnali tali per cui ci si sentirebbe poi lievemente più felici e meno stressati.

In un classico e famoso esperimento ai partecipanti veniva chiesto di tenere un bastoncino tra i denti (imponendo dunque il movimento dei muscoli attorno alla bocca in forma di sorriso): rispetto ai soggetti di controllo, i partecipanti in questa condizione reggevano meglio lo stress durante uno specifico task sperimentale stressante. Cosi come, in un altro studio simile, soggetti che riproducevano i movimenti muscolari del sorriso tenendo una penna tra i denti valutavano come più divertenti la visione di alcuni cartoni animati.

Spostandosi dalle espressioni facciali agli aspetti gestuali e posturali, anche tenere specifiche posture può regalarci una sensazione di forza e di self-efficacy. Ad esempio, alcune ricerche suggeriscono che assumere una postura che implica l’apertura delle braccia e il mantenimento di una posizione corporea eretta e aperta, può favorire sensazioni di forza, energia e portare le persone ad assumere più rischi durante i processi decisionali.

In particolare in uno studio del 2010 (Carney, Cuddy, & Yap, 2010) alcuni soggetti hanno mantenuto per alcuni minuti una postura seduta eretta con mani dietro la nuca oppure con braccia aperte sulla scrivania (high-power postures), mentre altri tenevano le mani tra le cosce accavallate (low-power postures): non soltanto i soggetti nella condizioni high-power postures riportavano una maggiore sensazione di forza ed energia, ma si sono rilevate differenze significative anche chimicamente nei livelli ormonali, con aumenti del testosterone e diminuzione del cortisolo rispetto ai soggetti che avevano assunto posture low-power.

Dunque, a livello applicativo possono essere mutuate delle modalità esperienziali che sfruttino tale via retroattiva dal corpo alla mente per favorire la regolazione delle emozioni e la gestione dello stress.

 

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License: Creative Commons – Translated by Anna Cristiana MinoliReviewed by Alessandra Agliata

 

BIOGRAFIA: 

  • Anolli, L. (2002). Le emozioni. Milano, Unicopli. ACQUISTA
  • Barsalou LW. Grounded cognition. Annual Review of Psychology. 2008;59:617-645.
  • Carney, D., Cuddy, A. J. C., & Yap, A. (2010). Power posing: Brief nonverbal displays affect neuroendocrine levels and risk tolerance. Psychological Science, 21, 1363-1368 DOWNLOAD

RISORSE:

 

Ipotesi di complotto (Conspiracy Theory) (1997) – Cinema & Psicoterapia #26

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #26

Ipotesi di complotto (1997)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

ipotesi di complotto (1997) - cinema e psicologiaIl film invita a non fermarsi alle semplici apparenze degli eventi, certo, ma propone un tema tra il serio e il faceto molto interessante per gli addetti ai lavori: qual è il discrimine tra normalità e patologia, tra real­tà e delirio?

Info:

Diretto da Richard Donner e interpretato da Mel Gibson e Julia Roberts. USA, 1997. Giallo.

Trama:

Jerry Fletcher è un tassista paranoico che ogni giorno subissa i suoi passeggeri di teorie cospirative. Vive tra la sua casa-bunker, il taxi e il Dipartimento di Giustizia dove periodicamente espone le sue ipotesi di complotto. Alice Sutton collaboratrice del procuratore accoglie periodi­camente le elucubrazioni senza dargli molto peso, finché non si rende conto che il Dr. Jonas si presenta in ospedale in qualità di medico della CIA per assassinarlo.

Jerry e Alice riescono a fuggire e il tassista spiega alla collaboratrice del procuratore perché è inseguito dalla CIA di cui faceva parte come killer programmato. Seguono una serie di pericolose vicende al termine delle quali i due riescono a smascherare il complot­to, con tanto di sparatoria finale in cui Jonas muore.

Motivi di interesse:

 

Il film invita a non fermarsi alle semplici apparenze degli eventi, certo, ma propone un tema tra il serio e il faceto molto interessante per gli addetti ai lavori: qual è il discrimine tra normalità e patologia, tra real­tà e delirio?

Molti pazienti paranoici riescono ad essere credibili agli occhi di avvocati, custodi dell’ordine e qualche volta anche psichiatri e psicologi. Spesso riescono a costruire e proporre storie che possono apparire verosimili.

Nella scena iniziale del film la diffidenza, la sospettosità e la descri­zione delle intenzioni malevole degli altri che prendono spunto dalla cronaca e dai fatti riportati dalla stampa pennellano il disturbo paranoi­de del protagonista del film. L’aspetto interessante è relativo allo svi­luppo della trama che conferma l’ipotesi di complotto avanzata da Jerry.

I paranoici basano i loro deliri o la loro sospettosità e diffidenza par­tendo da dati di realtà e non certo su fantasiose interpretazioni. Naturalmente i dati vengono organizzati in modo deformato, distorto e soprattutto in maniera così rigida da resistere a qualsiasi disconferma.

Nella narrazione del film il complotto è reale, ma è altrettanto reale il distur­bo del protagonista. La sua paranoia è la risposta traumatica di un uomo qualunque manipolato dalle logiche della paura e dal regime del con­trollo che si è trovato a vivere un’esperienza, quella dell’uccisione del padre, in uno stato di coscienza alterato prodotto artificiosamente dagli agenti della CIA, che non poteva certo essere elaborata.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il film può essere utilizzato a fini didattici, se ne sconsiglia l’uso con pazienti affetti da disturbo delirante, schizofrenia paranoidea e disturbo di personalità paranoide.

Trailer:

 

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

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Arancia Meccanica (1971) – Cinema & Psicoterapia n° 23

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE
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