expand_lessAPRI WIDGET

Il semplice fascino della vita quotidiana: La percezione antropologica del tempo

 

 

Abstract

Una peculiarità dell’essere umano è quella di progettare il proprio tempo, ovvero di canalizzarlo in morfologie che mortificano il libero accadere degli eventi, perdendo in questa maniera le piccole e piacevoli sorprese che la vita elargisce quando si abbandonano le riserve e si segue il naturale corso degli avvenimenti.

La categorizzazione del tempo e l’instradarlo su percorsi prestabiliti sono modi per fugare la sensazione della transitorietà della vita e per costruire mentalmente il concetto di felicità in un immaginario futuro. Il benessere passa attraverso una percezione differente della dimensione temporale, ossia come un tempo in cui il vivere prevale sul pianificare.

La prospettiva temporale

Che la vita la si veda sempre dalla stessa prospettiva non è un mistero, anche se il rendersi conto del disagio che procura l’usare la stessa chiave di lettura dovrebbe indurre al cambiamento, ma si sa come Canetti, citato in Roncoroni (1989, pag.375), ci ricorda “…Si faccia avanti chi ha imparato dalle esperienze…” .

Quello che stupisce, fra le altre cose, è l’eterna autoaccusa verso la determinazione degli accadimenti che il ciclo di vita ci prospetta quando non rientrano nella progettualità da noi codificata. La Dickinson (1997, pag. 841) ci fornisce un ottimo esempio di tale procedura cognitiva: “Nella mia stima cadde così in basso / lo udì toccare terra / e sulle pietre frantumarsi poi / proprio sul fondo della mia coscienza / Il fato biasimai che lo lanciò / ma ancor di più rimproverai me stessa / d’aver tenuto ninnoli placcati / sulla mensola dell’argento.”

Sovente, come la poetessa fa, siamo portati a darci le colpe per non aver visto giusto o per non aver predisposto la nostra esistenza nel modo migliore e, quindi, per questa ragione consideriamo le nostre valutazioni delle contestualità di vita come poco veritiere.

Di fronte ad un insuccesso siamo portati ad accusarci per quello che è avvenuto, dimenticando che, nel caleidoscopico mulinare delle vicende, il nostro ruolo è sempre minuscolo nel determinare il corso degli eventi.

In questa ideologia dell’assunzione di responsabilità, in rapporto ad una progettualità che struttura il nostro ciclo vitale, dimentichiamo la saggezza latina che ribadiva “…il fato conduce dolcemente chi lo segue e trascina chi gli resiste” (Watzlawick, 1987, pag. 14).

Appena ci alziamo al mattino, il primo pensiero che percorre la nostra mente è la progettazione della quotidianità, ignorando che la migliore prospettiva è quella di pensare a ciò che il nuovo giorno può fare per noi, ovvero come si possa godere della nuova giornata, dei regali che ci fa, delle sorprese piacevoli che ci riserva.

 

Sembrerebbe all’apparenza una prospettiva semplice da considerare, ma risulta di difficile applicazione nella vita quotidiana, tant’è che von Hofmannsthal asserisce “…L’uomo comprende tutto, salvo ciò che è semplice” (Roncoroni, op. cit., pag.312).

Non amiamo le sorprese, meno che mai l’imprevedibile, e per questa ragione, in una forma di congelamento empirico dell’imponderabile, rendiamo banale quello che in realtà non lo è, ovvero il magnifico atto di esistere e il confrontarsi con lo scorrere della vita. Dimentichiamo, in questa prospettiva, come Wittgenstein (citato in Roncoroni, op. cit., pag. 345) ci rammenta, che “chi è in anticipo…sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto”. Perdiamo, in questa maniera, la ricchezza del divenire della vita.

In altri termini, siamo completamente presi dalla smania di fare progetti ed in ultimo forse saremo costretti a dire come il poeta Zanzotto “…a che valse l’attesa del gioco?” ( 2011, pag. 1156). La vita è fatta frequentemente da una serie di circostanze che determinano il corso della temporalità, in altre parole come Wittgenstein, citato in Tempini (1976, pag. 26 – 28) afferma “…il mondo è tutto ciò che accade… Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”.

Cambiare prospettiva

Per cambiare prospettiva, spesso, è sufficiente ritornare indietro con la mente, ad un periodo della vita, come l’infanzia per esempio, nella quale l’incertezza è egemone, per rammentare quanta felicità concede l’imprevedibilità e l’avventura.

Nella vita adulta il divenire è ipotecato e incanalato nelle progettualità senza fine che si estrinsecano in piani giornalieri, settimanali, mensili, annuali e pluriennali, nei quali il vivere cristallizzato in morfologie preordinate diviene il dato saliente dell’esistenza, ridotta a mera alienazione temporale, in cui il costrutto di tempo viene traslato dal suo significato più profondo per divenire una categoria concettuale in grado di essere usata per lenire le paure.

In pratica, come afferma la Hammond (2013, pag. 9) “…A detta dei fisici, la normale scansione del tempo in passato, presente e futuro è imprecisa. Il tempo non trascorre; il tempo, semplicemente, è”. D’altra parte a questa constatazione era già giunto Sant’Agostino, che nelle sue Confessioni (2014, Libro XI, 20.26, pag. 13) ribadisce “…È inesatto dire che i tempi sono tre: presente, passato e futuro. Forse sarebbe esatto dire… presente del passato, presente del presente, presente del futuro”.

In un’ottica costruttivista e antropocentrica pensiamo di edificare la nostra vita come se fosse un’architettura che si palesa e si concretizza nel culto del futuro progettato. Percepiamo il presente in qualità di rifiuto obsoleto che richiede di essere eliminato e rimosso dalla nostra portata.

 

Nel frattempo passano i giorni, le settimane e i mesi e la nostra mente ha la sensazione del tempo trascorso nell’epistemologia della progettualità, che diviene un modo per perdere quel fascino sublime e semplice che la vita ci regala, ossia il suo crearsi attimo per attimo.

Il programmare il futuro allontana dai rivoli della mente la finitudine del ciclo vitale. In altre parole, è un modo per esorcizzare la paura della morte in una faticosa e inutile rincorsa della felicità dove essa non è, ovvero nella dimensione futura.

A questo riguardo magistralmente Flaiano, citato in Giardina (1999, pag. n.n.), osserva “…l’uomo è felice solo quando si distrae dal pensiero della morte facendo cose inutili…”. E la morte che ci tormenta altro non è che l’annientamento della sensibilità, come Epicuro (Paini, 2006, pag. 33) ci avverte “…Niente è la morte per noi: infatti tutto ciò che si è dissolto non è più dotato di sensibilità, e ciò che non è più sensibile è niente per noi…”.

La rincorsa della felicità e il suo trovarla in una dimensione futuribile è un’altra menzogna che ci raccontiamo “…Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità…” (Watzlawick, op. cit., pag. 8).

Molti di noi convivono, quindi, con l’irritante pensiero della ricerca della felicità e con il debellare la paura della morte, ignorando le parole di Seneca che nella sua La vita felice ci ricorda che “…ne consegue una costante serenità, libertà una volta scacciati i motivi che ci irritano o ci spaventano…” (Ghiselli, 2006, pag. 8).

Alla luce di ciò tutta la quotidianità con i suoi rituali diventa un tempo perso che ci sottrae all’etica del progettare, del prospettare il futuro, tralasciando il presente che sprechiamo come una risorsa – non risorsa di cui non sappiamo che farne. A tal proposito Cicerone ribadisce “… se ne vanno le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non torna più il tempo passato ed è impossibile conoscere ciò che verrà dopo…” (Paggetti, 2006, pag. 59).

In altre parole, è necessario riscoprire il tempo in una dimensione nuova, ovvero come afferma la Hammond (op. cit., pag. 13) “…Il tempo può essere un amico…così come può essere un nemico. Il trucco è controllarlo…Il tempo è al centro della nostra maniera non solo di organizzarci la vita, ma di vivere la vita…”.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Chi ha spostato il mio formaggio? Cambiare se stessi in un mondo che cambia – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dickinson, E. (1997). Tutte le poesie (S. Raffo trad.). Milano: Mondadori.
  • Ghiselli, G. (a cura di) (2006). La vita felice – Seneca. Santarcangelo di Romagna (RN): Rusconi Libri.
  • Giardina, A. (a cura di) (1999). Il piccolo libro della felicità. Milano: Baldini & Castoldi.
  • Hammond, C. (2013). Il mistero della percezione del tempo. (A. Montrucchio trad.) . Torino: Einaudi.
  • Paggetti, N. (a cura di) (2006). Il senso della vita – Cicerone. Santarcangelo di Romagna (RN): Rusconi Libri.
  • Paini, D. (a cura di) (2006). La felicità e il piacere – Epicuro. Santarcangelo di Romagna (RN): Rusconi Libri.
  • Roncoroni, F. (1989). Il libro degli aforismi. Milano: Mondadori.
  • Sant’Agostino (2014). Le confessioni: Libro XI. Monastero Virtuale. 
  •  Tempini N. (a cura di) (1976). Neoempirismo logico semiotica e filosofia analitica. Brescia: La Scuola Editrice.
  • Watzlawick, P. (1987). Istruzioni per rendersi infelici (F. Fusaro trad.). Milano: Feltrinelli.
  • Zanzotto, A. (2011). Tutte le poesie – Versi giovanili (1938 – 1942). Milano: Mondadori. ACQUISTA ONLINE

La violenza sulle donne & il senso di inferiorità degli uomini

FLASH NEWS

 

L’aggressività maschile nei confronti delle donne può essere in parte spiegata anche da emozioni di vergogna e sensazioni di inferiorità – in particolare rispetto alla propria identità maschile.

Già precedenti studi hanno dimostrato che uomini cui veniva detto che avevano avuto performance scarse in un dato compito erano più propensi a somministrare cariche elettriche alle donne che li avevano criticati, cosi come in un’altra ricerca uomini la cui mascolinità veniva messa in dubbio tendevano a importunare le ragazze inviando loro foto pornografiche.

Ora alcuni autori hanno dimostrato che il legame tra minaccia della propria mascolinità e aggressività nei confronti delle donne sarebbe ancora più forte in soggetti con una cronica sensazione di inferiorità e vergogna per il proprio corpo.

Un primo studio ha coinvolto 127 studenti maschi eterosessuali, che hanno compilato una serie di questionari self-report e cui veniva chiesto di inviare una loro fotografia che sarebbe stata inviata a una attraente futura compagna di lavoro su un progetto fittizio. Alla metà del campione è stato quindi comunicato che la ragazza in questione aveva deciso di non collaborare con loro poiché non li considerava attraenti. All’altra metà del campione è stata comunicata l’esclusione dallo studio a causa di un malfunzionamento del sistema informatico (gruppo di controllo).

In seguito,i soggetti hanno risposto a una serie di self report in cui venivano indagate le loro emozioni (tristezza, rabbia, vergogna) in relazione all’evento emotigeno, la sensazione di vergogna corporea e la rape proclivity, e cioè una misura del probabile desiderio e impulso a commettere forme di aggressione sessuale (se avessero avuto la certezza di non essere scoperti e puniti).

In particolare è emerso che erano proprio gli uomini con una maggiore quota di vergogna corporea Mi vergogno delle dimensioni e della forma del mio sedere a riferire una maggiore tendenza sessuale aggressiva a seguito di un rifiuto sentimentale. Uomini particolarmente feriti dai no, per cui un rifiuto implica un vissuto di indegnità e di vergogna e una conseguente tendenza all’agito aggressivo.

Lo studio non si addentra nelle radici e nelle origini dei temi di inferiorità e di vergogna corporea (che attenzione si possono celare anche dietro apparenze di machismo), da demandare all’approfondimento di ciascun caso e ad altri contributi empirici, ma evidenzia la vergogna corporea tra i fattori di rischio per l’attuazione di comportamenti sessualmente aggressivi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

Oltre la Violenza: nasce a Napoli il primo sportello del Sud Italia per uomini violenti

 

BIOGRAFIA:

 

 

Sotto il segno della Bilancia: che cosa significa essere obesi? – Recensione

De Nunzio, o come meglio lo conosciamo “Il buon Fabio”, racconta la storia della sua vita dalla nascita ai successi di Striscia la Notizia, ma lo fa andando a braccetto con la compagna fedele che mai lo ha abbandonato negli anni … la sua obesità.

Un libro di Fabio De Nunzio? Chi … l’inviato di Striscia la Notizia che non parla mai? Che cosa avrà da dire?

Ebbene, il libro “Sotto il segno della bilancia; Aliberti editore” scritto con l’aiuto di Vittorio Graziosi parla delle difficoltà che incontrano le persone con obesità, a causa della loro condizione, nella vita di tutti i giorni.

Che cosa significa per un obeso salire su un autobus affollato, prendere posto in aereo o al cinema, entrare in un negozio di abbigliamento?

Queste sono le prime righe che incontriamo nel libro e che offrono una sintesi del messaggio che i due autori vogliono darci.

De Nunzio, o come meglio lo conosciamo “Il buon Fabio”, racconta la storia della sua vita dalla nascita ai successi di Striscia la Notizia, ma lo fa andando a braccetto con la compagna fedele che mai lo ha abbandonato negli anni … la sua obesità.

L’obesità non solamente vista come minaccia al benessere fisico, ma anche come condanna sociale da parte di un mondo spesso disegnato solo per le persone filiformi.

Ecco allora come normali gesti della vita quotidiana possono diventare situazioni difficili e imbarazzanti dove spesso invece di essere capito ti senti sguardi di rimprovero addosso.

Perché segnalare questo libro? Perché quando si lavora con il paziente affetto da obesità è importante conoscere anche questi aspetti della malattia e come possono interferire con la cura e motivazione e gestione nel lungo termine.

Fabio finalmente fa sentire la sua voce e lo fa toccando aspetti dell’obesità spesso taciuti e poco conosciuti, ma che contribuiscono a mantenere e diffondere quella che è definita un’emergenza a livello mondiale.

L’obesità viene troppo spesso considerata una colpa della persona che se mangiasse di meno e si muovesse di più risolverebbe il suo problema.

La verità purtroppo è ben diversa e questo libro ce ne mostra una parte. Oltre alla testimonianza dell’inviato di Striscia, che rappresenta il cuore del libro, spazio è dato anche a testimonianze di persone comuni oltre a brevi interventi di diverse figure mediche, consulenti d’immagine e rappresentanti di associazioni di pazienti.

Il testo è una lettura per tutti; per i terapeuti è un modo per entrare più in profondità nei vissuti delle persone con obesità che chiedono aiuto; per i pazienti che possono sentirsi capiti e riconosciuta la loro condizione come una malattia e non come colpa; per il grande pubblico che con questo testo può vedere l’obesità da un’angolazione meno stigmatizzata e stereotipata, ma reale.

Un libro che insegna a combattere l’obesità e non le persone obese.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Obesità e stigmatizzazione nelle pubblicità sociali – Psicologia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ruminazione e Perfezionismo nell’alchimia della Depressione

 

 

Molte ricerche hanno mostrato che la predisposizione al perfezionismo è un fattore di rischio per lo sviluppo di sintomi depressivi. Il perfezionismo è caratterizzato dalla tendenza a definire standard personali molto elevati e dal timore di commettere errori (Frost et al., 1990).

Parallelamente sappiamo che la tendenza alla ruminazione mentale rappresenta un processo chiave nei disturbi depressivi (Caselli et al., in press). La ruminazione mentale è definita come la continua e ripetitiva analisi delle cause e delle conseguenze dei propri problemi e del proprio malessere (es: perché mi capita? Perché reagisco sempre in questo modo).

Uno studio recente ha tentato di esplorare come questi due costrutti interagiscono tra loro nel favorire lo sviluppo della depressione (Olson & Kwon, 2008). I risultati evidenziano che (1) il timore degli errori sembra l’aspetto più dannoso della predisposizione al perfezionismo, (2) la presenza di obiettivi elevati rappresenta un fattore di rischio solo se divengono oggetto di ruminazione. Persone che hanno alti standard ma che non ruminano sul loro mancato raggiungimento non sembrano essere particolarmente vulnerabili alla depressione. In sintesi è la combinazione di obiettivi perfezionistici e di ruminazione mentale ad essere particolarmente dannosa.

La traiettoria della terapia cognitiva della depressione, in simili condizioni, non dovrà tanto puntare alla costruzione di obiettivi più moderati ma alla riduzione della ruminazione e dell’autocriticismo che possono innescarsi quando questi obiettivi non vengono raggiunti così come li si desiderava.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il perfezionismo e la chimera del genitore perfetto

 

BIBLIOGRAFIA:

Ricerca strategica e abituale di sostanze stupefacenti: cosa cambia a livello cerebrale

FLASH NEWS

 

L’addiction  – in specifico della cocaina- può essere caratterizzata dalla transizione attraverso diversi pattern comportamentali: da una modalità di ricerca della sostanza strategica a un pattern di ricerca abituale. La transizione da una modalità all’ altra è associata a cambiamenti cerebrali a carico del sistema dopaminergico.

L’addiction in generale -e in specifico della cocaina- può essere caratterizzata dalla transizione attraverso diversi pattern comportamentali: da una modalità di ricerca della sostanza (drug-seeking) strategica (ad esempio, in cui vi è un processo decisionale abbastanza veloce in cui si decide di ricercare una sostanza per ottenere un effetto desiderato) a un pattern di ricerca abituale della sostanza (ad esempio, dove il comportamento di uso è sensibile ai trigger di disponibilità della sostanza in specifici contesti d’uso).

La transizione da una modalità all’ altra è associata a cambiamenti cerebrali a carico del sistema dopaminergico: in relazione al primo pattern di drug-seeking strategico sarebbe coinvolta la regione ventrale inferiore dello striato deputata al meccanismo psicologico del rinforzo, mentre in occorrenza del pattern di ricerca abituale sarebbe maggiormente coinvolta la parte superiore dorsolaterale implicata nel mantenimento delle abitudini.

In un recente articolo pubblicato su Biological Psychiatry i ricercatori si sono concentrati sulla farmacoterapia in relazione a queste fasi focalizzandosi sulla sensibilità al blocco dei recettori della dopamina e sul ruolo che l’impulsività gioca in questi processi e pattern comportamentali.

I ricercatori hanno somministrato una sostanza in grado di bloccare i recettori della dopamina (α-flupenthixol) direttamente nell’area cerebrale dello striato dorsolaterale superiore in topi che si trovavano in diverse fasi di addiction: anzittutto hanno scoperto che i topi migravano dall’insensibilità alla sensibilità agli effetti inibitori del farmaco sul comportamento di ricerca della cocaina, ma che tale transizione era anche influenzata dai livelli di impulsività dei topi.

In particolare, gli animali che si trovavano in una fase di inziale di dipendenza e di drug-seeking si dimostravano insensibili all’effetto del farmaco bloccante i recettori della dopamina, mentre tale farmaco (citarlo) risultava efficace nel sopprimere la ricerca di cocaina in animali che presentavano una più lunga storia di uso auto-somministrato e dunque pattern di drug-seeking abituale.

Inoltre, i livelli di impulsività sembrano moderare la velocità di transizione attraverso le diverse fasi: animali più impulsivi soffrirebbero di un passaggio più lento da drug-seeking strategico a drug-seeking abituale – e quindi dall’insenbilità alla sensibilità al farmaco – rispetto ai topi con minori livelli di impulsività.

Quindi i risultati dimostrano che anche se sia ratti impulsivi che non impulsivi sviluppano parttern di ricerca abituale della cocaina, lo fanno con velocità differente: i topi impulsivi vi arrivano con tempi più dilatati.

Lo studio, mettendo in luce le specificità dei meccanismi cerebrali attivati a diverse fasi dei pattern di addiction, potrà consentire dunque di studiare e testare interventi farmacoterapici modulati su tali aspetti differenziali in termini di comportamenti d’uso.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Dipendenza da sostanze e neuroscienze: scoperto un gene coinvolto nello sviluppo della dipendenza

 

BIOGRAFIA: 

  • Murray, J. E., Dilleen, R., Pelloux, Y., Economidou, D., Dalley, J. W., Belin, D., Everitt, B.J. (2014). Increased Impulsivity Retards the Transition to Dorsolateral Striatal Dopamine Control of Cocaine Seeking. Biological Psychiatry, 2014; 76 (1): 15 DOI: 10.1016/j.biopsych.2013.09.011 DOWNLOAD

Sindrome da rientro: come evitarla. Consigli utili dall’Ordine degli Psicologi

COMUNICATO STAMPA dell’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia

 

Sindrome da rientro, come evitarla prima ancora di partire per le vacanze

I consigli dell’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia

È un disturbo che colpisce una persona su dieci. Gli psicologi: «Serve lavorare per obiettivi e ricavarsi brevi momenti di stacco»

 

Sindrome da rientro - Fotolia_50642010 - 300pxIrritabilità, calo di attenzione, mal di testa, difficile digestione della quotidianità e un generico senso di stordimento. Sono i sintomi che colpiscono circa una persona su dieci al rientro dalle vacanze. «La cosiddetta “post vacation syndrome” presenta questi sintomi. Prevenirla è però possibile con dei semplici accorgimenti», premettono Giandomenico Bagatin ed Erica Cossettini psicologi psicoterapeuti e consiglieri dell’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia. Tre suggerimenti: «Chiudere gli affari irrisolti, ricavarsi dei momenti di pausa anche brevi durante l’anno e imparare a gestire gli obiettivi. Non missioni impossibili, ma semplicemente degli accorgimenti importanti perché molto dipende dalla nostra mente».

Prima di tutto però occorre sfatare un luogo comune. Precisa Bagatin: «La maggior parte delle persone è prigioniera di un pregiudizio, cioè che il riposo e il relax ricarichino le batterie mentali. In realtà, non è così. Per la maggior parte di noi, il lungo riposo estivo acuisce invece i sintomi da stress non appena si rientra alla vita di tutti i giorni». Per recuperare energie occorre invece «imparare a chiudere gli affari irrisolti perché la benzina mentale viene consumata nel tentativo di raggiungere obiettivi siano questi importanti (come grandi obiettivi lavorativi o affettivi, più o meno consapevoli) oppure meno (come mettere a posto finalmente la cantina). Ogni obiettivo consuma energia mentale, anche in ferie. Ma quando viene raggiunto pienamente, come per magia la mente si ricarica. È esperienza di tutti che dopo una grande soddisfazione, anche se fino a un attimo prima si era stanchi, ci si sente invece energici e propositivi».

«Nel nostro vivere quotidiano -prosegue Cossettini- è anche importante ritrovare una naturale capacità ad allentare: ciò non significa trovarsi uno spazio di stacco lungo e totale, come una notte di sonno o una vacanza esotica, ma rappresenta momenti indispensabili nell’arco della giornata che ci permettono di ricaricarci, di ritrovare energia, di stare piacevolmente a goderci ambienti e pause ristoratori, anche se non ci sembrano necessariamente importanti. Vacanze, sonno, sport possono aiutare (e non sempre) l’allentamento, ma sono un’altra cosa. Dobbiamo crearci pause di morbidezza piacevoli, ristoratrici, quando ne sentiamo il bisogno e non è necessario che siano pause lunghe: sono momenti importanti prima di ricondurci a nuove tensioni e nuovi momenti di vigilanza».

Per evitare quindi la “sindrome da rientro”, il contributo della psicologia può essere fondamentale.  Concludono gli specialisti: «Per imparare ad allentare durante tutto l’anno con efficacia è possibile intervenire con tecniche e percorsi di rilassamento e concentrazione; per la gestione e la realizzazione degli obiettivi esistono invece le procedure e i percorsi di time management (gestione del tempo), per organizzare le priorità, essere efficaci, risparmiare e spendere bene le energie, e nutrire il nostro cuore attraverso le grandi e piccole esperienze positive. Questi strumenti possono cambiare completamente la percezione e il livello dello stress durante l’anno e rendere nel contempo molto più appagante e durevole il periodo di riposo estivo».

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Post-vacation blues, la sindrome da rientro al lavoro

 

 

L’Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia è stato fondato nel 1992 e oggi conta più di 1.800 iscritti. L’organigramma per il quadriennio 2014-2017 risulta così composto: presidente Roberto Calvani; vicepresidente Leila Rumiato; segretario Simona Mreule; tesoriere Evgenia Gasteratou; consiglieri: Giandomenico Bagatin, Fabio Barban, Antonella Besa, Margherita Bottino, Erica Cossettini, Nerina Fabbro, Maria Fiorini, Denis Magro, Corinna Michielin, Giovanni Ottoboni, Erika Celotti. www.psicologi.fvg.it

Ricatto emotivo: l’arma per controllare una persona cara?

 

 

 

Immagine: Fotolia 50996088 ricatto emotivoSi tratta di una potente forma di manipolazione in cui una persona a noi vicina minaccia, in modo diretto o indiretto, di punirci se dovessimo disattendere le sue aspettative. In genere questo tipo di ricatto è messo in atto proprio dalle persone con cui si hanno relazioni strette, persone alle quali si è legati e che vogliono ottenere da noi qualcosa che non rispecchia le nostre esigenze.

Instaurare relazioni interpersonali soddisfacenti contribuisce, sicuramente, al nostro benessere ed è quindi comprensibile che si cerchi di fare il possibile per mantenerle salde nel tempo.

Tuttavia le relazioni interpersonali, a volte, sono accompagnate da aspetti non immediatamente riconoscibili, che condizionano il nostro agire, la nostra libertà, il nostro stato d’animo e in definitiva il nostro benessere. Tra questi, un aspetto fondamentale è il ricatto morale.

Si tratta di una potente forma di manipolazione in cui una persona a noi vicina minaccia, in modo diretto o indiretto, di punirci se dovessimo disattendere le sue aspettative. In genere questo tipo di ricatto è messo in atto proprio dalle persone con cui si hanno relazioni strette, persone alle quali si è legati e che vogliono ottenere da noi qualcosa che non rispecchia le nostre esigenze. Il ricattatore è una persona che conosce molto bene come siamo fatti, non per niente è sempre una figura alla quale siamo legati affettivamente, e che sa perfettamente quali sono le nostre debolezze al punto da far leva su queste per poi fiaccarle totalmente. Infine, insinua in noi il senso di colpa, facendoci sentire responsabili per il suo malessere quando disattendiamo le attese.

Nel suo libro Emotional Blackmail (ricatto emozionale), Susan Forward sostiene che in qualsiasi modo venga espresso il ricatto, il messaggio sottostante è sempre lo stesso ovvero: se non mi darai quello che voglio te la farò pagare, quindi ti punisco minando la relazione che ci unisce.


Il sostrato su cui si muovono tutti i
ricattatori è la paura che ha l’altro, paura di perdere la persona a cui tengono, del cambiamento, di essere respinti, di perdere potere all’interno della relazione, di non esistere senza l’altro, di morire senza l’altro.

Secondo Forward esistono quattro categorie di ricattatori: punitivi , autopunitivi , vittime e seduttori.

I punitivi. Ci fanno sapere esattamente quello che vogliono e le conseguenze a cui andremo incontro se non saremo accondiscendenti. Tipiche espressioni di questo tipo di ricattatori sono ad esempio: Se accetti quel lavoro me ne vado, Se mi lasci non vedrai più i bambini, Se non accetti di fare gli straordinari scordati pure la promozione.

Gli autopunitivi. Mettono in atto ricatti più sottili e fanno leva sulla nostra compassione e il nostro sentirci responsabili per loro. Il loro ricatto si esplica nell’informarci che se non facciamo quello che vogliono ne saranno così turbati da non riuscire più a comportarsi normalmente. In questo senso possono anche minacciare di danneggiare la loro vita, di farsi del male, mettere in pericolo la loro salute e felicità.

Le vittime. Non fanno minacce e neppure minacciano di farsi del male, tuttavia ci tengono a farci sapere in modo inequivocabile che se non facciamo quello che vogliono, loro soffriranno e la colpa sarà solo nostra.

I seduttori. Si tratta del tipo più subdolo di ricattatori: sono quelli che ci incoraggiano, ci promettono amore o denaro o carriera e poi ci chiariscono che, se non ci comportiamo come vogliono loro, non riceveremo nulla.

In realtà non ci sono confini netti fra i diversi tipi di ricatto e in genere i ricattatori sono molto abili nel mascherare la pressione esercitata per ottenere quello che vogliono al punto che quando la vittima designata se ne rende conto tende a mettere in dubbio la sua percezione a scapito di quello che sta accadendo realmente. Di conseguenza, ci si sente a disagio, usati e defraudati della propria libertà. In questi frangenti, si corre il rischio di avere dubbi sulla propria capacità di fare quello che veramente si vuole, e che fa star bene, mettendo in discussione la propria autostima.

A volte non ci si rende conto di essere imbrigliati in questo tipo di dinamica manipolatoria, altre volte si può essere consapevoli del ricatto, ma non riuscire comunque a farvi fronte in quanto tocca punti deboli. Per questo si reagisce secondo modalità che sono state apprese a partire da esperienze già vissute e che favoriscono il perdurare del ricatto. Alcuni di questi punti deboli sono, ad esempio:

  • un bisogno eccessivo di approvazione da parte delle persone a cui vogliamo bene che ci spinge a fare quello che ci chiedono seppur sia diverso da quello che effettivamente vorremmo.

  • il bisogno di mantenere la pace ad ogni costo evitando qualsiasi tipo di conflitto.

  • la tendenza ad assumersi troppe responsabilità per la vita degli altri che ha sovente per corollario il sentirsi in colpa per qualsiasi cosa minacci il benessere della persona con cui siamo in relazione.

  • la tentazione di rinunciare al proprio benessere e ai propri desideri pur di non veder soffrire la persona che amiamo; quest’ultima, forse più delle altre, è una dinamica che porta a restare imprigionati nei bisogni psicologici dell’altro perdendo la capacità di analizzare i problemi e la possibilità di capire come risolverli al meglio.

In ogni caso è forse opportuno sottolineare che in genere i ricattatori non sono dei mostri, raramente sono spinti dalla cattiveria, il più delle volte, agiscono sull’onda di una profonda paura che a loro volta provano e che controllano proprio perpetrando il ricatto. Indubbiamente, si tratta di una modalità relazionale sicuramente disfunzionale, non solo per la persona ricattata, ma a lungo andare per la relazione stessa e quindi anche per il ricattatore. Quindi, appare evidente quanto sia importante uscire da questa modalità relazionale.

Come uscirne. Il primo passo è quello di riconoscere cosa sta succedendo e rendersi conto di trovarsi implicati nelle modalità relazionali di un ricatto morale; il secondo passo è dato dal cercare di capire quali sono le profonde motivazioni da cui traggono origine tali modalità e infine è essenziale cercare di correggere i comportamenti che ci fanno star male.


In tale processo
è assolutamente essenziale fare chiarezza, quindi definire la propria posizione all’interno della relazione, mettere in luce i sentimenti che si provano, affermare ciò di cui si ha bisogno, indicare ciò che si è o non si è disposti ad accettare, dare la possibilità all’altro di esprimersi allo stesso modo e quindi lasciare all’altro la possibilità di scegliere liberamente ciò che intende fare rispetto al perdurare della relazione stessa, accettando poi le sue decisioni.


Da questo punto di vista è essenziale saper accettare il cambiamento, saper rischiare e tollerare che un comportamento adeguato possa anche avere come risultato immediato, seppur provvisorio, un disagio ancora maggiore rispetto a quello già esperito; tutto questo in vista di un maggior benessere personale e di un miglior funzionamento delle relazioni nelle quali siamo implicati.

L’uomo è un animale dotato di ragione: il suo bene lo attua appieno, se adempie al fine per cui è nato. Che cosa esige da lui questa ragione? Una cosa facilissima: che viva secondo la natura che gli è propria.

Lucio Anneo Seneca,Lettere a Lucilio, 62-65

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La manipolazione nelle relazioni affettive: the shape of things (2003).

 

 BIBLIOGRAFIA:

  • Forward S. (2001). Emotional Blackmail: When the People in Your Life Use Fear, Obligation, and Guilt to Manipulate You. Collins Publisher.  ACQUISTA ONLINE

Paura di sentire di Michele Giannantonio (2012) – Recensione

 

 

L’autore del libro, lo psicoterapeuta Michele Giannantonio recentemente scomparso, ha voluto raccontare come nel proprio lavoro clinico quotidiano, risulti evidente quanto spesso le persone tendano a voler sopprimere, eliminare le emozioni dalla propria vita.

Si cerca attivamente di non sentirle: “far finta di niente” nella convinzione illusoria che se non mi dico ho paura, davvero non ho paura! Si “fa finta di niente” iper-razionalizzando, la cultura occidentale privilegia il pensiero astratto e la ragione e spinge in un angolo il mondo delle emozioni spesso visto come segno di debolezza e fragilità.

Le emozioni hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’uomo: certo che se l’uomo primitivo non avesse provato paura nel vedere di fonte a sé un leone e non avesse utilizzato il proprio vissuto per comprendere il pericolo, progettare e attuare un piano di fuga, forse non saremmo qui!

Lo stesso aggettivo emotivo è connotato di significati negativi, indicare una persona come emotiva equivale a definirla poco equilibrata, inaffidabile e debole. Eppure nel vocabolario della lingua italiana Treccani leggiamo due definizioni:

[blockquote style=”1″]emotivo agg. e s. m. (f. -a) [dal fr. émotif, der. del lat. emotus, part. pass. di emovere «scuotere, smuovere»]. 1 Che ha rapporto con l’emozione; o che provoca emozione. 2 Più spesso, riferito a persona, disposto all’emozione, soggetto a iperemotività; per estensione., impressionabile, sensibile, che si commuove e si eccita facilmente.[/blockquote]

Emotivo indica la relazione con le emozioni e per quanto talvolta ci sforziamo di disfarci delle emozioni stesse, esse sono imprescindibili e ineliminabili. Ingoiamo, mangiamo la rabbia, ma poi la sentiamo nello stomaco, eludiamo l’ansia ma poi avvertiamo un giramento di testa, cerchiamo di non sentire la tristezza e il dolore, ma poi il nostro corpo si blocca e ci chiede di rallentare o di non alzarsi dal letto.

Con semplicità e saggezza lo psicoterapeuta Michele Giannantonio, aiuta il lettore a comprendere il valore delle emozioni ed apprendere modalità funzionali di gestione, delle emozioni anche quelle più fastidiose: la rabbia, la tristezza, la colpa e la vergogna.

L’autore ci guida a sentirle attraverso esempi, racconti personali, strategie della terapia sensomotoria e di mindfulness. Egli ci rammenta che: “noi pensiamo con tutto il corpo non solo con il cervello”.

Nel nostro corpo, se lo ascoltiamo, troviamo tutte le informazioni di ciò che proviamo e come stiamo. Possiamo usare questi segnali per orientare i nostri scopi in senso adattivo e migliorativo, invece che cercare di eliminare queste informazioni.

Con un linguaggio semplice e accessibile anche a chi non ha mai letto un saggio di psicologia, Michele Giannantonio ci ha ben spiegato come mai finiamo per reprimere le nostre emozioni, perché non le consideriamo utili suggeritrici nelle relazioni interpersonali, e ancora perchè spesso prendiamo decisioni irrazionali ignorando completamente le informazioni che le nostre emozioni ci mandano.

In questo libro troviamo risposte a queste domande ed esercizi utili per integrare le emozioni nel nostro essere ed agire e scoprire il valore universale e personale del nostro sentire.

Indicato: a tutti!

Controindicato: a nessuno!

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista – recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

  •  Giannantonio, M. (2012). Paura di sentire. Come gestire il pericolo delle emozioni. Centro Studi Erickson, Trento.  ACQUISTA ONLINE  

Ottenere prestazioni migliori: tutto merito di pratica ed esercizio?

FLASH NEWS

 

Un nuovo studio della Princeton University offre un punto di vista che è in controtendenza rispetto studi più recenti, evidenziando che la quantità di pratica ed esercizio accumulato nel corso del tempo non gioca un ruolo chiave e decisivo in considerazione delle differenze individuali nelle performance di qualità.

Gli autori hanno preso in esame circa 80 studi presenti in letteratura sul tema di apprendimento e ruolo della pratica in relazione alle qualità della performances in domini quali musica, giochi, sport, ambiti professionali e scolastici. Gli 88 studi considerati nella meta-analisi includevano due criteri: da una parte la misurazione della pratica ripetuta, dall’altra una misurazione delle performance e la stima della grandezza del’effetto osservato.

Dalla meta-analisi è emerso che nella quasi totalità degli studi è dimostrata una relazione positiva tra pratica e performance: più le persone riferivano di essersi esercitate in un dominio, maggiori erano i livelli delle performances.

In generale però la quantità di pratica ripetuta è in grado di spiegare soltano il 12% delle differenze individuali nelle prestazioni. Interessante è inoltre considerare le specificità dei diversi domini considerati: l’esercizio e la pratica ripetuta sono in grado di spiegare il 26% delle differenze individuali delle prestazioni nel dominio dei giochi, circa il 21% delle differenze individuali delle performance musicali, e circa il 18% negli sports. Ma considerando i domini scolastico e professionale, il praticare ed esercitarsi ripetutamente spiegherebbe rispettivamente il 4% e l’1% della varianza in termini di differenze individuali osservata nelle prestazioni.

Inoltre sembra che l’effetto della pratica sulla performance sia minore a fronte di misurazioni più precise che utilizzino strumenti di valutazione standardizzati.

Dunque non vi sono dubbi che – sia dal punto di vista statistico che teorico- la pratica sia importante per migliori performance, solo si discute rispetto al peso che spesso le viene attribuito (sia dal senso comune che in letterauta) a discapito di altri fattori riguardo prestazioni ottimali. Scontato dire che ora la domanda chiave è

E dunque che cosa importa? Che cosa è in grado di spiegare le performance qualitativamente elevate?

Gli autori speculano su fattori quali l’età di inizio di apprendimento di una determinata attività e altre variabili squisitamente psicologiche quali le abilità cognitive mnestiche (working memory), e dichiarano future meta-analisi in cui verranno considerati specificamente questi fattori nel dominio dello sport.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Esercizio fisico & Creatività – L’Ispirazione? Arriva con lo Sport!

 

BIBLIOGRAFIA:

Il caso della Villa Santovino – Centro di Igiene Mentale – CIM N. 10 – Storie dalla psicoterapia Pubblica

 

 

CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #10

Il caso della Villa Santovino

 

La gravidanza chiacchierata di Luisa Tigli portava sotto il livello di guardia il personale infermieristico. Biagioli temeva inoltre che Luisa con il terzo figlio avrebbe preso la decisione di abbandonare il lavoro e ciò lo preoccupava professionalmente e personalmente. Aveva avuto incontri incandescenti con il direttore del dipartimento Rodolfo Torre e persino con il direttore generale della ASL Francesco Altamura che per il suo passato credeva comprensivo delle problematiche della psichiatria territoriale. Nulla da fare.

Le linee guide della regione erano inflessibili. Nessun tipo di contratto anche a tempo determinato era possibile per nessuna ragione: il buco di bilancio della sanità era inarrestabile. Nessuno veniva più sostituito alla faccia della normativa nazionale che prevedeva precisi rapporti tra popolazione residente ed operatori. Un aiuto insperato quanto sgradito arrivò dalla magistratura. Per la verità si presentò a casa di Biagioli la mattina alle sei con la faccia di un giovane brigadiere dei carabinieri arrivato a Monticelli da Salerno soltanto venti giorni prima. Con l’orgoglio di un giovane che compie la sua prima missione operativa il graduato consegnò a Biagioli una busta verde contenente atti giudiziari. Il caffè gli parse più amaro del solito mentre apriva sul tavolo della cucina l’avviso di garanzia che gli comunicava l’apertura di indagini a suo carico e l’invito a presentarsi il mercoledì successivo alle 12,00 presso gli uffici del sostituto procuratore di Vontano. Il Dr. Pace probabilmente per motivi personali, dicevano i pettegoli, aveva più volte posto le sue sgradite attenzioni sugli operatori della salute mentale indagandone orari, sedi di lavoro, cartellini di presenza.

I più psicoanalisti sostenevano essere un modo per chiedere aiuto e si aspettavano che un giorno o l’altro facesse una formale richiesta di psicoterapia. Altri lo bollavano come un ossessivo anale fissato delle regole. Altri ancora ironizzando sulla sua minuta statura semplicemente una “carogna” come il giudice di Fabrizio De Andrè. L’ipotesi che si trattasse di un magistrato scrupoloso era troppo poco fantasiosa per essere presa in considerazione dai signori dell’interpretazione. Quella stessa mattina prima delle otto analoghe buste furono consegnate a casa di Antonio Nitti, Marco Polti, Giulio Renzi e del dottor Luigi Cortesi. Per capire cosa stesse succedendo è doverosa una premessa.

Antonio, Marco e Giulio alle dirette dipendenze di Luigi erano una sorta di task force del CIM dedicata ai casi disperati resistenti a qualsiasi trattamento tradizionale. Con loro si tentavano strade innovative frutto della creatività terapeutica di questi quattro operatori che univano stranezza (più volte venivano scambiati per pazienti e pazienti gravi) autonomia operativa e insofferenza per regole e gerarchie (quando fu creata e distaccata la loro squadra dal resto del CIM fu per tutti un sollievo) a genialità e impegno ( le loro idee erano rimbalzate con successo in molti congressi nazionali per riabilitatori ed erano in contatto sul web con i centri più all’avanguardia nel mondo sulle tecniche innovative per i pazienti gravissimi).

Due anni prima c’era stata la svolta. Alessio, il figlio dell’avvocato Santovino, il più noto penalista di Vontano si era suicidato nel box sottocasa con i gas di scarico della sua porche boxter cabrio. Il giovane venticinquenne con diagnosi di disturbo bipolare era stato visto da tutti i luminari dell’università di Roma. Il padre sconvolto e anch’egli forse con una probabile tendenza ciclotimica pose fine allo straziante periodo di lutto durato diciotto mesi donando al dipartimento di salute mentale la villa sul litorale con tre ettari di terra e le due barche a vela di Alessio. Composta di sette stanze da letto e molti locali comuni distava un kilometro dal mare. Inizialmente Torre ne ipotizzò l’utilizzo per i soggiorni estivi ma la federalberghi provinciale espresse fermamente la sua contrarietà. I soggiorni erano una fonte di reddito durante i periodi di bassa stagione. L’occupazione non poteva essere ulteriormente colpita. L’idea del direttore generale Altamura di tenervi delle colonie estive per i dipendenti della ASL fece quasi recedere Santovino dall’idea della donazione.

Biagioli prese due piccioni con una fava assegnando la villa alla Task force sul paziente resistente assegnandone la guida ufficiale al dottor Cortesi. Gli altri operatori si sentirono liberati di un peso ed ogni volta che un paziente grave diventava ingestibile veniva proposto per “Villa Santovino”. Nei mesi si era raccolta una piccola comunità di otto pazienti e quattro operatori (per questa detta “quella sporca dozzina”) che comprendeva soprattutto disturbi borderline di personalità, narcisisti, antisociali e qualche giovane psicotico che altrimenti entrava e usciva dall’ospedale. Le attività della comunità erano legate alla gestione della vita comune, a piccoli lavori esterni per procacciarsi denaro che integrava il modesto finanziamento della ASL. Svago, sport (le due vele di Alessio non rimasero inutilizzate) e esperienze artistiche (musica, pittura e scultura) sostenute dall’impegno volontario di molti professori del liceo artistico di Monticelli. Vere e proprie terapie non ce ne erano a meno di non considerare tali le assemblee per la gestione della vita comune, le relazioni interpersonali calde e affettuose, i ruoli di ciascuno nella vita di gruppo.

 

Le famiglie che solo una domenica al mese erano ammesse a condividere il pranzo a Villa Santovino erano entusiaste e veneravano quegli strani operatori che sembravano riuscire dove tutti gli altri avevano fallito. Luigi Cortesi era un cinquataduenne alto e magro come una candela con un passato da chierichetto e dirigente dell’azione cattolica. Non aveva mai bisogno di ordinare le cose. Il suo esempio era trascinante. Accusato di buonismo e ingenuità credeva che l’amore fosse la più efficace delle medicine. Non si era mai sposato e si dedicava alla psichiatria come ad una missione. La sua forza stava nel riuscire a scorgere in ognuno il buono che sempre c’è e nel rapportarsi esclusivamente ad esso facendolo sviluppare. Esperto di arte e libero da impegni familiari viaggiava continuamente in Europa alla scoperta dei tesori dell’arte sacra. Mite fino all’arrendevolezza diventava intransigente quando qualcosa ostacolava la sua missione di salvatore delle menti.

 

Ad appianare gli ostacoli ci pensava Giulio Renzi, l’infermiere caposala suo coetaneo. Non si potevano immaginare due persone tanto agli antipodi. Giulio era rimasto il bulletto che già alle medie imponeva il pizzo ai suoi compagnucci. Sapeva farsi rispettare alternando lusinghe e minacce. Maestro nell’arte del compromesso traeva vantaggi personali da ogni attività e non era certo preoccupato di sconfinare nel terreno dell’illegalità. Faceva il lavoro sporco che Luigi aborriva ma portava sempre a casa il risultato. Pratico, concreto, impulsivo e arrogante non sfigurava tra gli altri borderline di Villa Santovino.

Biagioli si congratulava ancora con se stesso per esserselo tolto di torno. Anche se appesantito dall’età ci provava indiscriminatamente con tutte le donne. Non lo fermavano considerazioni di ruolo o di età. La carriera sindacale gli conferiva un discreto potere che usava per i propri interessi. Nella sua ricca fedina penale figurava anche una denuncia per abuso sessuale da parte di una collega ritirata dopo la sua nomina a coordinatrice ospedaliera.

Affiancavano i due vecchi, due quarantenni. Antonio Nitti emanava un fascino magnetico. Era la versione maschile di Gilda. Come Giulio Renzi non badava molto alle regole e ne oltrepassava con disinvoltura i confini ma con una differenza sostanziale: la sua intenzionalità era sempre positiva. Era lo sponsor di ogni paziente, il coach, l’imprenditore personale. Voleva promuovere la vita degli altri. La sua brillante intelligenza gli permetteva sempre di vedere originali punti di vista e trovare soluzioni a problemi apparentemente cronicizzati. Guardava le cose con l’ingenuità di un bambino che le osserva per la prima volta e libero da pregiudizi. Tutto ciò che era formale gli appariva una perdita di tempo rispetto al trascinare gli altri nel godimento dell’esistenza. Non c’era vizio che non coltivasse con la moderazione, però, di chi vuole farselo durare a lungo. Rispetto alle donne il suo sforzo era tutto nel tentare di rimanere “un magnifico quarantenne scapolo”.

Sposatissimo era invece Marco Polti, l’intellettuale del gruppo che teneva i contatti con gli altri centri di ricerca nel mondo sul paziente intrattabile. Secchione a scuola si era sposato appena trovato lavoro con la sua compagna di banco delle medie e rapidamente messo al mondo due figlie. Nel tempo libero si dedicava al volontariato con gli anziani ed era diventato amico di molti pazienti che frequentava anche fuori servizio. All’incontro con il Dr. Pace parteciparono oltre a Biagioli i vertici del dipartimento e della ASL: Torre e Altamura più che far fronte comune con Biagioli avevano l’aria scocciata di chi è infastidito dal doversi occupare delle marachelle dei figli. La faccenda era piuttosto seria.

Su segnalazione dei confinanti che non gradivano la vicinanza dei matti i carabinieri avevano fatto un sopralluogo e scoperto quasi mezzo ettaro coltivato a cannabis. Cortesi aveva goffamente sostenuto che era per il consumo personale degli ospiti e che c’erano evidenze scientifiche dell’effetto terapeutico.

Ma l’enormità della quantità e l’ammissione di alcuni distributori intermedi che erano infastiditi dall’entrata sul mercato di questi nuovi fornitori eliminarono ogni dubbio. L’accusa era coltivazione, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Le ripercussioni legali sarebbero durate per anni ed ognuno avrebbe scelto la sua linea difensiva. Intanto Villa Santovino fu immediatamente chiusa e venduta. I quattro incriminati in attesa di sentenza definitiva non furono licenziati. Si fecero, infatti, carico di tutto escludendo ogni responsabilità superiore anche se era evidente che “non si poteva non sapere” e, come minimo c’era un problema di mancato controllo. Così furono reintegrati in servizio presso il CIM di Monticelli fra sbuffi e battute maliziose degli altri che nascondevano, in parte, l’invidia per quegli operatori così motivati, diversi e geniali.

 

LEGGI LA RUBRICA CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM DI ROBERTO LORENZINI

 

Disturbi da Dolore Sessuale – Definizione Psicopedia

 

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2014 State of Mind. Riproduzione riservataUna corretta diagnosi del disturbo da dolore sessuale è la prima tappa importante e necessaria per un adeguato intervento psicoterapeutico e sessuologico che miri alla loro cura.

I disturbi da dolore sessuale, detti anche disturbi da dolore coitale e non coitale, possono essere classificati in tre tipi diversi: dispareunia, vaginismo e vulvodinia o vestibolite vulvare. Consideriamoli separatamente e nel dettaglio.

Dispareunia

E’ un dolore fisico percepito durante il rapporto sessuale o immediatamente seguente ad esso, non completamente spiegabile con una causa medica, non attribuibile essenzialmente a scarsa lubrificazione vaginale, non dovuto a significative contrazioni muscolari come nel vaginismo. Il dolore può essere avvertito come localizzato superficialmente o in profondità, e percepito solo durante le spinte del pene.

Alcune cause mediche possono però essere responsabili, almeno parzialmente del dolore accusato: conseguenze di interventi chirurgici, del parto o dell’episiotomia praticata durante il parto, endometriosi, infezioni vaginali o uretrali specie se ricorrenti, stipsi prolungata che facilita la possibilità di infezioni batteriche della vagina, atrofia vaginale conseguente alla menopausa, carenza di estrogeni durante il periodo dell’allattamento, chirurgia pelvica (come per esempio l’isterectomia benigna), traumi derivanti da fratture pelviche, contusioni perineali o croniche pressioni della muscolatura pelvica.

Alcuni farmaci antidepressivi e antipsicotici possono dare problemi di dispareunia: flufenazina (Moditen), amoxapina (Asendin), tioridazina (Melleril, Melerette). Sembrano esistere, infine, rari casi di allergia allo sperma del partner risolvibili con l’uso del preservativo sia femminile che maschile.

Se non sono presenti cause fisiologiche che giustificano il dolore, in parte o totalmente, occorre considerare la possibilità di fattori psicologici. Diversi casi di dispareunia sono di origine mista: cioè avere sia una causa organica che delle incidenze psicologiche, che amplificano il dolore fisico.

Nelle donne con dispareunia si riscontrano frequentemente ansia elevata e marcata tendenza all’ipercontrollo, caratteristiche che tendono ad aumentare la tensione dei muscoli perivaginali e a produrre una minore lubrificazione vaginale, ciò incrementa la possibilità che si percepisca dolore durante la penetrazione.

La dispareunia, cui può seguire nel tempo un vaginismo secondario (per reazione al dolore da penetrazione), è frequente e colpisce fino al 15% delle donne in età fertile e più o meno il 30% delle donne in postmenopausa a seconda delle casistiche.

Vaginismo

Per vaginismo si intende una contrazione involontaria dei muscoli vaginali che impedisce o rende difficile la penetrazione vaginale, nonostante la donna senta il desiderio di avere un rapporto sessuale. La contrazione interessa i muscoli perineali (posti tra l’orifizio anale e quello vaginale) della vulva e dell’orifizio vaginale.

Una buona parte delle donne vaginismiche non è consapevole del fatto che uno spasmo muscolare è alla base del loro problema.

La valutazione del vaginismo va fatta sulla base di due paramenti fondamentali: l’intensità dello spasmo muscolare e la gravità della fobia.

Una visita ginecologica mirata può portare a riconoscerne 4 gradi:

1. spasmo muscolare che scompare con la rassicurazione;

2. spasmo muscolare che persiste durante la visita ginecologica;

3. spasmo muscolare e sollevamento delle natiche al solo tentativo di visita ginecologica;

4. spasmo muscolare, adduzione delle cosce, difesa e retrazione di tutti i muscoli addominali, inarcamento dorsale, fino al rifiuto completo della visita ginecologica.

In genere, i vaginismi di 1 e 2 grado rendono possibile la penetrazione, che è comunque dolorosa. Si parla di dispareunia, ossia di dolore al tentativo e/o al rapporto che può essere causato da molti altri fattori di natura organica capaci di indurre un vaginismo definito secondario.

Patologie genitali e/o pelviche di varia natura capaci di provocare dolore al rapporto possono poi generare l’induzione secondaria di uno spasmo difensivo dei muscoli perivaginali che può perdurare anche quando la causa organica è completamente risolta, perché la memoria del dolore o la paura che la patologia si ripresenti sono fonti di ansia da interferire con il desiderio del rapporto sessuale.

I vaginismi di 3 e 4 grado sono maggiormente correlati alla sfera psicologica, ma possono anche affondare le loro radici nell’universo biologico, e sono in genere vaginismi primari.

Frequentemente le donne con vaginismo possono presentare alcune delle seguenti caratteristiche: personalità fobica, tendenza all’ipercontrollo,poca familiarità con l’anatomia dei propri organi genitali, sensi di colpa, paura degli uomini, forte conflittualità col partner, paura di lasciarsi andare. In alcuni casi è legato ad un problema all’interno della coppia, dove il sintomo ha una sua specifica funzione per uno dei due.

Talvolta il vaginismo può essere legato alla paura di una gravidanza, o ad un suo rifiuto, che la donna non riesce ad esplicare a se stessa o al partner.

Vulvodinia o vestibolite vulvare

E’ caratterizzata principalmente dalla presenza di dolore del vestibolo anche in assenza di rapporti sessuali, percepito come sensazione di bruciore o di spilli che pungono; il dolore può irradiarsi anche al resto delle pelvi e accompagnarsi a dolore del clitoride e ipersensibilità al contatto. Si tratta di un’infiammazione dell’apertura vaginale, il vestibolo appunto, e dei tessuti vaginali immediatamente adiacenti ad esso, tipicamente in presenza di elevata contrazione muscolare come nel caso del vaginismo.

In casi gravi possono essere presenti dolori intensi anche senza alcun tentativo di penetrazione, ma semplicemente attraverso il contatto della vulva (insieme degli organi genitali esterni femminili) con indumenti intimi o con una sedia.

Si tratta di un disturbo molto frequente ma poco conosciuto da pazienti, psicoterapeuti e ginecologi, quindi non di rado mal diagnosticato e mal curato.

Le donne con vulvodinia presentano frequentemente molta tensione muscolare, non solo sul piano perivaginale, ma diffusa nel loro corpo; ad esempio esiste una forte correlazione tra vulvodinia e bruxismo, ossia lo strofinamento dei denti durante la notte, oppure con tensioni a livello dei glutei e del trapezio.

Conclusioni

Una corretta diagnosi del disturbo da dolore sessuale è la prima tappa importante e necessaria per un adeguato intervento psicoterapeutico e sessuologico che miri alla loro cura.

Accanto al lavoro psicoterapeutico è possibile associare degli esercizi specifici che portano a ridurre i problemi di vaginismo e dispareunia, come gli esercizi di Kegel; in sinergia con questo lavoro è possibile valutare l’opportunità di lavorare insieme a ginecologi esperti nel trattamento dei disturbi da dolore sessuale, o con ostetriche specificamente preparate che, potranno insegnare alle donne utilissimi esercizi di stretching della muscolatura coinvolta nel dolore.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Disfunzione sessuale femminile: la necessità di un cambio di prospettiva

 

BIBLIOGRAFIA:

Dormire meglio si può: basta far felice il proprio partner!

FLASH NEWS

 

La soddisfazione di coppia sarebbe associata a una migliore qualità del nostro sonno.

Questo è quanto emerge da un nuovo studio della University of Pittsburgh che ha coinvolto 46 coppie eterosessuali, valutandone la soddisfazione relazionale e raccogliendo una serie di dati sulla qualità del sonno attraverso la actigraphy per un periodo di dieci giorni.

Anzitutto è stato rilevato che le coppie che usualmente condividono il letto presentano abitudini e orari molto simili relativamente al sonno (ad esempio sono sincronizzate in termini di momenti in cui sono svegli o addormentati per circa il 75% del tempo) come se si trattasse di un comportamento condiviso; ma più elevati livelli di soddisfazione relazionale riportati dalla donna si sono dimostrati associati a una maggiore quota di sincronicità dei periodi di sonno-veglia.

Dunque secondo gli autori il sonno delle coppie di cui almeno un membro presenta elevati livelli di soddisfazione relazionale sarebbe sincronizzato rispetto a una serie di soggetti casuali o con minori quote di soddisfazione.

Se quindi la qualità del sonno solitamente viene studiata considerando il benessere individuale, questo studio ne evidenzia invece il legame con il funzionamento relazionale: sarebbe interessante capire la presenza di ulteriori variabili di moderazione in grado di modulare tale associazione, tra cui per esempio la presenza di sintomi depressivi come variabile individuale ma inevitabilmente legata al benessere di coppia.  

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Insonnia cronica: alcuni aspetti cognitivi e comportamentali

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ho bisogno di staccare un po’

Staccare - States of Mind - Immagine: © Costanza Prinetti 2014  

 

Tutti gli articoli illustrati da Costanza Prinetti

A chi la racconti? Il rapporto dei bambini con le bugie e le mezze verità

 

 

Ecco un altro caso in cui la ricerca scientifica non fa altro che confermare ciò che abbiamo già avuto modo di sperimentare sulla nostra pelle: occultare la verità o parte di essa ad un bambino è più difficile che fargli leggere il biglietto di auguri prima di aprire il pacchetto.

Ho sempre assistito con trepidazione e orgoglio all’acquisizione delle varie tappe dello sviluppo dei miei figli, dai primi passi alla prima volta che hanno scritto il loro nome sul muro, ma quando è arrivato il giorno in cui ho capito che non si sarebbero più bevuti le mie bugie, non nego di essermi sentita privata di una grande comodità.

Mentire ad un bambino, ammettiamolo, ha i suoi lati positivi. Ci permette di interrompere quelle catene interminabili di perchè che ci condurrebbero verso l’inevitabile ammissione di ignoranza e ci dà l’illusione di poter proteggere i nostri figli dalle nefandezze di questo mondo.

Che bisogno c’è quindi che imparino tanto presto a riconoscere una menzogna?

La risposta risiede nel fatto che per un cucciolo d’uomo la conoscenza del mondo dipende dalla sua esplorazione ma, poichè questa è ancora limitata, soprattutto dalle informazioni che riceve dagli adulti. Ecco quindi che capire subito di chi potersi fidare diventa di fondamentale importanza per la crescita personale.

E’ infatti stato dimostrato che già in età prescolare i bambini, in presenza di informazioni contrastanti, scelgono di affidarsi alle parole di chi in passato si è dimostrato fonte attendibile rispetto a chi invece ha detto loro una bugia. Benchè i bambini tendano in generale a fidarsi maggiormente di persone note, dopo i 3 anni il grado di fiducia inizia infatti a dipendere anche dall’attendibilità dimostrata dalle fonti in occasioni precedenti.

Se vogliamo quindi essere scelti come guida dai nostri figli, dobbiamo cercare di essere credibili, riducendo ai limiti della nostra sopravvivenza le occasioni in cui cerchiamo di far credere loro il falso.

E chi di voi sta già pensando di ripiegare sulle mezze verità per non rinunciare agli effetti benefici dell’occultamento del vero, dovrebbe astenersi dal farlo, secondo i risultati di un’altra ricerca. Omettere una parte di verità o non fornire tutte le informazioni necessarie a compiere le giuste inferenze, ci rende persone comunque poco attendibili agli occhi dei bambini e li costringe ad incrementare la loro attività esplorativa alla ricerca dei dati mancanti.

Ora che ci penso però quest’ultimo aspetto potrebbe essere considerato in termini positivi e giustificare qualche piccola bugia per buona pace di chi come me fatica a rinunciarvi.

Chi l’ha detto infatti che non sia buona cosa che i bambini imparino che possono fidarsi soprattutto di loro stessi nella scopertà delle verità della vita?

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

Mi stai mentendo? Mark Frank insegna a smascherare le bugie

 BIBLIOGRAFIA:

Fonzie ci parla di Dislessia: Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne – Recensione

 

 

Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne fa parte della collana di libri pensata per ragazzi con DSA da Henry Winkley e Lin Oliver, scrittrice e produttrice di serie televisive per bambini.

Chi di voi ha sempre amato Henry Winkler, conosciuto ai più come Fonzie di Happy Days, non può farsi mancare nella libreria il suo libro Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne. 

A molti di voi infatti sfuggirà il fatto che l’autore del libro, oltre a lavorare come attore, regista e sceneggiatore, è impegnato in associazioni che operano a favore dei bambini ed è stato uno dei maggiori promotori della campagna My Way! Campaign del governo britannico per la sensibilizzazione sul tema della dislessia.

Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne fa parte della collana di libri pensata per ragazzi con DSA da Henry Winkley e Lin Oliver, scrittrice e produttrice di serie televisive per bambini.

Il libro infatti, come gli altri della collana, è un libro ad alta leggibilità la cui stesura si basa su importanti scelte editoriali: viene utlizzato il font Verdana (risultato essere il font preferito dai ragazzi dislessici); il testo è allineato a sinistra e privo di divisioni sillabiche; l’interlinea è superiore al normale e la spaziatura tra i periodi è maggiore rispetto a quella tra le parole; è stato evitato di iniziare i periodi al termine della riga in modo da non lasciare sola una parola prima di andare a capo; il libro inoltre è stampato su carta avoriata per evitare l’effetto di abbagliamento provocato dal bianco. All’inizio del libro è presente una mappa dei personaggi che consente una maggiore facilità nel cogliere le relazioni tra essi.

 

Che dire però della trama? Il libro racconta le avventure che il protagonista, Hank Zipzer, mette in atto per nascondere la pagella (che presenta una sfilza di quattro!) e una lettera della maestra per i genitori.

Il tutto ha infatti inizio da una prova di ortografia che, nonostante il costante studio a casa, Hank non riesce a superare. Grazie all’aiuto dei suoi amici il protagonista riesce a liberarsi della pagella… ma in che modo? Facendola scomparire nel tritacarne della paninoteca di sua madre! Che ne sarà dunque degli affari del negozio? I ragazzi dovranno cercare assolutamente un piano per rimediare a ciò che hanno fatto!

Così la storia si arricchisce di personaggi centrali nella vita di Hank che lo aiuteranno, in modi diversi, ad affrontare le proprie responsabilità e a riconoscere e accettare i propri limiti. Già! Perché forse i problemi di ortografia di Hank non sono frutto del mancato studio del ragazzo, l’origine delle difficoltà scolastiche sembra essere un’altra… ed Hank e i suoi genitori finalmente la scopriranno.

In questo caso degno di nota è il modo in cui gli autori affrontano la tematica: riportando i dubbi di Hank, sembrano quasi entrare nella mente di qualsiasi ragazzo che presenta le stesse difficoltà e sanno rispondervi in maniera eccellente.

La lettura di Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne è assolutamente scorrevole e piacevole: l’umorismo degli autori porta il lettore a sfogliare le pagine con foga e a immedesimarsi con il povero Hank, nonostante l’abbia combinata proprio grossa!

Seppur pensato per i ragazzi, consiglio assolutamente la lettura ai più grandi e, soprattutto, a genitori e insegnanti. Con il sorriso sulle labbra, infatti, viene concessa la possibilità di riflettere sui DSA, un tema da non sottovalutare e assolutamente da non temere.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

Fonzie colpisce duro la Dislessia… Hey!

 

BIBLIOGRAFIA:

Gli effetti dannosi degli smartphones

FLASH NEWS

 

Gli smartphones hanno portato nella nostra vita un livello senza precedenti di comodità, ma insieme ai loro vantaggi, gli smartphones ci stanno anche creando un nuovo tipo di stress, a casa, al lavoro, e nei contesti sociali.

Gli smartphone hanno portato nella nostra vita un livello senza precedenti di comodità: li portiamo in tasca, ci permettono di comunicare con chi vogliamo in qualunque momento, di ascoltare musica, ci informano sulle previsioni del tempo, risultati sportivi, e e-mail.

Ma insieme a tutti questi vantaggi gli smartphones ci stanno anche creando un nuovo tipo di stress, a casa, al lavoro, e nei contesti sociali. Diversi studi infatti si sono dedicati a cercare di tracciare la linea confine tra la praticità e lo stress, creati della tecnologia moderna.

Un gruppo di ricerca multidisciplinare ha scoperto che tenere lo smartphone sul comodino danneggia il nostro riposo e ci rende più stanchi e meno produttivi il giorno dopo al lavoro. Sembra infatti che il telefono cellulare interferisca con il riposo e il rendimento lavorativo anche quando non lo usiamo: tenerlo sul comodino può regalarci notti agitate perchè la luce emessa all’arrivo di mail e messaggi sopprime il rilascio di melatonina, un ormone che favorisce il sonno.

Inoltre gli smartphone rendono impossibile staccare dal lavoro a causa della loro natura always-on.

Karla Klein Murdock, un professoressa di psicologia alla Washington and Lee University, ha trovato un possibile legame tra mancanza di sonno e sms, che è probabilmente la modalità di comunicazione più diffusa oggi. La sua ricerca ha dimostrato che gli studenti universitari che abitualmente messaggiano tanto impiegano anche molto più tempo per addormentarsi, dormono meno, e si sentono più stanchi durante il giorno.

In uno studio recente Murdock ha chiesto a degli studenti volontari di segnalare il loro invio medio di sms al giorno. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a test volti a valutare i loro livelli di stress e benessere emotivo, e la loro qualità del sonno.

I risultati hanno mostrato che i livelli giornalieri più elevati di sms correlavano con la povertà del riposo, forse anche perché gli studenti si sentono obbligati a rispondere ai messaggi che hanno ricevuto durante la notte, ipotizza la Murdock.

Chi più messaggia, inoltre, più fa fatica a gestire lo stress lavorativo. Uno studio recente ha dimostrato che molte persone che usano i loro smartphone per le comunicazioni professionali tendono a fare fatica a staccare psicologicamente dal posto di lavoro. Questo, a sua volta, li rende più vulnerabili allo stress lavoro correlato.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il Telefono Cellulare Non ci Aiuta a Lavorare Bene

 

BIBLIOGRAFIA: 

Amore, Tradimento, Perdono: Intervista con Massimo Recalcati

Intervista a cura di Luca Di Gregorio Ph.D

 

Intervista con Massimo Recalcati

 

LEGGI ANCHE: Non è più come prima (2014) Recensione

State of Mind (SoM) – Dall’osservatorio privilegiato che la stanza d’analisi le offre, che idea si è fatto delle relazioni amorose che caratterizzano la nostra epoca? Qual è, per dirla in termini pasoliniani, la religione del nostro tempo e come influenza il discorso d’amore?

Massimo Recalcati (MR) – Oggi il discorso dell’amore è assimilato a quello che governa le merci: l’oggetto amato è a scadenza come lo è un nuovo modello di televisore al plasma o un frigorifero. Lo dicono i neuro scienziati e i sociologi: l’amore non è destinato a durare ma a spegnersi in breve tempo. Il suo doping ha il fiato corto. Le coppie non credono più al matrimonio, al vincolo del legame, si disfano più facilmente. Il nostro tempo è il tempo, come direbbe Baumann, degli amori liquidi.

Questa versione nichilistica dell’amore si regge su due menzogne fondamentali: quella della libertà e quella del Nuovo. L’uomo è libero di farsi un nome da sé, la sua maturità coincide nell’affermazione della sua indipendenza dall’Altro. E questa libertà aspira costantemente al Nuovo, a quello che ancora non si possiede, alla chimera della nuova sensazione, del nuovo incontro, del nuovo partner. La psicoanalisi constata che queste due menzogne non generano soddisfazione. Nella libertà del Nuovo si ripete sempre la stessa insoddisfazione. 

 

SoM – Ci sono delle differenze tra il modo di concepire le relazioni amorose da parte di Freud e la visione che Lacan ha dell’amore? 

MR – Per Freud l’amore ha la natura di un inganno che si consuma allo specchio. Quando dico di amare qualcuno dico che amo nell’altro il mio Io ideale, la rappresentazione narcisistica di me stesso. Il partner non è amato per la sua alterità ma per come riflette in modo idealizzante il mio Ego. Freud esclude che l’amore possa emanciparsi dalla gabbia del narcisismo.

Lacan non cancella questa verità che contraddistingue la dimensione nevrotica dell’amore. Ma non si accontenta di affermare l’equivalenza di amore e narcisismo. Per Lacan l’amore non si consuma allo specchio ma è, al contrario, ciò che rompe lo specchio. Per Lacan l’amore è innanzitutto un incontro che spiazza, scompagina, decentra il nostro Io anziché – come credeva Freud – rafforzarlo. Nel mio lavoro ho dato molta enfasi a questo cambio di direzione. Al punto che ho proposto l’amore come esperienza dell’ammirazione dell’Altro. Non del rispecchiamento narcisistico ma dell’ammirazione per la libertà e la potenza vitale dell’Altro, per le sue manie e le sue debolezze, per la castrazione e il sintomo dell’Altro.

Mentre Freud pensava che l’amore non riuscisse a liberarsi dalla presa dell’immagine, io credo che quando c’è esperienza dell’amore noi facciamo un salto fuori dall’immagine. Per questo Lacan diceva che quando amiamo, amiamo “tutto” dell’Altro. Il che significa che rendiamo l’Altro insostituibile, ovvero che introduciamo un punto di resistenza al discorso del capitalista che promette la felicità nella sostituzione compulsiva di una merce con l’altra… 

 

SoM – Il ‘per sempre’ degli amanti può essere davvero una promessa o rimane una mera utopia?

MR – Ogni incontro d’amore vuole la sua ripetizione. Vuole che sia per sempre, che non si esaurisca. Per questo gli amanti si promettono l’eternità. Per questo consultano gli astrologi o si sposano. E’ per verificare che la durata del loro amore sarà garantita dall’Altro. Sarà scritta nelle stelle o sarà scritta in un contratto matrimoniale che dichiarerà pubblicamente che sarà per sempre, che non finirà mai.

Nondimeno tutti noi sappiamo che né le stelle, né il contratto matrimoniale – né nessun Altro – potrà garantire che sarà per sempre. L’amore eterno non esiste. Eppure esiste la promessa, l’aspirazione degli amanti a rendere il loro amore eterno. Questa aspirazione non va ridicolizzata. Non è il volto immaturo dell’amore. Piuttosto è la potenza dell’amore che sa introdurre l’eterno nel tempo, che sa trasformare la contingenza dell’incontro in una necessità che si ripete. 

 

SoM – Che cosa accade all’amante costretto a confrontarsi con il trauma del tradimento o dell’abbandono?

MR – Nell’incontro d’amore non accade solo l’incontro con un altro di cui amiamo tutto e che rendiamo insostituibile. Accade pure la nascita del mondo. Nel senso che l’incontro d’amore fa nascere il mondo un’altra volta, una seconda volta. Questo mondo nato dall’incontro è, come dice bene Badiou, il mondo visto nella prospettiva del Due. E’ quello che accade anche con la nascita di un figlio. Non viene al mondo solo un altro essere umano che per noi è tutto. Viene al mondo, insieme a questo essere umano, un altro mondo. Il mondo è lo stesso di prima ma non è più come prima. E’ lo stesso ed è tutto nuovo. E’ il miracolo dell’amore. Rendere lo stesso Nuovo.

Quando un amore così grande, un amore che ha fatto nascere il mondo una seconda volta, finisce nel tradimento o nell’abbandono non c’è solo esperienza della perdita di chi amiamo ma della perdita di un intero mondo. Questo è davvero traumatico. Mentre nell’amore la mia esistenza riceve un senso, si sente profondamente voluta nei suoi minimi dettagli, viene riscattata dalla sua fatticità – come direbbe Sartre -, la perdita dell’amore comporta una ricaduta brusca, violenta, traumatica nella fatticità. Il tempo torna a mangiare la vita. L’incanto del mondo visto dalla prospettiva del Due è finito. Tutto non è più come prima.

 

SoM – Nel suo libro parole come perdono e gratitudine vengono introdotte per la prima volta nel vocabolario psicoanalitico. Come mai?

MR – In realtà la parola gratitudine ha un posto preciso ed eminente nell’ultima Melanie Klein. Si tratta forse dell’elaborazione concettuale che più di tutte – almeno in ambito psicoanalitico – ha accostato il tema del perdono. Resta però il fatto che la parola perdono non è una parola che appartiene al lessico psicoanalitico. Io la eredito dalla tradizione cristiana. E’ nella cultura cristiana che il perdono diventa la prova più grande dell’amore. Freud non avrebbe potuto concepirlo. Nel perdono l’altro è amato non perché ci restituisce la nostra immagine ideale, ma nonostante abbia lacerato quell’immagine.

Nel perdono io amo l’altro nella sua più radicale libertà che è quella che ha offeso la promessa e demolito la mia immagine. E’ una prova grande dell’amore. Per questo il cristianesimo ne ha fatto la parola della festa del ritrovamento. Io credo che il perdono sia la sola esperienza che noi possiamo fare della risurrezione: di fronte ad un amore che si è rivelato morto, finito, distrutto, intaccato dallo spergiuro e dal tradimento, il perdono offre la possibilità inaudita del ricominciamento, riporta in vita ciò che ci sembrava morto, permette a questo amore di esistere ancora.

 

SoM – Esistono delle differenze tra il modo di tradire degli uomini rispetto a quello delle donne?

MR – Il tradimento maschile è solitamente ispirato alla ricerca del Nuovo. Freud aveva giustamente mostrato come la gelosia maschile avesse come base inconscia il desiderio frustrato o no di tradire. Per gli uomini questa spinta al tradimento molto frequentemente si concilia con la necessità di preservare i propri legami familiari con la donna dalla quale si hanno avuto figli. Una donna tradisce invece, solitamente, per amore. O nel senso che l’amore è finito e che questo libera il desiderio per altro. O in quello per cui tradire è un modo per provocare l’uomo amato, per riconquistare il centro della scena… 

 

SoM – Le difficoltà che si incontrano nella relazione d’amore sono le stesse sia per le coppie eterosessuali che per quelle omosessuali o ci sono delle differenze?

MR – Lacan ci ha aiutato a liberarci da una idea anatomico-ontologica, aristotelica, dell’eterosessualità secondo la quale vi sarebbero due sessi distinti dalla presenza di un attributo (quello fallico) e ci ha invitato a concepire l’eterosessualità come la possibilità che in un legame d’amore vi sia amore per l’eteros, per l’altro, cioè per una donna. Quando in una coppia (cosiddetta eterosessuale, gay, lesbo, ecc ) si dà l’amore per una donna, ovvero l’amore per l’alterità dell’altro, per l’eteros c’è eterosessualità..In questo senso e solo in questo senso l’amore è sempre eterosessuale.

 

SoM – Il capitolo finale del libro costituisce una parte a sé: è un racconto in prosa di una coppia che si trova a dover affrontare il dolore di un tradimento. Recentemente anche altri psicoanalisti hanno dato prova della loro abilità di scrittura in prosa o in poesia (Bolognini, Lingiardi, Bollas, Grosz e, in ambito lacaniano, Fink). Qual è il ruolo della scrittura nella sua vita?

MR – Nell’Introduzione de ‘Il miracolo della forma’ racconto come è nata in me la passione per la scrittura. Da bambino osservavo mio padre scrivere con una tempera d’oro sulle corone funebri…Osservavo la sue mani sporche di terra, nodose, grosse, estranee alla scrittura, alle prese con quel pennello leggero scrivere sulla morte, con una calligrafia elegantissima..Osservavo nascere lì il mistero dell’arte, della pratica della scrittura…Scrivere attorno al buco traumatico del linguaggio, scrivere intorno all’impossibile da scrivere…Negli ultimi anni, a partire dal termine della mia analisi, la passione della scrittura ha conosciuto una incentivazione che ha sorpreso per primo me stesso…Non c’è tanto piacere della scrittura ma necessità della scrittura…Lasciare tracce, resistere alla morte, resistere alla tentazione del silenzio, o, meglio, dell’ammutilimento… 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa – Recensione

 

 

AUTORE:  Luca di Gregorio Ph.D – Graduate Teaching Assistant – University of Kent
Luca Di Gregorio is a Ph.D candidate and Graduate Teaching Assistant at the School of European Culture and Languages, University of Kent (UK), where he was awarded a GTA Scholarship to join the Italian Department in September 2012. Luca’s main academic interest is the relationship between psychoanalysis and aesthetics and his Ph.D thesis is entitled Aesthetics of the Real. Massimo Recalcati and the Lacanian Art Theory. Luca’s passion for art, literature and theatre has developed and deepened not only through purely academic endeavours such as his graduate research, but also through more practical experiences as an actor and as a cultural events organiser in Italy.

 

cancel