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Premio 2014 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

III Edizione del Premio State of Mind

per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

PREMIO State of Mind 2014 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche, in collaborazione con l’Istituto di Ricerca Studi Cognitivi, promuove nel 2014 la Terza edizione del Premio Italiano per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia.

La manifestazione ha lo scopo di sostenere:

1. la ricerca scientifica in queste discipline;

2. la divulgazione di risultati scientifici rigorosi;

3. l’opera di giovani ricercatori del settore.

 

SEZIONI:

A − Junior (Laureati Magistrali)

La Sezione Junior è dedicata a estratti di tesi di laurea magistrale che siano sperimentali e concluse entro gli ultimi tre anni (2012-2014) e da laureati di età non superiore ai 30 anni.

Il manoscritto deve riferirsi (o essere direttamente estratto) a tesi di laurea sperimentali condotte negli ultimi tre anni (2012-2014).

Gli articoli potranno essere in lingua italiana o inglese. L’autore partecipante potrà essere italiano o straniero, ma la ricerca dovrà essere stata condotta in Italia. I temi inclusi nel concorso si riferiscono alle seguenti discipline: Psicologia Clinica, Psicoterapia, Psichiatria, Psicologia Sociale, Psicologia della Salute, Psicologia dello Sviluppo e Psicologia Generale. La lunghezza degli articoli dovrà essere compresa tra le 2.000-6.000 parole (abstract e bibliografia escluse) e un massimo di tre allegati (tabelle e/o figure)

Gli articoli devono includere nell’ordine:

1. Titolo, autore/i e relative affiliazioni;

2. Abstract in italiano e inglese;

3. Cinque parole chiave;

4. Manoscritto contenente le seguenti sezioni: Introduzione, Metodo, Risultati e Discussione; 5. Le citazioni e i riferimenti bibliografici che dovranno essere redatti secondo le norme dell’American Psychological Association;

6. Tabelle e figure, nel numero massimo di tre in totale, che dovranno essere allegate al termi- ne dell’articolo e numerate progressivamente con cifre arabe. Le immagini devono essere ad alta risoluzione e di dimensioni tali da consentire una buona leggibilità.

Gli autori dovranno indicare nel form d’iscrizione: nome e cognome, indirizzo mail e numero telefonico dell’autore partecipante per eventuali comunicazioni. Il manoscritto deve riferirsi a ricerche pubblicate negli ultimi 3 anni (2012- 2014) o già accettate e in stampa e dovrà essere allegato nella sua versione definitiva al momento dell’iscrizione.

 

B – Senior (Dottorati)

La Sezione Senior è dedicata a estratti di tesi di laurea di dottorato che siano sperimentali e concluse entro gli ultimi tre anni (2012-2014) e da dottori di ricerca di età non superiore ai 40 anni.

Il manoscritto deve riferirsi (o essere direttamente estratto) a tesi di dottorato condotte negli ultimi tre anni (2012-2014). Gli articoli potranno essere in lingua italiana o inglese. L’autore partecipante potrà essere italiano o straniero, ma la ricerca dovrà essere stata condotta in Italia.

I temi inclusi nel concorso si riferiscono alle seguenti discipline: Psicologia Clinica, Psicoterapia, Psichiatria, Psicologia Sociale, Psicologia della Salute, Psicologia dello Sviluppo e Psicologia Generale. La lunghezza degli articoli dovrà essere compresa tra le 2.000-6.000 parole (abstract e bibliografia escluse) e un massimo di tre allegati (tabelle e/o figure).

Gli articoli devono includere nell’ordine:

1. Titolo, autore/i e relative affiliazioni;

2. Abstract in italiano e inglese;

3. Cinque parole chiave;

4. Manoscritto contenente le seguenti sezioni: Introduzione, Metodo, Risultati e Discussione; 5. Le citazioni e i riferimenti bibliografici che dovranno essere redatti secondo le norme dell’American Psychological Association;

6. Tabelle e figure, nel numero massimo di tre in totale, che dovranno essere allegate al termi- ne dell’articolo e numerate progressivamente con cifre arabe. Le immagini devono essere ad alta risoluzione e di dimensioni tali da consentire una buona leggibilità.

Gli autori dovranno indicare nel form d’iscrizione: nome e cognome, indirizzo mail e numero telefonico dell’autore partecipante per eventuali comunicazioni. Il manoscritto deve riferirsi a ricerche pubblicate negli ultimi 3 anni (2012- 2014) o già accettate e in stampa e dovrà essere allegato nella sua versione definitiva al momento dell’iscrizione.

 

PER PARTECIPARE:

La procedura di registrazione avviene mediante la compilazione di un form online alla seguente pagina:

http://www.studicognitivi.net/premio-state-mind-2014/

Per qualsiasi chiarimento o informazione è possibile contattare la segreteria scrivendo a [email protected] o chiamando il numero +39-347-3354424.

LE ISCRIZIONI DOVRANNO PERVENIRE ENTRO E NON OLTRE IL 15 NOVEMBRE 2014

 

Giuria (o Comitato scientifico)

La giuria che eleggerà il vincitore sarà composta da:

Marco Baldetti – Psicoterapeuta, Codidatta presso Scuola Cognitiva di Firenze. Ricercatore.

Andrea Bassanini – Docente delle scuole di specializzazione in Psicoterapia cognitivo-comportamentali Studi Cognitivi e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Professore a Contratto presso il Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Stefano Blasi – Ph.D, Psicoterapeuta, docente e ricercatore presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”.

Chiara Caruso – Ph.D in Functional Neuroimaging, Psicologa Cognitiva

Valentino Ferro – PhD Student, Psicologo, Cultore della Materia del corso di Psicologia dello sviluppo socio-affettivo presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Simona Giuri, Psicologa Psicoterapeuta. Codidatta presso Studi Cognitivi Modena

Leonor Romero Lauro, Ricercatore – Università degli Studi di Milano-Bicocca

Chiara Manfredi – Psicologa, Ricercatrice presso Studi Cognitivi

Francesca Martino – Ricercatrice presso Istituto di Psichiatria di Bologna

Sara Mori – Ph.D, Psicoterapeuta, Centro Cognitivismo Clinico Firenze

Annalisa Oppo – Psicologa e Ricercatrice. Didatta Scuola di Specializzazione Humanitas

Emanuele Preti – Ricercatore Università degli Studi di Milano – Bicocca

Maria Sansone – Psicoterapeuta, ricercatrice presso centro di Cognitivismo clinico, scuola cognitiva di Firenze

Diego Sarracino – Ricercatore Università degli Studi di Milano – Bicocca

Walter Sapuppo – Docente delle scuole di specializzazione in Psicoterapia cognitivo-comportamentali Studi Cognitivi, Milano

Simona Tripaldi – Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale in formazione, Ricercatore presso Studi Cognitivi

L’operato della giuria è insindacabile. L’applicazione corretta delle procedure di selezione sarà sottoposta alla supervisione del comitato dei garanti, composto da:

Nino Dazzi – Professore Emerito di Psicologia Dinamica, Università La Sapienza, Roma.

Franco Del Corno – Psicologo, psicoterapeuta. Professore a contratto di Psicologia clinica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università della Valle d’Aosta. Presidente di SPR, Society for Psychotherapy Research Italy Area group

Ettore Favaretto – Medico chirurgo, specialista in psichiatria, psicoterapeuta. Didatta nei corsi di Specializzazione presso Studi Cognitivi.

Marcello Gallucci – Professore associato presso Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Vittorio Lingiardi – Professore Ordinario Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma. Direttore Scuola di Specializzazione in Psicologia.

Giovanni M. Ruggiero – Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano e Bolzano; Responsabile Ricerca di “Studi Cognitivi”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano, Modena e San Benedetto del Tronto.

Sandra Sassaroli – Direttore di Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva. Professore al “Corso Post-laurea di Specializzazione in Psicoterapia costruttivista”, Università di Barcellona

 

PREMI

Al vincitore della Sezione A (Junior) sarà assegnato un premio di 600 euro.

Al vincitore della Sezione B (Senior) sarà assegnato un premio di 1.000 euro.

PREMIAZIONE

La premiazione si terrà il 12 Dicembre 2014 a Milano, in occasione della conclusione degli esami di diploma della scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva Studi Cognitivi.

La classifica dei vincitori verrà pubblicata sul sito web di State of Mind (www.stateofmind.it) dalla settimana successiva alla premiazione.

SCARICA IL BANDO COMPLETO (pdf) SCARICA LA LOCANDINA (pdf, Formato A4)SCARICA LA LOCANDINA (pdf, Formato A3)

State of Mind, Il Giornale delle Scienze Psicologiche. ISSN 2280-3653 – Testata giornalistica. Registrazione al Tribunale di Milano n. 587 del 2-12-2011 – Direttore Responsabile: Giovanni Maria Ruggiero.

 

 

 

Sottile come il domani: storie di un mondo ossessivo di Vincenzo Marsili – Recensione

 

 

Si tratta della vita che svolgono, e che decidono di avere, tutte le persone che mostrano un assetto ossessivo, costruendosi così delle compulsioni, di pensieri e di comportamenti, che li tengono lontano dal reale problema che li fa stare male al punto da controllarlo.

Sottile come il domani, cita il titolo del libro scritto da Vincenzo Marsili che mi accingo a presentarvi, esattamente come la linea sottile che lega i pensieri intrusivi, ossessivi, alla realtà. Coloro che restano incastrati nella ripetitività della coazione del pensiero intrusivo è come se non percepissero una via d’uscita dalla loro mente perché è la mente stessa che crea una realtà che non esiste, un mondo circolare e controllato, fatto solo di pensieri. Ma è proprio questa linea sottile che li porta a decidere di rimanere al di qua della linea, senza percepire l’esistenza di una alternativa dall’altra parte.

Si tratta della vita che svolgono, e che decidono di avere, tutte le persone che mostrano un assetto ossessivo, costruendosi così delle compulsioni, di pensieri e di comportamenti, che li tengono lontano dal reale problema che li fa stare male al punto da controllarlo.

La storia di molte persone è incastrata in un meccanismo ripetitivo, che si inceppa, e si ripropone incessantemente, sempre e continuamente, senza avere mai un nuovo inizio ne tantomeno una fine. Per questo non esiste un presente, ma una costante e monotona ripetizione del sintomo che li incastra nel passato.

Questo continuo, ripetuto e persistente sforzo è determinante per stabilire un controllo perfetto che sostituisce e tiene lontano dal caos emotivo, che spaventa perchè è imprevedibile, quindi pericoloso.

Il libro è costituito da racconti di vita, di sintomi, di sofferenza di pazienti divisi in sedute, dove volta per volta si consuma il sintomo e si cerca di individuare la causa scatenante il malessere. Il tutto è letto e raccontato in chiave psicoanalitica dove durante gli incontri il sogno fa da maestro.

Così, interpretazione dopo interpretazione si arriva al tema doloroso da cui stare lontano, perché troppo desolante e dolente.

Grazie a dei casi clinici è possibile sviscerare in modo originale e appassionante tutta la natura del disturbo in questione. Si tratta sempre di storie di vita che per qualche motivo non sono andate come il protagonista si aspettava fossero e nella giovane età adulta si sono trasformate in sintomatiche.

E’ un percorso avvincente nelle menti di chi è alla ricerca di un metodo, un appiglio, una motivazione che possa spingerli a guardare aldilà della linea sottile.

 

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Curare le ossessioni: estasi di un delitto (1955) – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Apprendimento della matematica nei bambini: come avviene?

FLASH NEWS

 

 

Lo studio della matematica è da sempre un terreno che divide: alcuni bambini sembrano esserne naturalmente portati, altri invece sembrano trovarlo difficilissimo. Una ricerca della Stanford University School of Medicine prova a spiegare, attraverso l’utilizzo di immagini cerebrali, il meccanismo di riorganizzazione del cervello dei bambini che imparano dei fatti di matematica.

Obiettivo principale è cercare di capire come i bambini acquisiscono nuove conoscenze e determinare perché alcuni bambini imparano a recuperare fatti dalla memoria meglio di altri, ma anche individuare le differenze tra come il cervello di un bambino e quello di un adulto risolvono problemi di matematica. A differenza degli adulti, infatti, sembrerebbe che i bambini usino aree cerebrali coinvolte nei processi di memoria: sono l’ippocampo e la corteccia prefrontale ad attivarsi per le attività di problem-solving.

Lo studio: 28 bambini (7-9anni) hanno risolto semplici problemi di matematica mentre venivano sottoposti a 2 risonanze magnetiche funzionali a distanza di un anno circa.

I ricercatori hanno esaminato anche 20 adolescenti (14-17anni) e 20 adulti (19-22 anni) in un’unica sessione.

Alla seconda rilevazione i bambini erano diventati più veloci e più accurati nella risoluzione dei problemi di matematica e si affidavano di più alla memoria che al calcolo. Questi cambiamenti di strategia trovavano un riscontro anche a livello fisiologico: dalle immagini si notano una serie di cambiamenti nell’attivazione neurale che, durante la seconda fase di test, vede maggiormente coinvolto il centro della memoria (l’ippocampo) rispetto alle regioni deputate al calcolo.

I ricercatori hanno registrato anche che quanto più forti sono le connessioni tra ippocampo e le cortecce prefrontale, temporale anteriore e parietale, migliori saranno le abilità matematiche del bambino.

Per gli adulti invece l’ippocampo non ha un ruolo centrale, sono la neocorteccia e le informazioni immagazzinate in essa ad essere fondamentali per risolvere i problemi di matematica.

Tuttavia, scoperte di questo tipo sono un ottimo spunto per la ricerca sui disturbi dell’apprendimento. È noto che riuscire a recuperare fatti dalla memoria in maniera fluida e rapida è uno dei problemi di base, poter mettere a confronto bambini con normali abilità e bambini che hanno invece delle difficoltà può far luce sull’efficacia delle strategie messe in atto e su come si costruiscono le rappresentazioni di fatti matematici e in generale le prime tappe dell’apprendimento.

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

Psicologia & neuroscienze: correlati neurali nell’ansia per la matematica

BIBLIOGRAFIA:

Vivere le vite degli altri: una settimana da Psicoterapeuta

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 24 Agosto 2014.

 

Sono psicoterapeuta, vivo le vite degli altri, per curarli divento loro cambiando identità allo scattare dell’ora. Per ricordarmi chi sono pubblico articoli scientifici, leggere la propria firma rassicura, oppure telefono agli amici. I veri amici riconoscono sempre la mia voce.

Lunedì all’una trovo una buona ragione per avere riposto in cantina copie di Caravaggio e Bruegel il vecchio che dipinsi vent’anni fa: erano mediocri. Mi trasformo in una ragazza al balcone, spaventata dall’idea di avere impulsi suicidi. Non ne ho alcuno, ma ne divento consapevole solo dopo trentadue minuti. L’ora dopo torno a essere un uomo, il che è mi è più comodo, annoiato dalla moglie ecologista e angosciato perché l’amante pare non intenda lasciare il marito, il che mi è spiacevole. Sono manager, decido con la mano sinistra perché il lavoro mi fa schifo. Prima o poi scopriranno che sono un bluff, non sopporto la folla nè la gente che mastica chewing-gum. A metà pomeriggio affermo orgogliosa: beve, non vuole figli e mi tradisce, l’ho lasciato! Mi assillano, purtroppo, tre domande: esiste l’uomo giusto? Se esiste, vorrà me? Se esiste e vuole me, cosa farò di male per perderlo?

In segreteria torno me stesso il tempo di un caffè. Luisa mi sorride, fiera. Indovina? Dimmi. Psychotherapy and Psychosomatics ci ha accettato l’articolo. Vai! Ritorno in stanza. Mi strazio al ricordo del funerale di mio padre, 15 anni fa. Protesto col mio psicoterapeuta (sempre io): vengo in terapia per piangere? No! Rispondo di getto, chiaramente giustificandomi. Ci si passa, le lacrime erano lì. Recupero punti, poco dopo discutiamo della differenza tra lager, ale e stout, concordiamo che l’amaro profumato delle Indian Pale Ale è inimitabile, la terapia ora è una cosa buona. Resta l’eco del lutto.

Maledico Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese (Università di Parma). Niente di personale contro di loro, due geni, una gloria nazionale. Il guaio è che hanno scoperto i neuroni-specchio, cellule che ci permettono di capire la mente dell’altro senza ragionare ma simulandone l’azione nel nostro corpo. In termini semplici, se fa caldo e vedete l’amico che si dirige verso il frigo, stappate voi stessi una birra nell’immaginazione e concludete: ha sete. La differenza è che nella vostra mente l’azione pianificata e simulata non attiva i neuroni motori, lui berrà la birra e voi no (io l’ho già bevuta oggi pomeriggio).

Per noi psicoterapeuti questi neuroni specchio sono:

1) la chiave per l’empatia e l’attrezzatura con cui paghiamo i conti;

2) una fregatura indicibile.

L’altro soffre di brutto e le sue sventure circumnavigano le nostre aree cerebrali. È sera, saluto Luisa. I ragazzini sono nelle mani sicure della supertata che li starà mettendo a letto: risate, rimproveri ben dosati, denti lavati (mai negoziare). Vado al locale del mio amico Dario dietro piazza Trilussa a Roma; mi offre – preparato da Fabio – un mojito ineccepibile. Dario ha vissuto mille vite senza ricorrere ai neuroni-specchio: animatore al Valtur ai tempi di Fiorello, copywriter pubblicitario, operatore umanitario in Mozambico. Mi racconta che da quelle parti un pozzo costruito oggi non funzionerà necessariamente domani e di una modalità locale di reagire ai licenziamenti: sparando. Non mi racconta i fatti su cui si basa, non glieli chiedo. In Australia conosce Heath Ledger, prima che diventi il Joker. Me lo descrive come un ragazzo semplice, di curiosità vorace, voleva sapere tanto di Pirandello.

Il giorno dopo ho un disturbo alimentare. Mi abbuffo e faccio ore di esercizio fisico per non ingrassare, litigo con i miei fidanzati, mi arrabbio quando mi trascurano, li lascio, per calmarmi mastico oppio. Non ho le mestruazioni dal 2008 (questo per fortuna lo simulo con una certa facilità). L’ora successiva racconto con orgoglio di avere preso l’autobus dopo cinque anni – calcolo che ci ero salito l’ultima volta pochi mesi dopo l’interruzione del ciclo – , niente attacchi di panico, niente paura di svenire. Alé!

Nel tardo pomeriggio sono di ritorno da una missione diplomatica in Mozambico. Venivo da un periodo sentimentale virato al nero. Ho avuto un’avventura con uno del posto, una sorta di ritorno alla vita. L’ho salutato dicendogli che non ci saremmo più rivisti. Preoccupato domando: “Era armato?” Non si sa mai. Occhi perplessi mi fissano.

Ritorno in me mettendo a letto i figli con “La strada” di Cormac McCarthy. Mia figlia mi aveva chiesto: papi, qual è il romanzo più triste che hai letto? Amore, il più triste è anche il più bello. Di che parla? Non risposi. Presi il libro, iniziai a leggerlo ad entrambi. Oggi si scatena una gara di scommesse tra lei e il fratello. Muore il padre. No, muore il figlio. Muoiono tutti e due, così è più drammatico!

Il giorno dopo, sempre nei panni di me stesso, sono ad Oslo per tenere un seminario all’Istituto per la Mentalizzazione, invitato e ospitato da Sigmund Karterud, dell’Università della città. Ha quella rude gentilezza dei norvegesi, il freddo è secco, mi sento bene. Mi dice che il suo collega Finn voleva conoscermi ma è a New York, a casa di Paul Auster, è amico della moglie Siri Hustvedt, di origine norvegese. Mi sembra naturale. Realizzo quindi di avere formulato un sillogismo la cui conclusione è: tutti i norvegesi sono amici della moglie di Auster. Suona imperfetto, devo rifletterci su. Ceno con Sigmund al Theatercafeen, per aperitivo un Bordeaux nella lobby circondati da stampe di Munch. Domani dopo il seminario visiteremo il Munchmuseet, Finn ha scritto un pezzo di taglio psicoanalitico per uno dei cataloghi. Dopo cena mi mostra il Teatro dell’Opera, affacciato sul fiordo. A volte, mi spiega Sigmund, tengono seminari come il mio all’ultimo piano, grazie all’intermediazione di Finn. Finn comincia a insospettirmi.

Sono riuscito a farmi del male. Avevo chiesto: se un paziente accetta una consulenza con me, portatelo, così vi mostro dal vivo come faccio terapia, è meglio di tanta teoria. Purtroppo qualcuno ha accettato. Mi ritrovo a tenere una seduta con una ragazza maltrattata dalla madre e abusata dal patrigno, timorosa di danneggiare la figlia, colma di vergogna. I miei neuroni-specchio impazziscono. Immedesimarmi in inglese con una donna norvegese è tremendamente difficile, chiedo aiuto agli amici, ai padri fondatori e, in ultimo, a Finn. Nessuno di loro è lì a coprirmi le spalle. Mi batte il cuore. La donna non se ne accorge, credo. Mi riprendo, divento lei, la seduta va alla grande, chiusura commovente. L’anno prossimo torno ad Oslo. A lavori conclusi Sigmund mi porta ad un lago fuori città, picnic in primavera e si pattina quando gela. C’è una sola baita rossa nel raggio di kilometri. “Ero qui con Finn una settimana fa”, mi racconta “e mi ha detto: bella, la voglio comprare. Gli ho risposto: sei pazzo. Lunedì mattina mi ha mandato un’email: l’ho comprata”. Immagino le puntate successive: Finn alle Termopili. Finn contro Godzilla. Finn intervista Salinger in seduta spiritica.

Domenica sera sono me stesso, in italiano, a casa, neuroni-specchio spenti! Ricominciano le scommesse su “La strada”. I miei figli premono: muore qualcuno? Chi muore? Papà, dai! Oppongo strenua resistenza. Si addormentano. Rimasto solo, nel buio, sono colto da due illuminazioni. Non stringere relazioni di alcun genere in Mozambico. Chiedere la cittadinanza norvegese per diventare amico della moglie di Paul Auster.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI: INTERVISTA A GIANCARLO DIMAGGIO

La Psicoterapia Italoamericana e gli Studi sulle emozioni – Congresso APA 2014

Congresso APA 2014:

Studi sulle emozioni

 

Terzo gruppo di presentazioni cui assisto al congresso APA (American Psychological Association) 2014. Scelgo lavori accomunati dall’interesse verso gli stati emotivi: Bernardo Carducci sulla timidezza, Anthony Scioli sulla speranza e Philip Zimbardo su qualcosa di più ampio di un’emozione: il male, come comportamento e come attitudine sociale. È un caso, o forse no, che si tratti di tre italo-americani. Accennerò anche brevemente alla mia presentazione in cui oso proporre che forse c’è un interesse specifico italiano e italo-americano per le emozioni.

Dei tre il più noto è Philip Zimbardo. E lo è dall’inizio degli anni ’70, quando eseguì nel seminterrato della Stanford University che riproduceva perfettamente un carcere un esperimento sociale diventato famoso: una simulazione di reclusione carceraria in cui ventiquattro volontari -accuratamente selezionati per escludere ogni propensione alla sopraffazione violenta o alla sottomissione- erano stati casualmente inseriti in gruppo di “guardie” o di “reclusi”. I “reclusi” indossarono divise, un numero diventò il loro nome, ebbero applicata una catena a una caviglia e ricevettero l’istruzione di attenersi alle regole della disciplina carceraria. Le “guardie” indossarono uniformi militari, occhiali da sole che celavano gli occhi, furono dotati di manganello, fischietto e manette, ed ebbero concessa ampia libertà sui metodi da adottare per mantenere l’ordine.

L’esperimento mostrò che i partecipanti, sebbene sapessero che la loro appartenenza a uno dei due gruppi fosse del tutto arbitraria e artificiale, in pochi giorni iniziarono a sviluppare non solo comportamenti sadici (le guardie, naturalmente) o ribelli e/o sottomessi (i reclusi) e soprattutto idee congruenti. Le “guardie” pensavano che i reclusi andavano giustamente controllati e puniti come se fossero davvero colpevoli e i reclusi pensavano di doversi ribellare oppure di meritare quel che subivano.

Dopo due giorni i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle. Le guardie reagirono intimidendoli e umiliandoli, ad esempio obbligando i “reclusi” a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare e a pulire le latrine a mani nude. Al quindi giorno i “reclusi” erano stati completamente sottomessi e mostravano un comportamento docile e passivo mentre le guardie erano sempre vessatorie e sadiche, facendo temere che il rapporto con la realtà di tutti i partecipanti fosse compromesso.

A questo punto l’esperimento fu interrotto in anticipo per la sua pericolosità e dimostrò in maniera sbalorditiva come l’ambiente e i comportamenti fossero in grado di plasmare le persone e le loro idee in pochi giorni, anzi in poche ore. Fu un esperimento in cui comportamentismo e psicologia sociale s’incontrarono e dimostrarono la forza delle variabili esterne –il comportamento e il contesto- e ridimensionarono di molto quel che si pensava fosse l’impatto delle variabili cognitive interne.

I pensieri delle “guardie” e dei “reclusi”, lungi dal controllare i loro comportamenti, diventarono un effetto collaterale dell’ambiente e dei comportamenti. Su youtube è possibile trovare filmati e documentari dell’esperimento:

 

Da allora Zimbardo è diventato una sorta di studioso del male e dei fattori che lo facilitano, il cosiddetto “effetto Lucifero” che è diventato anche il titolo del suo libro più conosciuto (Zimbardo, 2008). Non basta.

Zimbardo è andato oltre lo studio del male, per tentare di comprendere anche quali sono le condizioni che facilitano il bene. E di questo ha parlato al congresso di Washington, proponendo quello che lui chiama l’eroismo del bene. Ovvero, per incoraggiare le persone al bene occorre renderlo attraente e appetibile, condendolo di eroismo. Questa appetibilità è necessaria per contrastare quella che è l’appetibilità del male, l’eroismo perverso delle gang giovanili violente che affliggono la vita sociale americana e anche, sia pur in misura minore, europea. L’eroismo del bene, naturalmente, è meno immediatamente appagante dell’eroismo del male. È fatto di abnegazione, di disponibilità sociale e di piccoli gesti quotidiani faticosi non immediatamente gratificanti e perversamente “gloriosi” come gli atti di sopraffazione e le soddisfazioni del rango assicurate dalle gang giovanili.

Anthony Scioli studia la speranza da anni, un’emozione trascurata. Anche la speranza, come l’eroismo del bene di Zimbardo, fa parte di una corrente di studi che preferisce lo sviluppo dei fattori di benessere piuttosto che l’esplorazione di ciò che ci fa star male. Scioli definisce la speranza come uno stato mentale più ampio della motivazione. La speranza è meno immediatamente focalizzata sulla realizzazione di un obiettivo, preferendo invece avere uno sguardo più ampio in cui è proprio l’assenza di un preciso obiettivo che rende il soggetto speranzoso meno sensibile all’ansia e alla preoccupazione. La speranza, per Scioli, si articola in 5 assi, che comprendono:

1) relazioni;
2) obiettivi;
3) fronteggiamento;
4) spiritualità o auto-trascendenza;
5) gestione dello stress.

Per la mente europea forse il termine più ostico è spiritualità o auto-trascendenza. Scioli intende con spiritualità la capacità di concepire degli obiettivi che trascendano la propria visione soggettiva e legati invece a una fede o -se si preferisce- una fiducia in un valore successivo a quelli personali. Un valore ultimo o –ancora una volta se si preferisce- almeno penultimo.

Scioli ha sviluppato alcuni strumenti di valutazione della speranza dotati di una buona capacità predittiva della resilienza, ovvero della capacità di non essere soggetti alla sofferenza emotiva (Scioli e Biller, 2009).

Da ultimo, Bernardo Carducci ha parlato di timidezza all’interno di un simposio condiviso con me e dedicato al contributo italiano alla psicologica clinica. Carducci ha esposto il suo modello della timidezza di cui abbiamo già parlato nell’intervista fatta l’anno scorso al congresso APA 2013 a Honolulu (Carducci e Golant, 2000).

Infine, nella mia presentazione ho tentato di delineare una sorta di percorso ideale della psicologia cognitiva italiana, individuando come carattere proprio l’integrazione con il costruttivismo e il particolare interesse per le emozioni e per la relazione per storia personale del cliente. State of Mind pubblica anche le diapositive della mia presentazione:

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La supervisione in Psicoterapia – Congresso APA 2014, Washington DC

Congresso APA 2014: La supervisione in psicoterapia

La supervisione in psicoterapia è stata per anni la cenerentola della psicoterapia: poco studiata e poco teorizzata. La via facile voleva che il buon terapeuta diventasse senza scampo il buon supervisore, e arrivederci a tutti; ma non è così semplice. 

Supervisione psicoterapia - ADDRESSING SUPERVISION PROCESS AND OUTCOMES - APA 2014 WASHINGTON DC -Vado al congresso APA (American Psychological Association) 2014 e scrivo di Rational Emotive Behavior Therapy (REBT). Sono un po’ fissato, lo riconosco, e avete il diritto di esclamare: “Aha, Ruggiero è il solito monomaniaco, per lui esiste solo Albert Ellis!” Beh, dopo essermi sfogato vi parlo anche delle altre cose che ho visto.

Un simposio sulla supervisione in psicoterapia, per iniziare. La supervisione è stata per anni la cenerentola della psicoterapia, poco studiata e poco teorizzata. La via facile voleva che il buon terapeuta diventasse senza scampo il buon supervisore, e arrivederci a tutti. Non è così semplice, come ha detto Ray Digiuseppe al corso che ho fatto per diventare supervisore REBT (eh! Lo so, ci sono ricascato!)

 

I compiti della supervisione in psicoterapia

Nel simposio, a cura di Chun-I Li, Scott Fairhurst e Scott Liu dell’Università dello Iowa, sono stati delineati i compiti del supervisore della psicoterapia e le aspettative del supervisionato (supervisee), che sono dieci:

  1. aiutare l’introspezione (facilitating insight)
  2. riscontro e correzione (feedback and correction)
  3. incanalare l’eaborazione (allowing for debriefing)
  4. delineare le scelte (outlining options)
  5. impartire conoscenze generali (imparting general knowledge)
  6. spiegare che fare (explaining what to do)
  7. impostare differenze di valori (addressing differences in values)
  8. promuovere lo sviluppo professionale (promoting professional development)
  9. essere un modello (modeling)
  10. validare gli stati emotivi del supervisionato (validating supervisee’s feelings)

Queste variabili potrebbero essere a grandi linee raggruppabili in due aree principali: la validazione degli stati emotivi vissuti in seduta e la valutazione e correzione degli aspetti tecnici e strategici. Insomma, la carota e il bastone.

 

Aspettative e valutazioni dell’esperienza di supervisione nella psicoterapia

Il risultato interessante, almeno in base ai dati empirici, è che il supervisionato dichiara maggiore bisogno di correzioni e valutazioni, mentre il supervisore sembra più interessato nel fornire supporto, conferma e validazione emotiva. Questo per quanto riguarda le aspettative.

Il quadro si conferma quando si passava a come supervisori e supervisionati valutavano le loro esperienze. I supervisori, confermando la loro idea di dover dare soprattutto conforto e conferma, valutavano le loro esperienze come emotivamente appaganti e calde. Insomma sentivano di aver offerto quel supporto che pensavano di dover dare. I supervisionati, invece, valutavano più negativamente il colore emotivo delle loro esperienze, forse in parallelo con il loro bisogno di essere guidati e corretti.

L’interesse del simposio, più che nei risultati, risiede nella proposta di strumenti di valutazione della supervisione in psicoterapia. La ricerca empirica potrà aiutare la supervisione a uscire dalla sua condizione di attività trascurata e minore rispetto alla psicoterapia. 

Psicoterapia: Congresso APA 2014 – Report da Washington DC

Congresso APA 2014:

Lo sguardo sulla REBT

APA 2014 WASHINGTON - REPORTAGE 

Mastodontico ma non dispersivo è stato il congresso annuale convocato dall’APA (American Psychological Association) a Washington negli Stati Uniti d’America dal 7 al 10 agosto 2014. Non dispersivo forse soprattutto per l’app gratuita per smartphone offerta dall’organizzazione, app che consentiva di cercare le presentazioni d’interesse, sistemarle su un’agenda e localizzarle all’interno dell’enorme Washington Convention Center, a pochi passi dalla Casa Bianca e Capitol Hill. Grazie a questo strumento ho potuto individuare gli eventi di carattere clinico che più mi interessavano.

Ho privilegiato naturalmente i simposi dedicati alla psicoterapia, dividendomi tra simposi sulla supervisione e simposi sulla Rational Emotive Behavior Therapy (REBT). In questo articolo descrivo due simposi sulla REBT. Nel primo simposio, giovedì mattina 7 agosto, ho potuto assistere a un vero e proprio duello di psicoterapie.

Un duello tra psicoterapie cognitive, la CBT (Cognitive Behavioural Therapy) contro la REBT. Un cliente volontario con problemi di ansia si è sottoposto dal vivo a due minisedute di venti minuti ciascuna, la prima con Arthur Freeman (dell’Università di Chicago) nella parte del terapeuta CBT e la seconda con Kristene Doyle (dell’Albert Ellis Institute di New York) nella parte della terapeuta REBT. Arbitro Ray DiGiuseppe. Il lancio di una moneta ha stabilito che il primo ad agire fosse Freeman, mentre la Doyle si accomodava fuori dalla stanza. Quando è stato il turno della Doyle, Freeman è rimasto ad ascoltare.

Naturalmente il metodo non è perfetto. Nella seconda seduta –la seduta REBT- il cliente aveva potuto già usufruire dell’effetto della seduta CBT. Inoltre il cliente era in verità un collega in formazione, e in formazione REBT. Quindi conosceva i principi cognitivi e quelli specifici REBT. Il cliente è infatti un giovane terapeuta in ansia per il suo futuro professionale, ansia nutrita da insicurezze personali e da dubbi sul suo livello di preparazione. E questo è il problema che ha portato, a somiglianza di tanti giovani colleghi italiani che a lezione portano l’ansia per il proprio futuro professionale come argomento di esercitazione. Ultimo limite, Freeman ha avuto sia una formazione CBT che REBT e caricava intenzionalmente l’aspetto CBT.

Malgrado queste forzature, la differenza di metodo era istruttiva. In breve, la teoria cognitiva generale descrive l’ansia come un eccesso di preoccupazione, una sopravvalutazione dei problemi e dei pericoli e una sottovalutazione della propria capacità di gestirli. All’interno di questa cornice, la CBT alla Beck lavora sugli errori di lettura della realtà, quegli errori che ci fanno credere che gli ostacoli siano più ostici di quel che sembra. Insomma, la tecnica chiave del terapeuta CBT è una valutazione critica delle difficoltà immaginate dal cliente ansioso e la loro normalizzazione, il loro ridimensionamento. Il terapeuta chiede, in maniera accogliente:

“Come fai a dire che gli ostacoli che immagini ci siano, o siano così insormontabili?”

Nel caso specifico del simposio APA, Freeman ha condotto una valutazione critica dei dubbi e dei timori del giovane collega ansioso sulla pochezza delle proprie capacità professionali e sulla rarità degli sbocchi lavorativi, per giungere alla conclusione che questi timori erano eccessivi: nessuno, in realtà, aveva espresso giudizi negativi verso il giovane collega, né i suoi superiori né i suoi primi clienti, e nemmeno i primi passi nel mondo del lavoro erano stati così deludenti e frustranti.

L’impostazione della CBT è dunque ottimista e collaborativa. Terapeuta e cliente insieme esplorano il mondo e scoprono che i mostri temuti nel buio della mente diventano –alla luce della psicoterapia- dei mostriciattoli molto meno penosi.

Può sembrare un’impostazione semplicistica e ingenua. Ed è proprio questa la critica che sempre Ellis aveva rivolto a Beck. Nella REBT la visione filosofica è meno ottimista. Gli scenari peggiori possono avverarsi e l’obiettivo terapeutico non è solo eliminare eventuali valutazioni cognitive errate sull’entità degli ostacoli, ma anche prepararsi emotivamente al peggio. Ovvero, prendere atto che le sconfitte possono avvenire e che non sta scritto da nessuna parte che le cose vadano come si desidera. È una visione stoica della vita. Per questo il terapeuta REBT lavora non tanto su: “vediamo quanto è probabile quel che temi” ma sul “e dove sta scritto che quel che temi non debba avvenire?.

Detto così, sembra un intervento ruvido che potrebbe addirittura indebolire il paziente. Espresso però con la dovuta capacità di costruire e mantenere l’alleanza terapeutica, diventa un attacco alle aspettative del cliente, alle sue pretese che non ci siano difficoltà e ostacoli tra se e i propri scopi personali.

Per la REBT, la rinuncia a queste pretese (“demands”) è il presupposto per poi smettere di immaginare in maniera terribilizzante gli ostacoli (“awfulizing”), di temere di non poter tollerare la frustrazione (“frustration intolerance”) e di formulare queste difficoltà in termini denigrativi di se o degli altri (“self-downing” e “other-downing”). Lo stile diventa più sfidante e meno accogliente.

Doyle e Freeman hanno dato una buona prova dal vivo di queste due opposte tecniche. Quale sia la migliore, è una domanda al tempo stesso interessante e oziosa. Per anni ha prevalso la CBT di Beck, anche grazie a maggiore investimento sulla ricerca mirata su disturbi specifici definiti nei termini medici e psichiatrici più rigorosi. La REBT ha invece preferito un approccio più globale e psicologico e al tempo stesso più mirato sui problemi singoli del cliente nel qui e ora. Negli ultimi anni, a seguito degli sviluppi cosiddetti di terza ondata, l’attenzione della REBT per la resilienza emotiva ai disturbi piuttosto che agli errori cognitivi ha ricevuto un ritorno d’interesse. Anche l’efficacia della REBT è stata finalmente testata, e i risultati sono promettenti, confermando che la REBT ha precorso alcuni passi avanti individuati nelle terapie di terza ondata. Al tempo stesso, la terza ondata ha sottolineato alcune deficienze teoriche della CBT. Questi sviluppi sono stati descritti e valutati criticamente da Raymond DiGiuseppe in un secondo simposio REBT tenutosi domenica 10 agosto, poche ore prima della chiusura finale del congresso.

Un terzo simposio sulla REBT era dedicato ad applicazioni specifiche. Segnalo la presentazione della collega italiana Sara Bernardelli, che ha mostrato dati sull’applicazione della REBT nei bambini.

 

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APA 2013 Congresso annuale Honolulu (HAWAII)

DIFENDIAMO I CITTADINI DAL GIOCO D’AZZARDO – FIRMA LA PETIZIONE

RICEVIAMO IN REDAZIONE E DIFFONDIAMO IL COMUNICATO STAMPA DELL’ASSOCIAZIONE PRIMO CONSUMO:

   COMUNICATO STAMPA

PRIMOCONSUMO LANCIA LA PETIZIONE:

DIFENDIAMO I CITTADINI DAL GIOCO D’AZZARDO

Per molte persone il gioco d’azzardo non si limita ad essere un innocuo passatempo ma rischia di diventare sintomo di un disturbo patologico definito ludopatia che causa gravi danni relazionali, economici e familiari.

Il gioco d’azzardo oggi rappresenta una realtà problematica che sta coinvolgendo persone di ogni estrazione sociale, età, sesso e provenienza. A farne le spese sono soprattutto pensionati e giovani. Circa un terzo delle giocate viene effettuato da minorenni, anche se in Italia la legge vieta ai minori il gioco con vincite in denaro.

Si stima infatti che nell’anno 2012 il 12% dei ragazzi abbia giocato on line e il 27% non online, che il 25,2% dei ragazzi abbia sentito l’esigenza di giocare  e che il 46% abbia giocato tutti i soldi a disposizione (Eurispes e Telefono Azzurro, “Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza 2012”).

Alla luce di questi dati allarmanti, Primoconsumo, già in prima linea nella lotta alla ludopatia e nella tutela della salute psicofisica dei giocatori e dei loro familiari attraverso varie iniziative  e con il progetto: “Game over- la dipendenza dal gioco non è un gioco”, promuove una petizione per difendere i cittadini dai rischi del gioco d’azzardo.

INDIRIZZATA  A GOVERNO MATTEO RENZI

CHIEDIAMO ALLE FORZE POLITICHE  DI :

Vietare i messaggi pubblicitari (così come avviene per il tabacco) concernenti il gioco con vincite in denaro

Disporre il divieto di vendite promiscue di gioco (ad es. gratta e vinci) in locali non dedicati esclusivamente al gioco (es. supermercati, autogrill, etc.).

Promuovere campagne di informazione e sensibilizzazione sui rischi e i pericoli derivanti dal gioco d’azzardo a partire dai contesti scolastici e di aggregazione giovanile (centri  culturali, sportivi, etc) con una quota parte del prelievo fiscale già in essere quale tassa di scopo per la sovvenzione della “pubblicità progresso”.

Destinare parte del prelievo fiscale derivante dai  luoghi fisici di gioco (no internet) al finanziamento degli enti locali che oggi subiscono fortemente l’impatto fisico e sociale del gioco.

Sanzionare (manca sanzione nel decreto Balduzzi) chi consente giochi d’azzardo attraverso internet in locali pubblici attraverso l’installazione di pc o apparecchi idonei allo scopo.

Promuovere l’adozione di un unico registro nazionale delle persone che chiedono l’autoesclusione dai siti di gioco uniformando la disciplina per tutti i concessionari

Considerato che i reati di esercizio e agevolazione del gioco d’azzardo sono già disciplinati nel codice penale, inasprire il sistema sanzionatorio prevedendole non come mere ipotesi contravvenzionali bensì come delitti, aumentando le pene edittali previste, integrando le fattispecie tipiche punendo anche coloro che prestano denaro da utilizzare nelle puntate di gioco ovvero coloro che promettono o prestano denaro per far fronte ai debiti di gioco e, infine, affiancando sempre alle pene principali le pene accessorie.

FIRMA LA PETIZIONE:

https://www.change.org/it/petizioni/governo-matteo-renzi-difendiamo-i-cittadini-dal-gioco-d-azzardo

 

ARTICOLI SU: GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO

Comunicato stampa Petizione Gioco d’azzardo

PRIMI FIRMATARI

Riccardo Nencini   Viceministro alle infrastrutture (PSI)

Enrico Buemi        senat. e capogruppo Aut-Psi-Maie

Fausto Guilherme Longo senatore Psi

Claudio Bucci       respons.Nazionale Psi

 

Roma 28 luglio 2014

  

   Segreteria Primoconsumo

   Tel. 06/39738239

   Fax 06/97271844

Il cervello a fumetti: il progetto Neurocomic di Matteo Farinella & Hana Roš – Recensione

Neurocomic è il nome di un interessante progetto con cui Matteo Farinella (neuroscienziato di origini bolognesi ma londinese di adozione) e Hana Roš (ricercatrice) hanno riproposto la struttura neurale e il suo funzionamento sotto forma di un romanzo grafico.

Attraverso questa storia raccontata a fumetti il lettore viene accompagnato nell’esplorazione in cinque capitoli di altrettanti aspetti del sistema nervoso: morfologia, farmacologia, elettrofisiologia, plasticità e sincronicità. Ad affiancarlo, interessante richiamo dantesco, per ogni girone troviamo una figura di spicco del settore, passata alla storia per le sue scoperte o i suoi studi nell’area neurale.

Il protagonista apre la storia cadendo per caso nella selva oscura dantesca che al posto degli alberi ha i dendriti e gli assoni dei neuroni; lì trova ad accoglierlo Santiago Ramón y Cajal, premio Nobel per i suoi studi pioneristici sulla struttura del cervello, insieme a Camillo Golgi, a sua volta premio Nobel per aver scoperto un metodo per colorare i neuroni pochi per volta e studiarli meglio da vicino.

Dopo aver dato modo al lettore di comprendere la struttura delle componenti neurali, il protagonista entra all’interno del neurone stesso, nella zona della sinapsi.

A questo punto si fa spiegare da Charles Scott Sherrington come funziona la trasmissione tra neuroni, attraverso la liberazione (e l’assorbimento) di neurotrasmettitori nella fessura sinaptica.

Il protagonista, che continua a cercare il modo più veloce per uscire da questa gita all’interno del cervello, si trasforma lui stesso in neurotrasmettitore e riesce a fuoriuscire dal neurone facendosi però pescare da un sottomarino capitanato da Alan Hodgkin e Andrew Huxley che gli consentono di capire meglio l’elettrofisiologia e le caratteristiche elettriche che permettono ai neuroni di comunicare tra loro attraverso il flusso di ioni (particelle cariche elettricamente) da una regione all’altra.

 Nel momento in cui il nostro protagonista riesce a scappare dal sottomarino approda su una spiaggia per esplorare la plasticità neurale dove incontra Eric Kandel (che chi ha per qualche motivo sostenuto un esame di neuroscienze ricorda con stima e tanto dolore) che gli racconta la differenza tra la memoria implicita e la memoria esplicita. Sul termine della lezione, sentiamo un campanello che suona e incontriamo Ivan Pavlov, tra i primi studiosi della memoria e ricordato per i suoi esperimenti sul condizionamento classico, ottimo esempio di come i neuroni possono connettersi e disconnettersi tra loro formando reti preferenziali che sono potenziate con la ripetizione e l’esercizio e al contrario slegate se non coltivate.

Infine, fuggito anche dalla spiaggia alla ricerca di un passaggio che gli consenta di ritornare fuori dal cervello, l’ultima caratteristica che esploriamo in compagnia del protagonista è la sincronicità, con un occhio di riguardo alla relazione tra le diverse aree del cervello e le strutture del sistema nervoso periferico sparse per tutto il nostro corpo (i recettori nervosi). In questo caso, ci aiuta Hans Berger, inventore dell’elettroencefalografo e primo studioso delle onde cerebrali.

Il volume si chiude con una riflessione molto interessante, che esplora meglio la controversa questione della relazione tra mente e cervello: la mente è qualcosa di diverso dal cervello, è il software mentre il cervello è l’hardware, è un suo sottoprodotto?

Come giustamente sottolinea l’autore:

trovare una spiegazione biologica per la mente è davvero la sfida più grande per le neuroscienze.

Alla ricerca dell’artefice di questo scherzo lungo un viaggio, il protagonista si avventura in un castello dove però si trova davanti a uno specchio che gli mostra se stesso: il macchinista dietro a questo strano tour era lui, che attraverso il suo stesso cervello è stato in grado di costruire questa narrazione e vedere una storia comporsi di fronte a una serie di disegni su carta.

Un modo davvero interessante e alternativo di raccontare il mondo neurale che, per tante persone che l’hanno approcciato perché richiesto dal percorso di studi, è stato interessante ma anche molto complicato da assimilare.

Sicuramente, senza la pretesa di essere esaustivo, lo ritengo un valido aiuto per introdurre il mondo delle neuroscienze nei suoi principi di base, come la struttura o il funzionamento sinaptico.

Molto interessante anche il finale, che non si limita a essere un’illustrazione dei risultati finora raccolti dalla scienza, ma apre nuovi e importanti interrogativi sulle connessioni tra mente e cervello, tra morfologia e psicologia, che rispecchiano bene un quesito molto presente nel contesto attuale, che ha portato per esempio Rizolatti alla scoperta dei neuroni specchio, fondamento biologico dell’empatia.

 

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Neuroestetica: Kandinsky tra arte e cervello – Arte & Neuroscienze

BIBLIOGRAFIA: 

  • Farinella, M. & Ros, H. (2014). Neurocomic. Rizzoli Lizard (Credits: © 2014 RCS Libri S.p.A., Rizzoli Lizard – © 2014 Matteo Farinella e Hana Roš).

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Giudizi di valore e gerarchie sociali: impossibile non giudicare! – Psicologia

 

 

FLASH NEWS

Secondo un team di ricercatori della University of Virginia, costruire gerarchie sociali sulla base di giudizi di valore – in altre parole definire la propria e l’altrui superiorità o inferiorità – sembra essere una pratica comune, anche se non esplicita. Le regole di superiorità e inferiorità plasmano sottilmente i nostri giudizi su razza, religione e, sorprendentemente, anche quelli sull’età.

Chi è ok? E chi è meglio di chi? Passiamo gran parte del nostro tempo a dare giudizi di valore sugli altri, anche se ci è stato insegnato fin da piccoli che “non si fa”. L’uguaglianza, infatti, è un principio fondamentale della società occidentale, ed è considerato politicamente scorretto costruire gerarchie sociali.

Secondo un team di ricercatori della University of Virginia, costruire gerarchie sociali sulla base di giudizi di valore – in altre parole definire la propria e l’altrui superiorità o inferiorità – sembra essere una pratica comune, anche se non esplicita. Le regole di superiorità e inferiorità plasmano sottilmente i nostri giudizi su razza, religione e, sorprendentemente, anche quelli sull’età.

I ricercatori hanno usato l’Implicit Association Test per studiare come le persone giudicano, inconsapevolmente, gruppi razziali, religiosi e d’età, compresi i propri: in tre studi separati, è stato intervistato un ampio campione di persone per scoprire la loro posizione rispetto a razza, religione ed età. Poi i partecipanti hanno completato una versione dello IAT per indagare i loro sentimenti inconsci verso gli stessi gruppi. L’idea era di vedere come il favoritismo nei confronti del proprio gruppo, gli ideali espliciti di equità e i pregiudizi interagiscono tra loro nel modellare le dinamiche di gruppo di oggi.

I risultati sono stati interessati. Infatti nonostante la disapprovazione formale della società nei confronti della costruzione di gerarchie di status sociale, le persone, inconsciamente, lo fanno ugualmente. Inoltre queste gerarchie sembrano essere costanti, indipendentemente da chi compie la valutazione.

Rispetto all’etnia, per esempio, tutti i gruppi apprezzano maggiormente la propria, ma poi valutano gli altri gruppi sempre nello stesso ordine di preferenza: bianco, asiatico, nero, ispanico. Lo stesso accade con la religione, la propria è quella preferita, seguita dalle altre sempre secondo quest’ordine: cristiani, ebrei, indù / buddisti, musulmani. Anche gli intervistati che non si identificavano con nessuno di questi gruppi hanno costruito queste stesse gerarchie.

Per quanto riguarda l’età, indipendentemente dall’età degli intervistati, tutti hanno espresso una preferenza per i bambini, poi per i giovani adulti, poi per gli adulti di mezza età, e infine per gli anziani. Quando si tratta di età, insomma, sembra che l’atteggiamento generale sia condizionato dall’idea che giovane è meglio.

I risultati nel loro insieme suggeriscono che le gerarchie sociali sono incorporate stabilmente nella nostra mente sociale, nonostante l’educazione lo scoraggi esplicitamente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La paura del giudizio degli altri: il circolo vizioso dell’ansia sociale.

 

BIBLIOGRAFIA:

Aaron Beck, padre della Psicoterapia Cognitiva compie 93 anni.

Happy Birthday, Dr. Aaron Beck!

 

Aaron Beck, padre insieme ad Albert Ellis, della Psicoterapia Cognitiva ha compiuto venerdì scorso 93 anni.
Ecco alcune foto dei festeggiamenti per il suo compleanno presso l’istituto A.T. Beck. e l’abstract dell’ultimo articolo pubblicato.

Participants of our CBT for PTSD Workshop last week, July 14-16, 2014,
helped Dr. Beck celebrate with cupcakes and singing.
Dr. Aaron Beck with Dr. Judith Beck, as participants sing Happy  Birthday.

 

Advances in Cognitive Theory and Therapy:

The Generic Cognitive Model

 

Abstract:

For over 50 years, Beck’s cognitive model has provided an evidence-based way to conceptualize and treat psychological disorders. The generic cognitive model represents a set of common principles that can be applied across the spectrum of psychological disorders. The updated theoretical model provides a framework for addressing significant questions regarding the phenomenology of disorders not explained in previous iterations of the original model. New additions to the theory include continuity of adaptive and maladaptive function, dual information processing, energizing of schemas, and attentional focus. The model includes a theory of modes, an organization of schemas relevant to expectancies, self-evaluations, rules, and memories. A description of the new theoretical model is followed by a presentation of the corresponding applied model, which provides a template for conceptualizing a specific disorder and formulating a case. The focus on beliefs differentiates disorders and provides a target for treatment. A variety of interventions are described.

 

Beck, A.T., & Haigh, E.A.P. (2014) Advances in Cognitive Theory and Therapy: The Generic Cognitive Model. Annual Review of Clinical Psychology, 10, 1, 1-24.

 

Permission Note: The Annual Review of Clinical Psychology grants its authors the nonexclusive right to distribute and make copies of their own work (electronically or in print) in connection with the author’s teaching, conference presentations, lectures, and publications. See: The Annual Review, Copyright and Permissions, for further details.
 

 

Non ci sono più le mamme di una volta di Roberta Galloni (2014) – Recensione

 

 

Questo libro racconta di una normalissima mamma dei nostri giorni, di una mamma che utilizza la scrittura per cercare (e ritrovare) se stessa in una nuova dimensione di ruolo, quello di mamma, che sceglie di esserlo a tempo pieno.

E’ anche il racconto autobiografico di una donna che nel diventare per la seconda volta mamma ha scoperto dolorosamente quello che definisce “demonio” e che le cambia il modo di guardare al mondo, quel mondo che in realtà pare avere tutto per essere perfetto, ma che i suoi occhi hanno smesso di guardare, quasi avesse un paio di occhiali scuri che rendono grigio tutto.

Il racconto inizia con un dolce ricordo, quello della nonna, in una scena in cui pettina i capelli alla sua piccola nipotina e, quasi si chiude, con un dramma non detto, con un saluto ad un fiore, che dice tutto e nulla, che lascia intravedere un boccone amaro difficile da mandare giù, forse non a caso, preludio triste di un tema delicatissimo, quello della violenza sulle donne.

E così questo racconto, tratta temi leggeri e semplici, ma anche temi delicati, di cui non è semplice parlare, soprattutto per chi probabilmente lo fa per la prima volta e ci mette il cuore, ciò che traspare chiaramente.

Spesso i ricordi emergono e diventano protagonisti, come molte volte accade quando ci si ritrova a pensare al tempo che passa e a quando, come in questo caso specifico, l’autrice ricorda quando era bambina, adesso che delle sue bambine si prende cura.

Le vicende della vita, del ciclo di vita di una donna, belle e meno belle, vengono raccontate e attraverso i ricordi di momenti significativi compongono il puzzle che porta l’autrice a una riflessione che probabilmente dà il titolo al libro: come erano le mamme prima e come sono ora, ma anche i papà, e tutto ciò che ruota intorno all’essere genitori oggi.

Il tempo che passa e i significati, i valori che cambiano, così ben rappresentati dall’immagine delle piscine delle ville inesorabilmente vuote oggi, paragonate a quei pozzi di un po’ di anni fa animati da comitive di ragazzi ai quali bastava davvero poco per divertirsi.

Il periodo post-natale è un momento delicatissimo per la donna e circa il 10 – 20% delle neo-mamme ha un esordio di depressione post partum in genere dopo 3 – 4 settimane dal parto; i primi segnali sono rappresentati da stanchezza, fatica e mancanza di energie e spesso non vengono correttamente interpretati. Di conseguenza, il 50% delle donne che ha una depressione post partum non chiede aiuto o lo rifiuta o ricerca assistenza solo per la gestione del bambino e comunque non subito: è una condizione poco riconosciuta come disturbo clinico a tutti gli effetti e quindi poco trattata.

Solitamente chi comincia a soffrirne tende a vivere in modo ritirato e non ammette il proprio disagio, lo nasconde; come pare raccontare in alcuni tratti anche l’autrice, tende a colpevolizzarsi per aver fatto “cattivi pensieri”, tende a passare molto tempo a chiedersi il “perché” di tutto questo, a non capire come mai ciò che “dovrebbe essere perfetto”, semplicemente non lo è.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato in tal senso delle Linee guida “Postnatal care of the mother and newborn“ , dodici raccomandazioni su tempi e modi della cura postnatale, sia del bambino che della madre per tutto il periodo del puerperio, le sei settimane successive al parto.

Diversi studi hanno dimostrato l’importanza di un intervento di aiuto in questo periodo; per esempio, uno studio del 2000, partendo dai dati statistici di incidenza del disturbo, ha dimostrato la riduzione del rischio di depressione post partum in seguito ad un intervento di tipo psicosociale, con l’obiettivo di insegnare alle donne ad organizzare in modo efficace i propri impegni, al fine di ridurre lo stress, avere prospettive realistiche sulla propria vita da madri, interpretare in modo costruttivo le esperienze vissute quotidianamente, dare significati corretti alle emozioni negative provate e adottare un adeguato stile di fronteggiamento delle situazioni difficili, attivare una rete di supporti sociali e aiuti esterni sui quali fare affidamento per la cura del neonato.

Interessanti sono gli spunti che il libro offre a tal proposito, sull’importanza del supporto, della possibilità di trovare spazi propri, del confronto con altre mamme, per comprendere che ciò che accade, ciò che si pensa quando si è molto stanchi, come ci si sente a fine giornata, non è un’esclusiva di alcune, ma di tutte le mamme.

Dire se è vero che non esistono più le mamme di una volta, non saprei, certo è che il momento storico che viviamo è diverso, così come le conquiste che le donne hanno ottenuto negli anni sono molte e diverse… probabilmente al di là di questo credo che il diventare, sentirsi madre, sia qualcosa di unico e immensamente bello (comprese le fatiche) in qualsiasi generazione lo si collochi. Questo permette di affrontare tutto, magari cercando una personale via di mezzo tra quelle donne che hanno dedicato completamente la loro vita ai figli, “rassegnandosi” su tutto il resto e chi, oggi ha bisogno di fare un selfie con il proprio figlio sul social network di turno tornata da lavoro, per sentirsi completamente donna e mamma, allo stesso tempo.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’attesa. Il percorso emotivo della gravidanza. Di A. Pellai (2013). Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Shutter Island (2010) – Cinema & Psicoterapia nr.26

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #26

Shutter Island (2010)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

 

Andrew preferisce farsi lobotomizzare pur di sfuggire alla realtà così traumatica. Il vissuto è incompatibile con gli schemi centrali riguardanti la sua identità. L’unica via d’uscita possibile per proteggersi è la fuga nel delirio.

Info: 

Diretto da Martin Scorsese, con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Michelle Williams, Emily Mortimer e Max Von Sydow. Drammatico. USA 2010. Basato sul romanzo di Dennis Lehane.

Trama:

Nel 1954 due agenti federali, Teddy Daniels e Chuck Aule, vengono inviati a Shutter Island per investigare sulla scomparsa di un’infanticida, Rachel Solando, residente presso l’istituto mentale Ashecliffe. Il direttore dell’istituto, Cawley, e gli infermieri affermano che la madre assassina è svanita nel nulla senza lasciare alcuna traccia. L’agente Daniels nutre forti sospetti sulla versione fornita e sul modo di condurre l’ospedale.

Le indagini sembrano arrivate alla conclusione, ma un uragano impedisce ai due agenti di lasciare l’isola. Nel prosieguo dell’investigazione emergono particolari sempre più inquietanti, mentre Daniels continua ad avere delle visioni relative alle sue esperienze di guerra contro gli ufficiali nazisti e alla moglie defunta. Il finale rivela che Teddy è, in realtà, Andrew Laeddis in cura da due anni con il dottor Sheehan, l’uomo che egli pensava fosse il suo collega Chuck, per aver ucciso sua moglie, affetta da psicosi maniaco depressiva dopo che lei aveva affogato i loro tre figli. Il dolore per l’accaduto ha portato Andrew a costruire un mondo parallelo.

Il dottor Sheehan e il dottor Cawley, hanno deciso di simulare la situazione per riportare il paziente alla realtà. Quando Andrew si ricorda del passato sembra ormai guarito, ma poco dopo si rivolge al dottor Sheehan chiamandolo Chuck. Cawley decide di lobotomizzarlo e Laeddis prima dell’intervento chiede al dottor Sheehan: «Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da persona perbene?».

Motivi d’interesse:

Andrew preferisce farsi lobotomizzare pur di sfuggire alla realtà così traumatica. Il vissuto è incompatibile con gli schemi centrali riguardanti la sua identità. L’unica via d’uscita possibile per proteggersi è la fuga nel delirio.

In buona parte del film non è possibile comprendere se Laeddis è un falso agente, come del resto spesso capita con i pazienti deliranti, soprattutto i paranoici, che strutturano un pensiero lucido, logico, coerente, capace di previsioni che si autoconfermano. Riescono ad ingannare non solo se stessi, ma anche persone che interagiscono con loro, avvocati, terapeuti, amici e parenti.

Nella narrazione cinematografica si sovrappongono i temi dell’esperienza del paziente con quelli della simulazione. La donna scomparsa è stata ricoverata per aver ammazzato i suoi tre figli, proprio come la moglie di Andrew. Sull’isola viene a sapere che si compiono esperimenti umani ciò che in effetti stanno facendo i medici nei suoi confronti, nell’ospedale vengono utilizzati psicofarmaci per cercare di ottenere e gestire il controllo mentale e Andrew è trattato farmacologicamente, l’ostilità dei medici e degli infermieri si innesta in questa cornice e completa il quadro. 

La realtà è stata effettivamente crudele con Laeddis, l’episodio originario è drammatico e ne deriva la discesa inarrestabile verso la psicosi. Il modello stress-vulnerabilità spiega la devastazione dell’equilibrio premorboso del paziente che non è in grado di ricostruire se stesso a seguito dell’evento che vive.

Quando torna a casa e vede i suoi tre figli galleggiare ormai esanimi sul laghetto che fiancheggia la sua abitazione, sperimenta un senso di sbigottimento, di stupore, si affanna per cercare di salvarli, ma ormai è troppo tardi, guarda la moglie in preda al delirio, non sa spiegarsi cosa stia succedendo o perché sia successo. L’accaduto è strano, confonde, tutto è fortemente minaccioso e la difesa è l’uccisione della moglie.

Poi dà senso a ciò che sembrava averlo perduto, va alla ricerca di una donna che ha ucciso i suoi tre figli, è un agente che deve riportare la situazione alla normalità nell’ospedale dove succedono cose strane, dove vengono compiuti esperimenti umani, così come ha fatto la moglie, nel suo delirio, con i figli. L’interrogativo di Andrew con il quale si conclude il film sembra riproporre l’impossibilità di accomodare e assimilare ciò che è accaduto: «Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da persona perbene?».

Indicazioni per l’utilizzo:

Buono per comprendere la genesi del delirio. Da non prescrivere a pazienti psicotici.

 

Trailer:

 

 LEGGI RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A. (2012) Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Faremmo qualunque cosa pur di non stare soli con i nostri pensieri…

FLASH NEWS

 

Secondo una nuova ricerca dell’Università della Virginia e Harvard, molte persone farebbero qualunque cosa pur di non rimanere sole con i propri pensieri. E se il termine “qualunque cosa” vi sembra esagerato sappiate che c’è chi è arrivato a preferire di auto-somministrarsi scosse elettriche piuttosto che fare i conti con sé stesso.

I ricercatori hanno condotto una serie di studi che hanno coinvolto quasi 300 uomini e donne, di età compresa 18 e 77 anni. I partecipanti sono stati invitati a sedersi da soli in una stanza per 6, 15 minuti, lontano da telefoni cellulari e altre distrazioni, con la sola compagnia dei propri pensieri.

Come hanno reagito al tu per tu con sé stessi? In media, la maggior parte dei soggetti ha dichiarato di non amare affatto non avere nulla da fare. E questo effetto è stato trovato in tutte le età.

Ma fino a che punto la gente desidera evitare di passare del tempo senza occuparsi di qualcosa? Per scoprirlo, i ricercatori hanno dato la possibilità a 42 uomini e donne di “intrattenersi” per 15 minuti auto-somministrandosi delle scosse elettriche: abbastanza sorprendentemente, il 67 per cento degli uomini e il 25 per cento delle donne ha deciso di farlo!

Cosa spiega questa decisione?  L’ipotesi dei ricercatori è che la mente umana si è evoluta nella relazione con il mondo esterno, nella necessità di essere vigile per affrontare i pericoli esterni e cogliere opportunità; questo impegno nei confronti dell’esterno è prioritario, anche a prezzo del dolore fisico.

Inoltre la nostra crescente dipendenza dalla tecnologia allontana la noia, ma potrebbe esacerbare l’effetto del nostro impegno nei confronti dell’esterno. “Cerchiamo la tecnologia perché intrattenerci solo con i nostri pensieri ci è difficile, e la tecnologia è un’alternativa facilmente disponibile”, sostengono i ricercatori.

Questo però causa l’instaurarsi di un circolo vizioso per il quale, sempre meno abituati a stare soli con i nostri pensieri, finiamo per trovarlo sempre più difficile e meno piacevole rispetto alla stimolazione proveniente dall’esterno e quindi ad evitarlo con ogni mezzo a disposizione.

In futuro i ricercatori vogliono scoprire se aiutare le persone a familiarizzare con i propri pensieri, per esempio con un vero e proprio training di formazione, possa essere utile affinchè imparino ad usarlo come meccanismo di coping, o se possa loro servire ad aumentare il benessere a lungo termine e la produttività.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Parlare di sesso con i propri figli: una guida pratica – Recensione

 

 

Cos’è che impedisce ai genitori di “fare il discorso” con i propri figli? La dott.ssa Amber Madison spiega che le ragioni sono principalmente due: la difficoltà ad accettare che i propri figli siano sessualmente attivi e l’imbarazzo di toccare certi argomenti “scottanti”.

Se siete genitori probabilmente saprete che due sono le domande che fanno scattare l’allarme rosso: “Mamma papà come nascono i bambini?” e “Mamma papà sta sera posso uscire con il mio ragazzo?”.

Da sempre uno degli argomenti più difficili da affrontare con i propri figli adolescenti è la sessualità in tutti i suoi aspetti, di conseguenza, spesso per evitare l’imbarazzo, si tende a evitare accuratamente l’argomento dribblando con maestria le domande dei giovani adolescenti, o peggio demonizzandoli arrabbiandosi con loro. In entrambi i casi il risultato sarà “genitori preoccupati, figli preoccupati e nessuna informazione sulla sessualità”.

Recentemente Eurispes e Telefono Azzurro hanno condotto un’indagine su un campione rappresentativo di 2.470 adolescenti italiani tra i 12 e i 19 anni, che ha rilevato come oltre la metà degli intervistati aveva avuto il primo rapporto sessuale completo prima dei 16 anni. In particolare, il 38,4% ha avuto il primo rapporto sessuale tra i 14 e i 15 anni, mentre l’11,7% ancora prima, tra gli 11 e i 13 anni. Poco meno del 30% lo ha avuto tra i 16 e i 17 anni, mentre appena il 4,9% ha “aspettato” di diventare maggiorenne (8° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza).

Non disperiamo, per una volta l’Italia è in buona compagnia, infatti, tale tendenza si rileva anche nel resto dell’Europa, come emerso da diversi studi condotti che evidenziano come nell’ultimo decennio l’età media del primo rapporto sessuale si sia abbassata in media di 4 anni per le donne (22.0 nel 1930 contro 17.6 nel 2000) e di uno per i maschi (18.1 contro 17.2) (Bozon e Leridon, 1996; Bajos et al 2010; Bajos et al 2014).

Tuttavia a preoccupare genitori e psicologi non è solo la precocità del primo rapporto sessuale, ma sono soprattutto le abitudini sessuali degli adolescenti che, come emerso anche dall’articolo inchiesta pubblicato su Il fatto quotidiano da Beatrice Borromeo, sempre più spesso considerano la verginità come una macchia della quale “doversi sbarazzare per non essere emarginati”, i rapporti sessuali una piccola trasgressione simile fumare di nascosto dai genitori e la sessualità come una “pratica” slegata dai sentimenti, ma strettamente connessa ad “una questione di immagine”.

Le forti dichiarazioni rilasciate dagli adolescenti hanno scatenato numerose critiche da parte dei lettori che si sono uniti per scagliarsi contro il grande nemico dei giovani, I Media, accusandolo di aver causato, a partire dagli anni ’90, un’ipersessualizzazione della società.

Tuttavia, sebbene sia innegabile la forte responsabilità della società moderna sulle abitudini sessuali degli adolescenti, non è possibile dimenticare che, sebbene la parola “sesso” sia sulla bocca di tutti, solo raramente i genitori affrontano quest’argomento seriamente e in modo efficace con i propri figli esponendoli così al pericolo di adottare abitudini sessuali non salutari e pericolose.

Cos’è che impedisce ai genitori di “fare il discorso” con i propri figli? La dott.ssa Amber Madison spiega che le ragioni sono principalmente due: la difficoltà ad accettare che i propri figli siano sessualmente attivi e l’imbarazzo di toccare certi argomenti “scottanti”.

Se per la prima condizione l’unica strada da intraprendere è l’accettazione, per l’imbarazzo molto si può fare ed è proprio con l’obiettivo di aiutare i genitori a superarlo che la dottoressa ha scritto l’interessante e al tempo stesso divertente libro “Parlare di sesso con i propri figli”. Più che un libro, lo si potrebbe considerare un vero e proprio “manuale pratico per genitori poco pratici e imbarazzati” che aiuta passo passo ad affrontare le diverse tematiche legate alla sessualità, con tanto di schema riassuntivo a fine capitolo con punti centrali e delle parole da utilizzare. Quindi piuttosto che leggerlo potremmo dire che è da usare per trovare risposte alle proprie domande.

Proviamo ad usarlo un po’ insieme. Per esempio se ci domandassimo: “Come posso superare l’imbarazzo di dover parlare ai figli di sesso?” Iniziando a prendere confidenza con quelle parole che recano tanto imbarazzo come pene, vagina, sesso orale, e tutte le altre dicendole ad alta voce per casa. Non vi preoccupate se il vicino vi sente, potrete sempre condividere con lui il libro. Sicuramente vi ringrazierà.

Una volta presa la dovuta confidenza iniziate a preoccuparvi del clima della conversazione, qui non servono le candele, ma calma, autocontrollo e la consapevolezza che l’obiettivo è quello di far passare il messaggio che per voi è un piacere poter parlare dei problemi e dei dubbi dei ragazzi.

“Quand’è che comincia tutto? Quando devo iniziare a parlare di sesso vero con i miei figli?” Tutto ha inizio alla scuola media, quando iniziano le prime esplorazioni in questo mondo. Tranquilli, parlare precocemente di buone abitudini sessuali, come l’importanza di saper rispettare i propri tempi e soprattutto se stessi, non accelera il processo di sessualizzazione, ma al contrario permettere evitare di dover “correre ai ripari” quando è troppo tardi. Per questo è molto importante spiegare fin da subito ai vostri figli quali sono le dinamiche che regolano i rapporti sessuali sani, usando anche come esempio le loro amicizie.

Di capitolo in capitolo la dott.ssa Madison affronta così le tematiche più importanti relative al sesso come le malattie sessualmente trasmissibili, delle quali descrive in modo accurato e chiaro le possibili complicazioni causate dall’assenza di una sintomatologia franca sottolineando quindi l’importanza della prevenzione, la contraccezione, l’uso corretto del preservativo, le emergenze sessuali e i principali miti e leggende sul sesso, dando molti consigli utili e pratici ai genitori, e perché no anche agli psicologi più imbarazzati.

La bravura dell’autrice è stata quella di riuscire a trattare un argomento tanto delicato e complesso con una serenità e leggerezza che trasmettono al lettore veramente il coraggio di poter parlare con i propri figli anche degli argomenti più delicati.

Una piccola nota a piè di pagina… come molti pendolari, mi sono trovata a leggere molto spesso il libro in treno e non ho potuto non notare inizialmente gli sguardi a volte imbarazzati, a volte di disappunto, dei miei compagni di viaggio che nel giro di poco tempo hanno iniziato a farmi le domande più disparate sull’argomento elargendo anche i più disparati consigli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La fobia sociale. Clinica ed epidemiologia del disturbo. Di Mauro Bruni (2009) – Recensione

 

 

fobia sociale di Mauro BruniProvare ansia in una situazione sociale è da sempre considerata una condizione normale. Chi non è mai stato chiamato timido da parte di qualcuno? Anche se timidezza e fobia sociale hanno in comune diversi aspetti, si tratta invece di condizioni diverse.

Credo sia capitato a tutti di arrossire, di avere secchezza delle fauci, palpitazione e ipersudorazione nel momenti in cui si è di fronte ad una platea famelica di informazioni, ricordo dettagliatamente il giorno della discussione della tesi di laurea …

Fino a qualche tempo fa questo status quo era considerato comune, vista la manifestazione transitoria del sintomo che è spesso legato a un evento esterno isolato. Esistono però casi in cui questa paura diventa invalidante al punto da compromettere il raggiungimento dello scopo e solo a questo punto è possibile parlare di patologia. La Fobia Sociale è tale solo quando l’ansia diventa invalidante e rimane intensa. Per questo è stata riconosciuta ufficialmente come problematica legata alla sfera ansiosa, ma solo nel 1980, con la pubblicazione della terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III). La ricerca dimostra che si tratta di una vera e propria patologia abbastanza diffusa nella popolazione generale. Infatti, coloro che sono affetti da tale sintomatologia mostrano anche una notevole difficoltà di gestione delle emozioni che ne derivano, portando il più delle volte ad isolamento sociale, professionale e anche relazionale. Quindi, il fobico sociale per ovviare al problema attua dei comportamenti che potrebbero essere, a sua detta, risolutivi come ad esempio usare sostanze o ritirarsi fino a negarsi la vita stessa (casi molto estremi).

Gli studi dimostrano che fattori genetici e biologici sono degli adiuvanti alla genesi della malattia e, come al solito, anche lo stile temperamentale e l’ambiente fanno del loro meglio per determinare il disturbo.

Questa patologia si manifesta fin da quando si è piccoli, ma spesse volte non si riesce ad effettuare una diagnosi precoce perché confusa con la timidezza che il bambino spesso mostra, ma tante volte rappresenta qualcosa di più.

Una fase di fondamentale importanza che precede la terapia è quella dell’assessment del disturbo. Esistono diversi reattivi psicometrici in grado di farlo, sia interviste semi-strutturate sia self report, che garantiscono di individuare il tipo di intervento più appropriato per ogni paziente. Da un punto di vista del trattamento, ci sono percorsi molto validi che portano alla gestione dei sintomi ansiosi. La parte più importante, però, consiste nell’individuare il “nucleo della paura”, cioè l’aspetto essenziale che determina il manifestarsi dell’ansia nel fobico sociale.

Gli interventi terapeutici più efficaci in assoluto sono quelli di orientamento cognitivo-comportamentale e cognitivo che si avvalgono in primis della ristrutturazione cognitiva previa messa in discussione del pensiero disfunzionale nucleare o centrale, ma anche della tecnica dell’esposizione e del riapprendimento delle abilità sociali. E’ largamente dimostrato che già dopo poche sedute molti pazienti mostrano dei miglioramenti, che si mantengono nel tempo.

Ulteriori approfondimenti e dettagli, importanti per entrare nel vivo della patologia, sono inseriti nel libro scritto da Mauro Bruni intitolato La fobia Sociale. Clinica ed epistemologia del disturbo, edito da Armando Editore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Bruni, M. (2014). La fobia sociale. Clinica ed epistemologia del disturbo. Armando Editore.  ACQUISTA ONLINE

 

Per stare meglio al lavoro… Basta una piccola pausa smartphone!

 

FLASH NEWS

 

Vorreste essere più produttivi al lavoro e più felici durante la giornata lavorativa? Se la risposta è affermativa… basta prendere una piccola pausa per scrivere un sms ad un amico, controllare velocemente la pagina Facebook o giocare ad “Angry Birds”, secondo una ricerca condotta dall’Università del Kansas.

Sooyeol Kim dottorando in Scienze Psicologiche, sostiene che consentire ai dipendenti di prendere piccole pause smartphone sarebbe un beneficio piuttosto che uno svantaggio per le aziende medesime.

Al presente studio hanno partecipato 72 dipendenti full time appartenenti a vari settori lavorativi. Ai partecipanti allo studio è stato chiesto di scaricare un’applicazione che misurava, complessivamente il tempo totale speso davanti allo smartphone nell’arco di una giornata lavorativa.

L’applicazione suddivideva l’uso dello smartphone in categorie quali intrattenimento, che include giochi come “Angry Birds” o “Candy Crush” e i social networks come Facebook e Twitter. Alla fine della giornata lavorativa i partecipanti allo studio compilavano un questionario sullo stato di benessere percepito.

Dai risultati è emerso che i dipendenti spendono complessivamente 22 minuti su otto ore lavorative per giocare/controllare lo smartphone e che le pause smartphone durante il lavoro rendono i dipendenti più sereni al termine della giornata lavorativa.

“Comunicare con gli amici e con i membri della famiglia o giocare con lo smartphone– sono tutte attività che aiutano i dipendenti a recuperare dallo stress accumulato e nello stesso tempo a rinfrescare la mente ancorata ai compiti lavorativi quotidiani”, sostiene Sooyeol Kim autore del presente studio.

Prendere una pausa durante il lavoro è importante perchè per un dipendente è difficile se non quasi impossibile concentrarsi per otto ore di fila al giorno senza una pausa. Le pause smartphone sono simili ad altre categorie di pause quali: chiacchierare con i colleghi, passeggiare nei corridoi dell’ufficio o prendere un caffè. Tali pause sono importanti perché aiutano i dipendenti a meglio affrontare il lavoro.

Quotidianamente, le persone si confrontano con vari e innumerevoli fattori di stress come i compiti lavorativi, la programmazione delle diverse attività, i problemi familiari o altri problemi di vita. E’ necessario capire come possiamo aiutare le persone ad affrontare le situazioni stressanti offrendo delle strategie di coping benefiche ed efficaci.

L’uso moderato dello smartphone durante le piccole pause può essere utile per le aziende e per i dipendenti in quanto contribuisce a mantenere alla fine giornata un livello ottimale del benessere percepito. Inoltre, le piccole pause smartphone, sempre se utilizzate con moderazione, portano dei benefici in quanto fungono da “ristoro mentale.”

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dai due ai tre secondi per la costruzione del presente istantaneo – Neuroscienze

COMUNICATO STAMPA – Università di Trento

Lo studio pubblicato sulla rivista PLoS ONE

Dai due ai tre secondi per la costruzione del presente istantaneo

 

ROVERETO – La nostra esperienza del tempo è divisa tra presente, passato e futuro. Ma cosa rende il presente diverso da passato e futuro? E quanto “dura” il presente? Da sempre gli psicologi sperimentali hanno tentato di scoprire come percepiamo la successione di eventi che scandiscono la nostra giornata, come costruiamo il senso del tempo.

Il nostro sistema percettivo non registra, ma integra gli stimoli all’interno di finestre temporali. Sappiamo che all’interno di un intervallo di qualche centinaio di millisecondi le diverse informazioni in arrivo dall’esterno vengono integrate dal nostro cervello in un unico percetto, alla base di quello che chiamiamo il nostro “presente soggettivo”, la sensazione di presente istantaneo cui ci riferiamo con hic et nunc. E le neuroscienze e la psicologia sperimentale ci vengono in aiuto per comprendere in che modo costruiamo tale esperienza soggettiva del presente.

La finestra temporale necessaria per la ricostruzione dell’unitarietà non solo delle immagini statiche ma anche delle esperienze più simili al mondo reale, dove la scena è in continuo cambiamento, va dai due ai tre secondi. A dirlo è uno studio appena pubblicato sulla rivista PLoS ONE e condotto da un gruppo di ricercatori del Centro Mente Cervello dell’Università di Trento guidati dal professor David Melcher.

La ricostruzione visiva di immagini decomposte è un fenomeno relativamente noto e studiato in laboratorio. Ma il mondo esterno, lungi dall’essere statico come può esserlo uno stimolo visivo artificiale, è invece in continua evoluzione e ci bombarda di stimoli di natura diversa, in particolare visivi, uditivi e tattili, in continuo cambiamento non solo spaziale ma anche quanto ad importanza e salienza per l’individuo.

Questa complessità del reale e del suo fluire è ricreabile in laboratorio attraverso un’esperienza che noi tutti conosciamo: la visione di un film. In questa situazione, i soggetti, pur non muovendosi in prima persona, assistono a narrazioni che evolvono.

Cos’è l’adesso di qualcosa che si sta sviluppando nel tempo?

Per scoprirlo, i ricercatori si sono chiesti se anche in questo caso è valido il vincolo temporale dei 2-3 secondi necessario alla ricostruzione unitaria della scena. In caso di risposta affermativa, tale intervallo non sarebbe una caratteristica di certi processi ma rifletterebbe un principio organizzativo generale, come già altri studi sembrerebbero suggerire, in particolare quelli condotti sul linguaggio in cui la percezione della segmentazione dell’eloquio che fluisce nel tempo influenza la nostra capacità di comprensione del messaggio, per la quale è necessaria l’integrazione di informazioni di natura diversa (semantiche, sintattiche e pragmatiche – VEDI ARTICOLI SU: LINGUISTICA ).

[blockquote style=”1″]«Una delle più evidenti, quanto misteriose, caratteristiche del flusso di coscienza è l’esistenza di un presente soggettivo integrato, che si stima duri all’incirca dai due ai tre secondi e che corrisponde all’impressione che abbiamo dell’istante presente, dell’ora. Il nostro studio dimostra per la prima volta che un intervallo di integrazione di 2-3 secondi, già trovato in compiti più semplici, è ugualmente valido anche quando consideriamo complesse sequenze visive, come i film, più consistenti con la nostra esperienza del presente soggettivo» [/blockquote] 

ha spiegato il leader del gruppo, David Melcher alla guida dell’Active Perception Lab.

I ricercatori hanno mostrato in modo casuale ai soggetti delle sequenze di video privati di audio e decomposti in intervalli di durata diversa, da poche centinaia di millisecondi fino a molti secondi, per osservare fino a che punto l’integrazione dei video era possibile.

 

[blockquote style=”1″]«I film sono costituiti da singole inquadrature, tratti di pellicola montati in successione tra loro e separati da dei tagli. E’ interessante notare che la loro durata nei film di Hollywood, compresi i trailers e le sequenze di azione, tende ad essere in media proprio di 2-3 secondi. Dato che in genere le persone muovono gli occhi molte volte al secondo, anche la più breve delle inquadrature è molto più lunga del tempo di fissazione degli occhi mentre ad esempio leggiamo. Una possibilità, in linea con i nostri risultati, è che l’informazione dell’evento corrispondente alla nostra percezione di quello che sta accadendo “ora” sia accumulata su un periodo di qualche secondo, rendendo così la durata di 2-3 secondi delle clip nei film un compromesso ideale tra l’efficienza (mostrare quanti più riprese possibili in un breve periodo di tempo) e la facilità di visione».[/blockquote]

 

La ricerca è stata condotta all’interno del progetto “Costruzione dello spazio-tempo percettivo” (Construction of perceptual space-time), della durata di 5 anni e premiato dal Consiglio Europeo della Ricerca con circa 1 milione di euro, per lo studio della nostra rappresentazione stabile e continua del mondo esterno. Il modo in cui il nostro cervello costruisce, a partire dalle informazioni sensoriali in entrata, l’esperienza dello spazio e del tempo rimane, infatti, uno dei grandi misteri delle scienze cognitive.

 

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David Melcher

David Melcher è professore associato del Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento. Ha conseguito il dottorato di ricerca alla Rutgers University nel New Jersey (USA) nel 2001. Ha poi lavorato come assegnista di ricerca presso l’università San Raffaele (Milano) e in seguito come professore associato presso Oxford Brookes University. Ha tenuto corsi per l’Università di Oxford, l’Università Bocconi, l’Università San Raffaele, la New York University e l’Università di Harvard. Nel 2011, l’associazione Americana di Psicologia (APA) gli ha assegnato il premio “Distinguished Scientific Award for Early Career Contribution to Psychology”.

Oltre all’ERC Starting Grant sullo spazio-tempo, David Melcher è il responsabile di ATTEND – Characterizing and improving brain mechanisms of attention, un progetto di ricerca in collaborazione con il Center for Neuroscience and Cognitive Systems dell’Istituto Italiano di tecnologia (IIT), la Fondazione Bruno Kessler e il Massachusetts General Hospital. ATTEND si è aggiudicato un finanziamento “Grande Progetto PAT” di 2 milioni di euro. Ha pubblicato su numerose riviste internazionali tra le quali Nature, Nature Neuroscience, Current Biology, Neuron.

 

BIBLIOGRAFIA:

Link al sito del gruppo di David Melcher:

https://sites.google.com/site/melcheractiveperceptionlab/home

 Fairhall SL, Albi A, Melcher D (2014) Temporal Integration Windows for Naturalistic Visual Sequences. PLoS ONE 9(7): e102248.

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0102248

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