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Le conseguenze dell’amore: gli effetti positivi dell’essere innamorati

 

FLASH NEWS
I giovani adulti che hanno la fortuna di vivere relazioni sentimentali e romantiche beneficerebbero anche di effetti positivi sulla propria personalità e sul loro modo di vedere situazioni interattive sentimentali ambigue secondo una nuova ricerca tedesca delle Università di Jena e Kassel.

Il coinvolgimento in relazioni sentimentali rappresenta una delle esperienze di vita più rilevanti e più preganti soprattutto nella giovane età.

I giovani adulti che hanno la fortuna di vivere relazioni sentimentali e romantiche avrebbero anche effetti positivi sulla propria personalità e sul loro modo di vedere situazioni interattive sentimentali ambigue secondo una nuova ricerca tedesca delle Università di Jena e Kassel.

Nello studio è stato approfondito il cosiddetto Relationship-Specific Interpretation Bias (RIB) (Finn, Mitte, & Neyer, 2013), in italiano bias di interpretazione specifico delle relazioni – che consiste nella tendenza a interpretare scenari relazionali ambigui in un modo negativo.

Questa l’ipotesi dello studio: il bias RIB diminuirebbe nei giovani adulti coinvolti in relazioni sentimentali soddisfacenti, con un effetto anche sulla riduzione del nevroticismo.

In particolare 245 coppie (di età compresa tra i 18 e i 30 anni) sono state coinvolte nello studio per nove mesi e sottoposti a colloqui ogni tre mesi per un totale di quattro assessment.

I ricercatori hanno misurato la variabile del nevroticismo e della soddisfazione relazionale, e hanno inoltre chiesto ai soggetti di immaginarsi in alcune situazioni della vita quotidiana e di riportare le loro reazioni emotive e comportamentali (misurazione del bias RIB).

Secondo lo studio la tendenza al nevroticismo diminuiva gradualmente nel corso dei nove mesi quando una persona era coinvolta in una relazione sentimentale adeguatamete soddisfacente.

In riferimento al bias interpretativo relazionale, i partner soddisfatti riportavano una maggiore quota di fiducia nell’altro e nella relazione riducendo la probabilità di percepire negativamente alcune situazioni relazionali neutre e quindi di essere meno propenso a cedere al bias di interpretazione relazionale.

Dunque essere soddisfatti in una relazione di coppia porterebbe a vedere il mondo e le relazioni sentimentale con occhiali più rosa rispetto a chi così soddisfatto della propria vita sentimentale non è.

Fenomeno naif già conosciuto nelle nostre esperienze quotidiane, dimostrato ora dal mondo empirico della psicologia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il tesoro di Risolina: una storia sul valore della diversità – Letteratura & Psicologia

 

 

La favola di Risolina rappresenta uno strumento molto valido per aiutare gli adulti a trasmettere ai bambini la capacità di accettare e valorizzare la diversità in se stessi e negli altri; ciò permette di coltivare il valore della solidarietà e della collaborazione, prevenendo le incomprensioni che possono nascere nei rapporti interpersonali tra i bambini e le dinamiche alla base dei fenomeni di bullismo.

La diversità può essere declinata in vari modi: razza, cultura, genere, caratteristiche fisiche, come nel caso di Risolina, la protagonista di questo libro. “Ma perché le cose belle contengono sempre qualcosa che le rende anche un po’ brutte?”, ci si chiede all’inizio della storia.

Rosa e Pietro hanno avuto una figlia, una figlia un po’ speciale. Ha una chioma molto strana, fatta di seta e chicchi di riso. Quando si pettina Risolina -chiamata così dai suoi genitori proprio per via del riso che compone la trama dei suoi capelli- sparge chicchi di riso ovunque.

Alla nascita la piccola è stata accolta con amore dai suoi genitori, inteneriti e affascinati dai quei capelli così particolari. Con il passare del tempo, però, la contentezza si è trasformata in preoccupazione e dispiacere: Risolina è una bambina isolata, perchè gli altri bambini non vogliono giocare con lei. Non ha amici e i compagni di scuola la prendono in giro e la tengono a distanza.

I suoi genitori non sanno come aiutarla, mentre gli insegnanti non si accorgono del suo malessere. Del resto, lei fa finta di niente, indossando “la maschera della finta felicità”.

Risolina si sente sbagliata e considera i suoi capelli così bizzarri la sua maledizione, ma non ne parla con nessuno: non vuole far soffrire i suoi genitori e si mostra serena, anche se è triste e vorrebbe tanto essere come gli altri bambini.

Il papà e la mamma sono tanto dispiaciuti per la loro figlia, ma fanno finta anche loro di essere felici. In realtà, i due genitori si sentono molto in colpa: sono convinti che l’origine degli strani capelli di Risolina sia nel fatto che, quando Rosa aveva scoperto di aspettare Risolina, Pietro aveva deciso di festeggiare con una bella cena. Avevano mangiato un risotto alla zucca e, da quel momento e per tutti i mesi della gravidanza, Rosa aveva avuto una gran voglia di mangiare riso, tantissimo riso. Chi avrebbe mai pensato ad una simile conseguenza sulla bambina che doveva nascere?
 
Del resto, dice a se stesso e alla moglie papà Pietro, “Se il destino ha deciso che la nostra Risolina abbia sulla testa capelli fatti di chicchi di riso, forse un motivo ci sarà”.
 
In effetti, un giorno i chicchi di riso nei capelli, la maledizione di Risolina, diventano un’inaspettata risorsa, per sé e per gli altri; in quel momento Risolina comprende che ciò che ci rende diversi è anche ciò che ci rende unici, che ci rende noi stessi.
 
Attraverso la favola della bambina che non è come gli altri sono tanti i contenuti che il libro chiama in causa, riconducibili ad un denominatore comune: l’integrazione di chi è diverso -e tutti, per fortuna lo siamo, ognuno a suo modo-. Il CD allegato al testo approfondisce ulteriormente questi temi attraverso una serie di riflessioni proposte dallo stesso autore, Alberto Pellai.
 
Per questa ragione la favola di Risolina rappresenta uno strumento molto valido per aiutare gli adulti a trasmettere ai bambini la capacità di accettare e valorizzare la diversità in se stessi e negli altri; ciò permette di coltivare il valore della solidarietà e della collaborazione, prevenendo le incomprensioni che possono nascere nei rapporti interpersonali tra i bambini e le dinamiche alla base dei fenomeni di bullismo.
 
Altro tema correlato è l’importanza di una corretta educazione all’espressione e alla condivisione delle emozioni: Risolina e i suoi genitori non sono in grado di dare voce al proprio malessere, e fingono gli uni con gli altri, nascondendo i propri sentimenti. Ciò non permette di affrontare il problema e costa a tutti la fatica di indossare una maschera.
 
Anche la mamma e il papà, amareggiati dalle reazioni degli altri e dalla sofferenza della loro bambina, si vergognano della condizione di diversità di cui Risolina è portatrice e se ne attribuiscono la colpa. Non sono in grado di trasmettere alla figlia l’orgoglio e la fierezza della propria, personalissima, identità e neanche la fondamentale capacità di esigere da chiunque il rispetto della propria persona al quale ognuno di noi ha inalienabile diritto.
 
Alla fine della storia Risolina impara, e noi insieme a lei, che essere diversi può essere bello e che non impedisce di essere felici: al contrario, può rappresentare il modo per capire chi siamo davvero, andando oltre le apparenze e i luoghi comuni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Pellai, A. (2014). Il tesoro di Risolina. Una storia sul valore della diversità. Trento: Erickson. ACQUISTA ONLINE

La macchia ostinata dell’immoralità: senso di colpa e compulsioni di pulizia

 

 

I partecipanti indotti a esperire una colpa deontologica hanno esibito, rispetto agli altri, un numero maggiore di comportamenti di controllo nella prima prova e si sono dedicati ad una pulizia più accurata nel secondo esperimento.

Se siete da tempo lettori fedeli e affezionati di State of Mind, ricorderete il post in cui ho evidenziato l’esistenza di un legame tra la pulizia morale e la pulizia fisica. La ricerca scientifica negli ultimi anni non ha fatto che confermare un’intuizione già resa manifesta dal nostro linguaggio comune e da varie opere letterarie e cinematografiche.

Sono infatti molto comuni espressioni come “sporco”,  “viscido” o “lurido”  per descrivere individui di dubbia moralità.

Il cinema vede protagonisti diversi assassini che, dopo aver commesso un omicidio, si dedicano ad una pulizia tanto accurata da lasciar intendere che lo scopo non sia solo quello di eliminare possibili indizi di colpevolezza ma forse anche il senso di colpa per il gesto estremo.

La pulizia potrebbe avere la stessa funzione purificatrice anche per traditori e traditrici di famose soap opera che dopo aver commesso adulterio si buttano sotto la doccia prima di riabbracciare il partner ufficiale di turno.

Addiritura Shakespeare costringe Lady Macbeth al gesto compulsivo di sfregarsi continuamente le mani nel tentativo di cancellare la colpa per aver provocato spargimenti di sangue innnocente.

Ma se ormai è dunque assodato che il senso di colpa sia come una macchia da lavar via, è ragionevole pensare che la difficoltà nel rimuoverla dipenda dal tipo di colpa?

Una risposta a questa domanda arriva puntuale dalla ricerca di Francesca D’Olimpio e Francesco Mancini che con la loro ricerca hanno voluto verificare quale tipo di colpa abbia una correlazione più forte con i comportamenti rituali tipici del Disturbo Ossessivo Compulsivo.

I ricercatori hanno preso in considerazione due tipi di colpa: altruistica e deontologica.

La colpa altruistica si accompagna a sentimenti di preoccupazione e compassione per la vittima delle proprie azioni, indipendentemente dal fatto che esse violino o meno norme morali. La colpa deontologica deriva invece dalla consapevolezza di aver infranto il codice morale, anche se tale azione non ha implicato offesa per nessuno.

Al fine di comprendere quale macchia tra le due sia più ostica da eliminare, i partecipanti alla ricerca sono stati invitati all’ascolto di una storia che elicitasse un senso di colpa altruistica piuttosto che un senso di colpa deontologica. Un ultimo sottogruppo ha invece ascoltato una storia neutra, senza che implicasse quindi l’emergere di alcun tipo di colpa.

Al termine dell’ascolto tutti hanno dovuto classificare delle capsule in contenitori diversi in base al colore e in un secondo momento pulire un cubo di plexiglas utilizzando i materiali messi a disposizione dai ricercatori.

I partecipanti indotti a esperire una colpa deontologica hanno esibito, rispetto agli altri, un numero maggiore di comportamenti di controllo nella prima prova e si sono dedicati ad una pulizia più accurata nel secondo esperimento. Tale evidenza conferma l’ipotesi iniziale dei ricercatori che, in base a studi precedenti, si aspettavano maggior comportamenti di controllo e di pulizia da parte dei violatori del codice morale.

Inoltre l’effetto Lady Macbeth ha riguardato in misura maggiore  proprio questi ultimi che hanno infatti tratto beneficio più grande dal compito di pulizia, dimostratosi invece meno efficace nel rimuovere la macchia della colpa altruistica.

Benchè l’esperimento non abbia coinvolto pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo, gli autori, convinti dell’esistenza di un continuum tra individui senza diagnosi  e  persone con DOC, ritengono che i risultati possano contribuire a chiarire la natura di questo disturbo.

Chissà che tra un po’ non si torni sull’argomento, magari facendo ulteriore luce sulle tipologie di colpe e sui comportamenti che hanno la capacità di rimuoverle.

Ma siamo poi così sicuri che, come spesso accade con le macchie più ostinate, certe colpe si riescano a cancellare senza lasciare aloni?

 

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Criticismo subìto in famiglia e bias cognitivi: in che modo correlano?

FLASH NEWS

 

Il criticismo percepito è associato a bias interpretativi e attentivi che portano la persona a focalizzarsi su elementi emotigeni negativi e ad interpretare situazioni neutre in modo negativo: il tutto elegantemente dimostrato da uno studio sperimentale di Harvard. 

Essere il bersaglio dell’altrui criticismo non è piacevole, può essere copresente all’autocriticismo ed è spesso in relazione all’insorgenza e al mantenimento di diversi distrubi attenenti la sfera mentale e psicologica.

Un team di ricercatori di Harvard ha voluto indagare il fenomeno del criticismo “subìto” (tecnicamente criticismo percepito) e la presenza di specifici bias cognitivi e attentivi nell’elaborazione di informazioni a carattere emotivo.

In altre parole hanno ipotizzato che elevati livelli di criticismo subìto sarebbero correlati a bias interpretativi di situazioni ambigue (valutate in modo negativo), con un possibile meccanismo per cui essere costantemente bersaglio di critiche porterebbe l’individuo ad affinare la propria attenzione verso segnali emotivi negativi e dunque ad essere più soggetto a bias cognitivi.

76 soggetti sono stati reclutati nello studio ed è stato loro chiesto di valutare quanto criticista fosse nei loro confronti “la persona emotivamente più importante nella loro vita”, e in seguito sono stati invitati a completare due compiti sperimentali finalizzati a rilevare bias attentivi nell’elaborazione di informazioni emotive positive, negative e neutre.
Dai dati è emerso che le persone con più elevati livelli di criticismo percepito presentavano maggiori difficoltà nell’ignorare e distrarsi dalle informazioni emotive negative non rilevanti per il completamento del task (predire la direzione di movimento di una freccia se associata a un’espressione facciale emotiva negativa, ad esempio di collera); inoltre, nel secondo compito sperimentale i soggetti con più elevati livelli di criticismo percepito avevano una maggiore tendenza ad interpretare negativamente dal punto di vista emotivo stimoli uditivi neutri.

Dunque il criticismo percepito è associato a bias interpretativi e attentivi che portano la persona a focalizzarsi su elementi emotigeni negativi e ad interpretare situazioni neutre in modo negativo: il tutto elegantemente dimostrato da uno studio sperimentale di Harvard.

 

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Le ombre dell’anima (2013): Pensare le emozioni negative – Recensione

 

Non amiamo la tristezza, ma allora perché amiamo ascoltare la musica triste? Si chiede Roberto Casati nella prefazione del libro.

Le ombre dell'anima_pensare le emozioni negative _RecensioneLa risposta a questa e altre domande inerenti le emozioni complesse, ambivalenti, miste si può trovare in questa bella raccolta di saggi scritti da filosofi di area francofona (Francia, Canada, Svizzera), che vanno ad indagare quei territori emotivi solitamente non molto battuti dai manuali di psicologia e psicoterapia (in particolare cognitiva).

A lungo le emozioni sono state contrapposte alla ragione, con il primato di quest’ultima. Più recentemente, anche grazie alle neuroscienze e alla psicologia evoluzionistica, le emozioni stanno ricevendo la giusta attenzione da parte degli studiosi e sono considerate importanti per il buon funzionamento della ragione stessa.

Nel libro vengono presi in esame stati emotivi un po’ ai margini della nosografia come il senso di famigliarità o il disgusto, con una modalità di indagine chiaramente più vicina alla logica filosofica che alla fenomenologia.
 
Si parte con la valenza delle emozioni dove gli autori cercano di definire la positività o la negatività delle emozioni, non solo in relazioni agli aspetti percettivi, ma anche cognitivi. Viene successivamente affrontato il tema dell’ambivalenza e delle emozioni miste, analizzate anche in rapporto al tempo, che pare l’unico fattore in grado di risolvere i conflitti emotivi.
 
Un capitolo molto interessante dal punto di vista psichiatrico è quello sul sentimento perturbante di freudiana memoria, caratterizzato dal senso di estraneità, che si può riscontrare in gravi disturbi psichiatrici come la Sindrome di Cotard (delirio di negazione dell’esistenza) e la Sindrome di Capgras (delirio dei sosia).
 

Si parla anche di commozione, un sentimento poco generalmente poco trattato e che potremmo definire “a metà”, caratterizzato tipicamente dalla coesistenza in una situazione di aspetti positivi e negativi, con il trionfo della vita sull’avversità (si pensi ad esempio alla nascita di un bambino dopo un parto difficile).
 
Questo sentimento ha una grande importanza a livello sociale in quanto contribuisce al rafforzamento dei legami di una comunità, segnalando ai membri della comunità l’importanza che un soggetto attribuisce ai valori più fondamentali che la fondano, ma anche a livello individuale in quanto costituisce un potente motivo per andare avanti.
 
Il libro si chiude in bellezza, proprio con un saggio intitolato “Bello da vomitare”, in cui viene trattato il tema della difficoltà di tollerare la bellezza troppo perfetta e del bisogno di corromperla in qualche modo.
 
Un libro a tratti complesso, ma molto interessante per uno psicoterapeuta.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Tappolet, C., Teroni, F., & Konzelmann Zlv, A. (2013). Le ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative. Raffaello cortina Editore. ACQUISTA ONLINE

Come cambiare se stessi o meglio come accettarsi

 

 

Ecco qui il segreto: il primo grande passo per cambiare è accettarsi.

Chi di noi è perfettamente contento di quello che è, di ciò che rappresenta o di quello che può dare o fare? Capita di dire: devo mettermi a dieta, devo cercare un lavoro migliore, devo cambiare casa, devo essere più ordinato, meno perfezionista, e potremmo andare avanti per ore ottenendo un elenco lunghissimo di cose da cambiare.

Sicuramente, adesso, ti starai chiedendo cosa vorresti cambiare di te stesso, giusto? Hai capito cosa ti piacerebbe avere o essere?

Indubbiamente, il desiderio di cambiare è qualcosa che ci accompagna costantemente per tutta la vita. Spesso, si è intenti a voler cambiare questo o quello, sia in termini di cose materiali, più facili da realizzare, sia in termini di caratteristiche personali. Tuttavia, è difficile capire da dove cominciare e cosa possiamo realmente fare per poter effettuare un cambiamento su noi stessi.

Gran parte di noi, penso, ha seguito per un periodo della sua vita un regime alimentare dietetico. Alla fine, ottenuti i risultati, capita di non essere pienamente soddisfatti di quanto conseguito e ci si sente come se mancasse un pezzo del puzzle. Ma di cosa si tratta? beh, direi di un cambiamento di forma a cui non segue un cambiamento di sostanza, la stessa che poi porta a intraprendere un comportamento volto ad un mutamento fittizio.

Ora vi svelo un segreto.  Curiosi?

Bene, ecco qui il segreto: il primo grande passo per cambiare è accettarsi.

Il paradosso centrale del processo di cambiamento è proprio questo: abbandonare il desiderio di voler essere qualcosa di diverso da ciò che si è, accettando di non esserlo; solo a questo punto si sperimenta il cambiamento. Si tratta, dunque, di abbandonare i tentativi di manipolazione operati verso se stessi e accettare quello che non si può diventare. Insomma, per potersi accettare veramente per quello che si è bisogna liberarsi dai progetti illusori su noi stessi.

Perché l’accettazione? Perché normalmente dietro ad ogni cambiamento, almeno nella maggior parte dei casi o sicuramente per i più importanti, c’è sempre un problema o qualcosa che si vuole lasciare alle spalle o si fa finta di non vedere. Tuttavia, finché non accettiamo il problema che muove le fila della sofferenza, come se fosse un burattinaio, o zavorre derivanti da regole morali che ci portiamo dietro da sempre e che impediscono di spiccare il volo, non riusciremo mai a essere pienamente soddisfatti di noi stessi.

Se tentassimo di effettuare un grande cambiamento senza accettare, e affrontare, prima di qualsiasi altra cosa, il problema che lo ha generato, alla fine otterremmo solo un appagamento parziale a cui seguirebbe un senso di frustrazione e di fallimento. Quindi, prima di operare qualsiasi tipo di cambiamento comportamentale è necessario accettare il problema, ovvero il tema doloroso che sottende tutto il nostro funzionamento.

Accettare ciò che ci spaventa, dunque, non significa rassegnarsi o tollerare, ma vuol dire riconoscere totalmente e in tutta la sua pienezza il problema. Naturalmente, per accettare è necessario prima di tutto osservare il tema, immergercisi, assumendo la posizione di un osservatore esterno, apprezzandone tutte le diverse sfaccettature. Cercare di capire razionalmente una situazione non significa accettarla, ma equivale a comprenderne le cause e le implicazioni. Dopo aver ottenuto una valutazione oggettiva si passa alla fase successiva: l’accettazione emotiva.
La fase più dolorosa è proprio quest’ultima, ovvero accettare l’emozione negativa che scaturisce quando si pensa all’evento doloroso. A questo punto, l’accettazione dell’emozione negativa porta, esponendosi gradualmente alla stessa, ad un calo progressivo dell’arousal emotivo fino a quando non sparisce totalmente. Questa fase sarà superata solo nel momento in cui, rievocando la situazione critica, l’emozione che riecheggia non sarà più disturbante. Così facendo si apre una finestra logica sulla situazione temuta che porta ad una visione della stessa senza emozioni disturbanti. Il cambiamento è avvenuto, Accetto!

Attenzione, accettarsi non vuol dire affatto crogiolarsi  nel pensiero delle proprie debolezze, ma riconoscerle per quelle che sono, senza autocommiserarsi o criticarsi.

Decisivo è accettarsi totalmente, non solo con i propri punti forti, ma anche, e soprattutto, con quelli deboli. Chi si permette e si concede la possibilità di vedersi debole ha un sano senso di autostima, perché sa guardare con umorismo ai propri limiti o ferite. Nel momento in cui ci riconciliamo con essi, le ferite diventano la nostra forza, uno scrigno da custodire, da portare dentro per tutta la vita. Solo allora, potremmo essere in grado di conoscere e di scoprire la nostra vera natura o vocazione.

 

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Bambine più ambiziose? Solo se papà collabora nelle faccende domestiche!

FLASH NEWS

 

Secondo una nuova ricerca i padri che assumono ruoli attivi nella collaborazione e gestione domestica avrebbero effetti positivi sulle loro figlie femmine in termini di fiducia nelle proprie possibilità di carriera in un’ottica di equità di genere.

I ricercatori della University of British Columbia hanno intervistato 326 bambini di un range di età dai 7 ai 13 anni riguardo a come venivano suddivisi i lavori di casa tra i loro genitori e riguardo alle proprie aspirazioni lavorative.
 
E’ interessante che il più forte predittore delle ambizioni professionali delle bambine di genere femminile risultava essere proprio l’approccio dei padri ai lavori domestici: se i lavori domestici erano equamente distribuiti tra padri e madri le bambine presentavo generalmente più ampi obiettivi e orizzonti lavorativi meno legati agli stereotipi di genere.
 
Chiaramente altre variabili potranno influenzare tali aspirazioni lavorative più o meno vicine all’equità di genere tra cui anche la condivisione emotiva e di interessi tra padri e figlie come già sottolineato in precedenti studi.

Quindi, responsabilità di padri e madri è attuare nella quotidianità modelli impliciti che guardino all’equità di genere  tenendone presente anche gli effetti transgenerazionali su credenze e aspirazioni esplicite dei figli.

 

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Perchè sentiamo l’istinto di narrare? Il potere della narrativa per la nostra mente

L’istinto di narrare, come le storie ci hanno reso umani. (2014) di J. Gottschall

La domanda che ci pone l’autore dall’inizio è: perché sentiamo l’istinto di narrare? A che ci servono le storie? La risposta è molto complessa e ogni capitolo aggiunge un tassello argomentativo a spiegazione di questa attività umana universale che si è mantenuta attraverso diversi mezzi nei millenni.

In questi mesi, presso l’Associazione ‘Insieme a Noi’ di Modena, si è svolto un laboratorio di scrittura autobiografica rivolto a familiari di utenti dei servizi di salute mentale col fine di aiutare il gruppo a focalizzarsi sui propri vissuti, andando al di là ruolo di caregiver che è preponderante nella vita quotidiana di queste persone.

L’elemento che nel corso degli incontri faceva da collante e da motore propulsore per il gruppo erano le storie di vita di ognuno. Spesso si trattava di piccoli frammenti di vita, immagini, ricordi, rievocati grazie agli stimoli proposti dalle conduttrici del gruppo.

Abbiamo scritto tanto, ma soprattutto abbiamo raccontato e condiviso delle storie che ci hanno incantato, divertito, sorpreso, ci hanno fatto vedere con altri occhi chi ci sedeva vicino, ci hanno fatto Conoscere l’un l’altro.

La potenza di una storia si esprime massimamente in un laboratorio strutturato in questo modo: si rivive e si risignifica la propria storia con e attraverso le storie degli altri. Narrare, come afferma Gottschall nel titolo del suo libro, ci ha reso umani nella storia evolutiva e lo continua a fare anche nel mondo post-moderno.

La domanda che ci pone l’autore dall’inizio è: ‘perché sentiamo l’istinto di narrare? A che ci servono le storie?’ La risposta è molto complessa e ogni capitolo aggiunge un tassello argomentativo a spiegazione di questa attività umana universale che si è mantenuta attraverso diversi mezzi nei millenni.

Nei primi capitoli viene descritto il mondo della narrazione: innanzitutto l’autore riflette sul potere ammaliante delle storie. La fascinazione che la narrazione agisce sugli uomini è evidente sin dall’infanzia; i bambini adorano i racconti e vivono, dai due anni circa, immersi nel ‘facciamo finta che’, questo bisogno sembra impellente tanto quanto i bisogni primari, come cibo e sonno.

Negli ultimi decenni è andato diffondendosi un grande allarmismo rispetto alla diminuzione della lettura di narrativa, certo questo è un dato da tener presente , ma è altresì importante non dimenticare che la funzione narrativa è tutt’altro che superata, semplicemente si serve di nuovi strumenti come tv, internet, blog, etc. Infine a noi stessi raccontiamo quotidianamente le storie migliori, piene di finzioni e riarrangiamenti di cui quasi sempre non siamo consapevoli.

Quanto detto non ci aiuta però a spiegare perché nel corso dell’evoluzione questa attività piacevole non si sia estinta. Come mai questo istinto è ancora così forte in ogni comunità umana? Quali sono i benefici per la nostra specie?

L’autore nel proseguo dei capitoli si interroga e porta il lettore a interrogarsi sulle svariate ragioni che sottendono all’attrazione per la narrazione. A tal proposito vengono riportati alcuni studi che interpretano questa caratteristica umana come un effetto collaterale dell’evoluzione (Bloom, 2010): le storie ci possono dare piacere, possono veicolare messaggi, ma non avrebbero finalità biologiche.

Questa tesi fatica ad imporsi poiché la narrazione costituisce un ‘universale umano’ in tutte le culture e in tutte le epoche storiche, se fosse davvero solo un fronzolo edonistico l’evoluzione avrebbe eliminato questa inclinazione poiché motivo di inutile spreco di energie.

Una delle prime spiegazioni ci viene fornita da studiosi come Dutton (2009), che sulla scia di Darwin afferma che il raccontare storie sia frutto della selezione sessuale. Così come in epoche antiche i narratori di storie radunavano attorno a loro la tribù, oggi la comunità si riunisce virtualmente (blog, riviste on-line) e chi ha qualcosa da raccontare fa sfoggio delle proprie qualità e capacità di intelligenza e creatività nella narrazione e questo moltiplicherebbe la probabilità di riproduzione.

Boyd (2009) afferma che le storie sono una sorta di gioco cognitivo e attraverso di esse si possono carpire informazioni e dedurre insegnamenti dalle esperienze altrui; fungono anche da collante sociale, pensiamo ai miti modelli di riferimento condivisi per intere civiltà.

Nella trattazione si presenta un’altra questione: ‘perché i contenuti delle storie sono prevalentemente costituiti da guai e difficoltà?’ A partire dalle ninnananne e dai giochi dell’infanzia le storie hanno come contenuto principale le avversità, studi sui giochi di bambine e bambini confermano quanto stiamo dicendo.

L’ homo sapiens è quindi ossessionato dalla difficoltà? La risposta è si! La letteratura per essere interessante deve rappresentare conflitti drammatici e situazioni problematiche, Aristotele fu il primo a notarlo nella Poetica ed oggi è una nozione di base dei corsi di letteratura: ciò che nella realtà ci angoscia, nella finzione ci interessa e ci dà piacere.

La grammatica universale della storia è: personaggio + situazione difficile + tentativo di superamento. La psicologa e romanziera Keith Oatley (2008) considera le storie ‘simulatori di volo’ per la vita sociale umana, il nostro sistema cognitivo avrebbe come mezzo fondamentale il problem solving per raggiungere i propri scopi e la narrazione sarebbe pertanto una fondamentale opportunità di allenare la nostra capacità di fronteggiamento delle situazioni difficili pur non esponendoci a pericoli reali.

 

Gli studi sui neuroni specchio sono coerenti con questa teoria (Rizzolati, 2008), quando vediamo o riviviamo attraverso una storia una certa situazione questa è esperita come se fosse vissuta in prima persona. Le cellule cerebrali che si attivano al vedere 2 persone baciarsi o lottare sono le stesse che si ‘accendono’ quando nella realtà viviamo queste esperienze.

Le storie non ci abbandonano nemmeno nel sonno: grazie a studi (Jouvet, 1999) su animali (gatti con lesione del tronco encefalico: scomparsa dell’atonia nel sonno rem, osservazione di comportamenti solo di attacco – fuga nel sonno) e sull’ uomo (resoconti) si è evidenziato che il contenuto dei sogni è, nella maggioranza dei casi, incentrato su pericoli, problemi e ansie che caratterizzano le sfide quotidiane. Il nostro cervello simula di notte problemi da risolvere di giorno, per massimizzare il nostro successo come specie.

La mente è una narratrice molto creativa e abile. Si racconta storie di ogni genere per dar senso alla condizione umana, le teorie cospiratorie a cui si appellano persone di ogni estrazione socio-culturale sono da sempre molto diffuse e creano significato, ci consegnano la personificazione del maligno da condannare.

Le religioni sono la medesima risposta al bisogno umano di schemi e spiegazioni inoltre fanno ‘funzionare’ meglio le società, forniscono un insieme di regole che proteggono il gruppo d’appartenenza.

L’autore in seguito ci fa riflettere sulla natura morale delle storie che pervade anche la letteratura definita, a secondo della morale del tempo, sovversiva; le storie fungono da lubrificante sociale, riuniscono le persone e le comunità intere attorno a valori condivisi e pro-sociali.

Aspetto altresì importante che emerge dalla lettura di questo libro è la grande influenza che la narrazione finzionale ha sui fatti storici e sull’opinione pubblica. In uno degli ultimi capitoli è riportato un esempio di quanto affermato: nel 1852 venne pubblicata la storia di lotta per la liberazione di una schiava americana, Eliza Harris, il successo di pubblico fu enorme e ciò contribuì grandemente a rafforzare la spinta abolizionista del Nord America.

Sono stati condotti anche esperimenti di laboratorio riguardo al potere persuasivo che le storie hanno sulle credenze delle persone. Appel (2009) dimostrò che è possibile far credere cose piuttosto bizzarre come: lavarsi i denti fa male, si può prendere la pazzia entrando in un istituto psichiatrico, etc. col solo utilizzo di finzione narrativa.

Riporto un passo del libro che ben evidenzia qual è la differenza tra un resoconto di avvenimenti e un’opera finzionale e quanto quest’ultima forma possa agire sulle nostre convinzioni e sul nostro ‘sentire’: “quando leggiamo opere non finzionali, leggiamo con gli scudi levati. Siamo critici e scettici, ma quando siamo assorbiti da una storia, abbassiamo la nostra guardia intellettuale, siamo toccati emotivamente, e questo pare lasciarci senza difese”.

 

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United States of Tara: il Disturbo Dissociativo di Identità sul grande schermo

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità diviene il risultato delle forme più estreme di violenza cronica e perpetrata che il soggetto può subire a partire dalla primissima infanzia, al punto che tale evidenza viene oggi inclusa nella nosografia del disturbo stesso da Manuale Diagnostico.

Una Stanza Piena di Gente (2009) è l’emblematico titolo del libro scritto nel 1981 dall’autore americano Daniel Keyes, il quale ripercorre la biografia di William Stanley Milligan (meglio conosciuto come Billy Milligan), un ragazzo di soli 26 anni condannato a pena carceraria dopo esser stato arrestato per rapimento, stupro e rapina di tre studentesse universitarie nel 1977.

Ciò che intriga della vicenda non riguarda tanto il fatto di cronaca di per sé, quando la scoperta, fatta proprio durante l’incarcerazione, della coesistenza nell’imputato di ben 24 personalità differenti, parti emotive del soggetto così dissociate dal suo Io Dominante (altrimenti detto ANP, Apparently Normal Person), strutturate e scisse tra loro.

Settembre 1977. Columbus, Ohio. Billy Milligan, interrogato dopo l’arresto, non nega le accuse che gli vengono mosse, semplicemente afferma di non ricordare e si dimostra sinceramente confuso a riguardo. Tramite numerose perizie psichiatriche, verrà appurato che il giovane Milligan è affetto da un disturbo relativamente misconosciuto nel panorama scientifico del tempo, ma che dal 1980 era stato introdotto con riserve anche all’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM III) con l’etichetta di Disturbo della Personalità Multipla (attualmente, DID – Disturbo Dissociativo dell’Identità, dalla IV edizione del DSM – 1994).

In attesa del processo, Milligan viene trasferito all’ospedale psichiatrico Harding Hospital, dove viene messo di fronte a tutte le sue personalità, permettendone così una seppur fragile “fusione” (integrazione). Questo gli consente di affrontare il processo, il cui verdetto finale porta alla dichiarazione di non colpevolezza per infermità mentale (viene difatti riconosciuto come responsabile dei fatti, ma non mentalmente presente al momento della loro commissione).

Da qui, il trasferimento all’Athens Mental Health Center, sotto le cure del Dottor David Caul. L’evento mediatico che si scatena sul caso Milligan mette lo stesso Billy sotto una pressione tale da rompere il delicato equilibrio di fusione raggiunto e ne provoca nuovamente la dissociazione delle personalità.

Nonostante la regressione, tutte le EP (Emotional Parts) di Billy si dimostrano collaborative, tanto da permettere l’emergere di un’ultima personalità: quella del Maestro, la somma di tutte le identità, la loro fusione, il vero Billy. Il Maestro, unico possessore di tutti i ricordi di ciascuna personalità, racconta la vera storia di Billy Milligan (dalla primissima infanzia, alle sevizie ed abusi subìti, fino agli ultimi eventi), rendendo così possibile la stesura di questo libro, redatto proprio grazie alla collaborazione tra tutte le EP in cui il protagonista si è scisso.

Biografie analoghe non sono nuove nella letteratura internazionale: uno dei primi scritti riguardanti questo disturbo è difatti Sybil (Schreiber, 1973), storia romanzata della vita di Shirley Ardell Mason (alias, Sybil), giovane donna tra le prime a vedersi riconosciuta la diagnosi di DDI.

Sybil convive con 16 differenti personalità, le quali hanno caratteristiche, connotati e specificità tanto uniche da non poter essere spiegate come tratti di un’unica persona. Perdite di temposplitting, e fusione divengono dunque termini ricorrenti per descrivere questo controverso disturbo che, come ormai sembra assodato, si struttura su una base traumatica molto severa, legata a esperienze infantili precoci e alla relazione con caregivers abusanti, maltrattanti e gravemente negligenti.

Questo quanto accaduto a Sybil, questo quanto accaduto a Billy Milligan: la psicopatologia diviene una forma estrema di dissociazione, la quale raggiunge un livello disintegrazione tale da scindere (letteralmente) l’Io dominante, l’ANP, al punto da dare vita a personalità autonome, indipendenti e tutte coesistenti all’interno di un unico organismo (Liotti & Farina, 2011), in un processo di perdita della capacità della mente di integrare vere e proprie parti di sé e delle sue funzioni superiori (Dutra et al., 2009).

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità diviene quindi il risultato delle forme più estreme di violenza cronica e perpetrata che il soggetto può subire a partire dalla primissima infanzia, al punto che tale evidenza viene oggi inclusa nella nosografia del disturbo stesso da Manuale Diagnostico.

Diverse sono le tendenze che tentano di spiegare questa disintegrazione del Sé: per alcuni, la dissociazione non è che un meccanismo di difesa, dedito a proteggere l’Io da esperienze estremamente dolorose e fortemente destabilizzanti, accompagnate da un senso di insottraibilità alle stesse esperito dal soggetto (Bordi, 1999); per altri, unitamente a questo, sembra intervenire un complesso processo che parte dalla disregolazione degli stati emozionali e di arousal, innescando meccanismi prettamente biologici (evoluzione della teoria polivagale di Porges) e spegnendo il soggetto, che giunge alla scissione nei casi più gravi – in queste circostanze si parla di un particolare tipo di dissociazione che viene detta terziaria – (Tagliavini, 2011).

Naturalmente, il Disturbo Dissociativo dell’identità è decisamente più articolato: ancora oggi la letteratura non ne parla in modo approfondito, in parte a causa della rarità del fenomeno, in parte probabilmente proprio per la sua complessità.

Anche solo immaginare un paziente che presenti le caratteristiche sopra descritte pare quasi fantascientifico, pertanto non ci stupisce la reazione scettica di medici e psichiatri che, anni fa, hanno avuto a che fare con personaggi controversi quali Sybil e William Milligan.

Per aiutarci nella rappresentazione di questo gravissimo disturbo, rendendoci consapevoli delle difficoltà, conseguenze e stigma che comporta, possiamo tuttavia ammirare la convincente performance dell’attrice americana Toni Collette in United States of Tara, serie TV del 2009 (prodotta da Steven Spielberg) che narra della vita di una donna affetta da DDI.

Le vicende rappresentate concernono la vita quotidiana della protagonista e della sua famiglia, la quale si trova a convivere e dover gestire gli splitting tra una personalità e un’altra, con una figura che in un momento è madre, in un altro è figlia, in un momento è donna e in un altro è uomo.

Il viaggio che Spielberg permette di compiere è di vera e propria scoperta del disturbo e delle sue sfaccettature, aiutando l’osservatore ad averne anche meno paura (il mood della serie televisiva è difatti scherzoso e ironico, aspetto che alleggerisce molto i contenuti decisamente controversi). Ma non solo: la scoperta è anche quella di Tara, della sua infanzia, delle sue personalità, dei suoi scheletri; e stando a quanto noto in letteratura circa le origini della patologia … cosa potrà mai venire alla luce rispetto al passato della protagonista?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Quando i nostri obiettivi in realtà ci allontano dalla felicità – Psicologia

FLASH NEWS

 

Oliver Burkeman in The Antidote: Happiness for People Who Can’t Stand Positive Thinking (felicità per le persone che non sopportano il pensiero positivo) sostiene che gli sforzi che facciamo per raggiungere gli obiettivi che pensiamo ci renderanno felici, in realtà ci allontanano da tali obiettivi e dalla felicità stessa.

Ciò che ci spinge a investire in obiettivi e scopi, pianificando il futuro è, sostiene Burkeman, non tanto la consapevolezza delle virtù del saper guardare lontano e del pianificare, ma qualcosa di molto più emotivo: il disagio dell’incertezza.

Di fronte all’ansia di non sapere cosa riserva il futuro, investiamo sempre più ferocemente nella nostra visione ideale di quel futuro, e questo non perché ci aiuterà a raggiungere quell’immagine ideale, ma perché ci aiuta a liberarci dei sentimenti di incertezza nel presente.

Addirittura, secondo Burkeman, molte delle nostre importanti scelte di vita le facciamo sotto la pressione del disagio dell’incertezza: “pensa a una qualsiasi decisione significativa che hai preso nella vita e che ti sei trovato successivamente a rimpiangere – una relazione che hai inseguito anche sapendo che non faceva al caso tuo, un lavoro che hai accettato ma che non era in linea con i tuoi interessi e le tue abilità – se hai sentito che era una decisione difficile da prendere è probabile che prima di prenderla tu abbia sentito il torcibudella che da l’incertezza e che dopo averla presa quella sensazione sia diminuita.

Se le cose sono andate così c’è la possibilità inquietante che la tua principale motivazione nel prendere quella decisione non sia stata alcuna considerazione razionale in merito a quanto fosse giusta per te, ma semplicemente l’urgente necessità di sbarazzarti dei tuoi sentimenti di insicurezza.

Nel considerare cosa potrebbe significare abbracciare l’incertezza, Burkeman cita il lavoro della psicologa Saras Sarasvathy, che ha studiato le qualità essenziali che gli imprenditori di successo condividono.

Nei suoi colloqui con i quarantacinque imprenditori rigorosamente di successo (un minimo di quindici anni di esperienza nelle aziende e essere stati a capo di almeno una società) ha trovato un profondo scollamento tra lo stereotipo culturale dell’imprenditore che fa carriera velocemente e che ha obiettivi chiari e concreti da raggiungere, e cosa realmente questi imprenditori di successo condividono.

Burkeman scrive: “tendiamo a credere che l’abilità di un imprenditore consista nell’avere un idea originale e nel lottare per trasformarla in realtà, ma ciò che emerge dalle interviste della dott.ssa Sarasvathy non lo conferma. L’obiettivo a lungo termine di questi imprenditori era spesso poco chiaro anche a loro stessi, e i loro modi di procedere lo confermano: la stragrande maggioranza di loro si è fatto beffe delle teorie di management e quasi nessuno di loro ha suggerito la creazione di un business plan o di fare ricerche di mercato globale per affinare i dettagli del prodotto che volevano lanciare.”

Nel cuore dello spirito imprenditoriale, invece, si trova qualcosa di completamente diverso: è la capacità di adottare un approccio non convenzionale all’apprendimento. La flessibilità di saper improvvisare e cambiare non solo quale strada prendere per raggiungere un obiettivo predeterminato, ma anche la meta stessa. Questa è quel tipo di flessibilità che viene messa a tacere proprio quando ci si focalizza rigidamente su un obiettivo.

Sarasvathy ha messo a punto una serie di principi che sostengono il suo approccio anti-obiettivo: il suo modello distingue tra persone causally-minded, che stabiliscono un obiettivo specifico e che applicano tutti gli strumenti disponibili al fine di raggiungerlo; e persone effectually-minded che, invece, considerano gli strumenti e i materiali a loro disposizione, ma li usano come trampolino di lancio per immaginare nuove possibili direzioni.

Gli effectually-minded, ad esempio, sono il chimico che ha scoperto che la colla non sufficientemente adesiva poteva essere utilizzata per creare il post-it ; o l’avvocato infelice che si rende conto che il suo hobby, la fotografia, per il quale ha già possiede le competenze e le attrezzature, potrebbe essere trasformata in un lavoro.

Il primo principio che li guida è “inizia con i tuoi mezzi, non aspettare l’occasione perfetta, inizia a muoverti in base a ciò che hai a disposizione, a quello che sei, a quello che sai e a chi conosci”.

Il secondo è il “principio della perdita abbordabile”: non lasciarti guidare dall’immagine della meravigliosa ricompensa che avresti se avessi successo in ogni step che ti serve per raggiungerla. Chiediti piuttosto a quale perdita andresti incontro se non riuscissi a raggiungere l’obiettivo: se puoi tollerarla questo è tutto quello che ti serve sapere per passare allo step successivo e vedere che succede.

In altre parole , “immagina l’immensità, non scendere a compromessi e non perdere tempo.”

 

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Happy! Perchè amiamo ballare la canzone di Pharrell Williams?

 

 

Cosa innesca il bisogno irrefrenabile di muovere piedi, mani, testa e corpo al ritmo di questa musica? Risposta ardua! Eppure un gruppo di scienziati della Aarhus University in Danimarca ha provato a dare dei suggerimenti su cosa avviene nel nostro cervello. Secondo questi ricercatori le tracce ballabili sembra siano composte dalla giusta quantità di pause, lacune ritmiche, o discontinuità tra i battiti.

Because I’m happy
Clap along if you feel like a room without a roof
Because I’m happy
Clap along if you feel like happiness is the truth
Because I’m happy
Clap along if you know what happiness is to you
Because I’m happy
Clap along if you feel like that’s what you wanna do…

La riconoscete? Beh, è la notissima, cantatissima e ballatissima canzone di Pharrell Williams, “Happy”.

Si tratta del più grande successo dell’anno, almeno finora. E’ rimasto per 15 settimane in cima alla classifica delle canzoni più ascoltate e ha ispirato centinaia di video su YouTube di gente che la balla, o la usa come colonna sonora per stralci di vita quotidiana.

Perché sono felice, cita il testo, e permette all’immaginazione di andare al di là di ogni confine anelando la famigerata felicità a suon di movimenti che quasi irresistibilmente si impossessano del nostro corpo.

Cosa innesca il bisogno irrefrenabile di muovere piedi, mani, testa e corpo al ritmo di questa musica? Risposta ardua! Eppure un gruppo di scienziati della Aarhus University in Danimarca ha provato a dare dei suggerimenti su cosa avviene nel nostro cervello. Secondo questi ricercatori le tracce ballabili sembra siano composte dalla giusta quantità di pause, lacune ritmiche, o discontinuità tra i battiti.

Infatti, se noi cercassimo di riprodurre il ritmo della canzone di Pharrell con le mani si otterrebbero un battito lungo, cui segue una pausa, e due ravvicinati: ritmo irregolare.

Secondo gli autori dello studio, il cervello in tutta risposta colmerebbe tali pause o lacune ritmiche inserendo il movimento del corpo.Quindi, il nostro corpo riempie l’assenza di musica con un movimento.

Gli autori dell’articolo per verificare questa teoria avevano selezionato una lista di canzoni da far ascoltare ad un gruppo di persone provenienti da diverse parti del mondo. Si trattava di musiche aventi un ritmo regolare (poco complesse), irregolare (molto complessa) e drumming, sarebbe una via di mezzo tra i due.

Alla fine si è scoperto che i ritmi più ballabili sono quelli che mostrano una sorta di equilibrio tra prevedibilità del tempo, quindi banalità dell’armonia, e complessità.

Perché proprio questi ritmi? Beh, offrirebbero una sufficiente regolarità che permette di percepire il ritmo sottostante, ma hanno abbastanza pause da consentire a chi le ascolta di riempirle con il proprio corpo in movimento.

State provando a ballare la canzone di Pharrell? Io, sì, ed è sorprendentemente vero quanto affermato fin ora. Questa canzone è stratificata in battute prevedibili o complesse, mentre i tamburi, il pianoforte, gli applausi e persino la voce di Pharrell creano invitanti lacune ballabili.

Ma Pharrell non è l’unico che conosce questo trucco. Ad esempio la dance anni ’80, ne è piena, e ancora brani hip-hop e rhythm and blues, funky, etc.

E il testo Billie Jean di Michael Jackson, dove balla il moonwalk? Chiudete gli occhi, immaginate il ritmo, è abbastanza irregolare, vero? Poi, pensate al moonwalk, ha passi regolari, piccoli e sempre uguali: il gioco è fatto! E’ proprio il passo di danza che porta equilibrio tra la prevedibilità e la complessità della struttura ritmica.

E come si può dimenticare Ray Charles nella sua “I’ve Got a Woman” dal ritmo sincopato che porta dal battere il piede in poltrona al ballare incessantemente in mezzo alla pista. Proprio in questa canzone i tamburi mantengono un ritmo molto costante. Il pianoforte è sincopato, le parti vocali sono squisitamente sfumate nel tempo, ma il ballo media e armonizza il ritmo.

Insomma, quanto più ritmicamente è complessa la musica tanto più è facile coinvolgere diverse parti del corpo, perché si possono sincronizzare con i diversi aspetti della stessa.

Allora,

Because I’m happy
Clap along if you feel like a room without a roof
Because I’m happy
Clap along if you feel like happiness is the truth
Because I’m happy
Clap along if you know what happiness is to you
Because I’m happy
Clap along if you feel like that’s what you wanna do …

Lo so, che ora starai muovendo il tuo corpo e ballando questa stupenda canzone e il tuo movimento ti sta portando a diventare very happy!

 

 

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Psicologia dell’Aggressività: genesi, fenomenologia e meccanismi scatenanti

 

 

L’aggressività è qualcosa di connaturato all’essere umano. Essa può avere un duplice destino, ovvero tramutarsi in condotte socialmente accettabili oppure generare comportamenti violenti finalizzati al produrre sofferenza negli altri. I meccanismi che presiedono alla sua genesi, le condizioni che la incrementano e le procedure che la cronicizzano sono tutt’ora oggetto di analisi nell’ambito delle scienze della mente.

Esistono diverse definizioni che esplicitano il costrutto di aggressività. Volendo sintetizzare, si può definire l’aggressività umana come un comportamento intenzionale che ha come obiettivo quello di procurare sofferenza ad un altro individuo della stessa specie, provocandogli delle lesioni psicologiche o materiali.

Nell’ambito della cronologia dell’aggressività si possono riconoscere vari momenti, fra i quali:

– la patogenesi;
– i meccanismi di implementazione.

La patogenesi dell’aggressività umana

Molto probabilmente l’origine dei comportamenti aggressivi risiede in alcune caratteristiche endemiche all’individuo, quali la provenienza da una famiglia in cui l’aggressività è uno stile relazionale diffuso o da un gruppo sociale in cui le modalità interattive sono estremamente violente.

Le cose però non sembrano essere così semplici e questo è dimostrato dalle varie ipotesi, che in campo filosofico sono state avanzate nel corso della storia dell’umanità, e dalle teorizzazioni psicologiche, che nell’ambito dell’ultimo secolo sono andate coagulandosi.

Che l’aggressività sia sempre stata un nodo concettuale dibattuto è confermato dalle speculazioni che hanno attraversato le ideologie dei vari filosofi nella successione del tempo (Martina, 1994).

Nel pensiero greco antico, per esempio, all’aggressività era ascritta una valenza positiva, allorquando obbediva alla razionalità, divenendo sinonimo di coraggio in battaglia.
Per il pensiero latino, nello specifico nelle teorizzazioni di Seneca, l’aggressività è considerata un equivalente della follia.

Nelle concettualizzazioni medievali l’aggressività diviene sinonimo di ira. A questo riguardo San Tommaso distingue l’ira in:

– ira biliosa;

– iracondia;

– furore.

L’ira biliosa è quella che si attiva subito dopo aver subito un torto e che si spegne altrettanto rapidamente. L’iracondia è quell’aggressività di lunga data che si acutizza ogniqualvolta si pensa all’episodio che l’ha scatenata. Il furore è quell’emozione che si esplicita nel momento della vendetta.

Un grande teorico dell’aggressività umana è stato il filosofo Hobbes. Secondo il suo pensiero, la rabbia si attiva allorquando una persona sente di essere stata disprezzata da un suo simile e diventa condotta aggressiva nel momento in cui il denigrato è mosso dal desiderio di vendetta nei confronti dell’individuo che lo ha svilito. Il far del male all’altro è una peculiarità dell’essere umano riassunta nel famoso costrutto homo homini lupus .

Per Cartesio l’aggressività corrisponde alla collera che si scatena quando qualcuno subisce del male, provocato da un altro individuo. Si distinguono due varianti della collera:

– la collera subitanea, meno nociva dal punto di vista della violenza;

– la collera tardiva, che è esplosiva e particolarmente violenta.

Per Schopenhauer l’aggressività è endemica all’essere umano ed è sintonica con quello che avviene in natura, ovvero è presente in tutte le specie animali.

Anche per Nietzsche l’aggressività è un qualcosa di connaturato all’uomo e deriva dal condizionamento del Cristianesimo. L’individuo sovente la dirige verso se stesso, generando una forma di autoconflittualità.  Solo il superuomo, secondo il filosofo tedesco, ha imparato a dirigerla fuori di sé, esplicitandola nelle azioni di guerra.

Nel corso del ventesimo secolo varie ipotesi sono state fatte in ambito psicologico riguardo alla genesi dell’aggressività (Palmonari, Cavazza e Rubini, 2012).

Secondo la teoria etologica, espressa da Lorenz, l’aggressività nasce da un istinto endemico all’essere umano, ovvero una pulsione interiore che genera e dirige i suoi comportamenti aggressivi.

Tale forza interna è attivata da elementi ben precisi quali:

– la difesa di quello che si possiede a livello materiale, emotivo e affettivo;

– la lotta per il potere;

– il bisogno di rendere organizzato il proprio ambiente di vita.

Tutto questo si realizza con una finalità ben precisa che è quella di assicurare un futuro per sé e per coloro che condividono lo stesso patrimonio genetico.

La stessa linea di tendenza pulsionale si trova nelle teorizzazioni freudiane. Per Freud l’aggressività ha un’origine istintuale, legata all’istinto di morte che insieme all’istinto di vita coabita nello stesso individuo. Perché la persona possa conservare la propria integrità, l’aggressività deve essere indirizzata verso l’esterno, preferibilmente canalizzandola in attività socialmente accettate, come quelle che caratterizzano le rivalità fra i gruppi all’interno di un’organizzazione sociale, egemone in un contesto geografico.

Nell’ambito dell’aggressività umana, secondo Fromm, si possono distinguere una forma benigna, necessaria alla sopravvivenza dell’individuo in quanto permette di difendere la propria personalità e il proprio mondo, e una forma maligna, che determina la distruttività nell’ambito delle relazioni fra le alterità.

Secondo la teoria della frustrazione, elaborata da Dollard e Miller, alla base dell’aggressività c’è un meccanismo di frustrazione. In ragione di ciò, l’individuo prova questa emozione allorquando trova degli ostacoli sul suo cammino che impediscono il raggiungimento degli obiettivi che si è fissato. L’aggressività subisce un incremento esponenziale in funzione dell’avvicinamento alla meta. In altre parole, quanto più l’individuo sta per raggiungere il suo obiettivo e viene interrotto in tale  proposito, tanto più aumenta la sua aggressività.

Solitamente questo stato emotivo viene orientato non verso le persone che hanno determinato la frustrazione, ma in direzione degli individui che per caratteristiche personali (maggiore debolezza e minore potere) si prestano facilmente a divenire oggetto dei comportamenti aggressivi. Secondo questo costrutto, inoltre, perché l’individuo possa accedere alle condotte violente deve essere vissuto in un ambiente estremamente tipizzato in tal senso.

Questa teoria è stata successivamente meglio delineata da Berkowitz, secondo cui la frustrazione determina una predisposizione all’aggressività, che si palesa in condotte violente laddove trova le condizioni favorevoli, che sono rappresentate da alcune variabili, quali:

– un contesto di vita in cui predominano gli atteggiamenti aggressivi nelle interazioni sociali;

– una disposizione personale derivante dall’essere vissuto in un ambiente familiare, caratterizzato da stili relazionali aggressivi.

Per Berkowitz, oltre che dalla frustrazione, l’aggressività può essere elicitata anche dalle condizioni croniche di dolore e sofferenza.

Nell’ambito comportamentista l’aggressività è teorizzata come frutto del condizionamento operante. In altre parole, il soggetto nel corso della sua storia apprende e consolida i comportamenti aggressivi nella misura in cui le conseguenze prodotte da tali condotte creano dei vantaggi. Quindi, laddove le conseguenze positive sono di gran lunga maggiori rispetto a quelle negative l’aggressività tende a rinforzarsi e a consolidarsi.

Secondo l’ottica cognitivista il comportamento aggressivo si attiva ogni volta che l’individuo attribuisce determinati significati alle situazioni che vive. Tale significazione è frutto dei processi di apprendimento che si sono verificati nel corso del ciclo di vita e che concorrono a costituire la sua mappa cognitiva. Questa processualità di conoscenza può avvenire direttamente o indirettamente attraverso l’osservazione del comportamento di modelli di riferimento (apprendimento sociale).

Un’altra concettualizzazione proposta nell’ambito della genesi dell’aggressività è la teoria dell’obbedienza (Patrizi e De Gregorio, 2009). In pratica, un individuo si comporta in maniera aggressiva e violenta, allorquando subisce l’influenza di una persona particolarmente aggressiva, a cui attribuisce alcune peculiarità, come il carisma, l’autorevolezza e la superiorità sociale.

Complementare a questo costrutto è la teoria della deindividuazione. In questo caso più che una singola persona è un intero gruppo sociale, a cui l’individuo appartiene, che esercita una forma di influenza negativa. È l’appartenenza al gruppo che determina la deindividuazione, la quale consente al singolo di allentare l’autocontrollo, che altrimenti avrebbe esercitato se fosse stato da solo.

Per un certo lasso di tempo nella genesi dell’aggressività si è dato un peso rilevante alle caratteristiche innate che, dal punto di vista temperamentale, stigmatizzano l’individuo, predisponendolo a condotte violente. A questo riguardo Lombroso, alla fine dell Ottocento, vedeva in alcune peculiarità somatiche dell’individuo la predisposizione ai comportamenti delinquenziali, connotati dall’aggressività e dalla violenza nei confronti dell’alterità.

Secondo le sue teorizzazioni esiste una personalità delinquenziale facilmente riconoscibile da alcune fattezze del capo quali:
un cranio di dimensioni inferiori rispetto a quelle osservabili nella maggior parte degli individui;

– gli zigomi sporgenti;

– una fronte poco pronunciata;

– le sopracciglia molto folte e particolarmente evidenti;

– delle deformità a carico del naso;

– il labbro superiore quasi inesistente;

– le orecchie particolarmente sviluppate e a sventola;

– una massa di capelli ricci e informi;

– la barba rada o completamente inesistente nei soggetti di sesso maschile (Gibson, 2004).

La fenomenologia dei comportamenti aggressivi

I comportamenti aggressivi possono essere suddivisi, dal punto di vista fenomenologico, in diverse tipologie (Attanasio, 2012):

1. l’aggressività attiva che si verifica allorquando un individuo cerca di far del male ad un suo simile, utilizzando la forza;

2. l’aggressività passiva che si esplicita nel non prestare soccorso a chi si trova in uno stato di bisogno;

3. l’aggressività diretta nella quale una persona arreca danno ad un’altra, utilizzando una modalità mirata, che si concretizza nell’utilizzazione del proprio corpo per cagionare sofferenza;

4. l’aggressività indiretta che si realizza nel momento in cui si mettono in giro delle calunnie gratuite sul conto di un altro individuo;

5. l’aggressività autodiretta nella quale si provoca disagio a se stessi;

6. l’aggressività eterodiretta in cui l’oggetto della violenza diviene l’alterità;

7. l’aggressività reattiva che è provocata dall’aver subito un torto ed è alimentata dal desiderio di vendetta (Price e Dodge, citati in Berti e Bombi, 2005);

8. l’aggressività proattiva nella quale la violenza fisica o psicologica viene pianificata ed obbedisce ad una specifica strategia di distruzione dell’altro (Price e Dodge, op. cit.).

I meccanismi di implementazione delle condotte aggressive

I meccanismi di implementazione sono rappresentati da quelle procedure che incrementano la fenomenologia dell’aggressività negli individui.  A questo riguardo si possono citare le distorsioni cognitive che hanno come focus concettuale centrale l’idea che i conflitti interpersonali possano essere risolti e vinti da chi mostra maggiore aggressività.

Un altro elemento che potenzia le manifestazioni aggressive è la suscettibilità neurofisiologica individuale. In altre parole, ci sono alcuni individui che accedono più facilmente a comportamenti aggressivi di maggiore intensità, per fattori neurofisiologici connaturati alla loro persona. In tale direzione vanno le ricerche di Bruner, citate in Gargione (2000), che hanno ipotizzato che l’incremento dell’aggressività può essere messo in relazione con modificazioni del cromosoma X, che alterano la formazione di alcuni neurotrasmettitori, come la dopamina e la serotonina.

Nell’espressione delle condotte aggressive, in ambito neurofisiologico, l’amigdala riveste  un ruolo determinante. Essa è una struttura anatomica del sistema nervoso centrale, nello specifico del sistema limbico, che presiede alla regolazione delle condotte di rabbia, paura e ansia. La serotonina, inoltre, sembra esercitare un ruolo di contenimento dell’aggressività. Infatti, persone che presentano delle quantità esigue di serotonina manifestano un incremento delle condotte aggressive e antisociali .

Dal punto di vista ormonale il testosterone occupa una posizione preminente: infatti è in grado di incrementare la cosiddetta aggressività offensiva. A tal proposito alti livelli di testosterone conducono ad un incremento delle condotte aggressive nei confronti dell’altro.

Ci sono inoltre delle variabili situazionali che presumibilmente implementano l’aggressività. Si suppone che il caldo eccessivo, un’umidità particolarmente alta, un ambiente caratterizzato da un inquinamento atmosferico estremamente accentuato, con odori e rumori essenzialmente sgradevoli determinino un aumento dei comportamenti aggressivi (Aronson, Wilson e Akert, 2010).

 

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Vincere… Scatena l’aggressività

 

BIBLIOGRAFIA:

Più gioco libero nell’infanzia, più successo sociale e flessibilità da adulti

 

FLASH NEWS

Un team di psicologi tedeschi sostiene che chi è cresciuto con la possibilità di giocare liberamente ha maggiore successo sociale una volta adulto.

Al giorno d’oggi, tra doposcuola, lezioni di musica e attività sportive, i bambini subiscono una iper-programmazione del loro tempo libero, come se passare del tempo di gioco libero o comunque non strutturato fosse una mera perdita di tempo. Ma tutta questa attività strutturata non farà più male che bene ai nostri figli?

Tre ricercatori dell’Università di Hildesheim, guidati da Werner Greve, hanno condotto un sondaggio su 134 persone: ai partecipanti è stata data una lista di sette affermazioni rispetto alle quali valutare il grado di accordo (tra 3 e 10) misurato sulla base delle proprie esperienze

Gli items erano di questo tipo: “Guardando indietro , ho provato molte cose e sperimentato un sacco da solo”; “Di tanto in tanto, da solo o con gli amici ho esplorato il quartiere”; e “I miei genitori avevano sempre paura che potesse succedermi qualcosa, e per questo motivo non mi hanno lasciato fare molte cose da solo.”

I partecipanti hanno inoltre espresso il loro grado di accordo o disaccordo con 10 affermazioni destinate a misurare il “successo sociale” nel presente: “Gli amici vengono da me per farsi consigliare”; “Il mio lavoro è apprezzato dagli altri”; e ” Se qualcosa va storto, ho amici su cui posso contare”.

Altri test hanno misurato la capacità di essere flessibili di fronte alle difficoltà della vita, e il livello complessivo di autostima dei partecipanti all’indagine.

I risultati indicano una correlazione positiva significativa tra il tempo per il gioco libero durante l’infanzia e il successo sociale nell’adulto. Aver goduto di sufficiente tempo libero nell’infanzia è anche correlato con alta autostima e flessibilità nell’adattare i propri obiettivi.

“Ovviamente il gioco infantile non è l’unico, né forse il più importante, predittore di successo sociale, ma la correlazione che abbiamo trovato in questo studio è sorprendentemente alta”, scrivono i ricercatori su Evolutionary Psychology.

Il gioco libero, sostengono, permette ai bambini di sviluppare la flessibilità necessaria per adattarsi al mutare delle circostanze ambientali, un’abilità che è molto utile quando la vita diventa imprevedibile, come nell’età adulta.

Insomma, la prossima volta che iscriviamo uno dei nostri figli a un attività extrascolastica, chiediamoci se un paio d’ore al giardino sotto casa non siano addirittura meglio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Giovane adulto. La terza nascita – Recensione

 

Alle volte -scrive Italo Calvino- uno si crede incompleto ed è soltanto giovane; il titolo di questo libro è un ossimoro: si accosta il termine “giovane” (una persona in evoluzione) al termine “adulto” (una condizione di completezza).

Si tende a pensare che la vita sia composta da un avvicendarsi di fasi evolutive; se, però, è possibile distinguere cambiamenti di tipo biologico che demarcano il passaggio dall’infanzia alla maturità di un individuo,  non si può affermare lo stesso rispetto all’età adulta.

Adulto deriva dal latino adultus, participio passato del verbo adolescere, ossia crescere; l’adulto sarebbe, quindi, l’essere umano che ha finito di crescere e che ha conseguito la piena maturità fisica, psichica e sessuale.

Per questa ragione l’età adulta è stata una condizione della vita trascurata dagli studiosi di psicologia evolutiva, proprio perché considerata una fase di approdo, caratterizzata da un’ideale stabilità, raggiunta nella misura in cui l’evoluzione dell’individuo si sia realizzata nel modo corretto.

La concezione evolutiva alla base di questo modo di concepire lo status di persona adulta è di natura stadiale: la vita umana viene suddivisa in fasi di sviluppo, ognuna delle quali si risolve nella successiva; l’andamento del processo è lineare e ogni tappa, alla quale ineriscono determinati compiti evolutivi, è qualitativamente superiore rispetto a quella precedente.

Partendo da questo punto di vista, la condizione di adulto si identifica con uno stato in cui hanno trovato attuazione le risorse e le potenzialità che caratterizzavano l’infanzia e l’adolescenza (adolescenza, ossia, etimologicamente, l’età della crescita); ciò spiega perché l’età adulta sia stata considerata non bisognosa di interventi: essa rappresenterebbe, infatti, il momento culminante dello sviluppo del soggetto.

Se proviamo, tuttavia, a declinare il concetto di persona adulta non in astratto, ma nelle manifestazioni concrete, ci accorgiamo che  non si presta ad una definizione univoca;  si tratta di una sorta di convenzione linguistica che starebbe ad indicare:

  • chi ha raggiunto la maggiore età;
  • chi è entrato nel mondo del lavoro;
  • chi ha generato;
  • chi mette in atto pratiche educative e di accudimento.

Cosa vuol dire, ai nostri giorni, essere contemporaneamente sia adulti che giovani? È la domanda a cui gli autori provano a dare una risposta, delineando il concetto di terza nascita:  il giovane adulto è chiamato ad una sfida evolutiva, distinta dai compiti evolutivi dell’adolescenza (la seconda nascita), costruendo la propria identità e il proprio ruolo nel mondo. Essere adulti significa generare un Sé sociale.

La fase evolutiva del giovane adulto -che racchiude la fascia d’età che va dai 20 ai 30/35 anni -rappresenta un momento molto delicato dello sviluppo individuale e riveste interesse per le contrapposizioni che la caratterizzano.

Un gran numero di giovani adulti staziona a lungo nel circuito formativo, affiancando all’istruzione universitaria percorsi di specializzazione che posticipano i tempi dell’inserimento lavorativo; è molto frequente, in questo quadro, che i soggetti, divisi tra il tentativo di assolvere ai compiti evolutivi da affrontare e le difficoltà oggettive poste dalla condizione sociale attuale e dal contesto affettivo e relazionale, vivano una situazione personale insoddisfacente.

Possono insorgere forme di malessere psicologico (disturbi psicosomatici, dipendenze, disturbi d’ansia e dell’umore, difficoltà relazionali, bassa stima di sé) che rappresentano le spie di un disagio interiore, riconducibile all’empasse esistenziale  in cui si vengono a trovare i giovani che non riescono a vivere con serenità i cambiamenti legati a questa transizione e ad esprimere appieno le proprie potenzialità di adulto.

Il lavoro terapeutico con i giovani adulti, di conseguenza, è mirato alla costruzione dell’identità, accompagnando la persona nel faticoso percorso che conduce al mettere al mondo se stessi. Si tratta di un processo impegnativo che può essere caratterizzato da conflitti, ad esempio, il conflitto che contrappone il bisogno di autonomia ed indipendenza al bisogno di appartenenza, unito al timore di lasciare il nucleo familiare d’origine.

Sapere chi si è e cosa si vuole dalla vita diventa ancora più difficile nel momento in cui ci si sottrae a dei modelli di adultità, quali quelli, ormai obsoleti, proposti dalle generazioni precedenti, senza averne di elaborati di propri. Dato che nessuna delle definizioni astratte di adulto si identifica con una rappresentazione esauriente di ciò che significa essere adulti, è necessario ridimensionare l’aspirazione ad una visione onnicomprensiva di questo concetto, per tentare, invece, di cogliere in che modo ogni l’individuo costruisce, giorno per giorno e nelle concrete situazioni postegli dal suo ambiente, il suo personale modo di intendere lo status di persona adulta.

In altre parole, bisogna cercare di aiutare il giovane a trovare il proprio posto nel mondo, realizzando le sue aspirazioni, grazie ad un equilibrio dinamico con l’ambiente e la realtà circostante.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Lancini, M. &  Madeddu F. (2014). Giovane adulto. La terza nascita. Milano: Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

Alabama Monroe e il cerchio spezzato dal lutto di un figlio

OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il titolo originale di questo film struggente, The Broken Circle Breakdown, pleonasticamente trasmette appieno la sensazione di rottura, e di non-ritorno sperimentata dai protagonisti, genitori che si trovano ad affrontare la morte della figlia a causa di un cancro.

All’inizio, è la storia d’amore di Elise, tatuatrice dallo spirito libero, e del suonatore di banjo Didier, che vivono una spensierata esistenza bucolica in un incontaminato paesaggio fiammingo. La nascita della figlia Maybelle porta loro un’insperata gioia ma, successivamente, un immenso dolore.

Il film, anche attraverso flashback concitati, attraversa i momenti cruciali delle loro esistenze (l’incontro, la nascita della figlia, l’insorgere della malattia, il tragico epilogo), e mostra come il magico cerchio amoroso, fatto di sguardi, carezze, sesso, ribalderie isteriche e duetti musicali, si spezza subito dopo la morte di Maybelle, quando l’elaborazione del lutto ingigantisce antagonismi e contrasti ideologici.

Da una parte Didier, ateo convinto, che prima del tragico evento si era dimostrato persona equilibrata e comprensiva, si lancia in feroce invettiva contro l’America. Dall’altra, la caparbia Elise attraversa prima un periodo di depressione, cercando conforto nella religione, poi di totale negazione, cercando di cancellare le esperienze vissute lasciando il compagno e cambiando nome (in Alabama Monroe, da cui il titolo del film), per finire annichilendo del tutto se stessa attraverso il suicidio.

Questo film affronta con sensibilità e coraggio le conseguenze del lutto sulla vita dei personaggi e della coppia. Il processo di elaborazione del lutto prevede una profonda ristrutturazione del mondo interno della persona, non essendo sufficiente un accomodamento alla situazione.

Tale processo è influenzato da fattori individuali, familiari, culturali, religiosi e sociali ed ha un evoluzione complessa e dinamica, che non necessariamente procede in maniera lineare.

La psichiatra Kübler-Ross (1976) ha individuato diverse fasi nell’elaborazione del lutto: ad una prima fase di torpore e/o stordimento, interrotta da attacchi di angoscia e collera di forte intensità, segue un periodo di struggimento durante il quale la persona avverte il bisogno di una ricerca dolorosa della persona scomparsa e manifesta una rabbia impotente che di solito proietta verso l’esterno (nel film, questa fase è ben esemplificata dalla lite rabbiosa in cui Elise attribuisce delle colpe a Didier per la morte della bambina). Questo tempo risulta funzionale alla successiva acquisizione di consapevolezza, che si manifesta nella fase della disperazione attraverso la comparsa di uno stato depressivo reattivo. La fase di riorganizzazione seguente comporta, invece, l’accettazione della nuova realtà con la collocazione affettiva della persona in un luogo interno, meno doloroso e più utile ad una riapertura dei contatti con il mondo esterno.

Anche se la maggior parte delle persone riesce a percorrere, seppure con tempi differenti, questo ciclo fisiologico di elaborazione individuale interna della perdita della persona cara, in alcuni casi il processo viene bloccato in fasi intermedie, instaurando quadri di lutto complicato.

La diversa reazione psicologica degli individui di fronte a tale evento traumatico dipende in buona parte da come la morte viene analizzata e interpretata. Le attuali linee di ricerca riguardo all’adattamento al lutto evidenziano come la morte di una persona cara pone delle sfide al sistema di credenze su sé stessi, sul mondo e sul futuro della persona che soffre per la morte di un caro (Currier et al., 2009) ed ai corrispondenti processi di ricostruzione di significati nel periodo che segue.

Davis e colleghi (1998) hanno verificato che i genitori che danno una spiegazione in base a convinzioni spirituali o laiche e che riescono ad individuare anche delle conseguenze positive legate alla perdita (es: “non soffre più”), manifestano un miglior adattamento all’assenza della persona. Barrera e colleghi (2009) evidenziano che tra i fattori associati alla capacità dei genitori di fronteggiare la morte e darsi una spiegazione c’è l’abilità di accettare la perdita fisica, di mantenere i rapporti sociali significativi, e di ridefinire il senso di sé.

Una particolare importanza assume in questo contesto il costrutto di resilienza, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà.

Rosenberg e colleghi (2013) propongono un modello integrato dei fattori di resilienza stabili e variabili tra i genitori di bambini col cancro, individuando 3 tipi di resilienza:

  • Resilienza di base, correlata ai tratti di personalità del soggetto e a caratteristiche specifiche della malattia (diagnosi, prognosi).
  • Resilienza in evoluzione che è invece un processo e si modifica in base all’evoluzione della malattia nel tempo e a come questa viene vissuta (include speranza, aspettative, abilità di coping).
  • Resilienza di esito, che comprende vari aspetti del funzionamento psicosociale dopo la malattia (ritorno al lavoro, mantenimento relazioni sociali e familiari).

Gli interventi di supporto psicologico devono quindi tenere conto della fase specifica della malattia ed agire sui fattori di resilienza associati: al momento della diagnosi, è consigliabile aiutare i genitori a riconoscere i rischi elevati della condizione; durante il trattamento, il supporto psicologico deve servire da legame e interprete nelle comunicazioni tra la famiglia e l’équipe medica, e dopo il lutto l’intervento deve essere mirato ad accompagnare la persona nella sua elaborazione, mitigando lo stress, aiutandola a individuare nuovi obiettivi (cura di sé, supporto da e per altre famiglie che attraversano le stesse difficoltà), e prevenendo i comportamenti a rischio che possono peggiorare la sua condizione psicofisica generale (es: eccessiva assunzione di alcol).

Leggendo l’elaborazione del lutto in questo film sulla scorta di questi modelli, si possono attribuire le reazioni dei genitori al lutto a questi elementi: durante la cura, sono state date buone speranze di recupero alla bambina (instaurando aspettative irrealistiche). Successivamente, il sistema di valori dei protagonisti non ha permesso loro di darsi una spiegazione e trovare un senso all’accaduto (ne è un bell’esempio la scena in cui Didier si rifiuta di confortare Maybelle per la morte di un uccello, non assecondando il suo desiderio di credere ad un aldilà), infine Elise non riesce in alcun modo a trovare in Didier un conforto e nella coppia nuovi obiettivi per il futuro.

 

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Ridurre la ruminazione grazie a training computerizzati

FLASH NEWS

 

Le persone che tendono a ruminare mettendo in moto un ciclo di pensieri negativi e ripetitivi potrebbero trarre beneficio da alcuni training computerizzati.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychological Science, mezz’ora di training focalizzato sulla regolazione di tali processi di pensiero porterebbe a una riduzione della ruminazione.

In particolare il training era finalizzato a favorire i processi attentivi di distrazione e a ridurre di conseguenza gli effetti associati a un elevato arousal emotivo negativo.
A seguito del training ai partecipanti è stato chiesto di narrare per iscritto un evento negativo che aveva suscitato in loro emozioni negative e di compilare un questionario self-report che misura i pensieri ruminativi nel momento presente.

I soggetti che avevano effettuato il training attentivo riportavano una minore quota di ruminazione; inoltre coloro che spontaneamente presentavano una maggiore tendenza alla ruminazione, come atteso, riportavano un aumento dell’umore deflesso ma non se avevano effettuato il training sul controllo cognitivo, come se il training, oltre a diminuire la tendenza a ruminare, impattasse anche sulla relazione tra tendenza a ruminazione e umore negativo.

Dunque questi esiti incoraggiano lo sviluppo di specifici programmi e protocolli facilmente accessibili che possono essere di ausilio alle terapie di persone con difficoltà emotive.

 

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Daniel Casasanto: l’origine delle metafore mentali

 

Daniel Casasanto - L'origine delle metafore mentali - Seminario a Trento - Giugno 2014
Daniel Casasanto Ph.D – Seminario: Experiential Origins of Mental Metaphors. Centro CIMeC di Trento a Giugno 2014

Come possiamo pensare alle cose che non possiamo vedere o toccare? Ovvero, come riusciamo a rappresentarci concetti non tangibili, a cui non possiamo direttamente accedere con i nostri sensi, come il tempo, le idee, l’intelligenza ecc.?

Daniel Casasanto, Assistant Professor e responsabile dell’Experience and Cognition Lab del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Chicago ha tenuto venerdì 6 giugno un seminario al Centro Interdipartimentale Mente e Cervello (CIMeC) dell’Università degli Studi di Trento in cui ha esposto le sue teorie in merito all’origine delle metafore linguistiche, in particolare spiegando l’utilizzo che ne facciamo per spiegare le caratteristiche di concetti astratti.

Casasanto inizia il suo intervento ponendo una domanda semplice ma intrigante: “Come possiamo pensare alle cose che non possiamo vedere o toccare?” ovvero, come riusciamo a rappresentarci concetti non tangibili, a cui non possiamo direttamente accedere con i nostri sensi, come il tempo, le idee, l’intelligenza ecc.?

Tale quesito ha interessato l’uomo fin dai tempi antichi. Platone sosteneva che la conoscenza di concetti come la giustizia o la bellezza fosse perfettamente insita in noi già prima della nascita e che, una volta venuti al mondo, avendola persa,  avremmo potuto recuperarla solo attraverso l’apprendimento.

In tempi più recenti differenti teorie si sono alternate, da quella di Alfred Wallace, che sosteneva che solo le capacità concrete e realmente utili fossero oggetto di selezione naturale, riservando per quelle intellettive un’origine spirituale, a quella di Charles Darwin e successivamente di Gould e Vrba, secondo i quali, anche funzioni non selezionate, tramite un processo di preadattamento (poi definito exaptation) hanno trovato utilizzi nuovi e alternativi, come ad esempio le piume degli animali preistorici utilizzate in origine come protezione dal freddo e poi per il volo.

Tale concetto di riutilizzo di vecchie strutture, secondo Casasanto, può essere applicato anche con le metafore mentali. Rappresentazioni tipiche della dimensione percettivo-motoria, che caratterizzano la nostra interazione con l’ambiente fisico, potrebbero essere state riciclate per formare metafore mentali che ci consentono di rappresentare concetti astratti. Ad esempio quando diciamo “Un lungo periodo di tempo”, oppure “Mi sento giù” utilizziamo una metafora mentale compiendo un’implicita associazione tra  un dominio sorgente appartenente alla dimensione spaziale concreta (lungo, giù) e un dominio target astratto (tempo, stato emotivo).

L’evidenza linguistica ci dice, perciò, che siamo abituati a pensare attraverso metafore. Ma qual è l’origine di tali metafore?

Casasanto espone la sua idea partendo da una teoria di riferimento che è stata considerata valida per anni, ovvero quella di Lakoff e Johnson, secondo i quali le metafore mentali avrebbero un origine incarnata (embodied origin), perciò sarebbero strettamente collegate con una componente corporea. Ad esempio l’espressione  “Sentirsi su” potrebbe originare da un elemento percettivo-motorio come la postura ben eretta (su) tipica di persone che esperiscono uno stato emotivo positivo, così come “sentirsi giù” deriverebbe dalla postura incurvata verso il basso (giù) che spesso caratterizza le persone che provano un senso di pesantezza e prostrazione.

Casasanto fa notare, tuttavia, che non tutte le espressioni metaforiche legate a concetti astratti nascono da un’esperienza corporea.
Ad esempio, utilizzando sempre il concetto spaziale di su e giù, alcune espressioni hanno origine da esperienze linguistiche (ad esempio le espressioni inglesi “Good is up”, “High on life”, “Down in the dumps”), altre nascono da contesti culturali (ad esempio il gesto romano con pollice alzato o verso che decideva della vita o della morte di un gladiatore). Casasanto afferma che altre associazioni (source-target mappings) sono invece innate.Nessuna di esse, però, però, possiede un’origine univoca e corretta in assoluto.

Per spiegare meglio tale posizione Casasanto porta tre esempi di metafore mentali che utilizzano le coordinate spaziali destra e sinistra in tre diversi ambiti e che gli studi dimostrerebbero avere origini diverse e distinte:

  • Politica – origine linguistica: in differenti paesi ci si riferisce alle diverse posizioni politiche con l’etichetta di destra per intendere quelle conservatrici e sinistra quelle democratiche. Tale abitudine ha origine dall’Assemblea Leg. Francese del 1971 e arriva fino ai giorni nostri, e sarebbe legata, più che a convenzioni di tipo culturale, a esperienze linguistiche acquisite.
  • Tempo – origine culturale: le persone madrelingua inglese solitamente parlano della dimensione temporale utilizzando le espressioni avanti per il futuro e indietro per il passato. Tuttavia alcuni esperimenti hanno mostrato come i gesti spontanei di persone che raccontano un aneddoto caratterizzato da una dimensione temporale, utilizzano l’arto sinistro quando parlano di eventi occorsi prima e il destro per quelli occorsi successivamente. Nella nostra mente, perciò, sembrerebbe esserci una concezione di tempo che trascorre e fluisce lateralmente, nonostante il linguaggio metaforico sia legato a una dimensione verticale. Secondo Casasanto tale caratteristica sarebbe determinata dal contesto culturale, in particolare, per i popoli occidentali, dall’apprendimento della letture e dal sistema calendaristico caratterizzato dal una lateralità da sinistra a destra, e viceversa per le persone di cultura araba. Gli studi hanno infatti dimostrato che soggetti, abituati alla lettura sinistra-destra, dopo un training di lettura inversa tramite specchio, subivano uno switch anche in esercizi in cui dovevano caratterizzare lateralmente il tempo.
  • Valenza – origine corporea: secondo le abitudini culturali e religiose della maggior parte dei paesi la destra è associata con il bene e la sinistra con il male. Secondo Casasanto, tuttavia, tale associazione non avrebbe una base culturale, come saremmo portati a pensare, ma un’origine corporeo-motoria (body specific), legata alla preferenza laterale. Infatti se seguissimo un’interpretazione di tipo linguistico-culturale il bene sarebbe associato alla destra sia per i mancini che per i destrimani. Tuttavia alcuni esperimenti mostrano come le persone assegnino una valenza positiva a parole od oggetti anche a seconda della loro posizione nello spazio rispetto al proprio corpo e alla dominanza emisferica, ovvero i destrimani tenderebbero a etichettare come “buoni” elementi alla loro destra, mentre i mancini, viceversa, quelli alla propria sinistra. Ecco perché Casasanto suggerisce, durante una riunione o un colloquio, di posizionarci sempre in modo da essere nel campo visivo destro del nostro capo… a meno che non sia mancino!

Daniel Casasanto - L'origine delle metafore mentali - Seminario a Trento - Giugno 2014 BIn conclusione Casasanto afferma che pensare attraverso metafore è una capacità che abbiamo acquisito grazie all’evoluzione, cooptando vecchie espressioni legate al concreto, adattandole a concetti astratti.

 

Non abbiamo ancora ben chiara l’origine di tutte le espressioni metaforiche, tuttavia possiamo ritenere superata la teoria embodied origin, dal momento che alcune metafore mentali hanno una origine  determinata sperimentalmente in maniera non ambigua, che le legano ad esperienze di ambito diverso: linguistiche, culturali o corporee.

 

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Casasanto, D. (2013). Experiential Origins of Mental Metaphors: Language, Culture, and the Body. In The Power of Metaphor: Examining Its Influence on Social Life. M. Landau, M.D. Robinson, & B. Meier (Eds.). Washington, DC: American Psychological Association Books. DOWNLOAD

I papà vengono da marte e le mamme da venere – Recensione

 

 

In questo libro, piacevole e scorrevole, gli autori (una mamma ed un papà esperti del settore) analizzano dettagliatamente le sfide principali che i genitori devono affrontare durante i primi tre anni di vita di un bambino, confrontando il punto di vista delle mamme con quello dei papà.

Ormai si sa, gli uomini e le donne vengono da due pianeti diversi! Come sottolineano gli autori le donne detestano il conflitto, è un retaggio dell’evoluzione: se si litiga si muore. Fino a non molto tempo fa la femmina che litigava con il maschio era destinata a morire con i propri figli al seguito. Per questo le donne presentano una maggiore propensione alla tolleranza. Al tempo stesso pare che gli uomini cerchino di evitare le emozioni forti, siano meno viscerali e più razionali. Anche l’elaborazione dell’ira è differente: l’uomo in genere è più impulsivo e aggressivo mentre la donna quando si arrabbia sente più spesso il bisogno di parlarne con qualcuno e sfogarsi.

Al di là dei retaggi culturali, sono proprio gli ormoni e la struttura genetica a condizionare in modo differente il cervello maschile e femminile. Come possono due generi così diversi non avere punti di divergenza anche in tema di genitorialità? Impossibile! Le differenze ci sono, eccome se ci sono!

Il libro in questione parte con l’analizzare la differente reazione che un uomo e una donna hanno già di fronte alla scoperta di aspettare un bambino, cercando di spiegarne i motivi. Per le donne un test positivo è un evento sociale da condividere e comunicare a tutto il mondo, nei secondi produce una reazione più privata, uno tsunami che può perfino destabilizzare e mettere in crisi la sicurezza di sé. Per non parlare delle differenze legate ai vissuti personali durante i nove mesi di attesa. Diventare madre è un processo che rivoluziona il cervello femminile, la gravidanza avvia una trasformazione profonda e risveglia l’istinto materno che tutte hanno iscritto nei propri geni, anche chi all’apparenza è dedita ad altri progetti di vita. Per quanto riguarda gli uomini, gli studi biomedici sembrano dimostrare che, in genere, i papà in attesa sono più irritabili nel corso del primo trimestre e molto più distaccati e freddi delle compagne circa l’evento della nascita. Il libro procede nell’affrontare la tematica del parto e il rientro a casa con il pupo.

Il parto è un passaggio cruciale per una donna, che si scopre capace di generare un bambino. Il primo contatto con il neonato acuisce tutti i sensi della madre, che nonostante la fatica, si sente piena di energia per prendersi cura del piccolo. L’attaccamento al pargolo si sviluppa rapidamente, grazie anche alla prossimità fisica e all’allattamento. La prima e più grande questione che gli uomini devono affrontare quando si avvicina il momento fatidico è la decisione di entrare o meno in sala parto. Entrare dà la possibilità di essere lì con la propria compagna e di vivere in diretta un evento che trasforma l’esistenza; al tempo stesso significa dover assistere a tutto, ma proprio a tutto quello che avviene al di là della porta. Forse gli uomini dovrebbero sapere che gli eventi importanti della vita sono necessariamente intensi e coinvolgenti sul piano emotivo e che, mentre le emozioni li assalgono, possono permettersi di sentirle, assecondarle, comunicarle e condividerle.

Procedendo nella lettura del libro gli autori affrontano il tema del nutrimento del piccolo e nello specifico dell’allattamento. Poter nutrire il bambino tramite il proprio latte è un’esperienza molto piacevole, sia per la madre, sia per il piccolo. Il contatto fisico prolungato rinforza il legame e stimola la produzione di ormoni che appagano i bisogni affettivi della madre. Di conseguenza, si può non sentire la voglia di fare l’amore con il partner. Per gli uomini non è una buona notizia ma conoscere il motivo del calo di desiderio della compagna può aiutarli a comprenderla e a vivere con maggiore serenità la fase. La questione cibo generalmente genera ansia nelle donne, gli uomini di solito ne sono molto meno preoccupati. Perciò spesso vivono con insofferenza l’apprensione delle compagne.

Il pargolo intanto cresce e arriva il momento della fatidica frase “Da stasera dormirai nel tuo lettino”. Spesso sono le mamme che desiderano tenere il neonato nel lettone poiché è piacevole. In realtà, la pratica del cosleeping (ovvero, dormire tutti nello stesso letto) se protratta oltre i primi mesi di vita può diventare un fattore di rischio per lo sviluppo psicologico del piccolo. Imparare a dormire in un proprio spazio, consente al bambino di sentirsi capace non solo di fusione e simbiosi con la mamma, ma anche di autonomia. Padri, aprite le orecchie! Siete voi i prescelti per fare addormentare il bambino. Quest’ultimo, infatti, non sentendo l’odore del latte, intuisce che può fare tutto, tranne che nutrirsi; i papà pare anche che siano più abili delle mamme a mantenere la calma davanti ai capricci. Inoltre, se un papà è coinvolto e disponibile nella relazione con il proprio bambino/a, egli apprenderà da lui l’abilità di diventare un ottimo esploratore della vita.

In tutte le culture del mondo, solitamente sono i padri a introdurre i pargoli alla dimensione dell’avventura. Sono loro a farli volare in alto e poi riprenderli (con lo sguardo spaventato della mamma che teme sia un gioco pericoloso). I papà forniscono le ali, la voglia di esplorare e di osare. Le mamme regalano un legame con le radici e un senso di protezione. Però per fare crescere un figlio sano e sicuro bisogna anche insegnargli a tollerare la sofferenza, renderlo consapevole che nella vita non siamo onnipotenti e per stare al mondo dobbiamo anche adattarci alle aspettative che gli altri ripongono in noi.

Come fare a trasmettere tutto ciò? Regole, come specificano gli autori, gran parte del mestiere di un genitore nell’età evolutiva ruota attorno a queste sei lettere. Fissare alcune regole, concordate da mamma e papà insieme, consente al figlio di sviluppare un sistema di valori e capire che il mondo è prevedibile e che mamma e papà la vedono allo stesso modo. Quando, invece le visioni dei genitori cozzano in un modo molto evidente, la coppia rischia di trasformare il percorso di crescita in un’occasione reiterata di scontri e litigi. Ebbene, che fare quando i punti di vista dei genitori sono così differenti? La soluzione migliore in questi casi è rivolgersi ad uno specialista, che aiuti a costruire un fronte comune e a trasformare le sfide educative in opportunità per cooperare, anziché in causa di conflitti cronici.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Pellai, A., Tamborini, B. (2014). I papà vengono da Marte, le mamme da Venere. De Agostini Editore, Novara.  ACQUISTA ONLINE
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