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Cosa significa essere timidi? – Report dalla lezione con il Prof. Carducci

Cosa vuol dire essere timidi? Quanta sofferenza può provare una persona timida?

Per comprendere le dinamiche della timidezza, gli studenti di Studi Cognitivi hanno avuto la grande possibilità di partecipare alla lezione di uno dei più importanti studiosi del tema: Bernardo J. Carducci, professore presso l`Indiana University Southeast.

Guarda l’INTERVISTA AL PROF. CARDUCCI al Congresso APA 2013 di Honolulu (HAWAII)

Nel corso della lezione numerosi punti chiave del tema sono stati affrontati, primo tra tutti: cos’ è la timidezza? Nonostante la tendenza a medicalizzare la timidezza, essa non è né un disturbo, né un tratto di personalità, può essere invece intesa come un fallimento nell’affrontare situazioni sociali, caratterizzata da componenti affettive, cognitive e comportamentali.

Formativo è stato anche vedere quanto la timidezza sia comune (il 40% della popolazione risulta essere timido) e quanto questo dato sia prezioso nel lavoro con la persona timida, in quanto ciò lo porta a non sentirsi solo e isolato nel suo problema.

La timidezza non va confusa con introversione né con bassa autostima: mentre nell’ introversione vi è un volontario rifiuto nel rapportarsi agli altri, il timido cerca la loro vicinanza ma non riesce ad approcciarsi. L’autostima invece può essere alta a livello globale nel timido (pensiamo alle numerose star o persone di potere timide) ma bassa solo in specifici domini, primo tra tutti il dominio delle competenze sociali.

Importante, nel lavoro con le persone timide, è conoscere le dinamiche alla base del problema: nonostante la diversità delle storie personali, infatti, vi sono tre dinamiche principali coinvolte nella timidezza.

  • Conflitto tra avvicinamento- allontanamento: il timido vuole entrare in iterazione con gli altri, ma si blocca, preferisce aspettare che siano gli altri a fare la prima mossa. La motivazione è presente ma non sufficiente dunque.
  • Lento meccanismo di riscaldamento: i timidi hanno bisogno di tempi più estesi per rapportarsi agli altri, ed è anche questo che li blocca, vorrebbero velocizzare le relazioni ma non ci riescono.
  • Zona di conforto limitata: i timidi si lasciano coinvolgere nelle uscite, nel partecipare a situazioni sociali, ma tendono a ripetere sempre le stesse cose, mostrano un limitato repertorio di azioni che cercano di non modificare, perché per loro il cambiamento significherebbe pericolo.

Nonostante una serie di auto strategie, emerse da numerosi studi, che i timidi mettono in atto per combattere il loro disagio (ad es. estroversione forzata, pensare positivo, consultare libri di auto- aiuto, bere o relazionarsi tramite internet), queste si mostrano quasi sempre insufficienti ad affrontare la propria timidezza.

Il prof Carducci, infatti, ripete, nel corso della giornata, quanto sia importante lavorare con la timidezza anziché contro la timidezza. E’ importante accettare il fatto di essere timidi, capire le dinamiche della propria timidezza e modificare ciò che si fa e non ciò che si è.

Solo in tal modo si può vivere meglio e diventare dei timidi di successo!

 

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La complessità dei percorsi traumatici nei rifugiati – Report dal seminario

 

Report dal seminario

“Mio fratello che guardi il mare…”

Complessità dei percorsi traumatici nei richiedenti asilo:
dalle torture al trauma della fuga e dell’esilio e al trauma sociale nel contesto d’arrivo

Milano, Sabato 21 Giugno 2014

 

 

GUARDA L’EVENTO 

Il tema dei rifugiati e richiedenti asilo sopravvissuti a tortura è di assoluta attualità e pone difficoltà e sfide peculiari per operatori, psicologi, psichiatri e in generale per tutte le figure che a vario titolo sono chiamate ad occuparsi di situazioni così al limite. E’ necessario fornire ai professionisti del settore strumenti adeguati per far fronte alle specifiche vulnerabilità create da violenze e torture subite nel paese d’origine, durante il viaggio e dal trauma migratorio.

L’incontro con la sofferenza di pazienti che provengono da storie costellate di traumi precoci, estremi e continuativi è una grande sfida per i clinici di ogni orientamento e negli ultimi anni molto spazio è stato dato alle specifiche difficoltà che queste persone portano in terapia sia dal punto di vista diagnostico sia dal punto di vista squisitamente terapeutico.

Rispondendo alla crescente urgenza di risposte a tale proposito il Servizio di Diagnosi e Terapia del Trauma Psicologico dello studio A.R.P. di Milano organizza un ciclo di incontri clinici “anti-impotenza”, volti a individuare, nel confronto con esperti che operano in vari campi della psicotraumatologia, soluzioni che permettano di orientarsi e definire via di cura per quadri psicopatologici complessi.

Quello di sabato 21 Giugno con Massimo Germani, in continuità con la giornata mondiale del rifugiato celebrata il giorno precedente, è stato il seminario inaugurale di questo ciclo di incontri.

Il tema dei rifugiati e richiedenti asilo sopravvissuti a tortura è di assoluta attualità e pone difficoltà e sfide peculiari per operatori, psicologi, psichiatri e in generale per tutte le figure che a vario titolo sono chiamate ad occuparsi di situazioni così al limite. E’ necessario fornire ai professionisti del settore strumenti adeguati per far fronte alle specifiche vulnerabilità create da violenze e torture subite nel paese d’origine, durante il viaggio e dal trauma migratorio.

Nella prima parte del suo interessantissimo intervento Massimo Germani delinea gli elementi che costituiscono la tortura, i fattori caratterizzanti i vari tipi di tortura e le proporzioni impressionanti del fenomeno a livello mondiale: la tortura è attualmente praticata da 102 Paesi, Italia compresa; tra il 20% e il 25% dei richiedenti asilo ha subito torture e in Europa attualmente vivono circa 600.000 di rifugiati sopravvissuti a torture, di cui solo 30.000 hanno potuto avvalersi di cure specialistiche adeguate.
Sono dati allarmanti.

Sappiamo che l’essere esposti a traumi complessi, estremi e cumulativi è un fattore di rischio importante per lo sviluppo di psicopatologia. In questo senso tutti i richiedenti asilo sono potenzialmente vulnerabili, ma certamente ci sono categorie che diventano effettivamente vulnerabili (anziani, disabili, donne in gravidanza, minori) o altamente vulnerabili (vittime di tortura, stupro, traumi estremi) che devono essere identificati per poter fornire loro cure adeguate. In quest’ultimo gruppo di persone, infatti, la presenza di psicopatologia è quasi costante, anche se a volte latente, e tende a peggiorare e cronicizzarsi se non trattata, rendendo difficile il processo integrativo nel nuovo contesto e il percorso verso l’autonomia, con costi umani, sociali ed economici enormi.

 

All’interno di questa categoria, inoltre, c’è un sottogruppo definito ad alto rischio che comprende persone sopravvissute a torture, stupro e violenza estrema con pre-esistenti disturbi psichici latenti o conclamati. In questa categoria si ritrovano quadri di psicopatologia conclamata anche severa, rapida progressione in senso peggiorativo del quadro clinico e impossibilità (non solo difficoltà) del processo integrativo e del percorso verso l’autonomia.

Aspetto di cardinale importanza è la necessità di considerare i fattori che concorrono a determinare la gravità del quadro clinico lungo un arco temporale: fattori pre-traumatici, peri-traumatici e post-traumatici. E’ fondamentale che operatori e pazienti abbiano la consapevolezza che c’è un prima e un dopo e che tutto quello che succede in questi momenti è rilevante per l’esito psicopatologico.

Riconoscere precocemente i segnali che indicano la presenza di fattori di rischio è di cruciale importanza per una presa in carico adeguata che consenta l’integrazione nel nuovo contesto e l’uscita verso una nuova autonomia. Per rispondere a questa esigenza Massimo Germani presenta l’E.T.S.I. “Extreme Trauma and Torture Survivors Identification Interview”, strumento messo a punto dal suo gruppo per facilitare, nei CARA o nei centri di prima accoglienza, l’individuazione di situazioni di vari gradi di vulnerabilità al fine di indirizzare le persone a rischio nei centri specialistici. Non è uno strumento di diagnosi, ma di screening, che si è rivelato affidabile per un’accurata identificazione precoce anche da parte di clinici non specialisti.

Altro elemento cruciale sottolineato da Massimo Germani è che il trauma non è sempre patogeno. Il trauma è un’esperienza che dipende dall’incontro tra evento oggettivo e vissuto soggettivo, tra fattori di rischio e fattori di protezione. Non è l’esito di una causalità lineare, ma di una multifattorialità complessa.

Il tipo di trauma è certamente un elemento sostanziale: circa il 20-30% di traumi singoli/non interpersonali e il 33-75% di traumi ripetuti, continuativi e interpersonali evolvono fino a quadri psicopatologici conclamati.

L’esperienza traumatica, tuttavia, è una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo di una patologia post-traumatica. E’ necessario un modello patogenetico complesso delle patologie post-traumatiche basato su un processo di causalità reciproca, che ristabilisca la centralità dell’individuo e del contesto di cui egli è partecipe, inteso anche come contesto di arrivo. La vulnerabilità al trauma non è una qualità statica e acquisita una volta per tutte, ma varia nello stesso individuo in funzione del tempo e delle circostanze ambientali e personali.

La terza parte dell’intervento si focalizza sulla definizione di Disturbo Post-Traumatico Complesso, distinguendolo dal PTSD semplice. I traumi estremi, interpersonali e continuativi hanno un impatto particolarmente dirompente, frammentante e annichilente e provocano alterazioni profonde delle funzioni associative della psiche.

Di fronte ad esperienze così estreme le normali difese della persona non sono più in grado di funzionare ed entrano in gioco difese primitive, dissociative. I frammenti inelaborabili del trauma restano confinati all’interno di una o più parti di personalità che acquista caratteristiche dissociative. Le parti dissociative sono psichicamente attive, se pure frammentate e tendono a riapparire automaticamente in situazioni stressanti, condizionando pesantemente il funzionamento dell’Io che si impoverisce.

Oltre a ciò il Disturbo Post-Traumatico Complesso è caratterizzato da alterazioni nell’identità e nelle relazioni, sintomi cognitivi e alterazioni della memoria, sintomi depressivi e alterazioni della sfera affettiva, sintomi da iper o ipo-arousal, sintomi ansiosi e sintomi somatici. La dissociazione, tuttavia, è il nucleo centrale e specifico della traumatizzazione e tende ad aggravarsi con la sequenzialità dei traumi, come dimostra anche una ricerca su rifugiati del Camerun e del Ciad presentata da Germani. 

 

Questa ricerca mette in evidenza anche l’importanza del periodo post-traumatico che inizia con la fuga dal paese d’origine, non solo in termini di traumatizzazione secondaria così frequente durate la fuga ma anche intesa come situazioni e contesti destabilizzanti nei paesi di arrivo.

La specificità dei rifugiati sopravvissuti a tortura deve essere considerata nel momento in cui si delineano progetti di accoglienza e trattamento. Oltre a presentare quadri sindromici connessi a traumi estremi, infatti, queste persone devono fare i conti con la precarietà e la marginalità sociale, il deserto affettivo, l’eclissi del senso d’identità e l’incertezza assoluta riguardo al futuro che caratterizza la loro condizione di profughi.

Il trattamento deve essere individualizzato in base alle caratteristiche del paziente, alla situazione psicopatologica di base e attuale, alle condizioni sociali attuali, ai sintomi emergenti e al grado di rischio.

Quanto emerso da questa intensa giornata rende evidente come la presa in carico di questi pazienti debba essere integrata, comprendente assistenza medica, psicologica, sociale e legale, e debba fornire una forte componente di supporto e protezione per ridare loro una dignità di vita, tenendo conto delle risorse e capacità disponibili.

Il lavoro deve essere centrato sulla persona e non sul trauma, per evitare ulteriori traumatizzazioni e grande attenzione deve essere dedicata alle prime fasi di alleanza terapeutica e stabilizzazione, basilari e molto delicate in questo tipo di pazienti.

A fare da esemplificazione ci ha accompagnati, nel corso della giornata, un caso clinico presentato dal Servizio di Etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano, che bene ha mostrato le difficoltà di diagnosi, i nodi critici, la delicata scelta del trattamento e la sinergia dell’operato delle molteplici figure professionali coinvolte nella presa in carico del paziente.

La giornata si è conclusa con la proiezione di un bel video sul Laboratorio Teatrale del Progetto Vi.To. del Consiglio Italiano per i Rifugiati, che si occupa di accoglienza e cura delle vittime di tortura e tiene incontri presso un barcone ormeggiato sul Tevere, in cui si dà voce e spazio alla condivisione e all’elaborazione (implicita: è teatro, non teatro-terapia) delle difficili esperienze vissute dai rifugiati attraverso l’esperienza teatrale.

 

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Cecità Attenzionale: passare davanti a un albero di denaro e non notarlo

FLASH NEWS

In uno studio recente, Ira Heyman e colleghi hanno studiato il fenomeno della cecità attenzionale mostrando che le persone possono essere cieche anche di fronte a degli oggetti rilevanti nell’ hic et nunc.

Ogni giorno ignoriamo gran parte delle cose che passano davanti ai nostri occhi. Un esempio classico è quello della donna vestita da gorilla che attraversa il campo di basket durante un vivace scambio di palla tra i giocatori, senza essere osservata. L’osservatore ignora la sua presenza perchè è concentrato sul suo obiettivo: il conteggio dei passaggi tra i giocatori.

In uno studio recente, Ira Heyman e colleghi hanno esteso questo fenomeno della cecità attenzionale mostrando che le persone possono essere cieche anche di fronte a degli oggetti rilevanti nell’ hic et nunc. Ad esempio, le persone sono in grado di notare un albero tanto da evitarlo senza però essere consapevoli di quello che hanno appena evitato…anche se sull’albero vengono appesi dei soldi!

Ispirati da un video postato su YouTube, The Money tree, Heyman e i suoi colleghi hanno pinzato 3 banconote da un dollaro a tre rami di un albero in un campus universitario. Per due settimane, i ricercatori hanno osservato la gente che camminava vicino all’albero e annotato se schivava i rami dell’albero o avvistava il denaro (presumendo che chiunque avesse visto il denaro si sarebbe fermato per prenderlo o almeno per accertarsi dello strano accaduto).

 

Complessivamente, 396 persone sono state osservate mentre camminavano sulla stradina in cui si trovava l’albero; 203 uomini e 193 donne. Dai risultati dell’osservazione è emerso che solo 12 persone sono passate in mezzo ai rami senza evitarli; tutti gli altri passanti invece sono riusciti a schivarli in tempo. Di questi ultimi, però, solo una piccola parte ha notato la presenza del denaro appeso.

Ira Heyman e il suo team sostengono che il presente studio fornisce dati al sostegno del modello teorico che propone l’esistenza di due flussi visivi principali per l’elaborazione dell’informazione: uno ventrale, e uno dorsale, che sono stati chiamati da Goodale e Millner rispettivamente il canale della percezione e quello dell’azione.

Entrambi i canali trasportano l’informazione sulla struttura degli oggetti visti e sulla loro posizione spaziale ed entrambi sono fortemente influenzati dall’attenzione. Quello che cambia è il modo di utilizzare l’informazione stessa: lungo il flusso ventrale si rappresentano le caratteristiche stabili dell’oggetto e le relazioni fra di esse. Si pensa anche che è qui che viene attribuito un significato, un’identità, a quanto si osserva.

Il canale dorsale invece è coinvolto nell’aggiornamento on-line di ciò che avviene nella porzione di realtà che stiamo vedendo, ma anche di come si muove il nostro corpo in relazione ad essa. E’ grazie al flusso dorsale che le persone possono sperimentare la cecità attenzionale.

In conclusione, i ricercatori del presente studio sostengono che le persone possono camminare sotto un albero e schivare dei rami sporgenti senza rendersi conto che su di essi sono stati appesi dei soldi. A quanto pare, in certe situazioni, le persone possono essere in grado di guidare il proprio comportamento senza consapevolezza.

La cecità attenzionale è una forma di vagabondaggio mentale-mindless wandering che ci permette di camminare e guidare senza la consapevolezza degli ostacoli evitati; inoltre, il meccanismo della cecità attenzionale dimostra che il cervello è tutt’altro che passivo nei confronti dell’ambiente: seleziona, sceglie e rinforza solo quello che vuole vedere.

 

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Innamorarsi danneggia l’attenzione. Amore & Psicologia

BIBLIOGRAFIA:

  • Hyman, I., Sarb, B., & Wise-Swanson, B. (2014). Failure to see money on a tree: inattentional blindness for objects that guided behavior. Frontiers in Psychology, 5 DOI: 10.3389/fpsyg.2014.00356  DOWNLOAD
  • Goodale, M. A., Milner, D. (1992) Separate pathways for perception and action. Trends in Neuroscience, vol. 15, pp. 20–25. DOI:10.1016/0166-2236(92)90344-8 DOWNLOAD

Yara: Parlare di cronaca nera è ancora possibile?

 

La morte di Yara Gambirasio è un fantasma che continua a tormentare la nostra mente. Le circostanze furono raccapriccianti. Sappiamo che Yara riuscì in qualche modo a scappare dall’auto che l’aveva portata prigioniera, tentò di sfuggire all’assassino correndo tra le sterpaglie e si lanciò verso le luci dei vicini eppure lontanissimi capannoni industriali che sorgevano dall’altra parte dei campi. Ma fu raggiunta, fiaccata, ferita e strangolata. 

Naturale provare un senso profondo d’ingiustizia. Trovare il presunto assassino ci restituisce un senso di rivalsa, misero surrogato di una redenzione impossibile.  

La cronaca nera nell’età laica è un infinito coitus interruptus. Ce ne siamo resi conto oggi noi due -autori di quest’articolo- parlando del delitto di Yara, o meglio tentando disperatamente di parlarne, e non riuscendoci per nulla, continuamente censurati dalla nostra coscienza laica e politicamente corretta.

Il gossip di cronaca nera va goduto non andando troppo per il sottile, senza disquisire troppo sulla congruenza delle prove (da controllare dove, poi? Sui resoconti dei giornali?) ma abbandonandosi ad audaci analisi psicologiche del presunto colpevole e a temerarie considerazioni sociologiche sulla decadenza dei tempi. Il che è molto gradevole, ci fornisce una sorta di linciaggio light nel quale finalmente troviamo il piacere sempre più raro di essere d’accordo su qualcosa senza se e senza ma, senza mille cautele e prudenze verbali.

Soprattutto, come ci hanno spiegato Renè Girard (1972) e Giuseppe Fornari (2006), godiamo dell’ancora più raro piacere del poter essere concordi nell’odio contro qualcosa che è oggettivamente “male” senza virgolette, senza relativismi, senza distinguo, senza premesse, senza note a margine, senza glosse e senza corollari che rendono tutto molto più sofisticato e molto meno emozionante.

Questo in teoria. In pratica, non ci si riesce. Dopo un po’, qualcuno troppo ragionevole inizia a introdurre i suoi distinguo. Intrisi di mentalità scientifica, mettiamo in dubbio la colpevolezza dell’indagato. Ragioniamo sulla congruenza delle prove. Prendiamo atto che la maggior parte dei processi sono indiziari. Qualcuno deve crollare e confessare, ma notiamo che la “confessione” non è l’habeas corpus, la prova materiale. E così via.

Insomma, notiamo che la condivisione di uno stato d’animo e di un’opinione, sia pure la banale riprovazione verso un indagato, è un’impresa sempre più difficile.

Nella civiltà laica si condividono le azioni e i progetti, non le emozioni e gli stati mentali. Soprattutto, non si condividono i giudizi, e gli stati d’animo di tipo giudicante. Si può condividere l’entusiasmo per un progetto (è un’età attiva e fattiva, non può esserci pensiero senza azione). Ma anche li, senza esagerare, e soprattutto senza condividere un inappropriato e scorrettissimo senso di appartenenza (orrore!).

 

Noi moderni non apparteniamo a nulla e a nessuno, tanto meno a noi stessi. Noi che non siamo ma che soltanto stiamo partecipando a un progetto siamo accomunati solo da una serie di procedure pratiche, di scopi empirici e di risultati e non costituiamo assolutamente un gruppo con una sua identità che lo distingue dal mondo. Vietato appartenere, vietato definirsi. Definirsi significa trasformare un gruppo funzionale in un gruppo organico, un’associazione in un’etnia. Ed etnia è l’antitesi della laicità.

Tutto questo è sicuramente meraviglioso, certamente è utile (ops! Attenzione a non esagerare anche qui!) Però sempre maledettamente privo di quel je-ne-sai-quoi che è il cuore della passione incontrollata. (E poi finalmente andiamo a vedere “trono di spade”, dove le cose vere, calde e forti accadono, e possiamo avere preferenze, passioni e disgusti condivisi).

Condividere un progetto e mai un’idea impone un atteggiamento da eterni pesci in barile perfino nel pieno dell’azione. Non c’è mai il vero abbandono orgiastico, quello che nelle feste dionisiache portava alla perdita del controllo. E però –non spesso, non necessariamente, ma idealmente sempre- anche al linciaggio di una vittima.

C’è qualcosa nell’unirsi nella riprovazione di un colpevole che fornisce a noi umani un’esperienza unica di piena e irriflessa adesione e condivisione che non riusciamo a trovare in nessun’altra esperienza. Ci fa sentire tribù, unici e diversi dall’altro. Ci fa sentire vicini, e gli altri lontani. E quindi meno soli.

Pensavamo che le innocue chiacchiere sulla cronaca nera potessero essere una variante moderna accettabile dell’antico entusiasmo divino. In fondo si tratta di condividere delle innocue banalità con leggerezza, non intendiamo linciare nessuno. Eppure anche questo è troppo per lo spirito critico moderno.

Dobbiamo rassegnarci a tacere, secondo il detto di Wittgenstein: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Siccome di questi processi in fondo non sappiamo nulla, finiamo per tacere. E così anche questo articoletto, nato per parlare del delitto di Yara, si conclude riflettendo sull’impossibilità di parlarne.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il contagio emotivo su Facebook è possibile? I risultati della ricerca

La scienza risponde ma e’ subito polemica sugli aspetti etici della ricerca.

La rivista Proceedings of the National Academy of Sciences pubblica lo scorso marzo una ricerca condotta da Adam Kramer del Core Data Science Team di Facebook su un campione di quasi 700mila utenti del social network  più diffuso al mondo.

I ricercatori hanno dimostrato che in presenza di una significativa riduzione di contenuti positivi nel proprio News Feed, le persone rispondono con un numero maggiore di post negativi e meno post positivi. Si osserva invece una reazione diametralmente opposta se esposti ad un numero maggiore di notizie positive pubblicate dai propri contatti.

Il News Feed non è altro che la pagina principale di Facebook, dove ogni utente visualizza gli aggiornamenti e le notizie postate dai propri contatti.

Dal momento che questi producono molti più contenuti di quelli che si riescono a visualizzare, il News Feed funziona da filtro rispetto alle attività di amici e conoscenti in base ad un algoritmo di ranking che Facebook sviluppa e testa continuamente per garantire all’utente la visualizzazione dei contenuti per lui più rilevanti e interessanti.

Non è stato quindi difficile per i ricercatori modificare l’algoritmo per manipolare la quantità e la qualità emotiva dei post visualizzabili.

I risultati della ricerca offrono nuovi importanti dati riguardo alle dinamiche del contagio emotivo. Precedenti studi di laboratorio hanno già dimostrato la possibilità che un individuo influenzi emotivamente chi gli sta fisicamente vicino e ciò si è reso evidente anche all’interno di reti sociali molto ampie ma  l’impianto metodologico di queste ultime ricerche, condotte in ambienti naturali, non consente di andare al di là dell’evidenza di alcune correlazioni.

Questa nuova ricerca ha il merito di aver utilizzato un metodo sperimentale che permette di evidenziare nessi di causalità più forti tra i fenomeni presi in esame e ha inoltre dimostrato la possibilità di contagio emotivo in assenza di verbalità, mimica e interazione sociale.

Altro dato interessante è la possibilità di ridurre l’espressione emotiva  riducendo il contenuto emotivo, sia esso positivo o negativo, degli eventi visibili nel News Feed. Ciò suggerisce una forte sintonia tra il comportamento degli individui e le emozioni delle persone che costituiscono il loro mondo sociale, sia esso reale o virtuale.

Tuttavia anche questa ricerca non è esente da critiche di natura metodologica.

I post sono stati discriminati in base alla presenza di almeno una parola positiva o negativa al loro interno, ma  il software (LIWC2007) utilizzato per l’analisi non tiene conto delle negazioni all’interno della frase per cui una frase del tipo “non ho avuto una buona giornata” potrebbe essere etichettata come positiva poichè “buona” è l’unica parola riconosciuta e analizzata come positiva.

Il professor Totterdell dell’University of Sheffield difende comunque la metodologia della ricerca, definendola “grezza” ma non difettosa e confida nel fatto che tali tecniche di analisi si possano raffinare negli anni.

 

Sembra che invece sia più difficile difendere i ricercatori dalle accuse di violazione etica per non aver informato i 700mila utenti che si sarebbero ritrovati a comporre  il campione di una ricerca scientifica che intendeva manipolare le loro emozioni.

La professoressa Kate Bullen, presidente del BPS Ethics Committee, rivendica in questa lettera aperta pubblicata sul Guardian l’importanza del consenso informato nel processo di ricerca scientifica e il dovere dei ricercatori di tutelare nel migliore dei modi i partecipanti alla ricerca, il che significa anche offrire loro la possibilità di ritirarsi da essa fino al momento della pubblicazione.

Facebook si difende dalle accuse facendo presente che al momento dell’iscrizione al social network l’utente dà il consenso all’utilizzo dei propri dati ai fini della ricerca e che le informazioni raccolte nella settimana in cui è stata condotta la ricerca in questione non sono riconducibili all’account personale di alcun utente. Del resto una ricerca come questa non fa altro che contribuire alla mission di Facebook che si impegna quotidianamente per migliorare il proprio servizio al fine di rendere l’esperienza del cliente la più soddisfacente possibile.

Se questo ci disturba, c’è da chiedersi se fino ad oggi siamo stati degli utenti consapevoli oppure no.

 

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LA PSICOLOGIA DEI SOCIAL NETWORK

 

BIBLIOGRAFIA:

I sensi e l’inconscio di Giuseppe Civitarese (2014) – Recensione

 Luca Nicoli

 

 

I sensi e l inconscio di G. Civitarese - RecensioneNel suo percorso di rinnovamento della psicoanalisi, fortemente radicato nelle teorie post-bioniane e particolarmente nel modello del campo intersoggettivo, l’Autore sceglie di occuparsi di un concetto centrale della nostra disciplina, l’inconscio, così a lungo dibattuto e ridefinito da risultare a volte indefinito e sfuggente, quasi diluito nella sua pregnanza.

Risognare l’inconscio

La definizione di sogno dovrebbe includere il momento del risveglio

Credo che questa frase (p. 64, corsivo mio), apparentemente semplice, dia testimonianza dell’apertura prospettica offerta da questo quinto libro di Giuseppe Civitarese, dal titolo “I sensi e l’inconscio”. Soltanto al risveglio, spiega l’Autore, possiamo intuire la simultaneità della nostra esistenza in più mondi.

La vita umana si svolge incessantemente nel mondo interno e in quello materiale, ciascuno del quali contribuisce di continuo a generare l’altro. Siamo ormai molto distanti dalla scissione cartesiana tra corpo e mente, ma anche al di là del paradigma di unità psicosomatica che ha rappresentato uno dei punti forti della rivoluzione freudiana, secondo la quale l’Io è prima di tutto un Io corporeo.

Nel suo percorso di rinnovamento della psicoanalisi, fortemente radicato nelle teorie post-bioniane e particolarmente nel modello del campo intersoggettivo, l’Autore sceglie di occuparsi di un concetto centrale della nostra disciplina, l’inconscio, così a lungo dibattuto e ridefinito da risultare a volte indefinito e sfuggente, quasi diluito nella sua pregnanza.

Civitarese confessa già nelle prime battute lo sgomento davanti alla complessità di una nuova concettualizzazione sul tema: “Mi resi subito conto con una certa apprensione di come il familiare concetto di inconscio mi divenisse man mano più estraneo. Più mi avvicinavo, più sembrava sfuggirmi. In effetti più lo studiamo, più il quadro si fa oscuro, l’intrico delle diverse concettualizzazioni quasi impenetrabile” (p.11).

Allora, ci si potrebbe chiedere non senza malizia, che senso ha scrivere oggi un libro sull’inconscio, laddove la psicoanalisi contemporanea, di cui Civitarese è esponente di peso, ormai intende il termine inconscio più come aggettivo – i processi inconsci – che come sostantivo?

L’Autore compie una scelta di apparente continuità, ma già nell’introduzione si capisce con chiarezza che il passaggio da una psicoanalisi dei contenuti ad una più attenta ai processi trasformativi è un dato acquisito, di partenza più ancora che di arrivo.

Il tema viene trattato in modo preciso e puntuale, alla ricerca di una cornice teorica che consenta di preservare lo spessore clinico dell’inconscio, senza irrigidirlo in una struttura reificata, la cantina buia della psiche.

“Provare a mappare alcuni dei nodi essenziali della rete concettuale che si è sviluppata a partire dalla nozione chiave della psicoanalisi mi è costato non poca fatica, ma mi ha permesso di redigere un piccolo atlante dell’inconscio” (p.12).

Alla luce della lettura del volume, mi piace l’idea di immaginare questo atlante non tanto come i vecchi atlanti stradali, minuziosi reticolati cartacei che ricordano gli schemi freudiani raffigurati in alcune pagine del libro, quanto piuttosto come una guida della Lonely Planet, senza immagini o piantine sature di significato, ma ricca di descrizioni che invitano il viaggiatore a sognare il viaggio, arricchendolo di spessore emotivo.

L”importante è… Sognare

“L’importante è… finire”, sussurrava Mina, scandalosamente indecisa se arrendersi o meno alle tentazioni della sensualità. E l’inconscio di cui parla l’Autore – erede ed estimatore del pensiero di Bion – si nutre continuamente di sensorialità. Il corpo pensa, “trasforma l’emozionalità primaria che nasce dall’attrito con il reale” (p. 65), fornendo contenuti alla mente, che rappresenta la funzione autocosciente del corpo stesso.

In linea con la teoria del sogno di Bion poi ripresa da Ogden, Civitarese esplora il concetto clinico di revêrie corporea, un interessante fenomeno clinico di comunicazione inconscia intersoggettiva. Laddove la teoria classica scorgerebbe dei fenomeni di controtransfert somatico, evocati da potenti identificazioni proiettive da parte del paziente con difficoltà a simbolizzare, il modello proposto dall’Autore vede emergere l’irrappresentabile all’interno del campo corporeo condiviso, attraverso sensazioni o azioni.

Non si tratta, si badi bene, di concezioni astratte, poiché hanno specifiche ricadute sul piano clinico. A questo proposito, Civitarese si mostra sensibile alla funzione terapeutica della psicoanalisi, dunque gli assunti teorici sono accompagnati da una serie di raffigurazioni cliniche convincenti, a partire da curiosi accadimenti nel setting: un errore “di calcolo” nella lunghezza della seduta, l’analista che si sorprende nell’atto di bere una bottiglietta a specchio di quanto sta facendo la paziente, o che intraprende una disputa intellettuale con un altro paziente; queste sono solo alcune delle vignette, coraggiose e sincere, che parlano di un analista attento, che si interroga sul significato emergente di presunti errori, sensazioni fugaci e azioni apparentemente banali.

Senza interpretare secondo modelli precostituiti, l’Autore sembra lasciarsi sorprendere dalla voce dei sensi, la revêrie corporea, che si leva dalle aree apparentemente mute, meno simbolizzate del campo analitico, in quel setting depositario, secondo Bleger, delle parti psicotiche della personalità.

Il setting, il corpo del paziente, quello dell’analista, le azioni intraprese dai due perdono parte della loro differenziazione qualitativa, oserei dire della loro costituzione ontologica, per diventare, in seduta, dei vertici del campo analitico, costruiti come una sorta di terzo intersoggettivo (Ogden) dall’attività onirica condivisa.

Civitarese spiega in questo modo il rapporto tra corpo, inconscio e campo analitico: “Noi interpretiamo il paziente (le turbolenze del campo) anche con il nostro sapere procedurale, implicito; un sentire e un conoscere non riducibili direttamente a parole, concetti, rappresentazioni. Si tratta di una comprensione vissuta, in un primo momento del tutto irriflessa e che solo in seconda battuta può divenire conscia. […] Anche l’azione non intenzionale o il comportamento che è espressione di un’abitudine in seduta cambiano se cambia la teoria dell’inconscio” (p.63).

Una rivoluzione senza caduti

Bion da un lato, Merleau-Ponty, Derrida, Heidegger dall’altro, sono solo le principali stelle che guidano la navigazione di Civitarese verso il paradigma del post-moderno, della decostruzione del soggetto e delle strutture psichiche in favore dello studio dei processi e delle funzioni mentali intersoggettive. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione senza caduti. In che senso?

La scienza del Novecento – di cui Freud è stato geniale rappresentante – aveva bisogno di fondarsi sulla individuazione e la descrizione di strutture distinte: coscienza e inconscio, soggetto e oggetto erano chiaramente definiti, così come era al centro dell’attenzione la relazione dinamica tra loro. Freud scolpisce in un motto l’essenza stessa della psicoanalisi: “Wo Es war, soll Ich werden”; dove prima c’era l’Altro, il pulsionale inconscio, devo porre Me stesso come soggetto cosciente.

Civitarese riconosce un ruolo fondante a questo paradigma, e ha il merito di non trascurarlo come se fosse un’incrostazione anacronistica. Tutt’altro: l’Autore non uccide Freud, le cui raffigurazioni schematiche dell’inconscio emergono come preziose cartoline di famiglia tra le pagine del volume, anzi lo convoca insieme a Bion per costruire un vero e proprio dialogo tra giganti, secondo un’opposizione dialettica franca e feconda.

La più efficace di queste operazioni di confronto riguarda a mio avviso il concetto di in/conscio. “L’inconscio non sta più sotto o dietro il conscio, ma semmai dentro l’esperienza cosciente” (p.14). Non si tratta di un’entità topicamente differente, un altrove straripante di pulsioni proibite, ma di una funzione trasformativa che offre spessore simbolico, poetico, estetico, ad una realtà altrimenti inaccessibile e allo stesso tempo insignificante.

“Ne consegue che la distinzione tra processo primario e processo secondario è da rivedere” (p.124). Sentenze come questa sono rare nel panorama del confronto analitico: chiara, incisiva e pertinente, non tenta di salvare a tutti i costi l’enunciato freudiano, ma al tempo stesso non lo svaluta né vi si contrappone in modo aggressivo. Civitarese sembra rivolgersi direttamente a Freud, come un Fliess dei tempi moderni, per invitarlo a ripensare, risognare ancora una volta la teoria psicoanalitica.

Voglio a questo punto ribadire come ciascuno di questi mutamenti di prospettiva non appaia mai come un orpello filosofico né tanto meno ideologico, ma come una necessità clinica per fare della psicoanalisi uno strumento di comprensione e cura delle persone.

Se la patologia isterica della Vienna freudiana ha dato vita a un modello teorico fondato sulla nevrosi e sul conflitto intrapsichico, oggi siamo nell’epoca del funzionamento mentale oggettivo (Britton), dove l’uomo è senza inconscio, per citare Recalcati. Le anoressie, i disturbi ansiosi, gli stati limite, le disfunzioni somatopsichiche ci presentano difetti di simbolizzazione, veri e propri buchi rappresentazionali, strappi nella tela dell’esperienza di sé. È questa nuova tipologia di pazienti che spinge gli analisti ad occuparsi degli stati primitivi della mente (Levine) e della figurabilità dell’irrappresentabile (Botella).

Civitarese a questo proposito valorizza il lavoro introdotto da Bion di estensione della funzione onirica: se il sogno per Freud era un tentativo di metabolizzare il trauma infantile, “qui ciò che si tratta di metabolizzare è la virtuale traumaticità del reale” (p.133).

La psicoanalisi di cui stiamo parlando accompagna il paziente nel lungo processo di soggettivazione (Cahn), che nel linguaggio di Civitarese possiamo tradurre come l’appropriazione in/conscia del reale, la O di Bion, di per sé inconoscibile. Attraverso momenti di unisono, ovvero di condivisione emotiva del sogno, la mente si espande e rafforza la sua capacità di contenere e dare significato all’esistenza.

Nella terra di mezzo

A questo punto, vorrei condividere alcuni elementi della mia esperienza personale nella lettura del libro, nel tentativo di mettere in luce la sua doppia funzione di strumento per il cambiamento clinico ed epistemologico.

Accingendomi a terminare il volume, come lettore sono rimasto affascinato dalla dialettica incessante tra mondo interno ed esterno, consapevole che la mia psicoanalisi non sarebbe stata quella di prima. Giunto al nono capitolo, “l’intermedietà come paradigma epistemologico in psicoanalisi”, mi sono imbattuto nello Zwischenreich, il “regno di mezzo”, neologismo utilizzato per la prima volta da Freud nel 1896. Quasi all’istante ho associato il concetto alla Terra di Mezzo, landa mitica ideata da J.R.R. Tolkien per fare da sfondo al suo romanzo “Il Signore degli Anelli”.

Durante un’intervista, quando chiesero al celebre narratore se le sue storie si svolgessero in un’epoca differente della Terra, egli rispose: “No… ad un differente stadio dell’immaginazione, questo sì”. Come non pensare ai paradigmi dell’intermedietà, del preconscio, dello spazio potenziale, di una dimensione contemporaneamente aliena e presente.

Certamente, il passaggio dal modello archeologico della psicoanalisi ad un paradigma di gioco creativo con Winnicott, di costruzione della capacità di pensare con Bion, di arricchimento degli scambi preconsci (???) rappresentano ormai dei passaggi epistemologici sufficientemente acquisiti, anche se, talvolta, si corre il rischio di interpretarli alla stregua di ulteriori dimensioni fisse, luoghi della psicoanalisi che sostituiscono altri luoghi.

La terra di mezzo di cui ci parla questo libro, che costituisce una delle più preziose risorse del pensiero post-bioniano, è una sorta di nonluogo, termine coniato dal sociologo Marc Augé per indicare un’aree virtuale di relazione, che nel nostro caso è caratterizzata da continue oscillazioni dialettiche.

A partire dal concetto del filosofo Merleau-Ponty di Io come campo di relazioni intercorporee, passando per il concetto di proto-mentale di Bion, Civitarese arriva a sottolineare il nuovo scandalo introdotto dalla psicoanalisi, dopo quello freudiano dell’alienazione dell’Io ad opera dell’Es pulsionale: si tratta dell’alienazione dell’inconscio soggettivo, in favore di una continua creazione intersoggettiva dell’esperienza inconscia. Soggetto e oggetto non sono più in opposizione strutturale, ma in continuo dialogo come la dimensione in/conscia, già citata.

Come per il nastro di Moëbius presentato nel libro, o per il gatto di Schrödinger della fisica quantistica, che è contemporaneamente vivo e morto, l’intermedietà di cui parla Civitarese non è una realtà terza, a metà via (un gatto ferito?), ma appare piuttosto come un’oscillazione continua di due vertici in opposizione dialettica.

Viene da pensare agli ologrammi, figure riconoscibili e definite che traggono esistenza dalla combinazione di due fasci luminosi che si intersecano. L’immagine risultante è immediatamente riconosciuta come superiore alla somma delle componenti, come nel caso del concetto di terzo intersoggettivo di Ogden; tuttavia, spegnendo una delle fonti di luce, la percezione della figura viene meno immediatamente.

Il campo analitico, terra di mezzo prediletta da Civitarese, sarebbe l’equivalente di un ologramma derivante “dall’incrociarsi di reciproche identificazioni introiettive e proiettive” (P. 217). Per l’Autore, esso rappresenta lo strumento teorico e clinico di cui apprezzare i movimenti, le espansioni o le contrazioni, i cambiamenti di clima o di temperatura, l’irrigidimento o l’elasticità.

Naturalmente, tale punto di vista radicale, che mette tra parentesi le individualità dei due soggetti in seduta, comporta delle ricadute significative sul piano tecnico: “In principio l’interpretazione non è più diretta al paziente, a modificare qualcosa in lui, bensì a migliorare la capacità narrativa del campo inteso come narrazione in/conscia a due. Se apparentemente si indirizza al paziente, da questo vertice lo fa solo come luogo del campo. Ciò che conta è migliorare il livello generale del testo che analista e paziente compongono e via via recitano in due. Ogni intervento quindi mira ad accrescere la capacità della coppia di sognare il problema che fino ad allora non si riusciva a sognare” (P. 220).

I due volti della verità

Dedico la conclusione di questa recensione al problema della verità, che in un certo senso permea tutto il lavoro di Civitarese.
Lo scarto epistemologico offerto dalla teoria del campo intersoggettivo si riverbera in modo radicale sull’approccio clinico.

L’obiettivo dello scambio analitico diventa molto differente rispetto a paradigmi più classici, ricostruttivi, e anche la verità a cui tendere, il cibo che – per Bion – garantisce la crescita della mente, ha delle sfumature differenti. Come sappiamo, per Freud l’individuo si trova spodestato dalla padronanza di sé ad opera di un inconscio rimosso ma dinamicamente molto attivo. Il disvelamento del messaggio pulsionale latente tramite l’interpretazione e l’integrazione del contributo inconscio alla personalità concorrono all’acquisizione di un sentimento di verità interna, che arricchisce la consapevolezza di sé.

Civitarese discute il suo modo di intendere la verità in analisi nel capitolo “la Griglia e la pulsione di verità”, dove egli segue il travagliato percorso di Bion nel definire il rapporto dell’individuo con la verità, talmente essenziale da farne la meta di una pulsione, nella rilettura di Grotstein.

La verità che interessa a Bion (a noi) in analisi è quella che nutre la mente e che è adattiva rispetto alla realtà esterna solo quando è emotivamente sostenibile […], solo quando non comporta un grado eccessivo di frustrazione e “non ostruisce lo sviluppo del pensiero (p. 204, corsivo mio).

È in questa frase che riconosco le due facce della verità presenti nel libro.

La prima, la più esplicita, è quella che fa dire a Civitarese che bugia e sogno rappresentano metafore differenti con cui il paziente cerca di proteggersi dall’angoscia e insieme di farsi intendere. Torna alla mente ciò che sostiene Ogden sullo scrivere la psicoanalisi, ovvero il paradosso secondo il quale non si può raccontare una seduta se non trasformandola in finzione, perché non vada perduta la soggettività, qualità fondante dell’esperienza analitica.

Pertanto, in analisi, lo svolgersi narrativo del campo intersoggettivo trascende i concetti di verità e menzogna, e l’unica verità che interessa l’analista è quella “inconscia, emotiva e condivisa” (p. 205).

Tuttavia esiste anche, a mio avviso, una seconda faccia della verità, di cui Civitarese non parla esplicitamente, ma che trapela spesso dalle pagine del libro. È quella verità che “non comporta un grado eccessivo di frustrazione”.

Si tratta di una verità generosa, offerta dagli scrittori (o dagli analisti) più attenti alle capacità elaborative dei loro interlocutori. Essa richiede di prestare continua attenzione a quanto un lettore può cogliere, senza che si senta schiacciato da un sapere distante e frustrante. Accompagnare il lettore a risognare la psicoanalisi significa ad esempio spiegarne anche quei concetti che fin troppo spesso sono dati per scontati, come quando Civitarese parla dei pazienti che si trovano ad avere “difficoltà a simbolizzare, in sostanza a tollerare la differenza che separa il significante dalla cosa significata” (p. 53, corsivo mio), o come quando scrive che “la trasformazione avviene quando le emozioni sono “contenute” cioè “simbolizzate” “(p.121, corsivo mio).

A mio avviso non si tratta di ovvietà, esattamente come non è ovvio che ciascun paziente comprenda senza difficoltà il nostro linguaggio, soprattutto quando ci capita di cadere nell’uso dello psicanalese. Cercare di cucinare la complessità del discorso per favorirne la digestione emotiva significa voler ricercare insieme una verità condivisa. Allo stesso tempo, ricordarsi di rendere esplicito il significato dei concetti più comuni aiuta a mantenerli vivi, precisi, condivisi, veri.

 

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LEGGI LA RECENSIONE DI:

Il sogno necessario – di Giuseppe Civitarese 

 

BIBLIOGRAFIA:

Problemi di salute mentale & rischio maggiore di essere vittime di omicidio

 

 

FLASH NEWS

Pazienti con diagnosi di malattie mentali avrebbero un rischio due volte e mezzo maggiore della popolazione generale di essere vittima di un omicidio.

Questa sarebbe l’allarmante conclusione raggiunta da uno studio nazionale, pubblicato sulla rivista The Lancet Psychiatry, che ha esaminato le caratteristiche delle vittime di omicidio in Inghilterra e Galles.

Generalmente gli omicidi commessi da pazienti psichiatrici ricevono maggiore attenzione mediatica, ma il rischio di tali soggetti di essere le vittime di atti criminali e la loro relazione con gli aguzzini, raramente sono stati esaminati.

In tale studio, il National Confidential Inquiry into Suicide and Homicide by People with Mental Illness (NCI), ha esaminato i dati relativi alle vittime e ai carnefici di tutti gli omicidi commessi in Inghilterra e nel Galles tra il Gennaio del 2003 e il Dicembre del 2005. I ricercatori hanno trovato che in tale lasso di tempo le vittime di omicidio erano state 1496 e che il 6% di queste (90) era stato fruitore dei servizi di salute mentale negli anni precedenti la morte. Inoltre, un terzo di tali soggetti (29) erano stati a loro volta vittima di altri pazienti con problemi mentali, i quali potevano essere il loro partner, un membro della famiglia o comunque un loro conoscente, spesso frequentatori della stessa struttura di riferimento. Abuso di alcool e droga e una storia passata di violenza sono spesso presenti sia nelle vittime che negli assassini.

Come ha affermato il Professor Louis Appleby della University of Manchester, UK, “Il nostro risultato mostra come il personale sanitario dei servizi di salute mentale dislocati in Inghilterra e nel Galles si possa aspettare che almeno uno dei propri pazienti sarà vittima di un omicidio circa ogni due anni”. E aggiunge “Valutare il rischio di suicidio e di violenza dei paziente è una pratica consolidata, ma esaminare il rischio di essere vittima di violenza non lo è. Capire che il rischio che un paziente si trova ad affrontare può dipendere dal contesto di vita in cui si trova – ad esempio il fatto che faccia uso di alcool o droga, o il contatto con altri pazienti con una storia di violenza agita alle spalle – e valutare appropriatamente tale rischio dovrebbe diventare un elemento chiave del piano di cura”.

D’accordo anche la Dott.ssa Alyssa Rheingold della Medical University of South Carolina, USA, che aggiunge: “I ricercatori suggeriscono che fattori di rischio quali uso di sostanze, basso status socioeconomico, tipo di psicopatologia e comportamenti che aumentino tali rischi debbano essere indagati”.

Sono necessari ulteriori approfondimenti su tali caratteristiche individuali, sulla loro interazione e sul loro contributo al rischio di omicidio. Tuttavia, una piena comprensione di tali fattori di rischio sarà difficile da realizzare in vista dei potenziali effetti di fattori individuali, situazionali e sociali.

I ricercatori devono, quindi, intraprendere lo sviluppo di un modello multicomponenziale che spieghi adeguatamente in quale maniera contribuiscano le caratteristiche individuali e quelle ambientali.

 

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 Omicidio-suicidio alla clinica di Paderno Dugnano. Prospettiva psicologica

 BIBLIOGRAFIA:

Neurofobia: Chi ha paura del cervello? – Psicologia & Neuroscienze

 

 

Il bel libro di Aglioti e Berlucchi, Neurofobia, edito da Raffaello Cortina, è un affascinante elogio alle neuroscienze e ai loro preziosi contribuiti nei più svariati campi, dalla psicologia alla psichiatria, dal diritto alla politica, dall’economia all’estetica.

Mente vs cervello. Scienze psicologiche vs neuroscienze.  Qual è il rapporto tra attività psichica e attività cerebrale?

Sin dall’antichità l’Uomo ha cercato di dare una risposta a questo quesito e sebbene sia ormai evidente che i processi mentali normali e patologici dipendono in ultima analisi dai processi cerebrali, tutt’oggi si assiste ancora ad una riottosità verso l’integrazione delle neuroscienze nel campo delle discipline psicologiche, quasi nel timore che queste ultime possano esserne inglobate perdendo così la propria autonomia scientifica.

Il contributo fornito dalle neuroscienze negli ultimi trent’anni è impressionante: grazie a metodi d’indagine sempre più raffinati (dalla stimolazione magnetica transcranica alla PET alla risonanza magnetica funzionale) l’Uomo ha potuto sbirciare cosa accade nel cervello e ampliare in maniera significativa le proprie conoscenze sul funzionamento della mente umana a livello cerebrale.

Il bel libro di Aglioti e Berlucchi, Neurofobia, edito da Raffaello Cortina, è un affascinante elogio alle neuroscienze e ai loro preziosi contribuiti nei più svariati campi, dalla psicologia alla psichiatria, dal diritto alla politica, dall’economia all’estetica.

L’entusiasmo verso un settore come quello delle neuroscienze, che mira a “riunire e coordinare le discipline inerenti al sistema nervoso”, e la possibilità di applicare le nuove metodiche d’indagine del cervello ai settori più disparati hanno visto la nascita e il proliferare di nuove discipline “neuro” che vanno ad affiancare le già esistenti neurochimica, neuropsicologia, neurofarmacologia, neurobiologia, neuroendocrinologia, neurofisiologia…; ma, sostengono gli autori del libro, le discipline sopracitate rientrano nella categoria del “neuro consentito” e nessuno si scandalizza per il loro prefisso, probabilmente perché nessuna di loro affronta problematiche che riguardano direttamente il rapporto mente – cervello.

 

Quando invece si parla delle nuove discipline “neuro”, come la neuropsicoanalisi, la neuroeconomia, la neuroestetica, la neuroetica, il neurodiritto…, c’è chi nel mondo accademico e scientifico storce il naso, fino ad arrivare a chi guarda con grande preoccupazione i casi in cui le neuroscienze fanno capolino nella cultura umana (es. neuropolitica, neurofilosofia, neuroteologia).

Secondo Aglioti e Berlucchi l’atteggiamento allarmista di chi sostiene che ci troviamo di fronte ad una vera e propria neuromania è ingiustificato e le critiche mosse nei confronti delle neuroscienze sono spesso più il frutto di neurofobia, atteggiamento pericoloso quanto la neromania.

Nel momento in cui le neuroscienze incontrano la curiosità di voler comprendere cosa accade nel nostro cervello quando, per esempio, dobbiamo compiere una scelta economica o morale, oppure quando ci emozioniamo di fronte ad un’opera d’arte, o ancora quando siamo in preda ad un momento di estasi meditativa, il risultato è affascinante: studi condotti con rigore metodologico scientifico nonché un’accurata contestualizzazione dei risultati ottenuti ci permettono di aggiungere di volta in volta tessere al complesso puzzle che il rapporto mente – cervello rappresenta.

Gli autori di Neurofobia sottolineano come le neuroscienze abbiano “i mezzi intellettuali e materiali per approfondire considerevolmente la conoscenza della natura umana senza la pretesa, e tanto meno l’intenzione, di minacciarne […] le più profonde credenze filosofiche e religiose”.

Alla fine scienze psicologiche e neuroscienze si occupano dello stesso oggetto d’indagine, ma con un approccio che interessa punti di vista differenti: parlare di mente o di cervello significa parlare della stessa cosa su livelli diversi.

Non si tratta di mero riduzionismo né di una visione cerebrocentrica assolutista. Studiare, per esempio, l’amore romantico dal punto di vista neurobiologico (Bianca P. et Al., 2012) lo rende forse meno poetico? Non credo, semmai rende l’argomento più affascinante poiché l’integrazione tra scienze psicologiche e neuroscienze permette di afferrare, comprendere ed apprezzare maggiormente la meravigliosa complessità dei nostri comportamenti e dei nostri stati mentali le cui radici biologiche rappresentano un aspetto da cui non si può prescindere se si vuole avere “una visione equilibrata della natura umana”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Cervello Universale (2013) di Miguel Nicolelis – Neuroscienze & Tecnologia

 Leonor Romero Lauro

 

 

Il libro di Nicolelis trasmette entusiamo e fiducia nella scienza, nella tecnologia e nel cervello, restituendo alle neuroscienze il valore di mostrare non soltanto come funziona l’involucro che ingabbia la mente ma anche come si possano superare i limiti del corpo, “liberare la mente”.

Il Cervello Universale, o la versione originale inglese, che come spesso accade è più precisa ed evocativa, Beyond Boundaries: the new neuroscience of connecting Brain with Machines And How It will Change our lives , è il titolo del recente libro di un neuro scienziato brasiliano, Miguel Nicolelis.

Il libro racconta con entusiasmo e passione la storia dietro alla scoperta che ha reso possibile lo spettacolare calcio di inizio della cerimonia inaugurale dei mondiali il 12 giugno 2014 in Brasile. Già, perché per chi non lo avesse visto o non ne avesse già sentito parlare, il calcio di inizio è stato tirato da un giovane paraplegico grazie ad un esoscheletro robotizzato sensibile ai comandi motori inviati direttamente da cervello.

“Se la parola miracolo non fosse più adatta ad un altro ambito dell’esperienza umana, credo che la società dovrebbe riconoscere ai neuro scienziati il diritto esclusivo di usare questo termine quando descrivono le meraviglie che i circuiti cerebrali possono generare comunemente ogni giorno”, scrive Nicolelis. Aggiungerei che la stessa parola può essere la più opportuna anche per descrivere il miracolo di scienza e tecnologia che ha reso possibile questo calcio d’inizio.

Il libro racconta i passi più importanti nella recente storia delle neuroscienze con il dettaglio e la partecipazione che permettono al lettore di crearsi una visione vivida di quanto narrato, delle diatribe accademiche e dei laboratori in cui scienziati da premi Nobel degli ultimi 100 anni hanno compiuto le loro scoperte e formulato le loro teorie.

Fin dall’avvio della sua carriera scientifica, Nicolelis prende posizione contro l‘idea dominante che l’unità di funzionamento del sistema nervoso sia il singolo neurone e l’idea modularista, fodoriana, che supporta un localizzazionismo estremo, per cui ogni processo cognitivo ha una sede determinata e distinguibile . 

In controtendenza l’autore abbraccia e via via teorizza invece, attraverso una lista di principi che si dispiegano tra le pagine del libro, l’idea di un cervello relativistico, plastico, un fluire dinamico nello spazio- tempo, in cui l’unità di base sono gruppi di neuroni multasking, che possono essere coinvolti in diverse operazioni e in misura diversa a seconda del contesto.

Prendendo in prestito una metafora calcistica, tanto cara all’autore, cercherò di restituirvi in un’immagine rapida e dinamica i momenti più importanti della creazione della Brain Machine Interface (BMI), l’oggetto e il frutto della vita di ricerca di Nicolelis. La mente dell’azione, l’idea di fondo l’ha messa Jon Kaas, da Nicolelis stesso descritto come una fonte d’ispirazione: il cervello non raggiunge la sua forma definitiva e immodificabile al termine dello sviluppo fisiologico, è altresì plastico e sensibile ai cambiamenti per tutta la vita.

Con la stessa idea del cervello in mente, Nicolelis parte all’attacco e si pone il problema di trovare un metodo per mappare in modo più diffuso l’attività neuronale. Il terzino che imposta l’azione con un lungo traversone è il suo primo mentore, César Timo-Iaria, che gli suggerisce la soluzione, lucida e attuale allora come oggi: lascia il Brasile e trova un pazzo americano disposto a pagare per le tue idee.

Così Nicolelis lascia il Brasile per una borsa di Post-Doc presso la Hahnemann University di Filadelfia, nel gruppo di John Chapin che stava appunto lavorando ad un sistema multiarray di sensori per registrare l’attività in contemporanea di gruppi di neuroni che nella corteccia somatosensoriale del topo rispondono al movimento delle loro vibrisse. La realizzazione di questi sistemi permette di dribblare il primo avversario, agevolando il passaggio successivo verso la Duke University, dove Nicolelis e il suo team riescono a registrare l’attività di circa un centinaio di neuroni mentre una scimmia aotide, Aurora, compie dei movimenti utilizzando un joystick per spostare un cursore su uno schermo verso il bersaglio che le permetterà di ricevere in ricompensa il suo amato succo di frutta.

 

Il riuscire a campionare e registrare un alto numero di neuroni corticali attivi mentre Aurora pensa e pianifica il suo movimento e la realizzazione di modelli matematici in grado di estrarre dalla sinfonia cerebrale registrata i segnali effettivamente corrispondenti ai comandi motori messi in atto sono i due passaggi cruciali che portano il team di Nicolelis dritto nell’area di rigore.

Comprendere i pattern di scarica neuronale corrispondenti ai movimenti effettivi rendeva possibile infatti tradurre tali segnali in comandi digitali rivolti ad un braccio meccanico, così da farlo muovere guidato dalla scarica dei neuroni della scimmia.

L’assist finale verso la scoperta è narrato con grande suspense. Immaginatevi un gruppo di ricercatori chiuso in un bunker della Duke che ascolta, come fosse musica, la registrazione di scariche neuronali mentre una scimmia cerca di guadagnarsi il suo succo di frutta. Il passo cruciale è il momento in cui alla scimmia viene tolto il joystick per spostare il cursore. In effetti, avendo in mente l’applicazione finale del BMI come sostegno a chi gli arti non li può muovere, era essenziale campionare i segnali neuronali generati pensando di compiere un movimento piuttosto che facendolo.

Con uno sguardo furbo e accattivante, con un intuito e intraprendenza imprevedibili, la scimmia Aurora ha un insight e si accorge che continuando a muovere le braccia, o meglio semplicemente pensando di muoverle, il cursore si sposta ugualmente fino al bersaglio che le regala il prelibato succo d’arancia. Il movimento del cursore corrisponde a quello di un braccio meccanico, mosso dai segnali elettrici generati dai neuroni della scimmia.

E’ questa la sorprendente capacità del cervello di apprendere per adattarsi ai cambiamenti in funzione di uno scopo. Applicando la stessa logica ad una BMI che coinvolge un esoscheletro e una gamba il gioco è fatto: è possibile pensare di muoversi, tradurre il segnale creato dal pensiero e trasformarlo in un comando motorio ad un arto robotizzato. Il tutto tra l’altro in un tempo record di 300 ms, necessario perché il movimento robotizzato rispecchi in modo fedele quello naturale. La palla vola veloce nell’area di rigore perché un ultimo calcio segni il goal cercato: quello stesso calcio eseguito sotto gli occhi di tutto mondo pochi giorni fa. 

Il libro di Nicolelis trasmette entusiasmo e fiducia nella scienza, nella tecnologia e nel cervello, restituendo alle neuroscienze il valore di mostrare non soltanto come funziona l’involucro che ingabbia la mente ma anche come si possano superare i limiti del corpo, “liberare la mente”.

Ricorda l’importanza di osare, di andare oltre con fiducia e tenacia verso un obiettivo applicativo e concreto, lontano dai polverosi e sterili H-index e Impact-Factor che distraggono e intralciano gli accademici. L’autore ci svela la vera natura di questo obiettivo nelle ultime toccanti pagine del libro, in cui racconta della musica di un violino, suonato dal suo primo mentore il giorno del loro incontro, e di una melodia di Chopin suonata al piano dalla sua amata nonna, che un giorno lui non ha più potuto ascoltare perché ad entrambi una patologia cerebrale aveva sottratto questa capacità.

Per concludere un augurio. Nel lontano 1906 il premo Nobel per la medicina otre che a Santiago Ramòn y Cajal di Madrid venne assegnato al professor Camillo Golgi di Pavia, strenuo sostenitore di una rivoluzionaria e antesignana teoria reticolare contro il localizzazionismo della teoria del neurone dello spagnolo.

Nicolelis scrive che la storia di Golgi gli ricorda le parole di un allenatore brasiliano “questi italiani sono in grado di vincere una partita in modo sorprendente” a proposito dei tre goal che ancora popolano gli incubi di tutti i brasiliani, incluso Nicolelis, segnati da Paolo Rossi nella finale Italia-Brasile del 1982. L’augurio è che l’Italia continui ancora a sorprendere nello stesso modo, nel calcio dei prossimi giorni come nella scienza dei prossimi anni.

 

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Vittorio Lingiardi: le Neuroscienze sono oggi imprescindibili per capire la psiche

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La supervisione in psicoterapia: il modello americano di supervisione clinica e la realtà europea

La supervisione clinica in psicoterapia

La carriera del supervisor è molto strutturata negli Stati Uniti e serve per codificare in modo oggettivo la maturazione degli psicoterapeuti, degli psicologi, dei consulenti e degli assistenti sociali, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dal punto di vista della correttezza dell’assetto con il paziente: correttezza nel rispetto del setting, ma anche dei confini, delle emozioni proprie e del paziente.

New York (11-13 giugno 2014) e Copenaghen (25-28 giugno 2014)

Sono stata tre giorni negli Stati Uniti, dall’11 al 13 giugno, perché incuriosita dal titolo di una conferenza : X Conferenza Internazionale sulla Supervisione Clinica (10th International Conference on Clinical Supervision). Negli Stati Uniti questa conferenza è la più conosciuta per quanto riguarda la supervisione in psicoterapia. Quest’anno si è tenuta in una bellissima università privata: Adelphi University, a 50 minuti da Penn Station, nello stato di New York, a Garden City.

Cosa mi ha spinto a fare questo breve viaggio americano? Forse una sensazione che noi in Italia non abbiamo una tradizione di supervisione strutturata per le scuole di psicoterapia e in generale per gli interventi psicologici. Intendiamoci: so bene che la supervisione è contemplata e obbligatoria nelle scuole di formazione alla psicoterapia. Spesso tuttavia ho avuto la sensazione che essa non sia ben formalizzata e dipenda troppo dai modi e dai gusti dei singoli didatti e dai problemi teorici dell’aderenza al modello clinico.

Negli anni sempre più ricevo richieste di fare supervisione alla psicoterapia, sia nelle scuole di psicoterapia che in strutture pubbliche o private. Perché ricevo queste chiamate? In realtà il mio mestiere è quello dello psicoterapeuta, non precisamente del supervisore. Credo che dietro ci sia un’inferenza: un buon (o decente) psicoterapeuta è anche un buon (o decente) supervisore in psicoterapia. Ma non è affatto detto, anzi è una inferenza per nulla dimostrata. E le variabili che misurano l’efficacia della supervisione clinica mi sembrano, al meglio, primitive e poco scientificamente orientate.

Arrivata al congresso, la prima sensazione che ho avuto è stata di spaesamento. Molti assistenti sociali, councelor, qualche psicologo clinico, molto poco specializzati dal punto di vista psicoterapeutico, molto specializzati come supervisori clinici. Questo mi confermava che forse terapeuta e supervisore non sono due mestieri necessariamente sovrapposti.

 

La supervisione clinica: l’esempio degli Stati Uniti

La carriera del supervisor è molto strutturata negli Stati Uniti e serve per codificare in modo oggettivo la maturazione dei terapeuti, degli psicologi, dei consulenti e degli assistenti sociali, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dal punto di vista della correttezza dell’assetto con il paziente: correttezza nel rispetto del setting, ma anche dei confini, delle emozioni proprie e del paziente.

Lo spaesamento derivava anche dalla strutturazione dei corsi didattici americani, che in area socio-psicologica è completamente diversa dalla nostra. Molto probabilmente in soli tre giorni non ho avuto un quadro non del tutto preciso.

Negli Stati Uniti esistono tre carriere che permettono di diventare supervisore: psicologo clinico, (che si conclude con un master o un PhD senza il quale non si può fare clinica), psicologo counselor (che si conclude anch’essa con un PhD, come meta finale) e counselor senza altre specificazioni (anch’essa concludibile con un master o un PhD). Tuttavia, delle tre solo l’ultima prevede un corso di supervisione formalizzato nel percorso. Insomma, dopo i 4 anni di bachelor è possibile fare un master di 2 anni e un PhD di 5/6 anni che dirige verso una carriera da clinici, da educatori, o da assistenti sociali. E i supervisori sono esclusivamente reperibili tra coloro che hanno fatto un master e un PhD.

La supervisione clinica è un’attività molto strutturata e insegnata nelle Università, ma ciò che ho compreso è che essa non riguarda solo la supervisione in psicoterapia ma vigila su tutte le professioni psicologiche, sociali, etiche e di capacità di gestione degli incontri individuali e gruppali.

Diciamolo da psicoterapeuti: la supervisione, almeno quella che ho visto a questo congresso vigila sui fattori aspecifici (congresso che mi è parso dominato da relazionalisti mithcelliani; è possibilissimo che esistano altri mondi del tutto differenti che danno più importanza alla supervisione tecnica).

Un punto interessante è che la ricerca su questo tipo di supervisione relazionale è molto agli inizi. C’è qualche dato sulla soddisfazione dei clienti che aumenta di fronte a clinici ben supervisionati (cosiddetti supervisee), c’è qualche dato sulla soddisfazione dei supervisee, ma non ci sono dati sulla autentica efficacia della supervisione sull’aumento di benessere dei pazienti, o sulla riduzione sintomatica.

 

Supervisione clinica: le tre variabili da mettere a fuoco

Riassumendo, abbiamo tre elementi: il supervisore, il supervisee e il paziente. L’insieme di queste tre variabili è complesso e non facile da mettere a fuoco. Ascoltando le relazioni ho avuto la sensazione che neanche per i ricercatori la messa a punto del focus della ricerca sia metodologicamente facile. È un mondo che sta cominciando ora a fare i primi passi.

La sensazione è che in questo mondo prevalgano le figure rispettate ed esperte di gestione dei gruppi, e capaci di fare coaching. Figure che sono però un po’ come i clinici famosi che hanno quel tocco indicibile, basato più su esperienza non esplicitata che sulla scienza, esperienza sulla quale poi la ricerca fa fatica a procedere.

 

Perché la riflessione sulla supervisione agli psicoterapeuti è cosi relativamente agli inizi?

Perché finora la supervisione clinica era condotta perseguendo l’aderenza corretta a un modello. La domanda era: quanto quello che il supervisionato fa è coerente con il modello che gli sto insegnando? Inoltre non era ben chiaro come era costruita quest’aderenza, essendo le procedure poco formalizzate.

Questa portava al rischio dell’auto-conferma. In realtà uno psicoterapeuta può conoscere e applicare in maniera corretta un modello, trovando poi grandi difficoltà nel fare i conti con il paziente e nel gestire la relazione con lui.

Per reazione si è sviluppato, specie in California, un movimento che spinge una supervisione autoriflessiva, movimento che sta andando per la maggiore adesso e che si muove nella direzione verso la messa a fuoco di elementi che non si limitino a promuovere l’aderenza corretta a un modello. E quali sono questi elementi? Ed è possibile misurarli?

Shulman, un supervisore molto conosciuto, nella sua giornata pre-congresso ha molto spinto sull’articolare la supervisione in psicoterapia in 4 punti:

  • fase preliminare,
  • fase iniziale della relazione di supervisione,
  • parte centrale
  • conclusione.

Quello che è interessante dal mio punto di vista di direttore di una scuola di psicoterapia è che per ognuna di queste fasi è possibile prevedere delle difficoltà negli allievi. Ad esempio, nella fase preliminare, fase importante per l’affiatamento (attunement) iniziale, si va a vedere se ci sono, in un gruppo di psicoterapeuti in formazione, alcune persone che non sono affatto pronte e mettersi in discussione e a mettere in discussione il proprio problema. Queste persone vanno aiutate ad accettare una posizione supervisionabile. Questo stadio ricalca la posizione di pre-contemplazione nello schema di Prochaska e Diclemente.

Come sappiamo, la ricerca di Prochaska e Diclemente ci ha dimostrato che non è affatto vero che un paziente sia arrivato davanti ad un clinico davvero intenzionato a iniziare la psicoterapia. Lo dimostrarono soprattutto per i pazienti tossicodipendenti, ma il loro modello può essere applicato anche ad altre popolazioni cliniche. Dobbiamo chiederci se questo schema non sia applicabile anche alle supervisioni in psicoterapia.

Nelle supervisioni con i nostri allievi terapeuti, quanto siamo capaci di aiutarli ad assumere la posizione emotiva e ricettiva nella quale è possibile mettersi in discussione, ad esempio sulle proprie barriere nei confronti del paziente? Quanto siamo consapevoli delle loro emozioni, delle loro credenze quando lavoriamo insieme sulla supervisione clinica? Ho in mente alcuni esempi di allievi che hanno attraversato la nostra scuola, nonostante tutti gli sforzi profusi, mettendosi pochissimo in discussione, e nascondendosi quando possibile dietro alle proprie difficoltà personali, mai veramente esplicitate.

 

Contenuto e processo nella supervisione in psicoterapia

Nella conferenza era molto esplicita la distinzione nella tra contenuto e processo supervisione. La parte della supervisione focalizzata sul contenuto (come funziona questo paziente, che problemi ha?) attiene ad aderenza, competenza e osservanza delle regole di una certa teoria clinica, mentre la supervisione focalizzata al processo si occupa dei fattori aspecifici, della relazione tra supervisee e suo paziente (come sto con lui, cosa sto facendo con lui di buono o problematico? Perché sto portando il caso e chiedendo aiuto? Qual è il disagio che ho avuto nelle ultime sedute?) e su come il supervisionato sa rapportarsi con il supervisore (quanto accetto di essere messo in discussione? Quanto accetto che il mio supervisore mi suggerisca che quell’atto clinico, quelle emozioni con un certo paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare, come sto in una relazione in cui qualcuno che fa da educatore, fa le pulci al mio operato? Che emozioni ho?).

Come si vede il processo non è solo a un livello (tra supervisee e paziente) ma a due livelli (tra supervisee e suo supervisore). Questi livelli richiedono la capacità di stanare il terapista in supervisione anche a partire da segnali impliciti o emotivi. Ad esempio, come il supervisee ti guarda o non ti guarda in modo diretto, come diventa vago, distoglie l’attenzione o parla d’altro. Oppure come riconoscere in lui una emozione che sta cercando di nascondere.

Queste capacità, lo confesso, sembrano capacità cliniche che il supervisore della psicoterapia è costretto a usare senza un contratto clinico. Il campo è veramente complesso. Per mia esperienza, a meno che non mi trovi davanti ad allievi alle prime armi, la richiesta di supervisione ha in sè problemi di tipo relazionale con il paziente, e questa è un’area transteorica.

 

La supervisione clinica nella SPR

Un altro ambiente che da grande importanza a questi temi è la SPR (Society for Psychotherapy Research). Anche questa società ha appena celebrato il suo congresso internazionale (a Copenaghen, 25-28 giugno 2014). Tanto per non farmi mancare nulla sono andata anche a questo congresso e di nuovo, nei simposi che ho seguito attinenti alla supervisione clinica, molta attenzione era concentrata sugli aspetti relazionali e emotivi del supervisore e del supervisee.

Poi ci sono altri problemi attinenti al ruolo, al riconoscimento del ruolo del supervisore verso i supervisionati. Un conto è una supervisione che un didatta fa a un suo allievo in una scuola di terapia, altro è l’arrivo di un supervisore esterno, per qualche incontro che è proposto e talvolta imposto da un ambiente esterno.

Recentemente mi è capitato di fare una supervisione clinica in un contesto in cui ero estranea, ed è stato abbastanza difficile all’inizio trovare un mio ruolo e delle regole condivise. Non dimentichiamoci che la supervisione in psicoterapia, se non è ben organizzata, se le regole non sono chiare, rischia di essere compiuta al buio, senza avere una idea chiara delle variabili complesse che vi sono in gioco: istituzionali, sociali, psicopatologiche e mediche.

 

Contratto di supervisione in psicoterapia e modalità di lavoro

Un altro punto importante che emerge in molte discussioni del congresso e che a me è parso molto interessante è la necessità che vi sia un esplicito contratto di supervisione tra supervisore e supervisionato. Nel contratto ci si accorda su cosa ci si aspetta uno dall’altro, le cose che si è disposti a fare insieme, si stabiliscono formalmente modi e regole degli incontri. La formalizzazione estrema del processo di supervisione psicoterapica è un bene e protegge il supervisore, il supervisee e il paziente.

Ad esempio è considerato non corretto fare supervisione senza registrazione audio delle sedute. Anzi la supervisione così come emerge nei video che sono stati proiettati al congresso è molto mirata all’incontro tra supervisee e supervisore, ascoltando la seduta e vedendo quali emozioni e quali movimenti emotivi emergono durante quell’incontro. Troppe volte noi siamo costretti a fare supervisioni dei racconti indiretti dei nostri allievi, racconti che rischiano di portare un bias nella lettura e che rende il quadro difficilmente interpretabile.

Insomma negli States la supervisione è un lungo e formalizzato processo di apprendimento, focalizzato sugli aspetti di processo. Se poi un supervisore clinico incontra un problema di contenuto, può riferirsi alla sua specifica formazione psicoterapeutica, ma condivide soprattutto un’attenzione sulla relazione nella supervisione. Insomma l’aderenza a un modello terapeutico è un aspetto collaterale della sensibilità ai processi.

Tutto questo ha stimolato la mia curiosità. D’altro canto non posso non vedere i limiti di questo modo di ragionare, il suo scarso interesse per la ricerca. Insomma un mondo nuovo, scientificamente tutto da costruire, ma pieno di stimoli per chi come me, si occupa di una scuola di psicoterapia.

 

STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA SUPERVISIONE IN PSICOTERAPIA:

La violenza familiare lascia delle impronte genetiche nei bambini

 

FLASH NEWS

I ricercatori hanno scoperto come i bambini che vivono in famiglie caratterizzate da violenza, suicidio o carcerazione di un loro membro, avrebbero dei telomeri significativamente più corti.

E’ quanto riscontrato da uno studio effettuato presso la Tulane University School of Medicine di New Orleans, Louisiana, e pubblicato nell’ultimo numero della rivista Pediatrics. I risultati ottenuti avrebbero permesso di individuare delle cicatrici, non soltanto nella psiche dei bambini esposti ad ambienti familiari violenti o traumatici, ma anche nel loro DNA.

I ricercatori hanno scoperto come i bambini che vivono in famiglie caratterizzate da violenza, suicidio o carcerazione di un loro membro, avrebbero dei telomeri significativamente più corti.

Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Il telomero è la regione terminale del cromosoma e possiede un ruolo determinante nell’evitare la perdita di informazioni durante la duplicazione.

Diversi studi hanno dimostrato come il progressivo accorciamento dei telomeri ad ogni ciclo replicativo sia associato all’invecchiamento cellulare, facendo di questi un importante marker cellulare della fase di senescenza.
 
Telomeri corti sono correlati ad un maggior rischio di sviluppare problemi cardiaci, obesità, declino cognitivo, diabete e disturbi mentali in età adulta.
 
Evidenti, quindi, le implicazioni dei risultati ottenuti dal gruppo di ricerca della Tulane University e le conseguenze per la salute dei bambini esposti ad ambienti stressanti.
 

Ma vediamo come sono state raggiunte tali conclusioni: i ricercatori hanno prelevato campioni di materiale genetico da 80 bambini di età compresa tra i 5 e i 15 anni e hanno intervistato i loro genitori circa l’ambiente familiare e l’eventuale esposizione ad eventi di vita avversi.
 
“Alti livelli di stress familiare, come ad esempio assistere a un incidente occorso ad un membro della propria famiglia, creano un ambiente che influenza il DNA cellulare dei bambini”, afferma la Dott.ssa Stacy Drury, direttrice del  Behavioral and Neurodevelopmental Genetics Laboratory della Tulane. “Maggiore è il numero di esposizioni che questi bambini hanno nel corso della vita, minore sarà la lunghezza dei loro telomeri”.
 
Il gruppo di ricerca ha tenuto sotto controllo altri fattori, quali lo status socioeconomico, il livello di istruzione materna e l’età dei genitori e dei bambini. Dall’analisi dei dati raccolti è emerso un ulteriore dato particolarmente interessante: il genere dei soggetti regolerebbe l’impatto dell’instabilità familiare su di essi.
 
Gli eventi traumatici familiari sarebbero, infatti, più deleteri per le femmine, le quali avrebbero così dei telomeri più corti. Per i maschi, invece, sarebbe stato individuato un importante fattore protettivo caratterizzato da un elevato livello di istruzione della figura materna, ma soltanto per i bambini sotto i 10 anni di età.
 
In conclusione, tale studio suggerisce come l’ambiente domestico sia un importante target di intervento per ridurre l’impatto biologico degli eventi di vita avversi sui bambini e poter così favorire un migliore stato di salute generale quando diventeranno adulti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli interventi basati sulla mindfulness (2011) di Alberto Chiesa – Recensione

 

 

Un lavoro molto interessante quello del collega Alberto Chiesa. Come ormai molti sostengono, la Mindfulness sta vivendo in questo periodo un momento di forte “ambivalenza” dovuto alla larga diffusione e alle molte banalizzazioni di cui é stata vittima.

LEGGI IL PRIMO CAPITOLO

Spesso le radici epistemologiche, teoriche e filosofiche da cui deriva vengono perse, lasciando spazio a “PNLizzazioni”, per usare un termine usato da Fabio Giommi della Mindfulness. È di dovere ricordare sempre che la Mindfulness non é una “buona tecnica” e nemmeno una “buona idea”, bensì una pratica di meditazione che ha radici molto antiche e che da circa trent’anni é stata proposta come base di alcuni interventi all’interno di un contesto più clinico.

Questa breve premessa solo per sottolineare che il volume che ho tra le mani potrebbe essere inteso come un ottimo “vademecum” scientifico e documentato di cosa é e non é la pratica di Mindfulness. Leggendo nella quarta di copertina, il volume di Chiesa si pone diversi obiettivi. Senza togliere la possibilità al lettore di apprendere il discorso leggendo il volume, cercherò di discutere alcune delle domande esplicitate (e altre che emergono intuitivamente dalla lettura) di questo lavoro molto interessante.

La prima domanda a cui si risponde nel volume é: per quali pazienti gli interventi basati sulla mindfulness hanno dimostrato di essere efficaci?

Lasciando la risposta al volume, credo che questa sia una prima domanda molto importante. In ciò, trovo che la diffusione della Mindfulness di cui accennavo prima, che ha dato alla pratica di Mindfulness la copertina del Time di febbraio, non abbia contributo a far comprendere la pratica di Mindfulness per quella che è: non una tecnica da usare come se fosse l’aspirina del nuovo millennio bensì una pratica che richiede impegno, “allenamento” e costanza … Unita a un buona quota di pazienza. Capire pertanto cosa aspettarsi dalla Mindfulness e chi potrebbe beneficiarne é un argomento di grande interesse, credo non solo clinico, ma anche culturale.

Una seconda domanda, se vogliamo, più “da addetti ai lavori” é la seguente: quando si può proporre a un paziente l’affiancamento di terapie “convenzionali” farmacologiche o psicologiche con le pratiche di mindfulness? Rispondere a questa domanda permette a noi clinici di proporre ai nostri pazienti/clienti un percorso di Mindfulness in un momento “adatto e adeguato” rispetto all’eventuale percorso psicoterapeutico in atto.

Altra questione di grande importanza, a cui Alberto Chiesa, a mio parere, risponde in modo molto chiaro e completo é: come si può descrivere a un paziente la mindfulness in parole semplici, essendo al tempo stesso consapevoli della ricchezza e della profondità che sta dietro questo termine? Chi ha esperienza di pratica di Mindfulness (o più in generale di pratica di consapevolezza) coglie subito in questa domanda potenziali e rischi. Rischi di rimanere imbrigliati in una spiegazione concettuale (mediata dal linguaggio) di una esperienza non semplicemente descrivibile a parole, bensì grazie e con la pratica personale, e quindi l’esperienza stessa di pratica, e dall’altra parte la possibilità di introdurre le persone a un percorso che potrebbe davvero proporre un cambio radicale del proprio stile di vita e di atteggiamento verso la propria sofferenza.

Spesso chi conduce gruppi di pratica di Mindfulness si limita (a ragione) a utilizzare la definizione di Mindfulness data da Jon Kabat Zinn e lascia che il senso di questa definizione si amplifichi e si chiarisca tramite l’esperienza stessa di pratica Mindfulness.

Una quarta domanda a cui l’autore cerca di dare risposta é: come si possono incarnare le qualità che la pratica di mindfulness propone?

La risposta, che qualsiasi persona con esperienza di pratica non può che confermare, é una: la pratica personale. Una delle qualità del volume di Chiesa sia proprio questo: unitamente agli aspetti “concettuali” molto ben documentati, un continuo rimando a come lo professionista che vuole proporre interventi basati sulla Mindfulness debba necessariamente essere a sua volta praticante. Soltanto in questo modo, gli aspetti “analitici, razionali, concettuali e di comprensione” (diciamo banalmente “da emisfero destro”) possono essere trasmessi all’altra persona insieme agli aspetti “esperienziali, sensoriali, percettivi e emotivi” (diciamo banalmente “da emisfero destro”).

L’intero volume di Alberto Chiesa riflette, a mio parere, ciò che sta attraversando il mondo scientifico nella fattispecie quello che si occupa di studiare con gli strumenti della ricerca scientifica la pratica di Mindfulness. Da un lato la “semplicità e la categorizzazione” che giustamente la ricerca scientifica richiede é dall’altro la “complessità e le qualità emergenti” tipiche della pratica di Mindfulness, che ricordo, prima di essere stata un intervento psicoterapeutico (circa 30 anni di vita) é stata, ed é tuttora, una pratica di meditazione (circa 2500 anni di vita).

Il volume, molto chiaro e documentato, si conclude con lo sviluppo e la discussione di altri due importanti aspetti legati alla Mindfulness. Il primo riguarda l’utilizzo della pratica di Mindfulness all’interno del colloquio clinico terapeutico e il secondo prende in considerazione gli aspetti correlati ai meccanismi psicologici e neurobiologici che sottendono i benefici clinici associati alla pratica della mindfulness.

Un ulteriore aspetto apprezzabile del volume sono i “box di riassunto” a fine di ogni capitolo, che ne permette una lettura a più livelli (ad esempio di consultazione “al bisogno”).

L’impressione che ho leggendo con attenzione e curiosità il libro di Alberto Chiesa é che in questo volume il tentativo di unire i due aspetti, non banalizzandone alcuno, sia riuscito, con un (forse inevitabile) viraggio occasionale e discontinuo sugli aspetti scientifici e di ricerca.

Quest’ultimo aspetto credo che sia un valore del libro e non un limite. Forse può mandare un messaggio chiaro e netto a chi é “curioso della Mindfulness” perché, diciamocelo, é cool.  

 

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BIBLIOGRAFIA:

Report: Master in Psicoterapia per i Disturbi alimentari – Firenze

 Lisa Barbieri

 

Report dal Master

Psicoterapia dei Disturbi Alimentari – Firenze

 

 GUARDA L’EVENTO

Il tema del master è incentrato sulla comprensione, sulla diagnosi e sul trattamento dei disturbi alimentari attraverso una modalità ricca nella pratica, innovativa e interattiva grazie all’utilizzo di esempi clinici, simulate e registrazioni audiovisive.

Il giorno 8 Giugno si è concluso, in un clima di generale soddisfazione, il Master in psicoterapia per i Disturbi alimentari tenuto dalla Scuola Cognitiva di Firenze.

I Disturbi alimentari (DA) rappresentano una grave entità psicopatologica dovuta alla difficoltà nel trattamento, alla cronicizzazione del disturbo e all’elevata mortalità, e rappresentano la terza malattia cronica più comune in adolescenza dopo l’obesità e l’asma.

I DA si dividono in sottocategorie tra cui AN, BN, BED (nel DSM V) e EDNOS suggerendo che siano tra loro distinte, in realtà presentano caratteristiche comuni tanto che Christopher Fairburn ha proposto che tali disturbi siano considerati come un’unica categoria e che quindi ci sia una specifica terapia, focalizzata sulla psicopatologia dei DA: la Terapia Cognitivo Comportamentale Transdiagnostica che ha rappresentato il trattamento di elezione, efficace ed empiricamente supportato per la cura dei DA.

Negli ultimi venti anni però sono stati sperimentati nuovi approcci che stanno influenzando in modo profondo il modello standard, al punto da far spostare l’attenzione della comunità clinica e scientifica internazionale verso alcuni degli approcci terapeutici Cognitivo Comportamentali che sono stati definiti di “terza ondata” (Hayes, Luoma, Bond, Masuda e Lillis, 2006) e che stanno sempre più influenzando anche l’intervento sui DA.

Questi nuovi approcci si occupano di quei fattori che portano alla ripetitività del pensiero e a una cattiva gestione delle strategie di coping. Esempi di interventi di CBT di terza generazione sono: l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT, Hayes, 1999), la Dialectical Behavior Therapy (DBT; Linehan, 1993), la Functional Analytic Psychoterapy (FAP, Kohlenberg & Tsai, 1991), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT; Segal, Williams, & Teasdale, 2001), Terapia Metacognitiva Interpersonale (Di Maggio & Popolo) e gli approcci meta-cognitivi (Wells, 2000).

Il Master si è svolto a Firenze nei finesettimana del 23, 24 e 25 Maggio e 7 e 8 Giugno e ha visto il succedersi di relatori appartenenti alla Scuola Cognitiva di Firenze e all’Azienda USL 11 di Empoli (FI): Stefano Lucarelli, Gloria Vazzano, Giovanni Castellini, Paolo Dirindelli; e relatori appartenenti al panorama internazionale come Janet Treasure e Kate Tchanturia.

Il tema del master è incentrato sulla comprensione, sulla diagnosi e sul trattamento dei disturbi alimentari attraverso una modalità ricca nella pratica, innovativa e interattiva grazie all’utilizzo di esempi clinici, simulate e registrazioni audiovisive.

Con una particolare attenzione alle ultime ricerche per il trattamento delle diverse categorie di DA in tutte le fasi della vita: dall’infanzia, all’adolescenza fino all’età adulta. Prezioso l’intervento sul modello di presa in carico della famiglia di pazienti con DA messo a punto dal Maudsley Hospital di Londra.

Il Dr. Stefano Lucarelli, psichiatra, psicoterapeuta presso il Servizio per la cura e il trattamento dei Disturbi dell’ Alimentazione dell’Azienda USL 11 di Empoli, Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale (SITCC), ha aperto i lavori facendo un quadro generale sulla diagnosi, epidemiologia e comorbilità dei vari disturbi alimentari soffermandosi sulla valutazione psichiatrica dei pazienti e sull’intervento sulla motivazione garantendone un’adeguata comprensione anche grazie all’utilizzo di videoregistrazioni.

Il giorno successivo ha passato il testimone alla Dr.ssa Gloria Vazzano, psicologa, psicoterapeuta presso il Servizio per la cura e il trattamento dei Disturbi dell’ Alimentazione dell’Azienda USL 11 di Empoli, Socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), che si è orientata maggiormente sul modello transdiagnostico per il trattamento dei DA e successivamente sul trattamento centrato sul rimuginio e il controllo (TRC-DA) e sulle procedure di intervento sulle credenze centrali di questi disturbi.

Ha concluso il finesettimana il Dr. Giovanni Castellini, psichiatra e psicoterapeuta. La giornata ha previsto la presentazione della categoria diagnostica del BED e un confronto con i nuovi criteri diagnostici del DSM V che riconosce il BED come categoria a sé stante, per poi passare all’epidemiologia e alla psicopatologia del disturbo grazie all’apporto degli ultimi articoli presenti in letteratura.

La giornata si conclude con una panoramica sul trattamento del BED e con una valutazione dei pro e contro di ogni intervento.

Un notevole e aspettato interesse ha suscitato la presenza e la partecipazione delle Dr.sse Janet Treasure e Kate Tchanturia che hanno aperto i lavori del secondo weekend del master.

Janet Treasure, Director of Eating Disorder Unit, South London and Professor of Psychiatry at King’s College London, ha presentato il modello del Maudsley Hospital che evidenzia l’importanza dei familiari come fonte di aiuto per pazienti con DA e identifica come molti comportamenti dei familiari rappresentano i fattori di mantenimento del disturbo: attraverso l’uso di metafore animali vengono identificati gli stili di reazione dei caregiver al DA e come questi impattano sul percorso di cura.

Il modello infatti prevede un coinvolgimento attivo dei familiari di tali pazienti affinchè possano diventare consapevoli ed eliminare questi meccanismi di mantenimento del disturbo e sostenere il paziente nel processo di cura.

 

É stata poi la volta della dr.ssa Kate Tchanturia, Consultant Clinical Psychologist and Senior Lecturer, South London and Maudsley Hospital, Istitute of Psychiatry, King’s College London; che con una modalità interattiva che ha coinvolto tutto il pubblico, ha presentato il protocollo CRT- Cognitive Remediation Therapy, secondo cui i disturbi cognitivi dell’Anoressia Nervosa non vanno affrontati a livello di contenuti, come il perfezionismo, il controllo, la paura di ingrassare, ecc.. ma a livello di processi aiutando la paziente a ragionare in modo più globale e flessibile attraverso un vero e proprio allenamento cognitivo.

Giunti ormai all’ultima giornata del master che ha avuto come protagonisti della mattina il Dr. Stefano Lucarelli e la Dr.ssa Gloria Vazzano, i quali hanno parlato della terza ondata della Terapia Cognitivo Comportamentale in cui il focus dell’intervento si sposta sui processi cognitivi abbandonando l’analisi delle prove e delle controprove dei contenuti cognitivi.

Tra questi nuovi approcci l’attenzione si è poi focalizzata sul modello della DBT di Marsha Linehan adattato ai disturbi alimentari secondo cui il nucleo della problematica di tali pazienti consiste nella regolazione disfunzionale delle loro emozioni che li porta a ricorrere a mezzi disfunzionali come le abbuffate per gestire le emozioni.

Nel pomeriggio ha concluso l’evento il Dr. Paolo Dirindelli, neuropsichiatra infantile, dirigente medico presso Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda USL 11 di Empoli, che ha portato la propria esperienza sui DA in infanzia e adolescenza, dalla diagnosi alla presa in carico del paziente e della famiglia e conseguente trattamento attraverso la presentazione di casi clinici.

In conseguenza dei feedback positivi ricevuti e dell’ottimismo dei relatori e organizzatori che ne hanno reso possibile la realizzazione, il pensiero va all’organizzazione futura di una nuova edizione del master.

 

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Inquinamento atmosferico & rischio di autismo e schizofrenia

 

FLASH NEWS

L’esposizione all’inquinamento atmosferico durante le prime fasi di vita produce veri e propri mutamenti nel cervello dei topi che possono causare disturbi nello sviluppo neurologico e l’ingrandimento di un’area cerebrale che negli esseri umani è implicata nei casi di autismo e schizofrenia.

La maggior parte dell’inquinamento atmosferico è causato da particelle di carbonio prodotte dalla combustione dei carburanti (industrie, autoveicoli, ecc.) ma le particelle non sono tutte uguali, hanno diverse dimensioni e particelle di dimensioni diverse hanno effetti diversi sull’organismo.

Un nuovo studio del Dipartimento di Medicina Ambientale e Genetica Biomedica dell’Università di Rochester (USA) descrive come l’esposizione all’inquinamento atmosferico durante le prime fasi di vita produca veri e propri mutamenti nel cervello dei topi che possono causare disturbi nello sviluppo neurologico e l’ingrandimento di un’area cerebrale che negli esseri umani è implicata nei casi di autismo e schizofrenia.

Per la ricerca sono stati scelti topolini, sia maschi che femmine, appena nati, poiché le prime settimane di vita sono cruciali per lo sviluppo cerebrale. I topi sono stati esposti per 4 ore al giorno, per un periodo di 2-4 giorni, a livelli di inquinamento simili a quelli che si possono rilevare nelle città statunitensi di media grandezza all’ora di punta.

I topolini sono stati esaminati dopo 1, 40 e 270 giorni dall’ultima esposizione. Il loro cervello presentava una evidente infiammazione e un’alterazione cellulare, in più in tutte le rilevazioni il problema perdurava indicando che il danno cerebrale era permanente e irreversibile.

I ricercatori sono quindi arrivati alla conclusione che un’alta concentrazione ambientale di particelle ultrafini (CAPS) influenza negativamente lo sviluppo del sistema nervoso centrale con alterazioni nelle citochine e nei neurotrasmettitori.

In più, nei topi maschi, si è riscontrata una ventricolomegalia (dilatazione del ventricolo laterale) neuropatologica associata proprio a un ridotto sviluppo neurologico, all’autismo e alla schizofrenia.

I risultati sono coerenti con diversi recenti studi che collegano l’esposizione a inquinamento con effetti neurologici e comportamentali negativi (aumento del rischio di autismo, declino cognitivo, attacco ischemico, schizofrenia e depressione), sia nei bambini che negli adulti.

Questo studio, oltre a confermare il legame, spiega anche il meccanismo sottostante.

Attualmente l’Agenzia di Protezione Ambientale (EPA) regola l’emissione di grandi particelle, tuttavia queste sono le meno dannose poiché vengono espulse tossendo. Le particelle ultrafini, invece, sono molto più pericolose perché sono abbastanza piccole da poter penetrare attraverso i polmoni ed essere assorbite dal flusso sanguigno producendo così effetti tossici in tutto l’organismo.

Studi come questo sono dunque importanti non soltanto per conoscere meglio le neuropatologie ma anche e soprattutto per regolare gli attuali standard e garantire la qualità dell’aria in un’ottica preventiva.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Anna Maria Sorrentino

Psicologa e Psicoterapeuta

 

State of Mind intervista Anna Maria Sorrentino, psicologa e psicoterapeuta. Fondatrice e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale Mara Selvini Palazzoli.
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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REBT: Report dal Primary Practicum di Milano 2014

 

Elena Tugnoli

Il 7, 8 e 9 giugno 2014 è sbarcato in Italia il corso di terapia razionale emotiva comportamentale di Albert Ellis, il “Primary REBT Praticum” originale eseguito secondo il regolamento dell’Albert Ellis Institute (AEI) di New York.

Il corso è stato tenuto da supervisori REBT certificati, i maggiori esponenti dell’istituto di New York, Kristine Doyle (direttore clinico dell’AEI), Raymond Di Giuseppe (direttore scientifico dell’AEI), e Ennio Ammendola, supervisore REBT.

Il corso prevedeva lezioni teoriche al mattino, concentrate sui fondamenti della REBT e tenute da Kristine Doyle o da Ray Di Giuseppe, e gruppi di esercitazione tra pari supervisionati anche da Ennio Ammendola nel pomeriggio.

Per me che già l’avevo seguito a New York non è stata una novità dopo avere già affrontato i successivi due livelli della formazione REBT (advanced e fellowship) e molte, moltissime, supervisioni. Eppure ho trovato ancora cose da imparare e ho potuto chiarire aspetti oscuri. La parte più interessante del corso sono state le piccole sfumature stilistiche e la flessibilità che questo tipo di terapia offre! Nell’individuazione dell’ABC bisogna essere dei veri investigatori al limite della pignoleria, eppure al tempo stesso occorre imparare a non disperdersi in troppe domande.

Mi chiedo: quali sono i punti fermi della REBT e quali invece sono le aree più personalizzabili?

La parte più rigida è la prima sezione, l’individuazione del problema. Nelle descrizioni di Doyle e DiGiuseppe sembra facile. In terapia non è così, ed è facile sottovalutare il problema e scadere nella vaghezza.

Gli Americani sconsigliano una apertura della seduta generica e raccomandano l’individuazione di una situazione problematica specifica per poter lavorare su qualcosa di concreto, il cosiddetto “A critico”. Questa è una delle sfumature da non perdere! Non è sufficiente la situazione ma ci serve l’A critico! Per essere in grado di centrare l’A critico, è importante chiedere un esempio recente di quando il paziente si è sentito a disagio o ha percepito quel fastidio.

La stessa attenzione va dedicata all’indagine scrupolosa dell’emozione. Ci si deve accertare che l’emozione sia chiara e definita, che all’interno di essa non ci siano altre emozioni e che sia disfunzionale (unhealthy), ovvero paralizzante e non volta alla soluzione del problema. Qui si può inserire uno spiraglio di flessibilità, indagare a piacimento, utilizzando scale per misurare l’intensità o chiedere a livello corporeo dove sente quell’emozione.

Si passa poi ai B (beliefs), ai pensieri, e soprattutto agli IB (irrational beliefs), i pensieri disfunzionali. È rimarcata l’importanza di non fermarsi ai soli pensieri negativi del paziente ma andare alla ricerca dei veri B irrazionali attraverso la catena di inferenze, continuando a chiedere “e qual è il problema in questo che ha pensato? Cosa non le piace in questo che ha pensato?” In questo gli allievi italiani si sono dimostrati eccellenti.

Un punto -rigido ma necessario perché penso sia la vera base della terapia- è mostrare l’ABC completo al paziente e al fine di concordare come non sia l’A ma il B a suscitare il C: ovvero non è la situazione che causa il malessere, ma il pensiero. Senza questo passaggio il cliente non ci seguirebbe più e non potremmo proseguire.

Altro punto focale della terapia è concordare l’obiettivo, e in particolare l’obiettivo emotivo. Quale emozione vorresti provare?

Ovvio che l’obiettivo non è di cambiare emozione ma di passare da una versione disfunzionale a una funzionale dello stato emotivo. Questo punto è quello teoricamente più discutibile ma utile nella pratica terapeutica. Si tratta di concordare con il cliente che lo stato d’ansia non va eliminato, ma può essere vissuto in termini più tollerabili e funzionali, chiamando la versione funzionale con un termine diverso. Ad esempio preoccupazione.

La parte più flessibile della terapia risulta essere quella del cosiddetto disputing. Una volta trovati i B irrazionali, che fanno parte di una delle quattro categorie: Doverizzazione o Pretese, Valutazione Globale (Di Sé, Del Mondo e/o Degli Altri), Catastrofizzazione e Intolleranza alla Frustrazione, decideremo come fare il disputing.

Per alcuni, ad esempio Windy Dryden, si parte sempre prima dalla Doverizzazione per poi affrontare le altre categorie; per altri terapeuti REBT invece le categorie sono tutte allo stesso livello e quindi possiamo disputare anche senza la presenza di una doverizzazione.

Il disputing si basa sull’esame della coerenza logica, del valore euristico/funzionale (pragmatico), e delle prove empiriche dei pensieri che sono alla base della sofferenza. E qua sta al terapeuta incoraggiare il cliente a mettere in discussione i suoi IB. Si possono utilizzare delle metafore. Kristine Doyle ci ha illustrato la metafora della mela: su un vassoio ci sono mele buone e succose e ce ne sono un paio marce, diresti mai che il vassoio ha solo mele marce? Utilizzando questa metafora mostriamo al cliente come il suo pensiero sia focalizzato sugli aspetti negativi.

Con prudenza possiamo usare perfino l’ironia, mai contro il cliente ma talvolta contro i suoi pensieri più negativi. Possiamo anche proporre soluzioni pratiche, di fronte alla necessità di provare nell’esperienza la possibilità di pensarla diversamente. Alcuni clienti rigidi e restii a cambiare sostengono che capiscono ma che non riescono a mettere in atto le nuove idee più funzionali. In questo caso due sono le strade possibili. Proporre di sperimentare personalmente la possibilità di poter tollerare le emozioni tanto temute; oppure proporre una soluzione pratica e cosiddetta “inelegante” modificando la situazione esterna, ad esempio incrementando l’assertività.

A fine seduta il terapeuta consegna i compiti a casa che hanno l’obiettivo di rinforzare i B razionali. Si possono dare compiti mirati a incrementare le auto-istruzioni, a partire da semplici post-it per arrivare a registrazioni di memo vocali da risentire.

A questo proposito Doyle e DiGiuseppe ci hanno proposto fin dall’inizio lo shame attack, l’esercizio anti-vergogna che è un “must” nel loro centro e della terapia. Questo esercizio consiste nel fare un’esposizione imbarazzante in pubblico e “stare nella vergogna”. Ci si può sbizzarrire e provare ad urlare in metropolitana, ballare al ristorante o perfino mettersi in mutande in piazza…a proprio rischio e pericolo!

Il Primary Training permette di imparare le tecniche REBT e fornisce al terapeuta una struttura di base al tempo stesso chiara e adattabile al proprio stile personale e alla propria creatività.

 

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La distorsione dell’ Immagine Corporea: quando ciò che vedo non coincide con ciò che sono

Reportage dall’evento  Body Image Modular Therapy – Training di Primo Livello – Immagine Corporea

 

Il nostro corpo riflesso allo specchio non è solo tout court la rappresentazione di un’immagine, bensì un processo molto più complesso.

La propria immagine corporea e la sua rappresentazione sono il risultato dell’unione e della mediazione di diversi aspetti: la percezione e la stima delle dimensioni del proprio corpo, aspetti affettivi e cognitivi che comprendono sentimenti e preoccupazioni legati al nostro corpo e per ultimo anche aspetti comportamentali.

Paul Schilder (1935) fu colui che coniò il concetto di Immagine corporea definendola come

Quel quadro del nostro corpo che formiamo nella nostra mente

e come ogni quadro, nel guardarlo, possiamo provare emozioni, possono emergere ricordi e sensazioni.

Da qui la rappresentazione mentale diviene un processo di integrazione e mediazione fra percezioni, cognizioni ed emozioni che possono influire sulla nostra autostima (Posavac & Posavac, 2002).

Ma come si origina l’immagine del nostro corpo? Quando siamo neonati la percezione che abbiamo del nostro corpo è rappresentata principalmente dalla propriocezione ossia dal sentire il proprio corpo attraverso la contrazione dei muscoli, o dalla sensibilità viscerale oppure dal senso di equilibrio. Il tutto avviene anche senza l’ausilio della vista. Il bambino inizialmente non fa distinzione fra se ed il mondo che lo circonda, questo è un lungo processo che avviene a tappe e che comprende non solo la distinzione fra se ed il mondo esterno ma anche l’integrazione delle parti del proprio corpo in un’unica unità.

A partire dai tre anni di vita il bambino inizia a riconoscere la propria immagine riflessa allo specchio e due anni più tardi capisce che anche le altre persone hanno un corpo simile al suo.

Man mano che si avvicina il periodo dell’adolescenza il corpo va incontro a diversi cambiamenti ed è da qui che molto spesso iniziano le difficoltà nel riconoscersi, per esempio uno sviluppo anticipato rispetto a quello dei coetanei può far si che si diventi fonte di sguardi ed attenzione che non sempre, specie le ragazze, vivono serenamente.

La creazione dell’immagine corporea può infatti risentire di fattori sociali ma anche di fattori interni.

 

L’ambiente in cui stiamo crescendo, l’interazione con i nostri coetanei e anche con i nostri genitori possono condizionare il nostro sviluppo. Si è maggiormente sensibili al giudizio altrui, e si va creando in questo periodo un’ideale del proprio corpo che risente dell’influenza dei mass media ma anche dei confronti con i propri pari. Vi è un continuo paragone fra quello che è il proprio corpo e il corpo ideale, e a seconda della maggiore o minore vulnerabilità al giudizio si andrà formando un’idea di sé più o meno coerente che potrà portare con se maggiore o minore sofferenza.

Il corpo in adolescenza è soggetto a continui e rapidi cambiamenti, l’aumento di peso, lo svilupparsi delle forme, l’acne sono tutte manifestazioni spesso momentanee che possono contribuire ad una maggiore difficoltà nell’accettazione della propria forma fisica. Va da sé che in questa situazione una maggiore vulnerabilità dal punto di vista emotivo e psicologico può far si che si provi un maggiore disagio.

L’immagine e la rappresentazione che l’adolescente si fa della propria fisicità è una complessa strutturazione che risente di fattori sociali ma anche psicologici ed emotivi.

Riportiamo nuovamente le parole di Schilder (1935):

Un’immagine corporea è sempre in qualche misura la somma delle immagini corporee della società… e muta a seconda di colui col quale ci articoliamo

L’insoddisfazione nei confronti della propria forma fisica è assai diffusa sia fra il sesso femminile che fra il sesso maschile, in alcuni casi può però portare alti livelli di sofferenza che possono interferire con la vita dell’individuo.

Le preoccupazioni possono farsi talmente pressanti da portare il soggetto ad effettuare continui Body Checking ossia comportamenti di controllo che vanno dal guardarsi allo specchio molte volte durante la giornata, pesarsi più e più volte al giorno, verificare la perdita di peso e la propria taglia indossando abiti attillati, misurare la circonferenza di cosce, fianchi ed addome, chieder continue rassicurazioni sul proprio aspetto. La persona può impiegare diverse ore per prepararsi prima di uscire, ed evitare di farlo qualora non si fosse raggiunto l’aspetto desiderato.

Coloro che hanno di sé una rappresentazione negativa dedicano molte ore della loro giornata al proprio aspetto fisico e maggiore è l’insoddisfazione maggiore è il tempo impiegato nel controllare e cercare di rimediare ai difetti percepiti.

Per queste persone autostima e aspetto esteriore rappresentano due unità direttamente proporzionali che spesso risultano accompagnate da ansia depressione e forte autosvalutazione.

Un’ immagine corporea negativa implica una forte insoddisfazione per alcuni aspetti del proprio corpo (Cash, 2002) ed è riscontrabile in buona parte dei disturbi del comportamento alimentare oltre che nel disturbo del dismorfismo corporeo (o dismorfofobia). I disturbi legati all’immagine corporea portano con se sintomi specifici: dai comportamenti ripetitivi di evitamento e/o controllo, a pensieri di tipo rimuginativo, alle distorsioni percettive nonchè uno scarso insight della problematica.

La Body Image Modular Therapy rappresenta un tipo di approccio integrativo e specifico per problematiche legate ai disturbi dell’Immagine Corporea, che consente all’individuo di affrontare in maniera mirata ed efficace questa specifica sofferenza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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